Grice e Jaja: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di
Conversano -- filosofia pugliese – scuola di Bari -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Conversano).
Filosofo italiano. Conversano, Bari, Puglia. Grice: “I
like Jaja – of course you cannot understand Jaja unless you understand
Fiorentino, Croce, Spaventa and Gentile! The quintessential Italian
philosopher!” – Grice: “Jaja is a sensualist, like me.” –Grice: “My favourit
essential Italian philosopher. Figlio di Florenzo Jaja, a cui è dedicato
l'Ospedale Civile di Conversano. Si trasfere a Napoli, dove studia sotto la
guida di FIORENTINO. Si sposta a Bologna, dove si laurea per seguire il suo
maestro. Il suo incontro filosofico
principale e con SPAVENTA. Col trasferimento di J. a Napoli i rapporti con
Spaventa divennero regolari. Insegna a Pisa. J. non è stato mai considerato un
filosofo particolarmente originale, ma ha avuto il merito storico d'introdurre
GENTILE allo studio di Spaventa – “although he was possibly more than Hardie
was to me!” – H. P. Grice -- merito che l'allievo riconosce sempre. Altri saggi:
“Origine storica ed esposizione della critica della RAGION PURA”; “Studio
critico sulle CATEGORIE e forme dell'essere”; “Dell'A PRIORI nella formazione
dell'anima e della coscienza,”; “ L'unità SINTETICA e l'esigenza positivista,”;
“Sentire e pensare,”; “Identita e Semiglianza ed identità”’[cf. Grice: “Cfr. My
theory of identity-relative, as a critique to Wiggins” -- “ Sentire, pensare, conoscere,”
“ L'intuito nella coscienza.”; Preti, J., filosofo europeo oltre Gentile, su ricerca. repubblica,.
treccani. J.: neoidealismo italiano, su orthotes.com. J. Gentile, Memoria, su sba.unipi, Spaventa
Gentile Idealismo, J. Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. open, Horizons Unlimited srl. Gentile,
Memoria su J., su sba.unipi. J.. Grice on “Sentire” e Pensare. Rupert
Brooke: “I love Grice: “I feel,’ never ‘I think’!” – “If a is a, is a LIKE a” –
a knife is not like a knife, but something that is not a knife can be like a knife.” Implicature!” Comincia gli studi al seminario in vista di una
futura carriera ecclesiastica, ma dopo l'unificazione, si trasfere a Napoli,
dove studia sotto la guida del filosofo neo-kantiano FIORENTINO (si veda) e a Bologna, per seguire
il maestro, con il quale si laurea. Dopo la laurea insegna a Caltanissetta e Chieti.
Tornato a Bologna vi conobbe e frequenta MEIS (si veda) e per suo tramite SPAVENTA
(si veda) che, oltre a influenzare lo stesso Fiorentino, divenne in seguito una
figura chiave per la formazione intellettuale di J. Con Spaventa i rapporti
dello J. divennero regolari quando egli si trasferì a Napoli per insegnare. Consegue
la libera docenza e ottenne la cattedra
di filosofia teoretica a Pisa. Tra i suoi allievi ha Gentile, che gli successe
poi sulla cattedra, e Radice. Nella dissertazione di laurea, data alle
stampe a Bologna con il titolo Origine storica ed esposizione della Critica
della ragion pura di Kant, colloca Kant all'origine di una scena della
filosofia che raccoglie le due tradizioni precedenti lungo le quali egli
articola la storia della filosofia successiva a Cartesio. Da una parte il
filone filosofico che si pone il problema dell'infinito, dell'universalità e
della necessità -- Malebranche, Spinoza, Leibniz. Dall'altra la tradizione
francese, ma soprattutto inglese, sensistica ed empiristica -- Locke e Hume. Kant pone il problema, ritenuto centrale da J.,
del debito che il giudizio ha nei confronti sia dell'esperienza, sia
dell'universale. Tuttavia J. ritiene che Kant non da una soluzione adeguata e
definitiva ed è anzi incline a sostenere che la soluzione vada trovata nei
continuatori dell'opera kantiana. Emerge già qui chiaramente la tendenza a
leggere la tradizione idealistica alla luce degli interrogativi kantiani, in una
prospettiva che egli deriva da FIORENTINO. Secondo J., Kant pone il problema
della conciliazione di questi due elementi, di senso e intelletto, ma non lo
risolve. La manchevolezza è nell'intima natura del sistema kantiano. In questo,
lo spirito è dualità, scissura, intuizione e concetto, recettività e
spontaneità, entrambi irriducibili, mentre la soluzione consiste nel mettere in
luce l'unità, nel mostrare come l'universale kantiano sia non esclusivamente
soggettivo ma OGGETIVO e pertanto corrisponda alla realtà. – cf. H. P. Grice,
the justification of objective value, The Carus Lectures, Oxford. Compare qui
un interesse di J. per il modo in cui
l'intelletto proviene dal senso -- cfr. Plebe, in Guzzo – Plebe -- che mostra
anche una sensibilità più vasta verso il regno della natura e le scienze
empiriche e che in seguito lo porta a confrontarsi con il positivismo e
l'evoluzionismo. Pesano in questo probabilmente sia gl’interessi positivistici
di Fiorentino, cui egli dedica questo saggio, sia l'ambiente intellettuale
bolognese, in cui spiccavano figure quali quella di MEIS (si veda). Ha modo
di sviluppare e precisare tali temi in uno Studio critico sulle categorie e
forme dell'essere di Serbati. Qui critica Serbati della teosofia in quanto non
dà spazio né illustra la centralità della mente nel suo rapporto con l'essere,
mentre questo va visto alla luce dell'essere pensato dalla mente: È necessario
studiare la mente nella serie non interrotta dei suoi fenomeni, attraverso cui
passa nel formarsi. Kant ha colto questo punto in quanto ha mostrato che prima
di poter parlare dell'essere si deve indagare la natura della mente, e tuttavia
finisce con il postulare una irriducibile alterità della cosa in se rispetto
alla mente. Dopo Kant, Fichte, e quindi Hegel,
invece completano il necessario passo in avanti mostrando come ciò che è
fuori della mente o psiche è il risultato o effeto di ciò che la mente e il
pensiero hanno rivelato. Gentile ha modo di considerare a questo
proposito che la lettura che il proprio maestro da di Hegel e personale e forse
inadeguata sul piano interpretativo. E uno Hegel mediato in primo luogo da SPAVENTA,
che ne sottolinea l'aspetto soggettivistico, e che J. legge in modo ancora più
immanentistico facendo equivalere l'essere con il pensiero o la psichi umana. Temi
e ispirazioni filosofiche, in cui si mescolavano influssi hegeliani, fichtiani,
e interessi verso le scienze e la dimensione empirica del pensiero - spinsero
J. a occuparsi del positivismo e in particolare di Spencer. In “Dell'A PRIORI
nella formazione dell'anima e della coscienza” (Napoli) -- ma si veda anche “La
somiglianza nella scuola positivista e l'identità nella metafisica nuova” -- J.
nell'esaminare e nel correggere
Fiorentino si occupa dei tre momenti della conoscenza: sensazione,
rappresentazione e concetto. Nel discutere della sensazione ha già modo di
articolare una posizione cui dette poi compiutezza in Sentire e pensare. La
sensazione non è solo lo stimolo – alla STEVENSON (H. P. GRICE) -- che proviene
dall'esterno ma è anche modificazione. E interna all'ATTO INTROSPETTIVO del
sentire e alla sfera spirituale. In questo, da una parte valorizza l'importanza
dello studio scientifico dei modi in cui la conoscenza sorge e ha luogo. Dall'altra
mette in luce l'inadeguatezza di un punto di vista esclusivamente empirico o
ESTERNALISTA, o ESTROPETTIVO, POSITIVISTA, ESTERIORE. Tornato su questi temi in
“L'unità SINTETICA kantiana e l'esigenza positivista” si propose di conciliare
l'esigenza positivistica, che nega elementi a priori e che è invece interessata
a ricostruire geneticamente il formarsi dei fenomeni, e l'esigenza kantiana,
che vuole mantenere valido il punto di vista universale. Opera tale
conciliazione ritenendo che il passaggio dalla sensazione sino alle forme più
evolute di coscienza sia solo un passaggio di grado, mai categorico. Si
appropria dell'idea di sviluppo e di ricostruzione genetica e la colloca
nell'immagine idealistica di un essere che dà forma a se stesso a partire dai
gradi più semplici e primitivi sino alle forme più sofisticate. La
trattazione di questi temi prelude al “Sentire e pensare”. È mio fermo convincimento che il problema
speculativo, in tutta la sua ampiezza, resta un labirinto senza uscita finché
non solo non e studiato sul terreno indicatogli dalla filosofia in genere e
dalla critica kantiana in particolare, cioè su quello della conoscenza, e per
esso della COSCIENZA – cf. Grice, “Personal identity,” “Intention and
Disposition” – Stout vs. Prichard -- coscienza, ma più ancora finché nello
studiare la coscienza non avremo preso le mosse da quel giusto punto, dove il
senso finisce e la coscienza incomincia. O, dove il senso non è più solamente
senso, e già la coscienza comincia a mandare sul tronco di esso i suoi primi
germogli. – cfr. Grice on Empiricism as a bete noire --. J. è interessato
a individuare il momento in cui la sensazione e la coscienza si sovrappongono.
Da una parte è desideroso di fare propria la lezione dei positivisti e degl’evoluzionisti,
fino a spingersi ad affermare che il principio assunto oggi a base delle
scienze naturali, l'evoluzione è vero e fecondo, un'affermazione non priva di
interesse in un autore che esercita il suo influsso nella formazione di una
filosofia idealistica italiana lontana e refrattaria alla scienza e in
particolare all'evoluzionismo. Dall'altra vuole rivendicare la presenza nella
sensazione degl’elementi embrionali della coscienza e cioè l'universalità
propria della mente concepita kantianamente. Questo tentativo di conciliazione
di due esigenze opposte non è di per sé indicativo di un fallimento di
un'autentica comprensione di tali esigenze. In altri termini, è interessato a
conciliare una comprensione scientifica mecanicista della natura, che prescinde
da una descrizione in termini INTENZIONALI, e che l'evoluzionismo ha esteso
anche agl’organismi viventi sino all'essere umano, con una sua comprensione in
termini concettuali. Ma, usando l'evoluzionismo come immagine filosofica
anziché come prospettiva di studio alternativa a quella filosofica idealistica,
chiude quasi subito la sfida tra queste due comprensioni. Perciò parla in
termini evolutivi del passaggio dalla sensazione alla coscienza per significare
che non vi sono passaggi categorici ma solo di grado. La sensazione è foriera
della coscienza e n'è la immediata preparazione. Dall'una all'altra è passaggio
-- non salto. Gl’elementi tutti della coscienza sono elementi della sensazione.
La vita della coscienza è due cose. E la continuazione della vita del senso, e
per esso della natura tutta, e n'è il compimento insieme. L'immagine evolutiva
è impiegata per significare questo passaggio dalle diverse forme della vita,
che intende come una forza che si
dispiega. Il fatto adunque, di cui prendiamo nota, è che, nel sentire – cfr.
Grice in Schwarz, SENSING PERCEIVING -- si raccoglie tutto il mondo naturale
sottostante, e che questo mondo naturale è qualche cosa di vivo, viva essendo e
perenne e senza limiti la produzione degl'individui diversi, che si succedono e
s'incalzano in tutti i diversi ordini della natura. Questo mondo naturale che
si raccoglie nel sentire è la forza. Ed è forza il sentire. Quando la forza
sottostante, compiute tutte le condizioni, sale al grado di sentire, produce
ancora. E non intendiamo dei soli individui che compongono il grande regno
animale. Il sentire è per sé solo forza, perché per esso gl'individui senzienti,
forniti delle capacità, della forza di sentire, non vivono soltanto,
assimilandosi e trasformando gl’elementi del mondo inorganico, ma il mondo pre-esistente
della vita trasformano in una superiore esistenza, nell'esistenza RAPPRESENTATIVA
– cfr. Grice on Aristotle on life and soul --. Nella rappresentazione, la forza
naturale incomincia a ritrovare se stessa, iniziando quel movimento di ritorno
sopra di sé – META-REPRESENTAZIONE – reflessiva -- nel cui compimento è il suo
possesso, e la sua integrazione. Puo già leggere in Spencer una concezione
dell'evoluzione come un processo diretto a un fine, un'idea lamarckiana lontana
dall'evoluzionismo di Darwin, di cui Spencer non si libera mai. Ma egli chiude
subito le possibili tensioni interne a questo paradigma e usa l'immagine
evolutiva come un motore esplicativo di tipo hegeliano, spingendosi sino a
invocare il superamento del principio di non contraddizione per spiegare il
modo in cui la sensazione si evolve verso la coscienza. Non resta dunque, che
sieno e non sieno identiche, che sieno in parte identiche, in parte diverse. I
fautori della inviolabilità del vecchio principio di contraddizione, così come era
e poteva esser dato nella logica formale potranno trovare dura questa
conclusione. L'evoluzione è immagine della forza che dal regno della natura
ritrova se stessa, cioè si rende consapevole nel mondo dello spirito. In questo
senso, J. può essere ascritto alla schiera di quanti hanno usato
l'evoluzionismo per produrre una loro filosofia della storia. Una
conclusione, questa, che trova conforto in uno scritto successivo di J., L'intuito nella coscienza.. È qui
affrontata la questione se l'intuito ha una parte nella ricerca scientifica. J.
risponde affermativamente, sostenendo che tuttavia esso è posto in primo piano
solo quando il pensiero indagatore sente il bisogno di ricorrere alla
conoscenza in se medesima, e scrutarne il valore, e cioè quando vi è
perplessità sull'evidenza del proprio oggetto di studio. Nel mostrare come la
conoscenza non sia solo accumulo e accostamento di fatti, J. afferma, di nuovo contro i positivisti, che
i fatti e la storia, se sono la realtà, non sono tutta la realtà. La realtà
storica, oltre ad essere quella che è, e che ognun vede, è anche in miglior
modo nell'universale e per l'universale. I fatti e la storia sono testimoni
cioè di un universale che li raccoglie e dà loro un senso. Nel successivo
Ricerca speculativa. Teoria del conoscere (Pisa), insiste sul concetto del
pensiero che ritrova sempre se stesso e non ha niente di anteriore. Egli
ritiene che la filosofia sia l'unica disciplina che non ha un oggetto specifico
di studio che non sia l'esigenza stessa di conoscenza. Si tratta di salire
nelle alte regioni dell'intendimento puro, di usare del conoscere per costruire
l'atto, il puro ed universalissimo atto, del conoscere. Se alcuni interpreti
hanno ritenuto che in quest'opera
traesse le conseguenze del suo lavoro precedente e in particolare di
Sentire e pensare (Plebe, in Guzzo – Plebe), Gentile invece vi ha voluto
scorgere la trasformazione dell'idealismo assoluto in spiritualismo assoluto,
una posizione che preludeva agli sviluppi che egli stesso avrebbe dato
all'idealismo italiano. Come nota, a tal proposito, J. qui non muove più dal
senso e dal bisogno di trascendere il senso quale è DATO dalla coscienza, per
spiegare la coscienza sensibile, senza incorrere nello scetticismo. Si mette
innanzi l'atto del conoscere, prescindendo da ogni rapporto di esso con la
verità, per trattare lo stesso del puro conoscere come principio unico ed
assoluto di tutto, presupposto com'è da qualunque altro possibile pensiero. Oltre
agli saggi menzionati, si segnalano ancora, fra gli altri: Un po' di polemica
nella quale principalmente si discorre dell'articolo 73 dello statuto in
rapporto a' poteri supremi dello Stato, Bologna; Saggi filosofici, Napoli -- raccoglie scritti già pubblicati e
l'inedito La virtù e i suoi elementi costitutivi -- la prefazione alla raccolta
di Scritti filosofici di Spaventa, cur. Gentile, Napoli; Enigma della
coscienza, in Rivista filosofica; L'insegnamento filosofico universitario ed il
regolamento nuovo, Pisa. Membro della Società reale di Napoli e cavaliere
dell'Ordine della Corona d'Italia. Fonti e Bibl.: Necr. in Il Messaggero
toscano, (C. Sgroi); Corriere
toscano, (Tarantino); Gentile, Lettera a
J., in Gentile. La vita e il pensiero, a cur. della Fondazione Gentile per gli
studi filosofici, lettera di Gentile
laureato al maestro; Battaglia, Lettere di Meis a J., in Memorie dell'Accademia
di scienze dell'Istituto di Bologna, cl. di scienze morali; Gentile, J.,
Carteggio, a cura di Sandirocco, Firenze; Miccolis, Lettere inedite di J.,
Firenze s.d.; Gentile, J., Pisa, Le origini della filosofia contemporanea in
Italia, Messina Alliney, I pensatori
della seconda metà del sec. XIX, Milano ad ind.; Croce, Conversazioni critiche,
Bari; Guzzo - Plebe, Gli hegeliani d'Italia, Torino; Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica
in Italia, Padova; Vacca, Recenti studi sull'hegelismo napoletano, in Studi
storici, Cristallini, Il pensiero filosofico di J., Padova
(con bibliogr. degli scritti dello e sullo J.); Carcuro, Polemiche
filosofiche antirosminiane: Mamiani e J., Aversa; A. De Gubernatis, Diz. biogr.
degli scrittori contemporanei, Firenze, s.v.; Enc. Italiana, XVIII, s.v.; Enc.
filosofica, IV, s.v.; F. Abba Luzzato, Diz. generale degli autori italiani
contemporanei, I, sub voce. Grice: “Jaja is especially important for the fact that he tutored
Gentile. He wrote on the ‘supreme powers of the state’, since he was a Hegelian
at heart, as a collection published in Italia thus calls him – “Gli hegeliani
d’Italia: Tocco, Jaja, Gentile. While he studied Kantism in depth, he finds
that the Hegelian absolute, the State, as compromise between ‘gl’individui, as
Jaja calls them, is the maximum!” Donato Jaia. Donato Jaja. Jaja. Keywords:
implicatura, I potere supremo dello stato, la virtu. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Jaja” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Jerocades: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della filosofia della
massoneria – la scuola di Parghelia -- filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Parghelia). Filosofo
italiano. Parghelia, Fitili, Vibo Valentia, Calabria. Grice: “I would consider
Jerocades more of a poet than a philosopher, but then he was a priest and a
Mason!” Essential
Italian philosopher. Scrisse il saggio “Dell'umano sapere”, di stampo
illuministico, che verrà successivamente pubblicato a Napoli, e “La partenza
delle Muse”, edito na Messina. Si trasferì
a Napoli. Dietro raccomandazione di Genovesi, col quale era entrato in
corrispondenza, venne assunto al "Collegio Tuziano" di Sora come maestro
d' “ideologia”. Frequenta gli ambienti massonici. Secondo il clero sorano,
tuttavia, quelle opere non si attagliavano ai giovani del collegio, tant'è che
prima della rappresentazione di “Il ritorno di Ulisse” -- che conteneva alcuni intermezzi
ridicoli e di stampo anticlericale, in particolare il Pulcinella da Quacquero,
il vescovo emise un editto di censura: ne seguì un processo per eresia e sedizione,
con la reclusione di Jerocades nel carcere vescovile. Scarcerato dopo sette
mesi, lasciò Sora per tornare a Napoli, dove divenne popolare come poeta improvvisatore.
E in Calabria: qui si dedica alla composizione delle raccolte Quaresimale
poetico e La lira focense, testimonianza di un «illuminismo massonico». Insegna
a Napoli. Fonda la Società Patriottica Napoletana, coagulo dei principali
esponenti del giacobinismo e dell'antigiurisdizionalismo partenopeo, ovvero che
miravano a costituire una repubblica, cosa che determinò la sua incarcerazione
a Castel dell'Ovo e il processo per apostasia, ma riebbe presto la libertà,
avendo deciso di ritrattare. Anche per il conflitto interiore causato da una
siffatta scelta, sostenne attivamente le idee rivoluzionarie, che però, in
seguito alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, gli costarono
nuovamente il carcere, e quindi l'esilio a Marsiglia. Ritornato a Napoli razie
all'amnistia prevista dalla pace di Firenze compose l'elogio di suo padre e di
suo fratello, motivo che indusse a farlo rinchiudere nel convento dei Liguorini
di Tropea. Saggi: “Esercizii spirituali in compendio ossia il filosofo in
solitudine” Napoli); “Il Paolo, o sia l'umanità liberata poema” (Napoli: presso
Porcelli, Inni di Orfeo esposti in versi volgari, Napoli, La gigantomachia,
ovvero La disfatta de' giganti, Napoli: La lira focense, Napoli: si vende da
Gennaro Fonzo, strada Forcella, Olinto e Sofronia, dedic. Orazione per
l'apertura della Scuola di Economia e Commercio, Napoli, Orazione recitata ne'
funerali solenni di Marcello Accorinti morto in Messina nel terremoto. Napoli, Fedro,
“Esopo alla moda, ovvero delle favole di Fedro, Parafrasi Italiana” (Napoli:
Porsile, Orazio); “Le odi di Orazi esposte in versi volgari” (Napoli); “Le odi
di Pindaro tradotte ed esposte in versi volgari” (Napoli: Russo); Biografia
degli uomini illustri del regno di Napoli, D. Martuscelli, Gervasi, Napoli B.
Croce, La rivoluzione napoletana Biografie, storie, racconti, Laterza, Bari L. Alonzi, Il giacobinismo napoletano, in
Idem, Il Vescovo-prefetto. La diocesi di Sora nel periodo napoleonico, Sora, A.
Piromalli, Illuminismo massonico, La letteratura calabrese, I, Pellegrino editore, Cosenza, B. Croce, D.
Ambrasi, Il clero a Napoli tra rivoluzione e reazione, in Cestaro Lerra, Il
Mezzogiorno e la Basilicata fra l'età giacobina e il Decennio francese, Atti
del Convegno, Maratea, I, Venosa, Croce, La rivoluzione napoletana, Biografie,
Racconti, Ricerche, Bari, Laterza, Saggio dell'umano sapere, D. Scafoglio, Vibo
Valentia, Sistema Bibliotecario Vibonese, J., La lira focenseː un abate poeta
in loggia, Piromalli e Bravetti, Foggia, Bastogi. Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 1. T) Indaro, figliuolo di Diifanto,e di Mirto,
J» nacque in Tebe, città capitale della Beozia. Mono il padre, eh’ era sonator
di tibie, la ma- dre, eh’ era ancor sonatrice sposò Scopelino, e, quindi, dopo
la morte di lui, sposò Pagonida, ambi professori di musica. Di qui è,ché al
nostro Poeta si danno tre padri, de' quali due nel vero sono patrigni . Or
questa sua sorte fece la sua virtù; imperciocché nacque, visse, e morì tra le
Muse, le quali a quel t&mpo erano e ricche, e nobili,ed onorate. I suoi
primi studj fu- rono la musica, e la poesia, che apprese da Laso Ermìoneo, e
che peifezionò sotto Simonide, ed Eschilo i quali' fiorivano in quella età.
Indi,, dato l'animo allo studio delle scienze, seguì la, tutta la sua v»ta al
modello della pietà . Tra gii altri numi venerava spezialmente Pane, Rea, e
Febo e siccome la sua casetta era vicina al tempio ;, propagata per la Beozia,
e non la scuola Italica J mica ; onde fu scolare di Pittagora, e non di Talete.
La sua dottrina dunque divenne sacra, e tnis ica in modo, che pieno di queste
idee, formò di Rea, egli era o uno de' sacerdoti, o almeno il compagno e il
partecipe de' sacri misteri., a. La sua dotta e saggia pietà e l’ornamento, e'1
retaggio della sua industre e faticosa famiglia. Imperciocché, ricevuti da
Timossena, sua consorte, un maschio, chiamato Diofanto', e due fem- mine, per
nome Protomache, e Polimeri trasfu-, se col sangue la sua virtù per modo ne’
figli che gli mandava il giorno e la notte al tempio dej padre, e della madre
de’ numi. La sua casetr A9 me • #-, §a medesima era un tempietto dtvoto, in cui
con vi- cenda soave si passava dai coro alla mensa, e dalla cetra atta tazza,
cioè dal travaglio al riposo, e dal - ripeso al travaglio. Non senza ragione
gli Spartani prima, e qnndi i Macedoni, liberarono dall'in- cendio comune
l'albergo di lui riguardato qual,, saero asilo delle Muse, e di Febo . Di fatti
la faina di Pindaro era sparsa per tutta la Grecia, e al di là della Europa;
già che Serse nella sua famosa spedizione n' ebbe ancor del rispetto, come
dipoi n’ ebbe Alessandro gloria del re della Persia 3. Or qual si fu la vita
civile di Pindaro? Applicato alla poesia, e alla musica, non cantava, che numi,
ed eroi . L'antichità vide e lodò i suoi carmi, Inni, Ditirambi, Treni, Peani,
ed altri Lirici,e Melici componimenti, rapportati da Sm- ela, che non vinsero
la forza vorace dell' igno- ranza, dell'invidia, e del tempo, e de' quali so-
lo si mostrano alcuni frammenti, da Stefano va- riamente, e con diligenza
raccolti, Restano dunque eli lui quattro libri de’ Vincitori Olitnpj, Pizj, Ne-
mei, ed istmici, de' quali Aristofane . grammatico di gran nome, ne fece una
raccolta, ordinata a suo modo, e chiamata Periodo. Ed egli è qui da notarsi,
che tra le opere di Esiodo si è serbata la Teogonia, e si è perduta 1’ Erogonia
; ma tra quellf di Pindaro al contrario si sono serbati gl' Inni degli Eroi, e
gl* Inni degli Dei si sono perdu- ti . Queste opere f.inno la vita del nostro
Poeta, siccome le guerre, e i viaggi fanno la vita d’Achille^ d' Uhsse. Ma
benché Pindaro per forma- re i suoi carmi divini dovea menar i giorni nella
pace, nel silenzio, e nell’ozio, e vivere con se stesso, col mondo, e co’ numi;
non potea di- spensarsi dal viaggio > e dal cvmraercio co’ Prmci-,1, quasi
emulando la Dìgitized by Google 5 pi del suo tempo, e dal
conoscimento di varj po- poli, e di varj costumi senza i quali so'corsi ; non
si può essere, nè si può fare il Poeta. Ol- tre il viaggio di rutto e quanto il
mediterra- neo (eh* eia il viaggio alla moda in quel secolo) e’ vide Coma,
Siracusa, e Cirene, e familiarmen- te u ò de’ Re e con confidenza trattò nelle
Corti., Nelle giostre festive fu più volte e spettatore, e spettacolo, e sceso
al paragone con Corinna, pian- se la v.irtù della Musa vinta dalla beltà del-
la Musa. In mezzo all’ armonia dunque il Teba- no cantore visse la sua vita
dividendo le ore fra, lo s'adio,ei! teatro, le due scuole dell’antica vir- tù :
e così finalmente morì, cadendo nelle brac- cia di Teosseno giovanetto di
Tenedo, dopo, avere ascoltato con sommo piacere una festa teatrale, ed
armonica. N.ito nell' Olirne. 65. morì nell’ Olimp. 36. di anni 84.,bìochè
altri narrino altrimenti e la vita, e la morte di lui. La vita de saggi, sempre
disputata, non è il corso di peri- gliose avventure gravi di speciosi e nobili
avve- 1 nimenti. Ella si legge ne loro libri, e tutti i quadri d’ un Poeta
formano il quadro di lui . E qui si offre il nome eh’ e' diede a’ suoi carmi di
qua-, dri . E’ chiamò ogni sua Canzone siSog, immagi- ne, simulacro, o per la
varia sorte de’ versi Litici ; o perchè tal è la poesia, cioè pittura, e ritratto
o perchè siccome ad ogni vincitore si al- $, zava una statua col nome
dell'eroe, della patria, e del giuoco $ e’ gliene voleva alzar un’altra di
versi, di quella più perenne ed eterna . E' fece uso del dialetto dorico che
più confassi con lo sti-, le sublime. Ma quello, che più distingue Pinda- ro
dag i altri Poeti si è P uso smoderato degli, Episodj imitato non sempre
felicemente, da,, {'lacco .Lo stile delle sue poesie à Lirico-tragico, A3 e tal
% e tal volta Lirico-comico; imperciocché, siccome in Omero ci ha favole,
e favolette, co>l in Pindaro ci ha canzoni, e canzonette. Per questa ragione
nel tradurle, ed esporle si è tenuta una maniera diversa, secondo che oggi è
fuso d’ Europa. Di fatti oggi in Europa è in pregio solamente la poe- sia, e la
musica Lirica, e questa è o tragica detta altrimenti Pindarica, e Alcaica ; o
comica, altrimenti detta Anacreontica, e Saffica. Ne' tea- tri si unisce l'uno
e l’altro stile Lirico, onde so- no i recitativi, come si dicono, e le arie. Ma
l’epica, e la drammatica, tanto tragica quanto, comica, è poesia disgiunta
oggidì dalla musica, ed *’sì deono rispettare le superbe vicende del secoli .
Ecco la ragione, onde ho tradotte ed espo- ste le Odi di Pindaro all' uso del
Guidi; e tal volta, ma di raro, all’ uso delle cantate da sce- na. Nèmisi
parlidistrofe, d'antistrofe, ed’ epodo ? di ternioni quaternioni, e
quinternioni,j che oggi sono più che vecchie monete . Chi ha voluto tener le
usanze antiche, si ha dato una legge importuna, che poi ha dovuto pagare col
prezzo di tante gloriose fatiche. Chi non esalta il merito di Adimari, e Gauter
? E pochi sono, che apprezzano le loro Erculee imprese ; e spesso hanno errato
per necessità di consiglio . Or la- sciando a tutti e traduttori, e cementatori
di Pindaro la gloria immortale del nome; io ho ardito d’ incominciare ad uso
mio questo faticoso lavoro, e ho ardito ancor di compirlo a mio mo- do. Se
questa è una lode, io la confesso ; poiché mi è grato un onore, che mi venga
dal merito. Sog- giungo ancora d'aver letta, a quest’ uopo, Plutarco, Eliano,
Pausania, Clemente, Stobeo, Eusebio, Quintiliano, Orazio, fra gli antichi ;
Suida,, GiraJdi, Motóri, "• Baile, Fabbiicio, Schmid io, A\ Be, 1 Pindaro,
il quale, quando è gustato, è conosciu- to • |o confesso ancora di aver vinto
la causa, di cui la questione si fu: Se gl’inni Cristiani sono da più, o da
meno, degl* Inni Pagani ? Io proposi, son già molti anni passati, che sono da
più ; e per dimostrarne l'assunto col fatto, tra- dussi ed esposi gl’inni
Cristiani, e gl'inni Paga- ni, e lasciai la causa alla fede, e alla ragione de*
- giudici. Pubblicati gl’inni d’ Orfeo e di altri e,, quindi le Odi d’ Orazio,
non restavano, che gli Inni di Pindaro al compimento dell’opera. Ecco la iuta
fede legata già sciolta. Chi legge, se ha sénno vegga e conosca la 4; verità .
A non voler dir altro, basta il dire che, negl'inni Pagani o manca la persona,
o rrnnca il soggetto, eh’ è la virtù., E se dicesi, che ap- presso i Pagani tal
era la persona reale, e tale il soggetto dell* inno; io dico che cangiate le
idee,, dubbiamo venerare le nostre. Ma le Liturgie, per una sorte comune sono
ignorate da chi le, adora, e conosciute da chi le disprezza. Quindi è, che
questa causa spetta al giudi ciò de’ posteri come accenna nella Od. i. Olimp.
il nostro poeta. Nel resto non può negarsi, essere oscura e confusa 1
antichità, e chiara e distinta h nostra età, in cui quel che si legge, si vede,
e quel che si vede, s’ intende . Per me m’inebbrio di gioja quando canto nel
coro un inno de' nostri; e. nel cantare un inno Pagano, sia superbo e pomposo,
non mi sento nel petto un senso di dolce pietà. £ non abbiamo noi i nostri
agonistì, i campioni» -gli atleti r, gli atlanti, gli aicidi di Cristo? Altro
che kcorsa f, e Ja lotta, sono le virtù del Benedetti, Aditimi, Stefano,
Gaìitefj ed altri fra i moderni e di averne tratto profitto ma, di. aver sempre
apprezzato sovra di tutti lo stesso la Chiesa . Si legga solo F inno di
Venanzio giovanetto, e santo deli’ Umbria, e si vegga, quai sono in vero gii
eroi. E’ non vi ha dubbio, che iti Pindaro vi sono le più belle sentenze e mo-,
lali, e politiche che il suo stile spesso è orien- ; tale, come lo stile
liturgico di Asaflfo, d' Orfeo d’Omero, e di Ossian; ma queste bellezze, che di
rodo si ammirano ne' poeti Pagani, ne’ nostri sono e profuse, e neglette. 5. Mi
resta a dir due parole su i Giuochi, che formano F argomento dell’ opera • I
Giuochi, dette ancora feste giostre certami agojii, con- (,,, trasti ) erano o
ginnici, o musici . I musici eran prode del conto, del suono, della poesia,
della storia, e della eloquenza; e tal volta erano dispu- te circolari da
scuoia. Questi si davano d' ordina- rio neU’Odèo, nel Musèo, nel Licèo, nel
Teatrone di rado assai nello Stadio, infra il romor delia turba, il vincitore
avea la corona, la sta- tua, e il soldo pubblico,e forse Finno della vittoria.
Mi questi giuochi non eran molto famosi. I Giuochi ginnici erano o sacri, o
profani . £ profanieranolascherma,ei! bersaglio,edaltri, destinati col tempo
alle pene de’ rei., I sacri et solenni eran cinque, la corsa, la lotta, la
pugna, la danza, la palla, detti in generale Pentatlo da' Greci, da’LATINI Qoinquerzio,
e tal volta Pan- crazio, benché Pancrazio comprendea solamene te;la pugna, e la
lotta* La corsa era a piedi, a nudo', o armato a cavallo, o frenato, o senza ;
freno ; e col carro, tirato da due. o da quattro cavalli £ Il premio della,virtù
eia kt stessa virtù; o pure una corona di olivo f di lauro, d’apio, di rame, o
di ferro ; una statua col nome so»* della patria, del giuoco; e un inno di
lode, ond’ era accom- pagnato* litornapdo' in trionfo, alia patria 1
luogo di questi Giuochi era lo Stadio, in tre parti diviso, e distinto con tre
colonnette. Vi prese* devanoi pubblicimagistrati cometestimoni egiu-,, dici
delle contese. Tali feste, instituite da Ercole, da Pelope, da Enomao da Ifito
e p;ù volte tralasciare, e più volte riprese si celebravano, nel principio d'
ogni cinque anni piade non era diversa dal Lustro, che fu la gran festa degli
antichi ROMANI. Questa città, eh’ è stata sempre la madre degl randó altre
insegne e divise, onde vivano ignoti al mondo, e noti solo a se stessi. Vivi
fra * morti, e mprti fra i vivi, passano in pace la vira e fanno il lor nome
risonare nel silenzio, della virtù. Fra molti, che io venero, ha luogo Gaetano
Ancora Napoletano giovane d’ alti ta-,, lenti, e di aurei costumi . E’ rubando
agli alti, affari politici, e al vigor giovanile, e alle ombre notturne poche
ore del tempo le consacra a quel,, profondo studio, che da' primi anni coltivò,
d* una maschia e robusta Letteratura Latina, e va di quando in quando esponendo
una parte di quella Sapienza vera, che nel tesoro delia età vetusta si serba
come un sacro depost-,,, <5. Molte, e varie notizie si sono d'america vate
11 da Pausania, da Natale de Conti, e da saggi scrittori delle Greche antichità,
Ma disperando di poterne qui dare un Saggio compiuto che servisse di scorta
alla legione di Pindaro, ho prega- to il mio doke amico, e maestro Ancora y il
quale, tra le gravi cure della Corte, cori va . con applauso universale i più
severi studj della Letteratura, oggimai quasi moribonda e spirante.- 1 ingegni,
e la scuola di tutte le Muse non ar-, 1 disce più di onorare il nome de suoi
gran figli col titolo di saggi e di dotti e va lor proccu-,,, onde T
Olim- JO to della umani, e divina ragione . Quindi la Repubblica delle
lettere gode di tante dissertazioni dilui, chesonodiraro, diutile, edifestivo
argomento, e che raccolte si daranno a. suo tem- po al'a luce. Or egli
piegandosi gentilmente al-, le mie premurose preghiere, ha scritto un Saggio tu
i Giuochi solenni di Grecia, il quale, stampa- to alla fine del libro la
erudizione comune, serve al- e al rischiaramento delle ©ni di Pindaro. Perciò
son io contento delle mie fatiche, le quali con questo lume compariranno, come
spero, meno oscure, e meno importune $ e la Musa Dircèa sarà più sacra, e più
venerata. A vero dire non deve un Poeta ri sublime, e sì sacro, come colui, che
canta da eroe le virtù degli eroi giacersi nell' ingrato obblìo d' una facile
indifferenza, o d' una criminosa ignoranza? eseiohofattosì, cheil
suonomesiatranoi p ù conosciuto, ed imitato almeno nelle sentenze, se non si
può-nello stile, Sublimi feriam sidera Tropea. Palazzo Sant'Anna. odierna
sede del Municipio ed ex Collegio dei Gesuiti. J. visse da filosofo inquieto
una esistenza drammatica. Pur affascinato dalle idee di libertà di cui si è
fatto assertore e promotore, non smise mai di produrre opere di natura
religiosa e devozionale, anche pervase di amore e tenerezza, soprattutto verso
la Vergine Maria. E' un ecclesiastico che non sovrappone il livello della
politica a quello della fede, ma tenta piuttosto un equilibrio che apparirà fortemente
precario e non convincerà nè il potere politico nè il potere religioso.
Dall'una e dall'altra parte fu perseguitato per tutta la vita, tuttavia non
sconfessò mai la sua fede cristiana, nè resistette fermamente al tiranno fino
alla morte. Quest'uomo che le istituzioni hanno più volte punito secondo
i loro statuti con il carcere e con l'esilio fu un 'uomo contro', ma non aveva
la vocazione al martirio. Io mi fermerò a considerare l'ultima prigionia
dell'abate Jerocades. Fu la conclusione di una vita oltremodo inquieta. A
Tropea, nel collegio dei Padri Redentoristi non si chiudeva solamente una vita,
si spegneva il tentativo di conciliazione di un credente massone e giacobino
con il mondo moderno. UNA VITA ESAUSTA L'abate J. non aveva la vocazione
al martirio e tuttavia la sua vita inquieta è stata vissuta nella lotta, una
opposizione ideologica contro i potenti e una tuonante avversione al mondo
clericale. Il terremoto del Capo, questa operetta indiavolata, come la
definisce Tigani Sava, ci dà la misura di quanti fossero i suoi nemici, ma
anche di quanto egli sapesse usare la lingua e la parola per colpire,
offendere, insultare. La parola fu la grande arma che Jerocades usò per
illuminare le menti, per eccitare i cuori, per aggredire chi lo contrastava,
per lottare i suoi numerosi nemici. Dotato di grande facilità di parola,
scriveva e verseggiava con facilità e spesso dava alle stampe i suoi scritti
senza rileggerli. L'ultima prigionia a Tropea, nella casa dei
Redentoristi, fa pensare a Daniele nella fossa dei leoni. Ma l'accostamento
biblico ci richiama anche altri protagonisti calabresi di utopie religiose e
politiche: penso a Fiore, a CAMPANELLA, profeti perseguitati per i loro sogni
di libertà. Con uno spessore certamente diverso, ma con un'ansia di fondo che
ha una matrice comune nella natura rivoluzionaria del cristianesimo.
Credo sia opportuna una riflessione sulla condizione ecclesiastica di J. e
sulla sua formazione, perchè ci consente di cogliere elementi di
approfondimento in lui come anche nelle figure più rilevanti del giansenismo,
del protestantesimo, del giacobinismo, della massoneria: tutti più o meno di
provenienza culturale e ambientale non solo cattolica, ma specificamente
ecclesiastica (si pensi a Salvi, Aracri, Serrao, Padula, Angherà, Nudi o altri
meno noti). Il valore culturale, etico, sociale di queste personalità e
della loro opera in Calabria e fuori, osserva Mariotti, e stato messo in
rilievo da studi seri ed accurati, "che tuttavia non sempre superano del
tutto la tendenza ad interpretare illuministicamente l'aspetto contestativo
soprattutto in chiave di apertura alle novità, al progresso contro l'ignoranza,
l'arretratezza, il bigottismo degli am bienti ecclesiastici. Pare sia più
maturo un ripensamento, almeno su alcune complesse personalità: anche per
capire meglio il dramma umano, religioso, morale di questi uomini, spesso
condizionati dal disagio di una vocazione non autentica, talora esasperati da
situazioni realmente invivibili; e per cogliere, al di qua dell'asprezza delle
manifestazioni, la radice autenticamente cristiana e cattolica di certe
esigenze e critiche, nello spirito in cui oggi leggiamo e accettiamo i rilievi
al loro tempo sospetti, di Muratori sulla Regolata devozione dei cristiani, di SERBATTI
su Le cinque piaghe della chiesa." Penso che, leggendo l'ancora
inedita Orazione per l'apertura della Scuola di Economia e Commercio
nell'Università di Napoli, detta da J., questa riflessione si riveli quanto mai
opportuna. Egli, rievocando gli anni della giovinezza, ricorda: "... Nato
in un ignoto villaggio dell'estrema Calabria da parenti oscurissimi, applicati
alla pesca, alla navigazione, al commercio, respirai le prime aure di vita, tra
i remi e le reti, nè mi sentia fremer d'intorno di altro il linguaggio che del
dolore, dell'opera, della fatica, i tre compagni primieri de' dolenti, operosi
e travagliati mortali, nè di altre immagini la mia mente bambina poteva
ricolmarsi giammai, che di povertà libera e di libertà bisognosa... piacque a
mio padre di ascrivermi tra l'ordine clericale e gà cominciai pur io, e ben per
tempo, a menar la vita tra i Salmi e gli Inni, imparando, ed insegnando ogni
giorno le Christiane dottrine... Chiuso il Seminario vidi e conobbi i primi
elementi dell'umano e divino sapere, e mosso dalla fama del Martorelli e del
Genovesi venni a Napoli ad ammirare quei due valenti e in filologia e in FILOSOFIA,
e con essi loro mi strinsi in familiare e soave amicizia." E'
altrettanto importante annotare che la preoccupazione per il seminario
rappresenta per i vescovi calabresi nella seconda metà del '700 la volenterosa
disponibilità di attuare una delle poche veramente innovative prescrizioni
tridentine. Ma in realtà molti seminari furono semplici convitti, che potevano
influire su una percentuale ristretta del clero, in quanto spesso surrogavano i
collegi per i laici, mentre i chierici in genere erano formati con
un'infarinatura di morale e di cerimonie dai parroci di campagna. Una circolare
per la diocesi di Tropea ritiene validi 10 giorni di ritiro come preparazione
all'ordinazione sacerdotale di coloro che erano stati presentati dai parroci.
Si trattava di una preparazione intensiva, che era tutto ed era poco! Il clero
che proveniva dai seminari invece si qualificò più per gli aspetti culturali che
per quelli pastorali. Per molti lo stato ecclesiastico rappresentava
soltanto una carriera ambita. In un ambito di cristianità il prete era il
notabile, circondato da uno steccato di privilegi. La vocazione era pertanto
nella linea delle pressioni sociali. Moltissimi erano i preti al di fuori di
ogni quadro pastorale: gli abati oziosi, i preti altaristi, i pedagoghi, gli
eruditi, i commercianti, i sensali, i selvaggi, i preti coniugati, gli eremiti.
I sinodi sono pieni di richiami agli abusi di questo clero che, privo di forti
ideali, dopo aver "strapazzato" la messa e l'ufficio, si dava
all'ozio, agli spettacoli, al cicisbeismo. Del resto va notato che il
Concilio di Trento aveva obbligato i vescovi a fondare i seminari, non i
candidati agli ordini ad entrarvi. La cura animarum suprema lex era molto
disattesa, pur essendo un principio fondamentale del Tridentino che aveva posto
come capisaldi della vita diocesana le visite pastorali, i sinodi e i seminari.
Ma anche i sinodi diventano sempre più radi: a Tropea l'ultimo sinodo celebrato
è stato di Ibanez: nessun altro sinodo verrà celebrato nel corso del settecento
e fino al vescovo Vaccari. La
preoccupazione per il seminario appare sempre viva e addirittura appare quasi
ossessiva in un vescovo latitante come Mele nella corrispondenza col suo
vicario don A. Meligrana. Questo vescovo fu l'ultimo a reggere la diocesi di
Tropea prima della sua unione con Nicotera. Durante il suo episcopato avvennero
fenomeni che hanno cambiato il corso della storia, ma egli riuscì (e non fu per
nulla il solo!) a rimanere fermamente legato alla tradizione; durante il suo
episcopato morì a Tropea J.. Sugli anni compresi sembra prevalere un
grande silenzio su J. nei documenti vescovili o comunque tropeani. Mentre
il Martuscelli, primo biografo del J., ci riporta con alquanta dovizia di
particolari l'ultimo periodo di vita dell'abate (cfr. Accatatis, Uomini
illustri della Calabria, Cosenza), le notizie che abbiamo di lui dai
contemporanei locali sono molto scarne e tendenziose (Vito Capialbi, Memorie
per servire alla storia della santa chiesa tropeana, Napoli, Paladini, Notizie
storiche sulla città di Tropea, Catania- ed. anastatica a cura di Bella). Quasi
irreperibili nell'archivio vescovile di Tropea. Quello che ci lascia interdetti
è la mancanza di fonti 'tropeane', degli uomini di cultura suoi contemporanei o
quasi: Galluppi, ad esempio, o Politi, o Scrugli, o Melograni... Gli
archivi locali, sia quelli ecclesiastici che quelli privati, sono molto avari
di notizie. Nell'archivio vescovile di Tropea è assente il suo nome, se si
eccettua un documento di dispensa dall'età canonica per l'ordinazione
sacerdotale e di annotazioni sulla sua assenza da Parghelia nelle visite
pastorali: Visita Paù: nell'elenco dei preti di Parghelia manca J.; Visita
Monteforte: adsunt extra patriam... D. A. J. Visita Monforte: absens...: A. J.;
Visita Mele: D. Antonius Jerocadi absens. Negli archivi privati si è
trovata qualche piccola traccia del suo passaggio nell'archivio Meligrana di
Parghelia: una lettera di Vito Capialbi, datata Monteleone a Meligrana ricorda
che "le cose di J. [per lui trascritte] non sono che ordinarissime
composizioni, ma di un autore così celebre ogni cosuccia è buona". E più
avanti ricorda ancora di aver avuto in regalo dal nipote di J. (Raffaele)
"un autografo in francese e in italiano di suo zio". Da Parghelia, attraverso
don G. Meligrana, Vito Capialbi ha avuto molti testi di J., che dice di
conservare nella sua biblioteca (Cfr. Memorie, cit.). L'archivio più
fornito dovrebbe essere quello dei Jerocades-Colace che allo stato attuale
risulta pittosto disperso, diversamente da come era stato rilevato da Tigani
Sava, relativamente alla produzione di Jerocades (Cfr. il contributo
bibliografico più completo - pur se con qualche piccola carenza - di Francesco
Tagani Sava in La Calabria dalle riforme alla restaurazione, S. E.
Meridionale. Il silenzio delle fonti tropeane del periodo che corrisponde
agli ultimi anni di vita di J. sta ad indicare la sua emarginazione, dovuta a
una avversione profonda, soprattutto da parte del clero tropeano, che, nel
Terremoto del Capo, era stato oggetto di derisione e di gravi accuse di
immoralità, ma anche del mondo laico che non condivideva le idee giacobine
dell'abate, anche se alle logge massoniche da lui fondate, o che, come dice
Gaetano Cingari, certamente influenzò, a Parghelia e a Tropea, in molti avevano
dato la loro adesione. Tanto meno fanno menzione di lui gli accademici degli
Affaticati. J. viene ignorato, sia perchè è scomodo, sia perchè è ostile e
pericoloso politicamente, sia infine perchè ha usato la parola come arma che ha
colpito duramente. Forse non e esagerato pensare che si aspettava il
momento giusto per presentargli il conto. LA SOLITUDINE DELLA MORTE
Martuscelli racconta con dovizia di particolari gli ultimi anni della vita di
Antonio Jerocades e la sua morte. fu mandato in Francia", egli scrive: in
realtà, più precisamente, fu esiliato con altri 500, mentre Colace e Mazzitelli
erano stati uccisi. J. figura tra gli esiliati a Marsiglia per i fatti e,
nell'elenco dei condannati dalla Suprema Giunta di Stato, si fa anche una
descrizione fisica dell'abate. A Marsiglia scrive tra l'altro l'orazione
funebre per Vincenzo suo fratello. Nel mese di agosto 1801, dopo la pace di
Firenze, rientra in Italia a Civitavecchia con la nave e da lì a Roma dove 'si
ammalò mortalmente'; riavutosi andò a Napoli e da lì giunse a Parghelia. Dopo
dieci mesi fu mandato nella casa del PP. Liguorini di Tropea, e dissesi che ciò
fu per correggerlo di quanto avea scritto nell'elogio funebre di suo fratello
Vincenzo", denunziato da Giuseppe Costanzo per vilipendio in quanto nella
detta orazione aveva parlato male del cardinale Ruffo. L'ordine era di
tenerlo segregato. E all'inizio l'abate "viveva nella quiete", scrive
il Paladini, che fu testimone oculare della sua prigionia; il quale aggiunge che,
cominciando J. al suo solito a satirizzare, perdè la confidenza dei
religiosi". In realtà la situazione appare più complessa, come
risulta dalla lettera di Migliaccio, successore del Pappaona, inviata a Mele e
conservata a Tropea nell'archivio Francia: Ecc. Rev.ma con ven.ta
carta V. E. Rev. ma partecipa al mio antecessore che il sig. Preside della
Provincia, col parere del sig. Av.to F.te D. Calenda le avea scritto che il
superiore di questa casa, quante volte i medici ne conoscano la necessità,
potrà far uscire a camminare il sac. J. di Reale ordine qui detenuto, in
compagnia degli individui di questa Comunità. E' il detto mio antecessore
subito, con più di buon core che di considerazione, le risposte che
avrebb'eseguiti gli ordini. Ora io mi dò l'onore di rappresentarle, che essendo
nei principi del passato luglio venuto da quella di Catanzaro a governar questa
Casa, ho trovato che non si era potuto eseguire quanto di buon cuore si era
mostrato di voler eseguire; imperciocchè essendo qui una piccola Comunità, e
vivendosi, come si vive tra noi, ritirati nelle proprie stanze, ci parliamo un
poco dopo pranzo e dopo cena; e quando poi si esce un po' a camminare, ch'è un
par di volte la settimana, allora ci comunichiamo insieme i nostri sentimenti o
il nostro approfittamento nelle lettere, o nello spirito; e sarebbe anzi una
noia uscire in compagnia di persona, con cui non si ha confidenza. Ma questo è
poco. I Reali ordini rispetto al predetto sacerdote sono di non farlo uscire,
nè trattare con nessuno; e di ciò il Sig. Ud.re Perrotta ne volle firmato un
obbligo dal passato Superiore. Ormai il Sig. Preside dice: quante volte i
medici conoscano la necessità di farlo uscire, il superiore potrà permetterlo,
ma in compagnia degl'individui di casa. Resterebbe dunque a carico del
superiore la verità della cognizione dei Medici, e la necessità del Jerocadi.
Cotesta risponsabilità non si vuol'aver'affatto. Risponderà ogn'individuo della
propria condotta; ma non potrà rispondere di quella degli altri. Il superiore
passato non dovea pur firmare quell'obbligo; ch'egli non era fatto castellano
nè carceriere. La M.S. si confidava della di lui religione; ed egli, ed ogni
successore si facea un pregio di custodirlo, e di rappresentare subito ogni
trasgressione, che mai ci fossa stata. Per le quali ragioni, e per altre, che non
è necessario di esporre, non è eseguibile di farlo uscire in compagnia
degl'individui di casa. All'incontro J. fa delle premure presso di me,
rappresentando i suoi mali, e 'l male dei mali, ch'è la sua vecchiaia, o amara
decrepitezza. Ma io non vedo altra via da poter'esser'abilitato, se non che, se
il Sig. Preside, per compassione dei mali di questo infelice, si assicuri egli
della cognizione dei medici e delle necessità del Jerocadei, e così lo abiliti
a uscire a camminare in compagnia di altro sacerdote secolare ben visto
all'E.V.Rev:ma. E pien di rispetto le bacio le sacre mani, e chiedo la paterna
benedizione. Collegio di Tropea U.mo e obblg.mo servitor vero e
suddito Migliaccio del S.mo Red.re Di V.E. Rev.ma Mons. Mele
Vescovo di Tropea "In quel soggiorno - scrive ancora il Martuscelli
- molto si indebolì la sua salute - pur nondimeno scrisse molte cantate,
sonetti, molte orazioni sacre, novene di alcuni santi, tradusse il salterio. Finalmente
logoro dai disagi e dalla improba applicazione allo studio munito dei santi
sacramenti nei sensi della vera pietà rese l'anima a Dio. Da colà fu il suo
corpo trasportato nella patria, e depositato nella sepoltura dei
sacerdoti". Muore. L'atto di morte si conserva nel registro della
parrocchia di S. Demetrio di Tropea ed è stato trascritto anche in quello della
parrocchia di Parghelia. Li riporto entrambi, oltre che per precisare e
definire la data di morte, anche per farvi notare delle coincidenze e delle
differenze: Parghelia - Parrocchia di S. Andrea Apostolo Atto di
morte Rev. Sacerdos J., annum sextum ac sexagesimum cum attigisset,
sacramentis opportunis rite munitus, die decima nona dicti novembris obiit
Tropeae, in domo Patrum SS.mi Redemptoris; cuius cadaver in hoc casale delatum
in Eccl.ia Archipresbiterali S. Andreae Ap.li in sepultura sacerdotum tumulatum
fuit. A. arch. Taccone TROPEA - Parrocchia di S.
Demetrio - Atto di morte Sacerdos J. casalis Pargheliae hujus Diocesis
utriusque juris atque sac. Theologiae Doctor. Professor publicus in Universitate
Neapolis, sexaginta quatuor fere annis natus, munitus sacramentis poenitentiae
et Eucharistiae postea subita morte peremptus, animam exspiravit, eiusque
cadaver in ecclesia archipresbiterali casalis Pargheliae tumulatum fuit.
Franciscus Antonius Grillo Vito Capialbi, precisando che Jerocades fu
sacerdote, che "dopo varie, che diresti romanzesche vicissitudini,
involuto nelle tristissime vicende andonne ramingo in Francia, ed in altri
Regni d'Europa; e già era rientrato nella patria in seguito del trattato di
Firenze del Finalmente, stando nella casa de' PP del SS. Redentore di Tropea,
morissi Per concludere che "più
copiose notizie di questo vasto, e stravagante ingegno si riferiranno nelle
nostre Centurie degli scrittori calabresi". Di questo periodo della
vita esausta dell'abate Jerocades sono state dette certamente delle
esagerazioni (il tetro carcere - la cella - le punizioni - le torture... il
veleno - cfr Didier), non suffragate da alcuna documentazione, ma solo ampiando
voci e dicerie, ma tante altre cose sono state taciute. Stupisce però che
il vescovo Mele, nella visita ad limina, presenti una visione idilliaca del
clero e della diocesi, mentre nella visita pastoralee in altri documenti
conservati nell'Archivio storico di Tropea tuoni contro la disobbedienza e
l'ingovernabilità del clero e contro l'immoralità dilagante: nessuna nota
abbiamo potuto rintracciare relativa al caso J., tranne tracce indirette
nell'Archivio Meligrana di Parghelia e la lettera del P. Migliaccio al vescovo
Mele. Nell'archivio dei PP Redentoristi della casa provinciale spero possa
essere trovato del materiale documentario che già lascia intravvedere Orlandi,
storico dell'ordine, il quale in Specimen Historicum CSSR-.FI "I
Redentoristi napoletani tra ricoluzione e restaurazione" dedica pagine
interessanti all'abate Jerocades. Era comune che le autorità inviassero
dei condannati al soggiorno abbligato a scontare la loro pena in qualcuna delle
case della Congregazione. Per quelle calabresi - scrive Orlandi - si trattava
di un compito assegnatogli dal dispaccio regio: 'Qualora i vescovi
diocesani o vicini per correzione volessero mandare dei preti o chierici a fare
gli esercisi spirituali nelle loro case, dovranno sempre riceverli, con esigere
anche per compensare del loro incommodo quell'oblazione che non venga eccedere
il tarino al giorno, pel tempo della dimora che da quei preti o chierici si sia
fatta presso di loro. L'ordine reale
veniva poi eseguito dai vescoli. Pertanto i Redentoristi "si
trovavano nell'impossibilità di sottrarsi a questo forzato esercizio dell'ospitalità,
che tra l'altro non era sempre immune da rischi, come nel caso J.. Nella
lettera di Migliaccio si afferma con forza: Il superiore passato non dovea pure
firmare quell'obbligo, ch'egli non era fatto castellano, o carceriero.
Orlandi, storico dei Redentoristi, riporta un passo di Capasso (Un abate
massone, Parma. Che in questa nuova relegazione J. abbia continuato a mostrarsi
secondo i casi massone e rivoluzionario, si può facilmente ammettere, anche
perchè è certo che non cessò mai dallo scrivere ed improvvisare al modo antico.
Ma l'esilio, quantunque raddolcito dalle cure di chi l'assisteva, diè l'ultimo
crollo al suo cervello, di già a bastanza indebolito. Naturalmente, se a J, era sgradito soggiornare a Tropea, ai
Redentoristi lo era ancor più il doverlo ospitare. Dura da un anno quello stato
di cose, quando il Ierocades ottenne di poter passeggiare fuori clausura,
accompagnato da uno di quei frati. Ma, proprio il giorno in cui cominciava a
fruire di tale concessione, intavolato col compagno una discussione di teologia,
non essendo contento delle risposte dell'altro, passò dagli argomenti alle
impertinenze, e poi "usando dell'estro poetico", sepellì il frate
sotto una valanga di contumelie. Ricorse perfino al bastone, e buon per il
frate che riuscì a scansarlo". La lettera del padre Migliaccio sopra
riportata conferma quanto scrive Capasso. Orlandi conclude che
"invano i Redentoristi ricorsero ripetutamente alla corte per essere
liberati dalla sgradita presenza di J. che rimase a Tropea fino alla
morte". Paladini ci lascia una testimonianza di prima mano. Dopo un
giudizio fortemente negativo: "Fiorì soprattutto a' suoi tempi [del
vescovo Monforte] J. di Parghelia noto nella repubblica letteraria per talenti
e cognizioni; non sempre tuttavia seppe scriver bene soprattutto nella prosa;
volle poi trovare per tutto i delirii massonici; e fu traditore degli stessi
sedotti da lui; in breve il suo stile fu imperfetto, la sua scienza non retta,
la sua morale non buona". Il teologo ci lascia questo racconto della morte
di J. Muore ai suoi tempi [del vescovo Mele] D. Antonio Jerocades.
Questi, ritornato dalla Francia dov'era stato in esilio, fu denunziato da Costanzo,
da Parghelia quale autore di autore di una orazione funebre di un suo fratello,
dove parlava male del Ruffa ricuperatore di questo regno; quindi fu chiuso dal
Ministro Pirrotta tra i Padri del Santissimo Redentore di Tropea sotto il
rettore Pappaona. Ivi sulle prime viveva nella quiete, ma, cominciando al
suo solito a satirizzare, perdé la confidenza de' religiosi. Caduto
infine in delirio malinconico, e dubitandosi di sua vita, il Vescovo delegò tre
membri del Capitolo, cioè l'Arciprete e il Penitenziere Mazzitelli e Paladini a
ricevere la sua professione di fede. Egli, invitato a ciò, diè segno di
approvazione, come il diè in tutta la lettura di detta professione. Richiesto a
sottoscrivere, prese la penna, e scrisse le due prime lettere del suo nome A ed
n, ma poi invece di seguire a scrivere il t col resto, scrisse g. Allora il
padre Migliaccio gli rimproverò forte ch'ei volea dirsi Angelus, con fargli
altresì delle minacce per questa e per quella vita: per lo contrario il Teologo
disse: o egli in questo momento è nel delirio, ed a chi parliamo noi? o è in
retta ragione e sarebbe meglio prima indurlo al dovere con convincerlo, con
pregarlo ecc. Intanto l'ammalato proseguì la sottoscrizione col rimaner sempre
il g, ma col fare il r e tutt'altro, come gli dettarono i tre delegati. Munito
poi de' sacramenti dal Parroco, morì e fu trasportato ad essere seppellito in
Parghelia." Questo racconto ci fa intravedere quali fossero le
preoccupazioni del vescovo Mele (solo formali e... di salvare un'anima!) e
quali fossero i sentimenti del Paladini, il cui zio Gaetano l'abate aveva
fortemente fustigato e vilipeso nel Terremoto del Capo. Sul versante
laico il racconto di Didier in L'Italie pittoresque, Pigoreau, Paris, appare
assai ricco di anticlericalismo e di spirito romantico: J., autore della Lira
focense "fu crudelmente perseguitato. Relagato nella sua città natale
(sic!), ebbe per prigione un convento in cui i monaci, razza fanatica,
ritenendolo ateo e giocobino, si resero compiacenti esecutori delle vendette
reazionarie dei Borboni di Napoli. Investiti da questo ministero poco
cristiano, l'esercitarono con una barbarie meticolosa e veramente monacale. Non
vi sono torture che essi non inflissero al carbonaro poeta: il povero
prigioniero morì presto, e colui che gridava, in uno slancio di benedizione,
"Vita, dono del ciel, sei bella, ti amo. Perchè ti so...", vide i
suoi giorni spegnersi nella prigionia oscura, silenziosa d'un chiostro fanatico
e persecutore. La salma del martire riposa a Tropea in attesa del Pantheon
riparatore che riunirà in un solo altare tutti i martiri dispersi della libertà
italiana. La terra sia loro leggera fino al giorno prossimo delle
riabilitazioni!" La fonte del Didier era certamente legata allo
spirito patriottico che aveva bisogno di creare i martiri. Questo spiega anche
la data errata e il riferimento alla salma che riposa a Tropea mentre sappiamo
che Jerocades fu seppellito a Parghelia. Nella prefazione alla Lira
Focense pubblicata a Cosenza, Francesco Migliaccio accentua il carattere
persecutorio: "fu dalle calunnie, dalle persecuzioni e da mille disastri
assalito ed oppresso. Credette farsi schermo e difese [...] negli occulti
recessi della sua patria. Ma per la malvagità dei tempi... fu nella sua
veneranda vecchiezza rinchiuso nella casa di Missionarj di Tropea. Quivi nella
indigenza, schiacciato dalla ferrea mano che l'oprimeva chiuse i suoi
giorni". A parte i comprensibili toni romantici del Didier e di
Francesco Migliaccio, l'abate Jerocades chiuse i suoi giorni nell'abbandono e
nella solitudine, senza un'ombra di affetto o di pietà. Neppure la visita del
Pepe a Tropea potè dare ristoro al vecchio poeta, che non trovava più motivi al
suo canto. La sua voce, un tempo bellissima e ammirata, adesso era solo
il lamento di un uomo finito che vedeva stroncarsi senza rimedio il suo cocente
anelito alla libertà. La morte improvvisa che lo colse dopo aver ricevuto i
sacramenti della penitenza e dell'Eucarestia ha trovato un uomo distrutto e che
nelle parole del salmo 50 da lui amato ha trovato l'ultimo motivo per affidare
alla forza della parola l'anelito del cuore. UN DIGNITOSO CONGEDO
Non fu una morte normale quella di Jerocades: nella sua inquietudine non bastò
la famiglia dei liberi muratori, non soccorse l'avventura giacobina, diede
sofferenza la chiesa alla quale apparteneva. Nella post-fazione
dedicatoria l'abate Jerocades ricorda che alcune poesie che formano la Lira
focense sono sacre e ricavate dai libri cristiani e ne dà una spiegazione
storica; ma a me sembra che egli voglia darci atto di non aver mai abbandonato
la certezza cristiana come in questa Salve piena di affetto e di fiducia.
O Regina, il Ciel ti salvi. Di Dio madre, e sposa, e figlia, Volgi,
ah volgi a noi le ciglia, Bella madre di pietà. Mostra vita, e
nostro bene, Nostra speme, e nostro amore, Volgi a noi quel tuo bel
core, Ch'è la stessa carità. Figli di Eva, abbandonati,
Dell'esiglio a' lunghi affanni, Dal furor dei rei tiranni Chi ci
salvi, oh Dio! non c'è. Senti il grido, ascolta il pianto Di chi
giace in ree catene, Bella Madre, in tante pene Ci volgiamo
afflitti a te. Dunque o nostra Protettrice, Volgi a noi quel tuo
bel ciglio; Mostra a noi quel tuo bel figlio, Quando ha fine il
lungo error. Tu sei madre assai pietosa, Bella Vergine Maria;
Tu sei dolce, e tu sei pia, Tutta pace, e tutta amor. E mi appare
persino commovente la Novena alla Madonna di Portosalvo, che l'abate Jerocades
dedica a Raffaele suo nipote, figlio del fratello Vincenzo: "Nel
Castello dell'Ovo, villa un dì di Lucullo, ove fui tre anni prigioniero di
stato dopo tre anni di esilio e in altri prigioni e in altri esili, dopo Dio
non ho altro obbiettivo delle nie cure e delle mie preci che la Madre di
Dio. Serbando fede alla patria, l'ho sempre invocata col nome di Madonna
di Porto Salvo, e questo conveniva ancora al mio stato perchè nelle tempeste si
cerca un porto e nelle battaglie si cerca un asilo, impaziente di altra
dimora: "Ch'io son vivo al desir, morto alla spema".
Gravato d'anni e d'affanni, ho scritto questa Novena che a voi, caro nipote,
offro e consacro qual dono e qual debito. Io ve la consacro qual dono
poichè è frutto dei miei studi e dei miei talenti. Sono povero di fortuna e
quel che mi ha dato la natura, spetta anche a voi quando non disdegnaste di
dirvi mio nipote". A me quest'ultima frase appare commovente per la
carica emotiva che sottende. Ma c'è dell'altro che J. dice ancora come credente
e come sacerdote: "Chi sono i testimoni della fede? I vecchi. Io,
che vecchio pur sono, così presbitero, qual attestato maggiore di questo
donarvi della religione e fede di Cristo? A te, Raffaele, e all'eredità
del padre e dell'avo aggiungerete la mia. A te, e nella Chiesa di Porto
Salvo fra i suoi monumenti della pietà dell'avo e del padre appenderete ancora
s'è degna questa Novena, in cui leggerete le grazie e le glorie di Maria, da
noi venerata sotto il nome di Madonna di Porto Salvo". Il senso di
verecondia che traspare da queste parole non ci rivela forse il dramma di un
uomo, di un credente, di un sacerdote che, guardando indietro alla sua vita
tormentata fa un bilancio coraggioso e definitivo? "Dopo Dio non ho
altro obietto delle mie cure e delle mie preci che la Madre di Dio" Antonio Jerocades. Jerocades. Keywords:
filosofia della massoneria, Esopo in Italia, lira focense, giaccobinismo, ‘repubblica romana” “repubblica partenopea”, le
odi di pindaro, ginnasia, antichi romani. – Grice on Plato’s Republic. Refs.: “Grice
e Jerocades” – The Swimming-Pool Library. Jerocades.
Grice e Jervolino: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- ermeneutica del
dialogo – filosofia campanese – la scuola di Sorrento -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sorrento). Filosofo italiano.
Sorrento, Campania. Grice: “I like Jervolino, but then I like any philosopher
of language! He is a Ricoeurian, and I’m a Griceian!”essential Italian philosopher.
Allievo
di Piovani. Insegna a Napoli. Collabora con diverse riviste specialistiche di
filosofia (Filosofia e Teologia, Studium). Esamina aspetti riguardanti a Ricoeur,
tra cui: la ricerca di un filo
conduttore unitario all'interno della sterminata ermeneutica (“Il cogito e
l'ermeneutica: La questione del soggetto e la inte-azione” (Procaccini,
Napoli). Messa in questione del soggetto chomskyano auto-centrato e auto-trasparente.
Ricoeur appare nei suoi studi come
caratterizzato dall'attenzione verso le peripezie del Cogito che, ferito e
spezzato nella sua autosufficienza, cerca di ritrovare sé stesso attraverso un
lavoro ermeneutico. Individua come centrale il paradigma della trans-ductio,
trans-implicatura, trans-patia, come modello fondato sulla co-ospitalità
conversazionale e la co-apertura all'altro conversazionale. Altre saggi:“Il
cogitamus e l'ermeneutica. La questione del soggetto e sui interazione” (Procaccini,
Napoli); “La filosofia senza assoluto” (Athena, Napoli) – cfr. H. P. Grice,
“Absolutes” --; “Logica del concreto,
logica dell’astratto” -- “Ermeneutica della vita morale.” Newman, Blondel,
Piovani, Morano, Napoli); “L'amore” (Studium, Roma); “Il segno della prassi.
Saggi di ermeneutica, Città del sole, Napoli);“Trans-ductio, trans-implicatura”
(Morcelliana, Brescia); “Ermeneutica ed implicatura” (Guerini, Milano); La
traduzione, la traditio -- etica, Morcelliana, Brescia, “Etica e morale,
Morcelliana, Brescia, Ricoeur e la psico-analisi (Angeli, Milano); Quei ragazzi di nome Fausto Bertinotti Boys – Archivio
Panorama. Grice: Jervolino is playing with Calvino. You see,
Calvino, a rather unimaginative writer, wrote a collection of things he titled,
in the whole thing and in the first part, “Glia mori difficili” – People would
have forgotten about it had it not been for Nino Manfredi who brilliantly
played the ‘soldato’ (to Bulco’s vedova) in ‘L’amore difficile’, sic in the
singular but indeed, ‘L’avventura del soldato’ – in that collective film.
Jervolino is having in mind this, and now poses Ricoeur as the widow and himself
as the soldier. On top, he invites Ricoeur to write the prologue which he
stupidly agrees to! Caputo has analysed the reciprocity of love and the
stupidity of seeing it as ‘difficile’. The blame is Calvino – the original sin
– who could have checked with the etymology of ‘difficilis’!” Domenico Jervolino. Jervolino. Keywords:
ermeneutica del dialogo. Refs.: Luigi Speranza, “Girce e Jervolino” -- “Two
cartesian egos”. “Peripezie conversazionale”. “Peripezia ed implicatura”.
“Cogitamus.” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Jommelli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del musicista filosofo
– muovere l’aria – l’azione melodrammatica – la scuola d’Aversa -- filosofia
campanese – scuola di Caserta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Aversa). Filosofo
italiano. Aversa, Caserta, Campania. Essential Italian philosopher. Mattei riporta il seguente aneddoto sul suo soggiorno
in questa città. Andato in visita a Martini (già considerato come uno dei più
sapienti musicisti d'Italia), si era presentato a lui come allievo, chiedendo
di entrare nella sua scuola. Il maestro gli diede un soggetto di fuga che egli
trattò con molta abilità. -«Chi siete voi?», chiese Martini, «volete burlarvi
di me? Sono io che voglio apprendere da voi!» - «Il mio nome è Jommelli, sono
io il maestro che deve scrivere l'opera per il teatro di questa città» - «È un
grande onore per questo teatro avere un musicista filosofo come voi, ma vi
auguro di non trovarvi in mezzo a gentaglia corruttrice del gusto musicale». Grice: “I like Jommelli. Like
Speranza, I play the piano. My avant-garde compositions are thought to be too
avant-garde, too. I especially recall with affection how I would trio with my
father on the violin and my younger brother Dereck on the cello. Dereck became
a professional cellist with Hampshire. My obituary might well read,
“Professional philosopher and amateur cricketer” – well, Dereck is a
professional cellist. With Jommelli we
never know where the amour is!” La teoria degli affetti (in tedesco Affektenlehre)
può considerarsi la prima forma retorica (in tedesco Figurenlehre) adottata
nella storia della musica, infatti puntava a muovere gli affetti dell'uditorio;
già i greci avevano la concezione che la musica potesse suscitare emozioni: è
proprio da questo concetto che i teorici e i musicisti dell'epoca attingono per
applicarlo alla loro musica (si parla nelle prime cronache rinascimentali di
interi pubblici commossi dalla musica). Le autorità civili ed ecclesiastiche,
consapevoli del forte potere della musica sulla psiche, la utilizzarono come
veicolo dei propri messaggi propagandistici. Ficino apprezza di più le forme
semplici e comunicative rispetto alla polifonia poiché la prima era
maggiormente capace di muovere gli affetti, suscitare o placare le passioni
umane rispetto alla seconda, che era vista come artificiosa e innaturale. Dello
stesso parere era Vincenzo Galilei, che preferiva la musica greca per le sue
capacità affettive. La teoria musicale identifica ogni affetto con un
diverso stato dell'animo (es. gioia, dolore, angoscia) identificati da
specifiche figure musicali definite figurae o licentiae (licenze). La loro
particolarità era contraddistinta da anomalie nel contrappunto, negli
intervalli e nell'andamento armonico, appositamente inserite per suscitare una
particolare suggestione. Athanasius Kircher – gesuita matematico, musicologo ed
occultista tedesco – nel suo Musurgia universalis afferma. La retorica ora
allieta l'animo, ora lo rattrista, poi lo incita all'ira, poi alla
commiserazione, all'indignazione, alla vendetta, alle passioni violente e ad
altri effetti; e ottenuto il turbamento emotivo, porta infine l'uditore
destinato ad essere persuaso a ciò cui tende l'oratore. Allo stesso modo la
musica, combinando variamente i periodi e i suoni, commuove l'animo con vario
esito.» (Athanasius Kircher, Musurgia universalis) Questo trattato e stampato anche a Roma. Tra le classificazioni
e distinzioni degli affetti umani compilate è da menzionare quella di Cartesio
che, nel trattato Les passions de l'âme del 1649, ne distingueva sei ritenuti
principali, quali meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza.
Invece Giovanni Maria Artusi ne L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della
moderna musica (Venezia), attacca questa nuova forma musicale che utilizzava
intervalli "così assoluti et scoperti", poiché trasgredivano le
regole contrappuntistiche (per esempio le dissonanze non sempre sono precedute
da una consonanza per risolvere su di un'altra). Monteverdi difenderà quella
che lui definisce seconda pratica nell'Avvertimento del Libro quinto: queste
licenze hanno uno scopo preciso, e devono essere viste in un nuovo modo di
comporre, diverso dalla concezione musicale di Gioseffo Zarlino. Già dai madrigali
infatti Monteverdi con le dissonanze intensifica e rende maggiormente pungenti
le immagini proposte dal testo. Vologeso was written using a wordy libretto by Verazi, itself an
extensive reworking of Apostolo Zeno's Lucio Vero. The plot deals with the
constancy of love in the face of great obstacles, in this case the love of
Vologeso, king of the Parthians, and his wife Berenice. The Roman general Lucio
Vero has defeated and captured Vologeso, fallen in love with Berenice, and
spends most of Acts I and II seducing and bullying her into abandoning her
husband. When Lucilla, daughter of the Roman emperor and Lucio's fiancee, turns
up, she and the Roman emissary Flavio are disgusted by his behavior; Flavio,
assisted by Vologeso, leads a revolt that results in Lucio's capitulation and the
restoration of their freedom and their kingdom to Vologeso and Berenice. The
plot allows ample opportunity for dramatic movement and spectacle, e.g., in
Lucio's importunities and their rejection by Berenice, Vologeso's confrontation
with lions in an arena, and the revolt that ends the opera. The music is
conventional in its use of recitative followed by arias, but forward-looking in
that many of the recitatives in Acts II and II are accompanied by the orchestra
rather than the traditional basso continuo - the arias are often in abbreviated
da capo form so that they do not slow up the action, and the chorus and
orchestra play a more considerable part in the proceedings than is usual in
Baroque operas. J. had no great gift for melody and the opera offers few
memorable tunes, but he had a talent for brilliant vocal display and dramatic
orchestral effects. The total effect is imaginative, lively, and
attractive. The casting is odd; with only one male voice and five sopranos
it's hard to tell the characters apart. Odinius, Rossmanith, and Schneiderman
all have good voices and are comfortable with Baroque style and ornamentation
and expressive in their characterizations. Waschinski and Taylor are as good as
most falsettists, though as usual their uneven voice production and unfocused
tones set my teeth on edge, and Waschinski sounds much too feminine to make
plausible the heroic figure of Vologeso. (I really do not understand why
conductors and producers nowadays insist on using these voices in Baroque
opera, a practice that has neither historical nor aesthetic justification.).
The Stuttgart Chamber Orchestra is alert and responsive, Bernius keeps
everything moving along briskly, and the sound is excellent. Il Vologeso
doesn't stand up too well compared to the Italian operas of Handel or Gluck,
but taken on its own terms and as presented here, it is thoroughly
enjoyable While Mozart may have claimed Jommelli’s musical style to
be passé, Vologeso itself is a reworking of an already antiquated libretto by Apostolo
Zeno, originally called Lucio Vero and first set by Pollarolo for Venice.
Moreover, the version set by Jommelli and performed here by Classical opera is
in fact a modification of a modified libretto. The new librettist Mattia Verazi
had revised the by then popular version produced by Guido Lucarelli for Rinaldo
di Capua’s setting of 1739 rather than Zeno’s original. The story is a familiar
one, mingling political intrigue with love both unrequited and true. In the
eastern provinces of the Roman Empire, Lucio Vero (Jackson) is victorious in
battle and captures Berenice (Summerfield), wife of the Parthian king Vologeso
(Kelly). Captivated by her beauty, Lucio Vero makes every effort to win her
with the assistance of his minister Aniceto (Verney). Meanwhile, Vologeso
attempts to assassinate Lucio Vero but is recognised by Berenice, causing him
too to be taken prisoner. Further complicating matters, Lucio Vero’s betrothed,
Lucilla (Angela Simkin), has arrived in Ephesus with Flavio (Jennifer France),
an ambassador from Lucio Vero’s co-emperor, ANTONINO (si veda). After many separations
of the faithful Vologeso and Berenice, increasingly cruel plots on Lucio Vero’s
part to attain the latter, and the threat of civil war from ANTONINO (vedasi),
all is resolved and the various couples are reunited without any blood being
shed. Although Zeno’s libretto is not remotely like those produced by
later poets and composers interested in reforming operatic conventions, the
play’s enduring appeal might well be attributed to its strong sense of
spectacle, which coincided neatly with the objectives for reform. Indeed, the
play contains on-stage depictions of Lucio Vero’s attempted assassination,
Vologeso’s fight with a lion in the arena, and at least one ‘mad scene’ for
Berenice in addition to traditional opera seria ingredients of triumphal
marches, grand armies, and the obligatory chorus announcing a lieto fine.
Sometimes I felt that this element of spectacle was lost in the context of a
concert performance. Though that is of course an unavoidable casualty of this
mode of presentation, it was further compounded by Jommelli’s own reluctance to
capitalise on these aspects of the play as did other contemporaries.
Furthermore, artistic director Ian Page writes in the introduction to the
programme that besides the expected editing of the recitative, he chose to cut
not only a number of pieces in their entirety, but also some arias’
middle-sections and their reprises in the interests of ‘maximising our
potential to appreciate and enjoy the opera’. Of these, one was the opening
chorus, which might have helped to restore some of this sense of grandeur, if
indeed Page’s goal was to get a feeling of ‘[experiencing] what a typical
eighteenth-century opera was like’. J.’s musical style in this opera has
clearly moved on from the grand and expansive show pieces we find in his
earlier operas, such as Didone abbandonata of 1747 (performed in London in 2014
and also reviewed here). With the exception of one or two numbers which might
be said to respond to a more traditional heroic opera seria style, such Crede
sol che a nuovi ardori, Flavio’s only aria, the focus in Vologeso is instead on
creating a more declamatory mode and ‘realistic’ rendering of the dramatic and
emotional content of the text. As such, the use of coloratura is generally much
reduced and arias very often feel more like ariosos, often to the point that it
feels like accompanied recitative intrudes upon melodic lines. The music is
nevertheless still imbued with grace and lyricism, and is marked by sometimes
fussy, yet fine, delicate and lace-like accompaniments. And there are some
really good and interesting numbers too: the quartet Quel silenzio, Lucio
Vero’s Se tra ceppi, Lucilla’s first aria Tutti di speme al core, the already
mentioned Crede sol, as well as some very effective and attractive
accompagnatos. In spite of the title, this version (or at least as it has
been presented to us with the cuts) nevertheless still focuses greatly on the
character of Lucio Vero and his relationship with Berenice. Stuart Jackson’s
performance came across as something of a slow burning affair, only really
coming fully into the character after interval and reaching the apogee of
dramatic intensity in his final aria. And yet it felt largely like Lucio Vero
was being interpreted as being the youthful hero, the primo uomo role usually
reserved for a castrato. This may well be due to Verazi’s redaction of the
opera, which seems to me to result in a somewhat schizophrenic character,
vacillating between tyrannical, or rather psychopathic, conqueror and lovelorn
hero. This is effectively underlined by the kind of music with which J. furnishes
the character: languid arias with long, plangent melodic lines, such as his
opening Luci belle and the cavatina Che farò? in Act 2, and a handful of arias
which verge on aria di furia territory. To my mind, Lucio Vero’s actions are
not driven by real love for Berenice but rather an overwhelming desire for
power: not only in and of itself, but also power over others. To this end, his
rejection of Lucilla is not merely an amorous choice, but a rejection of the
power of Rome and the authority of his co-emperor Marcus Aurelius altogether.
So too the psychological manipulation of Berenice in an attempt to bend her to
his will. Thus, Stuart Jackson’s characterisation of Lucio Vero as the amorous
lead did not always sit quite well for me, in spite of a good voice and elegant
execution. The performance otherwise had much working in its favour. I very
much enjoyed Sutherfield’s portrayal of Berenice, and there was some
excellently judged acting from Rachel Kelly. I have already mentioned Jennifer
France, whose delightful aria was executed with all the charm and grace that
the butterfly described in her text required. One did feel slightly for Tom
Verney, his solid performance in his lone aria aside: his role of Aniceto was
decidedly minor in this version of Zeno’s play, with the character’s love for
Lucilla never really explored (again a shortcoming of the libretto). And, of
course, the orchestra itself was as sharp and on-point as we have come to
expect from Classical Opera. My overall impression from the programme
notes, however, is that Vologeso in and of itself was perhaps somewhat
unconvincing to the artistic team in the first instance. Indeed, Page writes
further in his introduction that ‘Jommelli does not belong among the truly
great composers, to be sure. While undoubtedly there are countless flops
littering the battlefields of eighteenth-century opera, and works that are best
left to languish in obscurity, credit must be given where credit is due. And J.’s
legacy is by far too monumental to ignore. The assertion that much of the music
of contemporaneous composers sounds quite like Mozart for much of the time
should rather be inverted: it is Mozart, his uniqueness notwithstanding, who is
effectively a product of his time! A final note: a future Classical Opera
concert this year is to feature some arias from Semiramide by Josef Mysliveček,
another figure well known to the Mozart family and whose work has occasionally
been misattributed to the young Wolfgang in the past. A full opera of his at
some point, further showing how Mozart was fully integrated into the existing
musical landscape, would be most welcome indeed! Jommelli.
Keywords: musicista filosofo, Vincenzo Galilei, Grice’s piano, pavane.
Meistersinger, Mahler, music-hall ditties. Grice. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Jommelli” – The Swimming-Pool Library. Jommelli
Grice e Juvalta: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – la scuola di Chiavenna -- filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Chiavenna).
Filosofo italiano.
Chiavenna, Valtellina, Sondrio, Lombardia. Grice: “At Harvard, I said I was
‘enough of a rationalist,’ but perhaps Juvalta would say that wasn’t enough!” –
Grice: “Juvalta has explored the limits of rationalism, in connection with
value and reason: if value is irrational, how can co-operation be rational in
terms of an accord to follow conversational maxims?” essential Italian philosopher.
Ogni sforzo di derivare una valutazione
morale da qualche cosa di cui non sia già riconosciuto il valore morale è
dunque vano e illusorio. O non dà quel che si cerca, o presuppone quel che si
pretende di fondare.» Il genitore è il barone Corrado Juvalta – herren von
der Juvalt, herren von Juvalt --, cancelliere della locale pretura originario
di Villa di Tirano. Educato a Tirano, e tiranese poi creduto sempre dagl’amici. Dopo gli studi
liceali trascorsi tra Como e Sondrio, si iscrive a Pavia dove si laurea con una
tesi su Spinoza, sotto la guida di CANTONI. Successivamente insegna a Caltanissetta,
Potenza, Spoleto, e Torino. Le tematiche accademiche prevalentemente trattate
riguardarono soprattutto i valori di libertà e di giustizia con ampie
riflessioni etiche. Convinto della loro generalità e universalità, arriva ad
auspicarne una loro applicazione anche nello studio delle categorie politiche
ed economiche. La filosofia di J. è una
profonda riflessione sull'etica portata avanti con il metodo dell'analisi.
Anche se, come risulta dalla sua, non troviamo nei suoi scritti importanti
contributi sul piano gnoseologico ed epistemologico, dal momento che il suo
principale campo d'indagine fu prevalentemente il Sistema morale, possiamo
affermare senza dubbio che sia il kantismo che il Positivismo costituirono il
nucleo di fondo della sua posizione, da cui sviluppò la sua impostazione
metodologica. Il positivismo, in particolare, è stato il primo grande
sistema filosofico con cui si è misurato nella prima fase della sua elaborazione
concettuale. Tuttavia J. sarà costretto
a prendere presto le distanze da una siffatta visione della morale. I motivi di
questa rottura sono da imputare principalmente al suo fermo rifiuto di
accogliere come sostenibile la pretesa positivistica di fondare l'etica sulla
scienza. Il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso
e non deducibile dal giudizio col quale ne afferma l'esistenza o la possibilità
o la connessione modale o condizionale con altri soggetti. Apprendere come le
cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle. Dal momento che l’etica si concreta
nella costruzione di una teoria ed in particolare di un sistema coerente di
valori morali, il giudizio che sta alla base di una qualsivoglia teoria etica
deve configurarsi come “un giudizio originario” che ha una natura eminentemente
etica, quindi non scientifica né tantomeno metafisica. Se però una etica
scientifica appare insostenibile per il motivo dell'indebita derivazione di un
giudizio di valore, di natura morale, dal giudizio ‘aletico,’ di natura
fattuale, è indubbio che la costruzione di un sistema morale debba essere
condotta con criteri di scientificità. Nella misura in cui ogni teoria si basa su
criteri logico-deduttivi e viene definita dalle relazioni logiche che
intrattengono in essa i propri elementi costitutivi, così anche la costruzione
di un sistema etico deve seguire la stessa metodologia e mostrare possibilmente
l'identica costruzione formale. Questo sistema di valori ha l'obbligo di
mantenere al loro interno un imprescindibile grado di coerenza, se vogliono
risultare sostenibili ed essere così accettati dalla ragione (pratica). Quando
parla di ‘teoria’ dell’etica lo fa proprio pensando a questo carattere logico-deduttivo
dei valori all'interno di un sistema. In particolare vede garantita la coerenza
di un sistema morale nella misura in cui un coerente insieme di valori viene
rigorosamente derivato (volitativamente) da un postulato, imperativo
categorica, o assioma, di valore morale capace di fungere da premessa
all'intero sistema (allora come insieme di massime universalisabili). Una volta
prese le distanze dai positivisti, si avvicina successivamente al Kantismo; in
particolare accoglierà, anche se con alcune riserve, molte delle posizioni
assunte dal cosiddetto Neokantismo, il movimento di pensiero che ha come
obiettivo la ri-valutazione piena del filosofo di Konisberg riadattando i
contenuti del suo pensiero ad esigenze e problematiche tipiche della
contemporaneità. Vede in Kant il più grande filosofo della modernità, colui che
meglio di qualsiasi altro pensatore ha saputo cogliere il vero senso
dell'autonomia della morale, svincolando per sempre l'etica dai saperi di
natura conoscitiva (aletica, pura, o giudicativa), i quali, proprio in quanto
si rivolgono all'ambito del fenomeno, non riescono a coglier interamente tutto
ciò che ha a che fare con la sfera dei valori (come per esempio la scienza e in
generale l'ambito teoretico). L'indipendenza e l'indeducibilità del valore
morale da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e
affermata, nella forma più esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Kant ha
il grande merito di consegnare alla morale uno speciale statuto di autonomia e di
indipendenza. La morale esprime questo suo carattere di autonomia e di “auto-assiomaticità”
per poter continuare ad essere coerente e allo stesso tempo attendibile sotto
il profilo puramente teorico. Abbracciare l'idea di autonomia della morale
significa accettare una visione anti-fondazionalista dell'etica. L’etica non
può prendere le mosse che da se stessa. Ogni tentativo di fondare l’etica su
ambiti del sapere diversi da quello morale, finisce con il configurarsi come
un'indebita pretesa di intromissione da parte di chi si illude di derivare un
contenuto del valore morale da una premessa fattuale o metafisica o estetica.
Alla base di un sistema coerente del valore morale, cioè un sistema morale
costruito deduttivamente, deve esserci un postulato originario (assioma o
imperative categorico) di natura etica e non di natura aletica o peggio ancora
metafisica, e questo per questioni eminentemente logico-analitiche, che
impongono ad ogni sistema coerente di evitare la fallacia logica della petitio
principii, cioè l'errore di voler caparbiamente dimostrare ciò che invece
abbiamo già implicitamente accettato nelle premesse. Una volta
riconosciuto il contenuto di quel postulato morale e pensato come un valore che
può essere vissuto ed accettato da un soggetto agente e concreto, allora si
creano i presupposti di base perché una coscienza riconosca in esso
un'intrinseca validità, che trova una sua precisa giustificazione solo a
partire dalla sua intima natura assiologica. È proprio questo suo riferimento
al contenuto del valore morale che lo costringe a rivedere i limiti di una
filosofia morale incardinata su binari formalistici e a non accettare tout
court la filosofia morale di Kant. L'ambito della giustificazione e
l'ambito esecutivo. Assumere come principi della ricerca etica l'autonomia,
l'antifondazionalismo, l'antiformalismo porta J. a distinguere l'ambito della
giustificazione, cioè il momento riflessivo che ci vede impegla ricerca di
ragioni che possano difendere razionalmente la scelta di un fine e di un valore
morale, dall'ambito esecutivo che invece coinvolge il momento motivazionale
dell'azione ed è fortemente condizionato da elementi contingenti legati al
momento storico, inter-soggetivo, e culturale nel quale il soggeto si trova ad
agire. Con un atteggiamento tipicamente moderno difende la possibilità
dell'esistenza di una pluralità di fini morali sia sul piano teorico che
pratico, e con la stessa energia cerca di trovare una soluzione per definire le
precondizioni teoriche che rendano possibile una compatibilità tra i diversi
valori. La modernità define un passaggio epocale e pieno di tensione nel
campo della filosofia morale ed ha segnato il tramonto di un'unica, grande e
coerente visione dell'etica. Con l'avvento dell'epoca moderna si è fatta strada
l'idea del tutto legittima dell'accettazione di differenti sistemi di valori e
di diverse visioni del mondo, i quali trovano, da questo momento, una loro
precisa dignità e legittimità in virtù delle ragioni che le diverse dottrine
filosofiche hanno saputo elaborare in favore della loro sostenibilità. Invita a
prendere coscienza di questo cambiamento di prospettiva e a considerarlo,
asetticamente, come un passaggio dal vecchio problema della morale, in cui il
fine principale era la ricerca di una fondazione dell'etica e di una
giustificazione dell'esigenza del bisogno di moralità all'interno di ogni
coscienza, al nuovo problema della morale riassumibile nella domanda; come
possiamo decidere i beni e i valori desiderabili in sé una volta che abbiamo
accertato l'esistenza di una pluralità dei postulati di valutazione
morale? La scelta del fine supremo e i limiti del razionalismo etico
Juvalta vede nel momento della determinazione della scelta del fine supremo, il
cui contenuto costituisce la base per il postulato di valore primario, il
principale limite del razionalismo etico. La razionalità può solamente
giustificare, cioè portare ragionamenti a favore di una tesi, o stabilire
relazioni e deduzioni tra elementi di un sistema, in questo caso valori, che
sono legati dalla loro stessa natura; ma essa non può imporre i fini. La razionalità
accetta, per così dire, il giudizio di valore morale come un dato, ma non lo
può stabilire lei in via preliminare perché nel campo etico la razionalità non
riesce a cogliere interamente la natura dei nostri giudizi di valore. La ragione
dei mezzi per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige la coerenza;
teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano;
pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le valutazioni direttamente o
postulate, e delle azioni con le valutazioni. Le valutazioni sono, come
espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide di per sé. I valori ultimi di libertà e giustizia
Tuttavia il messaggio di Juvalta contiene anche un aspetto propositivo, non
secondario. Anche se esiste una pluralità di valori che la coscienza può
scegliere come fini, i quali si costituiscono come le linee guida della nostra
condotta individuale, una volta adottato il criterio razionale di ‘universalizzazione’
del valore è possibile intuire che le scelte si riducono rispetto a quelle che
la ragione può immaginare come possibili e, soprattutto, viene meno la completa
arbitrarietà della scelta originaria. E convinto che due valori su tutti
debbano essere visti come i fini supremi su cui improntare la nostra
vita e organizzare le nostre società, vale a dire, primo, il valore morale
della libertà; secondo il valore morale della giustizia. Libertà e giustizia
costituiscono le pre-condizioni della vita morale e gli unici due valori
morali, tra quelli possibili, che risultano universalizzabili. Essi sono le
sole precondizioni che permettono ad ogni essere umano di realizzare il proprio
fine e di raggiungere i propri beni o valori, in vista di una totale e piena
realizzazione della natura umana, senza limitare la ricerca della moralità dell’altro.
Libertà e giustizia rappresentano per così dire i cardini di ogni sistema
morale con i quali poter impostare se non un vero e proprio ripensamento di
ogni pratica umana almeno una profonda critica ai modelli di società dominanti
quali l'individualismo liberale, l'autoritarismo o la proposta
socialista. La libertà esprime l'esigenza delle condizioni inter-soggettive
necessarie a fare dell'uomo una persona padrona di sé di fronte a sé e di
fronte ad ogni altro. La giustizia esprime l'esigenza delle condizioni
inter-soggetive necessarie all'esercizio universalmente efficace di questa
libertà. Non fu un pensatore sistematico e non cercò mai di definire un sistema
filosofico che rendesse ragione dell'organicità del suo pensiero. E sostanzialmente
contrario a ingabbiare la riflessione filosofica in grandi narrazioni o in
arbitrari sistemi, dal momento che era fermamente convinto che il pensiero
soprattutto etico sfuggisse per così dire all'idea di sistematicità e
organicità che aveva così profondamente caratterizzato la maggior parte del
lavoro filosofico ottocentesco. D'altra
parte questo non significa che non esiste un'evoluzione all'interno della sua
riflessione, o che la sua proposta nel campo della filosofia morale non trovi
una sua coerenza e una struttura di fondo ben definita. Saggi: “I due limiti
del razionalismo etico: liberta e giustizia” (Einuadi, Torino). Contiene:“
Prolegomeni a una morale distinta dalla filosofia” (Bizzoni, Pavia); Le dottrine
delle due etiche, Rivista filosofica; Per una scienza normativa morale, Rivista
filosofica; Il fondamento intrinseco del diritto; Su i limiti della morale, Bocca,
Torino; Il metodo dell'ECONOMIA pura nell'etica, Rivista filosofica; Postulati
etici e postulati metafisici, Rivista di filosofia; Postulati etici e
imperativo categorico, Atti congresso di filosofia, Bologna, Formiggini, Genova;
Sula pluralità dei postulati di valutazione morale, Atti del congresso della
società filosofica, Genova, Formiggini, Genova; I vecchio e il nuovo problema
della morale, Z, anichelli, Bologna; In cerca di chiarezza; Questioni di morale;
I limiti del razionalismo etico, Lattes, Torino; Il conflitto morale, Rivista
di filosofia; La dottrina morale di Spinoza, Rivista di filosofia; Basciani, L’etica
della giustizia, Desclèe, Roma; Picardi, La morale in J., Filosofia, Marzorati,
Milano; Viroli, L'etica laica, Angeli, Milano); J., «Rivista di storia della filosofia», Angeli, Milano, Dizionario Biografico degli
Italiani, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Guido Scaramellini,
Chiavennaschi nella Storia, Chiavenna, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Again, these Italians! I know that I had I
been one, I had been ‘il filosofo di Harborne’ – now Juvalta, they doubt as to
how Italian he can be seeing that he is listed in Scaramellini’s little book,
“Schiavennaschi nella storia”!” Grice: “Unlike me, Juvalta is a baron, from the
‘grigioni’ – i. e. the grey league – because of the grey wool they wore --.
‘grissone,’ as in my surname, so in a way we ARE related!” ” IL VECCHIO E IL NUOVO PROBLEMA DELLA MORALE; Su la
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL FONDAMENTO DELLA MORALE. Sula
pluralità dei postulati di valutazione morale. IL CARATTERE DEL PROBLEMA E LE
SUE FORME Se la saldezza di un giudizio dovesse giudicarsi dall'accordo delle
dottrine che cercano di stabilirne il fondamento, nessuna specie di giudizi
sarebbe piú incerta dei giudizi morali. Se così non è, se i giudizi, o almeno
alcuni, sono, nonostante l'incertezza del fondamento, riconosciuti e ac- colti
come validi incontestabilmente, può apparire legittimo il dubbio, o che il vero
fondamento non sia ancora trovato, o che non si possa trovare: cioè che il
problema sia insolubile. E in questo caso: se sia insolubile per difetto di
mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a risolverlo; o perché è un
problema mal posto, cioè nella forma con la quale si presenta, illusorio e
fittizio. Dichiarando subito che a mio credere il problema è insolubile, ed è
insolubile perché fittizio, m'è appena necessario di soggiungere che ciò non
equivale in nessun modo (come potrebbe parere a prima vista) a ritenere prive
di significato ed infeconde le indagini e le discussioni delle quali fu lie-
vito, né tanto meno ad ammettere che, rimosso il problema fittizio, nessun
problema gli sottentri, anzi non ne rampollino piú altri al luogo suo. Mostrare
come e perché un problema sia mal posto, non è altro in effetto che la
preparazione necessaria a sostituirgliene degli altri. Il problema del
fondamento è ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme
da una preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale
ha ragione; che quel che essa suggerisce o prescrive è veramente bene che la
sua autorità è legittima e deve es- sere rispettata. Ora un tal modo di porre
il problema presuppone manifestamente che su ciò che la coscienza morale
prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio sorge nasca non da incoerenza o
opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di
interpretazioni e di giudizio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda
con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè
nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale salda- mente
stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa
accettare o re- spingere i dettami della coscienza morale, secondo che si
accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno
accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a
dar ragione della loro certezza, a mostrarne la validità. Questa preoccupazione
pratica spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un
problema radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni
giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei
ragionamenti un potere; illusione che si rivela nelle forme piú svariate e
negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade, cosa notissima, che a cia-
scun sistema riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri,
che provare la sufficienza propria. Il problema fu infatti inteso in modi
diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrisponden- ti, distinte e
chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e
sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno
stesso sistema. Infatti la domanda: «Perché dobbiamo noi fare, cioè volere ciò
che la coscienza morale ci detta», che è la forma piú larga e indifferenziata
in cui il problema si esprime, suggerisce quattro te- si o tipi di soluzione
diversi. Considerare i principi e le norme morali come «verità» di cui si cerca
il fondamento in una realtà obbiettivamente data alla coscienza. Dimostrare la
bontà di ciò che la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia
da un bene o ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi
l'osservanza. Provarne l'autorità; e cercare di questa autorità il fondamento:
a) sia nella storia; b) sia in una volontà distinta dal volere personale e che
si impone ad esso. Ciascuno di questi tipi di soluzione deve essere esaminato
piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente. Sulla pluralità dei
postulati di valutazione morale. La persuasione che i principi morali, i
criteri di valutazione, le norme della condotta, non solo possano ma debbano
avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè
si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna
altra forma forse ap- pare piú chiaramente che in quella della questione, dibattuta
con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica,
e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra
parte. Perché la scienza si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva
appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria
ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente
valido; e la metafisica insisteva nel porre in evidenza la relatività, la
contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di
attingere in essa al- cuna verità necessaria ed universale, e perciò una
qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di doveri. Ora l'uno e l'altro
tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di
questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa
d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia
riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè
dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore,
smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non
negabile per la sua massiccia evidenza: che si trovano degli uomini di sincera
e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine. Né vale
l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano
delle per- sone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano
logici o siano coerenti con se stessi; os- sia se con quelle dottrine si possa
ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare. Perché una
tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto
perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una
connessione necessa- ria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non
possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto
del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di
principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico
A; se troviamo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella
coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le
menti che non connettono a con A invece di riconosce- re semplicemente l'altra
alternativa: che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è
nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A? Appunto perché, se si
ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con principi teorici
diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né sull'altro, cioè
che la fon- dazione teorica è illusoria. Insomma il ragionamento si riduce a un
procedimento di questo genere: per dar certezza a una valutazione morale è
necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa che, o non si debba
trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se si trova, essa sia
una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica, una certezza che non
ci dovrebbe essere. Tu qui! Ma è impossibile! dice la metafisica alla morale
quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca l'empirista alla
morale del metafisico. Ed ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova,
ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in
casa propria. 1 Neppure vale a toglier peso al fatto l'osservazione che questa
possibilità di coesistenza indifferente è soltanto apparente, perché dovuta a
difetto di riflessione e di rigore logico; e sia inattendibile, perché dove si
avvera, manca la [Ma se questa fondazione extra-morale della morale è
illusoria, donde nasce l'illusione e di che si alimenta? Quando il sociologo
afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita sociale e si
fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere non è già se
veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e soltanto a
quelle; né quali siano, tra le innumerevoli leggi scoperte e che si vanno
scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si tratta
di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società, dalle
leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di
incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti
condizionali il valore del condizionato. Ora una scienza, qualunque scienza,
formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti possono bensì far attribuire un
pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di
un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un
valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto
come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha
relazione con esso. Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della
vita non bastano a darle il benché mi- nimo pregio se non si riconosce già come
bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi
non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale. Che
la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra
dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in
effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe
facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già
posto e accettato un criterio di valutazione. Pare a prima vista una
pedanteria. Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pe- na di
essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto
profondo smentire la loro negazione? Ammettiamo senza discutere, sebbene la
cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno
dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della società e
della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se
questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le
si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse
nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa
trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi
trovasse la vita un limbo in- differente possano le leggi della biologia farla
apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della so- ciologia o della biologia
o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e autorità, se
non ne avesse, alla sua voce. competenza richiesta. Un libriccino pubblicato
dal LALANDE alcuni anni fa -- Précis raisonné de Morale pratique, Alcan -- si
distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre accennare ad
altri pregi) per questa circostan- za caratteristica: che il catechismo morale
che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e aveva raccolto il
consenso esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di credenze e di
opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza dei «competenti» veniva in
questa occasione a confermare quello che è un luogo comune della storia delle
dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul contenuto delle norme
morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accor- do, quanto
all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti quali che
siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo in
proposito convinzioni di sorta» (VARISCO, Massimi e problemi, Metafisica e
morale. E Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una
Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si
vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si
tratta del valore. Quanto poi alla Metafisica definitiva si chiede: a che
stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette
già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè,
dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica? Neanche è
da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio
incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio
dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare,
ogni difficoltà di questo genere sia allontanata. Quel che non può dare
una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto
di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà
«intelligibi- le» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata
o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori. Quando
Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere
è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose,
e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e
deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro
volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto
di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine
dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La
sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è
già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in
quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non
implica nessun apprezzamento. Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in
quanto è speculativa non è stima. La cosa appare anche piú manifesta se si bada
che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un
ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto
esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore, in
qualunque entità esso sia riconosciuto, non l'esistenza delle cose; e la realtà
è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci
presenta realizzati. Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile
dall'altro appare manifesto dalla ne- cessità di assumere, secondo la profonda
e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei
due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esisten-
za e del valore. Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con
un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la
finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà. Ed eccoci alla
sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale
dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o
induzione o verità teore- tica, sia scientifica, sia metafisica. Una realtà
data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera
co- me una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con
il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal
giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o la connessione
modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è
tutt'altra cosa dal valutarle3. Per interpretare le leggi naturali come leggi
morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una
forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo
passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione,
si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e
sot- tintesa. Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del
Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale
fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della
«concezione immaginaria di un ideale -- La morale et la scienze des mœurs. Questa
conquista metodica della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti
— se non da un idea- le, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa
che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il criterio di questo
meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle
parole citate, non bisogna di- sperare di portarvi? Questo criterio non può
essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di
nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era
dipartita». Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da
vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata,
sorretta, guidata, controllata da un interesse, l'interesse teorico, e come
tale sia, anzi è senz'altro, un valore intellettuale: ma ciò non muta d'un ette
la distinzione notata. Sulla pluralità dei postulati di valutazione
morale. Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di
oggetti e di fatti come so- no, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli;
o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili
o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non
piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e
del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di
valutazione che essa non trova nelle cose se non perché ve l'ha già posto, e
ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teori- co,
ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi
del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta
non soltanto la molla che spinge a ricercare e a trovare le distinzioni tra gli
oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti. Ora, quando si
intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi
di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi
parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli
uni dagli altri, di pretendere che un giudizio di ciò che è, possa servir di
fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, ap- parirà piú
manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso
e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità. E con ciò
si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e
scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza. In breve e trascurando
le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive: La realtà si può
interpretare come sistema di forze e come sistema di valori. Se si interpreta
come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, cono-
scitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni
valutazione; sia essa co- struzione scientifica, sia metafisica, empirica o a
priori, monistica, dualistica o pluralistica. Se queste forze si giudicano cioè
si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o
un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della
realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della provvidenza
diventano il modello o il cri- terio del giudicare morale; e il fondamento
della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa
come scienza o come metafisica. Ma perché quelle forze siano apprezzate come
valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e
perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il
processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già
dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla
conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo
il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento
della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della
realtà quell'anima di be- ne che crede di estrarne come suo principio e
fondamento. Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione
metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco.
La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni
interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava
piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti
obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva trovare
nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la propria
incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la moralità
come un prodotto na- turale o un risultato meccanico di un giuoco di forze per
sé spoglio di ogni finalità. Onde la tenden- Senza volontà di conoscere non ci
sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui lasciar di discu-
tere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come sono cioè come
appaiono a chi non è mosso da altro inte- resse che quello del conoscere; e il
valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in conformità
all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del conoscere,
cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e via dicendo.
Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il fresco quei
che vi passano l'estate. za costante dell'«etica scientifica» a identificare il
problema nel fondamento col problema dell'ori- gine, la valutazione con la
spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità come criterio di
moralità. E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro
l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú
sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria
costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a
considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio.
Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi nel
senso piú bello della parola, ingenua, di derivazione dei valori da una realtà,
è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a
una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto
dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso
Kant si è venuto via via trasfigurando. Non si tratta piú di trovare nella
conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono vere, poiché le
valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide
per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una
conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe
condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento
del valore, ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si
aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la
vita abbiano un si- gnificato morale, se l'anima dell'universo guardi al
medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano
fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni co- scienza
riprende faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in
ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande. Ma l'atteggiamento è
diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella riflessio- ne
consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di
realtà. Nella filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche
nel processo riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore. Il momento che
nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della
assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella
filosofia dei valori diventa chiaro e consapevole e si allarga nel tentativo di
tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un
sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato
iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o metafisica,
progressiva o regressiva, ascendente o discendente: la certezza diretta e
intuitiva dei valori morali. Illusione poco meno antica accompagnata da sforzi
parimenti tenaci, e forse piú multiformi di tradurla in dottrina rigorosa, è
quella di credere che si possa ricavare la valutazione morale da qualche bene
indiscutibilmente supremo, del quale essa esprima le esigenze e formuli le
condizioni necessarie. Questo sommo bene, questo fine supremo, questo valore,
sorgente prima, termine ultimo di tutti i valori si credette di trovare: o in
un dato della coscienza empirica, un fine inerente alla vita e subordinante di
fatto tutte le tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che
domina ben- sì, ma trascende la vita e la natura umana, e subordina di diritto
ogni altra forma di bene e ogni cri- terio di valutazione. Alle due diverse
concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine morali, dei
quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine sulla
fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la corrispondenza non
è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa di derivare la
valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone all'intelletto;
qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si suppone che debba
essere ammesso inconte- stabilmente come supremo o massimo, o almeno superiore
ad ogni altro. Ora l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore
morale non è morale se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta
la superiorità, la preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale
consiste (con ciò non si escludono gli altri caratteri) in questa sua
supremazia. Perciò ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo
giustifichi, si riduce all'uno od al- l'altro termine di questa alternativa: o
di ammettere che questo bene è già esso stesso il valore mora- le che si crede
di derivarne, o di mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche
per altri rispetti; cioè sarebbe un valore di altro genere anche se non fosse
valore morale. I tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo fine: la
felicità, o il piacere. riescono di solito quando e nella misura che possono a
quest'ultimo risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino,
l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre
quel che credono di derivare. Dell'utilitarismo in generale e delle sue diverse
forme sarebbe fastidioso, e non è qui neces- sario, ripetere per la centesima
volta le critiche note. Basta mettere in chiaro quel che meno fu notato e che
piú importa al nostro scopo: cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le
incongruenze dei tentativi, ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le
norme morali al criterio dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il
contenuto delle norme morali e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la
ragione per la quale la derivazione è impossibile; o, quando appare possibile,
dissimula in realtà una petizione di principio. Supponiamo pure che si
ammettano cose troppo manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un
nome vago, un recipiente vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito e
che non è sempre neppure per la stessa persona il medesimo ma abbia un
contenuto determinato (poniamo l'acquisto o il possesso di certi beni: salute,
amore, potenza, gloria, simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria
co- scienza; e che tra questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed
armonia); e che si possa dimo- strare davvero, e non per salti o per ripieghi,
che il nodo non pure piú sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile
per raggiungerla, sia l'osservanza costante delle norme morali. Con ciò non si
sarebbe dimostrato che ciò che fa il valore morale delle norme consiste nella
loro utilità come guida della felicità; ma soltanto che i valori morali sono
anche valori eudemono- logici; che il contenuto della valutazione morale e
quello della valutazione utilitaria coincidono; non mai che il valor morale di
un'azione consista nel suo esser mezzo alla felicità. Resta fuor di questione
s'intende e deve esser quasi superfluo avvertirlo la considerazione
dell'efficacia pratica o esecutiva; se sia o no piú persuasiva o piú impulsiva
l'una o l'altra valutazio- ne. Si può anche ammettere, senza soverchio sforzo
immaginativo, che sia per lo piú la edonistica; ma ciò non prova affatto che
questa si confonda o si identifichi con la valutazione morale, o valga a
sostituirla. Dimostrare a un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo
piú sicuro di far carriera, potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a
promuovere l'imparzialità. Ma nessuno sognerà di far consistere l'onestà del
giudice nel suo desiderio di far carriera. Ma in realtà, come tutti sanno, il
contenuto della felicità non è determinato, né determinabile se non ad
arbitrio; e solo significato comune e costante del termine finisce per essere
quello di ap- pagamento dei desideri, di soddisfazione, di piacere, o di
liberazione dal dolore, che si pensa dover- si trovare nel raggiungimento di
ogni fine. E la diversità persiste e risorge nella molteplicità varia e
contrastante dei desideri e dei pia- ceri, e non basta raccoglierli sotto uno
stesso nome per ridurli a unità e farne un unico fine. Perché se l'unità ci
deve essere davvero, allora è necessaria o una riduzione o una gradazione e
subordinazione; e questa spunta infatti nella storia dell'utilitarismo con il
criterio della qualità so- vrapposto e in effetto sostituito dal Mill a quello
della quantità. E allora si capisce come possa avvenire che il criterio della
felicità finisca per accordarsi con quello della valutazione morale; se le
soddisfazioni migliori sono le soddisfazioni morali, e il bene piú desiderabile
l'appagamento della coscienza morale, l'accordo tra i due criteri quanto al
contenu- to è, non solo possibile, ma necessario. Ma è troppo facile vedere a
quale patto è raggiunto. Il valore di quella felicità alla cui stregua si
pretende di giudicare il valore morale è assunto come supremo perché e in
quanto contiene questo valore morale ed è graduato esso stesso secondo un
criterio mo- rale; approva e disapprova in nome della felicità quel che trova
approvato e disapprovato in nome della coscienza morale. Viene in mente il
modo, col quale un marito sincero si vantava di aver risolto il problema di una
pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano dello stesso avviso era la
moglie che se- guiva il parere del marito, dove erano di avviso contrario era
il marito che faceva la volontà della moglie. Adunque, anche ridotta a questa
forma, la felicità non fornisce il criterio della valutazione morale se non in
quanto è foggiata essa stessa su un criterio morale; e quel che pretende di
aggiun- gervi come giustificazione, non è ciò che costituisce il valore morale,
ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto ad esso (giusta la veduta di
Aristotele) sebbene lo accompagni; è una valutazione secondaria, edonistica od
egotistica (non oserei dire egoistica) del valore morale. Porre come bene
supremo la santità (il divino in quanto è sentito e voluto come modello o norma
della vita si determina in un ideale di santità) è derivare il valore morale
dal valore religioso, concepito come principio e termine di ogni valore, e del
quale esso valor morale è un elemento; o Ne ho parlato altrove (La dottrina
delle due etiche di Spencer e la morale come scienza) e non occorre insistervi
qui. 5 Sebbene il parlare della soddisfazione della propria coscienza come di
un bene desiderabilissimo sia legitti- mo, non è legittimo, né conforme alla
verità psicologica, considerarlo come il fine della condotta morale. Il fine è
l'attuazione di quel valore che la coscienza riconosce come morale; e non è
l'altezza della soddisfazio- ne che se ne possa attendere, che costituisce il
pregio dell'azione, ma è il pregio dell'azione che misura l'altezza della
soddisfazione; la quale è pura soltanto a patto che non se ne faccia lo scopo
dell'operare. Su la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio
Juvalta meglio, l'attuazione di questo è voluta come una condizione, o un
momento dell'attuazione, di quello. E qui giova premettere due osservazioni non
peregrine ma utili alla chiarezza. Che questo valore supremo del divino, della
santità e, in termini piú generali, il valo- re religioso non può essere
dimostrato o insegnato con lo stesso processo conoscitivo, con il quale si
dimostrano, si insegnano e si comunicano delle proposizioni o verità
teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i dogmi stessi delle
dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice con frase piú
suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro ed efficace
l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive. Fondare la
valutazione morale sui valori religiosi è dunque presupporre che siano sentiti
e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori religiosi da cui si
fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non siano sentiti e
vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può crearli6 o sostituirli.
Che, per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun ragionamento basta a
spogliare, nell'anima di un mistico, i valori morali da quel sentimento del
divino, a svestirli di quell'alone reli- gioso del quale egli investe non solo
questi ma anche gli altri valori spirituali; come sarebbe diffici- le nella
intuizione e nel sentimento di un esteta di sottrarre i valori morali e i
valori religiosi a una valutazione estetica. Come accade sempre dove un grande
interesse spirituale predomina sugli altri, cioè dove una categoria di valori
occupa, per dir cosí, il centro della coscienza, e raccoglie ad unità, come
attorno ad un nucleo, i valori di altre specie; che è quel che suole piú
comunemente e nor- malmente avvenire per i valori morali. Ma fatta (come dicono
i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna valutazione morale si
potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se non vi sia già
esplicitamente o im- plicitamente contenuta; cioè se non a patto che si sia
incorporata nel valore religioso una valutazio- ne morale la cui validità
sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed è la ragione per la
quale viene assunta nel valore religioso. Non è necessario, a persuadersene, di
discutere il problema formidabile della essenza del va- lore religioso. Se si
accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della religione è la
credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene, soprattutto dei
valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re ipsa,
riconosciute. In effetto quali si possano essere le reazioni di tale credenza
sulle valutazioni, resta pur sem- pre che non è l'esigenza della conservazione
quella che dà ai valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il
loro valere come morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già
det- to altrove7, e non occorre del resto insistervi. Se invece si ammette,
come io credo, che la natura specifica, la «forma» del valore religioso non sia
riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e caratteristico del
sentimento e della valu- tazione religiosa il riferimento del nostro pensare,
del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro essere, ad un
altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne penetrati e
posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso, l'abbandono di
sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore religioso è per
sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in questo, neppure lo
pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare all'anima religiosa
che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la ragione sta in ciò,
come si è accennato: che al mi- 6 È appena superfluo aggiungere che non penso
neppur per sogno di negare una possibile efficacia all'insegna- mento religioso
in quanto esso, come ogni insegnamento, non è mai (salvo forse agli occhi di
chi lo misura col tassame- tro) pura comunicazione di notizie o di idee, ma è
vigore di convinzione, calore di affetti, opera di formazione; insom- ma,
educazione. Ma anche l'educazione suppone le condizioni dell'educabilità. E si
suppone poi sempre che chi legge faccia uso del consueto grano di sale. 7 Cfr.
Postulati etici e postulati metafisici.] stico riesce impossibile di concepire
altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e soprattutto mo- ralmente,
l'Essere che adora, e nel quale vede non un bene, ma ogni bene, il Bene. Ma la
perfezione che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che
trova realizza- to in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione
morale la cui validità è accettata e ri- conosciuta all'infuori
dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi non è quella perfe-
zione morale che lo fa degno di adorazione? Un mistico a cui si domandasse se
concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo adora per- ché è perfetto,
forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la domanda scompone quel che è
per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che la devozione e la adorazione
non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò che è adorato; e nessuna
coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se non li conoscesse già come
valori, e non li distinguesse come morali dai valori di altro genere. Questa
priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé, questa
selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle discussioni
sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú consueto e piú
decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica manife- stamente
che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per sé. E il prevalere
sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie di indole
religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la validità
del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e
riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa. Quanto
all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene
ambi- gua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia
possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se
non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non
è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una sicura conformità
della condotta alle valutazioni morali, se la valutazione morale non è
sorretta, conforta- ta, fatta praticamente efficace dalla connessione dei
valori morali con una finalità religiosa; cioè dal considerare i valori morali
come preparazione e condizione necessaria di quel fine; e quindi i pre- cetti
morali come precetti religiosi. Che è tutt'altra cosa; importantissima dal
punto di vista propriamente pratico o esecutivo, ma estranea alla questione
presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel che si è accennato sopra
della possibile importanza pratica di una valutazione edonistica. Dire che
l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine dell'olmo, e
nep- pure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero che, dove la
vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo anche a chi
ami soltanto la vite. Quel che si è detto dei tentativi di una fondazione
edonistica e di una fondazione religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro
tipo di morale di cui si pretenda di trovare il fondamento in un inte- resse
diverso dall'interesse propriamente e specificamente etico (notevolissima fra
le altre la morale estetica), e dalle forme miste e intermedie; le quali, se
sono dottrinalmente fiacche e spesso incoe- renti, hanno però in realtà largo
consenso nelle credenze e nelle opinioni piú comuni. Di queste ultime meritano
di essere ricordate, perché piú significative, le due forme, nelle quali si
mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra brevemente
analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista i piú
lontani e l'uno all'altro opposti. Si può avere cosí una interpretazione
edonistica della valutazione religiosa (esempio l'utilita- rismo teologico) e
un'interpretazione religiosa della valutazione utilitaria (altruismo comtiano,
mi- sticismo umanitario). Da quanto si è discorso pare si debba concludere che
queste indagini (spesso nei particolari ingegnosissime e suggestive) nelle
quali si cerca la ragione del valore morale nella sua connessione 15 Su
la pluralità dei postulati di valutazione morale Erminio Juvalta o congruenza
con altri valori, abbiano importanza solamente nel rispetto strettamente
pratico o ese- cutivo; in altre parole una importanza parenetica o pedagogica,
in quanto una tale connessione con- forta, sorregge o surroga con motivi di
altra natura e sgorganti da interessi diversi il motivo specifi- camente
morale. Sarebbero dunque analisi ed indagini preziose per l'educatore e per
l'uomo politico (dato che si propongano fini morali), ma senza interesse per lo
scopo a cui mirano, di costituire il fondamento o la giustificazione dei valori
morali, perché radicalmente viziate dal falso supposto che la ragione della
supremazia dei valori morali si possa cercare in qualchecosa che non abbia già
essa per sé valore morale. Ma questa conclusione sarebbe precipitata e
eccessiva. Intanto è fuor di questione che, no- nostante il carattere di
artificiosità che si trova piú o meno largamente diffuso nelle costruzioni di
questo genere, come nei sonetti a rime obbligate, vi è in tutte una parte
notevole di verità; verità s'intende non in quel che credono di dimostrare, ma
nei rapporti e nelle concordanze e nelle diffe- renze rilevate, e che
dovrebbero servire alla dimostrazione. Questa parte di verità ha radice nel
fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia bisogno di illustrarlo, e già
sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che non vi è giudizio sul valore
morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione, del quale non si possa trovare
la ragione, oltreché nella forma speciale di interesse o di esigenza che gli dà
questo carattere specifico di valore morale, anche in un interesse diretto o
indiretto d'altra natura: non vi è bene morale che non sia bene anche per altri
rispetti; come d'altra parte non vi è bene di altro genere che non sia o non
possa diventare, diretta- mente o indirettamente, un bene morale. I valori
delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra loro in
mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e analogamente
si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è visto, il suo
coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di condizionalità
costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o anche con piú
altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna sottigliezza di
logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si sia già posto o
insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra valori che non
siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra le idee degli
altri con la speranza di trovarvi le proprie. Ma è pur vero che sussistono
altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e ciò che è og- getto di
valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere apprezzato dal punto di
vista dell'inte- resse conoscitivo od artistico o economico; e, per converso,
ciò che è oggetto di valutazione edoni- stica o estetica o d'altro genere, la
ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere valutato anche come bene di ordine
morale. Ora: È possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri
valori e di questi fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della
loro graduazione e subordinazione? Vi è, per rispetto alla natura delle
relazioni o connessioni tra valori di diversa specie, qual- che differenza
caratteristica che distingue i valori morali dai valori non morali anche per il
contenu- to? E vi è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o
strumentali con valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto
al contenuto, gli stessi valori morali fra di loro? E non potrebbe questa
considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti tra valu-
tazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo carattere
di valutazioni mora- li? Cosí, dietro i tentativi illusori di cercare fuori e
al di là dei valori morali il fondamento della valutazione morale e la ragione
decisiva che ne giustifichi la supremazia, restano i problemi: della
valutazione indiretta o rivalutazione condizionale o strumentale, di una
graduazione delle diverse categorie di valori; e della possibilità della loro
conciliazione. Della quale, la conciliazione tra virtù e felicità non è che un
aspetto particolare, e forse non il piú importante. Il carattere di
autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi
approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una
sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si
traduce, tendono a far derivare questi caratteri, e, quando siano considerati
essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta
dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera. Il
fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione,
consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno
contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere
individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o
decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale.
L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra
minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o
nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano. a)
Della storia. L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e
apparato e significazione di- versi, secondoché si credette di fondare
l'autorità della valutazione in un processo genetico di evo- luzione selettiva
operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo
storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura,
degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione
logica di un pensiero riflesso rintracciato nella succes- sione storica delle
dottrine e dei sistemi. La prima delle forme accennate che si connette alla
dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento
dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale
sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che
non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della
dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare
quella superiorità e quella autorità dei sentimen- ti e delle norme di condotta
morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione progressiva
che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione.
Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che
regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei
sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la
validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il
prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci
fa riconoscere il valore). Ed è troppo chiaro che non è perché il progresso del
senso giuridico ha portato all'aboli- zione della tortura che noi condanniamo
la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvi- siamo nella sua
abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto. Ché se si obbietta
derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispon-
denza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei
quali esprimono le esigen- ze, si dimentica che all'infuori di un criterio,
quale esso sia, di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi
derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamen-
te, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso. Tanto ciò è vero, che
il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu
condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico
dell'adattamento pro- gressivo a un tipo di vita completa — il criterio
edonistico di un piacere puro corrispondente all'a- dattamento completo. Se a
una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non
attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la
coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme
le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età
e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che
l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti
e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i
fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue
conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria,
piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore,
direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei
valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori).
Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a
qualche unci- no di verità) fatta alla storia: Hic liber est in quo quaerit sua
dogmata quisque; e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una
induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è
che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo
conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia
ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è
essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle
idealità che segnano la meta. Questa valutazione è irreducibile alla storicità;
ed è anzi dalla storia — in quanto voglia es- sere giudizio comparativo di
valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto
che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di
valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione
dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice
progresso morale. E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a
quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi
è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno
sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal
punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che
oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani. La storia è
conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, di-
ciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo
l'altra. Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero
riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la
continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è,
nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepi- re la realtà
perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come
siano possibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e
dialettico delle dottrine riguarda so- prattutto, se non esclusivamente, i
problemi che nascono da questo problema centrale; le forme di- verse sotto le
quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di
superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi. Ma
la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da
questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente
coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando
una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla
riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di
sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una
concezione unitaria della realtà che ne ac- colga le postulazioni, sarebbe fuor
di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valu- tazioni,
dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le
indagini. È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si
annoda e si intreccia l'anali- si e l'indagine di indole propriamente etica,
sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la
fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di
contrasto tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse,
svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità
alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro
genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di
importanza capita- le per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei
criteri di valutazione e per tentarne la uni- ficazione in una dottrina etica
strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si
svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza
morale; assume co- me validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono
gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata
la consistenza della costruzione. E vi può essere finalmente nei sistemi
morali, e certamente si trova nei piú grandi e signifi- cativi, un filone piú o
meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o
sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale
comune, e segnano la crea- zione di nuovi valori e aprono la visione di una
regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale
di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma
questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o
soprattutto, orientamento diver- so di valori, nessuno vorrà considerare come
il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme:
anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si
accompagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione
ostinata. Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché
novità di intuizioni mo- rali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati
estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto
che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di en- tusiasmo
morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando
secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali. Cosí anche questa
affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale
concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la
conclusione di u- n'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un
irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non
li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea. b) Il fondamento
cercato in una volontà. La forma di precetto imperativo nella quale si traduce
l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità
come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbedienza a un'autorità inconcussa
e indiscutibile. A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a
cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si
esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o
trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali espri-
mono i comandi. L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel
potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti.
Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal
trasportare un me- desimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi,
o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo
psicologico complesso. Quando si parla del dovere, come di una caratteristica
della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere
non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valu- tazione. È forse
superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non
di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del
sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e dedu-
zione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica
applicata prende a prestito dalla conoscenza scienti- fica le premesse minori
dei suoi sillogismi valutativi. La valutazione morale precede, nell'ordine
delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se
nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di
quella. E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po'
attenta. La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o
proprietà, cioè modi possi- bili di essere o di agire, tra i quali non vi è
gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realiz- zarsi l'uno senza che
sia tolto l'altro. Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non
valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come
valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigrizia. Il
valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due
soli atteggia- menti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza
decisiva, i valori morali, a differenza de- gli altri valori, non possono
attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la
volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono,
anzi consiste nel- l'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è
possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione,
la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un
termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare
l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà
nell'atto di realizzarlo. Ancora: gli altri valori soffrono di essere
commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro
qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro
riconoscimento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza
essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati
a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di
essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della
volontà. Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si
rivela come dato, esige- re, se è concepito solo come possibile o potenziale,
l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante,
cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non
si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e
che sia posto con- tro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di
quella stessa volontà il cui atteggiamento posi- tivo è un'esigenza implicita
nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente po- stulato
nella valutazione. Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la
sincerità, si sia lasciato trascor- rere a una menzogna, l'atto presente e
momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio
volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento
della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa
di essere sentito e ri- conosciuto come morale, cioè come valore che esige per
essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9. Ora il dovere, in
quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e
non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui
si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si
manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle
volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in
contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia
attualmente que- sto conflitto, in quanto è presente alla coscienza la
possibilità di impulsi contrastanti. Di qui nasce la tendenza incoercibile,
manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che
esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il vero
volere col volere morale; e a con- siderare gli atti immorali come prodotti non
dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa;
non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù. Da
quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora
chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione
morale. I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non
sono, non vi può essere do- vere. E non avrebbe senso parlare di un dovere di
riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni
valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro
valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú
di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e
che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi
non li sentisse se non in forma di rumori. E quando si dice, poniamo, che un
uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradi- mento, il «deve» o
non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale. Non
ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol
affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire
che per essere uomini bisogna sen- tire cosí, che non si può chiamar uomo o che
non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che
al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché
significa non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un
altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se
fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo. Ma dunque i «sordi morali», se
ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire
l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno,
di at- tuare dei valori che non riconoscono come tali. Ma hanno tuttavia e possono avere degli
obblighi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori
morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente,
cioè suscettivi di esser presentati come motivi ap- prezzabili anche da una
coscienza non morale. È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con
grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine
sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non
bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne
ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica
necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere
individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità
a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza
di quelle norme. Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato
morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come
le pene del codice per i galantuomini di princi- sbecco. E anche qui occorre un
po' di pazienza. Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta
nella valutazione stessa e per la qua- le il valore morale si fa sentire come
norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle
singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si
accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezza, data nell'esperienza
e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione normale — della
possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo)
della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale. Il
volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono
a contrastar- ne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di
questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi,
sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone
per tal modo il valore. Questa disposizione di spirito fa che si approvi
l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che
esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando
manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione
dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone. In questa disposizione per la
quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e voluti come
garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in
nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che dà all'obbligo
valore morale, e lo distingue dal- l'obbligo sentito come pura costrizione
esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla for- za che si deve
subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si
consideri limita- to a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia
coincidere collo stesso valore morale e si iden- tifichi con esso. Ma cosí
nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al
Potere ob- bligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta
moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale.
Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo.
Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono
non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e
della sanzione, come valori strumentali di altri valori, co- me condizione
imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e
apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità
esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li
accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è
surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non
può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un
interesse diverso. Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne
segue. Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non
smentire, con la volizio- ne attuale, la preferenza, la opzione che si afferma,
come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui,
nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimo- lo e
causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è
scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente
di valore all'una, e di disvalore all'altra. Se si separa la volontà come causa
delle volizioni attuali e contingenti, come potere di ese- cuzione, dalla
volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta
come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del
volere esecutivo al volere le- gislativo, del volere a cui spetta attuare i
valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li
ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali. Ora, quando la incertezza,
l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e
di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza
morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non
soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore
morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi,
viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme
all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in
parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che
tende all'attuazione dei valori morali. Se quel Potere è pensato senza limiti e
attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma
si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il
potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua
la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà
pensata non solo come un potere che im- pone, ma come Autorità che merita,
un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'u- nica sorgente
cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazio-
ne morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il
criterio stesso della valutazione. Ma lasciando ogni questione sulla
legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla
possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre
inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la
valutazione, che giustifica il comando, che dà autorità al potere, che
suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere
legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il
postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è
sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato. Cosí se il
teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la
Provviden- za dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una
valutazione diversa, ma sosti- tuisce e sovrappone alla «veduta corta d'una
spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remo- ti di quell'ordine che
a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di
quell'ordi- ne a noi appare un male. Ma appunto il criterio di questa bontà è
il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con l'esigenza
morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si accordino
con essa. Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme
principali nelle quali si presenta, e si è presentata storicamente, la dottrina
del fondamento autoritativo della morale. Se la distinzione tra il potere e
l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è vi- sto, neppure
quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia insieme
irresisti- bilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú manifesta
sussisterà nelle forme in cui l'unificazione non è posta, o l'adeguazione è
incompleta. Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore
alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la
pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della valutazione morale dalla
coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui
autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o
parziale con la coscienza della persona. Sulla prima tesi non c'è da osservare
che questo: Che essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di
rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della valutazione morale
negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il pote- re che la impone, ma che
potrebbe imporre il contrario. O non toglie se non a parole la distinzione, che
ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra
la forza e il bene. E quando il Callicle platonico condanna le leggi come
un'imposizione dei molti ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai
forti, egli deve, per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere
nel suo biasimo un criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché
serve a giudicarla, a distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligen- ti,
dei superiori, da quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che
dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque
non è piú la forza che costituisce la giustizia? E il potere illimitato del
Sovrano, al quale Hobbes riconduce ogni criterio di morale e di diritto,
esclude solo in prima istanza, cioè in apparenza, ogni valutazione diversa:
perché, come tutti sanno, l'arbitrio di questo potere è legittimato da
un'esigenza diversa; quella stessa per cui si suol riconoscere che è meglio una
legge cattiva che nessuna legge, e un governo tirannico che nessun governo. La
seconda delle vie indicate conduce a far riconoscere l'autorità morale come
propria, o della collettività concepita come aggregato dei singoli, o dello
stato come distinto e superiore alle persone: sia come organo della società ai
cui fini sono subordinati i fini individuali, sia come Volere universale al
quale devono inchinarsi le volontà particolari. Le due tesi hanno, come è noto
ed è facile capire, significato e valore diverso. Se la collettività è intesa
come semplice aggregato e somma di singoli, non si può evitare il criterio
della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un giudizio morale che non è
valido se cor- risponde alla valutazione di n-1 coscienze, diventa valido se
quell'una cambia parere. È il criterio della democrazia politica; di cui non si
discute ora il valore come criterio politico (cioè come crite- rio di
preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma del quale nessuno
riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per la stessa o
analoga ragione per cui il buon senso non è il sen- so comune, e il discorrere
concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato di cento; e
per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una legge ma non a
farne ricono- scere l'equità. Ché se l'autorità morale della valutazione
collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e perciò serve
a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui tutte le
coscienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si riconoscono
due cose: che per cia- scuna persona non
vi può essere autorità morale superiore a quella della propria coscienza; che
la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra
morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore
morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una distinzione di
valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscien-
za morale personale che la deve riconoscere. Manca dunque sempre il qualche
cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi l'autorità
della coscienza collettiva. Quando si parla di fini della società diversi dai
fini individuali, e di coscienza sociale di- stinta dalla coscienza personale,
si corre facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o, peggio ancora,
precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si
trascura di tener pre- sente che i fini della società non sono fini se non per
gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza
sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per
converso, che i fini individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o
indirettamente, fini della società; e un certo grado di distinzione e
differenziazione delle coscienze individuali è correla- tivo a un grado
corrispondente di coscienza sociale. Ciò non significa negare il fattore
sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di
individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso,
e nel- lo stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale
sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è
cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della
società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io.
Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione
presente, rie- sce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono
morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla
coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà
valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore
alla società. La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed
è valutata alla stregua del- la esigenza morale. Derivare la valutazione morale
da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è
giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre.
Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è
questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini
designati come sociali e delle istitu- zioni, delle leggi, dei tipi di società,
ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o
grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza
morale. Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú
apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un
rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo baga- glio scientifico, e
star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il
piú a- perto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e
l'ali alla certezza. L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è
di vivo e di vitale e di durevole nella fede («fede è sostanza di cose
sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel
mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da
un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità
personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta
come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far
veramente di ogni individuo umano una persona umana. Che poi quella sia la
condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per
essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso. La vieta
analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione
sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni
dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione
morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo- società acquista
coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo,
e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta
da lui come superiore a se stesso. Né concluderebbe il dire che non si tratta
in ultimo che di un «punto di vista diverso; e che, se dal punto di vista
dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista
della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali,
e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza
sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una co- scienza individuale.Più
breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú
sottile e complicata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello
stato e fa dello stato l'organo dell'Eticità. Perché in quanto la volontà dello
stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non
c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione
del Volere- potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro
della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori
morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale
che si viene attuando nella Storia. Le difficoltà che possono nascere dagli
sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di
interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di
attuazione del- lo Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono
estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello
stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere
universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza
personale e si fa valere in essa. Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il Volere
a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si trova
dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente dato o
presupposto, quel valore morale che legittima il primo e dà autorità al
secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma
sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore.
Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra
autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna
ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano
totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o esemplari di
una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di
conte- nuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali,
posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della
differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori. E in questo caso al
problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della
valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali
nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del
consenso universale coincidono con quella della co- scienza personale? E in che
cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo? È
legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso
non potreb- be né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento
interiore, ma valere soltanto rispetto alle ma- nifestazioni esteriori) dei
secondi ai primi? E del pari si trasforma il problema sul fondamento del
dovere. Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare
la condotta alla valutazione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o
concepite come distinte, tra un volere presen- te e momentaneo che si rivela
nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere
valutante o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è
dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si
identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché
sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che
ag- gregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il
dovere non sorge perché manca il termine subordinante. Il problema del dovere è
perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nascono, sia dal
concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal
concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa
la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse
nell'uomo individuo, ma come una e identica in un Potere so- prapersonale del
quale il valore morale esprime la legge nella coscienza individuale. Ogni
sforzo di derivare una valutazione morale da qualche cosa di cui non sia già
ricono- sciuto il valore morale è dunque vano o illusorio. O non dà quel che si
cerca, o presuppone quel che si pretende di fondare. In realtà i valori morali
o valgono per sé o sono tali in grazia di altri valori che valgono essi come
morali per sé. Epperò ogni ragionamento col quale si dimostri per esempio che
un'azione è buona o giusta, si risolve o nel ricondurre quell'azione a una
classe di azioni, a un modo di operare già riconosciuto come morale, o nel
dimostrare che questa azione fu od è voluta come condizione o mezzo di
attuazione di un valore morale. I valori morali diretti e immediati, apprezzati
e voluti per sé, sono dunque dati di una espe- rienza morale non riducibile ad
altre forme di esperienza e i giudizi nei quali questa validità diretta e
immediata è ammessa o riconosciuta, sono postulati di valutazione morale
(postulati etici in proprio senso). E una dottrina morale in quanto è sistema
di valutazioni si fonda in ultimo sui postulati etici, espressi o sottintesi,
di cui si assume che sia ammessa la validità: cioè che siano dati immediati
del- la coscienza morale. Quando sia chiaramente riconosciuta questa
indipendenza, questa validità per sé o autoassia dei postulati etici, le
costruzioni dottrinali rivolte a cercare fuori della morale un fondamento che
essa né può trovare né ha bisogno di cercare altrove, prendono un carattere e
un significato diverso se non opposto; e forse considerate da questo aspetto
rivelano meglio la tendenza profonda che muove e avviva in forme sempre
risorgenti di tentativi diversi, i tipi di costruzione morale esaminati nei
capi precedenti. L'idea centrale dell'intellettualismo morale di cercare il
fondamento morale in una realtà ob- biettivamente data, e, in una conoscenza di
questa realtà, dei suoi gradi di entità e di perfezione, il criterio della
valutazione morale, diventa, guardata da questo aspetto, un'espressione della
tendenza profonda e incoercibile, di trovare nel valore il senso e la ragion
d'essere della realtà, nel criterio morale la chiave della sua interpretazione;
di commisurare la realtà alla dignità, e riconoscere come esistente veramente
soltanto ciò che è degno di esistere, facendo del bene il solo vero reale, e
del male un mancamento, un difetto di realtà, l'irreale. Dietro il pensiero che
muove i tentativi dell'utilitarismo sotto qualunque forma si presenti (non
soltanto edonistico, ma estetico, noetico, umanitario, religioso) di trovare la
ragione del valore morale in un bene supremo o maggiore o piú alto di ogni
altro, che ne persuada l'utilità o ne giusti- fichi l'autorità, appare la
convinzione che anche sotto il rispetto soggettivo della felicità (per l'uomo
patologico, direbbe il Kant) non è in ultimo veramente bene se non ciò che è
morale, o ciò a cui la moralità apre la via. Tutto ciò che ha valore, in quanto
ha valore davvero, non può contrastare, ma si accorda, de- ve accordarsi coi valori
morali, consistere in questi, o essere — in ultimo — condizionato da questi. E
quando si tormenta la storia (storia esterna e storia interna della civiltà)
per trovare nel processo di svolgimento, nella selezione subita o nel trionfo
conquistato, i titoli di nobiltà che spieghino e legittimino l'autorità della
morale, della nostra morale, si agita dietro l'acume e la sotti- gliezza delle
indagini e sotto gli accorgimenti dell'induzione storica, il bisogno di trovare
nella sto- ria l'attuazione di un disegno etico, di fare dell'accadere storico
un divenire morale, di confermare con l'esperienza morale del passato
l'esperienza del presente, la nostra esperienza morale, la mia. Come l'appello
al consenso universale degli uomini, meglio che allo scopo di fondare su questo
consenso la mia certezza morale, risponde alla esigenza che realmente abbiano
valore per ogni coscienza quei valori che sono posti come universali dalla mia,
e costituiscono non il mio sol- tanto, ma il patrimonio ideale piú prezioso di
ogni uomo, dell'uomo. E finalmente, quando dell'autorità si cerca il fondamento
in una volontà superiore e distinta dalla volontà di ciascuno, che si impone a
questa e ha il potere di obbligarla, l'esigenza a cui si ob- bedisce è quella
stessa di cui si alimenta la coscienza del dovere: l'esigenza che il volere piú
alto e il piú degno di autorità perché è il volere che pone i valori morali,
sia nello stesso tempo un potere a- deguato al compito suo, il potere piú
forte10; sia, come il vero volere, cosí il supremo potere. La forma generale, con la quale si presentano
da questo punto di vista i problemi, è dunque inversa a quella nella quale sono
posti e considerati nelle dottrine che cercano fuori della morale il fondamento
della morale. Si tratta non già di vedere quale ragione d'essere, e d'esser
tali piuttosto che altri o diversi, trovino i valori morali nella realtà che
conosciamo, nei beni d'altro genere che desideriamo, nelle tradizioni e negli
esempi del passato, nei giudizi dei contemporanei, nel comando di un Volere
onnipotente; ma di vedere se e come sia possibile e sia legittimo costruire una
realtà, graduare dei valori, interpretare la storia, pretendere il consenso,
postulare una Volontà in cui si adegui il potere al volere, sul fondamento
della certezza e validità immediata e diretta dei valori mo- rali, e delle
esigenze che essi implicano. La formulazione generale di quei problemi dal
punto di vista morale è dunque segnata da questo procedimento: Quali sono i
valori morali; e quali sono le esigenze derivanti dalla loro posizione; se e
quali postulazioni di ordine teoretico siano richieste a soddisfare queste
esigenze; se e quale legittimità abbiano le postulazioni teoretiche fondate
sopra di esse. Ma qualunque cosa si pensi di questi problemi e delle loro
soluzioni, sussiste, indipendente da ogni giudizio su di essi, e rimane
stabilita chiaramente e incontestabilmente, la primarietà, la indipendenza, la
auto-assiomaticità delle valutazioni morali. A fondamento dei giudizi morali
non vi sono e non vi possono essere che dati e postulati di valutazione
morale. L'idea di «potere» è un elemento inespugnabile del concetto di
volontà, perché la volontà è produzione, creazione, iniziativa. Dove si ravvisa
o si presume che ci sia o ci debba essere una volontà, ivi si presume una forza
(non è anzi la volontà la prima, e la sola forza, cioè attività che ci sia
rivelata dall'esperienza diretta?); e una forza tanto mag- giore quanto più
grande e difficile è il compito che la volontà si pone. Ed è perciò che questa
forza appare nella forma più chiara, quando il volere morale si traduce in atto
contro gli impulsi di ogni altro genere ed a prezzo dei più gravi sacrifici; è
perciò che il sacrifizio è la prova più alta e la testimo- nianza più sicura
(nell'espressione stupenda del Cristianesimo testimonio è il martire) della
saldezza, della serietà del volere morale. Ed è anche per ciò che appare
inevitabilmente pietoso o ridicolo un volere senza potere; e che il senso
comune si fa beffe dei padri Zappata. Dei due elementi della volontà, la
direzione consapevole e la forza, il senso comune è tratto senza esitazione a
fare maggior stima della forza. Ha torto? ha ragione? L'indipendenza e
l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica
fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con
grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo
capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui
al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale
dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale;
o, che torna lo stes- so: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si
riconduce la valutazione morale. Bisogna dunque cercare prima di tutto se
questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito,
per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali
di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non
implica necessaria- mente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel
riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via),
cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le
conclusioni alle quali si arriva. La connessione fra le diverse tesi che si
raccolgono attorno alla autonomia kantiana può es- sere, anzi veramente è, nel
suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e
fuori del sistema di dottrine che lo esprime. Cosí il «primato della ragione
pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza
logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali;
benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa
indipendenza e validità. Ciò che si presenta come conseguenza di questo
riconoscimento è il problema della conci- liazione tra le esigenze della
speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual
problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via
per la quale Kant la cerca. Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto
fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del
volere buono. Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto,
qualunque esso sia, che ab- bia un valore di fine per chi lo vuole (motivo
«patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto al- la legge perché è
legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze
che il volere conforme alla legge apporta. Il rispetto della legge in quanto è
legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il ri- spetto di ciò che la
fa esser legge, della sua validità universale. L'universalità è la forma della
ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragio- ne stessa in
quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica. Se l'uomo fosse
pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a ten-
denze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si
potrebbe parlare di dovere. In- vece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di
conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il
volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi, di
qualunque specie siano, si determina per la legge, cioè per l'universalità, che
è la forma della volontà razionale. Il criterio supremo della moralità è perciò
espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice
piú sotto. Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa
soltanto a fornire la caratte- ristica della valutazione etica, a distinguere
ciò che vale moralmente da ciò che non vale? Quando la prima formula
dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere
nello stesso tempo che diventi una legge universale», questa possibilità di voler che la massima
diventi legge universale può esser presa in due significati diversi. Può voler
dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che l'osservanza da
parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della medesima
osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza
contraddizione come legge universalmente valida; o può significare invece la
possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che
questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già
ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale
validità della massima senza disvo- lere l'universalità di una MASSIMA piú
generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come
legge. I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a
prima vista che coinci- dano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui
li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne
oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il
vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo. Se
s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che non soltanto
si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una
massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso; può
darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale
senza che perciò se ne riconosca l'immoralità. a) Come esempi del primo caso
basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (nella Fondazione) in
sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che pre-
ferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue
doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che
tutti seguano quella medesima massima, sebbe- ne questo non importi nessun
riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro
il Kant) della ragione del piú forte. Anche qui è possibilissimo ammettere che
dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il
secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere uni-
versalmente come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità. Per
converso, tra le massime che non possono pensarsi universalmente osservate sen-
za contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come
immorali, per esem- pio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche
massime come l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della
quale, se non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammiratori non
metteranno in dubbio la santità. Ed è manifestamente del pari impossibile
pensare universalmente praticate cosí la seconda come la prima. Ben diverso è
il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di
univer- salizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o
l'incompatibilità di questa universalizzazione della MASSIMA con la volontà che
la pone. Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame
alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie
diverse di contrasto: può voler dire che univer- salizzando la massima si viene
a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo
stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che
già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge
universale. I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire
facilmente con esempi. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte
a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia
prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se
il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico,
accadrà che in nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima
quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi.
Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò
la possibili- tà che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in
grazia del quale l'ho accolta. Se si suppone invece che io riconosca essere nella
forza il fattore di ogni elevazione mo- rale, e nell'esercizio incondizionato
di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo
quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et
nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e l'universalità della
massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio
supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia
perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere
come legge universale. Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio
della universalizzazione, è, come si è detto, il secondo; e propriamente quella
forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora esaminati. Né potrebbe
cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la sola veramente
decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere universalizzata la
massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e
rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una natura, malgrado
una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando
l'uo- mo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi
talenti e non pensasse che a vol- gere la sua vita verso l'ozio, il piacere, la
propagazione della specie, in una parola, verso il godimen- to; ma egli non può
assolutamente volere che questa divenga una legge universale della natura e che
ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere ragionevole
egli vuole necessaria- mente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui».
(Fondazione). La medesima considerazione è ripetuta a proposito dall'altro
esempio in cui si fa l'ipo- tesi del brav'uomo, che si propone di non far del
male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei biso- gni altrui è del parere:
ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una
legge universale della natura conforme a quella massima, è impossibile di
volere che un tale princi- pio valga come legge della natura» Per il Kant
dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e del valore
morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una prova
dell'accordarsi della mas- sima seguita nell'azione con la natura dell'essere
ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge stessa morale.
Soltanto intesa cosí la formula (nella Fondazione) della volontà di ogni essere
ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime una legislazione
universale, o nei termini della Critica della ragion pratica. Opera in modo che
la massima del [Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si accorda il
fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può assumere nel
nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi vediamo
dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se contrario al
nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e personale; a seconda
che ci appare una massima accettata veramente da chi opera come norma, o un
comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che vi si trova o no
quella condizione necessaria, se non sufficiente, del ca- rattere morale, che è
la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi giudizi. La ragione di
natura egoistica che Kant fa seguire può valere tutt'al più come un tentativo
poco felice di giu- stificare la simpatia dal punto di vista dell'interesse
individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità
di volere di cui si parla, se non a patto di identificare (pericolo forse non
avvertito) il volere dell'uomo «come essere ragionevole» col volere del caro
Io. Il corsivo delle parole sottolineate in questa e nella citazione precedente
è mio, tranne per la parola volere spa- zieggiata. Cito per la Fondazione della
metafisica dei costumi la bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni);
per la Critica della ragion pratica mi riferisco al testo originale nella
edizione della R. Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, Reimer,
Berlin). Kritik der praktischen
Vernunft, tuo volere possa valere insieme come principio di una legislazione
universale»; e coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi
morali e dei doveri conformi ad esse. E soltanto cosí si può intendere come
egli creda di derivare dall'universalità la formula famosa e piú fecon- da (ma
feconda in quanto dà un contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente
ne riceve la forma. Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona
sia in quella di ogni altro, sem- pre ad un tempo come fine e non mai soltanto
come mezzo. Ma intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia
esigenza: dell'universale con- formità delle massime alla ragione, alla legge
morale, al volere puro come principio di una legisla- zione universale, vale a
dire, alla legge morale; e della universale validità delle massime come co-
mandi, cioè dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale imperatività
delle massime, né dalla universale loro conformità alla legge morale è
possibile ricavare quali sono i modi di operare che le massime impongono, quale
sia la legge universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se
stessa. Se ora vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla
terminologia kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente,
possiamo raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma
forse piú chiara. I valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione,
valori che esprimono la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La
esigenza caratteristica sentita profondamente dal Kant, che i valori morali
siano superiori ed estranei ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti
per sé, indipendentemente da ogni considerazione delle loro conseguenze, lo
spinge (poiché la volontà come potenza pratica gli sembra inevitabilmente
legata a tendenze e impulsi sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di
conseguenze valutabili solo in rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare
dei valori morali degli enti di ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare
della ragione pura la ragione pratica («la ragione pura è per se stessa
pratica»). Ma la ragione per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige o
impone la coerenza; teo- rica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i
dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni deri- vate e mediate con le
valutazioni direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni.
Non dà dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche
per questo rispetto, l'ufficio di confronto, riduzione, subordinazione,
unificazione che le è proprio. Non è meraviglia che a voler cavare, da essa
soltanto, i valori morali, non se ne estragga in ultimo che questa esigenza di
una universale coerenza della volontà con se stessa; esigenza necessa- ria e
caratteristica di ogni uomo che sia persona, perché sottintesa, affermata,
voluta (anche quando coi fatti la smentiamo, ma sempre a malincuore)
costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi della unità spirituale,
della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma essa per sé non ci dice
né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui quali si fonda e ai quali
deve far capo l'esi- genza unificatrice della coerenza. La ragione appresta,
scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama
dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori fondamentali sono dati dalla vo-
lontà; né si può derivarne la natura dalla natura della trama; né dal disegno
della tela.Né maggior luce può venire dalla Volontà come Kant la concepisce; né
dal concetto del Volere puro né da quello del Volere buono. Il Volere puro, il
Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni impulso sensi- bile,
e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per lui che il Volere
che vuole la ragione, la ragione stessa in quanto è pratica, in quanto è forma
legislatrice, e non dà che questa medesi- ma universalità.Quanto al concetto
del volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità (rispetto
della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è buona
quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere buono
soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col quale
si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili. È dunque
un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione morale, e che esprime
il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali in confronto degli
altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né donde nasca questa
eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni caso anche se il
dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della leg-
ge, sta però nella legge la ragion d'essere del dovere e non nel dovere la
ragion d'essere della legge. Sapere che i valori morali debbono essere attuati
non è sapere in che consistono, né sapere perché meritano che si debba
attuarli. Che debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i
sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco
il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è
l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare
so- stantivi. Resta da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume
nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto
cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto
dell'umanità o della persona umana come fine in sé. Ma è facile vedere come
questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è veramente chiusa nei limiti
di una derivazione e non dice nulla di piú di quella onde è dedotta; o assume
davvero un contenuto, e questo costituisce per sé un criterio di valutazione
distinto e diverso da quello da cui si pretende dedurlo. Il quale non si
esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma richiede un riferi-
mento agli oggetti della valutazione; ed è un criterio non piú formale
soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno
resterà da vedere piú innanzi. Il termine che media il passaggio kantiano dalla
legge come forma all'umanità come fine è il rispetto della natura ragionevole. Poiché
la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione, importa il
rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere ragionevole
e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura. Si potrebbe
già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto della
ragione al rispetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone rispetto
nella ragione è secondo Kant la sua forma legislatrice e non il soggetto,
qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma. Tuttavia,
finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito
di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una
ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il
trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevo- le, ma non tutto, e non
soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende
rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza
uno spirito (che la com- prende sí, ma è ben lungi dall'esaurirsi nella
ragione), oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e
null'altro, cioè in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini,
di (co- me si dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale? Non
c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa
persona- ragione vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che
sempre e ancora il rispetto della ragione come tale. E solo verrebbe fatto di
chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto per quel che vi è
in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e non anche per
quel che vi è di proprio originale, individuale e irriducibile, non si
assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il rispetto
dovuto alla voce autorevole che in esso risuona. Oppure si intende che la
ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo,
a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde nella unità inscindibile
del medesimo e del diverso, del comune e del proprio, dell'universale e
dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano nella interezza delle
sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona merita questo
rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un contenuto che non si
esaurisce nella forma. Ma è troppo evidente che inteso cosí il rispetto alla
persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e alla legge perché
legge. Intesa cosí la persona umana, essa non è piú l'universalità vuota e
astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente di quei valori morali
dei quali la «ragione» constata la universale validità e la riconosciuta sovranità
sugli altri valori, mette in luce le esigenze, determina le condizioni di at-
tuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali esigenze e condizioni si
possano conciliare con quelle degli altri ordini di valori e in particolare con
quello del sapere); di quei valori morali che il «Volere puro» pone in forma di
legge, e il «Volere buono» attua in forma di doveri. Che per la natura
ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la pura forma della ragione, ma
anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere e forme di attività, e che il
Volere ragionevole non riconosca come valore morale soltanto la conformità alla
forma della ragione, ma la conserva- zione l'incremento l'esercizio di queste
altre facoltà e attività spirituali, appare in forma tipicamente significativa
nel commento già riferito sopra con l'esempio (nella Fondazione) a cui si
riferisce. Come essere ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che
tutte le facoltà siano svi- luppate in lui, visto che gli sono state date per
servirgli ad ogni sorta di fini possibili». Questo volere dell'uomo
ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo, morale, è dunque il
volere che vuole necessariamente lo sviluppo di tutte le facoltà, cioè il
volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto sia costituito da valori
già dati e riconosciuti senza contestazione come fini di un volere buono cioè
come valori morali14. E appare manifesto che la riduzione del criterio di
valutazione morale a criterio puramente formale suppone che siano già noti,
quanto al contenuto, i fini dell'operare morale; già conosciuti e determinati,
quanto all'oggetto loro, i doveri. E risponde alla domanda: quand'è che
l'intenzione del- l'operare è veramente buona, che un atto è veramente morale?
ma non alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa buona intenzione si
deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia
quali sono i valori, nella cui attuazione fatta con purità di volere consiste
la moralità? [ E che veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è
confermato all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il
presupposto fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre
esemplificazioni; con le quali si prova, non già, come s'è visto,
l'impossibilità per sé di universalizzare, ma l'impossibilità di volere che una
tal massima valga come universale. Infatti la ragione per la quale non si può
erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può
uccidersi non è già l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da
tutti quelli che sono stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia
riconosciuta e adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del
piacere sui valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto
perché li riconosciamo come morali, af- fermiamo e vogliamo il contrario. Così
nel secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che
sia lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità
sottintesa della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la con-
seguente impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta
universalmente quella superiorità di cui noi siamo certi. Del terzo esempio si
è detto, e si è accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso
manifestamente il valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo
ammettere sia subordinato al valore della propria quiete o dei propri
comodi. Alla quale domanda si presume dunque che la risposta sia già data
dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e non può esser data, che
da lei. Ma se la risposta non fosse univoca? Se, supposto pari in due coscienze
il rispetto della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non
comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il
sapere che il volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che
la moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere? Non vi è una
coscienza morale, ma vi sono, a rigor di termini, tante coscienze morali quante
sono le coscienze personali nelle quali sono riconosciuti come supremi e
normativi e validi indipen- dentemente dal flusso momentaneo e variabile delle
valutazioni transitorie e accidentali, certi valo- ri; ed è riconosciuta
l'esigenza che il criterio di valutazione corrispondente possa valere non solo
come norma costante del giudicare e del volere proprio, ma anche come norma
costante del giudica- re e del volere altrui; ossia come norma universale del
giudicare e del volere di ogni persona. Se si ammette o si suppone che quei
certi valori siano per tutte le coscienze i medesimi, si può parlare della
coscienza morale, come una ed identica non solo di forma, ma anche di
contenuto; se si ammette il contrario, si deve riconoscere una pluralità di
coscienze morali piú o meno discor- danti e una pluralità di criteri di
valutazione che si presentano alle diverse coscienze con la medesi- ma autorità
di valutazioni morali, cioè con la medesima forma. Il fascino singolare che
esercitò ed esercita la morale di Kant viene non dal suo formalismo per sé, ma
dal fatto che, mentre spoglia e purifica la moralità da ogni fine materiale e
quindi dal pe- ricolo di ogni considerazione soggettiva, la dottrina è
sostenuta e vivificata dalla fiducia salda e in- crollabile che si debba
riconoscere o si possa dimostrare che dentro quella forma cape, e non può
capire che un solo contenuto; dietro quella legge si debbano trovare
infallibilmente i fini che la co- scienza morale riconosce come buoni, e quelli
soltanto. Ma s'è visto che lo sforzo è, e non poteva non essere, vano. Il
criterio formale di Kant sem- bra convenire ad un solo e unico contenuto, a
certi valori ed a quelli soltanto, perché si ammette già che la coscienza
morale sia unica; che la sua voce non soltanto parli in ogni coscienza con lo
stesso tono, ma dica le medesime cose. In realtà il criterio formale non
esprime che l'esigenza della razionalità: una legge non è leg- ge se non è
valida sempre nei medesimi casi; una norma non è suprema se non a patto che
ogni altra norma sia subordinata ad essa; un criterio di valutazione non è piú
un criterio, ma un capriccio, se i miei giudizi di valore non si accordano
costantemente con quello; se io non riconosco legittimo, fatto da qualsiasi
altro, il giudizio che quel criterio esigerebbe da me nel medesimo caso. Ma è
un'illusione credere che possa bastare la razionalità per sé a distinguere i
valori dai non valori; i valori morali dai valori non morali, a farci
riconoscere — senza appello diretto o indi- retto a qualche dato o postulato
non razionale, il valore di un oggetto qualsiasi (di un contenuto), ideale o
reale. Si governa non meno razionalmente l'avaro, quando giudica ed opera in
ogni caso come se il danaro fosse l'unico bene per sé, il supremo bene, purché
riconosca legittimo che ogni altro giudichi e operi allo stesso modo, di quel
che faccia l'esteta quando ragguaglia ogni cosa a un ideale di bel- lezza, o
l'intellettuale che non riconosca altro scopo degno alla vita che la ricerca
della verità. E quando si dice o si crede di dimostrare che è «contrario alla
ragione» non un giudizio apprezzativo che contraddice al criterio accettato, ma
il criterio stesso come tale, non si può affermare o dimo- strare questa
contrarietà se non perché si sottintende che vi sono — cioè sono riconosciuti e
deside- rati — altri valori diversi, superiori o non subordinabili a quello dal
quale è tratto il criterio in que- stione; e si trova contrario alla ragione
che non si tenga conto di quest'altri valori, che si giudichi e si operi come
se questi non esistessero, o fossero inferiori mentre sono superiori, o
incondizionati mentre sono condizionati. Ma se si fa l'ipotesi che questi altri
valori non siano tali per un Tizio che li ignora, qualsiasi istanza di
irragionevolezza contro di lui cadrebbe a vuoto, anzi sarebbe essa
irragionevole. Adunque il criterio di Kant non supera, dato che ci siano, le
differenze di contenuto valuta- tivo. Se in nome della mia coscienza morale io
pongo il valore dell'umiltà, e in nome della propria coscienza morale un'altra
persona lo nega, l'universalizzare le massime che rispondono alle due va-
lutazioni opposte non mi fa avanzare d'un passo verso una soluzione del
conflitto, se non a questa condizione: che io creda di poter dimostrare che una
delle massime si accorda e l'altra contrasta con una terza massima nella quale
è affermata l'esigenza di un volere riconosciuto o ammesso inconte- stabilmente
come morale. E si presenta inevitabilmente, senza che sia possibile eluderla,
la domanda: C'è o non c'è questa pluralità di contenuti discordanti nella
valutazione morale? C'è. Si è osservato piú sopra che ogni oggetto ideale o
contenuto di valutazione morale ha o può avere nello stesso tempo valore per
altri rispetti, cioè può essere considerato come un valore di altra specie.
Anzi è per questa relazione dei valori morali con valori di ordine diverso che
si è cercato e si è creduto di poter trovare il fondamento della valutazione,
la ragione d'essere del valore morale in una finalità di natura edonistica, egoistica
o altruistica, o noetica o estetica o religiosa. Se si considera una tale
rivalutazione eterogenea come pretesa di far valere, con questa e per questa
ragione, per morale, un valore che non sia già sentito come morale, il
tentativo, è come s'è visto, del tutto illusorio. Ma se si considera, al
contrario, come espressione di una finalità che può assumere in questa o quella
coscienza importanza prevalente, che può o potrebbe, all'infuori del carattere
specifico di eticità per il quale è posto da quella stessa coscienza come
valore morale, essere sentita come su- periore in pregio ai fini di ogni altro
ordine, e degno di subordinarli, essa contiene in sé la ragione capitale della
diversità e discordanza dei fini e dei criteri, che pretendono di valere
ciascuno come supremo nella valutazione del contenuto proprio dei valori
morali. L'esteta si foggia un suo modo ideale di bellezza per il quale i valori
si ordinano da sé in una scala determinata dalle connessioni di inerenza e di
condizionalità degli altri valori, con i valori estetici; e il mistico un
ideale di santità, al quale subordina gli altri valori, accogliendoli e
graduando- li in quanto convengono, negandoli in quanto disconvengono; e cosí
lo spirito contemplativo che ama sopra ogni cosa la verità, e cosí l'egoista
calcolatore e l'altruista generoso. I valori che, per essere morali, hanno già
una validità e un'autorità intrinseca che li distingue dagli altri valori, si
vestono di necessità nella coscienza dell'esteta del mistico e cosí degli
altri, di quel particolare colore, che li fa sentire e riconoscere
rispettivamente come valori estetici, religiosi, noetici e via dicendo; e se
continuano a valere per la forma come morali, valgono, per il contenuto,
soprattutto come valori di quell'ordine che è nella coscienza il dominante.
Basta per convincersene badare alle differenze caratteristiche della
motivazione, con la quale ciascuno dei tipi di co- scienza supposto giustifica
a sé e agli altri il valore che riconosce, poniamo, alla temperanza, o alla
forza di volontà, o alla veracità, o ad altra virtù. Ora questo coincidere e
fondersi, quanto al contenuto, del valore morale col valore dell'ordi- ne che
esprime l'orientamento prevalente della coscienza, anche quando non è in giuoco
la valutazione etica, non solo conduce alla transvalutazione notata, ma tende a
indurre insieme un pro- cesso di transvalutazione inversa; cioè a dar colore e
calore di convinzione e di apprezzamento mo- rale ai valori di quell'ordine, a
riconoscerli come morali e a pretendere che siano riconosciuti per tali anche
dalle persone, nelle quali non si afferma il medesimo orientamento. Ed è
istruttivo (e non è sfuggito agli umoristi) il calore col quale parla di
diritti offesi e ri- vendica gli interessi sacrosanti della giustizia l'egoista
gretto che vede frustrato un suo piccolo cal- colo ingegnoso che aveva a mala
pena il pregio di non urtare nel codice penale; e quello (sia pure di dignità
fuor di paragone diversa) dell'artista, che grida allo scandalo e invoca un
preciso dovere dello stato a reprimerla, se offenda il suo senso estetico, la
trascuranza per un tronco di colonna di- menticato. E si potrebbe continuare,
in modo anche piú evidente, per gli altri. Cosí ciascuno degli orientamenti
valutativi tende ad allargare nella direzione corrispondente la sfera dei
valori morali, includendovi un contenuto proprio diverso, e non coestensivo al
contenuto di ciascun altro. E perciò accade che i diversi sistemi di
valutazione — animati come sono e pervasi da un interesse tipicamente diverso —
abbiano in realtà in comune soltanto una parte di quei valori che ognun d'essi,
per l'esigenza sua propria, riconosce come morali; abbiano cioè comuni soltanto
quei valori morali che sono nello stesso tempo valori diretti o indiretti del
proprio genere, o che al- meno non contrastano e non negano quella propria
specifica esigenza. I diversi sistemi assomigliano cosí a cerchi eccentrici di
vario raggio che si intersechino fra di loro; dei quali è minima la superfi-
cie comune a tutti, ed è sempre piú grande la parte d'estensione
rispettivamente comune a un numero di cerchi minore; e in misura variabile,
secondo che sono meno o piú eccentrici fra di loro. D'altra parte, anche la
coscienza nella quale l'orientamento tipico è dato dall'interesse stesso morale
(la coscienza dell'homo ethicus) si trova a dover considerare nei valori
estetici religiosi intel- lettuali economici il valore morale diretto o
indiretto che assumono o possono assumere in grazia di relazioni analoghe a
quelle considerate sopra (il valore p. es. che l'attività scientifica e
l'estetica e le doti richieste e promosse da questa attività possono avere per
la cultura morale). E non solo: ma per la considerazione felicemente messa in
evidenza dal Moore sul valore organico (il «quanto» per il quale il valore di
un tutto eccede il valore di uno dei suoi fattori non è necessariamente eguale
a quello del fattore che rimane: ethics, Intrinsic value), si trova a dovere
apprezzare diversamente l'oggetto ideale della valutazione morale, quando esso
è nello stes- so tempo oggetto di una valutazione diversa, intellettuale, per
es., od estetica. (Non è senza significato anche per questo rispetto che il
Sommo Bene sia stato identificato col Sommo Bello). Si aggiunga finalmente (il
finalmente chiude ma non esaurisce le osservazioni su questo proposito) che il
carattere di interiorità dei valori morali, il quale si fa tanto piú spiccato
quanto piú la coscienza personale è concepita come sorgente e creatrice
autonoma dei valori, tende a staccare, anche nella coscienza dell'homo ethicus,
il valore morale dagli schemi che esprimono una esteriore conformità alla
valutazione, per riconoscere un pregio preminente alle note interiori di
spontaneità, di libertà, di autonomia; il che porta ad estendere la dignità intrinseca
dei valori morali anche a que- gli altri valori spirituali nei quali splende un
raggio di quelle medesime luci; e non tanto a distingue- re i valori morali da
altri valori spirituali, quanto a distinguere il contenuto interiore e
spirituale dei valori dal contenuto esterno e materiale nel quale si traducono.
Cosí nella coscienza personale si attenua e si fa piú incerta, e trasmutabile
per molti modi, la distinzione tra i valori morali e gli altri valori
spirituali. In altri termini: mentre, si può dire a un di- presso, dal trionfo
dell'etica cristiana fino al Kant la valutazione morale aveva avuto per le
diverse coscienze della stessa civiltà e cultura un contenuto comune
determinato e costante (e, in ogni caso, la parte di contenuto sulla quale cadeva
il dissenso finiva per essere praticamente quasi trascurabi- le), a partire
dalla dichiarazione dei diritti della Rivoluzione francese, si delinea e si
allarga nel campo della valutazione morale una sempre maggiore differenza di
contenuto tra coscienza e co- scienza; e si fa piú frequente e piú profondo il
contrasto tra i criteri di valutazione rispettivamente accolti come supremi. E
i sistemi nei quali i valori morali sono ricondotti a un criterio
intellettuale, o estetico, o re- ligioso, o etnico, o umanitario, o
filogenetico, o solidaristico, o egotistico, o quale altro si voglia, non sono
piú, guardati per questo rispetto, tentativi dispersi, ma, per cosí dire,
paralleli di giustifica- Su la pluralità dei postulati di valutazione
morale Erminio Juvalta re o di «fondare» il valore di un medesimo contenuto;
essi esprimono invece, nella parte forse mag- giore e piú significativa, una
diversità di contenuti contrastanti; e soltanto in parte un contenuto co- mune,
che si colora pur esso diversamente, secondo la fiamma a cui si riscalda.
Perciò, considerata nell'interiorità della coscienza personale, la parte di
contenuto etico nella quale essa sente di concordare colle altre non ha per sé
autorità maggiore o diversa delle parti per le quali discorda. A meno che la
coscienza stessa possa o debba riconoscere, senza abbandonare il proprio
criterio di valutazione, una qualche differenza, se non di natura, di grado,
tra quella e queste. Se si suppone, per un'ipotesi inverosimile, che lo spirito
filantropico, lo speculativo, il reli- gioso, l'estetico, non riconoscano
rispettivamente altri valori all'infuori di quelli che si possono commisurare
al criterio di valutazione proprio di ciascheduno, si troverà tuttavia che
certe doti spiri- tuali, poniamo, l'alacrità, la tenacia, il dominio di sé,
l'ardimento, sono e debbono essere considerate come valori da tutti
indistintamente i tipi supposti; perché tutti (nell'ipotesi, sottintesa, che
siano in- telligenti) debbono riconoscere che quelle doti personali sono
condizioni o indispensabili o som- mamente utili alle forme di attività
corrispondenti, cioè all'attuazione di quell'ordine di valori che ciascuno ha
posto a sé come tali. Per la medesima ragione si troverà (la deduzione è troppo
ovvia perché occorra piú che l'ac- cenno) che debbono essere riconosciuti come
valori il rispetto della integrità e della libertà persona- le, l'osservanza
dei patti, lo scambio dei servizi e via dicendo, e con essi i costumi, le
istituzioni, le leggi che assicurano la conservazione e l'incremento di queste
condizioni sociali; e le disposizioni di spirito (lealtà, imparzialità,
simpatia) che ne avvalorano il rispetto nella coscienza personale. Adunque
tutti i tipi suddetti, e gli altri che si potrebbero analogamente supporre,
saranno portati a riconoscere e ad apprezzare in sé e negli altri, astrazion
fatta da ogni valutazione morale, dei valori, sia propriamente personali (doti
della persona che possono sussistere nel soggetto in- dipendentemente dal suo
atteggiarsi rispetto ad altre persone); sia sociali (doti che riguardano questi
atteggiamenti); valori che nascono dal rapporto di condizionalità costante che
li stringe a ciascuno degli ordini supposti. Di piú: il rapporto di
condizionalità dal quale viene ai valori citati in esempio il carattere di
strumentalità, è diverso, come è facile vedere, da quella strumentalità esterna
accidentale e variabile che lega il blocco di marmo all'opera dello scultore, o
la conferenza di propaganda al disegno del- l'altruista, o un libro agiografico
all'interesse del mistico, o la scala dell'Osservatorio agli studi del-
l'astronomo: appunto perché là si tratta di condizioni preliminari
indispensabili e permanenti, il cui valore non solo non si esaurisce nell'atto
singolo che ne dipende, ma non è sostituibile da alcun altro strumento o
condizione. È dunque una condizionalità necessaria, permanente e insurrogabile,
in forza della quale ciascuno dei detti tipi dovrà riconoscere a siffatti
valori condizionanti una superiorità, se non di pre- gio intrinseco, di
precedenza imprescindibile sui valori diretti e finali che ne dipendono. Non
occorre lungo discorso per intendere come per effetto del medesimo rapporto il
filan- tropo potrà essere condotto a riconoscere i detti caratteri di
condizionalità anche a qualità attitudini forme di attività, alle quali o non
potrà attribuirli o dovrà forse attribuire un valore negativo, o di o- stacolo,
ossia un disvalore, il mistico o l'esteta; e inversamente; e come perciò sarà
possibile una di- stinzione tra i valori propri esclusivamente di ciascun tipo
di valutazione, e i valori condizionanti comuni a qualsiasi ordine, dato (come
gli esempi citati dimostrano possibile) che ve ne siano di co- siffatti. Questi
valori comuni avranno dunque oltre ai caratteri già notati, anche quello di
essere strumentali rispetto a quale si voglia criterio di valutazione che sia
posto come normativo; cioè a- vranno una condizionalità universalmente
necessaria permanente e insurrogabile. Aggiungiamo ora un nuovo elemento
all'ipotesi; e supponiamo che tanto il filantropo quanto lo speculativo e il
mistico e l'esteta riconoscano, ciascuno, come l'ordine dei valori morali,
quell'or- dine di valori che risponde alla direzione tipica della propria
coscienza. Accadrà che la valutazione morale dell'uno coinciderà quanto al
contenuto con la valutazione morale di ciascun altro soltanto per quei valori nei
quali si riscontra la sopraddetta condizione; e che mentre ciascuno
interiormen- te riconoscerà come una esigenza morale l'attuazione di tutti i
valori posti e dichiarati dalla sua co- scienza a lui come morali, dovrà
riconoscere in pari tempo, che, per le volontà per le quali vale co- me
normativo un ordine di valori diverso, la detta esigenza non comprende tutti
questi medesimi va- lori, ma soltanto quelli la cui strumentalità condizionale
è universalmente necessaria. Cioè dovrà riconoscere che, esteriormente alla
propria coscienza, l'imperatività del proprio criterio è limitata a questa piú
ristretta sfera di valori. In altri termini, non potrà esser posto come
criterio morale e comune se non un criterio di valutazione che assuma, come
universalmente validi e costantemente su- bordinanti ogni altro valore, quei
valori appunto nei quali si riscontra la detta priorità condizionale; ma che
insieme non neghi, e non escluda i valori morali propri di ciascuna coscienza
in particolare, cioè nessuno di quegli ordini di valori, nel quale si inquadra
e si giustifica per ciascuna coscienza individuale quel contenuto comune. Si
delinea dunque, per la riflessione critica obbiettiva, una distinzione tra i
valori la cui at- tuazione è riconosciuta come un'esigenza universale e
costante per qualsiasi coscienza capace di moralità, e i valori la cui
attuazione è un'esigenza soltanto per la coscienza che li pone a sé come
morali; tra i valori per i quali ogni coscienza può riconoscere legittima una
legislazione esterna che ne imponga la validità; e i valori dei quali una
legislazione esterna deve soltanto non escludere la possibilità; tra i valori
che possono essere oggetto di una obbligazione a un tempo interna ed ester- na,
e i valori che, non possono essere oggetto che di una obbligazione interna. Gli
esempi addotti in principio di questo capitolo per chiarire il concetto di un
contenuto comune universalmente valido, non rispondono a una determinazione
rigorosa; e hanno soltanto un carattere provvisorio di opportunità. Se ora
cerchiamo di fissare con precisione quali sono propria- mente i valori che lo
costituiscono, troveremo facilmente che essi si assommano in due condizioni
riconosciute in effetto (e non potrebbe essere altrimenti) come valori primari
fondamentali da ogni sistema morale: la libertà e la giustizia. La libertà
esprime l'esigenza delle condizioni soggettive necessarie a fare dell'uomo una
persona padrona di sé di fronte a sé e di fronte a ogni altra persona; la
giustizia esprime l'esigenza delle condizioni obbiettive necessarie
all'esercizio universalmente efficace di questa libertà. L'attuare in sé e in
ogni altra persona questi valori di libertà e di giustizia (ed i valori impli-
citi in questi) deve dunque essere riconosciuto come un dovere universalmente
valido, anzi come il solo dovere (o la sola categoria di doveri) veramente
universale. Ma qui è da notare una circostanza rilevante. La libertà non è una
condizione di fatto, un possesso dato; ma è, come vide e affermò fervi- damente
il Fichte, una conquista da fare, una idealità che si viene realizzando e che
richiede sforzi sempre nuovi e impone sempre nuovi doveri. E il medesimo è da
dire della giustizia che è lo specchio sociale della libertà. Ora se il valore
della libertà e della giustizia (e la validità dei doveri che ne derivano)
consi- ste, come apparirebbe dalla deduzione fattane qui, soltanto nel loro
essere condizione necessaria ad ogni ordine di valori; è continua ed
inevitabile la possibilità di un contrasto nella coscienza dell'in-
tellettuale, dell'esteta, dell'altruista, tra l'interesse sempre presente,
diretto della conoscenza o della bellezza o della simpatia e i doveri mediati e
indiretti della libertà e della giustizia; o, in termini generali, tra i valori
diretti e per la coscienza individuale supremi, e i valori che per lei appaiono
sol- tanto indiretti e strumentali. Cosí obbiettivamente nell'ordine di una
possibile legislazione esterna, sarebbero doveri pri- mari, soli veri doveri,
quelli appunto che soggettivamente per la legislazione interna di molte se non
di tutte le coscienze individuali, valgono come doveri derivati, cioè tali
soltanto in grazia di doveri d'altro ordine, dei quali l'obbligatorietà esterna
tutela subordinatamente, ma non impone l'osservan- za. E resta in ogni caso la
questione: Quei valori che una coscienza riconosce come valori in sé, e a cui
commisura gli altri valori sono posti ad arbitrio? La distinzione stabilita nel
capitolo precedente implica che siano valori morali diretti, cioè supremi e
normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la coscienza stessa pone a sé
e ricono- sce come tali; e non dà ragione del fatto che siano posti e
riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori per sé, anche quei valori
di libertà e di giustizia che appaiono, nella deduzione che se n'è fatta qui
sopra, come valori morali universali soltanto in grazia del rapporto necessario
di preceden- za condizionale che li lega ai primi. E ciò significa che la
distinzione stessa non ha che un valore provvisorio, finché non si ammette
quella tesi, e non si dà ragione di questo fatto. C'è, sottinteso, nella tesi
del resto inevitabile — che siano valori morali per ciascuna co- scienza quei
valori che essa pone a sé come supremi e normativi, qualche presupposto? E qual
è questo presupposto? Non è difficile scoprirlo. Perché un ordine di valori,
diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia riconosciu- ta da una
coscienza come suprema e normativa si richiedono due condizioni
imprescindibilmente: 1° che la detta idealità possa costituire un criterio di
valutazione atto a subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle
valutazioni e a segnare una direzione costante alla volontà; 2° che essa sia in
effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di diri- gerla; e
perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che la neghi sia
sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire con la
volizione la volontà, con l'atto la valuta- zione); e sia sentito o posto
idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il ne- gare
ogni interesse che contrasti con quello. Ma queste due condizioni sono le
condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo disgregato e molteplice una
unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un carattere, una persona; sono
in una parola le condizioni della personalità. Riconoscere il valore supremo di
ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui l'indivi- duo si afferma
ed esprime la sua volontà di essere persona, implica dunque il presupposto del
valore diretto, originario, incomparabile e incommensurabile, cioè assoluto,
della persona umana, come volontà di essere tale e come coscienza di questa volontà.
Questo valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il
presupposto implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale;
perché non si può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o
idealità senza postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori
della quale non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale. Ed
è vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità.
Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e
postulare come dato e fuori di ogni contestazione, qualche valore intrinseco,
al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commi- surare il
valore in discorso. E poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto
e di dato incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di
ciò che deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si
discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimedia-
bilmente in un circolo vizioso. Avviene, mutatis verbis, qualche cosa di
perfettamente analogo a quel che accade nel campo della conoscenza, quando si
discute del valore teorico della ragione. Ogni critica presuppone neces-
sariamente la validità di quella ragione che è chiamata in causa. Bisogna
dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o
respin- gendo insieme ciò che si regge sulla sua validità. Non c'è via di mezzo
possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo vuol dire riconoscere
valore morale a ciò che costituisce la personalità, a ciò che le è essenziale,
e che la fa essere non la personalità astratta e comune che non sussiste per sé
e non basta a costituire questa o quella persona, la mia persona; ma la persona
individuata viva e concreta, in quel che ha di universale e di comune e in quel
che ha di proprio, di suo, di individuale; l'umanità non dell'uomo genere,
dell'uomo tipo, ma di questo o di quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio;
ma anche in quanto è questo. L'uomo-ragione dà, come s'è detto e ripetuto, la
sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto. L'uomo-volontà pone questa coerenza
come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me che l'idealità posta e
riconosciuta come suprema valga veramente come suprema, che io ne af- fermi il
valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze sempre dovunque si
presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola, di essere persona; e
di volere che ogni uomo sia persona. Ma non è ancor tutto. Quel che io devo
essere per valere come persona, l'idealità che deve dare unità al mio io, e in
cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia volontà di essere perso- na,
è posta da questa mia volontà ed ha valore per me perché è posta da lei. Certo,
la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della
ragione; l'e- sigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella
medesima esigenza che la volon- tà di ciascun altro (capace di moralità) impone
a lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona
come tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto
spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali
l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la
medesima idealità. La mia volontà deve — per far di me una persona —
uniformarsi a quelle due esigenze che sono le esigenze necessarie e costanti di
ogni personalità (non solo reale, ma anche fittizia); e deve perciò superare
l'io transitorio, l'io degli interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si
misura il valore che dal loro effetto su di me), e appuntarsi in una idealità
che le sia norma; ma non può usci- re di sé per diventare una volontà diversa,
non può cessare di essere quella certa volontà, che fa di me non la persona
umana in generale, ma la mia persona. Insomma non può volere l'unità se non di
quello spirito di cui è la volontà. Ma quale è la prova che questa idealità non
è un capriccio dell'io transitorio e mutevole, ma è veramente legge delle mie
valutazioni e delle mie azioni? La prova non è e non può essere data se non a
me stesso, da me, dall'attestazione della mia coscienza. Ed è perciò che la
legittimità dei valori posti da me non è contestabile da altri né control-
labile. Ma vi è tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida
nel giudizio comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre
sufficiente; e questa prova è il sacrificio. Appunto perché il sacrificio
attesta che ogni mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella
volontà di attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi
costringerebbe a ne- garla. Cosí è che il valore della vita si misura dal
valore di ciò a cui si è disposti a sacrificarla; e che, per converso, l'esser
pronti alla morte apparisce l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui
si è devoti. Le esigenze costitutive della personalità si attuano dunque
informando di sé un contenuto spirituale che è sempre in qualche parte proprio
e caratteristico di ciascuna coscienza individuale; come raggi di una medesima
luce che tralucono per cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare con-
tenuto la condizione o il mezzo per il quale la personalità si pone e si
realizza nell'io individuale e concreto; la materia che si suggella di quella
forma. E il valore morale di questo contenuto nasce da questo suo essere lo
strumento il tramite, per il quale si esprime nella coscienza individuale il
valore assoluto della personalità umana. Per tal modo l'idealità, nella quale
si concreta per la coscienza delle persone singole il crite- rio o la legge
della valutazione morale, costituisce per ciascuno l'affermazione della unità
spirituale della sua volontà di essere persona, della sua libertà. Cosí la
libertà, che nella deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente
acquista valore solo strumentalmente universale e necessario, in quanto
l'attuazione dei valori di libertà appare la condizione comune e
imprescindibile della attuazione di ogni ordine di valori, è invece qui valore
per sé immediatamente universale; e sorgente di quegli stessi valori che
valgono per le co- scienze singole come supremi soltanto perché sono lo strumento
del realizzarsi di essa libertà in cia- scheduna. È, quindi, la sorgente cosí
dei valori costitutivi della personalità in astratto, come dei va- lori
costitutivi delle diverse personalità in concreto; cosí dei valori universali
della persona ideale come dei valori propri della persona reale. Nel
presupposto stesso di ogni valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza
dell'universale come l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione
comune e l'esigenza di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza
che la volontà personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e
dell'altra, o, meglio, dell'una nell'altra. L'imperativo della libertà è ad un
tempo: sii persona, e: sii la tua persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi
essere per essere uomo; rispetta l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro
l'espres- sione individuale e concreta dell'umanità. A nessuno verrà in mente
di credere che si intenda di stabilire cosí il dovere di creare nuovi valori,
di affermare nuove intuizioni morali; e porre accanto al dovere di essere
giusti, quello di es- sere originali. Sarebbe come voler obbligare uno scienziato
a fare delle scoperte, almeno nel senso che si suol dare comunemente alla
parola. Le intuizioni morali nuove, come le scoperte scientifiche, come le
nuove forme di arte, si presentano a chi... le trova. Spiritus flat ubi vult.
Ma vi sono, in un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le
piccole continue scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi,
che cavano e puliscono la selce e tem- prano l'acciarino, dai quali l'uomo di
genio farà sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le picco- le nuove
intuizioni e nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori
morali, che prepa- rano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene,
perfino nell'apparente applicazione mo- notona di una medesima massima alla
medesima classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfu- matura, nella quale
si rivela l'originalità morale della persona; originalità di finezza, di
delicatezza, di grazia, di abnegazione, di calore, di fantasia, di acume;
gradazioni e colorazioni diverse di valori noti, combinazioni nuove di pregi
prima disgiunti. Ciò che è proprio di una persona anche comune (sia venia al
bisticcio) non è tanto il rivelarsi di una proprietà, o dote, o qualità
diversa; di un nuovo elemento di valore (che non è novità frequente neanche nei
grandi); quanto questo modo, col quale si raccolgono, si mescolano e si fondono
per lui in sintesi nuove i valori elementari già intuiti. Ciò che è
caratteristico dell'individuo consiste anche qui, se si dà alla parola il suo
significato originario, in una «idiosincrasia». Queste minori e, nella loro
infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si raccolgono però,
come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal prevalere,
conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli altri. Dal
che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma opposizioni recise. E
qui sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di
fronte ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di
sistemazione. Come possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne
possano attendere non è qui il luogo di esaminare. Qui importa solo notare come
questa indagine e sistemazione critica non potrà che presenta- re, nella forma tipica
piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i contrasti che sorgono natural-
mente dal prevalere, nella unificazione morale della coscienza personale, di
uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e dalla misura di questa
prevalenza. Ma la forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i valori
universali morali, i valori di libertà e di giustizia, e quelli che valgono
come supremi (cioè che pretendono, come i morali, la direzione suprema della
valutazione), nella coscienza individuale. Se la libertà e la sua sorella
germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e non come è, come deve
essere, una conquista faticosa del genere umano che dura e durerà nei secoli,
il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza della conciliazione
di quei valori spirituali che non si presentano come necessariamente e
universalmente morali. Problema formidabile anche questo, ma non tale da
segnare una antitesi di criteri non conci- liabili; antitesi che rende
necessaria la subordinazione dell'uno dei due all'altro, ma che può legitti-
mare nella coscienza personale cosí l'una come l'altra soluzione. Questa
antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra
l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà libera
consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si arricchisca di nuovi
valori l'uomo che è già persona, che è già, se non l'uomo libero del Fichte,
l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter farsi libero, e che vi
tende come al suo supremo valore. È, in termini forse meno precisi ma piú
recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità, tra l'esten- sione e
l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la possibilità che si
facciano partecipi) dei valori di libertà, accessibili soltanto ad alcuni,
quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di accrescere in quelli che già
li possiedono i valori di cultura, che sono pure, almeno mediatamen- te,
incremento dei valori di libertà. L'umanità (la persona umana) si rispetta
elevandone in sé e negli altri il valore; si eleva cosí nell'uno come
nell'altro dei modi anzidetti. Le due vie sono convergenti? Speriamo che siano;
ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura, dalla quale
sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario, e la
possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza morale
prevalente? Dire che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di
tutti, o dire che l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della
cultura, è baloccarsi con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie
coincidenze del bene generale col bene individuale. Il dire non basta a porre
in es- sere quel che si dice. Alla distinzione fondamentale che ha origine nel
presupposto stesso di ogni valutazione morale (il valore assoluto della persona
umana), tra valori morali universali e valori morali propriamente personali,
corrisponde naturalmente una distinzione nel carattere di obbligatorietà che
as- sume rispettivamente nella coscienza l'attuazione degli uni e quella degli
altri. Ai primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere
una obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una
obbligazione interna. In quanto la società or- ganizzata, lo stato, il Potere
politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni ester- ne
della moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento
dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere
formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è
affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume
tuttavia per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo
il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva;
cioè la giustizia come posizione e conservazio- ne delle condizioni esterne
necessarie alla libertà di tutti. È notissimo, e sarebbe superfluo chiarire
questo punto, che qui si disegnano due orientamen- ti di coscienza diversi e in
alcuni, se non tutti i postulati pratici, opposti; e due concezioni politiche
corrispondenti, tra le quali intercorrono gradazioni varie di partiti. E sono:
l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia è la
garan- zia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente date e
quello che prende impropria- mente nome dal socialismo: — la giustizia è la
costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno trovi in esse la medesima
possibilità esterna di valere come persona — (che coincide con l'interpre-
tazione piú universalmente radicale della famosa seconda formula della
Fondazione di Kant). Ciò che qui importa di notare è piuttosto che in essa si
rivela una forma del conflitto fonda- mentale di cui si è toccato, nel modo di
intendere la conciliazione o meglio la subordinazione delle due esigenze
costitutive della personalità: l'esigenza universale e l'esigenza individuale.
Senonché, appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato
soltanto in rela- zione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla
forma veste giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come
negazione o posizione nel Potere politico della facoltà di sotto- porre ad una
legislazione esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di
distribuzio- ne della ricchezza. La quale limitazione del carattere del
conflitto è dovuta non solamente e non tanto all'abbassamento inevitabile che
ogni idealità subisce nel tramutarsi da esigenza etica in programma politico,
quanto ad una necessità intrinseca alla costituzione stessa del Potere e alle
condizioni della sua vali- dità. Questo capitolo presenta soltanto nei suoi
lineamenti più generali una materia che deve essere trattata distesamente a
parte [Il quale dal punto di vista etico trova, e non potrebbe essere
altrimenti, la sua giustificazione in una finalità di contenuto individuale. È
individualismo; universalistico si, ma individualismo. Una prova di ciò assai
significativa è appunto la deduzione che Fichte fa dal dovere che ciascuno ha
di attuare in sé la massima libertà, del diritto alla formazione ed educazione
morale di sé, alla cultura, ai mezzi necessari alla cultura, al lavoro.
Insomma, ai medesimi postulati del socialismo; salvo che là sono detti in modo
diverso. Nell'esemplificazione introdotta qui sopra si è supposto che l'idealità normatrice
potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o religiosi
o edonistico- altruistici, ma non si è considerato distintamente il caso che
l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico; perché esso,
nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a verità, non presenta
quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con i quali
può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto
costituito dagli altri ordini di valori. Ma questo non toglie che anche
l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a principio normativo, purché,
si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo; cioè riconosca legittimo che
valga nelle medesime condizioni per tutti quello stesso criterio di
valutazione, che assume come va- lido per sé, e che dà, per ipotesi, coerenza
al suo giudicare e al suo fare. Ora è da notare che dal puro calcolo egoistico
razionalizzato si deduce quel medesimo ordi- ne di valori universalmente
strumentali di libertà e di giustizia, che si deduce da ciascuna delle i-
dealità normative supposte. E basta a persuadercene il fatto che l'economia
pura assume come presupposto, cioè come norma universale di condotta dell'homo
oeconomicus, appunto un postulato edonistico, non solo, ma
edonistico-egoistico. Ed è noto che il liberalismo politico è modellato —
s'intende sempre nel suo aspetto puramente politico, cioè esteriore — sul
liberismo economico. Questa considerazione contraddice solo in apparenza la
tesi, per la quale non può essere normativo che un valore considerato come
valore per sé distinto dagli impulsi e dai desideri transi- tori e variabili
del soggetto; perché il valore che l'economia contempla in realtà, non è il
piacere, o la soddisfazione soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì
sempre normalmente soltanto un va- lore strumentale, ma (anche lasciando in
pace l'esempio dell'avaro) può essere — ed è in effetto dal- l'economista — considerata
come valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni spe- cie di
valori edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono considerati
e valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione e di
godimento che se ne trae e che è misurato ob- biettivamente dal quanto di
ricchezza necessario a procacciarli. Ne segue che il Potere politico e il
sistema giuridico che riceve da esso sanzione e validità di diritto positivo,
possono assumere un significato e un valore al tutto diversi — pur avendo per
con- tenuto una medesima materia — secondo che questo contenuto è valutato come
un ordine di valori strumentali che trova la sua ragion d'essere e la sua
giustificazione soltanto nel suo carattere di con- dizione necessaria della
coesistenza degli egoismi individuali, o secondo che è considerato come un
ordine di valori morali diretti e immediati, come un'esigenza del valore
primario assoluto della per- sona umana, e della libertà che ne è la nota
essenziale. E ne segue parallelamente che si possa ravvisare nell'ordine
giuridico cosí la realizzazione di un'esigenza etica, come un sistema di
condizioni che precede idealmente l'esigenza etica e la rende possibile, ma che
sussiste e sussisterebbe per sé indipendentemente da essa. In realtà, siccome
il valore morale non è valore e non è morale se non per la coscienza che lo
sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è questa: che o si
riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere in alcune o in molte
delle coscienze individuali carattere e for- ma di valori morali, anche
l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il conte-
nuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione etica e
non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo all'egoista;
subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si potrebbe
pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo accetti. Dal che nasce
la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve coincidere, quando al
contenuto, con la deduzione puramente egoistica, cioè che le norme di diritto
devono essere stabilite come se la loro ragion d'essere fosse unicamente
l'utilità egoistica. E il fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena)
ha un contenuto egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico
dell'osservanza del diritto, sembra confermare tale conseguenza. Di qui seguono
due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra morale e po-
litica. Il primo è questo: che il potere politico, in quanto è forza di
coazione che pone come ester- namente obbligatorie certe condizioni quali si
siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé,
direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto
interiore, in- sindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i
mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi),
sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che co- me motivi di ordine
egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di fatto
an- teriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè tengono luogo
del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli effetti
esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé né
morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente dalla
coscienza dei singoli. Il secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico
poter essere giustificato da un punto di vista puramente egoistico, affinché il
Potere politico possa avere un contenuto, non soltanto negati- vo, ma positivo,
comune col contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare
organo promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto
di queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o
come elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle
soddisfazioni egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intel-
lettuali, estetici, simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori
piú desiderati o desiderabili nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni
essenziali dei valori egoistici. E ciò equivale a dire che la funzione primaria
e preliminare del Potere politico come organo di cultura è quella di ordinare i
mezzi atti a dare ai motivi edonistici un contenuto sempre piú spiri- tuale e
morale, ossia ad elevare e affinare nei singoli la capacità di sentire e
apprezzare come beni migliori e piú desiderabili di ogni altro i valori spirituali.
La funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o le
condizioni ester- ne necessarie alla possibile educazione ed elevazione
spirituale di ciascuno. Fin qui si è considerato il Potere politico soltanto
come organo di obbligatorietà esteriore ri- spetto ai singoli soci, dalla cui
volontà è idealmente posto, astrazione fatta da ogni relazione dello stesso
potere con altri poteri; cioè come stato di fronte ad altri stati. Ma se si
considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e funzione di
Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e fonde in
un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I quali per
rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono sostituite
nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa nello stesso
tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la coscienza di
ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto e sorgente di
idealità etiche. Non è possibile e non è necessario esaminare distesamente le
conseguenze che nascono da questo diverso significato e valore che lo stato
assume in forza dei suoi rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere
l'antinomia che ne deriva nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché
lo stato è considerato nella sua azione interna o nella sua condotta esterna.
Rispetto a quella il Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la
persona singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo.
Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non
in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla
tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle
stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione
necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso. Dai suoi rapporti col
Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno idealmente) ogni
esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale esigenza è
necessaria. Di qui la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti
nei partiti politici che consi- derano come insuperabile l'opposizione degli
stati ed eticamente incondizionata la sovranità di ciascuno; e la tendenza
opposta nei partiti, che credono superabile l'opposizione, e condizionata
etica- mente la sovranità degli stati nelle loro mutue relazioni. Si è avuto
occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per la
quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come
normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni
interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo
all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e
continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della
conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o esecutivo
col volere valutante o legislativo. In questa devozione a un Valore sentito e
voluto come valido per sé all'infuori di ogni interesse puramente soggettivo e
accidentale dell'individuo è già la nota caratteristica della religiosità; nota
che è rilevata, sebbene con qualche incertezza e confusione, anche nel
linguaggio comune. Dove il verbo «adorare» significa appunto devozione a un
oggetto, al quale si riconosce un valore incomparabile e a cui si è disposti a
sacrificare ogni altro bene. Ma questa devozione all'idealità, perché sia
piena, effettiva e costante, suppone o richiede le disposizioni spirituali, le
condizioni soggettive, nelle quali e per le quali si viene attuando; richiede
da noi, in noi, il potere di tenerle fede. Ora, quando noi concepiamo l'ideale
morale come un Ente, una Virtualità, una sorgente di energie spirituali, a cui
attingiamo il potere nostro di realizzarlo in noi stessi, e a cui possono
attin- gere i partecipi della stessa idealità il medesimo potere, e quella
virtualità è sentita come divina, e lo spirito perfetto che lo realizza in sé
come Dio, la nostra devozione è religione. Vi è dunque per questo rispetto una
certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il
Potere politico realizza le condizioni esteriori della moralità, la Virtù
divina realizza le condizioni interiori. E poiché l'attuazione del valore
morale consiste essenzialmente nell'atto del volere, cioè è interiore e
spirituale, e la conformità materiale ed esteriore trae il suo valore dalla
prima; cosí il Potere politico potrà apparire alla coscienza religiosa come mezzo
e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir tale finché essa considera
le condizioni esterne della convivenza come ideal- mente poste e giustificate
soltanto in forza della propria idealità, e non giustificabili fuori di quella.
Ma se si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza stessa religiosa
deve esser condot- ta a riconoscere che quella subordinazione non è neppure per
essa necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua giustificazione in
quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della quale essa coscienza
riconosce il valore supremo della propria idealità, e l'autorità divina del
Potere che la realizza. È la esigenza del rispetto della persona umana come
sorgente di ogni valore; del valore stes- so e della inviolabilità della fede
che essa attesta, e che oppone a ogni altra fede. Ed implica quella libertà che
essa non può negare in altra persona senza negarne il valore per sé: che ogni
altro deve riconoscere a lei per non vilipendere la propria; che è il principio
da cui muove e il termine a cui riesce ogni elevazione dello spirito. Inoltre:
Ogni sforzo che si faccia per tradurre un dovere religioso in obbligo giuridico
e dar- gli una sanzione materiale esterna, contraddice, nel momento stesso che
sembra affermarla, l'esi- genza della religiosità. Perché tende a sostituire al
motivo religioso — del tutto interiore — della devozione e della adorazione, un
motivo esteriore e di necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale
si trova cosí invocato a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione
interiore dello spirito, e la purità delle intenzioni. Ed è poi, questa
distinzione e indipendenza del Potere politico e della legislazione esterna da
ogni particolare fede religiosa, da un punto di vista obbiettivo, inevitabile
non meno che la indipen- denza già notata da ogni particolare idealità morale.
Perché ciò che fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa
è insieme ciò che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità. È certo che
la «esperienza religiosa» del mistico non può essere negata da altri. Le
intuizioni alle quali essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova,
certe di una certezza diretta, cioè anteriore a ogni prova, non meno delle
sensazioni. Ma al pari di queste non sono comunicabili ad una coscienza che non
le prova e non le vive. Potrebbe parere materia di discussione
l'interpretazione che il mistico fa di questi dati, il momento (che l'analisi
obbiettiva può distinguere dal momento dell'intuizione) per il quale la co-
scienza trapassa dalla intuizione sua, dall'esperienza propria diretta,
all'affermazione del divino in sé, come oggetto dell'intuizione. Ma anche
questo processo sfugge alla discussione perché non è logico ma psicologico:
anzi non è per la coscienza del mistico un passaggio, una argomentazione, ma
una integrazione che si pone coll'atto stesso dell'intuizione e che è vissuta
con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sotto- porre dal di fuori questo
processo ad analisi critica, analizza in realtà qualche cosa di diverso. Ana-
lizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per provare la validità della
sua conclusione, una co- scienza che non senta già la certezza di questa
conclusione; o, piú esattamente, che consideri come conclusione di un passaggio
logico, quel che per il mistico non è conclusione logica, ma è evidenza
psicologica. E d'altra parte è pur vero che questo medesimo carattere di
evidenza immediata che rende la certezza del mistico invulnerabile ad ogni
attacco di critica, le toglie nel medesimo tempo ogni pos- sibilità di
dimostrazione. Se poi la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non
sull'«esperienza» non ne è perciò me- no inevitabile la individualità e la
incomunicabilità. Perché se l'autorità della rivelazione è accettata come tale
per un atto di ossequio, di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale
è data, essa è un atto di volontà, non di ragionamento, e presuppone quella
certezza del divino, alla quale essa ri- velazione dà bensì un contenuto
dogmatico, ma non dà, se non lo trova, il valore di certezza. E se la mia
coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali, per le
quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine divina, le
prove della rivelazione (sup- ponendo pure superati tutti i problemi che vi si
riferiscono) non sono prove della certezza che io ho del divino, ma sono prove
che mi inducono a riconoscere nella rivelazione un segno di quel divino, di cui
ho la certezza. Ma il riconoscere questo carattere interiore personale e
insindacabile cosí delle diverse idea- lità etiche come delle diverse credenze
religiose (anche se si accompagni alla consapevolezza che ciò che costituisce
la legittimità e inviolabilità dell'una è, nello stesso tempo, ciò che
costituisce la medesima legittimità e inviolabilità di ciascun'altra), non è la
medesima cosa che spogliare ognuna di esse di quella tendenza alla negazione
non solo, ma alla esclusione delle dottrine opposte, che è propria di ogni
fede, vale a dire della affermazione del valore intrinseco di una idealità, che
per ciò si riconosce come degna di valere universalmente. In questa diversità e
molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la fonte di ogni in-
cremento della cultura e di ogni elevazione spirituale. Ciascuna di queste voci
è una voce umana, la voce di una persona; e ciascuna deve poter farsi sentire.
Ma quella ragione medesima che pone questa esigenza ne pone il limite; e i
limiti sono i valori morali universali il cui contenuto si allarga e si
arricchisce della potenzialità di sempre nuovi valori nella esperienza dolorosa
e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove è qualche lume di
umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si misura la sua
dignità di uomo. Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.Ho
cercato di mostrare altrove1 come e perché sorga logicamente — e, si può dire,
dalla ne- cessità intrinseca dello svolgimento morale — il problema di una
pluralità di contenuto nella co- scienza morale; sorga, quando si abbandoni il
presupposto che è la forza segreta del formalismo kantiano, che l'imperativo
categorico, l'universalità della legge, la razionalità del volere convengano a
un solo, a quel solo contenuto, che si pretende poi, nelle deduzioni della
dottrina del Diritto e della Virtú, di ricavarne; in termini piú chiari e meno
tecnici, quando si cessi di ammettere che la co- scienza morale sia una e la
medesima in tutti; non solo per il tono con cui parla dentro ogni persona, ma
per le cose che dice; non solo per l'autorità con la quale comanda, ma per ciò
che comanda. Questo problema viene a sovrapporsi o meglio ad anteporsi (se non
anche a sostituirsi), — e in ogni caso (come pure ho cercato di dimostrare) a
mutar senso e posizione — al problema che è tuttora, almeno nella forma
consueta, considerato come il problema centrale, il vero problema del- l'etica:
quello del fondamento. La quale forma di trattazione sembra supporre — già nel
modo di porre il problema (filosofia della morale) — che sul contenuto concreto
di ciò che si chiama morali- tà, sul modo di condotta che si distingue come
morale, sui criteri coi quali giudichiamo del giusto e dell'ingiusto, del bene
e del male, non cada dubbio; e il dubbio riguardi le ragioni per le quali si
de- ve veramente tener giusto e buono quel modo di condotta, e legittimo quel
criterio; e ingiusto e ille- gittimo il contrario2. Che questo presupposto sia
ora, dico non solo nella letteratura, ma nella coscienza viva con- temporanea,
arbitrariamente assunto; che nel decidere — se ciò che vale di piú sia la
verità, o la bellezza, o la giustizia, o la carità, o la forza; l'affermazione
di sé o la rinunzia, l'umiltà o l'orgoglio, la disciplina o l'indipendenza non
tutte le coscienze vadano d'accordo; che nella stessa coscienza di una persona
non volgare e non ignara dei problemi morali, né estranea alla consuetudine di
una sincera e severa meditazione, si presentino, tra questi valori diversi,
contrasti e opposizioni non sempre e non facilmente superabili, è ciò che
nessuno potrà e vorrà negare; ed è in ogni caso una realtà che non cesserebbe
di sussistere e di imporsi all'attenzione, anche se fosse negata. Lo stesso
apparire nelle discussioni dottrinali e nelle storie generali e particolari
dell'Etica di teorie dette immoralistiche, dimostra che le differenze ci sono e
che giungono a tale da dar luogo non solo a contrasti ma ad opposizioni
contraddittorie. E qualunque sia il giudizio anche sommario che si voglia
portare su di esse bisogna ricono- scere che non avrebbe senso qualificare immorale
una dottrina, se il contenuto suo non si opponesse appunto a quello delle
dottrine morali come specie a specie nel medesimo genere; cioè se non pre-
tendesse di valutare e regolare — in modo diverso — la medesima materia3. Ciò
basta a confermare, se di conferma vi è bisogno, che il problema di una
pluralità di con- tenuti della morale, ossia di una pluralità di criteri di
valutazione, non è un problema di semplice possibilità astratta, cioè una
curiosità scientifica e filosofica, ma è un problema d'attualità concreta e
viva; è, veramente, a mio giudizio, il problema per eccellenza della coscienza
morale contemporanea. 1 Su la pluralità dei postulati di valutazione morale; Il
Vecchio ed il nuovo Problema della morale. Questo modo di vedere è favorito, se
non conservato, dal preconcetto, del tutto arbitrario, che la morale sia una
dipendenza della filosofia teoretica; e che nella filosofia teoretica sia da
cercare la ragione dei criteri e dei principi che reggono e giustificano la
condotta. Il quale preconcetto è all'incirca così ragionevole, come quello di
chi andasse a cercare nella luce che viene a illuminare una sala, la
spiegazione degli atteggiamenti nei quali sono veduti quelli che vi si trovano.
3 Né in sede di discussione e di critica si può respingere senz'altro come
amorali o immorali dottrine che hanno pure un loro contenuto valutativo senza
assumere come valido appunto quel contenuto di cui le dottrine in questione
contestano la validità. Non si comincia un dibattimento giudiziario con una sentenza
di condanna. Del resto, se può parere nuovo il problema, a cui dà luogo —
quando si fa piú aperta e mani- festa — la pluralità dei criteri, non è nuova
questa pluralità. Anzi, forse non vi è sistema, per quanto vi domini potente lo
sforzo logico della coerenza, che non nasconda sotto l'unità, apparentemente
raggiunta, del criterio supremo, una piú o meno lar- ga e profonda pluralità o
almeno dualità di contenuto. Per non ricordare con Aristotele la duplicità di
felicità e virtù — ben vivere e ben fare — e per lasciare l'antica e non mai
del tutto superata dualità di vita attiva e di vita contemplativa, l'unità
reale di criteri nella valutazione della condotta non è raggiunta se non in
apparenza, nella stessa mo- rale teologica cristiana; la quale, mentre non
rinunzia, e non può rinunziare, a regolare la condotta umana anche nel rispetto
della vita terrena finita, si sforza poi invano di ricondurre i precetti che
re- golano questa al medesimo criterio di valutazione che è suggerito o imposto
dal contenuto sopran- naturale del fine che la giustifica. E il distacco logico
inevitabile tra il fine invocato a giustificare le norme e il criterio usato a
determinarle, è dissimulato ma non superato, nell'unità della rivelazione o
della intuizione religiosa. Perfino nell'età del razionalismo, nella quale
l'unità di natura e l'identità di doveri e di diritti di tutti gli uomini è
affermata col massimo di consenso e di calore, indipendentemente da ogni par-
ticolare dogmatismo confessionale, l'unità della valutazione morale si può dire
raggiunta soltanto perché se ne restringe la considerazione al campo
propriamente etico-giuridico, e si trascura o si la- scia nell'ombra la parte
piú specialmente personale e che tocca gli aspetti e le forme della vita inte-
riore. E quell'unità parziale di contenuto sembra essere il segno e la prova di
un unico supremo cri- terio di valutazione morale, perché viene comunemente
ricondotto a un fine che dissimula, sotto l'i- dentità nominale del termine, la
possibilità di determinazioni diverse per quel che tocca la parte del- la
condotta etica che sfugge all'attenzione di quel tempo; e che riguarda i fini
propri della persona, e le forme della vita interiore. Ma il romanticismo e lo
storicismo, per vie diverse ma cospiranti, posero in luce quel che il
razionalismo aveva lasciato nell'ombra o trascurato; e l'uno affermando,
illustrando ed esaltando la ricchezza, la varietà, il valore, se non esclusivo,
superiore della vita spirituale e della attività interio- re, originale,
spontanea; l'altro cercando nella realtà storica la ragione e la
giustificazione delle for- me di vita sociale, religiosa, politica che in nome
della natura e della ragione erano state condannate, avevano condotto a questo
doppio risultato: per un verso, ad allargare smisuratamente l'ambito della vita
interiore, raccogliendo e quasi contraendo in essa tutte le attività
spirituali, facendone il campo piú degno, e, se non esclusivo, certo dominante
della condotta morale, e comprendendovi della vita sociale, al più, quel che in
essa si dispiega di spontaneo e d'ingenuo: la pietà, la carità, l'amore, con
l'aperta tendenza a distinguerlo non solo, ma a staccarlo dalle attività
considerate come esteriori, della vita politica e giuridica. Per l'altro verso,
a negare, non solo ogni realtà ed ogni fon- damento storico, ma ogni valore,
alle costruzioni politiche e giuridiche del giusnaturalismo; alle dottrine
dello stato di natura, del contratto sociale, dei diritti innati; e a
considerare come un prodot- to storico le forme politiche e giuridiche; le
quali trovano, nelle condizioni che le hanno generate e che le rendono adatte
rispettivamente alle esigenze dei popoli diversi in luoghi e tempi diversi, la
loro giustificazione necessaria e sufficiente; e quindi a fare il diritto estraneo
all'etica e indipendente da qualsiasi giustificazione morale, lasciando aperto
il campo alle piú svariate forme di relativismo: biologico, sociologico,
storico. Cosí quel che per il razionalismo era il contenuto comune della
coscienza morale, finiva per essere considerato quasi estraneo alla morale. E
mentre si faceva piú largo e piú profondo il distacco tra interiorità e
esteriorità, si attenuava sempre piú la distinzione tra i valori morali e i
valori spirituali di diversa specie e di diverso contenuto, e prendeva colore e
calore di valutazione morale una molteplicità sempre piú varia di tendenze, di
aspirazioni, di attività, di fini di- versi. Per tal modo penetra nella vita e
nella cultura, e si manifesta non solo nella filosofia, ma in quella che si chiama
piú propriamente letteratura, quella molteplicità di indirizzi, di opinioni, di
ere- sie morali che è la caratteristica, e che esprime, per dir cosí, la
maturità storica del problema, prima dissimulato e trascurato. Non si vuol
dire, né sarebbe a priori probabile, che ad ogni novità di intuizione
particolare, geniale o no, su questa o quella forma di vita e di attività
individuale, su nuovi aspetti della cultura speculativa o religiosa o
sentimentale, su nuove direzioni della volontà, sul valore dei tipi di
istituti, familiari, politici, economici (reali o immaginati) corrisponda una
diversità di criteri morali; né tan- to meno che ciascuno esprima una
orientazione di coscienza morale radicalmente diversa dalle al- tre; ma neppure
è possibile dissimulare che questa molteplicità è altra cosa dalla «dualità»
notissi- ma, che nella tradizione e nella credenza comune e nella dottrina piú
largamente diffusa, raccoglie- va e, direi, polarizzava attorno a due termini
contrari i valori della vita, opponendo i beni razionali ai beni sensibili, e
negando a questi ogni valore morale. Perché, lasciando pur fuori di questione
ciò che tocca i beni detti sensibili (per semplicità di discorso, non perché
anche su questo punto le que- stioni sieno escluse di fatto, o siano da
escludere a priori), la caratteristica nuova e piú rilevante di tale
molteplicità, è appunto questa: che è nel regno stesso dei beni razionali, che
la diversità delle tendenze si è venuta delineando sempre piú spiccata. E i
contrasti di tendenze e di opinioni si rive- lano anche, anzi soprattutto, nel
campo di quei valori che era pacifico considerare come patrimonio, se non uno e
indivisibile, almeno indiviso, e non costituito di parti discordanti. E mentre
si venivan disegnando, cosí, conflitti di primato, se non contrasti
irreducibili, tra i valori stessi tenuti tradizionalmente come superiori, si
presentavano: di là, idealizzate, e sotto veste di valori razionali, o
giustificate in nome di esigenze razionali, tendenze e forme di vita spon-
tanee, passionali, o istintive, considerate già come estranee se non contrarie
alla vita morale: e di qua si esaltavano come centro e culmine dei valori
morali le forme religiose, intuitive, sentimentali e mistiche, avverse, almeno
in apparenza, ad ogni pretesa di procedimento razionale, e che ad ogni modo si
affermavano in atti di aperta sfida contro la ragione. E insieme si negava ogni
significato etico — anche nella loro forma di idealità sociali e politiche — a
quei principî razionali del diritto, nei quali il secolo precedente aveva visto
ad un tempo il segno piú alto della dignità umana e il maggior trionfo della
ragione. Di fronte a cosí grande e cosí varia pluralità di contrasti tra
criteri di valutazione, o tra «scale di valori» diverse, può bastare a
risolvere i conflitti e a ricostituire — posto che sia necessaria — l'unità del
contenuto, e l'universalità del consenso, affermare che la morale è universale
perché è ra- zionale, o è razionale perché è universale? Né è possibile fare
appello alla ragione come autorità morale suprema quando i moralisti che se ne
fanno interpreti non riescono, pur affilandone tutte le armi, né a convincere
né a vincere i de- trattori, se non argomentando ad hominem cioè facendo
appello a qualche principio o criterio da quelli stessi assunto od ammesso. E i
detrattori non riescono a formulare neppure una sentenza di condanna che abbia,
non si dice un valore, ma un significato quale si sia, senza servirsi di quella
ra- gione che coprono di contumelie, e che presta pure la sua assistenza, con
divina larghezza, anche a chi la bestemmia. Dal che parrebbe di dover
ragionevolmente concludere che della ragione non si può fare a meno, in materia
di morale piú che in qualsiasi altro campo; ma che non si può trovare in essa
la sorgente delle valutazioni morali. E tuttavia non solo fu — nell'età aurea
del razionalismo — ma è tuttora largamente sostenuta ed accolta, non senza che
la tenacia degli sforzi abbia un profondo significato, l'idea di cercare nella
ragione anche ciò che la ragione non può dare; e di riferire a lei non soltanto
l'esigenza della coerenza, dell'unità, e quindi di leggi, di criteri e massime,
ma anche di certe leggi e di certi criteri, piuttosto che di leggi e criteri
diversi. Ma l'idea è illusoria. E l'illusione sta in ciò essenzialmente: nel
credere che la ragione obbli- ghi ad ammettere non soltanto certi giudizi, dato
che se ne accettano certi altri, certe conseguenze, se si accettano certe
premesse; ma obblighi senz'altro ad accettare certi giudizi: quei giudizi
stessi che fanno da premessa; che «esser ragionevole» voglia dire non soltanto
osservare le leggi della logica, rispettare quei principi logici senza dei
quali non è possibile nessun ragionamento e nessun «uso della ragione», ma
voglia dire essere obbligati a riconoscere "certe verità", ad
ammettere certi principî; principî non logici o formali, ma materiali; dati o
postulati che facciano da sostegno al ra- gionamento, e comunichino la loro
certezza ai giudizi che se ne ricavano. Ora io lascio di considera- re, perché
non è necessario qui, il campo dei giudizi propriamente teoretici e la
distinzione che sa- rebbe necessaria tra giudizi condizionali e giudizi di
esistenza; e mi restringo al campo «pratico». In questo adunque la ragione
sarebbe essa che pone ad un tempo l'esigenza della legge e la legge; cioè, non
solo l'esigenza dell'unità e le norme da osservare per realizzarla, ma anche i
criteri attorno a cui si deve raccogliere questa unità; quei giudizi stessi che
non si giustificano, ma che servono di fon- damento alla giustificazione.
Questa «funzione pratica»4 della ragione si può intendere in tre modi diversi:
O i criteri di valutazione, i giudizi di valore che stanno a fondamento dei
giudizi morali, hanno la stessa validità e si possono o dimostrare o porre con
la stessa necessità od evidenza con la quale si impone la validità delle forme
logiche. Oppure se il dato o principio che sia a fondamento delle valutazioni è
diverso dalle verità teoretiche, assunto dalla ragione, non posto da lei ma
offerto a lei, questo dato è tale che essa non ha che da scoprirlo, da
formularlo, da presentarlo alla riflessione di ogni uomo ragionevole per- ché
ne sia riconosciuta ed ammessa come indiscussa e indiscutibile la validità. — O
finalmente è la ragione stessa che pone la legge, ed è l'esigenza razionale che
basta a determinarla, senza che a costituire la validità della legge e del
contenuto che essa incorpora in con- formità della sua esigenza, sia necessario
riconoscere la validità di alcun dato o principio materiale estraneo alla forma
stessa della legge. Non vi sono che queste tre vie possibili; e sono le vie che
anche storicamente il Nazionali- smo ha seguito con maggiore o minore sforzo di
argomentazioni e varietà e ricchezza di gradazioni particolari. La prima via,
la piú antica, quella aperta da Socrate quando si presentò per la prima volta
il problema morale in condizioni analoghe per certi rispetti (nessuno pensa a
dire uguali) a quelle che lo fanno risorgere ora in una forma somigliante (il
contrasto nelle opinioni intorno a ciò che è bene, o in breve, il problema
della pluralità dei criteri morali), è la via che si direbbe piú propriamente
in- tellettualistica. I principî morali sono verità5 della medesima natura
delle altre, accertabili teoreti- camente, o deducibili da verità teoretiche. È
l'indirizzo del quale ho parlato già altrove6 e il cui vizio radicale consiste
nel fare dei giudizi di valore giudizi teoretici, e pretendere di derivare
quelli da questi. Ma quanto alla derivazione nessuno sforzo logico può fare che
concluda con un giudizio di valore un ragionamento che non abbia per premessa,
espressa o sottintesa, un giudizio di valore. Quanto alla certezza immediata
nessuna evidenza logica può fare che sia contraddittorio in sé stimare di piú
il proprio cane che il prossimo, se non si suppone che io ammetta che un uomo 4
Questa espressione può avere in morale tre sensi diversi che importa
distinguere. Si può intendere che dipen- da dalla ragione il valutare, cioè
riconoscere e graduare i valori; o che dipenda dalla ragione il conformare la
condotta alla valutazione, muovere la volontà: e questi sono i due sensi che
rispondono all'uso piú comune del termine «pratico» e che pur si confondono tra
di loro, benché siano diversissimi; come è diverso riconoscere la giustizia o
la bontà di una norma e osservarla, stimare la virtú e praticarla. Ciò che è in
discussione qui e nel seguito è sempre, se non si dica espressamente il
contrario, il primo signifi- cato. Finalmente vi è un terzo senso, quello
propriamente kantiano, che consiste nel riconoscere la possibilità e la le-
gittimità di affermare per il bisogno morale l'esistenza di ciò che la ragione
speculativa non può conoscere; di fondare sulla morale una certezza metafisica
che è preclusa all'uso teoretico della ragione; ed è a un tal uso che si
riferisce, come tutti sanno, la notissima espressione «primato della ragion
pratica. La tesi morale di Socrate è duplice come tutti sanno: che il bene e il
male si possono conoscere (se ne pos- sono fare dei concetti veri) come si
conoscono le altre cose. che conoscere il bene e praticarlo è il medesimo,
ossia che la moralità (la pratica del bene) è sapere; chi fa il male lo fa
perché ignora che cosa sia il bene. La prima tesi sta indipendentemente dalla
seconda che qui è lasciata in disparte. Di solito quando si parla della tesi di
Socrate in tema di morale si intende dire di questa seconda e non di
quell'altra, la quale anzi è comunemente ascritta, e in un certo senso
giustamente, a merito di lui. Vecchio e nuovo Problema]qualsiasi vale piú di un
qualsivoglia cane, o che dove c'è pensiero, ivi c'è una dignità incomparabile
con qualsiasi pregio di natura diversa. Ma in questo caso la contraddizione è
tra un mio giudizio e un altro mio giudizio; che si suppone pure ammesso da me
e per me valido. Ma chi o che cosa mi obbliga ad ammettere questo valore del
pensiero? E perché cadrei nell'assurdo se lo negassi? Forse perché con ciò
diminuisco o nego un valore che è anche mio? Sarebbe dunque il rispetto e la
stima di sé un principio logico? E la despectio sui del Geulinx contiene dunque
una contraddizione in termini? Se si incalza che il giudizio sulla inerenza all'uomo
di proprietà o doti che mancano al cane è di evidenza oggettiva e che
riconoscere un maggior valore all'uomo che al cane è la stessa cosa che
riconoscere all'uomo una maggior realtà, cioè una maggior perfezione, è facile
avvertire che in que- sta identificazione si assume appunto ciò che è in
questione: che la perfezione o il pregio delle cose e delle proprietà delle
cose sia accertata o accertabile teoreticamente come la loro esistenza e appar-
tenenza; mentre basta una non lunga riflessione per accorgersi che il giudizio
sul pregio e sul valore o il «grado di perfezione» di qualsiasi ente o
proprietà implica il riferimento a una gerarchia, a un ordine, a un disegno,
cioè in ultimo, a un modello, e quindi a un fine attuato o da attuarsi. E, che
possa o debba valere come fine, che meriti di valere, non è un giudizio in
realtà; tanto che il negargli questo valore non implica negare sia la realtà,
sia la possibilità, sia alcuna delle proprietà dell'ente. Cosí come negare alla
sfera il valore di forma perfetta che le davano i peripatetici, non implica per
GALILEI (si veda) la negazione né della costruibilità della sfera, né di alcuna
qualesivoglia delle sue proprietà geometriche. La sfera rimane la sfera. Si
potrà o non si potrà ammettere che essa abbia, in grazia di quelle proprietà,
un pregio particolare, ma l'ammetterlo o negarlo non appartiene alla geometria;
e mentre io rinuncio ad essere intelligente se non capisco il concetto della
sfera, e rinunzio ad essere ragionevole, se non ammetto tutte le proprietà che
ha o avrebbe una sfera reale costruita secondo quel concetto, non rinunzio né
all'intelligenza né alla ragione se nego che la sfera valga piú del cubo o
della piramide. Lo stesso, mutatis verbis, vale per l'esempio allegato del cane
e dell'uo- mo. Senonché qui un rosminiano potrebbe insistere, che il caso è
appunto diverso e che la diversità ha un suo significato: perché mentre io non
provo internamente alcuna ripugnanza ad ammettere che la sfera non valga piú
della piramide, non posso senza ripugnanza invincibile, ammettere che il cane
valga quanto l'uomo. Che è questa ripugnanza, se non il segno della
«contraddizione che nol consente»? Che nell'esempio citato -- non per nulla
nella scelta SERBATI (si veda) ha la mano felice -- la repu- gnanza ci sia, è
innegabile — sebbene le tenerezze di certe dame possano far dubitare della
univer- salità del riconoscimento —; ma questa ripugnanza è una ripugnanza
morale, non una incongruenza o contraddizione teoretica, ed è comune nella misura
in cui è comune la valutazione su cui si fonda. Anche qui, ancora e sempre:
negando questa differenza di valore tra il cane e l'uomo io non nego nessuna
delle differenze di realtà che esistono e che si possono conoscere; non nego
nessuno dei ca- ratteri e delle proprietà dell'uomo o del cane, qualunque poi
sia il giudizio che faccio sul valore di- retto o indiretto di ciascuna di
quelle doti e di tutte insieme, e degli esseri che le posseggono. Che io faccia
maggior conto del potere di astrazione dell'uno che della finezza di odorato
dell'altro, o che apprezzi di piú l'amore della libertà dell'uomo che la
ubbidienza cieca del cane, non è per nulla una implicazione necessaria del
riconoscere rispettivamente nell'uomo quella proprietà che nego nell'al- tro. E
il giudizio potrebbe essere rovesciato, e un grossolano estimatore di tartufi
potrebbe preferire il fiuto del suo cane a quel qualunque potere di astrazione
che la natura prodiga ha largito a lui pure, senza che muti di un ette la
verità riconosciuta da ambedue: che l'uomo ha un certo senso meno fine del
cane, e il cane manca di un potere che ha l'uomo. — E se finalmente accadesse
davvero, come parrebbe anche naturale, che nessuno potesse disconoscere la
differenza di valore tra i due, questa universalità di riconoscimento non
cesserebbe di essere, per la sua natura e per il suo fondamento, diversa da
quella. L'essere universalmente ammessa una differenza di valore fra i due
enti, prova, nel caso che è universalmente ammessa o sentita l'esigenza morale
in grazia della quale quella dif- ferenza è posta: ma non prova che il giudizio
di valore, cosí espresso, sia una conoscenza teoretica; ossia, comunque,
riducibile alla conoscenza oggettiva dei due esseri, o ricavabile da questa. La
verità è che i giudizi morali (come ogni altro giudizio di valutazione) paiono
della stessa natura dei giudizi teoretici perché sono nella massima parte, e
con una frequenza di gran lunga maggiore, giudizi derivati e possono
presentarsi sotto forma di giudizi derivati, anche quando sono considerati,
sotto un altro rispetto, come primari e assunti come tali in una costruzione
diversa. Ora nei giudizi derivati, la validità della valutazione è ricondotta
alla validità di un altro giudizio (primi- tivo o primario o diretto) con un
processo, che non differisce in nulla, quanto alle leggi logiche che ne
governano la legittimità, dal comune processo di dimostrazione col quale si
prova la connessione necessaria di certe conseguenze con certe premesse. Con
questa circostanza, per dir cosí, aggravante: che, come s'è accennato, accade
di frequente, anzi solitamente, che quegli stessi giudizi che figu- rano in un
processo di giustificazione come premessa o principio, compaiono o possono
comparire in un altro ragionamento come conseguenza o conclusione. Tanto che
riesce difficile decidere, quando si tratta di valutazione, quali siano i
giudizi primitivi, e quali i derivati, comparendo a volta a volta secondo le
costruzioni diverse e i diversi punti di vista e talvolta nello stesso autore
(e senza che si possa per ciò solo appuntare i ragionamenti corrispondenti di
circolo vizioso e di petizione di principio), come giudizi derivati, dei
giudizi che figurarono in altro luogo, e per un altro proposito, come
primitivi, e inversamente; al contrario di quel che accade di solito nelle
costruzioni scientifi- che: dove i principî o proposizioni fondamentali hanno e
conservano costantemente il loro carattere e il loro ufficio. Sfuggendo cosí
all'osservazione, per la vicenda di ufficio logico al quale possono a volta a
volta essere assunti, quali siano i giudizi di valore primitivi, cioè quelli in
cui si assume la validità diretta e immediata (senza che sia ricondotta alla
validità di qualche altro giudizio), riesce piú difficile, o almeno si presenta
meno frequente e meno aperta, la opportunità o la necessità di e- saminare la
natura e di coglierne questo carattere di diversità, radicale e irreducibile,
dai giudizi teoretici. La quale diversità può sfuggire anche piú facilmente o
essere posta in luce tanto piú diffi- cilmente, per un'altra circostanza che ha
a quest'effetto un influsso anche piú decisivo. E la circostanza è questa: che
una parte considerevole dei giudizi valutativi che assumono piú frequentemente
valore di primari, o sono abitualmente sottintesi (tanto sono o si suppongono
incontestati), o sono incorporati e quasi assorbiti nei giudizi teoretici,
senza che l'apprezzamento, per lunga consuetudine congiunto all'idea
dell'oggetto, o della proprietà, o dell'atto, o dell'effetto possibile, sia
formulato in un giudizio distinto; anzi, talvolta, neppure sia espresso piú
nell'enunciazione del giudizio stesso da una di quelle particelle (aggettivi,
avverbi, interiezioni) che portano nel giudizio la espressione di una
valutazione, o, come si può dire con forma piú generale, la nota del
sentimento; la quale non appare talvolta che nel tono di voce dell'interprete o
lettore, o si rifugia nella scelta sapiente delle parole e delle sfumature
suggestive, di cui è ricca una lingua satura di civiltà. Dire di un uomo che è
indolente o che è intemperante, è, se non si parla a vanvera, attribuir- gli
una qualità, della quale è possibile dimostrare che veramente gli spetta, cioè
si posson dare delle prove oggettivamente certe e accertabili: è un giudizio
teoretico. Ma ognun vede che vi è tacitamen- 7 È tuttavia da notare anche qui
una tendenza a considerare l'ufficio logico rispettivo di principî e di conse-
guenze, suscettivo di essere invertito. Così nella piú rigorosa delle scienze
deduttive, la geometria, si può vedere la pos- sibilità, sfruttata per ragioni
didattiche o anche per maggior semplicità o eleganza di costruzione, di
invertire la dedu- zioni; assumendo come dato quel che si è ricavato, e
inversamente; come avviene del resto nelle dimostrazioni della connessione
reciproca di due proprietà fra di loro.] te assunto insieme un giudizio di
valutazione, nella misura che l'indolenza o l'intemperanza sono per chi parla o
per chi ascolta qualità non pregevoli, o biasimevoli; il che diventa
evidentissimo quando si tratti di qualità o di attributi, o modi di operare piú
gravemente e piú universalmente biasimati, come si dicesse: bugiardo, venale,
falsario e simili. Anzi, i giudizi di valutazione sono gravi in pro- porzione
della loro prova teoretica assai piú che delle espressioni di biasimo che li
accompagna; ap- punto perché il biasimo può essere piú facilmente sottinteso. E
non per nulla la diffamazione è punita piú dell'ingiuria. Cosí il giudizio
valutativo (sottinteso) sembra essere fondato su prove, come si dice, di fatto,
ossia su giudizi teoretici; mentre i giudizi teoretici provano bensì
l'esistenza del fatto o la legittimità dell'imputazione, ma non provano in
nessun modo il valore dell'azione. Il qual valore è già riconosciuto e ammesso
e incorporato nell'idea di quel modo di operare, di quel difetto o colpa di cui
l'azione è prova, e non ha bisogno di essere formulato a parte perché tutti lo
sentono e tutti lo sottintendono. Ora i giudizi di valore a cui si dà ufficio
di primari, cioè che si assumono a fondamento degli altri e alla cui validità
si riconduce la validità di questi, sono presi, solitamente, tra i giudizi il
cui valore per essere comunemente riconosciuto e, come si dice, pacifico, è
appunto piú facilmente sot- tinteso. Quando si è detto a una persona
intelligente «bada che quella pistola è carica», non occorre altro discorso per
persuaderla a maneggiarla con prudenza; e nessuno pensa che è sottinteso, o
meglio, nessuno ha bisogno di pensare distintamente che è sottinteso, un
giudizio sul valore della vita, e che l'avvertimento non avrebbe peso se la
vita non valesse piú di una cartuccia. Ora il giudizio: la vita è un bene; che
qui è sottinteso, può essere considerato come primario, per esempio in tutti i
precetti dell'igiene (dove anzi fa da primario un giudizio, che è già esso
derivato rispetto a questo, sul valore della sanità): ma può essere non
primario per chi giustifica a sua volta il valore della vita col valore del
sapere, o del bello, o della giustizia, o della carità, o della potenza, o
della gloria, o di qualsiasi altro ordine di fini o di attività o di godimenti.
Ma poi, quando si dice che l'arte, o la scienza, o la pietà sono un conforto
della vita, si fa di ciascuno di quei beni che sopra sono assunti come beni per
sé, un bene derivato rispetto a quello della vita. E cosí se si dice che il
sapere accresce la ricchezza, o la giustizia assicura la tranquillità, o
l'onestà alimenta la fiducia reciproca, si pongono, almeno occasionalmente,
come derivati, dei valo- ri primari, e si assumono come primari rispetto ad
essi, dei valori derivati. È adunque chiaro che i giudizi di valore si legano
fra di loro in una catena continua, anzi in un groviglio di catene, del quale
non è necessario qui cercar di capire piú particolarmente la struttura; e che
per queste mutue e varie connessioni delle diverse valutazioni fra di loro, si
può assumere come primario in un sistema di deduzioni un giudizio di valore che
figura come derivato in un sistema diverso. Ma in qualsiasi processo di
giustificazione, questo giudizio primario di valore e- spresso o sottinteso ci
deve essere; e si tratta di vedere — nel caso di valutazioni morali — non se
spetta alla ragione giustificare la scelta, ossia dimostrare da che cosa nasca
l'attribuzione di valore (che sarebbe precisamente fare del valore diretto un
valore derivato; la quale dimostrazione, se è possibile, nessuno dubita che sia
un processo razionale); ma, se ci sia un principio di valutazione, una
affermazione diretta o primaria di valore che sia razionale in sé, e che si
distingua come razio- nale da altre valutazioni primarie, che non siano in sé
razionali; cioè che non sia razionale accetta- re, che la ragione impedisca di
ammettere. Se si tien conto di quanto s'è avvertito sopra, la questione della
razionalità o irrazionalità dell'egoismo si riduce a vedere se l'egoista,
accettando il principio assiologico che assume come primario quando giustifica
il suo sistema di valutazioni egoistiche e le massime di condotta corri-
spondenti, rinneghi la ragione, e quindi, poiché è ragionevole, si trovi in
contraddizione con se stes- so. E cadrebbe in contraddizione: O perché operando
da egoista non raggiunge lo scopo al quale è rivolta la sua opera. O perché il
criterio egoistico contrasta con altri che l'egoista stesso in quanto egoista
non può fare a meno di accettare e di ammettere. È certo che l'egoista spesso
sbaglia i conti e fallisce lo scopo; ma questo non ha che fare nel- la
questione. I conti li sbagliano un po' tutti, o li possiamo sbagliare, senza
che ciò voglia dire nulla circa il valore o il disvalore, la dignità o
l'indegnità dei nostri scopi. Lo sbagliare riguarda la scelta o l'uso dei mezzi
e dà luogo ad un giudizio di abilità o inabilità, di successo o di insuccesso;
e sba- gliano i conti i filantropi forse piú spesso degli egoisti. Lasciamo
dunque le delusioni che possono venire agli egoisti da errori di calcolo.
Concludente invece, anzi decisiva, sarebbe, se valesse, l'altra obbiezione che
non si possa essere egoisti senza contraddirsi. La quale però ha il torto di
configurare un egoista incoerente (an- che se in realtà è il tipo comune, anzi
forse cedendo appunto alla suggestione della realtà) cioè, che pretende bensì
di subordinare ogni interesse, di qualunque genere, degli altri al suo
interesse pro- prio, ma pretende insieme che gli altri non facciano cosí; e ha
l'aria di dire agli altri: ma, insomma, se fate gli egoisti anche voi, come
faccio io a servirmi di voi per i miei comodi? Naturalmente quando si è
foggiato un egoista su questo tipo, è facile dimostrare che si contraddice. Non
è mai, in generale, molto difficile ritrovare in qualche cosa qualcos'altro che
vi sia posto dentro prima. Ma non vi può essere un egoista coerente? E come si
dimostrerebbe che non vi può essere? Vediamo come dovrebbe essere; e se,
essendo coerente, cesserebbe di essere egoista. Questa è ma- nifestamente la
tesi che si deve dimostrare per concludere alla irrazionalità dell'egoismo.
Egoista coerente è chi riconosce buono l'operare di ciascuno quando è dettato
dal suo inte- resse maggiore, ossia buono per ciascuno il modo di operare che
procura ad esso operante il mag- gior numero di vantaggi e il minor numero di
danni; ossia, un egoista coerente è esso senza riguardi 8 Non si può
considerare come esempio di contraddizione intrinseca dell'egoismo il caso
frequentissimo e co- munissimamente notato di chi si mostra in questa o quella
circostanza egoista perché opera da egoista o come se fosse egoista, mentre
sente dentro di sé di «aver torto», sente che la sua azione presente è disforme
da quel modo di operare che la sua coscienza morale riconosce come giusto; quel
modo di operare che egli approva quando giudica le azioni de- gli altri e che
egli stesso seguirebbe se non fosse in gioco. Ossia egli sente che dovrebbe
fare così e sente che farebbe così se il fare non gli costasse un sacrifizio;
il sacrifizio di quella certa sua piú o meno grande comodità. Ora certamente
qui (ed è il caso comune, tipico, notato migliaia di volte del contrasto, dello
scontento interiore e del rimorso) questa discordia interna è colta e segnalata
dalla ragione. È una esigenza razionale l'unità delle valutazio- ni, la
costanza dei criteri, la coerenza tra il valutare e il fare, ed è un processo
razionale che rivela le incoerenze e i con- trasti. Ma la questione non sta
qui. Il contrasto segnalato per il quale chi opera da egoista è colto in fallo
e deve riconoscere il suo torto, è possibile perché il supposto egoista ha
operato bensí da egoista, ma sente e giudica e valuta conforme a giustizia.
Egli è in con- traddizione perché il criterio di valutazione, cioè di scelta
tra i motivi, seguíto nella sua azione concreta è contrario al criterio di
valutazione che egli accetta come persona morale, che applica nel giudizio
sulle azioni altrui e, in quanto rie- sce ad essere imparziale in causa propria
anche a se stesso. E la vera questione qui sarebbe di vedere se quel criterio
di valutazione che egli accetta come persona morale è posto dalla ragione; se
dato che non fosse sentito e accettato dalla sua coscienza, potrebbe un
processo razionale farlo sorgere per gli altri, ma ammette e trova naturale e
legittimo nello stesso tempo, che ciascun altro sia senza riguardi per lui. È
pronto a sopraffare, potendo farlo senza danno, gli altri; ma non protesta se
altri, potendo, sopraffà lui. — Dov'è qui la contraddizione? Si dirà che cosí
facendo si riesce all'uno o all'altro di questi risultati: o alla limitazione
reciproca degli egoismi per mezzo di norme di condotta che li renda
compatibili, e abolisca lo spettro hobbesiano del «bellum omnium contra omnes»;
o al riconoscimento del valore supremo, della forza come criterio ultimo della
condotta. Ora il primo risultato — si dirà — è la negazione dell'egoismo;
l'egoismo, diventando ragio- nevole sbocca in un criterio diverso, anzi
contrario: si fa legge, cioè diritto, cioè giustizia. Il secondo tiene sospesa
sull'egoista la spada di Damocle della sua condanna: il piú forte d'oggi può
essere piú debole domani, il piú forte contro i singoli è meno forte contro la
coalizione dei singoli. Il numero, il «gregge» può sopraffarlo; e se lo
sopraffà esso ha ragione perché è il piú forte. Per sostenere che il criterio
della forza deve valere soltanto tra i singoli e singolarmente presi,
occorrerebbe un altro presupposto, un altro giudizio, un altro criterio fuori
della forza, che valga a distinguere entro quali limiti l'uso della forza è
legittimo. Ma fuori di questa clausola (che ricondur- rebbe al risultato
precedente), la forza contiene in sé la propria condanna perché genera da sé la
propria negazione. Né l'uno né l'altro di questi discorsi che paiono vittoriosi
è, se si guarda spassionatamente, concludente. Cominciamo dal secondo. È bensì
vero che l'egoismo se non scende a patti con gli egoismi che gli si possono
contrapporre sbocca nel criterio della forza; ma il criterio della forza non si
nega e non si smentisce finché si ammette che esso valga per tutti, che la mia
volontà sia legge finché il piú forte sono io, e che sia legge la volontà degli
altri quando piú forti sono gli altri. Sarebbe invece smentita appunto, quando
valesse finché il piú forte sono io e non valesse piú se il piú forte è un al-
tro. Si può dunque dire che il criterio della forza può riservare delle
sorprese, e portare, a chi l'accet- ta, piú danni che utili. Ma non si può dire
che sia in sé contraddittorio; come non è contraddittorio per un giocatore
accettare la legge del gioco coi suoi rischi e le sue promesse, anche se queste
sono superate da quelli. Ciò riguarda dunque, non la coerenza intrinseca del
criterio, ma la questione se a un egoista accorto convenga o no di farne la sua
legge. Se ci pensa bene, se pesa il pro e il contro con pruden- za, forse non
sceglierà una strada nella quale i pericoli sono superiori alle speranze. Se si
trova difficoltà a immaginare seguíto questo criterio fra gli individui, non
c'è che da pensare al principio che ha regolato in ultima istanza, fino a ieri,
se non fino ad oggi, i rapporti fra gli stati, e che dovrebbe regolarli sempre
secondo l'imperativo nazionalistico o etnico o storico, che passò e passa
tuttora - agli occhi di molti - come il solo imperativo seriamente politico. In
questa concezione dei rapporti fra gli stati non domina forse nella sua forma
rigorosa quella tesi estrema - che lo Stirner formulò per i singoli individui -
e che parve ad alcuni per il suo stesso rigore una caricatura ironica dell'a-
narchismo di una società di egoisti, che vale fin che mi giova e dura finché mi
piace? O si vorrebbe dire che non sono «ragionevoli» i politici, filosofi o no,
che accettano e difendono questo crite- rio, non solo come l'unico criterio
possibile, - in determinate circostanze storiche, ma come il solo razionale? Senonché
anche la razionalità dell'egoismo statale non è data, ma presupposta, o fondata
su un presupposto: che l'interes- se, anzi, un certo interesse dello stato
abbia un valore incondizionatamente supremo. Ed ecco l'altra alternativa:
l'egoismo che si limita e si fa diritto. Ma qui è ancora piú facile scorgere
l'equivoco e può parer superfluo il metterlo in evidenza. L'egoista che accetta
il diritto come garanzia della sua sicurezza, della sua tranquillità, della sua
li- bertà, cioè la limitazione dell'egoismo per motivi egoistici, non cessa
perciò solo di essere egoista, e non v'è nessuna contraddizione intrinseca, per
lui, nell'accettare condizioni che per lui sono vantag- giose. Che un diritto
cosí giustificato non abbia valore morale e non debba identificarsi con la giu-
stizia è evidente: che un diritto il quale non abbia altro fondamento che
questo calcolo egoistico sia poco saldo e non abbia piú consistenza di realtà
storica che lo stato di natura, è inutile dire; ma non si può dire in nessun
modo che l'egoista contraddica se stesso quando accetta e riconosce una legge
che limita il suo egoismo. E l'economia politica assume, come tutti sanno,
l'ipotesi dell'uomo che produce e scambia la ricchezza secondo motivi egoistici
e per puri motivi egoistici, ma osserva per- fettamente le altre forme
giuridiche piú rigorose della giustizia, senza che questa osservanza venga a
contraddire menomamente il presupposto egoistico. Anzi, ognuno sa che la
limitazione piú rigida e piú incondizionata dei fini particolari di ciascuno
sotto la legge di un dispotismo senza limiti e senza controllo, è giustificata
dal Hobbes in nome dell'egoismo e dell'espressione piú elementare e piú
grossolana dell'egoismo (la conservazione della vita); e che a un calcolo
puramente egoistico si riconducono dall'Helvetius (cosa parimenti notissima)
ogni forma di condotta ed ogni azione uma- na. E nelle dottrine che prendono nome
di utilitarie (con un battesimo antonomastico che non si ca- pisce se faccia
piú torto, come si crede, alle dottrine, o a chi le ha designate con questo
nome11), la difficoltà piú grave, la sola difficoltà insormontabile dal punto
di vista del proposito che le ispira, è quella che nasce dalla esigenza di
conciliare la utilità individuale con la utilità sociale: alla quale e- sigenza
si crede di soddisfare nel modo piú efficace, facendo dell'utile della società,
il mezzo e la condizione dell'utile individuale; cioè giustificando da un punto
di vista egoistico, le norme della vi- ta sociale. E questo stesso sforzo di
giustificare con una motivazione egoistica ogni ordine di attività anche piú
elevata non solo dimostra che è tutt'altro che evidente la contraddizione
intrinseca e la ir- razionalità dell'egoismo, ma fa pensare piuttosto il
contrario: che l'illusione di questa possibilità sia nata, e la tenacia dello
sforzo alimentata, appunto dall'opinione che la via migliore, se non l'unica,
di persuadere che l'operare moralmente è conforme alla ragione, sia di mostrare
che le norme morali coincidono con quelle di un bene inteso cioè di un
intelligente egoismo. Ma con ciò si suppone o si accetta, ma non si pone la
pretesa legittimità evidente per sé del- l'egoismo, come norma suprema di
condotta, accanto o contro la legittimità del criterio opposto. Ed è sempre
sottinteso il presupposto arbitrario che vi sia un criterio di valutazione il
quale è per sua natura conforme alla ragione, di fronte ad altri criteri contrari.
Mentre contrario alla ragione non è né l'uno né l'altro criterio per sé. Ma è
soltanto la pretesa di accettare un certo criterio e insieme non accettarlo, di
ammetterlo come norma di condotta e non applicarlo. Chiedo scusa al lettore se
adopero questa volta frasi di questo genere - adatte piú ad effetti stilistici
che a precisione di pensiero - per segnalarne il pericolo. Non bisogna
dimenticare che in queste espressioni l'egoismo che si nega, l'arbitrio che
limita se stesso e molte altre somiglianti, il senso voluto significare è reso
possibile perché e in quanto il termine in questione (egoismo o altro) è preso
a indicare in una due significazioni diverse: nell'una è l'astratto (la
connotazione comune a tutti egoismi); nell'altra è il collettivo (l'insieme
degli egoismi particolari e degli arbitri diversi che si contrastano). Il quale
è un tacito riconoscimento che gli uomini considerano veramente utili soltanto
le azioni che servono a certi fini e a certe soddisfazioni loro. Ma utili in
qualche modo sono tutte le azioni; se no (ah questo sí), non sarebbero
ragionevoli. Sono utili, o credute utili, al fine a cui sono dirette,
economico, scientifico, estetico, religioso, politico, ecc. Che siano dette
utili soltanto le prime, parrebbe dunque significare che abbiano vera
importanza per l'uomo soltanto quei certi fini, che poi si dimostra con molti
discorsi che sono meno nobili degli altri. Su la pluralità dei postulati
di valutazione morale \ Con ciò la tesi egoistica cerca di porsi su quella
medesima via che è nella tradizione dei si- stemi e delle scuole la via piú
comune del razionalismo morale, ed è in effetto la piú semplice, si di- rebbe
quasi la piú ovvia ed ingenua: quella notissima di ricondurre le norme a un
bene, a un fine, a un ideale, di cui si è riconosciuto o si debba riconoscere
incontestabile il valore supremo. Qui ciò che fa da principio della
dimostrazione d’assioma medio o proprio della costru- zione morale, è il
giudizio in cui si assume questo valore e questa dignità suprema del fine.
Posto che il fine assunto sia il fine che l'uomo riconosce come supremo e che
si dimostri come le norme morali siano ordinate ad esso, la loro legittimità è
dimostrata. Quale sia questo fine e in che consista spetta alla ragione di
trovare o di giudicare; di trovare e formulare, se questo fine supremo è dato e
si assume come riconosciuta e incontestata la sua vali- dità di supremo; — di
giudicare, se su questo valore cade dubbio, o se si pensa che non basti un ri-
conoscimento di fatto, ma sia necessario un riconoscimento di diritto; che
spetti alla ragione, non già o non soltanto di scoprire, se vi è, un tal fine,
ma di giudicare perché esso debba valere. Nella prima maniera il valore del
fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume, e sul
quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente dato
alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare
praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è
supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura u-
mana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li
concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico
delle dottrine che assumono come fine naturale — al quale necessariamente si
riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale — la felicità o la perfezione
o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena
necessario os- servare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí
naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il
fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e
incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine
apparen- temente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e
concreto; del quale nessu- no contesta che sia supremo, finché ciascuno può
dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli
si attribuisce di supremo. Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è
necessario che il termine assuma un cer- to contenuto determinato; il quale
contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si
riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità, o
Perfezione, o altro Bene, della quale quel contenuto assume la veste, il titolo
e le prerogative; e in nome del- la quale si presenta appunto come fine. E cosí
accade che, mentre nell'apparenza il fine è uno, in re- altà è duplice: uno è
il fine nominalmente assunto, a significazione indeterminata e che per sé non
potrebbe servire a costruirvi sopra che delle tautologie inconcludenti, ma che
reca il titolo e le inse- gne, e quasi la formula magica, della sua sovranità:
ed è la felicità (o quell'altro termine dello stesso genere); l'altro è il fine
realmente assunto. Il contenuto determinato che serve alla deduzione, che regge
la dottrina, e che fornisce veramente il criterio al quale si riconduce
logicamente la legittimità delle norme, dei precetti e dei giudizi che se ne
ricavano. Cosí resta giustificato in nome della felicità ciò che viene
determinato in conformità a quel certo contenuto. L'uno serve a costruire,
l'altro a dar valore alla costruzione. Ora finché si ammette che la felicità o
quel qualsiasi altro termine che lo sostituisce consiste veramente in quel
contenuto sul quale si è costruita la dottrina, e l'accordo sulle deduzioni
favorisce e conforta questa certezza, la distinzione fra il dato della
costruzione e il supposto che lo investe del valore di fine, non ha luogo, o
apparirebbe ingiustificata o pedantesca. È, o si ammette come pacifi- co, che
il dato e il supposto coincidono, che l'uno esprime il significato dell'altro.
Ma se, sotto l'apparente unità del termine si mostrano le differenze di
contenuto; e i fini par- ticolari che si credevano fusi e, unificati in
quell'unico fine, rivelano la loro incompatibilità; e un fi- ne e un ordine o
specie di fini pretende di valere come sommo, subordinando a sé od escludendo
gli altri; allora è necessario scegliere. E la scelta tra due o piú specie di
"Felicità" (come tra due o piú forme di «Perfezione») non può essere
fatta in nome della felicità. Tra due o piú ordini di fini che si presentano
come fini della «natura umana» non si può sentenziare in nome della natura;
oppure si deve ricorrere a distinzioni tra felicità e felicità, tra natura e
natura, che rivelano l'assunzione aperta o tacita di un criterio che serve a
distinguere la vera da una falsa o apparente felicità, e a determinare in che
consista e in che si appunti la «vera» natura umana. «Considerate la vostra
semenza...» E cosí il riconoscimento di fatto si muta in riconoscimento di
diritto. Non è questo davvero, finalmente, il compito della ragione? Di far
capire, di persuadere, di dimostrare che alcuni fini sono degni e altri sono
indegni dell'uomo, alcuni superiori, altri inferiori? E fare questa scelta non
vuol dire fare una gradazione di fini, e giudicare quale meriti di essere
riconosciuto come il fine supremo che serva di termine di confronto, per
subordinare quelli che si conciliano ed escludere quelli che sono
inconciliabili con esso? Qui adunque pare veramente che sia razionale, non solo
il processo di deduzione dal fine, ma razionale la scelta stessa del fine, il
riconoscimento del valore che esso deve avere di fine supremo. Senonché non è
difficile scorgere l'equivoco e trovarne la origine. Il criterio in base al
quale la ragione giudica la dignità dei fini, ne fa la scelta, la
subordinazione e la esclusione, è desunto dal- la coscienza morale, cioè in
ultimo da quelle stesse valutazioni che la costruzione razionale è chia- mata a
giustificare. In realtà il giudizio della ragione è il frutto di un processo
che è bensì esso razionale, ma che si fonda su dati di valutazione morale. Il
processo reale, palese o nascosto, è, in breve, questo: La coscienza morale
dice all'uomo quale è la condotta buona, la condotta che è giusto che segua,
che deve seguire. La ragione mostra (non cerchiamo se con regressione del tutto
rigorosa e univoca, ma in o- gni caso adempiendo un ufficio che è propriamente
e incontestabilmente suo), mostra, dico, che quella condotta è ordinata a certi
effetti, raggiunge un fine che è perciò — dal punto di vista dedut- tivo e
giustificativo dell'esigenza razionale che vuole l'unità e la coerenza — il
Bene morale; e poiché non sarebbe morale se non valesse come sommo, questo Bene
deve essere riconosciuto e posto come supremo. Non è dunque perché la ragione
lo giudica supremo che esso vale come fine morale; ma è perché esso deve valere
come fine morale, deve adempiere a questo ufficio nella unità logica del si-
stema, che la ragione gli riconosce questo valore di fine supremo. Il che viene
a dire che il titolo sul quale il giudizio della ragione è fondato, il criterio
seguito nella scelta è il carattere che esso assu- me, o è capace di assumere,
di fine morale. Riconoscergli questa attitudine, questa capacità a dar ragione
dei giudizi morali, a servire ad essi di principio di giustificazione, cioè di
dato dal quale razionalmente si ricavano le norme, equi- vale a riconoscerlo
come fine morale; e assumerlo come tale, equivale ad assumerlo come supremo.
Adunque è bensì la ragione che giudica questa attitudine o questa capacità che
ha il fine di servire di giustificazione dei giudizi morali. Ma il valore
morale di queste valutazioni è dato, deve essere ammesso o presupposto. La
ragione porta il suggello di questo valore su quel fine del quale essa mostra
la congruenza con le valutazioni morali. Se in questo proposito di ricondurre
le valutazioni della coscienza morale a un fine unico, possa riuscire o no, e,
dato che possa, entro quali limiti e con quali frutti, è una questione che qui
può essere lasciata in disparte. Ciò che importa notare è che quel «Fine» ha
valore supremo per l'uomo dotato di coscienza morale; per una natura umana per
la quale valga l'esigenza morale e valgano le valutazioni che essa richiede e
che la esprimono. È supremo dunque nell'ipotesi che l'uomo senta la superiorità
di certe aspirazioni su certe altre, di certe attività su certe altre, di una
«natura» su l'altra. Per far riconoscere il valore supremo di questo fine noi
dobbiamo dunque supporre ammes- so il valore di quei giudizi morali, dei quali
dimostreremo poi razionalmente la validità, deducendo- li da quel fine. Sono
questi giudizi, di cui è o si assume incontestabile il valore morale, il dato o
i dati primi della costruzione assiologica; e la ricerca del fine supremo non è
che lo sforzo logico di ricondurli a un solo principio di valutazione, a un
unico criterio; di costruirli in sistema. Del quale perciò la va- lidità
logica, la coerenza necessaria, l'unità di sistema è posta dall'esigenza
razionale; ma la validità assiologica esprime una esigenza morale, la quale è
già data o postulata [Se i giudizi primari di valore, i criteri ultimi, attorno
a cui si raccolgono e ai quali si subor- dinano le valutazioni, sono assunti e
non posti dalla ragione, come si può parlare — e manifesta- mente se ne parla
con fondamento — di massime di condotta sulle quali tutte le persone
ragionevoli vanno d'accordo, e il dissentire delle quali è tenuto come segno
patente di irragionevolezza? Che significa ciò se non questo per l'appunto, che
basta per riconoscere la bontà di quelle massime, essere ragionevoli, cioè
dunque, che basta la ragione a giustificarle? Pare infatti di sí, a prima
vista, e si può anche entro certi limiti accettare dall'uso questa for- ma di
espressione senza inconvenienti; ma ciò non toglie che l'espressione sia
impropria e che l'os- servazione notissima e comunissima prova qualchecosa
d'altro; un fatto assai notevole, e a cui si collega una considerazione
d'importanza capitale per il modo d'intendere i rapporti tra valori morali e
valori di altre specie: che le massime delle quali si discorre, esprimono o
valutazioni primarie e- lementari, di cui è superflua, perché è comune e
manifesta, ogni giustificazione, oppure delle valu- tazioni nelle quali si
incontrano criteri assiologici tra loro diversi. Sono queste valutazioni
mediate o indirette che si possono ricondurre cosí all'uno come a ciascun altro
dei criteri suddetti; quasi ponte di passaggio a cui mettano capo strade di
origine diversa, o linea di intersezione di piani diversi. Cosí nel
raccomandare i precetti della temperanza si incontrano stoici ed epicurei,
edonisti e mistici, egoisti ed altruisti, sia pure per motivi diversi, ossia in
vista di fini diversi e anche opposti tra di loro; e nel raccomandare
l'osservanza dei patti, l'homo œconomicus e l'homo ethicus si trovano pienamente
d'accordo; ossia qualunque possa essere, tra quelli che sono comunemente
accolti, il cri- terio assunto, chi lo accetta, deve ragionevolmente accettare
quella norma; o, in altri termini, qua- lunque sia, tra i normalmente
possibili, il fine accolto come supremo, chi lo accetta deve riconosce- re che
esso richiede come suo mezzo o condizione quel modo di operare. Non
riconoscerlo vorrebbe dire volere il fine e non il mezzo. Ora riconoscere che
se si vuole il fine bisogna volere il mezzo, che se si accetta un principio
bisogna accettare le conseguenze, questo è appunto, essere ragionevole. E
poiché dai diversi principi tra i quali suole essere cercato, se- condo le
tendenze, quello che si assume come criterio, la deduzione logica conduce a
quel medesi- mo precetto, questo precetto appare fondato in ragione,
ragionevole per sé. E in effetto, non si po- trebbe giustificare se non per
mezzo della ragione; appunto perché è essa che ne dimostra volta a volta la
connessione necessaria con ciascuno dei criteri che possono essere
rispettivamente assunti per legittimarlo. Ma il valore di questi criteri primi
o supremi è, per ciascuno dei casi, ammesso o presupposto. Di che si ha la
riprova nel fatto che se, per ipotesi, si assume un criterio le cui conse-
guenze valutative non coincidono con le valutazioni comuni, cessa di apparire
«ragionevole» quel modo di operare che è ritenuto — ed è in effetto — tale,
finché sono considerati come legittimi i criteri consueti. Usar pietà diventa
irragionevole se chi usa pietà è persuaso che il fine piú degno è la forma-
zione del superuomo e che a formare il superuomo è necessario essere spietati.
Questo esempio può parere poco convincente perché troppo remoto dalla
probabilità di essere riconosciuto e accolto. Ma, lasciando pure di notare che
esso sarebbe probativo anche se fosse del tutto ipotetico, è da os- [Anzi su
questa circostanza si fonda la considerazione, a cui ho accennato, di
importanza capitale per l'etica e di cui ho trattato di proposito altrove
(confronta Vecchio e nuovo problema): cioè che una qualità, una virtù, un modo
di operare che ha valore per un rispetto, può aver valore anche per altri
rispetti diversi. Un atto morale può avere, anzi di solito ha, anche un valore
di utilità individuale o sociale e così via. Il che spiega: come avvenga che la
giustificazione delle medesime norme morali si sia potuta cercare in fini di
natura diversa; come sia possibile, anzi sia la sola soluzione legittima del
problema, di giustificare, ricavandolo da un fine diverso, il pre- cetto
morale, questa: di considerare la pretesa giustificazione come una
rivalutazione sotto un rispetto diverso (edonisti- co o sociale o d'altro
genere) di ciò che ha già un valore per sé, morale. E non è, come tutti sanno servare
che pur prescindendo da negazioni e contrasti cosí recisi, sull'accordo tra le
persone ragio- nevoli sono da fare assai piú riserve che non paia a prima
vista; appunto perché, dove il consenso abituale del costume e l'accordo delle
opinioni accettate senza critica non sopraffà o non nasconde le divergenze, e
soprattutto nel campo della vita interiore, queste sono assai maggiori che non
si creda. Anzi si può dire che su certi campi l'accordo tra persone di tendenze
e di indirizzi morali di- versi è raggiunto, non in grazia della ragione, ma
nonostante la ragione, la quale se fosse rigorosa- mente applicata,
richiederebbe un modo diverso di valutare e di giudicare l'azione. Il che viene
a di- re che qui l'accordo c'è, non perché tutti sono ragionevoli, ma perché
alcuni si dimenticano di essere, o credono di essere mentre non sono.
Nell'esempio allegato sopra si ha la prova di un giudizio di valore tenuto come
contrario alla ragione, che appare conforme a ragione quando muti il criterio
al quale si riconduce. Non meno, anzi piú significativo è il caso inverso, di
principî tenuti come razionali che ces- sano di essere riconosciuti tali, se
cessano di essere ammessi certi dati o postulati dei quali si sottin- tendeva
che non potessero essere ragionevolmente negati. Di che l'esempio storico piú
insigne e piú istruttivo è offerto da quei principî etico-giuridici che passano
come il modello caratteristico di una costruzione puramente razionale. Anzi, su
questa idea che la costruzione giuridica — della quale l'espressio- ne piú nota
è la Dichiarazione dei diritti — sia una pura astrazione razionale, è fondata
la critica ormai stereotipa che si ripete in nome del senso storico; mentre
nella elaborazione e nella si- stemazione di quei principi ebbe la sua parte, e
la adempì magistralmente, la ragione; ma non era e non è la ragione che ne pone
la validità e ne fa sentire la giustizia. Il vero difetto della costruzione
razionale non è di aver per soggetto l'uomo astratto in luogo dell'uomo storico
(qualsiasi costruzione, non solo sistematica, ma anche storica, non può fare a
me- no dell'astratto), ma è di aver assunto a fondamento della propria
costruzione un astratto (l'uomo- ragione) insufficiente a reggere l'edificio
che si voleva fondare su di esso. Infatti l'uomo-ragione supposto dal
razionalismo non è soltanto ragione; è, insieme e impre- scindibilmente, nel
concetto razionalistico, l'uomo che ammette certi principî, espressi o
sottintesi, che sono incorporati e assorbiti, almeno nell'opinione comune,
surrettiziamente e inconsapevol- mente nel concetto di uomo-ragione. Non si
capisce la razionalità dei diritti dell'uomo e del cittadino, se non supponendo
che sia un dato razionale ammettere che nessun uomo debba essere trattato come
strumento della volontà altrui; cioè senza supporre il valore assoluto
dell'uomo come tale, e il postulato giuridico corrispon- dente,
dell'uguaglianza di diritti di tutti gli uomini. È in effetto per questo
soltanto che ad ogni uomo in quanto cittadino15 sono riconosciuti di fronte
allo stato tutti quei diritti che fanno scandalizzare Comte, sogghignare Marx e
sorridere l'homo historicus. Né si dica che Nietzsche è finito al manicomio;
ciò non proverebbe nulla: perché non è teoria solo del Nie- tzsche ma di molti:
e divenne in veste politica, dottrina di un popolo o di una razza; perché
quando Nietzsche la pensò non era pazzo; perché anche se fosse stato pazzo, la
teoria di un pazzo non è necessariamente una teoria pazza; perché in ogni caso
sarebbe da dire non che è irragionevole la massima, la quale, poste quelle
premesse, è ragionevo- lissima, ma che è inumano, o ripugnante, o indegno,
accettare una o l'altra delle premesse, o ambedue. Ma è tutt'altro che l'unica
perché fu preceduta, come è noto, non solo delle dottrine del liberalismo
inglese, ma anche dai Bills of Rights dei diversi stati dell'Unione Americana.
E quanto al luogo comune delle «Ideologie france- si» ha ragione il Janet, di
rilevare che in un testo scolastico universitario inglese, «Philosophiae
moralis institutio com- pendiaria», stampato a Glasgow di un autore tutt'altro
che ignoto, Hutcheson, si parla come di cosa pacifica, venti anni prima del
Rousseau, del patto primitivo degli uomini fra di loro, e dei sudditi col loro
governo. Un altro luogo topico che potrebbe senza danno essere lasciato in
disparte, è quello che vede nei famosi dirit- ti l'affermazione estrema
dell'individualismo e la tesi dell'individuo-fine e dello stato-mezzo. Mentre
il riconoscimento di quei diritti esprime a parte singuli la garanzia della
libertà individuale, ma esprime insieme l'ufficio fondamentale e preliminare di
ogni stato: la tutela della giustizia. E combattere le violazioni della libertà
e della giustizia, fatte in nome. Mentre, se si esclude quel supposto e si
ammette che lo stato abbia un valore in sé superiore a quello della persona, o
se si ammette che i diritti debbano essere subordinati alla cultura, alla po-
sizione sociale, alla costituzione politica dello stato, quei diritti
«naturali» non hanno piú nessuna ragione di essere riconosciuti come diritti.
Ma il principio che la persona umana ha valore per sé e che non è giusto usare
la persona come mezzo, è un postulato di valore (cosí come è un postulato di
valore il principio che ogni uo- mo, in quanto soggetto di diritti, valga
quanto qualsiasi altro); i quali possono essere assunti e pos- sono essere
negati senza che chi li accetta o li nega cessi, per questo fatto
dell'accettarli o negarli, di essere ragionevole, o diventi ragionevole se non
era. Perciò non è da meravigliare che quando i postulati di valore impliciti in
quella costruzione razionale del diritto sono messi in dubbio o negati, la
costruzione debba sembrare campata in aria. Mentre non era campata in aria, e
non è, per chi assume come soggetto di quei diritti un uomo che è dotato di
ragione non solo, ma insieme di una certa coscienza morale e giuridica; la
coscienza mo- rale e giuridica che si raccoglie nei detti postulati e si può
dedurre da essi. Questi postulati il razionalismo aveva torto di pensare che
fossero impliciti necessariamente nella ragione, ossia di credere che «uomo
ragionevole» volesse dire insieme uomo che accetta quei principî di
valutazione. (Il che non vuol dire, si badi bene, che avesse torto
nell'accettarli e nell'as- sumerli come degni di essere accettati). Ma se si
ammette o si suppone che siano accettati, la costruzione razionale che se ne
ricava, come dottrina dei rapporti etici e giuridici che governerebbero
qualsiasi società umana, nella quale essi fossero sanciti come criteri supremi
della condotta, in ogni sua forma — sia dei cittadini tra di loro, sia dei
cittadini verso lo stato, e inversamente, sia degli stati fra di loro —, non
solo non è ille- gittima, ma è la sola legittima. E il suo valore etico, giova
affermarlo, sussiste, se c'è, qualunque possa essere la distanza che si osserva
o si immagina intercedere fra uno stato conforme a quella esigenza ideale, e
questa o quella forma di realtà storica e concreta. Anzi, per chi assume
quell'esigenza come avente valore morale supremo, i doveri corrispon- denti
all'attuazione e all'osservanza di quei rapporti saranno i doveri fondamentali
precedenti in au- torità e in obbligatorietà ogni altra sfera di doveri, e i
diritti correlativi esprimeranno i valori sociali e politici supremi
indipendentemente da ogni giudizio sulla realtà e attuabilità delle forme
ideali di Enti o di rapporti tra gli Enti cosí configurati16. Per converso, chi
respinge questo postulato, non solo può, ma deve, ragionevolmente, nega- re
ogni valore alla costruzione razionale corrispondente (sebbene avrebbe l'obbligo
— in sede di di un preteso interesse della collettività e dello stato, non è
negare l'interesse della Società, ma piuttosto difenderlo. Anzi l'homo ethicus
è povero di contenuto appunto perché si esaurisce nei doveri del cittadino,
cioè nei va- lori giuridici e politici, e dimentica o trascura i valori propri
della vita personale interiore. Il che prova che sono lasciati nell'ombra non
solo i fini propri dello stato (uffici positivi) ma anche i fini spe- ciali dei
singoli; appunto perché domina e vince ogni altra preoccupazione quella dei
fini comuni universali e fondamentali - così per la vita individuale come per
la vita sociale - della libertà e della giustizia. Chiamare la concezione
ideale di una forma di diritto una astrattezza e usare questo termine a
dispregio, non è esatto e non è giusto se non quando questa forma ideale sia
concepita fuori dalle condizioni necessarie a farlo essere diritto. Nel qual
caso sarebbe legittimo dire che il diritto ideale è un diritto impossibile, e
sarebbe sciocco e vano conce- pirlo e parlarne. Ma un diritto ideale concepito
nelle condizioni che sarebbero richieste a farlo sussistere come diritto
positivo, non è piú astratto che un diritto positivo qualsiasi concepito nelle
sue condizioni storiche. Salvo che nel secondo caso le condizioni esterne del
diritto sono reali, nel primo sono possibili; nel concetto dell'un diritto
l'idea delle condizioni che ne fanno o ne hanno fatto un diritto positivo,
trova corrispondenza nella realtà, e nel concetto dell'altro l'idea delle con-
dizioni che farebbero del diritto ideale un diritto positivo, non ha trovato o
non trova più, in una forma storica di realtà, la sua corrispondenza. Su
la pluralità dei postulati di valutazione morale J. morale — di chiarire quale
postulato assuma al posto di quello che respinge, e quale sarebbe il si- stema
etico-giuridico che ne discende). Ma commette una grossolana fallacia elenchi,
quando pretende di confutare o condannare quella costruzione etico-giuridica in
nome della realtà o della storia. Perché la realtà e la storia da- ranno la
stregua della attuabilità dei rapporti prospettati nella costruzione ideale, ma
non del valore di questi rapporti. Cosí il razionalismo assume erroneamente
come dati razionali dei postulati di valore e si il- lude di poter imporre in
nome della ragione dei principi che non valgono se non supponendo accet- tati
quei postulati che li giustificano: e lo storicismo si illude di togliere ogni
valore alle costruzioni fondate su quei postulati dimostrando che la realtà storica
è diversa da quelle costruzioni. Come se il riconoscere che gli uomini non
hanno nelle condizioni di fatto eguali diritti, o che la società non è fondata
sul contratto, o che non v'è diritto naturale, ma vi sono soltanto diritti
positivi, equivalga a dimostrare: che non sia bene l'eguaglianza dei diritti; e
che non possa essere apprezzata e apprezza- bile una società ordinata in modo
tale da poter pensare che non sarebbe diversa se fosse costituita per contratto
volontario di tutti i cittadini; o non possa essere piú desiderabile che abbia
sanzione di diritto e valga come tale un ordine di rapporti conforme a certi
criteri piuttosto che a certi altri. A risolvere queste questioni, il sapere
storico non è competente. D'altra parte lo storico non potrebbe risolverle
senza cessare di essere storico e diventare moralista o ideologo, reazionario o
rivoluzionario, «conservatore» o «riformatore». Perché non vi è altra via: O
ricusa certi postulati di valore per assumerne altri diversi, pure di valore. O
rinunzia, non solo a qualunque giudizio, ma a qualunque intervento della
volontà uma- na nella storia, cioè nella produzione degli eventi umani. Perché
ogni azione umana, cioè consape- vole e volontaria, implica una direzione verso
un risultato che si giudica preferibile tra i possibili, cioè implica una
scelta, e quindi una valutazione. Tanto nel «razionalismo» quanto nel
«realismo» o «storicismo», i criteri di valutazione pos- sono bensí essere
ricondotti a un postulato di valore, ma questo postulato non è posto dalla
ragione né è dato dalla realtà17. Approvarlo o disapprovarlo, ammetterlo o
respingerlo, non vuol dire né rispettare o rinnega- re la ragione, né
riconoscere o misconoscere la storia; avere o non avere senso storico. Il che è
la prova piú manifesta che non è un dato della ragione il postulato di valore a
cui si riconduce l'esi- genza espressa nella dottrina del diritto razionale,
come non è un dato della storia il postulato, pure di valore, a cui si
riconduce l'esigenza implicita nella dottrina del diritto storico. Resta da
osservare al nostro proposito per quel che riguarda il razionalismo
etico-giuridico, come da questa illusione che l'universalità della ragione
volesse dire anche universalità di consenso nei postulati valutativi
incorporati surrettiziamente in essa, derivò l'errore di credere che potesse
ba- [A questa differenza fondamentale tra valutazione e giudizio storico, è da
ricondurre, a mio giudizio, la questione del rapporto tra spirito
rivoluzionario e senso storico, di cui tratta dottamente e sottilmente MONDOLFO
(si veda) nella «Nuova rivista storica». Il rivoluzionario (come del resto ogni
innovatore di grandi o anche di piccole cose, anzi ogni uomo di iniziative) è,
o si pone, fuori della storia in quanto valuta, cioè giudica e opta per un
ideale; (anche se questo ideale è un pro- dotto storico, non è perché è un
prodotto della storia che è stimato desiderabile, preferito e voluto). È nella
storia e deve aver senso storico in quanto è uomo politico, cioè vuole agire
sulle condizioni presenti nella direzione voluta. Insomma: in quanto sceglie
tra diverse direzioni concepite come possibili (cioè come tali da potere essere
favo- rite e contrastate dalle nostre azioni), non è nelle storia, se non in
quanto sono nella storia e della storia le sue stesse ide- alità morali. In
quanto si rende conto della realtà sulla quale vuole agire e del modo col quale
la sua azione può inserirsi efficacemente su tale realtà, è nella storia.] stare
per fare accettare questi postulati «illuminare» le menti, dissipare «i
pregiudizi», ragionare; come è nata per contrasto l'illusione inversa che per
respingere le applicazioni, le «conseguenze pra- tiche» di quegli stessi
postulati e dei criteri che ne derivano, non ci fosse altra via che di far
tacere la ragione o screditarla e dare a lei la colpa, non solo delle
conseguenze, che essa secondo l'ufficio suo veniva svolgendo e costruendo in
sistema coerente, ma degli errori e delle violenze commesse da quelli che
smentivano con l'opera i principî o li applicavano a rovescio, e piú spesso
senza cono- scenza degli uomini e delle cose, cioè senza tener conto della
realtà concreta e della storia. E cosí si passava da una ragione fatta soggetto
di meriti non suoi, a una ragione fatta oggetto di biasimi non meritati. Ma la
ragione è al di là di quei meriti, e di questa imputazione. La ragione ha un
compito inestimabile; necessario, anzi imprescindibile, ma arduo e non fi- nito
mai; di costruire incessantemente l'unità della persona; l'unità dell'uomo
teoretico, l'unità del- l'uomo pratico e l'unità (a cui bisogna pur mirare,
come miravano gli antichi) dell'uomo teoretico con l'uomo pratico. Ha un
ufficio di continua eliminazione e ricostituzione; un ufficio nella vita spi-
rituale della persona analogo, direi, a quello che ha nella vita fisica la
circolazione del sangue. Ma non si può pretendere di ricavare da essa il
principio dell'esistenza, ossia il dato o i dati attorno ai quali si possa
affermare la realtà obbiettiva di ciò che è oggetto del sapere; né si possono
trovare in essa, o ricavare da essa i criteri sui quali si fonda la valutazione
e attorno ai quali la ragione unifica i giudizi di valore. Come non dà essa la
certezza dell'esistenza, cosí non dà essa la coscienza del valore. Resta
un'ultima via, la terza; la piú audace e radicale. È la ragione che pone la
legge morale; ma perché la ponga non è necessario che ricorra a nessun dato o
principio materiale, sia stabilito o fondato su verità di ordine teoretico o
dimostrabili o evidenti per sé, sia cercato in un fine a cui possa ricondursi
il contenuto della legge. È la esigenza razionale che si pone come legge, senza
che a costituirla sia necessario fare appello al valore di qualche oggetto o
risultato dell'azione e dare a quel qualsiasi contenuto materia- le che venga
assunto dalla legge, un valore morale pur che sia, all'infuori da quello che
gli viene dalla forma di legge che lo impronta. È, come ognun vede, la tesi di
Kant, che è non solo la piú vigorosa, ma la sola veramente ri- gorosa del
razionalismo morale. La prima delle vie indicate, quella del platonismo, e in
modo particolare quella dei platonici della scuola di Cambridge, riconduce la
morale alla ragione perché la riconduce a principi teoretici di cui si crede
che la ragione dimostri la verità o faccia rico- noscere l'evidenza: la
certezza morale è razionale perché è razionale (o è assunta come tale) la cer-
tezza teoretica. È, si può dire, veramente, un intellettualismo morale. Per
Kant invece, non solo i principi pratici non si fondano su dati teoretici; ma è
soltanto nell'uso «pratico» che la ragione può varcare i limiti del fenomeno, e
affermare del noumeno ciò che è conforme all'esigenza della morale, ciò che la
ragione postula per il suo bisogno pratico. E i postulati pratici sono
veramente, non postulati etici, ma postulati metafisici affermati sul
fondamento dell'esigenza etica. Or dunque l'esigenza razionale che è esigenza
formale di una legge in generale, in morale è esigenza della legge, di quella
legge che è essa la sola razionalmente necessaria. Ma essendo incontrastato per
Kant questo punto, sono possibili sul rapporto della forma e della legge col
contenuto tre soluzioni: O si può intendere che la legge morale è una forma
senza nessun contenuto; cioè che la forma dà il valore morale alla legge e il
criterio per osservarla e praticarla, senza che occorra una qualsiasi
determinazione del contenuto. O si può pensare che occorre bensì un contenuto
che si adatti a quella forma, che sia su- scettivo di assumerla o di esserne
investito; ma non importa che esso sia tale piuttosto che diverso. Insomma: è
necessario un contenuto, ma è indifferente quale esso sia, purché possa essere
contenu- to di quella forma. Non è perciò escluso a priori che possano essere
piú, fra di loro diversi. Si può pensare che la forma razionale, la forma della
legge morale conviene a un solo contenuto, quel contenuto che si concreta
appunto in relazione con quella forma. Ossia, che l'esi- genza razionale basti
a determinare univocamente il contenuto della legge18. La prima interpretazione
che sembra la piú semplice e sulla quale s'è fatto un gran discutere, è
insostenibile, perché si risolve in un circolo vizioso, dal quale non è
possibile uscire in nessun modo. Forse a queste tre interpretazioni,
teoricamente possibili, si può trovare che corrispondano le tre formule note
dell'imperativo kantiano; corrispondano almeno nel senso che ciascuna delle tre
si avvicina di più rispettivamente a una delle interpretazioni possibili che
alle altre due. Così la prima formula (dell'universalità) sembra rendere
possibile la prima interpretazione. La formula (terza) dell'autonomia del
volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse,
pare che possa convenire alla seconda interpretazione. E finalmente la seconda
formula (tratta la per- sona umana come fine, ecc.) pare che risponda meglio
alla terza interpretazione di un contenuto determinato
inequivocabile. Quella stessa illustrazione kantiana che sembra legittimarla
mette capo a una formula, che fu bensì intesa spesso e trattata come puro
criterio dell'universalità sic et simpliciter -- la possibilità di concepire la
MASSIMA come legge universale dell'operare --, ma che, nei termini precisi in
cui è e- spressa, implica di necessità il riferimento a un qualche contenuto
senza del quale mancherebbe o- gni possibilità di adoperarla come norma di
quell'operare del quale vuole esprimere l'obbligatorietà. Secondo quella
formula, il criterio per giudicare della bontà della massima è che io possa
volere che valga come legge universale. Ma io posso volere che una massima
valga universalmente, soltanto quando, o meglio, se, la massima cosí
universalizzata non contraddice al mio Volere puro, alla Ragione, cioè che è
tutt'uno al Volere morale; alla legge, dunque, che fa morale il mio volere; il
che viene a dire che una massima è morale quando è conforme alla legge del
volere morale, ossia quando è conforme alla legge morale. Il valore morale
dell'azione si giudica dalla possibilità che la massima sia voluta come legge,
ma questa possibilità di essere voluta come legge, si riconosce dall'accordo
della massima con quel- la legge morale della quale non è dato altro carattere
che l'universalità, e altra applicazione che cercare se il modo di operare
corrispondente si possa universalizzare in massima. Che il riferimento a un
contenuto sia anche nel pensiero di Kant necessariamente implicito nel
criterio, appare poi mani- festamente, non dico dagli esempi, ma da una chiosa
che non si capisce se non a patto di ritenerlo ammesso in modo espresso o
sottinteso. A proposito del quarto esempio della Fondazione (il brav'uomo che
non fa male a nessuno ma bada ai fatti suoi e non si cura d'altro) chiosa Kant
in forma decisiva: «quantunque sia possibile che esista una legge universale
della natura conforme a tale massima, è impossibile di volere che un tale
principio valga come legge della natura». Ma perché è impossibile?
Manifestamente perché il Volere razionale vuole già qualchecosa che è incompatibile
con ciò che è espresso dalla massima «ciascuno per sé» (la quale tuttavia è
pos- sibile che esista come legge universale della natura); vuole qualchecosa
che ogni uomo come essere ragionevole vuole necessariamente. Insomma, il
criterio dell'universalizzazione vale in quanto è possibile confrontare la
legge, a cui darebbe luogo la massima se valesse universalmente, con una certa
legge che abbia una qualche determinazione, cioè un contenuto. Senza questo
riferimento, questo ubi consistam della volontà, non è possibile sapere se la
massima dell'azione abbia o non abbia i requisiti necessari, perché si possa
volere che valga come legge universale. Con ciò il pensiero di Kant sembra
escludere non soltanto la prima, ma anche la seconda in- terpretazione (che la
forma razionale possa convenire a piú di un contenuto, cioè che possano
presentarsi come leggi morali, modi di valutare o sistemi di norme fra di loro
diversi); e ammettere che a dare all'esigenza razionale sussistenza effettiva
di legge, determinazione di oggetto che la renda applicabile, non sia adatto
che un solo ed unico contenuto; e che la legge voluta dall'essere ragione-
vole, non possa essere che quella certa legge. Che questo sia veramente il
pensiero di Kant credo sia indubitabile, né importa insistervi qui. Piuttosto è
necessario rilevare come questa pretesa di deter- minare la legge, quella legge
soltanto in funzione della forma, possa parere possibile e legittima finché è
sottinteso o ammesso che la legge morale deve essere universale non soltanto
nella forma, ma anche nel contenuto; e che perciò le massime in discorso sono
soltanto le massime di quel certo operare che ne resta quindi determinato in
modo univoco. E cosí il criterio dell'universalizzabilità coincide praticamente
con quel contenuto di cui si sa già e si ammette riconosciuto universalmente E
va da sé che anche l'azione, di cui si vuole saggiare a questa stregua la
massima, deve avere un contenuto che la fa essere quella azione, conforme o
disforme da una massima. Se no, non si può parlare di massime dell'operare,
anzi neanche di un'azione qualsiasi.] il valore, di cui quindi si sa che è
impossibile volere che valga come morale una massima che lo ne- ga20. Adunque
questa impossibilità non sorge dall'esigenza razionale se non in quanto questa
e- sigenza si trova essere l'esigenza di un essere ragionevole, che è insieme
una volontà che vuole cer- ti valori; o piú chiaramente ancora questa
impossibilità non emerge necessariamente dalla ragione, ma dalla natura
dell'essere ragionevole; la quale natura è ragione, ma è insieme un volere che
vuole ciò di cui la ragione formula la legge. Ora, se si suppone che quel
Volere non ponga come assoluti e supremi quei valori, cessa o- gni ragione di
volere quella legge piuttosto che un'altra, e quindi è tolta ogni impossibilità
di volere che valga come legge una massima che è incompatibile con questa.
Adunque, posto che un volere non voglia quei valori e ne voglia altri, cessa
questo Volere di essere il Volere di un essere ragione- vole? Cessa di essere
un Volere ragionevole quello che riconosce l'esigenza di porre e di osservare
la legge che ordina e unifica le massime della condotta in conformità a quegli
altri valori che esso riconosce come morali? Non è anche in questa ipotesi
salva l'esigenza razionale? Questa ipotesi (che la realtà della coscienza
morale contemporanea prova, come s'è visto, non essere pura ipotesi), conferma
in concreto quel che l'analisi della formula rivela inoppugnabil- mente: che il
dato iniziale, originario o primario della legge morale è presupposto dalla
ragione, non posto; presupposto come oggetto o contenuto di una Volontà la
quale è bensì razionale in quanto pone a sé come legge la norma dell'operare
corrispondente; ma non è né razionale né irrazionale in quel che riguarda la
posizione di quei valori primari, che costituiscono il terminus ad quem dell'o-
perare, l'oggetto della volontà, attorno al quale l'esigenza razionale stringe
la condotta in unità coe- rente di legge. A una conclusione del medesimo genere
riesce per altra via la difesa che del formalismo kantiano fa il Martinetti in
una sua memoria densa e vigorosa21 nella quale egli si sforza di salvare il
carattere formale della legge pur riconoscendo la necessità di un contenuto; e
lo salva facendone la forma, non di un contenuto sensibile, ma di un contenuto
soprasensibile. Ma questa soluzione urta contro nuove difficoltà inerenti alla
concezione di questo fine tra- scendente o di questo mondo soprasensibile che è
l'oggetto proprio della legge morale. Perché delle due l'una: O si ammette che
di questo mondo soprasensibile non possiamo af- fermare altro, se non appunto
questo: che esso è il mondo nel quale trova piena attuazione la legge morale,
il mondo nel quale la legge morale vale come legge naturale, senza che se ne
diano altre de- terminazioni di sorta. Ovvero questa realtà ha altre
determinazioni, attua un certo ordine di rapporti, [Mi sia lecito riferirmi per
la chiarezza a uno degli esempi di Kant. La ragione per la quale non si può
volere erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita
può uccidersi (1° esempio), non è già che sia impos- sibile concepire seguita
una tal massima universalmente (non c'è nessuna contraddizione intrinseca nel
pensare che tutti quelli che sono stanchi della vita si uccidano); e neanche
che non sia possibile a una volontà che vuole una legge - ma che sia
indifferente per ipotesi ai valori morali, e apprezzi sopra ogni cosa il
piacere o la liberazione del dolore - volere che valga universalmente. (È così
possibile che, come tutti sanno, non mancò chi la praticasse e la predicasse
anche tra i filosofi). Ma è impossibile che voglia una tal legge chi ammette la
superiorità dei valori morali. Ossia l'irrazionalità del- la massima emerge,
non da un'impossibilità intrinseca della massima e neppure dalla impossibilità
di sussistere di un Volere che sia indifferente a certi valori, ma dal suo
contrasto con un Volere che riconosce la superiorità di certi valori (morali)
sugli altri (egoistici); e quindi non può volere che valga come legge una
massima che smentisce questa superiorità. Sul formalismo della morale kantiana
estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario della R.
Accademia scientifico-letteraria di Milano. Inserito poi in Saggi e Discorsi,
Libreria Editrice lombarda, Milano] che non possiamo conoscere
speculativamente, ma di cui possiamo tuttavia essere certi e affermare e
riconoscerne la perfezione, la bontà, il valore. Se si ammette la prima tesi,
l'affermare una realtà soprasensibile di cui non possiamo dir al- tro se non
che è il contenuto della forma morale, non ci dice in che consiste questo
contenuto, e non ci fa uscire da questa forma. Dice che vi è un mondo conforme
alla legge morale, ma non dice quale sia, come sia fatto questo mondo. Non ci
illumina dunque, su questo punto, piú di quel che valga a far capire quali sono
le disposizioni di una legge, il pensare che questa legge sia perfettamente os-
servata. Per uscire davvero dalla forma e da questo circolo vizioso di un mondo
di cui non si sa altro se non che è governato dalla legge morale, e di una
legge morale che ha valore perché è la legge di quel mondo, bisogna dunque
attenersi alla seconda tesi; la quale, come pensa il Martinetti, e come io
credo, risponde veramente al pensiero di Kant, se non come si mostra punto per
punto nelle stret- toie della sua esposizione, come risponde all'intento
fondamentale che anima la sua dottrina del primato della ragione pratica e piú
chiaramente ancora al proposito esplicitamente ammesso da lui nella prefazione
alla seconda edizione della Critica della Ragion pura. In realtà «l'uso
pratico» della ragione consiste nello spalancare all'esigenza morale quelle
porte della metafisica che sono chiuse alla speculazione teoretica; nel lasciar
libero alla fede il campo del soprasensibile vietato alla conoscenza;
nell'ammettere, se vogliamo usare espressioni corren- ti, piú che il diritto la
necessità di credere, la necessità «razionale» di ammettere quel che la
ragione, in quanto è garanzia di certezza teoretica, non può né dimostrare né
affermare; di oltrepassare — per rendersi conto della possibilità del dovere —
il campo dell'esperienza sensibile e postulare l'esi- stenza di una realtà che
trascende l'esperienza. Ma questo ufficio pratico sarebbe senza frutto, se una
certezza diversa dalla scientifica, ma non minore, non potesse valicare quelle
porte del soprasensibile che la ragione apre soltanto all'esi- genza morale, ma
apre per lei e in nome suo. Sulla soglia del sopra-sensibile la ragione sembra
dire all'esigenza morale quel che VIRGILIO a ALIGHIERI all'entrata del Paradiso
terrestre. SE VENUTO IN PARTE OV’IO PER ME PIU OLTRE NON DISCERNO. Ma la fede
fondata sull'esigenza morale entra e procede sicura in questo mondo, dinanzi al
quale la conoscenza si arresta. Come se venuta meno ogni luce dal di fuori,
questo mondo si illumi- ni della luce che la certezza morale accende in sé e
sprigiona da sé e diffonde attorno a sé in quello che è il suo regno. È questo
mondo soprasensibile l'oggetto del Volere razionale, la realtà di cui la legge
morale è la forma. Il contenuto sensibile al quale nel mondo dell'esperienza si
applica la legge, non ha valore per sé, ma perché e in quanto partecipa di
questa forma che è forma di una realtà superiore alla qua- le la realtà
inferiore deve essere subordinata. Il concetto dominante di questa prefazione
(che è da raccomandare all'attenzione di quanti credono che la soluzione dei
problemi morali sia un corollario di dottrine speculative) si può considerare
riassunto in questa, che direi confessione caratteristica. Ich musste also das
Wissen (si intende, del mondo soprasensibile) aufheben um zum Glauben Platz zu
bekommen» (Kritik der reinen Vernunft. Vorrede zur zweiten Auflage, Cassirer).
Nella prefazione citata, a proposito della limitazione che la critica della ragion
pura porta alla ragione specu- lativa negandole la possibilità di una
conoscenza del soprasensibile, Kant nota che il «vantaggio d'una metafisica
così purificata» non è soltanto negativo ma anche positivo perché permette
l'uso pratico della ragione. E osserva con un pa- ragone assai significativo
che negare «a questo servizio della critica il vantaggio positivo sarebbe come
dire che la poli- zia non dà nessun vantaggio positivo perché il suo compito
principale è soltanto di tenere in freno la violenza; affinché ciascuno possa
attendere ai suoi affari tranquillo e sicuro» (ib., pag. 23; il corsivo è
mio). Su la pluralità dei postulati di valutazione morale J. In questa
interpretazione24 il termine di paragone c'è, il Volere razionale ha un
oggetto, il circolo vizioso — del valore di una legge che si rimanda a un
contenuto e del valore di un contenuto che si rimanda a un Volere che vuole la
legge — è rotto. Ma è facile vedere che il dato primo a cui la costruzione
valutativa si appoggia, è il valore di questo mondo soprasensibile postulato
dalla ragione in nome della esigenza morale; ma che appun- to per ciò non è un
dato della ragione, ma della certezza morale. E l'affermazione della realtà di
quel mondo è riconosciuta legittima, perché la sua esistenza è richiesta da
questa certezza. Qui è an- cora, per Kant, la Ragione che riconosce la
legittimità della postulazione metafisica; ma la ricono- sce in quanto accetta
come incontestabile la certezza morale; la quale è certezza di valori, non evi-
denza razionale. Cosí adunque anche la tesi della trascendenza della legge
morale implica accanto alla esigenza razionale un oggetto della volontà, un
ordine di valori, un dato valutativo irreducibile alla pura razionalità e che
trae la sua validità d'altronde. Quale ne sia la sorgente, non si può cercare
u- tilmente in breve, e non è facile; forse la sua origine è in quella stessa
attività volontaria nella quale bisogna cercare la fonte della credenza in una
esistenza obbiettiva del mondo. La volontà è direzione ed è forza. In quanto è
forza, e si esercita come forza e si rivela come sforzo (il quale richiede e
suppo- ne una resistenza) è il dato irreducibile della credenza in una realtà
obbiettiva distinta dal soggetto. In quanto è direzione, cioè scelta, cioè
azione in vista di un risultato, è il fondamento irreducibile dei giudizi
primari di valore, i quali esprimono le direzioni originarie della volontà,
delle qua- li acquistiamo consapevolezza attraverso le forme fondamentali del
sentimento. Non è il caso di cercare qui se e che cosa MARTINETTI (si veda)
mette di suo e di postkantiano nella sua interpretazione, né di vedere se e
fino a che punto il fondo mistico del pensiero di Kant si accordi con la
dottrina che do- vrebbe sottrarlo ad ogni pericolo. Qui basta notare la
difficoltà radicale in cui vengono a cadere le soluzioni del mede- simo genere.
La quale è inerente al modo di concepire il rapporto tra il contenuto sensibile
che, per essere applicabile alla realtà empirica, la legge morale deve pure
assumere, e il mondo sovrasensibile che è l'oggetto proprio della legge morale,
quello che ha valore per sé e dà valore di simbolo o di partecipazione (qui
ritornano i dubbi del platonismo) al contenuto sensibile. Infatti delle due
l'una: o si ammette che il contenuto atto a farsi suggello di quella forma,
differisce da un con- tenuto diverso oltreché per il valore formale (nel quale
si esaurirebbe il valore morale), anche per un valore di altro genere. E allora
vi è luogo a cercare se vi sia o no una connessione necessaria, intrinseca tra
questo suo valore specifico e il valore formale; e in ogni caso si riconosce
che il contenuto sensibile della legge morale ha un suo valore proprio che
sussiste ed è riconosciuto anche all'infuori dell'impronta formale. O si
ammette che questo contenuto sensibile non ha nessun altro valore, cioè è per
sé indifferente; che ciò che la legge morale comanda non vale, per rispetto a
questo mondo empirico, di più di ciò che essa vieta, cioè se non fosse questo
riferimento a un mondo superiore non vi sarebbe nessuna ragione di anteporre un
modo di operare ad un altro; e le difficoltà si moltiplicano. Per lasciare le
intrinseche e più sottili, basti rilevare qui da un punto di vista diciamo pure
profano la stranezza quasi ironica del contrasto tra la soluzione del problema
e l'intento che la esprime. Perché nell'atto di affermare l'esigenza di una
osservanza incondizionata della legge morale si nega ogni valore intrinseco a
ciò che la legge coman- da; e mentre si dà alla legge un'autorità
incontrastabile perché trascendente qualsiasi valutazione empirica, si toglie
ad essa ogni ragione di venir applicata (e se si guarda bene ogni possibilità
di applicazione) a quel mondo sensibile di fron- te al quale deve essere fatta
valere questa sua autorità. Infatti, togliendo all'operare ogni valore, che
dipenda dalla direzione verso un fine empirico qualunque esso sia, non resta a
costituire la moralità, cioè la bontà del volere, che questo affisarsi nel
mondo soprasensibile, questo ten- dere a una realtà trascendente, nella quale
consiste ogni valore. Ma questa soluzione non isfugge a quella singolare
commistione dì forza e di debolezza che è caratteristica di ogni morale
rigorosamente mistica: forza, in quanto è intuizione, atto di fede, certezza
interiore inespugnabile; debolezza, in quanto voglia farsi deduzione ragionata
di valutazioni empiriche. La quale urta nella impossibilità di stabilire
logicamente, ossia dimostrare discorsivamente, una relazione necessaria tra la
condotta che deve valere come morale nel mondo sensibile e quel mondo
soprasensibile che ne costi- tuisce l'oggetto e il termine; di superare un
distacco logico del genere di quello accennato tra il criterio usato a
determinare le norme di quella condotta e l'ordine di valori invocato a
giustificarle. L'intento di Kant di liberare la legge morale da ogni
mescolanza e contaminazione patologica di sentimenti, di inclinazioni, di
tendenze — che si traduce in isforzi laboriosi ed ingegnosis- simi ma vani —
forse non sarebbe stato proseguito con cosí risoluta tenacia se il Kant, meno
preoc- cupato dal preconcetto (alimentato dalle dottrine eudemonistiche del
tempo) che ogni forma di sen- timento e qualsiasi genere di fini, sia
inevitabilmente soggettivo, relativo, interessato, fosse stato di- sposto a
riconoscere che vi possono essere forme universali di valutazione intrinseca,
cosí come vi sono forme disinteressate e universali di sentimento. Il metodo ddll'econonia
pura nell’etica. Pavia. Dizioni. Rivista filonofica PAVIA, BIZZOSI
Corso Vittorio Em.inuele; Prolegomeni a una /Ifòoiale balla
/Iftetatisica Pavia SUCCESSORI
BIZZONI -Vi iC^osstbilttà e i Ximtti bella /Iftorale come
Sciensa La Dottrina delle due Etiche di Spencer e la Morale come Scienza.
Per una Scienza Normativa Morale. Il Fondamento Intrinseco del Diritto
secondo VANNI. Toi-itio BOGGA — Torino SI
I w NELL* ETiea PAVIA BIZZONI Corso
Vittorio Emaniu'e, W* MB*« W%i» 'SSS-»» lBiS«M«» «!.<f. IL moo OEUE CfliiOMm
mi. mrmu «"iJi! hypotheses fingo. L'economia assume, come è
noto, l'ipotesi che gli xwmiìii nel produrrCy consiunare, distribuirsi e
far circolare la ricchezza siano 7nossi esclusivameìiie dal
desiderio di coyisegiiire la maggior possibile soddisfazione dei loro bisogni
mediante il minore possibile sacrifizio individuale. Alla costiuzione
deduttiva, che se ne ricava, dei teoremi economici, ossia delle leggi
della condotta dell’homo oeconoìnicus, è indiffei-ente la questione se
il postulato edonistico esprima veramente una condizione di fatto, ossia
se l'ipotesi da cui si deduce ogni verità economica coincida o diverga ed
in quale misura dai motivi che effettivamente determinano le azioni umane,
come è indifferente qualsiasi valutazione che e del postulato assunto, e
della condotta dell’uomo econo77iico, e degli ef- fetti di questa
condotta, si possa fare da un punto di vista morale. In effetto il
giudizio sul valore di giustizia o di bontà del motivo economico e delle
leggi che ne discendono, varia, Fa parte degli Atti del Congresso
Filosofico di Parma, al quale doveva essere presentato coi titolo più generale
: € Condizioni e limiti di una trattazione scientifica dell'etica
». (2 Cfr. Pantaleoni. Principii di Economia Pura. IL METODO dell'economia
PURA XELl'eTICA come tutti sanno, da un illimitato ottimismo al
pessimismo piir radicale; e il giudizio sulla corrispondenza dell’ipotesi
colla realtà varia del pari, da quelli che riconoscono nel motivo
assunto l'unico motivo di tutta quanta l'attività umana, a quelli che lo
considerano come uno dei fattori, non l'unico, nel campo stesso
dell'economia; i quali, appunto perchè l'economia cosi intesa studia
soltanto l'azione di UN FATTO [cfr. Grice, ‘a dull’ – ‘enough of a
rationalist’] fattoi'e, isolato per astiazione dal complesso degl’altri la
cui efficacia si esercita in realtà simultaneamente, non riconoscono alle
sue leggi che un valore ipotetico, correlativo al carattere ipotetico
dell'uomo economico e dello stato economico. Ma qualunque sia cosi l'uno
come l'alti'O giudizio, il carattere scientifico della costruzione
deduttiva rimane incontestabile. Nella misura che la corrispondenza colla
realtà psicologica è inadeguata, si riconosce l'arbitrarietà del
postulato, e della costruzione che ne dipetide, in quanto pretenda di
porsi come scienza della realtà; e a secoruìa che si ammette o si nega che
il postulato ha valore morale, si ammette o si nega valore morale alla
disciplina precettiva che se ne volesse ricavare. Ma in ogni caso restano
incontestati questi due punti. La ricerca intorno alla corrispondenza colla
realtà psicologica e storica del motivo economico e delle condizioni
nelle quali si suppone che agisca, è diversa e distinta dalla costruzione
deduttiva del teorema economico, la quale è valida, 7iei limiti dell' ipotesi,
sempre, qualunque sia il grado di questa corrispondenza. Qualsiasi
indagine valutativa del postulato, e delle leggi, e degli effetti sia prossimi
sia remoti che ne derivano o ne deriverebbero, è parimenti distinta, ed
estranea alla costruzione scientifica il metodo dell'economia nell'etica 6 <iometale;
la quale rimane la medesima tanto se il motivo economico è considerato
come morale quanto se è tenuto come immorale, o amorale, e quali che
siano le ragioni di questa valutazioue. Supponiamo ora che il
postulato edonistico – o EUDEMONISTICO (GRICE) -- sia riconosciuto
universalmente e accettato come postulato morale. E chiaro che la
disciplina precettiva derivata o derivabile dall'economia ha valore e
carattere di precettistica morale; sia che il valore morale del motivo
economico e accettato per se come un dato primo e immediato, sia che venne
derivato, ossia giustificato alla sua volta, da un fine o da una esigenza
ulteriore; e qualunque e questa ulteriore giustificazione. E
opportuno su questo punto un breve chiarimento. Nella supposizione ora
fatta che il valoi'e morale <iel motivo economico sia universalmente
riconosciuto, non è in alcun modo implicita l'affermazione che sia
riconosciuto da tutti per la medesima, o per le medesime ragioni. Si
potrebbe ammettei'e che esso si fondi per alcuni sulla legittimità, senz'altro
ammessa dell'egoismo individuale (GRICE: “SELF-LOVE”) o dell'egoismo di specie
come regola di condotta. Da altri sul carattere attiibuito alle leggi
economiche di leggi naturali e necessarie e non modificabili dalla volontà
dell'uomo; da altri sopra una interpretazione OTTIMISTICA (cf. GRICE OPTIMISM
in Philosophical Psychology) delle leggi stesse o degli effetti o
risultati che l'osservanza piena ed universale di esse produce o tende a
produrre. E si puo del pari ammettere che l’ordine di relazioni conforme al
principio economico e considerato come provvidenziale o divino – “design” Grice
-- e si riversi su di esso il prestigio e l'autorità di sentimenti e di
credenze religiose o metafìsiche. IL .METODO dell'economia PURA
XELl'eTICA. Anzi si può affermare a priori che questa ulteriore giustificazione
o valutazione, dato che si faccia, e diversa per le diverse coscienze a
seconda delle opinioni religioseo filosofi che diverse sulla «latura e sul
fondamento della moralità. E tuttavia il valore morale della MASSIMA
conforme al motivo economico e della norma che ne deriva puo, nella
disciplina precettiva supposta, essere legittimamente assunto come un
dato di FATTO (GRICE: ‘recognised fact’) e trovare in questo la sua
giustificazione immediata, astrazion fatta dalla diversità delle
ulteriori valutazioni. E in questo caso si avvererebbero le seguenti
condizioni. Rimane fuori di discussione il carattere scientifico della
costruzione e della disciplina precettiva che se ne ricava, il quale è
dato dalla validità logica delle conclusioni, cioè dal rigore col quale sono
dedotte dal postulato. Rimane del pari fuori di discussione la elettiva
validità morale del postulato il quale è, per ipotesi, riconosciuto
universalmente conforme all'esigenza morale. Questa validità morale del
postulato (e del sistema di norme che ne dipende) sussiste così se il
detto riconoscimento sia concepito indipendente, come se sia concepito
dipendente da un' ulteriore motivazione, e in questo caso, qualunque sia
il FONDAMENTO (cf. GRICE, “Fundamental Question”) ultimo di questa
valutazione ulteriore. E resterebbe perciò distinto dal campo
della costruzione deduttiva il campo delle indagini intorno alla natura e
al fondamento dell' esigenza morale, e intorno alle condizioni
soggettive della sua validità e della sua efficacia. Ossia il campo
«Iella ricerca propriamente filosofica o metafisica e quello della ricerca
propriamente psicologica e, nelle sue applicazioni, pedagogica. Ma,
(,ui' avverandosi queste condizioni, anzi appunto per il loro avverarsi,
la costruzione scientifica in discorso non potrebbe tuttavia sfuggiie alle
due limitazioni seguenti. Non puo dirsi la scienza della condotta
morale, ma la scienza della condotta richiesta da an ceì'to
motivo morale (quello di cui si è ;H)stulata come un dato di fatto la
conformità all'esigenza morale). Perchè rimai'rebbe sempre da risolvere LA
QUESTIONE (GRICE: Fundamental Question). Se quel motivo esaurisca tutto il
contenuto dell'esigenza morale, o questa non comprenda altri motivi
irreducibili ìì (|uello ; e quindi se le norme contemplino tutta la
condotta morale nella sua estensione e nella sua complessità o ne
contemplino solo una parte od un aspetto – “only the rational aspect of
conversational qua cooperative endeavour”. Essa non esprimerebbe le norme
di una condotta attuabile sic et simpliciter in una forma reale
storicamente data di società – il OXFORD da H. P. GRICE “things an honest
chap does”-- ; m:. di una condotta la cui piena attuazione non è
possibile se non nelle condizioni astrattamente supposte; cioè la condotta dell’uomo
morale ipotetico in una società morale ipotetica. Oi'a il concetto
che ho sostenuto e sostengo intorno alla possibilità, al carattere e ai
limiti della morale come scienza coincide, nei suoi lineamenti formali,
con quello che risulta dall'ipotesi qui sopra abbozzata, lo penso che
sia [Mi permetto di riferirmi qui e nel seguito di questo articolo ai
saggi, Prolegomeni a una Morale distinta dalla Metafìsica. Pavia,
Bizzoai; e Su la possibilità e i limiti della morale come Scienza.
Torino. Bocca fm'mmme'9mmm>é'>f A s
essenziale cosi all'esigenza pratica come all'esigenza teorica (ìi una
trattazione morale, il costiruii'si di una scienza etica, nella forma e
con un procedimento analoghi a quelli dell'economia; e colla })ieiia
consapevolezza che la validità normativa e la applicabilità della
disciplina precettiva che se ne ricavi sono possibili alle condizioni e
dentro i limiti che si sono oi- ora accennati. Ma una costruzione
etica analoga a quella dell'economia pui'a presenta una difficoltà
preliminare che non si è superata, ma soltanto lasciata in disparte,
supponendo, corno si è fatto artificiosamente, riconosciuto valore morale
al motivo economico. Se qualche critico osservas che é fuor di proposito
voler trasportare nell’Etica un metodo e un procedimento che nell’economia
stessa é oramai superato, o almeno r ripudiato, dalla scuola storica in
nome della realtà, e dalle varie tendenze moralistiche in nome delle
esigenze etiche, potrei accontentarmi di rispondere che dell'obbiezione
si dovrà tener conto quando i moralisti avranno fatto nel fondare una
trattazione scientifica dell’Etica tanto cammino, quanto ne lece nel
campo dell'economia la scuola classica; e che a mettere in canzone le
ipotesi e le Robinsonate degl’economisti si comincia dopo che l’ipotesi hanno
già reso i più importanti servigi e perchè si era preteso di scambiare
senz' altro le astrazioni con la realtà. Ma si può anche aggiungere che
il metodo e il procedimento della scuola deduttiva, accompagnati da una
chiara coscienza delle condizioni e dei limiti della validità delle loro
conclusioni, sono più vivi che mai nei cultori né pochi né oscuri
dell'economia; e che la scuola storica, se ha il merito di cercare e
mettere in evidenza la mutabilità e la relatività delle categorie e delle
pretese leggi economiche, si muove pur sempre entro i quadri posti dalla scuola
deduttiva (cfr. Gide, Principes d' Ec. Poi. Noi. Gen.) e ne presuppone le
leggi determinandone le deviazioni e le limitazioni nelle diverse (orme
storiche. I.e scuole moralistiche poi, in quanto si rivolgono a criticare
e correggere i concetti e i precetti dell'economia classica non ne negano
il valore scientifico nei limiti dell’ipotesi, ma ne negano il preteso valore
morale. Negano cioè il carattere di giustizia e di inviolat)ilità
attril)UÌto arbitrariamente alle leggi economiche. Ed é facile avvertire
che gl’economisti di queste scuole (con qualunque nome si chiamino) in
realtà sono moralisti che cercano di 'il [La difficoltà l'iguai'da
la scelta e la determinazione del postulato; il quale deve soddisfai-e a
due condizioni. L’una comune all'etica e all'economia. L’altra esclusiva
dell'etica. La condizione comune è l'applicabilità universale del
postulato come principici informatore di tutta la condotta; la condizione
propria dell'etica è che il motivo, di cui si postula questa universale e
incontrastata efficacia, abbia valore morale. Ora, VI è un motivo, del
quale si possa legittimamente presumere che sia riconosciuto
universalmente il valore morale, e del quale sia insieme possibile l’applicazione
universale e simultanea a tutta quanta la condotta individuale e
COLLETTIVA? A questa domanda ho già cercato altrove di trovare una
l'isposta; esaminando prima in che consista l'esigenza caratteristica di
una norma morale; e poi se vi sia e quale volgere a uno scopo pratico
(nella scelta del quale sono guidati da un criterio etico) delle
conoscenze fornite dalle dottrine e dalle indagini economiche: e la
forma-limite di questa tendenza é una intera ricostruzione su basi etiche
dei rapporti eeonomici. Fanno dunque quello che da un pezzo avrebbero
dovuto fare i moralisti; cioè sentono la necessità di considerare
l'esigenza etica estesa alla stessa struttura, non soltanto politica, ma
anche economica della società. Ma ciò che più ini])orta di osservare
a questo proposito é che una critica radicale — da un punto di vista etico —
della realtà dei rapporti economici porterebbe, a guardar bene, a rimproverare
all'economia pura non un eccesso ma un difetto di astrazione. E il
difetto di astrazione si rivela in ciò: che mentre l'economia si propone
di studiare l'azione isolata del motivo economico, e perciò suppone
ridotta l'azione dello Stato ada tutela dell'UGUALE LIBERTA PER TUTTI, assume
nello stesso tempo — come condizioni di uguale libertà ~ certe condizioni (p.
es. la proprietà fondiaria, il capitalismo e il salariato) che limitano o
alterano T universalità o l'eflicacia del motivo. Cioè o considera, per
questo rispetto arbitrariamente, come categorie necessarie^deWe categorie
5ioric/ie, o considera, pure arbitrariamente, come conforrni all'ipotesi
delle condizioni disformi. poss.'i essere il fine che abbia il carattei'e
<ìi uiìivei'sale e pi'einiiif'iite desiderabilità richiesto a
«^nustificai'e il valore normativo del motivo corrispondente. La
conclusione di questa analisi era la seguente. LA DESIRABILITA di un
ordine di effetti, che si assuma come FINE non viene tanto dalla DESIRABILITA
che gli si l'iconosca come bene, cioè come oggetto diretto
e immediato di godimento, quanto dalla DESIRABILITA degl’effetti, lei
(juali esso apjiarisca la condizione necessaria. E perciò, inentie è vano
andar cercando quale sia il fine ultimo, il quale non si trov.a mai, o si
risolve in una pura espressione verbale, il fine che può valei'e come
su premo si deve cercai'e non nell’uno o nell'altro de: fini a cui
si riconosca valore per sé, ma in un ordiiM^ di effetti, in un sistema di
condizioni, dato che sia assegna- bih*, nel quale si possa l'iconoscere
questo carattere ap- [)unt() di condizione necessaria non di alcuni, ma
di tutti quei beni, ai quali si attril)uisce valore per se. E
quimii il fine che può avei'e universalmente una DESIRABILITA superioi'e
a ogni altro, non juiò consistere se non m un ordine genei'ale e, si
potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui attuazione apparisca
necessaria perchè sia possiì)ile universalmente la ricerca ulteriore
<li ([uei beni. Non può essei'e cioè supremo nel senso di una
gerarchia, della quale segni il culmine, nò nel senso di una grandezza o
quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso (iella precedenza necessaria
o della indispensabilità; per la (juale venga a l'accogliersi su di esso
come in un unico foco la luce e il calore di DESIRABILITA che irraggia
dai fini ai quali apre universalmente la via. E perciò, ammesso che
qualsivoglia fìne lancino ha, come ha in l'ealtà, per condizione la
convivenza e LA CO-OPERAZIONE sociale, il fine che può avere questo valore
di precedenza necessaria sugl’altri deve essere di necessità il
raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni di convivenza e di CO-OPERAZIONE
sociale, cioè di una qualche forma di società. Ma perchè a.] una forma di
società possa essere riconosciuto questo carattere universalmente,
occorre che le condizioni della sua esistenza hanno per tutti un
valore potenzialmente uguale. Ossia che nessuno dei FINI dei quali quella
forma di CO-OPERAZIONE pone la POSSIBLITA [Grice trascendentale] e dai
quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa
forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la società. in altri
termini che tutti i .socn trovino nelle condizioni di esistenza della
società la medesima equivalente possibilità esteriore d\ rivolgere la
loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei fini, dei quali la
convivenza e COOPERAZIONE sociale è CONDIZIONE [GRICE, metaphysical
justification]. Ora se si riconosce come esigenza della GIUSTIZIA, questa
esigenza alla quale deve soddisfare una forma sociale perchè ha
universalmente valore di fine prossimamente supremo, determinare questo
fine equivale a determinare un tipo di società nel quale siano attuate le
condizioni richieste della giustizia cosi intesa, ossia un tipo ideale -
conforme a questa esigenza - di HOMO IVSTVS e di socielas insta. E ciò
equivale a cercare quale sistema di relazioni risulterebbe
effettuato nell’ipotesi che gli uomini, sia come collettività sia
in-dividualmente, ossia in qualunque forma di azione o di in/Iuenza che
si eserciti cosi dalla società come da ciascuno dei singoli,
subordinassero universabne^ite e costantemente qualsiasi altro motivo o
desiderio al desiderio della giustizia. E se supponiamo che con un
procedimento analogo a quello tenuto dall'ecoiioinia pura (1) il .sistema
Hi l'elazioni che iji avverei'ebbe nell'ipotesi, e già deteterminato,
noi avremmo una scienza pura della giustizia -- una diceologia » piD'a,
alla quale sarebbei-o totalmente applicabili le considerazioni circa i
cai'atteri e le limitazioni che pi'esenta una costi'uzione
siffatta. Ili, Posto, adunque, che fosse costruita (questa Scienza
pura della giustizia, si poti'ebbero muovere ad essa, fondandole
sulle limitazioni notate, tre obbiezioni capitali: di essere una
costruzione aì'bitraria, oziosa, e, in ogni cas(ì, monca. Di queste
obbiezioni occoi're chiaiMre la portata. L'arbitrarietà della costruzione
supposta pU(') essei'e intesa in due sensi. Nel senso che la validità
delle norme che se ne ricavano è relativa alla validità del postulato, il
cui valore è bensì assunto come un DATO DI FATTO, ma senza una ragione
perentoria che obblighi ad accettarlo; oppure nel senso che è difjbrrne
dalla realtà e insussistente l’ipotesi di una condotta subordinata
universalmente e costantemente all'esigenza della giustizia. Se si
intende 1' arbitrarietà nel primo senso, qualunque dottrina etica è aidjitraria
; perchè il valore del postulato fondamentale (ossia del motivo, o del
tine, o del [L'economia dà al postulato edonistico – e EUDEMONISTICO _- un
contenuto materiale determinato considerando come soddisfazioni le
soddisfazioni di certi bisogni. e come sacrifìci certe privazioni e certe
pene; mentre al postulato della giustizia il contenuto materiale, al
quale se ne deve fare l'applicazione, é dato (la tutte le specie
d'attivuà o da tutte le categorie di fini (esclusi soltanto quelli la cui
ricerca o proseguimento importano la negazione del principio regolatort^
supposto) che in una società data sono possibili. ili criterio di
valutazione) quale si sia, è sempre ammesso assunto, ossia si suppone o
si ammette che sia riconosciuto come tale; e nessuna dottrina etica può
compiere il miracolo di obbligare a.l accettarlo. Perchè, la ragione
perentoria - se è una ragione, non può consistei-e che nel ricondurre il
valore del postulato a quello di un altro fine o di un'altra esigenza
ulteriore, della quale si ammette o SI suppone ancora che la validità sia
riconosciuta. E se si dice che è propio del fine o dell'esigenza morale
il presentarsi alla coscienza come un valore che non si può disconoscere, si
auìmette che questo carattere è già dato nel fatto stesso che l'esigenza
è riconosciuta come morale; anzi che il motivo vale assolutamente,
appunto perchè vale come morale; il che vuol dire che impone il proprio
valore solamente in quanto la coscienza lo accetta, e che è sempre in
ultima analisi il valore morale dell'esigenza che é preso come un dato
primo o come un postulato. Se si intende dunque in questo senso,
qualsivoglia dottrina etica è, perchè etica, arbitraria. Se poi si
pone come caratteristica del valore morale la possibile validità
universale della MASSIMA corrispondente, nessuna esigenza è piti
radicalmente universale di quella che esprime la CONDIZIONE stessa di
questa POSSIBILITA. Che all'esigenza assunta sia o no riconosciuto
in effetto valore morale, ossia che il postulato corrisponda o non
corrisponda e più o meno adeguatamente a un dato della realtà psicologica
rivelato dall'analisi della coscienza morale, è una questione diversa. E
se l'arbitrarietà s'intende in questo secondo senso, come difetto totale o
parziale di questa corrispondenza, essa consiste, nel caso nostro, non
nel considerare come morale l'esigenza della giustizia, ma neir assumere
questo motivo come il motivo morale. fi JH^ffriaililf».W'.ifc^ ] menti'e
la realtà empirica ne pi*esenta anche altri ; e nel considerai'lo isolato
da questi, mentre nella realtà sono più o meno strettamente connessi e
coopei'anti o contrastanti con q ìlei lo. Non ho nessuna ditlicoltà
a riconoscere che la costruzione supposta è, anche per questo ris[)etto,
arbitraria ; al modo stesso che è sempre pili o meno arhiti'ario
qualunque sistema di deduzioni ricavate da un' ipotesi. Ma un'
arbitrarietà di questo genere non implica nessuna fallacia finché non si
pretende che essa espi'ima la i*ealtà del mondo mt)- l'ale dato ; e la
costruzione si dà per quel che è, cioè per una scienza che sai-ebbe la «
vei'a scienza » della morale com' è, se le condizioni dell' ipotesi
rispecchiassero la realtà — Intendo quel che si può dire: — Perchè
supporre che il motivo egemonico sia la giustizia, e non un alti'(\
poniamo il motivo altruistico – GRICE: OTHER-LOVE? 0, meglio, perchè non
assumere come motivi morali, o l'ispondenti all'esigenza morale, tutti i motivi
che la realtà psicologica l'ivela valere in effetto come tali? La
l'isposta all'una e all'altra domanda non è diffìcile. L'assumere come
rispondenti all'esigenza morale i critei'i molte[)lici che si i-ivelano nelle
norme empiricamente date come morali costi'ingerebbe in ultimo ad
assumere l'esigenza stessa moi'ale come in sé contraddittoria e a
costi'uire non una scienza, ma una veste d’Arlecchino. Perchè la morale
empii'icamente data rivela criteri non di rado opposti, e del medesimo
ci'iterio le applicazioni più artificiose e vai-iabili. Ora, che l'esigenza
morale possa U) Tralasciando pure di insistere, come lio già
osservato altrove, perchè è cosa troppo nota, sull'antitesi fondamentale
esistente tra le norme di condotta che valgono come morali rispettivamente
nelle condizioni di pace e di guerra, e sui contrasti, tragici talvolta,
tra i doveri famigliari e i do- co„,poru,.e criter,, ì,ver.i e anche
opposti,fi val,„az,one senza cessare di essere morale, s, potrà aocl.e
ammettere (purché s, s.a disposti ad accettarne le conseguenze;; ma
che si possa, assumendo criteri contraddittori!, costruire una dottirina
coerente, non si può sostenere. Bisogna dunque scegliere; e la scelta,iel
motivo della giustizia, se è arbitraria hi quanto e seella,U uno fra
più "on e arbitraria in guanto mandnno le ragioni della scelt..
Poiché è facile rilevare che il motivo delia giustizia e 'I solo al quale
si possa supporre che risponda in effetto universalmente e costantemente
tutta la condotta senza che l’osservanza da parte degl’uni richieda o
presupponga l’inosservanza da parte degli altri. L'altruismo (GRICE OTHER LOVE)
non potrebbe essere oss.Tvato universalmente, se non a patto che fosse
subordinato alla sua voka a mia norma di giustizia. Infatti, affinché sia
possibile I abnegazione e la rinuncia incondizionata di sé agl’altri, veri
sociali, bisogna osservare che le „or,„e date e accettate come
morali o.o,.o contemplare e contemplano realn.ente, almeno parte, de„e
rela- wL; T ',•'^i" "> S-iadi relazioni
pr.ma,,e e fondan.entah, che le „orn,e non contemplano e che sono la
negazione del crueno applicato in qne.le norme. Mi sia lecito spiegarmi e
„ ruiieTau: r"'T,
t"'-^ I iano i In ""'. '^ cercare,,uale
a qu le concila la minima fatica del primo col minimo disagio del
secondo crueno seguito qu, é un criterio d’EQUITA. Si riconosce ciocche
non sa- omodi;e tutte le comodità per se senza tenere in
conto le comodità dell'altro. .Ma se questo crueno (seguito nello
stabilire la condotta migliore, Jata,,uella conLol <i.ve,.a de, due,
fosse applicato a determinare la rela.one t,-a i due p,Jl
Z^JT'"P~« e portato, questa .:J^::Z TorT
"T"»™"'--^^ colle p,.opr,e gambe. Ossia la norma
nor. le regola nel caso supposto un rapporto che non esis,e,.ebbe, o
sai-ebbe tutto d,verso, se essa fosse applicata al sorgere di quel
.-apporto NH itì'i^tli^ì-. Hif
^••s«ì»?T<P7** Ifi bisogna chf^ gli nni si
.saci'ifichii)0 e gli altri o qualche alti-o accattino il sacnfi/io ;
cioè bisogna che gli uni os^or- vino LA MASSIMA (lell'altruismo, e gli
altri o qualche altro quella dell'egoismo. Se poi si ammette che nessuno
debba poter saci'ifìcarsi più di un altro qualsiasi (lasciando di
osservare che in tal caso praticamente i sacrifici si eli<le- rebber.))
fiisogna che la condottta altruistica di ciascuno non impedisca una pari
condotta altruistica degl’altri. Cioè bisogna che fattività altruistica alla
sua volta sia governata da una norma di giustizia. Ciò viene a dire
che la famosa formula kantiana, se si considera nella possibilità della
sua applicazione simultanea per tutti a tutta la coìidotia e.sterna non è
suscettiva d'altra inter[)retazi()ne che di massima univeisale di
giustizia nel senso sopra chiarito. In un Saggio originale e sucrgestivo,
che vale bene più di qualche grosso volume inconcludente, CALDERONI (si
veda) illustra una concezione
economica della morale (che non tocca in nulla, benché a prima vista
sembri antitetica, il concetto qui esposto) nella quale egli osserva
giustamente come la maggior parte delle azioni virtuose non siano
considerate come tali se non perchè sono prodotte in quantità inferiore
alla domanda; e son per noi un dovere appunto perché gli altri uomini non
le lanno,' e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini
capaci e volonterosi di imitarle. E trae da questa considerazione la
conseguenza che la formula di Kant è del tutto inapplicabile. Ora è
certo che Kant intende di parlare di validità universale del motivo a cui
si informa l’azione. che può essere quindi variabile secondo le
circostanze, pur rimanendo il medesimo il motivo che la detta; e che non
può richiedere uniformità di condotta esterna se non nel caso che si
tratti della medesima attività esercitata nelle medesime condizioni
esterne. Ma (juando m supponga avverato questo caso, si troverà che l’unico
motivo, il quale comporti uniformità universale di condotta è il motivo
della GIUSTIZIA; e che intesa così, la formula di Kant resiste alla
critica anche dal punto di vista di CALDERONI (si veda) Disarmonie economiche
e disarmonie morali, Firenze, Lumachi. La marginalità nella Morale. Assumetelo
dunque, se cosi vi piace, codesto vostro postulato, e costru.tevi la
vostra . Scenza pura della giustizia. Cile ne farete poi? A che c<,sa
propriamente potrebbe servire costruita elle fosse, non si può con
esattezza determinare,n precedenza. Si potrà vedere, nel caso, quando sia fatta
o pi ut- "«to, a mano a mano elle si venga facendo. Troppe
ricerche . el resto non si farebbero se si aspettasse di averne diino-
strato 1 utilità; e,li troppe altre, risultati portarono frutti <lel
tutto remoti da ogni previsione. E dato pure che riuscisse inconcludente,
nessuno tiirà che «ia „é la prima „ó u'iica,n questo genere, specialmente
nel campo della morale. E t,.a le molte curiosità, perchè non
dovrebbe trovar posto anche questa :,ii sapere come andrebbero le
faccende di questo mondo se gli uomini si decidessero ad essere tutti e
sempre e in ogni contingenza della vita so- liratutto e prima di tutto
giusti? M.-i è pur naturale d'altra parte che debba intravederne
almeno qualche possibilità,li applicazione eh, la propone e che ne debba
dire qualche cosa. Le applicazioni possono essere principalmente due:
come mezzo di interpretazione o di sistemazione scientifica della
realta morale,lata; e come fondamento di una disciplina precettiva, ossia
di un'etica applicata della giustizia. Se l’osservazione psicologica dimostra
che è arbitraria, l'assunzione del motivo della giustizia come unico
motivo morale, dimostra pure <die quel valore gli è però realmente
riconosciuto: e che se non ., riconduce ad esso effettivamente ogni
valutazione ^nica, esso entra però come elemento o fattore di valutazione
in qualunque giudizio morale. Può essere dunque opportuno, a uno scopo di
sistemazione coerente delle norme effettivamente vigenti, conoscere quali
sarebbero se questa esigenza operasse isolatamente, cioè se tutte si
ispirassero unicamente ad essa; e considerai-e, con un artifizio di
cui tutte le scienze offrono innumerevoli esempi, come deviazioni
limitazioni risultanti dalla presenza di alti'i motivi, le norme che non
coincidono con quelle astrattamente dedotce. Sarebbero, per un
vei'so, da considerare come tali le norme della condotta politica interna
ed esterna ispirate dall'interesse dello Stato, o del maggioi- numero, o
di una classe, in quanto al rispetto di queste esigenze sia
attiibuito valore morale. E sarebbe, pei- un altro vei'so, possibile
interpi'etare le norme della BENEFICENZA come espressioni della stessa
esi-genza della giustizia, in quanto si considerano rivolte a sanare o a
lenire gli effetti che ne accompagnano 1' inossei'vanza, e le deviazioni o le
limitazioni. Ma l'applicazione più rilevante riguarderebbe l'Etica
propriamente intesa come disciplina normativa. La scienza pui'a della giustizia
appunto perchè considera già raggiunte e attuate tutte le condizioni
richieste dalla esigenza che essa postula, ossia, in termini
equivalenti, fa astrazione da ogni circostanza interna od esterna
che ne impedisca o ne limiti 1' efìTicacia, configura un sistema di
relazioni sociali e un tipo di condotta, cioè formula Sarebbe
possibile per questa via togliere, dico nella trattazione teorica, certe
contraddizioni o antinomie davanti alle quali si arrestano solitamente i
filosofi quando ne determinano l’esigenze razionali delle leggi, le quali
possono valere come tali soltanto nelle condizioni contemplate dall'
ipotesi,- vale a Hn^e non sono suscettive,li applicazione, sic et
simpliciler, a condizioni iliverse. Ma se si ammette che T onime di
relazioni ipoteticamente costruito abbia valore di fine, cioè se si
ammette come normativa l'esigenza della giustizia, vi sarà luo-^o a
cercare e a .leterminare (bencbè questa determinazlne debba riuscire,
come è facile prevedere, assai difficile e complicata) quale sia in
condizioni reali storicamente date la condotta, die nei limiti imposti da
queste, è ini, atta a favorirne la trasformazione nella direzione segnala
dalle condizioni ideali contemplate nell'ipotesi. Ossia si potrà
ricavarne un'etica applicata della Giustizia, alla quale la realtà storica
fornirà la conoscenza delle condizioni tra le quali si deve spiegare e
dei mezzi ai quali deve ad.-guarsi, per essere praticamente
efficace la condotta rivolta a quel fi ne ; cosi come darà la
conoscenza 'Ielle varie specie di attività che l'esigenza .iella
giustizia e chiamata a regolare; cioè darà, volta a volta, alla forma
<lella giustizia il contenuto materiale. E le norme, cosi ricavate da
questa applicazione a una realtà data delle leggi .Idia Giustizia pura,
saranno valide, se SI accetta come fine morale prossimamente supremo,
cioè precedente a ogni altro fine generale e speciale, l'attuazione
del sistema di relazioni contemplato da quella, e come morale la condotta
corrispomlente. Cosi questa Etica applicata, come la Scienza Pura
dalla quale essa si ricava, è indipendente da qualsiasi dottrina metafisica, ma
non pretende di sostituirla. Ignora i problemi metafìsici ; ma nel senso
che non no richiede e non ne assume una certa soluzione piuttosto che
un'alti*a; non nel senso che ne neghi l'esistenza o ne escluda la
trattazione. Ilimane di fronte ad ossa iinpi'ogiudicata, e da essa distinta,
ogni questione sulla natura e sul fondamento ukinìo dell’esigenza stessa
morale; così come rimane impi'egiudicato il pi'oblema pratico, o
pi'opriamente psicologico e pedagogico, intorno al valoi-e e all'
efficacia delle credenze religiose o metafìsiche come condizioni o
fattori sof^^-jcttivi dolla moralità. Ma, ciò nonostante, o forse appunto
pei'ciò, è verisimile che sia giudicata, specialmente alla stregua delle
tendenze più apei'tamente dominanti nel p(insiei*o
contcmpoi'aneo, doppiamente monca; monca considerata come dotti'ina;
monca considerata rispetto alla efficacia pratica. a) Cei'tamente
può parere strana se non ingenua Tnlea di segnai'e una divisione di
competetjza tra T indagine scien- tifìca e rin(iagine proprianifMite
filosofìca e metafìsica, men- ti'e pai'e di assistere a una specie di
atto di coiitrizion<' delle stesse scienze speciali già formate; le
quali, dopo essersi staccate e aver pi'oclamato la loro indipendenza
dalla filosofìa, sentono il bisogno di ritornare ad essa e di
rintracciare in lei le origini della loi'o vita e la ragione del loro
valore. Tuttavia una considerazione un po' più attenta può mosti-are die
il contrasto è soltanto a})parente e che la tendenza delle scienze
speciali all' inter|)retazione e alla integrazione filosofìca dei loro
presupposti e dei loro risultati non esclude, ma piuttosto include, la
legittimità di una distinzione anche nel campo delia morale. Perche essa }) resuppone
appunto che le scienze abbiano i ÌOt'O postulati, i loro metodi i Ioì'O
risultati, e che i sistemi speciali di dottrine cosi edifìcati sussistano
ed abbiano una validità propria, sia pure limitata e provvisoria,
all'infuori dell'interpretazione e della valutazione che ne debba o ne
possa fare la metafìsica. In questa specie di Conferenza permanente dell'
Aia (sia detto senza intenzioni maligne) che è la mutua collaborazione
delle diverse discipline alla critica e alla integrazione del sapere e
del valere umano, sono gli Stati che hanno territorio e giurisdizione
propria che possono far sentire la loro voce. I delegati della
Corea sono esclusi. Intendo quello che si può dire. La morale è
essa stessa la metafisica, e pone essa le esigenze alle quali è
subordinata la valutazione di tutte le altre discipline dei loro
principii e delle loro conclusioni. Fosse pure, o, piut- tosto, dovesse
pure essere cosi. Quali sono queste esigenze della morale? Come si
determinano ? Qual'è, fra i molti sistemi diversi opposti e anche
contraddittorii, quello autorizzato a rappresentare « la morale *, e a far
valere le sue esigenze come esigenze ideila morale *ì E se si può
distinguere una esigenza immediala e caratteristica, dato che SI trovi,
della valutazione morale, dalle esigenze ulte non, argomentale o poste da
questo o da quel sistema per interpretarla o giustificarla, allora è
nello stesso tempo data la distinzione tra esigenza propriamente morale
ed esigenze avanzate,ia una interpretazione o integrazione
metafìsica della esigenza morale; e si delinea insieme una separazione
legittima tra l’indagine che cerca di risalire dall'esigenza morale ai
postulati metafisici, e l'indagine che ricava dall'esigenza morale le
applicazioni che logicamente ne discendono. Ma, nella realtà viva e
vissuta della coscienza, valutazione morale e valutazione metafisica
formano un tutto unico; e separando l'esigenza etica dalla fede
metafisica colla quale è fusa e della quale si alimenta, s, è
spezza r unità della coscienza, si oscura o si cancella il
signitìcato e il valore interiore della moralità, e si presenta come vita
morale lo scheletro o, meglio, lo stampo esterno e quasi l'impronta
fossile dell'atto morale. Sarà verissimo; ma nessuna costi-uzione dotti-inaU
può sfuggire a questa obbiezione. Tutto ciò che la logica tocca e
che è fatto oggetto di conoscenza riflessa e i-agionata diventa perciò
stesso un tipo, uno stampo, un fossile; anzi stampo è la parola, stampo ò
la stessa rappresentazione artistica se non è vivificata e i-isvegliata
da chi la deve intendere e gustare; anzi sono diventate ormai stereotipe,
per colmo di evidenza probativa, perfino le fi*asi e le immagini
usate a mostrare la « i-icchezza e la varietà inesauribile della
coscienza e delle sue ci'eazioni. E quanto al sepai«are nella teoria ciò
che nella realtà è unito, bisogna pur rassegnarvisi. Pei'chè ogni nctM'ca
è prima di tutto distinzione, sepai-azione, asti'azione; il fatto
stesso, ogni fatto (diceva già un chimico, Chevreul) è un' astrazione.
Ciò che importa veramente è di non dimenticare che l'astrazione non è tutta la
realtà. Ora, sceverando dal complesso degli elementi, onde la vita
etica nella coscienza personale iMsiilta o può risultare, quello che è
suscettivo della più universale applicazione, e costruendo il tipo di
vita che ne risulterebbe, non si pretende di esaurire il contenuto della
coscienza, ma soltanto di distinguere le norme di condotta a giustificare
le quali basta uu certo postulato, dalle norme e dalle forme di
vita morale che si fondano sopra altre esigenze ossia l'ichie- dono
altri postulati. E chi crede che la chiarezza dei concetti e il
l'igoi-e del procedimento si debbano poi'iare, fin dove è
possibile, anche nella speculazione etica, ammettei-à che può
essei-e que- utile allo scopo, se non anche necessario, il
seguir( sta via. Rimangono altri problemi. E chi lo nega? Ma prima
condizione per cercar di risolverli con frutto è di non confonderli tra
di loro. E nasce da una confusione di problemi diversi l'obbiezione,
che si potrebbe dire pragmatistica, del difetto di efficacia pratica, o
più esattamente parenetica o pedagogica, di una dottrina morale che faccia
astrazione da ogni valutazione metafìsica, e presenti un sistema di norme
che ha di necessità soltanto un valore ipotetico, cioè, nel
caso nostro, condizionato al valore che può avere nella coscienza il
motivo impersonale della giustizia. (lì Le espressioni di più d' un
antiintellettualista indurrebbero 4uasi ad ammettere che la morale sia
una specie di grande imbroglio, nel quale a voler vederci chiaro, si
finisce per non credere più. Ora, altro è riconoscere Cile ogni
valutazione é in ultimo data alla intelligenza e non dalla intelligenza, e che
nessuna conoscenza e nessun ragionamento può far volere un fine che non
sia già voluto, o per sé, o come condizione a un altro fine- altro è
credere ed aOermare che l’intelligenza o la ragione sia in contrasto olla
moralità. Come potrebbe essere? Non certamente in quanto si rivolge a
determinare 1 mezzi necessari e convenienti a un fine. Nel qual caso non
è nemica, ma ancella della volontà in generale, e, se la volontà é «
buona ». della volontà morale. Non potrebbe essere, dunque, se non in
quanto toglie o muta la valutazione del fine (cioè delP oggetto o contenuto
materiale del motivo morale) mostrandone \^ connessione, prima ignorata o
trascurata, con qualche cosa d' altro, che sia oggetto di una valutazione
diversa; diciamo, per comodità, negativa o repulsiva. E allora, poiché la
valutazione di questo qualcosa d'altro non può venire dall' intelligenza
(la quale, come si sa. chia- risce rapporti, non dà valori),
manifestamente non si possono dare che due casi: ha origine
nel motivo stesso morale; e la conoscenza non avrà fatto che mettere in
chiaro come quel fine che gli si riteneva in tutto conforme, sia in
realtà più o meno disforme in forza della connessione notata. Ma ciò non
Poiché è uggioso a se e agli alti-i l'ipetere cose già dette, e su questo
punto ho insistito a lungo altrove, mi restringo qui a riafTermare la
legittimità, anzi la necessità logica e la convenienza morale, di tenei-
separata netta- mente ogni ricerca che si volge a detei-minare quali
siano le norme di condotta richieste da un certo fine, dalla ricerca
delle condizioni e dei fattori dai quali dipende o può dipendere l’osservanza
delle norme. La legittimità delle deduzioni, dato che ci sia, e la
validità dei precetti rispetto al fine sussistono indipendentemente dalla
presenza o dalla assenza dei motivi che ne persuadono o ne impongono
l'osservanza, e dalla natura di questi motivi. Come il contenuto e la
giustificazione delle prescrizioni d'un medico non dipendono dalla
disohbedienza o dall' obbedienza dell' ammalato nò dalle ragioni di questa
obbedienza. tocca in nulla il valore e l'efficacia del motivo
morale. Ammettere il contrario sarebbe come dire che cessa di amare la
giustizia chi cessa di difendere una causa che ha riconosciuto
ingiusta. ha origine in un motivo non morale (poniamo in un interesse
egoistico); e anche qui l' intelligenza non farebbe che rivelare una
condizione di fatto : la presenza e Tefficacia di motivi non morali nella
valutazione dei fini e :lella condotta. La conoscenza dunque, anche in
questo caso, non altera il valore del motivo morale; può eventualmente
mostrare che il valore e l’efficacia sua non è esclusiva, o incontrastata
come si supj)oneva. Ma correggere un errore di giudizio non é cambiare
uno stato di fatto. Potrebbe dunque, tutt' al più, togliere un' illusione.
Ma è nell' illudersi d'esser morali che consiste la moralità?
Questo conformarsi o non conformarsi si suole a torto, per abuso di
linguaggio, attribuire a una pretesa efiicacia pratica delle norme; mentre le
norme - perse - hanno, a promuovere l'azione corrispondente, una
efficacia non maggiore di quella che abbiano i fanali di una strada a muovere
le gambe dei nottambuli. E un simile abuso di linguaggio, che nasce da un
difetto d'analisi, ha alimentato la confusione tra esigenza giustifica-
tiva e esigenza esecutiva, tra l'obbligo e la giustificazione dell'obbligo, e
la pretesa illusoria che una norma possa o debba avere in sé forza
obbligativa. Cfr. Prolegomeni ecc., e. I: (L'esigenza esecutiva) ; e
Studi su la possibilità (La pregiudiziale dell'imperativo
categorico). La reale presenza ed efficacia di motivi «ufficienii a
determinare T osservanza è in ogni caso si>,pposta, non . posla da qualnnque
costi-uzione precettiva; e il «„ppori-e operativo d motivo della
giustizia non esclude, ma piut- i tosto include, una ulteriore
valutazione del motivo stesso ' ogniqualvolta nella realtà esso derivi in
tutto o in parte la sua forza da questa sopravalutazioiie. Ma anche
in questo caso non bisogna dimenticare che una tale efficacia .sarebbe
sempre essa stessa posMata come un dato di fatto, non comunicata o
la,-g,la da una fon.ìazione qualsivoglia. Perchè anche una fondazione
religiosa o metafisica non pone essa le credenze, ma le sup. pone già
viventi e .operanti. Il suo valore come motivazione morale dipende dal valore
reale che esse hanno nella coscienza, dalla loro forza operativa. Essa fa
appello a questa forza, ma non dà, essa, la forza; ossia vale,,el-
i ipolesi che valga in effetto nella coscienza la fede nei dati assunti
da lei. E se questa fede mancasse, una fon- <iaz,one metafisica o
religiosa, qualunque fosse, avrebbe sulla condotta una efficacia non
diversa né maggiore di qualsi- voglia costruzione arbitraria. Senonchè si
potrebbe, su basi pragmatistiche, osservare che SI,ie^e appunto volere
quella fede dalla quale si può aspettarsi l'incremento del motivo morale,
e che, poiché SI tratta di optare, conviene dal punto di vista'
pratico optare per una fede moralizzatrice. E compito del
moralista «ara perciò di affermare e suggerire quella fede come
presidio e cnforro, utile se non necessario, della moia- l'tà, e
presentare la dottrina morale connessa e incorporata con quella fede. Su
un discorso di questo genere ci sarebbero da .lire molte' cose; notiamone
poche. E prima di tulio convien pur ripetere che un tal compilo. t^
1 fc m (lato che spetti al
inoi-alista, ^Hi spetta in quanto è o pretende (li essere educatore o apostolo,
non in quanto si propone di cercare quali concernenze ini[)liclii l’accettazione
di un cei-t() postulato e si contenti di atierniare che chi accetta il
postulato deve accettai-e le hoimikì che ne discendoiHi. I due uffici non
si identificano ; chi ha slo//(i di ricercatore può non avere
stoft";i di a[)()stolo o di avvocato ; e potrehhe in og"ni caso
invocare aiiche qui il principio delhi divisione del lavoro. Ma dal
[)unto di vista stesso pedagogico la tesi è tutt' altro che incontestahile.
Suggerire e infondere una fede! E presto detto. Ma in che modo o per
(jual via? Partendo dall'esigenza pratica per arrivare alla credenza,
cioè presentando la fede a[)punto come sostegno e guarentigia della ni
orai ita? Lasciamo pui'e di indagare se con ciò non si nega in
effetto, neir atto stesso che si afferma, il valore assoluto dei
postulati religiosi o metatisici, dal inoinetito che essi sono affermati
o posti come condizioni o fattori nella produzione di certi effetti, cioè sono
valutati utilitariamente; e se non si offende il sentimento religioso,
considerandolo unicamente come un motivo sussidiano invocato a supplii'e
alla fiacchezza del uiotivo morale. Un pragmatista conseguente potrehhe
non avere (ii «juesti scru[)oli. Ma lo scopo stesso a cui mira il
pragmatista vieti meno in realtà dacché, per tal via, si suppone dato ciò
che si vuol produire; ossia si pone a sostegno del motivo morale un
sentimento che vien fondato sopra esso, e vale in forza di esso. Con un
risultato non dissimile da quello che hanno di solito le discussioni ;
dove le rai'ioni usate a sostenei'e un'opinione persuadono soltanto chi è
già persuaso; cioè hanno in effetto tanto maggior [)eso quanto più è
superfluo servirsene. Se si tiene invece una via diversa, e si
intende di edificare la credenza su una educazione propriamente
dogmatico-religiosa, dov'è più la opzione, la affermazione libera e
spontanea della coscienza? E come può il moralista educatore presentare o
imporre come unica e definitiva una iede, o una credenza religiosa o
filosotìca^che egli sappia essere personale e volontaria? La verità
è che mentre nel valore morale (posto che sia riconosciuto) del postulato
che si assume a fondamento della costruzione scientifica, è necessariamente
implicito il valore morale delle norme che ne esprimono l'applicazione,
non è necessariamente implicita l'accettazione di certi piuttosto che di cert'
altri postulati metafisici. Mentre, accettato un postulato di cui sia
possibile r applicazione alla condotta umana, la coerenza logica
basta a dare la legittimità delle norme che se ne deducono, la
coerenza logica n07i basta a porre come necessariamente richiesta da quel
postulato una determinata fede religiosa filosofica ad esclusione di
qualsiasi altra. La salita al cielo dei postulati metafisici non si fa
colle scale della logica. (Il che, come tutti sanno, ha il suo riscontro nel
fatto che possono trovarsi concordi nelT accettare e nell' osservare la
medesima esigenza morale uomini di opinioni i-e- ligiose e filosofiche
diverse; come, inversamente, può la stessa fede religiosa e filosofica
presentarsi, nella realtà storica e psicologica, connessa con norme
morali discordanti). E la libertà dì coscienza sarebbe una frase
vuota di senso o piena di immoralità se il voler la giustizia e
Tesser giusti richiedesse o l'esclusione di ogni fede o l'accettazione
della medesima fede. ài fondata da Sen. C; Rivista Filosofica VRLO
Cantoni. La Possibilità l I e i Limiti MORALE STUDI TORINO.
BOCCA. In questo volume sono raccolti tre scritti pubblicati in più
riprese nella Rivista Filosofica diretta dal mio indimenticabile maestro ed
amico CANTONI (si veda), al quale il profondo e tenace convincimento
delle proprie dottrine non tolse mai di rispettare e stimare sopra tutto,
anche nei discepoli, la lil>ertà e la sincerità. Benché diversi di
titolo, i tre studi che ora ripubblico riveduti e in parte aumentati,
sono lo svolgimento del medesimo pensiero fondamentale, e presuppongono quasi,
ciascuno dei successivi, i precedenti. Anzi il primo dì essi è, alla sufi*
volta, continuazione di un altro pubblicato anteriormente col, titàlol
Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica; nel quale è esaminato
il problema della possibilità di un’ Etica normativa indipendente da
qualsivoglia soluzione, positiva o negativa, dei problemi di natura
metafisica. E perciò spero di essere scusato se mi riferisco qualche
volta anche ad esso ; e se in in questo volume sono lasciate in disparte,
o trattate con brevità che altrimenti sarebbe soverchia, alcune questioni
delle quali s’è già discorso in quello. Anche to' importa di
avvertire, sempre a proposito dello Studio La dottrina delle due etiche
di Spencer e la morale come scienza, che — se nella esposizione sia
generale, sia particolare, della dottrina esaminata, ho
cercato studiosissima mente dì rendere intiero ed esatto il pensiero
dello Spencer — nella critica ho considerato la dottrina dal punto
di vista speciale additato dall’intento essenzialmente teoretico che
assegnavano a questa ricerca le conclusioni dello studio precedente. E
per questa ragione ho tralasciato deliberatamente non solo qualsiasi
digressione, ma ogni discussione che non fosse strettamente necessaria
allo scopo mio particolare. A ciò si deve la mancanza quasi totale di
accenni alle critiche anteriori, anche dei più valorosi.
Pavia. e la Morale come Scienza. Movente etico-sociale dell’opera dello
Spencer. Conseguenze nella valutazione delle suo dottrine. La Dottrina etica in
generale. Il concetto informatore. La distinzione delle due Etiche. Il metodo
dell’ Etica. dati dell’ Etica. Soluzione dell’ antitesi tra fine e metodo,
e possibilità di conciliazione fra i dati dell’ Etica. La dottrina delle
due Etiche. Due questioni fondamentali, attorno a cui si raccoglie la
dottrina. Il giusto assoluto. Il giusto relativo. Errore comune nel modo
di concepire la condotta ideale. La priorità scientifica dell’ Etica
Assoluta sull’Etica Relativa. Confronto colle altre scienze.
Critica Preliminare : Le Questioni Pregiudiziali e il preconcetto dal
quale hanno origine. La pregiudiziale dell’imperativo categorico
Partizione della Critica. L’imperativo categorico. L’obbligo e la
giustificazione. La progiudiziale dell’ obbligo categorico è estranea alla
determinazione e alla giustificazione della norma.In che consista
la differenza caratteristica tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive. Compito dell’ Etica. La pregiudiziale, .sul modo di intendere
il compito normativo dell’ Etica. La progiudiziale sul compito
normativo dell’Etica. Come esso sia inteso nei due indirizzi prevalenti.
Due presupposti arbitrari comuni ad ambedue: che le norme siano già
determinate e note. che si accordino fra di loro. Necessità di un criterio
per la determinazione. La soluzione dell’indirizzo sociologico - Suo
difetto capitale: non vale a giustificare le norme. La soluzione dell’
indirizzo prammatistico-idealistico. Difetto capitale: la costruzione
metafisica postulata, come qualsiasi costruzione metafisica, non serve a
determinai e 10 norme. Il preconcetto fondamentale Presupposto comune
ai due indirizzi. Da questo nasce l’antitesi tra esigenza scientifica
(determinazione) ed esigenza etica (giustificazione). Legittimità di
porre il piobleina in una forma diversa. Conclusione della Critica
Preliminare. La dottrina delle due Etiche e le esigenze di una
scienza normativa morale. Il criterio del limite dell' evoluzione e
dell’adattamento completo non serve a determinare il tipo di condotta
cercato . Due tesi distinte nella dottrina delle due Etiche; la validità
dell’ una non dipende da quella dell’ altra. Il tipo di società
giusta non è determinato dal limite dell’ evoluzione. Nè dall’ adattamento
completo. Su quali dati sia costruito veramente ; quale posto tenga
nella costruzione dello S. il postulato dell adattamento
completo. Il criterio del piacere puro, corrispondente
all’adattamento completo, non serve a giustificare il tipo di condotta proposto.
Il piacere puro non può essere il criterio della massima DESIRABILITA. La
questione del fine e dei fini -
Soluzione illusoria trovata nel termine felicità e altri equivalenti. Equivoco
nell’identificazione dell’ oggetto dell’ attività col piacere. Quale
possa essere il fine che soddisfa alla doppia esigenza della
determinazione e della giustificazione delle norme. Il tipo di società
giusta dello Spencer. Come concepisca la società giusta Spencer.
Presupposto illegittimamente assunto dalla biologia. Difetto
fondamentale : Incocrenza fra il tipo dell’ uomo giusto c il tipo della
società giusta. Difetto che ne deriva nella relazione tra giustizia e BENEFICENZA.
L’ individualismo dello Spencer e il postulato della giustizia. Ufficio e
limiti di una costruzione scientifica dell' Etica. Come debba concepirsi un
tipo ideale di società giusta. Etica Pura ed Etica Applicata. Conclusioni della
Critica. Presupposto fondamentale, e carattere ipotetico dell’etica come
scienza normativa. Pubblicando I dati dell’Etica prima che fossero
composti il II e il III volume dei Principii di Sociologia, Spencer
giustifica questa deviazione dall’ordine del suo programma col timore di non
poter compiere l’opera finale della serie: I principii di Etica. Degli
indizi che in questi ultimi anni si ripetono con maggior frequenza e
chiarezza m’hanno avvertito che la salute, se non la vita, mi può venir
meno per sempre, prima che io compia l’ultima parte del compito che ho
assegnato a me stesso. Quest'ultima parte è quella per la quale io
considero come sussidiarie tutte le parti precedenti. Il mio primo Saggio su
L’Ufficio proprio del Governo indica vagamente il mio pensiero intorno a
certi principi generali di bene e di male nella condotta politica; e
da quel tempo in poi il mio fine ultimo, lasciando indietro tutti i
fini prossimi, è stato quello di trovare una base scientifica ai
prìncipi del giusto e dell’ingiusto nella condotta in tutta la sua
estensione. Lasciare incompiuto questo fine, dopo aver fatta una
preparazione cosi ampia per raggiungerlo, sarebbe una sventura alla cui
probabilità non posso pensare senza sgomento e_sono ansioso di evitarla,
se non del tutto, almeno in parte. The Principles of Ethics. London Qualche
cosa di simile alla catastrofe preveduta sopraggiunse infatti; perchè
dopo un lento decadimento e indebolimento progressivo egli fu costretto a
sospendere qualsiasi lavoro. Fortunatamente potè riprenderlo: ed anche
allora, la sua prima preoccupazione fu quella di compiere i
principi di Etica; e pose subito mano a quella parte della Morale, che
dopo i Dati gli pareva più importante: la IV a Giustizia. Colle parole e
col fatto egli mostrava dunque che Tintento supremo al quale
consapevolmente convergevano tutti i risultati della sua speculazione, era
u n intento mor ale. Par che riecheggi in lui la voce di Spinoza: Finis
in scientiis est unicus ad quem omnes sunt dirigendae. E in p
realtà, come le idee madri della sua teoria pene¬ trano e
illuminano tutti gli scritti suoi, anche i minori, così vi circola dentro
e li riscalda il soffio vigoroso del suo ottimismo; e la dottrina
dell’evoluzione, par che diventi nel suo pensiero sopratutto la
comprensione del processo naturale e necessario che produrrà in un
avvenire lontano ma sicuro una umanità giusta e felice. Animata cosi di
speranza, la dottrina prende colore di fede. E veramente egli la
professò come una fede; non soltanto visse per la sua dottrina, ma visse
la sua dottrina. E i prin- [. (wlien first iss. sep.) De. Intell. Emend.]—
cipi che pone a fondamento della morale e del diritto, € di cui
vuol trovare le ragioni nelle leggi stesse dell’universo, ispirano e
governano con indomita costanza tutti i suoi giudizi e tutte le sue
opinioni, da quelle sulla Educazione a quelle sull’Etica delle
carceri, dalle idee sulla Morale Politica Assoluta alle proteste contro
il « br igantaggio politi co », dalle ironie contro «la Sapienza
collettiva» a quelle contro « i diecimila sacerdoti della religione
d’amore che! non apron bocca quando la nazione è mossa dalla '
religione dell’odio.» Quell a unità e solidarietà di principi teorici e
pratici, p er cui la sua mora le si presenta come s cienz a ella sua
scienza come una morale, e questo continuo cimentare che egli faceva i
suoi principi con tutti i problemi più vivi del suo tempo, onde la
sua dottrina pareva prender veste di programma sociale e politico, hanno
certamente contribuito a produrre^ questo doppio effetto: che la preoccupaz i,
morali' si insinuasse anche nella critica delle sue dottrine teoriche; e
che l’opera sua, considerata prevalentemente, se non talora quasi
esclusiva- mente, come l’espressione di certe tendenze e di un
certo indirizzo religioso morale economico politico, apparisse, col prevalere
di tendenze e di aspirazioni diverse, invecchiata c oltrepassata di più,
e più presto, di quel che altrimenti sarebbe apparso. E cosi potè
facilmente accadere che anche certi principi, certi metodi e certe ipotesi
fossero lasciati in disparte, o si stimassero superati e come logori
e fuori d’uso, non perchò se ne fosse mostrata la falsità o la
infondatezza, ma perchò apparivano connessi e solidali con quel sistema o
quell’indirizzo che si giudicavano superati. Ora se è vero
che a intendere il significato e il valore di una dottrina particolare è
necessario considerarla nelle relazioni col sistema di dottrine di cui fa
parte, non è perciò meno legittimo considerare se essa possa aver valore e
segnare un acquisto, anche all’infuori della validità di quel sistema e
di quelle altre dottrine, colle quali primamente si
svolse. L’intento di questo saggio ó appunto di esaminare il valore
teorico e metodico della distinzione tra Etica Assolut a ed Etica Relativa; la
quale ò bensì, nel pensiero dello Spencer, parte integrante del suo
sistema, ma hg, secondo il mio avviso, ragione di essere, indipendentemente
dall’applicazione che egli ne fa e dai postulati che l’hanno
suggerita. Perciò si divide naturalmente in due parti: espositiva e
critica; la prima rivolta a mettere in chiaro le ragioni e il significato
della distinzione nella filosofa di Spencer; la seconda a esaminare la
possibilità e la utilità di mantenerla e applicarla sotto una forma
diversa. L’esposizione comprenderà pure necessariamente due
parti: una che richiama, in modo breve quanto è possibile ma esatto, il
concetto informatore e i lineamenti fondamentali di tutta l’etica;
l’altra che traccia più distesamente la dottrina particolare
esaminata. Quella legge di evoluzione, che si manifesta nell’intero univ
erso visibi le, nel sistema solare come un tutto, nella terra come parte
di questo, nella vita in generale, e nella vita di ciascun organismo
individuale, nei feno meni ment ali degli esseri animati fino al più
elevato; qu ella stessa legge si manifesta nei fenomeni della vita umana
e sociale é quindi a nche in quei fenomeni della condotta, dei quali
tratta la morale. In conformità di questa legge] j^etWnr.< e delle
leggi via via subordinate in cui essa si rifrangevi produce una el
evazione^progres siva nelle forme della vita sub-umana ed umana, la quale
si traduce in un adattamento s empre migliore, più esteso e più
durevole alle condizioni da cui dipende l’esistenza dell’individuo, e
l’esistenza della specie; e, dove la vita sociale apparisca, l’esistenza
della società. Per l’uomo adunque l’adattamento riguarda tre ordini
di condizioni; ossia è di tre forme; e, benché si possa astrattamente
considerare ciascuna forma per sè, tuttavia, per la connessione
naturale e necessaria dei fattori dai quali dipendono, le tre forme
d’adattamento nella realtà procedono di conserva con mutue azioni creazioni
continue; cosicché a ogni progresso in una forma di adattamento
corrisponde un progresso nelle altre forme. Il limite, verso il q
ua le tend questo processo, è l’adattamento completo a tutte le
condizioni della vita umana più elevata; per il quale il massimo
svolgimento della vita individuale, e della parentale, e della
sociale, non solo si conciliano, ma si favoriscono a vicenda. Questo
adattamento completo implica non soltanto una perfetta conformità esteriore
dell’operare alle esigenze di una tal vita; ma implica del pari una
conformità correlativa e della struttura, e delle attività, fisiologiche
e psichiche; è insomma ad un tempo adattamento della condotta e adattamento
dei fattori interni della condotta. Quindi anche le idee, i
sentimenti, le tendenze sono, nella loro qualità e intensità e gradi di
subordinazione, pienamente adatti e conformati ai bisogni e alle esigenze
della vita in tutte le sue manifestazioni, e trovano nelle forme di
condotta corrispondenti il loro appagamento pieno e concordante. che viene a
dire che l’adattamento completo attua in sé le condizioni della
massima FELICITA. Adunque, ma ssim a elevazione della vita, adattamento
eoj puleto . massima FELICITA (eudaimonismo – GRICE), sono per Spencer tre
concetti che coincidono; o, meglio, sono faccie o aspetti diversi di un
medesimo risultato finale, ed esprimono il limite verso il quale
tende l’evoluzione della vita umana nello stato sociale. E’ appunto
per q uesta ide ntificazione, che sta in fondo al pensiero dello Spencer,
tra evoluzione e aumento di felicità, che egli può porre come
ottima la cpndotta rispondente al limite della evoluzione. Perchè
Spencer, come è noto, ammette esplicitamente che il fine ultimo, espresso o so
ttinteso, d ell’operare, non può essere che una forma di coscienza
desiderab ile, cioè di piacere; e che la condotta ò buona nella misura che essa
apporta, tenuto conto di tutti gli effetti presenti e futuri sopra
di sè e sopra gli altri, un avanzo dei piaceri sui
dolori. Totalmente buona, dunque, o perfetta, non è che la forma di
condotta che coyà&ponde a quel limite; ogni altra forma diversa,
ossia adatta a gradi di evoluzione più o meno lontani dal limite,
non può essere che imperfetta, ossia buona relativamente, non assolutamente.
Quindi due Etiche: Etica Assoluta che determina le leggi della
condotta ottima; ed Etica Relativa che cerca di stabilire per
approssimazione quale sia la condotta relativamente buona, ossia la
condotta, che, date certe condizioni reali di svolgimento e di
adattamento incompleto, è la migliore, o la meno lontana dalla condotta
perfetta. E quindi la necessità, e la priorità logica dell’Etica Assoluta; le
cui determinazioni rirelazioni più generali, più semplici, più
esattamente definite di quelle contemplate dall’Etica Relativa. Or
come si costruirà l’Etica Assoluta? ossia quale sarà il metodo? Spencer
si accorda cogl’utilitarist i che lo precedono nell’assumere come criterio per
giudicare la condotta e determinarne le norme l a natura degli effetti o
dei risulta ti. Ma se ne distingue subito per il pr ocedim ento col
quale egli crede che questi effetti dei diversi modi di condotta si
possano e debbano conoscere. Per gl’UTILITARISTI che lo precedono è l’induzione
empirica, per lui la deduzione. Non si tratta per lo Spencer
di trovare che, in un certo numero di casi, certi danni o certe
utilità si accompagnano con certi atti o cert’altri, e di inferirne che
rapporti simili si manterranno nell’avvenire; si tratta invece di determinare
comee^er- chè alcuni modi di condotta siano dannosi e altri utili;
o più chiaramente, quale condotta debba essere dannosa e quale debba
essere utile. Non è dunque sopra certe relazioni empiricamente osservate,
ma sulla connessione causale necessaria tra le azioni ed i loro
effetti che deve fondarsi la determinazione delle norme morali. E, poiché
questa connessione deve essere alla sua volta una conseguenza necessaria
della costituzione delle cose, deve essere pos- sib ile dedurre da
principii fondamentali quali specie di azioni tendano a produrre FELICITA
e quali a pròdurre infelicità. E le deduzioni così ottenute debbono essere
riconosciute come leggi di condotta e aver valore indipendentemente da
una estimazione diretta (individuale e occasionale) del piacere e
del dolore. Ciò che distingue adunque l’Utilitarismo che Spencer
chiama Razionale, dall’Empirico, e dà carattere di rigore scientifico alla
ricerca morale, è il riconoscimento pieno e adeguato della
causalità naturale dei fenomeni della condotta; e il vero metodo
scientifico dell’ Etica, come delle altre scienze che abbiano superato lo
stadio empirico, deve consistere nel cercare e nel costruire in sistema
non alcune relazioni empiricamente stabilite, ma le relazioni
necessariamente esistenti tra cause ed ef¬ fetti in tutta quanta la
condotta. Ma se le leggi della condotta debbono determinarsi per deduzione
necessaria, quali sono i dati sui quali questa deduzione deve fondarsi ?
I fatti di cui si occupa l’etica non costituiscono un ordine nuovo
che si distacchi da un ordine inferiore o precedente, come, per es., le
formazioni organiche rispetto alle inorganiche, o i fenomeni sociali
rispetto ai biologici: ma appartengono per un verso alla biologia in
quanto sono effetti in- [Spencer li considera anche come appartenenti alla
fisica, in quanto, esaminati esternamente, si riducono a movimenti
e combinazioni di movimenti che cooperano a produrre una forma
di terni ed esterni di fenomeni vitali prodotti nel tipo più elevato
degli animali; e per un altro alla psicologia in quanto sono coordinamenti di
azioni suscitati dai sentimenti e guidati dalla intelligenza; finalmente
in quanto queste azioni direttamente o indirettamente riguardano esseri
associati, appartengono alla sociologia. La condotta è adunque ad un
tempo una formazione biologica, una formazione psichica, e una formazione
sociale: e perciò è nei risultati delle scienze corrispondenti che si devono cercare
i principii fondamentali, i dati dell’etica. E quindi i dati da cui si
debbono dedurre le norme dell’etica assoluta sono forniti dalle condizioni
che la biologia, la psicologia e la sociologia
indicano rispettivamente come proprie di un
adattamento completo. Ora, in conformità alle leggi di queste
scienze, la condotta corrispondente a un adattamento completo ossia la
condotta ottima, è caratterizzata dalle condizioni che si possono
riassumere nei seguenti tre punti: Condizioni biologiche : Corrispondenza
perfetta tra gli organi e facoltà umane e le attività necessarie alla
vita completa. Il che importa che tutte le attività necessarie al massimo
svolgimento equilibrio più o meno regolare e durevole. Ma questa
considera¬ zione (aspetto fìsico della condotta) può qui senza danno
essere tralasciata. della vita per sò e per gli altri trovino il loro
comimento nell’esercizio spontaneo di facoltà debitamente proporzionate e
producenti quando entrano in azione il loro quantum di soddisfazione
(cioè di piacere). Corrispondenza per- fet ta dei sentimenti,
come motivi deir operare, ai I nsog ni. 11 che importa che i piaceri e i
dolori, cui danno origine i sentimenti distinti come morali, siano,
al pari dei piaceri e dolori fisici, impulsi positivi e negativi
proporzionati nella loro forza ai modi di operare
richiesti. Condizioni sociologiche: Accordo perfetto t rp le
attività dei consociati. Il che importa che tutte le attività conducenti
alla vita completa di ciascuno non solo non impediscano direttamente
nè indirettamente, ma favoriscano la vita completa di tutti. Stato
di pace permanente. CO-OPERAZIONE cooperazione; nessuna aggressione diretta o
indiretta; scambio di servizi gratuiti. La condotta ottima è dunque
quella che sod- [Non è difficile vedere come l’assumere le condizioni
suesposte equivalga a supporre direttamente o indirettamente eliminate
tre antinomie che sotto varie forme compaiono, si può dire, in tutta la
storia della morale ; l’antinomia tra il piacere presente e il piacere
futuro, cioè tra piacere e utilità; l’antinomia tra il bene proprio e il
bene degl’altri, tra ciò che è richiesto dalla FELICITA individuale e ciò che è
richiesto dalla felicità generale ; e 1’ antinojnia tra sentimenti egoistici (GRICE
SELF LOVE) e sentimenti altruistici (GRICE OTHER LOVE), tra la tendenza al
piacere e la coscienza del dovere. disfa a tutte queste condizioni ad un
tempo; e però compito dell’etica Assoluta resta quello di dedurre
da queste condizioni le norme a cui tutte le forme di attività umana, a
qualunque fine siano volte, debbono conformarsi per essere totalmente
buone. Per tal modo sono determinati i principi o i dati sui quali
deve costruirsi l’Etica Assoluta: le condizioni della vita umana,
individuale, parentale e sociale, proprie dello stato di adattamento
perfetto; è determinato il metodo: la deduzione; ed è posto fuori di
contestazione il fine ultimo clic giustifica le norme così dedotte e dà
alla condotta proposta valore di ottima: la massima FELICITA universale.
Ma restano d ue grandi difflcoltà: una incocrenza, almeno apparente, da
togliere, e una lacuna da colmare. L’incoerenza è questa: Come si
può sostenere che il fine della condotta buona è LA FELICITA, se le norme
di essa condotta devono essere dedotte dalle leggi necessarie della vita
nello stato sociale, e devono valere indipendentemente da ogni
estimazione diretta e individuale del piacere e del dolore ì 0, in altri
termini, come si risolve l’antitesi tra il fine assunto e il metodo proposto?
La lacuna è la seguente: Le condizioni che si pongono come proprie della
condotta ottima e che la deduzione morale deve prendere come dati,
sono esse possibili, o non esprimono delle esigenze in tutto o in
parte incompatibili fra di loro? Insomma quello stato finale di
adattamento completo sotto tutti i rispetti, nel quale le condizioni
contemplate sono raggiunte, in qual modo e per qual via può
ottenersi ì . L’incocrenza è risolta così: Il fine è la felicità; ma
questa, a mano a mano che la vita si eleva, dipende da una serie sempre
più lunga e complicata di mezzi, ciascuna delle quali deve essere rag¬
giunta perché sia possibile il fine. Le norme morali rappresentano la serie più
generale e preliminare di mezzi, appunto perchè costituiscono la serie
più lontana dal fine, e quella che deve essere osservata prima di tutte
le altre; la condizione delle altre condizioni. Ora siccome tutte le
attività necessarie alla vita tendono a diventare una sorgente diretta di
piacere, (perchè i piaceri sono relativi alla struttura e questa si
modifica secondo le attività) così le fo rme di attività morale, appunto
perchè necessarie, debbono diventare una sorgente diretta di piacere. Per
tal modo, l’osservanza delle condizioni che conducono alla FELICITA diventa
direttamente piacevole, ed è adempiuta. senza che essa FELICITA (che rimane il
fine [L’analisi e la soluzione di queste due questioni, le quali si
legano per parecchi nessi tra di loro, ma che per chiarezza bisogna
considerare a parte, occupano i Principi di Etica. ) sia lo scopo diretto e
immediato della condotta; ossia, (ed è un pensiero che fa
ricordare Aristotele) lo stato di godimento finale sopraggiunge come
una conseguenza, non direttamente voluta nò chiaramente rappresentata,
all’ esercizio delle attività morali divenuto per sè immediatamente
gradevole. La soluzione della seconda difficoltà derivante dalla
lacuna notata, si trova nella conciliazione oggettiva, tra bene proprio e
bene altrui, e nella conciliazione soggettiva, tra egoismo (GRICE SELF
LOVE) e altruismo (GRICE OTHER LOVE), raggiunte per effetto e della
solidarietà crescente tra le condizioni di vita dei singoli e quelle del
tutto, e dello sviluppo concomitante della simpatia. Colla soluzione
di queste due difficoltà Spencer intende dunque che sia dimostrata la
possibilità — dal punto di vista scientifico — e la legittimità dal
punto di vista morale — della sua costruzione; e con questa dimostrazione
il pensiero che informa la trattazione dell’Etica, è nelle sue linee
generali, compiuto. Ed ora, tracciato il disegno in cui si
inquadra Le induzioni dell’Etica, che nella traduzione francese
porta il titolo di Morale de differente peuples, dall’esame delle
diversità di idee e sentimenti morali dei diversi popoli raccoglie la conferma
di alcuni dei principi fondamentali dedotti dalle leggi della vita nello
stato sociale ; e principalmente della estrema variabilità dei sentimenti
morali, e della corrispondenza generale di due tipi opposti di moralità
ai due tipi di coesistenza e CO-OPE- [ la dottrina particolare che più
direttamente ci interessa, diciamo alquanto piii distintamente di questa.
S’è visto come nel pensiero dello Spencer la condotta ottima sia la
condotta pienamente adatta, la condotta che c orrispon de al limite
dell’evoluzione; mentre l e forme di condotta più n _mpnn lontane da quel
limite so no, di molto o di poco, meno adatte, cioè meno buone; onde la
distinzione di Etic Assoluta ed Eftej> Ora si presentano
spontanee due domande: l.° Perchè introduce lo Spencer, contro il
modo comune di comprendere 1’ ufficio dell’ Etica, questa distinzione t
ra Morale Assoluta e Relativa ? Non è forse compito del l’Etica] CO-OPERArazione
CO-OPERAZIONE sociale (tipo militare e tipo industriale). Le altre
quattro parti, Etica della Vita Individuale, ed Etica della Vita Sociale
: la Giustizia, la Beneficenza Negativa e la Beneficenza Positiva contengono le dednzioni o applicazioni
particolari ; nelle quali, in conformità ai principi e al metodo accennati, vogliono
essere determinate le norme della vita privata e deila vita pubblica
quali risultano rispettivamente dalle condizioni contemplate dall’ Etica
Assoluta e da quelle contemplate dall’ Etica Relativ a. Notiamo
subito, benché l’avvertenza debba parer quasi inutile, che per lo Spencer la
parol i fl.v<vofn^o non ha nè può a vere n ell’Etica un significato
metafisi co ; le norme etiche per lui non hanno ragione di essere all’
infuori dell’ esistenza animata quale si manifesta fenomenicamente; all’infuori
di esseri capaci di pia¬ ceri e di dolori. quello di stabilire le
norme della condotta retta, della giustizia pura, e, senza curare gli
impedimenti e le imperfezioni che i difetti della natura umana possono
ingenerare, presentare il tijoo ideale di pe rfezione al quale ciascuno
deve cercare di avvicinarsi? E se così è. non ò del tutto oziosa_e viziosa la
distinzione? Ammesso che dal punto di vista speciale di Spencer questa distinzione sia legittima,
non è un fuor d’opera l’Etica Assoluta, dal momento elle la realtà
presente ci dà uno stato di adatta¬ mento imperfetto, ossia assai diverso
da quello che essa suppone? L’esposizione del pensiero di Spencer
intorno alle foie Etiche mi pare si possa acconciamente raccogliere
in due parti, nelle quali trovi successivamente risposta ciascuna delle due
questioni. Cominciamo dalla prima. Si crede comunemente che si possa
determinare un tipo di condotta assolutamente giusta in condizioni reali
di esistenza imperfetta, mentre questa determinazione non è possibile; e,
se fosse, non darebbe il tipo voluto. Sia nei giudizi dei moralisti, sia
nei discorsi comuni, djie postulati^ sono tacitamente accettati come
veri; e pare infatti che senza di essi non sia possibile giudizio morale,
per- -- Absolute and Relative Ethics. -- che la distinzione stessa
tra atti giusti e atti ingiusti sembra implicarli necessariamente. Sono questi:
Che in ogni caso vi sia un modo di operare assolutamente giusto. Che sia
possibile stabilire quale sia. Ma l’analisi di un gran numero di azioni
dimostra che in casi assai numerosi non è possibile il giusto, ma soltanto un
minimo ingiusto; e in casi pure numerosi non è nemmeno possibile
determinare in che cosa questo minimo ingiusto consista. Il giusto
assoluto esclude del tutto il dnltw che è il correlativo di qualche
specie di male, di qualche divergenza da quell’adattamento perfetto che
soddisfa pienamente a tutte le esigenze della vita completa. Se il
concetto di condotta buona è, in ultima analisi, il concetto di una
condotta che produce in qualche parte un avanzo di piacere; e di
condotta cattiva, che produce un avanzo di dolore; il bene o il giusto assoluto
nella condotta può esser quello soltanto che produce p iacere pur
o, pi acere non misto a dolore di sorta . E quindi la condotta che
produce qualche conseguenza dolorosa ò parzialmente cattiva, e la forma
più elevata che una condotta cosifatta può raggiungere ò il minimo
ingiusto, il giusto relativo. Ora le forme di adattamento incompleto
presentano, più o meno vasto e grave, un doppio difetto : Discordanza od
antitesi fra i tre ordini di fini della vita, per la quale atti che
producono UTILITA o piacere all’ individuo o alla prole portano danno e
dolore agli altri, e viceversa ; e discordanza anche nello stesso ordine
tra fini immediati e mediati, presenti e futuri ; per la quale 1’azione
richiesta dall’ utile avvenire può esser sorgente di dolore nel presente,
o la soddisfazione di un desiderio immediato può impedir di raggiungere
un bene lontano e mediato, o esser causa di un male futuro. Nella
misura in cui queste due specie di incongruenze (le quali si incrociano e
si complicano fra di loro) fanno sentire i loro effetti, le azioni
devono produrre una certa somma di dolore sia sull’agente sia sugli
altri. Ora « finché v’ ò dolore v’è male ; e la condotta che apporta
qualche male non può esser giusta assolutamente. A chiarire questa
distinzione Spencer cita degli esempi di azioni assolutame nte giuste e
di altre solo relativamente giuste. Una madre sana che allatta un bimbo
sano, un padre che, dotato di eccitabilità simpatica, partecipa ai
giuochi del figlio e li guida, sono esempi della prima specie. Nell’un
caso e nell’altro l’azione produce piacere a chi la fa e a chi la riceve;
e aiutando lo sviluppo fisico o quello psichico, o l’uno e l’altro insieme, è
utile al benessere futuro ; cioè produce direttamente e indirettamente soltanto
piacere senza dolore. Del pari imo scambio fatto di pieno accordo e
con soddisfazione e UTILITA RECIPROCA; e gli atti di BENEVOLENZA di chi
fornisce una notizia o un consiglio, o chiarisce un equivoco, o compone
un dissidio tra amici, possono essere classificati come giusti
assolutamente per la medesima ragione. Degl’esempi addotti da Spencer di
azioni solo relativamente giuste, scelgo due che mi paiono tipici
anche per il contrasto che offrono col modo di giudicare comune: La cura
di molti figli cagiona a una madre assai dolori, ma le sofferenze
immediate e le lontane che l’incuria apporterebbe supererebbero di gran lunga
quei dolori. La condotta giudicata buona in questo caso è quella che
produce minor male ; ma non è ottima. È la meno ingiusta. non 1’ assolutamente
giusta. Così 1’ allontanamento dei clienti da un negoziante che esiga
prezzi troppo alti o venda merci scadenti, o falsi la misura, fa
diminuire il suo benessere e forse apporta danni e dolori ad altre
persone a lui congiunte; ma il salvar lui da questi mali e sopportar
quelli che la sua condotta cagiona, produrrebbe un male assai più grave e
generale. L’abbandono è perciò giustificato: ma l’atto è solo
relativamente giusto. Riconosciuta così la verità che una gran
parte della condotta umana non è giusta assoluta- Burnente, si deve
riconoscere l’altra verità che in molti casi non é possibile stabilire
quale sia il minimo ingiusto. É facile trovarne le ragioni, se si
considerano gli effetti che quella stessa discordanza, già rilevata, tra
i fini della vita, deve produrre. V’è un limite fino al quale é
relativamente giusto che un genitore faccia sacrifizio di sè stesso
pel vantaggio dei figli, e v’è un limite oltre il quale
l’abnegazione non può spingersi senza ch’egli apporti non soltanto a sò ma a
tutta la famiglia danni maggiori di quelli che il sacrifizio tende
ad impedire. Chi può dire quale sia questo limite? Dipendendo esso
dalla costituzione e dai bisogni delle persone in causa, non è neppure in
due casi il medesimo, e non può essere per ciascun caso più che una
congettura. Un commerciante che sia travolto nel fallimento d’un suo debitore e
posto nella necessità di fallire egli stesso se non è aiutato, deve
o no domandai^un prestito a un amico? Il prestito potrebbe trarlo dalle
difficoltà, e in questo caso non sarebbe cosa ingiusta verso i suoi
creditori non chiederlo? Ma fors’anco non lo salverebbe, e allora non è
una frode procurarselo? Benché in casi estremi possa esser facile
decidere, come sarebbe possibile in tutti quei casi in cui anche il più
intelligente e competente non può calcolare le probabilità ? Questo
doppio errore del confondere il giusto assoluto col minimo ingiusto, e del
credere che si possa in ogni caso stabilire quale sia, nasce dall’
errore che si commette nel concepire il tipo della condotta, la condotta
dell’ uomo ideale. Si suppone clic l’uomo ideale viva e agisca nelle
condizioni sociali esistenti. Ciò che si cerca determinare è, non quali
sarebbero le sue azioni in circostanze tutte- insieme mutate, ma quali
sarebbero, date le condizioni presenti. E questa ricerca ò vana per due
ragioni: La coesistenza di un uomo perfetto e di una società
imperfetta è impossibile; dato che potessero coesistere, la condotta che ne
seguirebbe non fornirebbe il tipo MORALE MERCATO. In primo luogo, date le
leggi della vita come esse sono, un uomo di natura ideale non può essere
prodotto in una società composta di uomini- che hanno una natura lontana
dall’ ideale. Aspettarsi che tra uomini organicamente immorali nesorga uno
organicamente morale è come aspettarsi di veder nascere tra i Negri un
bambino di tipa inglese. Se non si vuol negare che il carattere dipenda
dalla struttura ereditata, si deve ammettere che in ogni società ciascun
individuo discende da uno stipite, che risalendo a poche generazioni
si ramifica per ogni parte nella società e partecipa della natura
media di questa ; e che quindi, nonostante spiccate differenze individuali,
deve conservarsi una comunanza di natura tale da impedire che un uomo,
qualunque sia, raggiunga un tipo ideale, finché il resto della società
rimane di gran lunga inferiore. In secondo luogo, la condotta
ideale, quale è contemplata dalla teoria morale, non è possibile per
l’uomo ideale in mezzo ad uomini costituiti diversamente. Una persona
assolutamente giusta c perfettamente simpatica non potrebbe vivere
e operare in conformità alla natura sua in una tribù di cannibali.
Tra un popolo perfido e al tutto privo di scrupoli, una intiera
veridicità e franchezza debbono apportare rovina. Se tutti intorno a lui
riconóscono solo la legge del più forte, un uomo la cui natura non gli permetta
di inlliggere dolore agli altri deve soccombere. Fra la condotta di
ciascun membro della società e la condotta degli altri vi deve
essere per necessità una certa congruenza. Un modo di operare interamente
diverso dai modi di operare prevalenti non può continuare con buon
esito, ma deve condurre alla morte dell’ agente, o della sua discendenza,
o di ambedue. Adunque perchè l’uomo ideale possa servire di tipo, egli
deve essere concepito non a sé, senza relazione colle condizioni che sono
necessarie perchè la condotta possa essere giusta, ma in corrispondenza
con queste. L’uomo ideale deve essere considerato come esistente in una società
ideale. Perciò, secondo l’idea di Spencer, il voler, per esempio,
stabilire quale sarebbe la condotta deiruomo ideale quando fosse posto nel
bivio o di farsi gettare sul lastrico colla famiglia, o di mentire alle
sue convinzioni politiche, sarebbe perfettamente vano ; perchè le condizioni
cosi supposte contraddicono a quelle richieste dalla definizione
dell’uomo ideale. In una società ideale, nella quale soltanto può
concepirsi 1’ uomo ideale, non esiste violenza e non esistono abusi ; nè
vi può essere collisione tra i modi di sentire e di operare
richiesti dal bene proprio e della discendenza, e chiesti dal bene
pubblico. Viene in mente, e lo ricordo perchè può servire di
commento al pensiero di Spencer, ma perchè la somiglianza è
significativa, queh^ udjko ^ dei “Promessi Sposi”, nel quale il padre
Cristoforo è invitato a far da giudice in una questione di
cavalleria. Suonava rumorosa la disputa tra i commensali di Don Rodrigo su
questo punto. Se fosse lecito a un cavaliere bastonare il messo che
gli consegna un cartello di sfida senza avergliene chiesto licenza ; e il
padre Cristoforo, chiamato in causa, dopo essersi invano schermito, esce
finalmente in quella sentenza che fa meravigliare, tanto pare fuor
di proposito, tutti quei dialettici della cavaileria. Il mio debole parere
sarebbe clic non vi fossero nò sfide, nè portatori, nè bastonate. Ecco
riconosciuta nel caso particolare l’esigenza fondamentale dell’Etica
Assoluta di Spencer: Non vi può essere condotta giusta finché vi
sono condizioni contrarie alla giustizia. Ma la realtà presente e
viva è appunto così. Oh! questa è grossa, risponde infatti il conte
Attilio. Mi perdoni, padre, ma ò grossa. Si vede che lei non conosce il
mondo. E se è il mondo coni’è quello con cui si ha a fare, 1’ufficio
dell’ Etica non sarà quello di stabilire quale deve essere la condotta nel
mondo reale presente, non in un mondo ideale avvenire? 0, almeno,
non ò inutile, anche ammessa la distinzione Spenceriana, correr dietro al
fantasma di una condotta ottima, adatta a uno stato di perfezione, che
l’evoluzione apporterà, sia pure, ma che per noi non esiste? A
questa seconda domanda risponde la dimostrazione della precedenza necessaria —
nell’ordine della trattazione scientifica — dell’Etica Assoluta sull’ Etica
Relativa. In qualunque ordine di ricerche le verità scientifiche si sono
raggiunte trascurando prima i fattori di perturbazione, che alterano ed
oscurano l’azione dei fattori fondamentali, e tenendo conto
soltanto di questi. Quando la estimazione di questi fattori fondamentali,
non, come si presentano nella realtà, mascherati e complicati di elementi
secondari, ma quali si suppongono idealmente con un processo di
astrazione, ha aperto la via a conoscere e formulare le leggi generali, allora
diventa possibile la estimazione dei casi concreti, tenendo copto dei
fattori accidentali che nella realtà alterano i rapporti i deali
contemplati da quel le leg gi. Ma le leggi generali, le verità fondamentali,
solo per questa via si possono ricercare e scoprire, e solo con
questo procedimento il sapere passa dalla sua forma EMPIRICA alla sua
forma razionale. Per ottenere la formula che esprime il potere
-ifjicfip»tv* della leva s i suppone N una leva che non si pieghi,
iàz<Jbz ma sia assolutamente/rigid a ; un fulcro che non
abbia, come nella realtà, una certa superficie; e si suppone che la
potenza e la resistenza si esercitino su un punto, invéce che su una
parte più o meno estesa della leva. Del pari la determinazione del
corso di un proiettile si ottiene trascurando dapprima tutte le deviazioni
prodotte dalla sua forma e dalla resistenza dell’ aria. E il medesimo
negli altri casi. St abilite così q u este verità ideali, diventa
possibile tener conto degli elementi dai quali si è fatta astrazione,
delle complicazioni risultanti dall’attrito, dalla plasticità, dalla coesione,
dalla resistenza dell’aria : e ottenere così una determinazione ' Jt- ^
"(VOM, P-O sempre più esattamente approssimata al l'atto
reale. Qui è manifesta la re lazione tra certe verità assolute della
meccanica e certe verità relative che implicano le prime, come è manifesto che
non si possono stabilire scientificamente le verità relative finché
non sieno formulate indipendentemente da queste le verità assolute. Il
che equivale a dire che la scienza meccanica applicala può svilupparsi
soltanto dopo che si è sviluppata la scienza meccanica ideale. Le
medesime considerazioni valgono per la scienza morale. È impossibile
determinare con approssimazione scientifica quale sia, date certe circostanze
reali, il modo di operare meno ingiusto, se non si conosce quale sarebbe
il modo di operare giusto; e questo non si può conoscere se non si
suppongono eliminate tutte le circostanze che lo impediscono o lo
limitano e ne falsano i caratteri ed i risultati: cioè, in breve, se non
si suppongono, scevre da ogni perturbazione, le condizioni
ideali, nelle quali è possibile l’operare assolutamente giusto. A
chiarir meglio questa relazione tra Etica Assoluta ed Etica Relativa lo Spencer
ricorre a un altro esempio di relazione analoga preso dalle scienze
biologiche; la relazione tra la Fisiologia e la Patologia. La Fisiologia, nello
studio degli organi e delle funzioni che combinate costituiscono e
conservano la vita, suppone l’organismo sano e le funzioni sane, non
tenendo conto dei difetti, degli eccessi, delle anomalie di cui si occupa
la Patologia : e questa poi presuppone quella, perchè le idee anche più
rozze intorno alle malattie suppongono idee di stati sani di cui le malattie
sono deviazioni; e la conoscenza degli stati e dei processi anormali e
morbosi può diventare scientifica soltanto quando vi sia già una conoscenza
scientifica di stati e processi non morbosi. Similmeste la morale assoluta
deve precedere laJSl orak ^llclativa; la quale non deve applicare
sic et simpliciter alle condizioni particolari della vita reale le
conclusioni dell’etica Assoluta ; ma riconoscendo ciò che vi è di diverso
nella condotta che corrisponde a uno stadio di vita imperfetta,
deve determinare di quanto essa si allontana dal giusto e come si possa
ottenere, date queste condizioni reali imperfette, la massima
approssimazione al giusto contemplato dall’ Etica Assoluta. Questi
confronti coi quali lo Spencer intendeva illustrare il suo concetto intorno
alla relazione fra le due Etiche e alla priorità logica dell’Etica Assoluta
sull’ Etica Relativa, si direbbe che abbiano servito ad abbuiarlo; e però
non è fuor di luogo qualche breve chiarimento. Dall’esposizione che
precede deve essere apparso, spero, che è per una esigenza inerente alla
natura della ricerca scientifica che Spencer sostiene la necessità che
l’Etica Assoluta prec^g la Relativa; lì e appunto por chiarire questa
precedenza necessaria egli cita l’esempio della precedenza analoga della
Meccanica Razionale rispetto alla Meccanica Applicata, e della Fisiologia
Normale rispetto alla Fisiologia Fatologica. Nel pensiero di Spencer
la priorità dell’ Etica Assoluta non è che l’applicazione a un
campo particolare di ricerche di un suo criterio metodico generale; del quale
egli trova la conferma in tutte le scienze, che hanno superato lo
stadio empirico. Il paragone non è dunque, propriamente, tra la sua Etica
Assoluta e la Meccanica Razionale o la Fisiologia Normale, nè tra la
sua Etica Relativa e la Meccanica applicata o la Fisiologia Patologica;
non è, voglio dire, di quelle scienze pure tra di loro, o di queste
scienze applicate tra di loro ; ma è paragone tra le loro relazioni. E il
significato del confronto è questo : che tra le due Etiche, come le concepisce
lo Spencer, corre una relazione analoga a quella che intercede
rispettivamente tra le due Meccaniche (diciamo così) e tra le due
Fisiologie. E in questo senso che il paragone deve essere inteso ; e
in questo senso è appropriato. Perciò, quando la critica obietta che
l’Etica ha caratteri ed esigenze diverse dalla Meccanica e dalla
Fisiologia, può essere che abbia ragione, ma interpreta il confronto in un
senso diverso da quello voluto da Spencer. Perchè il concetto, per il
quale il paragone è assunto è, nella sua espressione più semplice,
questo: che anche per l’Etica la soluzione scientifica o scientificamente
approssimata dei problemi più complessi richiede la soluzione dei
problemi più semplici. Il paragone non deve dunque essere staccato da
questo concetto e preso con una significazione diversa; altrimenti si
fraintende e paragone e concetto ; e rimane oscurato uno dei punti più
importanti della dottrina particolare ora esposta. La quale non ebbe mai
molta fortuna nò presso i fautori di una morale scientifica, nè presso
gli avversari. Questi, preoccupati forse in generale dal pensiero di
mostrare la insufficienza dell’indirizzo naturalistico, hanno veduto
nella dottrina delle due Etiche (illustrata da quei confronti!)
sopratutto una figliazione del concetto meccanistico, e f’hanno combattuta
in nome delle esigenze della Morale; quelli hanno notato nella affermata
necessità di costruire un’Etica Assoluta, una contraddizione colla
teoria dell’evoluzione, e col principio della relatività della morale
e del diritto: e l’hanno combattuta in nome delle esigenze della scienza.
Gl’uni e gl’altri hanno considerato la dottrina particolare unicamente
in relazione colla dottrina generale colla quale si presentava connessa,
senza badare alle ragioni che la possono legittimare all’infuori del
sistema e della forma speciale di applicazione che in esso ha
trovato. La pregiudiziale dell’imperativo categorico. La dottrina
esposta traccia il piano che Spencer si è proposto di seguire per soddisfare al
compito da lui assegnato all’Etica: quello di determinare,
scientificamente le norme della condotta morale.] Ma già intorno a questo
modo di intendere l’ufficio dell’Etica incalzano lejtifficoltà e le
obbiezioni; le quali devono essere, almeno nel loro contenuto
sostanziale, esaminate. Perchè, se non si riconosce la legittimità del
suo concetto sull’ufficio dell’Etica è vano discutere della possibilità e
legittimità del piano proposto per attuarlo. L’esame critico si distingue
perciò naturalmente in due parti; delle quali la prima potrebbe
dirsi critica preliminare. L’Etica può, o non può, essere scienza
normativa? Ecco una prima questione pregiudiziale, che, a giudizio di un
profano, (solamente dei profani?) potrebbe dare un’idea poco lusinghiera dei
progressi e dei frutti della speculazione morale. L’opinione se non
universalmente, certo generalmente. dominante è che non possa. L’opinione
dominante par che si chiuda in questa alternativa: l’etica o è scienza, e
non è più normativa; o ò normativa, e non è più scienza. La ragione
dell’antitesi, che così si pone, tra le esigenze della scienza e le
esigenze della morale, è nota. Dicono i puri moralisti. Una morale che
non dia alla norma carattere di obbligatorietà non può essere vera
morale; e darle obbligatorietà assoluta non si può senza uscire dal campo
della scienza. Nel latto, una condotta che si ponga scientificamente come
morale, è obbligatoria soltanto se si accetta il fine, al quale
è ordinata la norma; cioè è obbligatoria ipoteticamente, non
categoricamente. E se non c’è imperat ivo categorico, non c’è m orale. E
i puri scienziati rincalzan. La scienza è scienza delle cose e dei
latti come sonq e non come dovrebbero essere. Si può cercare quali sono i
caratteri e i fattori, la formazione e le trasformazioni dei modi di
operare, dei sentimenti delle credenze distinti come morali; si
potrà anche, tracciati i lineamenti generali del processo di formazione,
argomentare induttivamente una possibile evoluzione ulteriore con qualche
probabilità; ma la scienza non sa di bene e di male; cerca ciò ciò che è;
tenta di prevedere, se le riesce, quel che sarà; dimostrando che certi
effetti dipendono da certe condizioni, ci fa capire che se vogliamo gli effetti
dobbiamo volere quelle condizioni, ma non può obbligare nè à volerle nè a
disvolerle. Gli uni e gii altri, accordandosi nell’ammettere
che la scienza non possa dare un imperativo categorico, par che ammettano
esplicitamente o implicitamente che la morale debba o possa essere una
dottrina che determina la norma obbligatoria, ossia una teoria da cui si
ricava il dovere. Ora. se hanno ragione nell’ ammettere la prima
cosa, hanno torto di supporre la seconda ; hanno torto di credere
che compito dell’Etica possa essere quello di dimostrare
l’obbligatorietà, e di supporre che una dottrina religiosa o metafisica
possa fondare quel che riconoscono non poter essere fondato da una
dottrina puramente scientifica; possa fondare il “tu devi” — “tu
devi” è un giudizio di constatazione e non può essere altro. Dicendo « tu devi
» io non posso intendere che l’una o l’altra di queste due cose: o
« tu senti dentro di te qualchecosa che [ Ho già mostrato altrove,
in un capitolo rivolto direttamente a questo esame (Prolegomeni a una morale
distinta dalla metafisica, Pavia, Bizzoni) come e perchè sia
perfettamente va no e illusorio credere che da una costruzione, teorica l
sojjmtificn n no. nossa ricavarsi in qualsiasi modo una norma
obbligatoria, se l’obbligatorietà non è già per altra via data o assunta
o supposta; e come nasca e si mantenga 1’illusione, e lo sforzo di
credere che non è un’ illusione. Ma 1’ argomento è di capitale importanza
; e, del resto, la breve trattazione che segue, benché concluda il
medesimo, è fatta da un punto di vista diverso. ti spinge, senti di
essere obbligato a non fare o a fare; oppure quest’altra: c’è una volontà
cbe ha il potere di obbligarti. Nel primo caso si fa appello alla
coscienza ; a uno stato o a un fatto di coscienza che esiste o si suppone
che esista ; nel secondo caso si fa appello a un potere, che parimenti o
esiste o si ammette che esista. Ma nell’uno e nell’ altro caso nessuno
sforzo dialettico può ricavare l’obbligo dalla natura della cosa
comandata o proibita; nessuna costruzione dottrinale può far
esistere, se non esiste già, nò quel fatto di coscienza, nè questo
potere. Si dirà che v’è un altro senso. È vero; ma un senso
improprio. “Tu devi” può voler dire: È giusto che tu faccia; è giusto che
ti senta obbligato a fare, o che ci sia chi ti obbliga. Ma se vuol dir
questo, l’espressione è equivoca. Che sia giusto il fare e che sia giusto
l’obbligo di fare (quando questo fare sia già sentito come un obbligo) si
raccoglie d al contenu to, non dal tono del comando: e non basta a porre
l’obbligo, lo giustifica dato die ci sia, e potrà far desiderare che
esista, dato che non ci sia. Ma porre le ragioni che giustificano
l’obbligo, non è porre in essere la forza o il potere o l’impulso (con
qualunque nome si chiami) che obbliga. Ed è così vero che le due
cose .sono diverse e non confondibili tra di loro, che non si può
ridurre 1’una all’altra senza togliere una delle due. Non si può derivare
l’obbligo dalle ragioni che giustificano la norma, senza riconoscere che
l’obbligo vale solamente in quanto valgono queste ragioni; fcioè senza
assegnargli un valore ipotetico, non più CATEGORICO. Nè si può ricavare la
giustificazione della norma dall’obbligo categorico, senza riconoscere che la
norma vale so lo i n quanto esiste l’obbli go; ossia senza negare
qualsivoglia giustificazione, cioè riconoscere che il contenuto della norma non
avrebbe nessun valore se l’obbligo mancasse. Gli è che quando si
dice essere il dovere condizione necessaria della morale, si scambia
la morale colla moralità, la norma colla conformità alla norma. Ma
l’obbligo riguarda l’osservanza, <*/J» non ] a determinazione della
norma. Ora, che dell’osservanza della norma sia condizione necessaria e
caratteristica il dovere, è cosa che potrà o non potrà ammettersi, ma ha
ad ogni modo un senso; che sia essenziale alla determinazione della
norma, non è neppure discutibile, perchè non ha senso. Sarebbe come dire
che è essenziale alla costruzione della scienza medica l’obbligo di
prendere le medicine. È verissimo che sarebbero perfettamente inutili le
prescrizioni mediche se non si supponesse che vengano osservate ; ma è
non meno vero che l’obbligo di osservarle, posto che ci fosse, non
muterebbe in nulla il contenuto e il valore delle prescrizioni. L’obbedienza
del cliente non muta la scienza del medico. E le condizioni da cui
dipende l’osservanza sono così distinte dalle ragioni che
giustificano una norma, che fi ufficio di tutte le scienze precettive si
fa consistere nel cercare e determinare le relazioni tra certi mezzi e un
certo fine, nella supposizione che il fine sia voluto, e ai- fi
infuori da ogni preoccupazione che riguardi la reale esistenza ed
efficacia del desiderio o dell’ obbligo di conseguirlo. Il che si vede
manifestissimamente in una scienza precettiva, che, a rigore, costituisce
un capitolo dell’etica ; nella quale la questione dell’ osservanza delle
norme (e dell’ obbligo di questa osservanza) è rimasta perfettamente
distinta dalla questione della ricerca e della determinazione delle norme;
forse appunto perchè fu considerata e trattata indipendentemente dalla
morale; voglio dire nell’igiene. Dove a nessuno viene in mente di
pretendere' che sia una condizione della legittimità o del valore delle
norme dettate da lei, questa: che il conformarsi ad esse sia sentito com
e un d over e. E se accade, come può accadere in effetto, che
l’osservanza di qualcuno dei suoi precetti sia già tenuto come un dovere, il
riconoscere che questo precetto è ordinato a un fine, al quale si
dà valore di bene, fa che fi obbligo stesso appaia giusto. Ma in questo caso è
facile vedere che la giustificazione dell’ obbligo riesce in ultimo a
questo: a dare un valore ipotetico all’ obbligo categorico; cioè à dimostrare che
sarebbe bene osservare il precetto, anche se non ci fosse l’obbligo. Ora
lo stesso vale, nè più nè meno, per la morale. Altro è cercare quali siano le
norme da osservare per raggiungere un certo ordine di effetti (quello che
la morale ponga come fine) e altro è cercare da quali condizioni dipenda
che l’osservare queste norme possa essere sentito e posto come un
dovere. E l’importanza che questo secondo problema può avere non toglie che
esso sia diverso e debba essere distinto dal primo. La pregiudiziale
dell’obbligo categorico non tocca dunque la c ostruzione dottrinale delle
norm e; in primo luogo perchè l’obbligo categorico si constata o si
assume, e non si dimostra, nè si ricava da una dottrina qualsiasi. In secondo
luogo perchè se si intende, come si intende in effetto, che 1’
Etica deve dare non V obbligo, ma la giustificazione dell’obbligo, questa
giustificazione non può consistere che nel mostrare come la norma abbia
valore anche indipendentemente dall’ obbligo ; cioè che sarebbe bene o sarebbe
giusto conformarsi ad essa anche se il conformarsi non fosse sentito come
un dovere indiscutibile. Ossia, poiché dimostrare il valore di una norma
vuol dire mostrar la derivazione di una norma da un fine a cui sia riconosciuto
quel valore, giustificare 1’ obbligo viene a dire derivare la norma da un
fine, il cui valore si ammetta non dipendere dall’ esistenza dell’
obbligo, e al quale perciò rimane del tutto estranea la considerazione
dell’obbligo e delle condizioni che lo rendono possibile. La
caratteristi ca di una dottrina etica no n sta dunque nell’
obbligatorietà, ma sta nel valore d el fine che si assume. Ed eccoci alla
vera ed j unica differenza tra 1’ Etica e le altre costruzioni
precettive; che è questa. Qualsivoglia scienza precettiva si riduce a un
sistema di relazioni e di leggi che hanno valore di norme da seguire per
chi si propone come fine quell’ effetto o quell’ ordine di
effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni $ ed i
fattori ; cioè suppone la desiderabilità che dà valore di fine a
quell’effetto; ma non pretende nè che questa desiderabilità sia
riconosciuta universalmente, nè che essa sia, pure universalmente, riconosciuta
come superiore e preminente rispetto a quella di qualsiasi altro fine. Ma
questo appunto [Sono lieto di notare che in “Ethics, a science”, Philosophical
Review, McGilvary insiste sul concetto, clip è conforme a quel che ho
sostenuto e sostengo, che 1’Etica, come scienza, è indicativa non
imperativa. Senonchè, per un verso, non si capisce dall’ articolo se egli
ammetta o escluda il medesimo di qualsivoglia costruzione dottrinale; per
l’altro, egli non tien conto di quella differenza, nella quale consiste a
mio giudizio la earatteristica dell’etica. pretende l’etica. Onde il
compito dell’etica si specifica in due punti, di cui il primo segna la
sua caratteristica: l.° cercare se vi sia e quale sia l’effetto o
l’ordine di effetti che possa avere un tal valore, cioè il fine del quale
possa essere ammessa la UNIVERSALE DESIDERABILITA sopra ogni altro,
determinare le condizioni e i fattori da cui quell’ effetto dipende. E, nel
supposto che dipenda dall’azione umana individuale e collettiva,
determinare la condotta, ossia le norme dell’operare, corrispondente. Se
il fine di cui può essera assunta questa universale e preminente desiderabilità
è umanamente possibile, cioè tale che se ne riconosca possibile il
raggiungimento senza assumere o postulare nessun intervento sopranaturale
e sopraumano, la costruzione etica sarà scientifica; se no, sarà religiosa
o metafisica. E quindi il problema della possibilità di un’Etica
scientifica assume questa forma: se si possa assegnare un fine,
naturalmente cioè umanamente possibile, al quale sia riconosciuto un
valore superiore a ogni altro fine. La determinazione delle norme morali
sarebbe data dalle relazioni trovate o da trovarsi tra quel fine e la
condotta individuale e collettiva da essa richiesta. Ed eccoci a una
seconda questione pregiudiziale. Non è improbabile che qualche lettore
trovi que sto modo di porre il problema intorno al co mpito dell’Etica,
antiqua to e fuori della realtà. Sento dirmi. Nella realtà il compito
dell’etica è concepito e proseguito in modo assai diversp anzi
opposto. Le n prme della condotta morale sono già d ate e conosc iute.
Ciò è tanto vero, che sulla determinazione concreta dei precetti particolari,
di quelli che si chiamano “doveri” e che si raccolgono nella parte
comunemente chiamata Morale Speciale, non cadono sostanzialmente dubbi o
contestazioni, e i filosofi della morale ne sdegnano quasi la trattazione
o ne danno soltanto le linee generali. Nella realtà dunque l’indagine
morale non ha per iscopo di cercare e determinare le norme ricavandole
da un certo fine; ma di costruire la sistemazione teorica di un codice di
condotta già dato, raccogliendo e unificando le norme particolari in una
norma generale, della quale si cerca quale possa essere la
giustificazione; anche se la costruzione induttivamente così ottenuta rivesta
poi l’apparenza logica di una costruzione deduttiva. Quindi è
antiscientifico e inutile andar cercando fuori della realtà, nel campo di
una possibilità, ipotetica, un fine — poniamo pure che sia possibile trovarlo —
il quale risponda a quelle esigenze, per il gusto di ricavarne delle
norme. Le quali, o si accorderanno con quelle riconosciute in effetto e
vigenti come morali, o discorderanno. Se si accordano, ciò vuol dire
che la pretesa derivazione deduttiva delle norme da quel fine
nasconde una reale derivazione induttiva del fine dalle norme; se
discordano, questa discordanza viene a dimostrare l’inutilità, a dir poco,
di norme elle contrastano con quelle riconosciute e accettate, e a
far respingere come non morali o utopistiche le norme e il fine dal quale
sono ricavate. Io non ho difficoltà a riconoscere che i due indirizzi
prevalenti nella speculazione morale contemporanea, l’indirizzo sociologico-storico.
e l’indirizzo idealistico-prammatistico, si accordano fondamentalmente nel
respingere le costruzioni etiche razionali o pure, e nell’assumere come
punto di partenza legittimo la realtà dei dati morali ; dei quali l’uno
considera principalmente l’aspetto esterno, sociale, e l’altro l’aspetto
interno, psicologico. Ma noto subito che la novità nel punto di partenza
e nel processo di costruzione, è soltanto apparente; o, per essere
più esatto, la novità consiste
nel- [Adagio però anche con questa novità. Perchè, almeno
quanto al riconoscere esplicitamente la legittimità del procedimento
regressivo, all’ invertire deliberatamente la costruzione morale, Kant
avrebbe de’ diritti d’autore da rivendicare. l’assumere la legittimità di
un procedimento, che inconsapevolmente domina in generale la speculazione
etica, e che si scorge più evidente in quei sistemi i quali hanno
raccolto rispettivamente nei diversi tempi e luoghi più largo consenso;
(consenso non verbale, si intende, ma reale). In altri termini non si
fa che seguire in modo consapevole e riflesso quella stessa tendenza e
preoccupazione, a cui ha obbedito in generale la speculazione morale,
almeno nella forma riconosciuta rispettivamente nei diversi tempi
come ortodossa, o retta, o sana che si voglia dire; la preoccupaziono di
giustificare, il modo di operare, di sentire e di giudicare già tenuto
come buono. Ora il rendersi conto che la costruzione etica — sotto
l’apparenza logica di una deduzione progressiva di certi precetti
particolari da una norma generale e di questa da un fine posto come
supremo — fu sempre, in sostanza, regressiva (dai precetti particolari
alla norma' generale e da questa ai principi che la giustificano), segna
certamente un progresso e un acquisto quanto alla conoscenza del
processo reale storico e psicologico di formazione dei sistemi morali. Ma
altro è conoscere quale sia stato il processo realmente seguito, altro ò
affermare la legittimità del processo. Certo sarebbe un fortissimo
argomento di probabilità, se avesse fatto buona prova. Ma se si guarda ai
risultati, vien fatto piuttosto di pensare il contrario; di pensare, che
la speculazione morale sia viziata nelle origini appunto dal
preconcetto che la domina e dal procedimento che il preconcetto
suggerisce. Ed è da questo preconcetto che nasce, a mio giudizio, così il
diletto della soluzione a cui riesce l’indirizzo sociologico, come
di quella a cui fa capo l’indirizzo prammatistico. In primo luogo importa
notare che ambedue gli indirizzi, appunto perchè hanno comune il
presupposto che compito dell’Etica sia quello di unificare le norme già
date, risalendo da esse ai principi o ai postulati, sembrano ammettere
questi due punti. Che le norme morali siano già tutte conosciute e
determinate, o che dalle norme conosciute si ricavi il criterio per quelle non
determinate. Che le norme date siano fra di loro concordanti o compatibili, o
almeno non in contraddizione l’una coll’altra. Ora nè 1’ una nè l’altra di
queste condizioni si avvera nel fatto. E prima di tutto non è
esatto che le norme della condotta siano già date e conosciute. Anche se
Spencer ha torto, come io credo e si vedrà più innanzi, di assumere a criterio
del giusto l’adattamento perfetto o il piacere puro, ha ragione nel
sostenere che in un gran numero di casi la coscienza non ci dice quale
sia il modo di operare giusto o approssimativamente meno ingiusto. Ma,
oltre ai casi del genere di quelli citati da lui, (nei quali si
potrebbe dire, che se non riusciamo a determinare quale sia la migliore
applicazione del criterio, sappiamo però quale sia il criterio da usare) vi
sono sfere intere di azioni, per le quali la coscienza non saprebbe
suggerirci una scelta sicura, e per le quali non ci dice, come per altre,
non è giusto o è giusto. Difenderò io il divorzio o lo combatterò?
Approverò o non approverò l’allargamento del suffragio politico? Sarò
conservatoreoliberale, monarchico o repubblicano, individualista o
socialista, liberista o protezionista? In quali circostanze ed
entro quali limiti seguirò l’uno o l’altro indirizzo? Non serve
rispondere che ciascuno deve operare in queste materie secondo la propria
coscienza. Si tratta di sapere come una coscienza onesta deve
operare perchè alla bontà delle intenzioni (che è presupposta)
corrisponda la bontà degli effetti. E abbandonando questo giudizio alla
coscienza individuale si riconosce o che possono coesistere criteri
morali diversi, o che lo stesso criterio morale può legittimare
ugualmente modi di operare opposti, o finalmente che quelle parti della
condotta escono dal campo della morale. Ma se possono legittimamente
coesistere per certe parti della condotta criteri morali opposti,
quale sarà il criterio superiore che serve a decidere fra questi
criteri contrastanti? o altrimenti, perchè non si ammette che possano del
pari legittimamente coesistere criteri contrastanti anche per le
altre parti della condotta? Se poi lo stesso criterio morale può
legittimare due modi di operare opposti, ciò non può essere che per
mancanza di determinazione delle circostanze; e prova in ogni modo che le
norme particolari della condotta morale non sono tutte determinate e
conosciute. E se finalmente quelle parti della condotta escono dal campo
della morale, quale norma suprema è mai quella che non ha nulla da
dire intorno a una parte così grande dell’operare, come è, per esempio,
tutta la condotta politica dell’individuo e della società? Si dirà che per
questa parte, per la quale le norme non sono date, il criterio si ricava
de quelle già date e accettate come morali? Urtiamo in una seconda
difficoltà. Per ricavare dalle norme già date il criterio cercato, per
unificarle cioè in una norma più generale, occorre che le norme date
concordino fra di loro, che in tutte si possa riconoscere appunto
questa unità di criterio. Ora, tralasciando pure di insistere, perchè è
cosa troppo nota, sull’antitesi fondamentale esistente tra le norme di
condotta che valgono come morali rispettivamente nelle condizioni di pace
e di guerra, o sui contrasti, tragici talvolta, tra i doveri famigliari e
i doveri sociali, bisogna osservare che le norme date e accettate come morali
possono contemplare e contemplano realmente, almeno in parte, delle relazioni,
direi, secondarie, le quali esistono e sono possibili in grazia di
relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che
sono la negazione del criterio applicato in quelle norme. Mi sia
lecito spiegarmi con un esempio ipotetico assai semplice. Se si
suppone che un uomo sia saltato sulle spalle di un altro e si faccia
portare da lui, v’è luogo a cercare quale sia la posizione migliore per
il portante e per il portato; sia quella, poniamo, la quale concilia la
minima fatica del primo col minimo disagio del secondo. Il criterio seguito qu
i è un criterio d i equit à; si riconosce cioè che non sarebbe o
giusto, o buono o utile per nessuno dei due, il pretendere tutte le
comodità per sè senza tenere in conto le comodità dell’altro. Ma se
questo criterio (seguito nello stabilire la condotta migliore, data,
quella condizione diversa dei due) fosse applicato a determinare la relazione
tra i due, prima che siano divenuti rispettivamente portatore e portato,
questa condizione sparirebbe, e ciascuno camminerebbe colle sue gambe. Ossia
la norma morale regola nel caso supposto un rapporto che non esisterebbe se
essa fosse applicata al sorgere di quel rapporto. E può avverarsi, così,
delle norme morali qualchecosa di analogo a quel che racconta di sé Senofonte,
che all’oracolo chiedeva quale via dovesse tenere per giungere più felicemente
in Asia, guardandosi bene dal chiedere prima se era bene o male che
andasse. Un sociologo potrebbe stringersi nelle spalle e osservare
che è colla realtà data che bisogna fare i conti, e che è ozioso andar
cercando come sarebbe giusto che essa fosse; non resta che
acconciarvisi alla meno peggio. Vedremo ora come questa posizione di puro
adattamento passivo sia, per forza stessa della realtà, che diviene e
muta, insostenibile: ma ò opportuno notar subito che quando si renda
palese un contrasto del genere notato, colla consapevolezza di questo
contrasto è inevitabile che nasca nella coscienza morale l’aspirazione a
una realtà diversa; e quindi l’aspirazione o a modificare la realtà se
essa appare mutabile, o a cercare la ragione della giustizia fuori della
realtà. Queste lacune e queste incongruenze delle norme in effetto
vigenti come morali in un dato tempo e luogo, dimostrano intanto due
cose: che, quale sia la condotta migliore in un determinato momento
storico, non è una semplice constatazione da fare, ma è un problema da
risolvere ; e un problema assai più difficile e complicato di quel che
possa apparire e si sia abituati a considerarlo; e che in ogni caso
è necessario assumere un criterio il quale valga come guida a colmare le
lacune, e a risol¬ vere o giustificare le incoerenze. Ma un
criterio, comunque assunto, a cui si attribuisca questo ufficio e questo
valore, è un criterio alla stregua del quale devono essere valutate anche
le norme particolari già riconosciute come certe, poiché deve valere per
tutta la condotta. E ciò viene a dire che il processo di determinazione
di tutte lo norme si deve fondare sul criterio assunto, allo stesso
modo che se le norme si dovessero tutte determinare ex novo,
astrazion fatta e indipendentemente dalle norme in effetto già accettate
e seguite. (Il che del resto è precisamente quello che avviene in
tutte le scienze precettive; dove, se anche i precetti scientificamente
stabiliti si trovano a coincidere coi precetti empiricamente seguiti, la
determinazione scientifica procede come se spettasse ad essa di determinarli e
giustificarli). E allora il problema torna ad essere quello del criterio
che deve essere assunto. Ora il criterio che l’indirizzo
sociologico suggerisce è, come è noto, e conforme al concetto, che esso pone in
evidenza, della relatività della morale e del diritto — la corrispondenza
alle esigenze sociali del momento storico che si considera. Il codice
morale di un dato tempo e luogo delinca la forma di condotta richiesta
dalle condizioni dell’esistenza sociale in quel tempo e luogo, e trova in
esso la sua giustificazione. A nessuno può venire in mente di
negare la reale ed effettiva dipendenza delle norme morali dalle
esigenze della vita sociale. Ma se queste esigenze possono spiegare come si sia
formato storicamente e psicologicamente il codice di condotta correlativo
finché sono inconsapevolmente identificate colle esigenze della coscienza
morale, esse non bastano più, neppure a determinare quale sia la
condotta adatta in un certo momento storico, una volta che siano assunte
come criterio riflesso e consapevolmente seguito; non bastano,
tranne che in un caso: nel caso che le condizioni di esistenza, da cui
quelle esigenze emergono, siano considerate come immutabili o come assolutamente
sottratte ad ogni azione od efficacia che possa esercitare su di esse la
condotta umana, individuale e collettiva. Perchè quando intervenga la
consapevolezza di una possibile efficacia modificatrice della condotta
umana sulle condizioni sociali e sulle esigenze che ne nascono, allora
entra di necessità nella valutazione della condotta la
considerazione di questa efficacia; la quale, richiede il confronto
tra lo stato presente e uno stato futuro, tra uno stato reale e uno stato
possibile. E la ragione della scelta tra i due non può essere data dalla
realtà dello stato presente, ma dalla diversa desiderabilità dei
due stati messi a confronto; e quindi non soltanto dalle esigenze dello stato
reale, ma anche da quelle dello stato possibile o creduto tale. Per
conseguenza, condotta buona apparirà non quella semplicemente che è richiesta
dalle condizioni di fatto, ma quella che, nei limiti imposti dalle
condizioni reali, tenda a modificarla nella direzione segnata dallo
stato più desiderabile. Soltanto in un caso, puramente teorico, la
condotta tracciata in conformità con questo criterio, coinciderebbe colla
pura e semplice corrispondenza alla realtà delle condizioni fiate; nel
caso che lo stato reale presente apparisse universalmente e sotto ogni rispetto
più desiderabile di ogni altro. Ma anche in questo caso la valutazione è
data dalla desiderabilità, non dalla realtà. Insomma, altro è
comprendere che una forma di condotta è conforme a certe condizioni, altro
è [Di qui si vede quanto sia abusiva l’espressione comunemente
ripetuta, sopratutto dai seguaci più rigidi del materialismo storico, che
la condotta giusta è ad ogni momento quella che è resa necessaria dalle
condizioni del momento; i quali poi sono spesso ardenti e anche non di
rado generosi fautori e propugnatori di riforme e di innovazioni anche
radicalissime nelle condizioni e nella struttura stessa della società. Sento
1’obbiezione. Gli è che noi prevediamo necessario e inevitabile il mutamento in
quella direzione, e ci affatichiamo, come la levatrice, a rendere meno
doloroso il parto del futuro dai fianchi del presente. Lasciamo, per
restare nella metafora, che altro è voler agevolare il parto e altro
voler affrettarlo. Ma, insomma, vi affatichereste voi a prepararlo,
questo futuro, se non vi apparisse desiderabile in confronto del
presente? E che (iosa vuol dire render meno doloroso il parto, se non
apprestare con un intervento consapevole e riflesso certe condizioni che
altrimenti non si realizzerebbero ? Adunque l’apprestare queste condizioni,
pensate che sia desiderabile e possa dipendere dall’opera vostra; cioè
nel giudicare ciò che è giusto, sovrapponete, almeno per questa parte, il
criterio della desiderabilità a quello della obiettiva ed esteriore necessità.
Cosi la condotta corregge la dottrina. Gran.... ist alle Theorie— Und
grilli des Lébeus goldner Baiati]. aver coscienza della bontà di
quella condotta; la quale non può nascere che dalla coscienza della
bontà di un fine a cui la condotta ò, o si crede che sia, ordinata; altra
cosa è la necessità di certe condizioni, altra è la loro desiderabilità; altra
cosa è la spiegazione storica, e altra la giustificazione etica. Di
questa esigenza di una giustificazione, alla quale, una volta che sia
sorto il lavorìo riflesso della comparazione e della critica, nessuna
costruzione etica può sottrarsi, si preoccupa invece il nuovo
prnmmnt.iid.ico. il cui presente successo si deve, come credo, in gran
parte, alla insu fficienza d el rel ativismo sociologico e storico
nel campo della morale. Esso è in sostanza, come è noto, un ritorno alla
metafìsica in nome delle esigenze pratiche; la affermazione del diritto
di ciedere alì’ esistenza reale di quelle condizioni che si pongano come
necessarie a dare un fondamento oggettivo al valore delle norme e dei motivi
morali. In questa reazione a difesa della fede il nuovo idealismo, fatto
audace cìàPfavore delle circostanze e dalla debolezza degli avversari, è
passato, come accade, dalla difensiva alla offensiva; e non solo afferma la
legittimità del proprio indirizzo nel campo della morale e della
religione, o, come si dice, nel campo dei valori pratici; ma anche nel
campo della scienza, o d ei valori teoretici ; pretendendo che in
ultimo anche il sapere teoretico, benché non se ne accorga o si dia
l’aria di non accorgersene, non abbia altra ragione per giustificare i principi
e i postulati che assume a fondamento delle sue interpretazioni dei fatti e
delle leggi particolari, se non una ragione di convenienza ; il valore
che quei principi hanno come mezzi per la sistemazione del sapere,
cioè in ultimo per la soddisfazione di un bisogno speculativo. Qui
non è il luogo di discutere ciò che nella dottrina ci può essere di vero
— più come intuizione di un aspetto trascurato della realtà psicologica, che
come legittimazione di un metodo — per quel che riguarda la ricerca
scientifica; la con- [Però non posso fare a meno di notare l'equivoco che,
a mio giudizio, si nasconde sotto la pretesa analogia tra la ragione
che legittima i principi teorici, e la ragione che il prammatismo invoca
a legittimare i principi pratici. L’equivoco è questo: E verissimo che 1’ im
rva Ira tura d<jl sanerò teor ico (a proposito, si può parlare di un
sapere non teorico?) è ìjj^tgriali, diciamo cosi,
grovvisori^dijmstulati^e^dijmtesi che si assumono perditi e in quanto
possono servire. Ma servire a che? A unificare e sistemare le cognizioni delle
cose dei fatti e dei rapporti come nono n on come desideriamo che nan o ;
a costruire non quella verità che piace a noi di ammettere, ma la verità
senz’ altro, sia o non sia conforme ai nostri desideri e ai nostri
capricci. Perchè il bisogno teoretico o scientifico è appunto il bi sogno
di .salier e le cose che s^no jejxmejsono, e non che desideriamo e come
le desideriamo. E qualunque sia il senso che noi diamo all’espressione
come sono esso è sempre distinto e diverso da quello che può aver 1’espressione
come desideriamo che sieno. Perciò non è il caso di ripetere qui, sotto veste
gnoseologica, la domanda di Pilato. Perchè quando si parla, per es.,
delle leggi di gravità, si può bensì sostesidero nel campo della morale, c
soltanto rispetto ali’argomento che ci riguarda. Per questo rispetto la
soluzione che essa dà del problema della giustificazione etica, non dilferisce
sostanzialmente dalle altre soluzioni di carattere metafisico, se non
per il fondamento. A proposito del quale, siccome, se anche se ne
ammetta la validità, questa non toglie il difetto che nasce dal
'carattere metafisico della soluzione, mi accontento di osservare, per
quelli che credono di sfuggire per questa via all’utilitarismo, che essa
conduce a una forma, mistica se si vuole, ma ad una forma di utilitarismo
; anzi alla forma estrema e più radicale: la valutazione delle
stesse credenze metafisiche e religiose dal punto di vista di un
interesse umano ; sia pure questo interesse il massimo, il termine di
confronto di tutti gli altri. Perchè conduce a considerare la credenza
come un sostegno della moralità, ossia in ultima analisi come un mezzo
pedagogico. E non nere che questo è un modo nostro di formulare e
unificare i fatti ; ma i fatti sono quelli, e a nessuno viene in mente di
pensare che noi li crediamo veri perchè abbiamo bisogno di reggerci in
piedi. E anche chi ammette che 1’ acqua sia stata fatta a posta per
cavarci la sete, sa benissimo (diamine !) che altro è dire che in un
pozzo c’ è dell’ acqua, e altro dire che hanno sete quei che vi guardano
dentro. Di questa indebita intrusione di argomenti gnoseologici in
que¬ stioni scientifiche, (fisiche ecc.) tratta esaurientemente, con
profondità e con chiarezza, c ome suole, VARISCO (V. in particolare:
Introduzione alla filosofia naturale, e Studi di filosofia naturale).] è
escluso il dubbio che, a questo modo, proprio nel mentre ehe si pone il
valore della credenza, si venga a togliere valore all’oggetto della
credenza. Venendo ora al nostro argomento, è certo che l a soluzione
del prammatism o, come in genere le altre soluzioni di carattere metafisico,
soddisfa a quella esigenza della giustificazione etica, alla quale
non soddisfa il relativismo storico. Ma aneli’essa presenta — dico all’infuori
da ogni contesa sulla legittimità del fondamento e sulla validità teoretica dei
principi e dei postulati ammessi, il difetto capitale delle costruzioni
metafisiche. Ed è che il fine di ordine sopranaturale cosi postulato, non
può servire a determinare le norme. Non può servire, per la ragione
perentoria che la relazione tra un fine, che è al di fuori e al di sopra
della vita umana naturale e finita, e una con¬ dotta, qualunque essa sia,
che si deve dispiegare nell’ ambito delle leggi naturali e i cui effetti
determinabili sono contenuti nei limiti della vita finita individuale e
sociale, una relazione di questo genere, dico, non può essere in nessun
modo dimostrata, ma soltanto affermata. Ne è prova il fatto che lo stesso
fine sopranaturale, la stessa costruzione metafisica può essere assunta a
giustificare norme concrete di condotta non soltanto diverse, ma
opposte, senza che si possa ricavare da essa nessuna ragione per la quale
tra due forme di condotta diverse, una possa o debba giudicarsi
preferibile all’altra. Gilè, se si trova una ragione di preferenza nell’
ordine degli effetti, che le due condotte rispettivamente producono o tendono a
produrre, quest’ordine di effetti, dà alla condotta correlativa un valore che
sussiste indipendentemente dal fine sopranaturale, e diventa il fine
naturale della condotta medesima. Con questa differenza tra i due
fini: che mentre dato il primo, non si può (se non facendo appello
a una rivelazione, cioè a una autorità, e quindi a una pura affermazione)
ricavare da esso quale sia la condotta atta a raggiungerlo; dato questo
fine naturale, le norme si ricavano appunto dalle condizioni da cui il
fine dipende, cioè dalla connessione naturale tra la condotta e gli
effetti della condotta. Ossia un fine sopranaturale non può fornire
esso il criterio per determinare la condotta, se non a patto che —
implicitamente o esplicitamente — si assuma, come subordinato ad esso e
da esso richiesto un fine, o un ordine di fini, naturale, in relazione al quale
in realtà le norme sono stabilite. Nè concluderebbe nulla in contrario
l’osservare che il criterio desunto dagli effetti che l’azione
tende a produrre, riguarda la condotta esterna, non la interna,
nella quale sopratutto consiste il valore morale. In primo luogo anche se
per le due condotte, esterna e interna, valessero criteri diversi,
bisognerebbe pur sempre riconoscere che, poicliò anche la condotta
esterna conta pure qualchecosa, sarebbe ancora necessario ammettere un
criterio che valga a determinarla. In secondo luogo, benché siano,
in ultima analisi le tendenze, le aspirazioni i sentimenti che hanno
valore e danno valore alle cose e alle azioni, e ogni valutazione si
riduca a valutazione comparativa di tendenze o sentimenti diversi;
non bisogna dimenticare che i sentimenti, come le aspirazioni, si
distinguono per il loro contenuto rappresentativo, cioè pe 1’oggetto a cui
si riferiscono; e che anche le intenzioni sono sempre intenzioni di
qualche cosa. E finalmente, una forma di perfezione interiore che si
consideri come fine, a cui Tuomo possa giungere o avvicinarsi, non
può essa stessa fornire il criterio per determinare quale sia la
condotta richiesta a questo scopo, se non in quanto questa perfezione si
consideri come un effetto o un ordine di effetti che dipende naturalmente (in
parte al meno se non in tutto) da certe condizioni, ossia da certi mezzi.
Le pratiche dell’ascetismo non avrebbero senso se non si riconoscesse a loro
questo carattere di mezzi atti a produrre certi effetti. Concludendo: la
soluzione metafisica a cui fa appello l’indirizzo prammatistico, come
ogni altra soluzione di carattere metafisico, non può avere, anche
se non si ponga in dubbio la sua legittimità, che un ufficio consolatore,
non regolatore; può servire a dare o aggiunger valore a certe norme e ai
fini umani connessi con queste, ma non può servire a determinarle; può fornire
un principio di giustificazione, non un criterio di derivazione. E
perciò lascia da parte o suppone risoluto il problema che riguarda la
determinazione delle norme; il che ò quanto dire che lascia sussistere il
problema, e la validità delle ragioni per le quali si pone, e se ne
cerca la soluzione. Così dei due tipi diversi di costruzione etica
corrispondenti ai due indirizzi esaminati, l’uno q « — quello del
relativismo storico — se anche può offrire un criterio di
determinazione scientifica di un sistema di norme, non soddisfa
all’esigenza morale, ossia non giustifica il valore che ad esse si vuole
attribuire. Perchè, alle norme stabilite in conformità al criterio della
corrispondenza alle esigenze della vita sociale, non si può riconoscere
un valore superiore a ogni altra norma, se non supponendo che la forma di
esistenza sociale correlativa si riconosca universalmente e sotto ogni rispetto
più desiderabile di ogni altra; presupposto che non è per nulla
legittimato, nè si può ricavare. dal criterio assunto. L’altro — quello dell’i
dealism o prammatistico in quanto fa capo a principi e postulati
metafisici, serve a giustificare il valore che si attribuisce alle norme
morali, ma ò radicalmente impotente a fornire un criterio di determinazione
delle norme. Il primo può determinare le norme, ma non giustificarle
; il secondo può giustificarle ma non determinarle. L’uno e l’altro
tipo di soluzione hanno comune il preconcetto fondamentale che compito
dell’Etica debba essere quello di trova re le ragioni sulle quali ò
fondata la bontà o la giustizia di quella forma di condotta, che già
teniamo come buona. Ammesso tacitamente o esplicitamente questo
presupposto, l ’esigenza scientifica porta a riconoscere le connessioni
naturali tra quella forma di condotta e i bisogni della vita sociale del
momento storico, e quindi ad assumere come criterio etico la
corrispondenza a questi bisogni ; l ’esigenza morale o giustificativa
porta a cercare a quali patti o condizioni quella forma di condotta possa
veramente essere riconosciuta come buona, e quindi ad assumere come fine
della condotta un bene il quale soddisfaccia a quel requisito di
universale e preminente desiderabilità, che non si trova in quel fine,
che è in realtà il fine naturale della condotta. E i moralisti che cercano di
conciliarle ambedue, e soddisfare all’esigenza scientifica senza rinunciare
alla esigenza giusti- E allora la conseguenza legittima è questa : che una
scienza normativa morale è possibile soltanto se il fine naturale che
serve a determinare le norme vale anche a giustificarle. Ma il fatto che
questa esigenza non ò soddisfatta finché si cerca la giustificazione di un
codice di condotta già dato, assumendo questo come punto di partenza, e
quindi come fine la forma di convivenza e di cooperazione sociale alla
quale esso codice corrisponde, — non prova l’impossibilità di una
etica normativa scientifica; prova al più la impossibilità di una tale
scienza finche si intende £0 il compito dell’ Etica in quel modo, [
CeMJ Anf ibio. Ora perché non sarà possibile e lecito porre il problema in
un modo diverso: cercare quale possa essere il fine che soddisfa a questa
esigenza, e dalle condizioni che esso richiede ricavare le norme
della condotta? Il porre il problema in questa forma non è forse
legittimato dalle difficoltà che abbiamo visto nascere dal porlo in forma
diversa, e dall’analogia] ficativa, tentano di risolvere l’antinomia assumendo
in conformità all’ esigenza scientifica il criterio, e in conformità all’
esigenza morale la giustificazione ; ossia attribuendo un valore
metafisico al fine umano-sociale al quale in realtà sono ordinate e dal
quale si possono ricavare le norme. Senonchè i due principi assunti e in
apparenza unificati restano sempre distinti : e quando si tratta di
stabilire quale è la condotta da tenere, compare 1’ uno; e quando si
tratta di dire perchè quella condotta è giusta, compare l’altro; senza
che si veda nessuna ragione perchè il secondo debba essere cosi pronto a
trovar giusto quello che l’altro suggerisce (che l’esigenza caratteristica
della norma etica non toglie) colle altre scienze precettive? Sento
risorgere l’obbiezione: Posto pure che l’impresa riuscisse, a che cosa
gioverebbe? Ma ò facile la risposta. In primo luogo, anche se non
servisse praticamente a nulla, non cesserebbe di avere un valore teorico
il sistema di rapporti che per tal modo si venisse a conoscere. In
secondo luogo a nessuno ò dato affermare a priori l’inutilità pratica di
una cognizione scientifica, sia pure che riguardi dati ipotetici (E quale
cognizione scientifica non contempla dati, almeno in parte,
ipotetici?). E finalmente a queste due ragioni generali se ne può aggiungere
una terza particolare. Chi può dire clic al modo stesso, almeno, col
quale può essere utile la conoscenza delle relazioni che esistono
tra forme diverse di moralità e condizioni storiche diverse, non possa
tornare utile la conoscenza delle relazioni scientificamente stabilite
tra una forma di condotta possibile c un ordine di condizioni
possibili? Concludo. Il problema, s e una scienza normativa etica
sia possibile, non è un problema risoluto, ma è un problema da ris olve
re. Se si possa e si debba risolvere nel modo tenuto da Spencer, è
questione diversa e clic rimane da esaminare. E questa critica
preliminare mentre avrà servito, come spero, a dimostrare che il
presupposto fondamentale di Spencer intorno al compito dell’Etica non può
essere a priori escluso, ha posto in chiaro le esigenze fondamentali alle
quali una scienza normativa morale deve soddisfare. E così ci fornisce una
guida per la critica della dottrina. Il criterio del tinnite dell ’
evoluzione e dell’ adattamento completo nm^se^e a determinare il tipo di
condotta cercato. Il programma che Spencer traccia e si propone di seguire
(non dico che in realtà gli sia rimasto fedele) per costruire una scienza
normativa etica, si può raccogliere, in queste due te si: I.° La
necessità di assumere come tipo della condotta morale la condotta dell’ uomo
giusto in una Società giusta; e la necessità conseguente d ella disti
nzione 'ìdfn fv** i tra etica pura (Ji/icr assoluta) ed etica applicata
parevo*)» f (Etica Relativa) e della precedenza teorica della prima sulla
seconda. II. 0 La identificazione della condotta giusta, oggetto dell’oca
Assoluta, col tipo di condotta che egli pone come proprio del
limite dell’evoluzione. Ora, benché nel pensiero dello Spencer le
due tesi siano solidalmente connesse, e la seconda sia ilei'quadro del
sistema la fondamentale e quella che legittima e rende possibile ad un
tempo la sua costruzione, non ò difficile vedere come da un punto di
vista critico esse possono e debbono essere considerate a parte. La prima,
infatti, formula una veduta metodica ; la seconda esprime la
speciale applicazione che di quella veduta metodica Spencer ba creduto di
fare. In altri termini, è astrattamente possibile riconoscere che il tipo
ideale dell’uomo giusto non possa determinarsi se non in relazione con
una società giusta e clic per determinare la condotta giusta relativamente a
certe condizioni reali, sia necessario aver prima riconosciuto quale
sarebbe la condotta giusta in condizioni idealmente supposte, anche se non si
accetta che il tipo ideale di condotta giusta possa essere
concepito in quella forma e su quel fondamento che Spencer crede di
dovergli assegnare. Anzi io penso che la veduta espressa nella prima
tesi non solo si possa, ma si debba accettare come legittima e
necessaria, e che in essa si racchiuda come in germe un concetto fecondo.
Certo, credo, se una scienza normativa morale ò possibile, è possibile
per quella via; e i difetti della costruzione etica dello Spencer nascono
non dall’averla seguita, ma piuttosto dall’ essersene allontanato.
Cosicché la critica stessa della seconda tesi riesce a confermare
la legittimità della prima. Assumendo come tipo ideale di condott a
insta la condotta corrispondente al limite dellV vn- ! azione, Spencer
riconosce, esplicitamente o implicitamente, alla forma di vita individuale e
sociale che segna quel limite, valore di fine morale. Ora. lasciando la
difficoltà, sulla quale altri ha già zifjf.'w’Ui insistito, che uno s
tato concepito come il risultato necessario dell’evoluzione naturale
possa aver valore di fine liberamente e deliberatamente voluto e
proseguito? difficoltà che non mi pare insuperabile, io credo che questa
identificazion e presenta He due difetti capitali : essa non vale,
per se, a for- O' La difficoltà nasce dal modo di intendere la
possibilità e la necessità. Affermare la possibilità die si produca un
fatto, non è altro che riconoscere o ammettere la presenza reale dei
fattori, l’azione dei quali, qumido non incontrasse ostacoli,
produrrebbe, secondo i rapporti causali noti, cioè necessariamente, quel
fatto. Ora lo stesso effetto che può apparire necessario in quanto si
ammette la reale e adeguata efficacia di tutti i fattori da cui dipende,
' può essere proposto come fine quando tra i detti fattori entri
l'azione MI'uomo, cioè quando la necessità. dell’effetto sia
condizionata dalla presenza e dalla efficacia di certe idee, sentimenti,
aspirazioni : cioè in una parola dalla presenza e dalla efficacia
adeguata del desiderio ili quell' effetto. In questo caso non è escluso
che l’effetto m questione possa aver valore di fine, anzi è incluso elio
1’ abbia ; perchè la « necessità » dell’effetto è subordinata appunto al
valore che gli si riconosca di fine, e al dispiegarsi, nell’ azione
corrispondente, della volontà di raggiungerlo. Che questa interpretazione
sia compatibile coi principii dell’evoluzionismo Spenceriano è questione che,
come si vedrà, rimane estranea all’ intento di questo studio, e che i più
risolvono negativamente (cfr., tra gli altri, ZECCANTE, La dottrina della co- [ni
re un criterio per la derivazione delle norme morali (nella realtà, come
si vedrà più innanzi, il tipo ideale è determinato da Spencer sopra
un altro fondamento); e non è sufficiente come principio di
giustificazione. Cominciamo dal primo. Il concetto di evoluzione, come
quello di tempo, del quale esso è, in fondo, nuli’altro che la traduzione
in termini di causalità naturale, esclude l’idea di limite, inteso almeno
come termine fisso, oltre il quale ogni processo di trasformazione,
cioè di causazione, si arresti. Il processo stesso di dissoluzione che,
secondo il pensiero di Spencer, si alterna a periodi indefinitamente
grandi con quello di evoluzione, non segna il termine di un periodo
e l’inizio d’ uno nuovo se non dal punto di vista scienza movale in Spencer;
e G. V ijiaki: SERBATI (si veda) e Spencer. Di queste, come di tutte le
obbiezioni mosse all'etica di Spencer, a
cominciare dal Guyau e dal Sidgwick fino ai critici più recenti, tratta
con grande larghezza e ricchezza di notizie SALVADORI nel saggio “L’Etica
Evoluzionista” che è una apologia entusiastica di tutto il sistema
Spenceriano. Colgo questa occasione per dichiarare che ho dovuto
astenermi da ogni richiamo sia delle obbiezioni e discussioni di questi,
come di altri critici valorosi (tra i quali sia ricordato a titolo d’
onore il compianto Icilio Vanni), sia delle varie opinioni che si
connettono colle questioni generali toccate, per due ragioni : in primo
luogo perchè il punto di vista dal quale è qui considerata la dottrina delle
due etiche è diverso, e diversa la via seguita; in secondo luogo perchè se
avessi voluto per ogni questione toccata discutere le diverse opinioni, avrei
dovuto fare, a commento di un breve scritto, tutta, o poco meno, la storia
della morale. di una valutazione umana o teologica. In realtà
il cammino non si arresta per tracciar di segni che l’uomo faccia
sulla via della natura. Nè, del resto, quando Spencer parla di limite
dell’ evoluzione della vita umana, intende di significare il
momento in cui la vita si arresta o si spegno, ma quello in cui la
vita raggiunge il massimo svolgimento. Senonchò questo massimo svolgimento
non può essere. necessariamente, che relativo a forme date e conosciute o
comunque determinate di vita, cioè di organi, di funzioni, e di attività;
e, anche inteso cosi, non può venir stabilito se non fissando un grado che
si consideri come massimo; cioè, insomma, segnando nel processo (non importa
ora con quale criterio) un momento, che sia punto di arrivo di una
serie (della quale sia rappresentato da punto di vista teleologico come
fine), ma che potrebbe essere preso, con un criterio diverso, come
punto di partenza di una serie ulteriore. È sufficiente a segnare questo
momento il criterio dell’adattamento completo ai tre ordini di
fini: della vita individuale, della vita della specie e della vita sociale? È
subito chiaro che questo adattamento completo non può bastare esso stesso,
se non si determina quali siano le sfere di attività e di fini,
l’adattamento ai quali serve di criterio per stabilire se il limite è
raggiunto. Perchè se si intende per adattamento completo un adattamento
definitivo a tutti i fini di tutti e tre gli ordini, termine fìsso
e insuperabile al quale si arresti, e oltre il quale non sorgano nuove
aspirazioni e nuovi fini, noi non potremmo argomentare nò che un tale
limite sia per essere raggiunto mai, nò, (ciò clic qui importa di più)
dato che si raggiunga, quale sia il grado o la forma di vita, che un tale
adattamento sia per fissare e suggellare come definitivo. Perchè i
fini sono, come ognuno sa, correlativi ai desideri o ai bisogni. Ora a
mano a mano che le forme di attività si moltiplicano c si differenziano,
si moltiplicano i bisogni e quindi i fini; nò si può nò induttivamente,
nè deduttivamente determinare a qual punto questo processo possa o debba
arrestarsi. Pcrchò, pur non uscendo dalla tesi evoluzionista, ogni
adattamento implica diminuzione di sforzo e quindi, ceteris paribus,
avanzo di energia; la quale appunto perciò si viene dispiegando in nuoA r
e forme di attività, c quindi nella ricerca di nuovi fini. Anzi il
sorgere di ogni forma più complessa di attività, ad esempio ogni funzione
più elevata — presuppone normalmente l’adattamento già avvenuto delle attività
meno complesse e relativamente elementari, funzioni più semplici di cui
essa ò una nuova ordinazione. Onde per questo rispetto l’adattamento a
certi fini, ò parallelo all’ insorgere di fini nuovi indefinitamente.
Oltredichè il processo stesso del conoscere portando a scoprire sempre
nuovi rapporti di cose e di fatti, viene continuamente riversando la DESIDERABILITA
dei beni conosciuti su nuovi oggetti che acquistano valore di utilità, c
moltiplica così i beni, cioè i desideri e i bisogni; o trova nel mutare
delle condizioni esterne nuovi modi di soddisfare ai bisogni già
esistenti ailìnandoli ed elevandoli; o apre la via a nuove aspirazioni,
alle quali la soddisfazione già assicurata dei vecchi bisogni, permette
che si rivolgano gli sforzi e l’opere. Cosi ogni adattamento raggiunto è
condizione e stimolo a nuove forme di attività al modo stesso che ogni
conoscenza acquistata fa sorgere nuovi problemi, e nascere « a guisa di
rampollo, appiè del vero il dubbio. Si dirà che Spencer intende
l’adattamento completo nel senso di mutuo adattamento dei tre
ordini di lini fra di loro; intende cioè la conciliazione e l’accordo tra le
esigenze della vita individuale quelle della vita della specie e quelle
della vita sociale. Ma lasciando di notare che la difficoltà
sopra notata risorge a proposito di questa conciliazione perfetta,
si presenta la domanda: A quali patti si fa questa
conciliazione? Perchè se è vero, come Spencer ha cura di ripeter
spesso, che nelle condizioni presenti di esistenza i fini di un ordine non
possono essere prosemiti c raggiunti senza sacrificio almeno parziale dei
fini di un altro ordine, bisogna evidentemente perchè la conciliazione si
faccia, che intervenga una cessazione, o una modificazione o una
sostituzione nei fini o di uno o di due o di tutti tre gli ordini considerati;
ossia una modificazione nei bisogni e nelle esigenze dell’individuo, o
della specie, o della società. Supponiamo ora per semplicità di
discorso che i fini individuali e i fini della specie si possano
considerare fin dal presente conciliati; o, per usare i termini dall’economia
pura, che si possa assumere 1’ egoismo di specie come comprendente m
se l’egoismo individuale (il che è in gran parte conforme alle vedute
stesse di Spencer); la conciliazione resterebbe da farsi tra i fini della
vita individuale e i fini della vita sociale. E allora il problema è
il seguente: Nello stato di conciliazione contemplato, fino a qual punto
sono i bisogni e i fini individuali da noi conosciuti o immaginati
che avranno mutato di specie, di estensione, di intensità, per adattamento
alle esigenze sociali, e fino a qual punto si troveranno invece
modificate le esigenze sociali per adattamento ai fini della vita individuale?
E manifesto che per conoscere in che cosa la conciliazione sia per
consistere bisogna o che sia definita la sfera delle esigenze
individuali, in corrispondenza colla aliale si possa determinare la sfera
delle sociali che con quelle si accordi; o sia definii sfera delle
esigenze sociali per una determinazione tersa; o finalmente siano definite
certe corni z on (qualunque sia il modo tenuto per assegnarle) 1 H
vacano, esse, a determinare ad un tempo, limiti «Ielle une e delle
altro. :ì Queste condizioni Spencer ricava dalle
esigenze del “r » ™<ità induetnale !«<<»' cui si
suppone realizzato il puro «gnu» ' u ?» tratto sotlo la leggo
dell'uguale liberta ; e> 4* il limite dell'evoluzione è in realtà,1 della società industriale del suo temp,
tamento completo consist costruttiva biologica e psicologica 1 nenti la
società umana a questo tipo d, convivenza e di cooperazione. Per
conseguenza non è un [qua.» riatto no «i *“Spencer che qui il Etta, (cio4
quando que- biella II. n edizione dei‘ de i System of
et’ opera fu ^pubblicata come Synth. Phil.) si trova aggiun e
cbe eva stato lo stesso titolo « Conciliarne • pubbliC azione, fu
dettato prima; ma, smarrì o poi Qra in quel ca pitolo geisostituito da
quello che figura ne . . ident ifi c hiuo provare la possibilità
che le attività ^«isMche ^ colle egoistiche, si citano gli mse 1 s
’ nism i di- [e—. -certo tipo di vita completa che serve a determinare il
tipo ideale della società giusta, ma è il tipo considerato come ideale di
società giusta che determina la vita completa. Adunque, poiché la conciliazione
dei diversi ordini di fini è subordinata all’ attuarsi delle condizioni
che definiscono il tipo ideale di società ed è relativa a queste, è il
tipo ideale di società clic in edotto è assunto come fine, e sono
le condizioni proprie di quel tipo che servono a determinare le
norme. benessere individuale non maggiore di quello che è necessario
alla conservazione della vita individuale; ed esser possibile il
formarsi negli individui di una organizzazione tale che la ricerca delle
soddisfazioni che la natura loro richiede, porti ad esercitare quelle attività
che il benessere della comunità richiede. Si noti che, aggiungendo in appendice
il capitolo che contiene questo passo, Spencer non fa riserve di nessun
genere, anzi dice esplicitamente che esso può servire a chiarire e compiere il
pensiero espresso nel testo. Un altro luogo in cui è ribadito in forma
diversa, ma non meno recisa, lo stesso concetto fondamentale, si trova
nella seconda lettera di risposta alle critiche di Davies sull’ obbligazione
morale, pubblicata col resto della polemica nella- Appendice C. alla
Giustizia. Lasciatemi ripetere qui una verità sulla quale ho altrove
insistito: che appunto come il cibo è giustamente preso quando è preso
per soddisfare la fame, mentre il doverlo prendere quando manca
l’appetito implica uno stato fisico disordinato; cosi una buona azione o
un atto di dovere è fatto giustamente soltanto se è fatto per soddisfare,
un sentimento immediato ; mentre se è fatto per la considerazione di
certi risultati finali in questo o in un altro mondo, implica uno stato
morale imperfetto (A. Sistem ecc. The Moral Motive. Nella trad. it. della
Giustizia edita da Lapi questa appendice è omessa. Ma se così è, quanto alla
determinazione delle nolane il postulato dell’adattamento completo,
posto clic si possa assumose, non serve a nulla;
equivale semplicemente a supporre clic tutti gli individui i quali
compongono la società ideale abbiano una natura così latta, che l’osservanza
della condotta corrispondente costituisca per essi un bisogno o un desiderio
superiore a ogni altro, senza possibilità di conflitto con altri bisogni
o desideri; cioè, tiene nella costruzione etica lo stesso posto che nei sistemi
morali è comunemente tenuto dal dovere, e nelle scienze precettive in
genere dalla supposizione che esista un desiderio o un bisogno specifico
corrispondente al fine da cui si ricavano le norme. E quindi allo
stesso modo che l’esistenza e la natura specifica dei motivi da cui può
dipendere l’osservanza di una norma, non hanno che fare colla
determinazione teorica di essa, così l’ipotesi dell’ adattamento completo
dei bisogni e desideri individuali a certe condizioni di convivenza e CO-OPERAZIONE
sociale, non ha che fare colla determinazione di queste norme. Perchè le norme
sono ricavate appunto da quelle condizioni, alle quali si suppone
avvenuto l’adattamento; e che perciò servono esse di critetio e per determinare
le norme e per conoscere se l’adattamento è
raggiunto. Uljh&MJ? Jabot* Il criterio del piacere puro,
corrispondente all’ adattamento completo, non ser re a giustificare il
tipo di condotta proposto. Ma perchè assume Spencer come proprio della
Società ideale un adattamento completo, che, mentre esclude
arbitrariamente ogni evoluzione ulteriore, non serve a definire questa
Società ideale perchè è definito esso stesso in relazione con
quella? Perchè soltanto quando esso sia raggiunto, la condotta umana
in tutta la sua estensione apporta a sè e agli altri nel presente c nel
futuro puro piacere, piacere non misto a dolore di sorta ; e per Spencer,
come s’è visto, il giusto assoluto e sclude il dolore . E perciò il tipo
ideale contemplato dall’etica Assoluta non può essere se non quello nel
quale la condotta apporta puro piacere. L’ adattamento completo
darebbe dunque al tipo ideale di convivenza e cooperazione sociale
quel carattere di universale e preminente desiderabilità, che deve
avere il fine assunto dall’etica. Lo dà veramente? Benché a prima
vista possa parere strano il dubbio e inutile la discussione, bisogna
riconoscere che un tipo di esistenza individuale e sociale nel
quale tutta quanta la condotta in tutta la sua estensione porti sempre e
soltanto piacere, non è, date le leggi psisologiche conosciute, e non può
essere, un fine.universalmente desiderabile sopra ogni altro. Lascio
di discutere se, supposta una condotta, diciamo così per brevità,
totalmente piacevole, il piacere stesso non verrebbe a sparire, come
stato di coscienza distinto, per mancanza di quel contrasto e di quell’
alternanza fra gli stati psichici (così bene illustrata tra gli altri
dall’ Hòffding), senza della quale anche i godimenti più forti il languidiscono
e vaniscono nella ripetizione abituale; e di considerare se la forma di
vita corrispondente non riuscirebbe a sopprimere in ultimo anche ogni
forma di coscienza riflessiva e di deliberazione volontaria, cioè
l’intelligenza stessa e la volontà, almeno nelle loro forme più elevate
riducendo la vita a una sorta di automatismo istintivo, al quale
corrisponderebbe la fissazione stereotipa di modelli d’uomini meccanizza
ti. Certo, se si bada clic l’attenzione attiva è sempre, in grado maggiore o
minore, sforzo, e clic lo sforzo è alimentato principalmente, se non
unicamente, dal dolore e non dal piacere, bisogna riconoscere che la
capacità dello sforzo e l’esercizio dell’ attenzione tenderebbero a
svanire collo sparir del dolore; e il vigore dell’intelligenza si
affievolirebbe; come già si può osservare in quelle persone sfaccendate e
sonnolente, le quali abbiano in pronto senza alcuna fatica o cura
tutto quel che desiderano, e non sentano l’aculeo di altri bisogni, e di
aspirazioni diverse. E lo stesso discorso sarebbe da ripetere a
maggior ragione per la volontà. Certamente le leggi psicologiche conosciute
tendono ad escludere, per le ragioni accennate sopra a proposito
dell’adattamento completo, che un tale stato possa avverarsi ; ma, dato
che potesse attuarsi, non ci sarebbe nessuna ragione per negare, in
forza delle medesime leggi, l’eventualità se non della soppressione, di
un oscuramento progressivo delle facoltà psichiche più elevate. E allora
si presenta subito la questione, se, ammessa pure soltanto la
possibilità che a un tale stato si accompagnasse questo effetto, potrebbe una
forma di esistenza siffatta apparire desiderabile sopra ogni
altra. Si potrebbe dire: Che importa l’oscuramento e anche la soppressione
dell’ intelligenza e della volontà, purché sparisca il dolore? E
quando non vi siano altri bisogni e altri desideri che quelli
appunto che trovano già una soddisfazione adeguata, ossia, quindi, non ci
sia più nemmeno la possibilità di rappresentarsi bisogni e beni diversi,
non è una tal vita nel suo genere beata; anzi la sola beata perché é
esclusa la capacità di provare altri bisogni? Ora che un tale stato
possa, anzi debba apparire il più desiderabile quando si supponga
l’adattamento già raggiunto, è fuori di contestazione; ma qui si
tratta di vedere se un tale stato possa essere preferibile per chi ne ò
fuori, e dovrebbe proporsi come scopo di raggiungerlo. Se, cioè, a chi
esercita certe forme di attività possa parere desiderabile sopra
ogni altro un tipo di vita, nel quale per avventura quelle attività
fossero oscurate o soppresse. In questo caso possono valere l’osservazione
notissima del Mill e la ragione colla quale la conforta; che, certo, non
avrebbero valore nel primo caso. Ma anche lasciando questo aspetto
della questione, non bisogna dimenticare che appunto perchè il piacere
puro è il correlato subiettivo dell’ adattamento completo, la medesima
condizione di una condotta totalmente piacevole, per le ragioni
dette a proposito dell’indeterminatezza nel numero e nella specie dei
(ini, rispetto ai quali l’adattamento [ È meglio essere un nomo i nfelice
che un jjj^o.ap,ddi.sfotto: è meglio essere Socrate malcontento che un
imbecille beato. Ora la ragione addotta da Mill vale per l’uomo, ma non
per l’animale, e l’Hoffding non ha torto di spendere, come egli dice
graziosamente, (i nalch e parola hi difesa del porco e dell’ imbecille. E
nota infatti che un uomo il (piale abbia ottenuto la soddisfazione intera
dei suoi desideri, non ha nessuna ragione di paragonare il suo stato con
quello di altri uomini. Senonchè riconosce poi che la conoscenza di gradi
più elevati farebbe nascere anche nell’uomo felice il desiderio ardente di
giungervi che è appunto ciò che <pii importa. (Hoffding -
Morale). potrebbe essere raggiunto — può concepirsi attuata non in
una sola ma in più forme di vita fra di loro diverse ; e resterebbe
sempre da trovare un criterio comparativo della DESIRABILITA, o da ammettere
che tutti i tipi di vita, per i quali si concepisce possibile una
conciliazione fra i tre ordini di fini (anche se la conciliazione fosse
ottenuta allo stesso modo che nelle società animali, cfr. la nota
qui sopra), siano ugualmente desiderabili. Il che importerebbe la
legittimazione a pari titolo di forme di condotta fra di loro
diverse e anche opposte; e si dovrebbe ricavare daltronde che dal
piacere puro il fondamento della legittimazione. E qui tocchiamo un
argomento il quale si allarga fuori del campo particolare della dottrina
di Spencer e riguarda nello stesso tempo una questione più generale: la
natura del fine. Siccome il carattere che si richiede nel fine
assunto a giustificare le norme morali è, come s’è ripetutamente detto,
quello della universale e preminente desiderabilità sopra ogni altro, si
pensa che esso debba essere il fine dei fini, il fine ultimo e
supremo ; uno stato definitivo, oltre il quale, e al di là, non ci sia
più nulla da desiderare e da cercare. E allora non resta che questa
alternativa: o si cerca un fine il quale contenga e comprenda in sò
tutti i fini; e prendono forma I FANTASMI DI FELICITA, DI BEATITUDINE [CICERONE],
di perfezione, noi quali si fd" figurano definitivamente appagati tutti i
desideri, e scomparsi o sommersi quelli che non vi trovano
appagamento ; oppure si considera come fine la forma colla quale si
presenta alla coscienza la soddisfazione di qualsiasi desiderio; cioè il
piacere o la liberazione dal dolore. Ma tanto l’una quanto l’altra
delle soluzioni non sono che apparenti, o si risolvono in una vana
tautologia. PORRE COME FINE LA FELICITA senza determinare quale sia o IN CHE
CONSISTA LA FELICITA DI CUI SI DISCORRE è certamente un modo per
conciliare verbalmente tutte le differenze di opinioni e superare tutte
le difficoltà; ma nella realtà non le concilia e non le supera, più di
quel che valgano a togliere le diversità di opinioni politiche e a
raccogliere i partiti ad unità di intenti certi ordini del giorno in cui si
afferma all’ unanimità essere fine supremo per tutti il bene della patria
o la prosperità della nazione o altre formule somiglianti. E se si
determina in che si faccia consistere la felicità, quali siano i fini che
si comprendono nel fine unico chiamato con questo nome, allora
delle due l’una: o i diversi fini così compendiati e compresi nel fine
unico, sono veramente unificati, e, perchè ciò sia. occorre che essi
possano ridursi ad uno; e quindi diesi possa dimostrare che uno fra
essi è causa o condizione degli altri, o che tutti dipendono da una
medesima condizione o ordine di condizioni; e in questo caso la felicità
è caratterizzata o da quel fine o dal conseguimento di questa condizione,
che diventa esso fine, perchè su esso si riversa la desiderabilità di
tutti ; e il termine FELICItA non è che.un duplicato di quel certo fine o
di questa condizione. Oppure i diversi fini non sono clic sommati
insieme, e giustaposti l’uno all’altro, rimanendo in realtà distinti e
senza che si veda la necessità della loro connessione; e allora 1’
unità non è che verbale, e in realtà invece di un fine, si hanno più
fini, ciascuno nel suo genere supremo. Si dirà che si dà alla FELICITA
non il senso di un certo contenuto determinato che la
costituisca, ma il senso di appagamento dei desideri, di soddisfazione dei
bisogni, senza clic si definisca quali ne siano per essere il numero e le
specie; nel qual senso si può affermare che LA FELICITA rimane
sempre il fine ultimo pur restandone indeterminato il contenuto? E
si riesce allora alla seconda alternativa, di considerare come fine ciò che si
ammette esservi di comune e di costante nel raggiungimento di
qualsiasi fine; cioè, come s’è detto, la forma sotto la quale si presenta
la soddisfazione di qualunque desiderio : il piacere o la liberazione dal
dolore. Ma dire che il fine ultimo è il piacere è come dire che il line
ultimo è il godimento che accompagna il raggiungimento del fine o dei
fini, o che lo scopo dei desideri è la soddisfazione dei desideri.
E allora si vede perchè il puro piacere non possa dare un criterio di
legittimazione e di valutazione comparativa dei fini e quindi delle
forme di condotta. Perchè o si prende come criterio la quantità del
piacere, la intensità della soddisfazione, senza badare alla natura del
desiderio a cui corrisponde, e non è possibile assegnare un solo
desiderio che abbia lo stesso valore, nonché per due coscienze diverse,
neppure per la stessa coscienza in momenti diversi. 0 si valuta la
soddisfazione secondo i desideri cui corrisponde, e allora ciò che
distingue un desiderio dall’altro non è la soddisfazione ma l’oggetto a cui il
desiderio si rivolge; non l’effetto soggettivo gradevole, ma le
condizioni che lo producono, non è il godimento del bene, ma il
bene. Ora è qui che si nasconde 1’ equivoco nell identificare il bene col
piacere; il fine, cioè l’ordine di effetti che costituisce l’oggetto del desiderio,
collo stato soggettivo che è il godimento (quando ci sia) del fine
raggiunto. È bensì vero che un bene di cui si concepisse che nessuno
mai potesse godere in nessun modo, non avrebbe valore di bene; ma è
non meno vero che un godimento del quale non si sapesse assegnare nessuna
causa o condizione o mezzo atto a produrlo, non potrebbe mai essere
proposto o assunto come scopo di un'at¬ tività qualesivoglia. Ora quando
si parla di un fine desiderabile sopra ogni altro al quale sia ordinata
la condotta, non si può intendere che un bene, il quale sia bensì,
direttamente o indirettamente causa o mezzo o condizione di godimento, senza
di che non sarebbe bene; ma che non può consistere nel godimento stesso,
ma in un certo effetto o ordine di effetti determinabile e
possibile, che possa costituire l’oggetto di una ricerca attiva,
cioè di una certa condotta Senonchè bisogna evitare anche qui lo stesso e
quivoco che CONDUCE A RIPORRE IL FINE NELLA FELICITA o nel piacere; l’equivoco
che questo effetto o ordine di effetti debba costituire un fine
ultimo, uno stato definitivo, al di là del quale non siano
assegnabili altri fini. Uno stato, o un ordine di effetti definitivo è
contraddittorio non soltanto colle leggi della vita, per le ragioni già
dette, ina col presupposto stesso fondamentale che si assume di
necessità quando si voglia determinare scientificamente un sistema di norme.
Perchè qualunque [Non altrimenti avviene nel campo speciale
dell’economia. E bensì vero che se non si supponesse la possibilità del
consumo, cioè del godimento dei diversi beni che costituiscono la
ricchezza, questa non avrebbe valore, e non avrebbe senso la produzione ;
ma 1’oggetto a cui si volge 1’attività produttrice e del quale si cercano
le leggi, è la ricchezza, non il consumo. fine rappresentato come
umanamente possibile, appunto perchè deve essere concepito come un
effetto, che si produce, date certe condizioni, è a sua volta
pensato come condizione di altri effetti, cioè mezzo ad altri fini.
Pensare un effetto naturalmente possibile che sia ultimo, è come pensare chiusa
e finita a un momento dato la serie della causazione, abolita e spenta in
un effetto che sia stato prodotto ogni efficacia causativa; e allora vien
meno ogni ragione di pensare come dipendente da certi mezzi, cioè
da certe cause, anche l’effetto stesso che si considera come fine ultimo;
e quindi è tolto ogni fondamento a qualsivoglia determinazione di
rapporti tra mezzi e fini, e perciò anche a qualsiasi determinazione di
norme. Si dirà che si intende ultimo rispetto alla salutazione, cioè
talea cui si riconosca valore per sé, indipendentemente da ogni
considerazione ulteriore. Ma se si ammette che da quel fine, quando sia
raggiunto, dipendono altri effetti, nell'atto stesso che lo si pensa
condizione di tali effetti ulteriori, la valutazione di questi (che non
può essere esclusa) •muta il valore del fine egli dà nello stesso
tempo valore di mezzo. Dal che nasce questa conseguenza assai
notevole: che la desiderabilità di un ordine di effetti, che si assuma come
fine, non viene tanto dalla desiderabilità che gli si riconosca come
bene. cioè come oggetto diretto e immediato di godimento, quanto
dalla DESIDERABILITA degl’effetti, dei quali esso apparisca la condizione
necessaria. E che perciò, mentre è vano andar cercando quale sia il fine
ultimo, il quale non si trova mai, o si risolve in una pura espressione
verbale, il fine che può valere come supremo si deve cercare non
nell’uno o nell’altro degli scopi a cui si riconosca valore per sè,
ma in un ordine di effetti, in un sistema di condizioni, dato che sia
assegnabile, nel quale si possa riconoscere questo carattere appunto di
condizione necessaria, non di alcuni, ma di tutti quei beni, ai quali si
attribuisce valore per sè. E quindi il fine che può avere universalmente
una DESIDERABILITA superiore a ogni altro, non può consistere se non in
un ordine generale e, si potrebbe dire, preliminare di condizioni, la cui
attuazione apparisca necessaria perchè sia possibile universalmente la
ricerca ulteriore di quei beni. Non può essere cioè supremo nel senso di
una gerarchia, della qiiale segni il culmine, nè nel senso di una
grandezza o quantità, di cui sia il massimo, ma nel senso della
precedenza necessaria o della indispensebilità; per la quale venga a
raccogliersi su di esso come in un unico foco la luce e il calore di DESIDERABILITA
che irraggia dai fini ai quali apre universalmente la via. E perciò,
ammesso che qualsivoglia fine umano abbia, come ha in realtà, per
condizione la convivenza e la CO-OPERAZIONE sociale, il line che può
avere questo valore di precedenza necessaria sugli altri deve essere di
necessità il raggiungimento o il mantenimento di certe condizioni ili
convivenza e di cooperazione sociale, cioè di una qualche forma di
società. Ma perchè ad una forma di società possa essere riconosciuto questo
carattere universalmente, occorre che le condizioni della sua esistenza
abbiano per tutti un valore potenzialmente uguale: ossia che nessuno dei fini,
dei quali quella forma di cooperazione pone la possibilità e dai
quali attinge il suo valore, sia, per dato e fatto delle esigenze di essa
forma, precluso o impedito a nessuno dei componenti la società. 0, in
altri termini, sia qualsivoglia il fine che si suppone cercato,
ciascuno trovi nelle condizioni proprie di quella forma sociale la
medesima esteriore possibibilità di rivolgere a quella ricerca l’attività
propria. che vi trova qualsiasi altro. L’analisi ci ha dunque portato a
queste conclusioni: a riconoscere che il limite dell’evoluzione,
1’adattamento completo, la massima FELICITA, nè for- [Il che non implica,
occorre appena avvertirlo, una uguaglianza nei risultati ottenuti, o come si
dice inesattamente, una uguale distribuzione di FELICITA la quale
supporrebbe, insieme colla condizione notata, anche una uguaglianza di
attitudini, di attività e di preferenze.] nisce un criterio ili determinazione
delle norme, nò basta come principio di giustificazione; a riconoscere la
legittimità del concetto, clic bisogna assumere come fine un tipo ideale
di società; e a stabilire le esigenze fondamentali, alle quali
questo tipo deve soddisfare. Ed ora è facile vedere per quali
ragioni il tipo sul quale in realtà Spencer ha modellato la sua
società giusta non soddisfaccia a queste esigenze. Il tipo di società
giusta di Spencer. In un articolo di risposta ad alcune critiche mosse ai dati
dell’etica Spencer polemizzando con Means così si esprimeva a proposito
del modo di intendere la giustizia: A molti sembra ingiusto che la dura
fatica di un bifolcogli faccia guadagnare in una settimana meno di quanto
un medico guadagna facilmente in un quarto d’ora. Molti sostengono essere
ingiusto che i figli del povero non possano avere i vantaggi del
l’educazione che hanno i figli del ricco. Ma quest e deficenze nelle
quote di FELICITA che alcuni ritraggono dalla CO-OPERAZIONE, sicc ome clerivano
da ereditata inferiorità di natura, o da inferiorità di c oMizioniMn cui
i loro antenati inferiori sono c a- ~
cinti, sono deficienze colle quali la giustizia, come io la
intendo, non ha nulla che fare. L’ingiustizia che trasmette alla
discendenza malattie c deformità, l’ingiustizia che infligge alla prole
le conseguenze penose delle stupidità e della cattiva condotta dei
genitori, la ingiustizia che costringe quelli che ereditano delle inc
apac ità, a lottare colle difficoltà clic ne derivano, l’ ingiustizia che
lascia in relativa p overtà la gran maggioranza, le cui facoltà,.di or
- < 1 i ne inferiore, apportano ad essi scarsi profitti, 6 una
specie di ingiustizia estranea alla mia tesi. il i cose stab ilii'-,
quantunque in forza di esso, una inferiorità della quale l’individuo non ha
colpa produca i suoi mali, e una superiorità della quale egli non
può vantare nessun merito, apporti i suoi benefìzi; e dobbiamo accettare,
come possiamo, tutte quelle disuguaglianze che ne deri
vftrm vantaggi che i cittadini si procacciane rispettive
attività. Ho citato questo passo, non perchè gli stessi concetti qui
espressi non siano, esplicitamente o impli¬ citamente, sostenuti in tutta
quanta la sociologia e la morale dello Spencer, ma perchè forse in nessun
altro luogo appare piu manifesto il presupposto che vizia la sua
concezione della società ideale. Assu¬ mendo come elemento del concetto
di giustizia — accanto a quello dell’ uguale libertà — la condi¬ [Replie
to Criticism on The Data of Etihcs in Mind. zionc ricavata dalla biologia, che
la vita progredisce c si eleva soltanto a patto che gli individui
superiori godano i vantaggi della loro superiorità e gli inferiori
subiscano i danni della loro inferiorità, egli identifica la inferiorità fisiologica
e psichica colla inferiorità sociale; la inferiorità obesi potrebbe
chiamare nativa o costituzionale colla inferiorità clic si potrebbe dire di
posizione. Ora, che un uomo debole non possa vincere le medesime
resistenze che uno forte, che un bambino poco intelligente impari meno e
peggio di un intelligente, è naturale e necessario; ma non si può dire
che sia giusto nè ingiusto. Che i figli ereditino F ingegno o l’ottusità, la
sensibilità o l’insensibilità, il vigore o l’infermità dei genitori, e che
i primi godano i vantaggi e i secondi sopportino i danni che sono conseguenza
rispettivamente di questa loro soperiorità o inferiorità ereditata, sarà del
pari biologicamente necessario, ma non è ancora nè giusto nè ingiusto;
diventa bensì giusto o ingiusto rispettare o violare questa relazione
naturale, soltanto se si considera questa relazione come condizione di una
elevazione progressiva delle specie che sia assunta come effetto
universalmente desiderabile, cioè come fine. Ma che i figli del contadino
non abbiano la possibilità di venire istruiti o educati, non dipende
dalla costituzione fìsica e mentale loro propria, ereditata o no, ma dipende da
una inferiorità sociale, la quale toglierebbe ad essi questa possibilità
anche se la loro costituzione fisica e mentale Cosse attissima a questa
coltura. Ora, mentre l’analogia della selezione biologica importerebbe
che i figli del contadino al pari di quelli del lord potessero porsi allo
stesso cimento, salvo a ricavare dalle loro rispettive capacità e sforzi frutti
maggiori o minori, la diversità delle condizioni sociali esclude gli
uni dalla gara c toglie non solo la necessita ma la possibilità clic
l’opera di selezione si rinnovi tra i superstiti di ogni nuova
generazione sull’unico fondamento delle loro rispettive attitudini e attività. Sul
che non è necessario insistere dopo le critiche note e ripetute; ma valga
l’accenno per rilevare che a torto Spencer identifica colla inferiorità
biologica, o meglio, costituzionale, l’inferiorità clic deriva dalle condizioni
sociali, e crede che possa valere a giustificare le conseguenze
della seconda, lo stesso fine che invoca a giustificare
le conseguenze della prima. Perchè la limitazione alla sfera dei
beni conseguibili che è imposta da condizioni esteriori è cosa affatto diversa
dalla limitazione clic nasce dalla capacità e dalle doti intrinseche; e se
questa è giusta, posto che si prenda per fine superiore a ogni altro V
elevazione della specie (e dato che ne sia condizione), quella è
giusta soltanto se si considera come fine superiore quella certa forma
ili cooperazione sociale che la rende necessaria. Anzi quella limitazione
d’origine sociale che si ponga come giusta per quest’ ultimo rispetto,
appare ingiusta per l’altro. E l’ammettere che sia giusta la condizione che
ciascuno sopporti i danni della sua inferiorità e goda i vantaggi
della sua superiorità » non include, ma piuttosto esclude l’altra
condizione, a torto da Spencer compresa o conglobata con quella; che
ciascuno sopporti i danni o goda i vantaggi che sono conseguenza di una
inferiorità o di una superiorità, la quale risulta non dalle sue doti
fisiche e mentali, ma dalla assenza o dalla presenza di certe circostanze
esteriori. E in verità sarebbe da meravigliare che Spencer non
abbia rilevato la differenza, o non ne abbia tenuto conto, se non si
ricordasse che il punto di partenza, il foco centrale da cui muove
e attorno a cui si raccoglie la sua speculazione, è, come s’ò detto in
principio, un ideale etico, anzi propriamente sociale e politico; onde
l’intento principale diventa quello di trovare la giustificazione del suo
ideale nelle leggi della vita, e per esse nelle leggi stesse dell’
universo. l ( h Ora il suo ideale sociale e politico è in sostanza
quello stesso del liberalismo, in cui crebbe e si maturò il suo pensiero,
che era già compiuto e definito nelle sue parti quando uscì il
Prospectus; e perciò nel costruire la sua società di uomini giusti, per quel
che si attiene alla struttura sociale, egli non fa che supporre
realizzati i desiderati teorici, o già riconosciuti espres¬ samente, o
ricavati logicamente dai postulati economici e politici di quel liberalismo. Il
quale era bensì arditamente coerente nella affermazione dei
principi e dei corollari riassunti nella formula della giustizia (la
uguale libertà per tutti), ma conside¬ rava o come anteriori ed estranee
a questa legge, o come naturali ad un tempo e conformi ad essa, le
dive rsità storicamente date di condizione econ o- mica degli individui e
delle classi socia li. Onde Spencer non tenne conto della disuguaglianza
effettiva, che nell’ esercizio di quella libertà, formalmente uguale per tutti,
porta 1’ esistenza di quella diversità, che egli credeva giustificata
dalle leggi biologiche . 1 frinii. Ne segue che mentre nella sua
società ideale egli costruisce l’individuo giusto facendo
astrazione da tutto ciò che nei fini individuali vi può essere di
incompatibile non solo colla cooperazione, ma anche colla simpatia ; n el
costruire invece la società giusta fa ben s ì astrazione da ogni forma di
aggre ssione esterna e interna che si esercit i, dato lo stato di cose
stabilito, ma non fa astrazione da quelle con dizioni che importano una
reale limitazione diversa nella sfera delle attività é dei fini conseguibili
dei singoli; e però la sua non è una società giusto, ma una società di
uomini giusti; giusti, dirci, secondimi quid; la cui giustizia,
cioè, è modellata sulle esigenze di una certa struttura sociale,
nel configurare la quale egli non tien conto di quelle condizioni che pur
suppone soddisfatte nel formare il tipo dell’ uomo giusto. E cosi si
avvera qui una i n eoe ronz a del genere che si ò accennato più sopra:
che le norme della sua giustizia siano applicate a regolare delle
relazioni derivate, le quali esistono e sono possibili in grazia di
relazioni primarie e fondamentali, che le norme non contemplano e che
sono la negazione del criterio applicato in quelle. Perchè mentre suppone
che gli individui seguano nella loro condotta una perfetta imparzialità
subordinando alle esigenze della giustizia o dell’uguale libertà — fine
prossimamente supremo — tutti gli altri fini generali e particolari, suppone poi,
come proprie di una tale cooperazione di uomini giusti, condizioni
che sono in tutto o in parte la negazione dell’imparzialità, e che non
esisterebbero se lo stesso criterio dell’ imparzialità fosse seguito nel
costruire il tipo della società giusta. E in questo senso che,
accennando incidentalmente altrove all’etica assoluta dello Spencer, notavo
come un vizio di essa non un eccesso, ma piuttosto un difetto di
astrazione; perchè egli assuine abusivamente come esigenze costanti e
universali di ogni forma di CO-OPERAZIONE, e quindi anche del suo tipo
ideale, le condizioni proprie di un certo momento storico; e pone come
dati fon¬ damentali di una cooperazione regolata dalla legge della
uguale limitazione per tutti, delle condizioni che importano una
limitazione disuguale. Stando così le cose, il raggiungimento o l’approssimazione
a un tale tipo di società, non può apparire come fine universalmente
preferibile, nè le norme che esprimono la condotta richiesta da
quel tipo possono avere carattere di universale osservabilità sopra ogni altra,
E ciò da un doppio punto di vista. Agli individui delle classi
sociali poste, per effetto di quella disuguale limitazione, in condizione
di inferiorità, questa inferiorità che non è conseguenza della propria
condotta, deve apparire una menomazione ingiusta dei diritti; agli individui
delle, classi sociali poste in condizioni di superiorità, questa
superiorità, che parimenti non è conseguenza della propria condotta, deve
apparire, se la coscienza si elevi a una imparzialità universale e
coerente, una menomazione ingiusta dei doveri, E nasce di qui
quel se greto rancore in chi riceve, e quel senso indefinito di
malcontento e quasi di rimorso in chi dà, clic avvelenano talvolta
dalle sorgenti la simpatia, oscurando la serenità della beneficenza, se la
accompagni il dubbio che essa non sia se non un compenso parziale e
tardivo di ingiustizie patite e di ingiustizie godute. La
simpatia non può essere schietta dove non regna la giustizia; e non si
possono definire le forme e i limiti della beneficenza se non dopo
die siano definite, e siano o si suppongano osservate le norme della giustizia;
onde la necessità logica che il tipo ideale della società giusta
sia determinato all’infuori da ogni supposta efficacia modificatrice
che la SIMPATIA e la BENEFICENZA esercitino sulle condizioni e sulla condotta
dei singoli e della società. Soltanto così è possibile accertare se
il tipo di cooperazione assunto come ideale possa essere universalmente
desiderabile, e soltanto così è possibile determinare dove la giustizia
finisca e la beneficenza cominci; dove finiscano le relazioni di
diritto e dove comincino le relazioni di simpatia. Ora il tipo di società
ideale di Spencer pre- i cti'Qlf senta anche questo difetto che deriva
inevitabil-mente dal primo; di supporre realizzate le condizioni della perfetta
simpatia in una società nella [Questo si riflette con tutta
chiarezza nella pratica quando si tratta di rapporti semplici e sulla
giustizia dei quali non cada dubbio; poniamo tra due commercianti onesti
che abbiano relazioni d’affari e relazioni di amicizia. Dove gli scambi
di cortesie che sono frutto della simpatia, non mutano di un ette i
diritti e gli obblighi del dare e dell’avere; e se li mutano, oscurano e
tingono d’altro colore i rapporti di simpatia. quale non sono
realizzate le condizioni della giustizia. La sua società è una società più o
meno ingiusta di uomini perfettamente simpatetici ; dalla quale
egli ricava per un verso le norme della giustizia, e per l’altro le norme
della simpatia; invece di essere una società giusta di uomini
giusti, quando si tratti di determinare le norme della giustizia ;
e una società giusta di uomini perfettamente SIMPATIZZANTI quando si tratti di
determinare le norme della simpatia e della beneficenza. Ma anche
supposto che per questa guisa la perfetta simpatia venga a sanare gli
effetti delle inferiorità imposte dalla cooperazione sociale, il
tipo che ne risulta presenterebbe sempre questo difetto: che la ricerca e
il raggiungimento di alcuni dei fini, ai quali LA CO-OPERAZIONE serve,
apparirebbe per una parte dei COOPERANTI subordinata alla benevolenza di
un’ altra parte. Il qual difetto basterebbe per togliere, nel giudizio di una
coscienza imparziale, a quel tipo di CO-OPERAZIONE il carattere di
univers ale preferibilità. Ma il difetto era, come s’ò detto, dato
il presupposto Di Spencer, inevitabile. La simpatia è pe r lui il
mezzo di conciliazione dell’egoismo coll’altruismo. Ma poiché i limiti
rispettivi dell’egoismo e dell’altruismo sono segnati dalle esigenze del
suo tipo sociale, la perfetta simpatia è in ultimo la condizione
dell’adattamento psicologico dei singoli a queste esigenze. Ed ò caratteristico
a questo riguardo il latto che il capitolo, nel quale si tratta
dello svolgimento progressivo della simpatia come l’attore della
conciliazione, porta lo stesso titolo e sostituisce nei dati »il capitolo
smarrito e aggiunto poi in appendice, che ho citato più sopra, nel quale si
cita come esempio di conciliazione tra l’egoismo e l’altruismo
l’adattamento alle esigenze della vita sociale delle api e delle
formiche. Per questo rispetto direi, se non sembrasse un paradosso, che
il grande assertore e propugnatore dell’individualismo, è in fondo,
senza che se ne accorga, un difensore della subordinazione totale e
definitiva dell’individuo a un tipo di CO-OPERAZIONE sociale, che egli
considera bensì come la condizione necessaria alla vita più elevata dell’individuo
e della specie, ma che in realtà vincola il grado di elevazione della
vita di un gran numero se non di tutti gli individui, alle esigenze di
una certa struttura economica. E quando egli combatte l’intervento
della società nel regolare i rapporti economici, in nome dei
diritti dell’individuo, dimentica che una parte considerevole di quei diritti,
sono in realtà diritti di alcuni soltanto, e non di tutti, c che questa
disparità ha la sua radice nella costituzione economica, che lo stato,
come egli lo vuole, interviene pure a sancire e a difendere. La quale
osservazione, giova notarlo, non vale per sè nè prò nè contro il
cosidetto Socialismo di Stato. Vale soltanto a provare che
l’individualismo di Spencer non è, come pare, un individualismo
universale, ma un individualismo particolare. Cosi, i l difetto
capitale del tipo di società di Spencer come in genere del cosidetto stato
di diritto nasce non da quel che afferma, ma da quel che dimentica
; non dal riconoscere e difendere le esigenze della uguale libertà per
tutti, ma dal non riconoscerle tutte; cioè dal trascurare o dal1’omettere,
come se fossero soddisfatte, mentre non sono, le condizioni che rendono
possibile 1’ uguale libertà. E, ad esprimerlo in termini
kantiani, il difetto si riduce a questo.DOVE VI E CO-OPERAZIONE CON
EFFETTIVA PARITA DI DIRITTI, CIASCUNO DEI COOPERANTI HA AD UN TEMPO RIGUARDO A
QUALISIASI DEGLI SCOPI DELLA CO-OPERAZIONE, PER UN RISPETTO RAGIONE DI MEZZO E
PER L’ALTRO RAGIONE DI FINE. SE INVECE L’ESIGENZE DELLA CO-OPERAZIONE
INDERDICONO A QUASIVOGLIA DEI [Nota LORIA che quando si grida contro la
concorrenza come causa di una infinità di mali, si attribuisce alla
concorrenza la produzione di effetti che nascono dalla mancanza di
concorrenza, cioè dal monopolio. Perchè la concorrenza domina soltanto
nel campo innocente della circolazione, e qui ha una influenza
benefica. Mentre i mali lamentati nascono dalla distribuzione, e sono il
risultato, anziché della concorrenza che qui non esiste, della mancanza
di concorrenza fra lavoratori e capitalisti. (Cost. Ec. Odierna)] COOPERANTI la
ricerca di una parte dei beni, a cui E CONDIZIONE NECESSARIA LA
CO-OPERAZIONE DI TUTTI, per questa parte l’escluso ha soltanto RAGIONE DI MEZZO,
e *non* RAGIONE DI FINE. Il che avviene appunto, malgrado il
riconoscimento formale, o meglio, verbale, della uguale libertà, anche
nella società ideale di Spencer. La quale perciò non può aver valore di
universale e preminente DESIRABILITA perchè non soddisfa alla
condizione richiesta: che tutti i sodi trovino nelle condizioni di
esistenza della società la medesima o equivalente possibilità esteriore di
rivolgere la loro attività alla ricerca di QUALSIVOGLIA DEI BENI, AI
QUALI LA CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Questo è il POSTULATO CARATTERISTICO
DELL’UNIVERSALE DESIDERABILITA DI UNA FORMA DI CONVIVENZA, ossia è il postulato
caratteristico della GIUSTIZIA. E supporre una società giusta di uomini
giusti equivale a supporre riconosciuta e applicata universalmente e
costantemente in qualunque specie di azione o di influenza che si
eserciti, così dalla società come da ciascuno dei singoli, l’esigenza
di quel postulato. Ufficio e limiti (li una costruzione scientifica
dell’ Etica. LA SOCIETA GIUSTA così intesa non rappresenta dunque un tipo
definitivo della vita più elevata possibile, analogo ai tanti regni
dell’Utopia che la fantasia morale ò venuta fingendo nei diversi
tempi. Anzi per questo rispetto una maggiore o minore elevatezza, complessità o
intensità di vita, di attività, di fini, non ò affatto implicita
nel postulato nè si può ricavare da esso ; e si può concepire (e non ne
mancano in effetto gli esempi) una forma di società in cui sia, almeno
parzialmente l'aggiunto un grado assai elevato di civiltà, la quale
sia tuttavia meno giusta di un’altra più semplice e meno civile. Appunto
perchè la giustizia riguarda la universale possibilità di cercare i
beni, ai quali E CONDIZIONE la convivenza e LA CO-OPERAZIONE SOCIALE, e
non include che questi beni siano di molte o di poche specie, di maggiore
o di minor pregio. Onde è pienamente compatibile col postulato
anche la concezione pessimistica della vita ; perchè, anche dal punto di
vista del pessimismo, uno stato di giustizia, che è la condizione
necessaria della universalità della simpatia e quindi della compassione,
deve apparire preferibile a ogni altro. E se anche si riguardasse come
fine ultimo la negazione universale della volontà di vivere, lo stato di
giustizia apparirebbe la condizione più favorevole perchè 1’ uomo prenda
coscienza della necessità naturale c inevitabile della propria infelicità,
spongliandosi dell’illusione che essa sia occasionale e contingente, ed
effetto di malvagità degli uomini o di iniquità degli istituti sociali. E
QIESTA DESIDERABILITA dello stato di giustizia anche rispetto al
pessimismo è forse una conferma non trascurabile del valore di universale
preferibilità che gli si è riconosciuto, e a un tempo della sua
indipendenza da ogni particolare concezione metafisica. Adunque,
poiché uno stato di giustizia non è caratterizzato da altro se non
dall’ipotesi che le esigenze di quel postulato siano soddisfatte,
non si può nè si deve pretendere di ricavare dal postulato un contenuto
determinato, ma soltanto la forma generale delle norme. Il contenuto
specifico deve essere ricavato dai fini, ai quali SI RICONOSCE O SI
SUPPONE CHE LA CO-OPERAZIONE SOCIALE SIA O DEBBA ESSERE MEZZO, e in relazione
al quali si possano definire le condizioni richieste dal postulato
della giustizia. Quali siano questi fini non si può stabilire se non
o per constatazione o per ipotesi. Per constatazione, quando corrispondano alla
osservazione della realtà psicologica in un dato momento storico, ossia
in una forma di civiltà. Per ipotesi, quando si voglia cercare
preliminarmente quali sarebbero le condizioni richieste dalla possibilità
di ciascuno dei fini isolatamente preso o di un gruppo. Ed è inutile
a questo proposito insistere qui sulla eventuale opportunità o necessità
di ricorrere a tali ipotesi specialmente nelle ricerche, come
questa, nelle quali non è possibile la sperimentazione. Ma tanto
nell’uno quanto Dell’altro caso le condizioni che se ne ricavino e che
vengano stabilite come proprie del tipo di società giusta considerato,
presentano questo carattere : che non sono date, ma costruite, che non
sono reali, ma ideali. Ora, se noi determiniamo quali siano le norme
di condotta corrispondenti a quelle condizioni, queste norme
esprimeranno quale sarebbe il modo di operare nella supposizione che esse siano
già date e reali, e non quale sia il modo di operare che tende a
realizzarle, mentre sono date condizioni piu o meno diverse. La
prima determinazione è oggetto di un’etica pura: la seconda di un’etica applicata,
nella quale si consideri come fine il raggiungimento delle condizioni
ideali che sono assunte nell’ etica pura, e si stabilisca per
approssimazione quale sia in un dato momento storico la condotta sociale
e individuale, che, nei limiti necessariamente imposti dalle condizioni
reali date, ò più atta a favorire la trasformazione di queste nella direzione
segnata da quelle. Soltanto così l’Etica può evitare un errore
del genere di quello nel quale cadevano gli economisti della SCUOLA
CLASSICA; i quali, dopo aver supposto l 'homo oeconomicus mosso
unicamente dall’interesse personale, il che avevano diritto di fare, lo
considerarono poi come reale e die dero valore di leggi n aturali e
necessarie alle conclusioni ricavate da questo e dagli altri dati
astratti supposti. Ora appunto percliò le condizioni soggettive e
oggettive dell’ homo iustus e della societas insta, sono supposte e
non reali, le norme che esprimono quale sarebbe la condotta dell’ homo
iustus e della societas iusta non sono immediatamente nè integralmente
applicabili in condizioni diverse dalle supposte. I « doveri » e i diritti
dell’ uomo giusto nella società giusta non coincidono coi doveri e i
diritti dell’ uomo storico in determinate condizioni storiche; alla
stessa guisa che i diritti naturali dei filosofi dello stato di natura non
coincidevano coi diritti positivi delle società in cui vivevano. Ma
se si dà valore di fine all’attuazione delle condizioni proprie della societas
iusta, i doveri e i diritti 1 dell’ homo iustus diventano il modello al
quale si riconosce desiderabile che cerchi di avvicinarsi il
sistema di doveri e di diritti che vale come giusto in una società reale
data. Alla stessa guisa, se la costituzione di una società foggiata in
conformità all’ipotesi dello stato di natura e del CONTRATTO, si fosse
riconosciuta (con verisimiglianza maggiore ed evitando la confusione fra
giustifica¬ [Gide. Principes d’ éc. poi.] zione etica e spiegazione
storica) come fine da raggiungere invece che come stato originario, il diritto
naturale ricavatone sarebbe legittimam ente apparso come il tipo
idealmente giusto, al quale il diritto positivo doveva avvicinarsi e adattarsi.
Adunque/qu ando si eviti l’errore di scambiare i dati ipotetici coi
dati reali, c la pretensione utopistica di applicare direttamente e
integralmente le conclusioni ricavate dai primi alle relazioni che
sono imposte dai secondi A a ppare evi dente ad un tempo e la 1 (
frittimi t à della distinzione, e la priorità logica dell’Etica Pura surf mica
Applicata. Raccogliamo in breve i resultati dell’ analisi. Una scienza
normativa etica non differisce dalle altre scienze precettive se non pe
il valore, che si attribuisce al line suo: il quale deve essere desiderabile
univ ersalm ente jyjjma e a preferenza di ogni a ltro, se si vuole che sia
riconosciuto lo stesso carattere alle norme ricavate da esso. Questo
fine universalmente preferibile non nuò essere che un fine
relativamente prossimo, il quale (abbia o no anche valore per sè) sia
mezzo o condizione di tutti i fini che si considerano come ultimi; e
quindi non può essere che una forma di convivenza e di */ . amw Per maggiori chiarimenti sulla relazione fra
le due etiche cosi intese e sulle parti di ciascuna, mi sia lecito
riferirmi a quanto ebbi occasione di dire nei « Prolegomeni ecc. » già
citati. coopcrazione, nella quale 1’ universalità dei singoli possa
riconoscere tale requisito. Ma una società siffatta ò supposta, non
reale, e le norme di condotta che se ne ricavano regolano delle relazioni
che sono parimenti assunte per ipotesi, e non sono perciò applicabili
direttamente a relazioni più o meno diverse. Tuttavia la loro
determinazione è non soltanto utile, ma necessaria; necessaria dal
punto di vista scientifico alla determinazione delle norme che debbono
regolare le relazioni più complicate della realtà ; necessaria dal punto di
vista etico alla giustificazione di queste norme ; perchè esse sono
valide in quanto esprimono ravvicinamento, nei limiti del possibile, di queste
relazioni reali a quelle relazioni ideali. Il che viene a dire che
l’etica pura fornisce all’etica applicata il criterio per determinare le
norme, e il valore che le giustifica. Ma non bisogna dimenticare
che le norme, sia dell’etica pura, sia dell’etica applicata, hanno
il valore che si assegna a loro, nella ipotesi fondamentale che si accetti come
valido e fuori di contestazione il postulato della giustizia. Ossia hanno
valore se si suppone che OGNI socio RICONOSCA
che una forma di convivenza e di CO-OPERAZIONE nella quale ciascuno
abbia, quanto alle limitazioni esterne, valore di fine a pari titolo di
qualunque altro è preferibile a una forma di CO-OPERAZIONE nella quale
una parte dei <? socii » abbia, per uno o più rispetti, soltanto
valore di mezzo e non di FINE. Quindi, è bensì vero clic
l’assunzione di quel postulato è la condizione necessaria all’
universale riconoscimento della norma, e clic perciò, se si pone
come caratteristica della norma morale 1’universalità, rinunciare a quello vuol
dire rinunciare a questa ; ma ciò non toglie che si debba affermare
chiaramente e senza sottintesi che il sistema di norme per tal guisa
stabilito ha, come qualunque altro sistema di norme, del quale si
richieda una giustificazione, valore ipotetico; e che perciò questo
valore ò incontestabile solo in quanto si riconosce incontestabile il
postulato. Appare di qui che è vano e illusorio cercare la
giustificazione di una norma morale nelle leggi | naturali. Perchè ciò
che giustifica una norma di condotta non è la naturalità, ma LA
DESIRABILITA dell’ effetto contemplato ; e le leggi naturali stesse
possono apparire giuste od ingiuste secondochè si assumano come
universalmente desiderabili o no i resultati, ai quali la conformità
della condotta' fi 1 affo irafic-li itr [v yJ.tA ttfilk t**'
he* ìtU 'o jqie j. La conoscenza delle leggi naturali suggerirà i mezzi
necessari a raggiungere un fine; e darà modo di giudicare della come-
yuibìlità di questo o quel fine che eia proposto ; ma non serve a dar
valore di universale DESIRABILITA a un ordine di effetti, per il solo
fatto che ce ne riveli la produzione « naturale » a quelle leggi conduce, o ò
creduta condurre. Può essere vero (e non è da discutere qui) che
l’essere o no un ordine di effetti desiderabile (ossia, in ultimo,
l’essere o no presenti ed efficaci nella coscienza umana certi bisogni, desideri,
aspirazioni, credenze), sia un portato necessario della natura
stessa delle cose e dell’ uomo, e che le tendenze umane, si siano, rebus
ipsis dictantibus, modellate cosi da condurre a riconoscere nella
osservanza delle leggi naturali un valore di giustizia e di bontà;
ma anche in questo caso non ò la naturalità, che ne fa ammettere la
giustizia e la bontà, ma è la loro, diretta o indiretta, desiderabilità.
Onde per questo rispetto nulla vieta che si concepiscano possibili,
almeno teoricamente, più Etiche diverse; possibile, per esempio, (sebbene
l’accoppiamento esplicito dei termini ripugni) un’Etica dell’ingiustizia,
quando si assuma come postulato la prefe- ribilità di una comunione
sociale in cui una parte non abbia che diritti e un’altra non abbia che
doveri. Benché allora 1’etica si sdoppierebbe in due etiche diverse, anzi
opposte: l’etica degli uomini-fini e l’etica degli uomini-mezzi; o, per usare
le parole del Nietzsche, la,orale dei padroni e la morale degli
schiavi; e la medesima condotta sarebbe, seguita dagli uni, giusta, seguita
dagli altri, ingiusta. Che una giustizia di questo genere ripugni alla
psiche del socius per una ragione analoga a quella per la quale ripugna
alla psiche dell’ uomo logico ammettere che un rapporto tra due cose
o fatti, sia vero per gli uni, e falso per gli altri, è credibile;
(sul presupposto di quella ripugnanza, si fonda, io credo, la
giustificazione etica della coazione e delle sanzioni). E certamente
rimane aperto qui un campo ulteriore di indagini intorno ai
problemi che riguardano il come e il perchè il postulato che assumiamo
possa e debba essere accettato ; e se alla esigenza che esso esprime si
possa o si debba assegnare un ufficio, e quale, nella
interpretazionetotale del mondo, dell’ uomo e della storia. Ma da queste
indagini, le quali sono di natura metafisica, la costruzione scientifica
dell’Etica, come qui fu abbozzata, può e deve tenersi indipendente, per
una ragione analoga a quella per la quale l’igiene è e si mantiene
indipendente da ogni questione intorno al fondamento e al valore del
postulato assunto da lei, e dal quale deriva il valore normativo dei suoi
precetti: che un organismo sano sia preferibile a un organismo malato. Perciò,
finché si rimane nel campo della ricerca scientifica, la sincerità richiede
che, anche nell’etica, malgrado ogni interiore certezza, questa
condizionalità del valore delle norme sia esplicitamente riconosciuta, e che
anche nei termini si eviti 1’equivoco, e fin dalle parole sia bandita
ogni pretensione a un valore che non sia condizionato al
presupposto assunto. Per questa ragione, oltreché per fissare
rispetto alla dottrina di Spencer le differenze notate nel modo di
intendere il fine, e di concepire la società giusta e 1’uomo giusto,
e la priorità non soltanto logica ma giustificativa di un’etica rispetto
all’altra, LUa p«A* è conveniente, sostituire ai termini Etica
Asso- ‘fvulfyh luta ed Etica Relat iva » i termini « Etica P ura
V'.',:r, ì ' pvi n l iuta i v a » i ieri mmi « e~=r . 1
", della giustizia ed etica applicata della giustizia. (^ 3
; n*fac- E se tosso poi, c'Sfne~r _ l n effetto, necessario od
'GlfiULiffil opportuno determinare quali dovrebbero essere le norme di
condotta nell’ ipotesi che, osservate preliminarmente le condizioni della
giustizia, fosse assunto come fine l’adempimento delle condizioni
richieste dalla universale solidarietà, si avrebbero due ulteriori sezioni
dell’Etica: l’etica pura della simpatia e l’etica Applicata della SIMPATIA. A
leggere questo titolo, quelli che VARISCO chiama felicemente i filosofi dell’
oramai e quegli altri che si potrebbero chiamare i girasoli della
filosofia (i due tipi coincidono in parte, ma non in tutto) c’è da
scommettere che sorrideranno. Non è oramai pacifico che di una
scienza della morale non si può parlare? E vale la pena di perdere
il tempo attorno a un problema oltre-passato? Io mi rassegnerò a lasciarli
sorridere; ma non son persuaso dell’oramai, e trovo che il problema
è tutt’ altro che superato. La quale persuasione per altro non garantisce
nulla, pur troppo, rispetto all’ altra faccenda del perder tempo; perchè
il tempo si può perdere, e far perdere, come sappiamo benissimo tutti,
anche trattando di argomenti non oltrepassati. Dico dunque che il problema,
almeno nel modo nel quale credo che debba essere posto e ho cercato di
porlo, è più vivo che mai e di interesse capitale così per l’Etica come
per la Filosofia del diritto. E chiedo scusa fin da ora al lettore se
dovrò, richiamandomi a cose già dette, parlare, più spesso che le buone
regole non consiglino, in prima persona. Quando sostengo la
possibilità e la legittimità di una scienza normativa morale, non intendo che
una tale scienza possa o debba
sostituire la metafisica, e bandirla proprio da quel campo che è il vero
vivaio dei problemi metafisici, il campo delle idee e dei sentimenti
morali. E nemmeno che possa pretendere di costruire la morale, l’unica
vera morale erigendo a norme della condotta certe leggi naturali cosmiche,
o biologiche o psichiche o sociologiche o storiche, alle quali si
presuma di dare valore imperativo. La tesi che ho sostenuto e sostengo è
diversa. Una scienza normativa etica, non può, al pari di qualsivoglia
scienza precettiva, consistere in altro che in u n sistema di relazioni e di
legg i, le quali hanno valore di norme da seguire nell’ ipotesi che sia
assunto come fine quel- F effet to o quell'ordine di effetti, del quale
esse ’-ggi esprimono le condizioni e i fattori. Ma dibosco dalle altre,
perchè s uppone che al fine suo [MJLjcTalfA Ò)lCJUjLt>
'ittl, del quale esse ’Sl'Kp tkf si a rico n osc iuto un valore di
universale pref eribilità e precedenza sopra ogni altro fine. Perciò
una determinazione scientifica di norme etiche richiede due condizioni. Che
il fine sia umanamente possibile; cioò tale che se ne possa stabilire la
dipendenza condizionale da una certa forma di condotta collettiva e
individuale. Di qui dipende il carattere scientifico della costruzione
; perché la relazione che lega le norme con quel fine potrà essere
lunga, complicata e difficile, ma non richiede ad essere conosciuta altri
mezzi che quelli di una indagine scientifica. Che sia ammesso
come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di universale
preferibilità e precedenza rispetto a qualsivoglia altro fine umanamente
possibile, è un 'esigenza morale. É ovvio di per sè che se si ricusa di
ammettere questo postulato o se ne nega la legittimità, la determinazione
delle norme di condotta richieste dal fine contemplato non perde nulla del
suo carattere scientifico; ma le norme non hanno valore morale. Ossia,
il valore morale delle norme così ricavate ò relativo alla accettazione
del postulato; e la derivazione scentifica di un sistema di norme dal
fine in discorso non ò, a rigor di termini, la scienza della condotta
morale; ma la scienza di una certa condotta; la quale è la condotta
morale, se si ammette e in quanto si ammette quel postulato. Ma è
altrettanto ovvio che non avrebbe senso, o sarebbe al tutto arbitrario e
fuori di proposito, l’attribuire in ipotesi al fine un valore che nessuno
fosse disposto a riconoscergli, e assumere come Ua esigenza morale
una esigenza che non trovasse nella / r f>' r \ c < ’• ' a •
fi «.e realtà nessuna corrispondenza. Ed è perciò che ho cercato di porre
in chiaro in primo luogo quale fosse l’esigenza caratteristica del valore
morale di una norma; poi, se si potesse assegnare un fine umano, e
quale potesse essere, che rispondesse a queste condizioni. Non è il
caso di ripetere il già detto; qui ne ricordo soltanto le conclusioni:
che l ’esigenza che assum o, e, credo aver dimostrato, legittimamente, come
caratteristica di una norma morale ò quella di una universale giustizia; e che
il fine che soddisfa a questa esigenza non può essere che una forma
di società umana tale, che tutti i sodi trovino nelle sue stesse
condizioni di esistenza la medesima o equivalente possibilità esteriore
di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei BENI AI
QUALI LA CONVIVENZA E CO-OPERAZIONE SOCIALE E MEZZO. Supponendo dunque
ammesso il postulato sopra detto, non ho fatto e non faccio una
ipotesi arbitraria; poiché l’esigenza della giustizia, alla quale il postulato
fa appello, è la più profonda e più tenace e più incoercibile
dell’uomo in quanto è socius, cioè in quanto è soggetto di moralità
e considera se stesso, ed è considerato, come persona a pari titolo di
ogni altro socio. Mi riferisco, qui e nel corso di questo scritto, a
quello clie che lo precede nel presente volume, e a un altro studio:
Prolegomeni a una morale indipendente dalla metafisica, Pavia, Bizzoni. Tuttavia
per quanto possa parere ed essere legittimo prendere per concesso qu esto
postulato, non bisogna dimenticare, ma anzi importa rilevare chiaramente,
che il fine e le norme corrispondenti hanno quel valore che si
attribuisce a loro, soltanto nell’ ipotesi che lo si accetti come valido
e fuori di contestazione. Se non 6 ammesso, ò vano pretendere
clic la costruzione normativa valga a farlo accettare o possa
obbligare ad accettarlo. Essa non può che mostrare la coerenza delle
norme proposte col fine assunto, e di questo colla esigenza della
giustizia; e mostrare con ciò che non si può ragionevolmente
ammettere questa esigenza senza ammettere il valore di universale priorità
attribuito al fine, e quindi alle norme. Ma che l’esigenza invocata
sia ammessa in realtà, o sentita come tale, ò un dato di fatto che
la costruzione normativa trova, se c’è; ma che non pone essa, ne per sò
vale a mutare. Adunque la scienza normativa morale così intesa si
riduce alla determinazione delle norme di condotta valide per una
coscienza che anteponga a ogni altra esigenza l’esigenza della universale
giustizia. Se in ipotesi volesse determinare le norme di condotta per una
coscienza per la quale valga come suprema l’esigenza egoistica, le norme
risulterebbero diverse. Ma il procedimento sarebbe il medesimo; la
deduzione sarebbe, o si può concepire che potrebbe essere,
ugualmente ragionata e scientifica. E del pari se si assumesse come
regolatrice l’esigenza dell’abnegazione o della rinuncia incondizionata
di sò agli altri, o qualsivoglia altra esigenza e un fine possibile corrispondente. Di
qui si vede quanto sia superficiale c vuota di significato l’opinione
tante volte ripetuta, e che forma quasi il leitmotiv di un’ opera che ha
latto gran rumore, che la ragione non ci comanda che l’egoismo. La
ragione per sè non comanda nulla. NE L’EGOISMO NE L’ALTRUISMO -- nè la
giustizia. La ragione cerca, e mostra, se le riesce, i mezzi che
servono a conservar la vita a chi la vuol conservare, a distruggerla a chi la
vuol distruggere; addita ai pietosi le vie della pietà, ai giusti le vie
della giustizia, e le vie del proprio tornaconto agli uomini senza
scrupoli. Ma l’egoismo non 6 per sè più razionale dell’altruismo, nè il
regresso più razionale del progresso, nè la conservazione dell’individuo
più razionale di quella della specie, nè 1’ utile proprio più razionale
che 1’ utile della collettività. RAZIONALI NON SONO I FINI, MA LE
RELAZIONI DEI MEZZI AI FINI. Ed è così ragionevole che dia la -- Dire che
la ragione non consiglia che l’egoismo equivale a dire che una condotta
non egoistica non si può RAGIONEVOLMENTE GIUSTIFICARE. Ossia viene a dire una
di queste due cose : 0 che di un fine non egoistico non si possono
assegnare mezzi possibili, e vita per un’idea chi pregia più l’idea che la
vita, come che taccia la verità per un ciondolo chi ama più i ciondoli
che la verità. Ma forse dicendo così si è ancora giusti verso la
ragione. Perchè se ciò che si chiama uso della ragione può avere, come
non dubito che abbia, una efficacia indiretta nella valutazione dei fini,
non è dubbio che questa efficacia si esercita in favore di quei
fini e di quelle norme che rispondono alla quindi non si può
determinare quale sia la condotta atta a raggiungerlo; cioè che si tratta di un
fine fuori di ogni efficienza umana. E in questo caso non ci sarebbe
senso a proporlo come fine dell’operare nè in nome della ragione nè in
nome di qualsivoglia altra cosa, dal momento che qualsiasi condotta
sarebbe rispetto ad esso indifferente. Oppure che un fine non egoistico
non è mai fine per sfi, ma ha bisogno di essere giustificato da un fine
egoistico al quale sia mezzo o condizione. Ma il valore per sè di questo
fine egoistico ultimo, al quale si riporta la giustificazione, non può
essere alla sua volta giustificato, ma deve essere un dato di fatto reale
o supposto; il quale dunque, appunto per ciò, è fuori di ogni
ragionamento. E il vero senso dell’ affermazione in discorso è allora non che
la ragione consiglia l’egoismo; ma che gli uomini sono tutti e sempre e
inevitabilmente egoisti (poiché i fini ai quali soltanto riconoscono
valore per sè sono fini egoistici); e quindi, finché sono e rimangono
egoisti, non possono trovar ragionevole altra condotta all’ infuori di
quella suggerita dall’egoismo. Sapevhm- celo ; ma non vuol dire che l’essere
egoisti sia più ragionevole die il non essere. D’altra parte, posto
che gli uomini fossero inevitabilmente egoisti, anche il precetto o il
consiglio di non seguire la ragione, dovrebbe, per avere valore pratico,
fare appello in ultima istanza a in fine egoistico, nè più nè meno di quel che
farebbero nello stessè caso i consigli della ragione. Con questo bel risultato
: che gli uomini rinuncino ad essere ragionevoli per continuare ad essere
egoisti. tendenza caratteristica dell’attività razionale: l’universalità.
Ora nel campo dell’attività pratica il fine del quale soltanto si può
concepire universale il raggiungimento, e la norma, della quale soltanto
si può concepire universale l’osservanza, sono un fine e una norma
conformi all’esigenza della giustizia. Ma, tornando al nostro argomento, anche
il riconoscere che il fino e le norme determinate in conformità al
postulato hanno, e possono avere essi solamente, la nota razionale
dell’universalità, non ne toglie il carattere necessariamente e
insuperabilmente ipotetico; perchè se il loro valore si fa dipendere da
questa loro universalità, si prende per concesso che l’universalità sia
assunta come criterio di valutazione; ossia che dell’esigenza ra- [Son
trovo che si sia dato il peso dovuto alla considerazione che non solo
l’egoismo, ma neppure l’altruismo può fornire una regola di condotta, che
si possa concepire nei rapporti tra gli uomini universalmente e costantemente
osservata, senza contraddizione, o senza che sia necessario supporla
subordinata alla sua volta a una norma di giustizia. Perchè sia possibile
l’abnegazione e la rinuncia incondizionata di sè agli altri, bisogna che gli
uni si sacrifichino, e gli altri o qualche altro accettino il sacrifizio;
cioè che gli uni seguano la massima dell’ altruismo, e gli altri o qualche
altro quella dell’egoismo. Se poi si ammette che nessuno debba poter
sacrificarsi piu di un altro, (oltreché il sacrifizio si riduce a un
tacito SCAMBIO DI SERVIGI RECIPROCI), bisogna che la condotta altruistica di
ciascuno non impedisca o limiti una pari condotta altruistica degli altri ;
cioè bisogna che 1’ altruismo alla sua volta sia governato da una norma
di giustizia. zionalc e teoretica dell' universalità la coscienza
faccia una stima pratica, attribuendole un valore e un’ autorità superiore
ad ogni altra esigenza. Concludendo: la scienza normativa etica,
alla quale mi riferisco, è la scienza della condotta richiesta da un fine
conforme all’ esigenza detta. Se si riconosce come caratteristica del
valor morale di un fine e delle norme che ne dipendono una esigenza
diversa, o se si pone come congruo ad essa un fine incongruo, o si
assumono come condizioni conformi all’esigenza di una universale giustizia
delle condizioni clic negano o limitano questa universalità, le norme
riconosciute e accettate come morali saranno diverse. Ma non
concluderebbe nulla contro la tesi che difendo l’opporre che le norme o
alcune delle norme in effetto tenute o seguite come morali sono
diverse o contrarie a quelle proposte e ricavate in conformità al
postulato assunto. Perchè qui non si tratta già di esporre (piali sono le
norme accettate, o di farne l’apologia ; nè di cercare che cosa bisogna
ammettere per accettarle; ma di determinare quali sarebbero le norme
della condotta morale nell’ipotesi che si accetti il postulato. Insomma si
fa un’ ipotesi e si cerca che cosa ne segua. Ma per negare valore
scientifico a una tale costruzione ipotetica bisogna negare la
dipendenza condizionale del fine assunto da una certa condotta collettiva
e individuale; e per negarle valore morale, bisogna negare il valore morale
dell’esigenza, o ammettere che essa è o dove essere subordinata a un’esigenza
diversa. Finché non si giustifica nè l’una nè l’altra negazione, il
dichiarare oltrepassato il problema vale poco; e il sorridere vale anche
meno. Perchè esponendo questo concetto io non mi sono dissimulato le
difficoltà e le obbiezioni possibili; sopratutto quelle che fanno capo alla
affermazione comune della impossibilità di una determinazione di norme morali
che non si fondi sopra una dottrina metafisica. Questa questione anzi
ho esaminato di proposito, e le conclusioni di quell’analisi non furono
confutate. Avrei dunque, « in tesi di diritto » ragione di ritenere
spostato l’obbligo della prova. Ma nel fatto, come tutti sanno, ò
sempre chi dissente dalle opinioni stabilite che ha torto; e deve
rassegnarsi a battere e ribattere per tutti i versi lo stesso
chiodo. E prima di tutto occorre qualche parola su quella che si
potrebbe chiamare la tesi scettica, [Che essa possa e debba aver valore
anche dal punto di vista del diritto è cosa evidente; ma come c quanto
non sono questioni da risolvere cosi di sfuggita. della impossibilità
di una qualsiasi determinazione di norme morali. Il fatto etico è
contingente, multiforme e variabile in ogni circostanza, e sfugge ad ogni
tentativo di determinazione razionale. Oltredichè esso dipende dal
sentimento e dalla volontà e non dalla conoscenza, e non si può ricavare
da un processo di deduzione logica. Questa tesi ha il grave torto di
confondere la morale colla moralità; confusione sulla quale dovrò
tornare anche più innanzi. Il fatto etico e variabile. Certamente. E
il fatto giuridico, che ò una specie dell’ etico, non ò esso pure
variabile? E forse perciò non si stabiliscono nonne giuridiche determinate e
precise, e non si considera questa determinazione come un’esigenza della
vita sociale, e non si misura dalla sua precisione e coerenza il
progresso della vita e della coscienza giuridica? E non è un luogo
comune la lode fatta a ROMA di MAESTRA DEL DIRITTO? Non si venga a
dire che il fatto giuridico riguarda solo la non, come la morale,
anche e sopra tutto la interna ; qui si fa questione, anche per la
morale, appunto, della condotta ester na, nella quale la moralità interiore
deve pur tradursi; ed è assurdo dire, per esempio, che non ha senso
il precetto non frodare, e vano cercar di determinare in che la frode
consista, perché la frode è, forse più che qualunque altra cosa al mondo,
contingente multiforme e variabile. È pur fuori di dubbio che l’operare
in un modo piuttosto che in un altro, dipende dal sentimento e dall
a volontà, e non dalla co noscenza del precetto; e che non si può dedurre da
nessuna combinazione di premesse l’azione. Nessun congegno di premesse,
nessun processo logico, nessun sistema di conoscenze pone in essere la
benché minima cosa; .A}* VcttmaJ. ’l| conseguenza di un ragionamento ò
sempre fin giudizio, non un’azione; nella morale come in qualunque
altro campo; l’azione., potrà.. o non potrà seguire, secondo che le
disposizioni sentimentali c. volitiv e sono tali o tali altre; potrà
anche seguire senza che ci sia il giudizio. Verissimo e
giustissimo. Ma non conclude nulla al proposito. Perché qui è
questione non di fare, ma di sapere quel che convenga fare, chi si proponga e
ammesso che si proponga un certo fine. Ora lo stabil ire queste relazioni tra
un certo fine e certe operazioni necessarie a raggiungerla é ufficio
della conoscenza, non della volontà ; e io spero che nessun voluntarista
vorrà sostenere che è indifferen te a chi vuol andare, poniamo, a
Canossa, conoscere quale sia la strada per arrivarvi. E il dire che non è
la conoscenza nè di un certo effetto, nè dei mezzi, ciò che fa volere
l’effetto e volere i mezzi, non toglie nulla all’ufficio specifico della
conoscenza; anzi, e appunto perciò, lo determina. E rimproverare a un
sistema di norme di essere per sè inefficace a muovere l’azione non ha
senso ; come non avrebbe senso pretendere che una formula chimica produca essa
il composto del quale indica la combinazione. L’ ufficio delle norme
morali, come di ogni altro sistema di norme qualesivoglia, non può essere
che un ufficio informativo, non formativo ; di guida, non di stimolo, di
indicatore, non di propulsore. E quelli che adducono, per mostr are l a
inanità di una costruzione norma tiva, l a dipendenza dell’ azione dal se
ntimento e dalla volontà, non si accorgono di confondere essi il
conoscere coll’operare, cioè, come' s’è detto, la ni qrfllo nnIlp mo
ralità, la determinazione_delle norm e colla c onformità alle norm
e. Senonchò si può soggiungere che la determinazione in questo campo non
serve, perchè la conoscenza delle norme si sprigiona volta per volta come
da sè fuor dalle circostanze, per un intuito naturale che è più fine e
delicato di qualunque deduzione scientifica. E così viene in campo,
accanto alla tesi dell’ impossibilità, quella dell’ inutilità: l a cos
cienza morale rende inutile la dottrina morale. Lasciamo per ora la difficoltà
capitale che nasce dal fatto stesso da cui è nata la riflessione
critica della morale: il fatto della diversità di contenuto nelle
coscienze morali diverse; e poniamo — senza concedere — che 1’intuito
basti per tutti e sempre a segnare caso per caso la via. Non ne
seguirebbe ancora l’inutilità di una ricerca che si proponesse la
determi nazione sistema tica del fine a cui .intuiti vamente tend e e delle
norme che intuitivamente segue la coscienza morale. Come la guida
istintiva dei bisogni (^feUe^enTazioni non basta a rendere inutile
l’igiene; o come non basta a condannare la conoscenza fisiologica, per
esempio, della digestione, il fatto che digeriscono bene, anzi di solito
digeriscono meglio, quelli che non sanno di quelli che sanno come la
digestione avvenga. E veniamo alle obbiezioni che toccano direttamente la
nostra tesi. In primo luogo si può osservare che la p retesa scienza
della mora le, nell’ atto stesso che dichiara di voler tenersi estranea a
qualunque affermazione di carattere metafisico, presuppone una certa
soluzione di un problema essenzialmente metafisico. Perchè, assumendo come fine
morale un ordine di effetti umanamente possibile, pone come
risoluto il problema se il fine supremo possa o debba essere umano o
sovrumano, relativo o assoluto; risolve cioè, sia pure negativamente, un
problema metafisico. Cerchiamo di intenderci. Si supporrebbe
risoluto il problema, se assumendo un fine (diciamo per brevità)
umano, si ponesse questo fine come ultimo assolutamente, come definitivamente
supremo; cioè se gli si assegnasse un valore assoluto ; e si negasse la
possibilità di una ulteriore valutazione del fine stesso; di una
sopravalutazw We^Tciafisica, per la quale sia creduto mezzo alla sua
volta, o condizione o preparazione di un fine sopraumano. Ma questa
possibilità 1’ipotesi non la esclude. Si dirà che in tal caso il fine
umano non è più il vero fine; e che perciò le norme debbono
essere ricavate da quello a cui si dà davvero valore di fine ultimo,
valore assolutamente, non relativamente, supremo; e che questa necessità
riporta il problema della determinazione delle norme in piena metafìsica.
Ma è questo che io nego ; e dichiaro di non capire come da un fine
assoluto si possano ricavare delle norme per la condotta in condizioni
finite, da un al di là le norme per un al di qua; e dubito che
quelli i quali dichiarassero di capire, equivochino sui termini. Perchè non si
potrà mai dimostrare un legame di condizionalità tra un certo modo di
operare o un fine sopra naturale; essendo il proprio e caratteristico del
sopranaturale c del sopraumano di esser fuori dalla efficienza
naturale e umana. Se si considera il fine sovraumano come un
effetto che può essere condizionato da mezzi puramente umani esso cessa di
essere sovraumano (Urmson, Saints and heroes). Ma se invece rimane tale, cioè
trascende la efficienza umana, si potrà bensì credere ed affermare che a
raggiungerlo si richiede una certa condotta, ma non si può assegnare una
relazione di condizione tra la condotta ed il fine, cioè non si può
ricavare dal fine la norma. La riprova si ha nel fatto, evidente ad ogni
osservatore non del tutto superficiale, che, anche nei sistemi di morale
teologica o metafisica, quando si tratta di determinare le norme che
debbono regolare la condotta nelle relazioni della vita comune,
famigliare e sociale, non è più il fine assoluto quello da cui si
deducono le norme, ma un fine umano, sia prossimo, sia remoto; un certo
ordine e un certo tipo di vita individuale e sociale. Le norme dedotte da
questo fine subordinato si presentano bensì come derivate aneli’esse dal
fine assoluto, perchè si assume quello come posto o voluto o necessitato
da questo ; ma in che modo dal fine assoluto si ricavi il fine relativo,
come e perchè, per raggiungere o approssimarsi a quel fine sopraumano,
sia necessario tendere a questo fine umano, non si dimostra nè si può
dimostrare. E quando par che si dimostri, gli è che si è assunto
tacitamente e come incorporato in modo surrettizio nel fine assoluto il
fine relativo, che poi se ne deriva ; cioè in ultima analisi non si è
fatto altroche porre o assegnare un valore sopraumano al fine umano;
ossia si è fatta (fucila che ho chiamata una sopravalutazione metafisica di
quel certo fine umano dal quale in realtà sono ricavate le
norme. Non è dunque vero che assumendo un fine umano si risolva, o
si postuli una certa risoluzione di un problema metafisico. Non si la che
ubbidire a una esigenza, la quale sussiste sia che si risolva
positivamente, sia che si risolva negativamente il problema intorno alla
natura del fine assolutamente ultimo o supremo; un’esigenza logica alla
quale non si può sfuggire: che un sistema di norme di condotta
individuale e sociale non si può stabilire se non in relazione a un certo
fine, esplicitamente o implicitamente assunto, che dipenda
condizionalmente dalla condotta, cioè che sia umanamente
possibile. Ma non è un’altra esigenza, un’ esigenza propriamente
morale, che il fine abbia un valore assoluto e non soltanto relativo? Non
discuto se sia o non sia; perchè si tratta in ultimo di constatare un
fatto di coscienza, e per la constatazione di un fatto la discussione non
approda. Poniamo che sia. Forsechè le dottrine che pon gono un fine
assoluto fanno qualcluTco^ ~~di meglio che postulare la possibilità di
quel fi ne e postularne il valore ? Cioè supporre che quella possiljilità
e questo valore siano dati nelle intuizioni o nelle credenze, dalle quali
li prendono, per dir cosi, a prestito, e sulle quali fanno assegnamento? E
se è cosi, e non può essere altrimenti, se la credenza nel fine e il
riconoscimento del suo valore assoluto, e la derivazione da esso del (ine
o dei fini relativi della vita finita, non possono essere dati o
fondati dalla dottrina, ma soltanto assunti o affermati, è facile vedere
che la dottrina vale per la coscienza clic la sente e, direi, la vive
già, e che accetta l’affermazione perchè la trova corrispondere a ciò che
è già dato in lei stessa; ma non vale essa, la dottrina, a far accettare
queste sue affermazioni a una coscienza che intuisca e senta c
creda diversamente. La costruzione dottrinale metafisica non riesce
dunque clic a fare appello a un a intuizione o a una v alufazio ne di cui
ammette o suppone 1’ esistenza, ma n on a farla sorgere dove manca
; e quindi, di fronte a una coscienza diversa da quella che essa suppone,
si trova nella stessa condizione della costruzione non metafisica.
Cioè vien meno alla ragione per la quale il valore assoluto del fine è
richiesto. Questa ragione, se il valore assoluto del fine non è già
assunto come una constatazione di fatto, consiste nella pretesa illusoria
che la dottrina possa e debba assicurare per questo modo alle norme
una validità universalmente riconosciuta; e nasce da una preoccupazione
pratica analoga a quella dalla quale è ispirata l'altra pretesa che l’etica
dia alle norme autorità imperativa. Ed eccoci all’argomento capitale:
1’esiggenza del carattere imperativo della norma. Ho già ripetutamente
segnalato l’equivoco sul quale si fonda la pretesa esigenza
dell’obligatorietà della norma morale. È in fondo il medesimo già
notato più sopra a proposito della istanza sulla inefficacia della
conoscenza a determinare l’azione; l’equivoco di con fondere la morale
colla moralità, la norma col la conformità alla norma: e quindi di
pretendere da una dottrina quello che nessuna dottrina nè metafisica nè
non metafisica può dare: la garanzia dell’osservanza, cioè 1’efficacia
esecutiva. Il linguaggio favorisce anche qui il persistere dell’errore; e
l’uso di definire l’etica la scienza o la dottrina dei doveri,
contribuisce a ribadire il preconcetto. nato dalla preoccupazione pratica,
che compito di una dottrina morale possa o debba essere quello di
costruire o fondare delle norme obligatorie. Mentre l’etica, dico qualunque
dottrina etica, non può fare altro che dedurre, o indurre, o
comporre a sistema, delle norme o ilei precetti, i quali hanno valore di
doveri, se e in quanto la coscienza concepisce, o meglio sente e vuole,
come dovere, l’osservanza dei precetti stessi, o la prosecuzione del fine
(o dei fini) dal (piale quei precetti Yi (yivuni l&u
vuxnrib I nei — sono derivati. E se anche tutte le coscienze
universalmente, in ogni tempo e luogo, concordassero nel sentire come
obbligatoria 1’ osservanza di una certa norma, non per questo si potrebbe
dire che l’imperativo è un carattere della norma ; l'imperativo sarebbe
sempre anche in questo caso un carattere del motivo che spinge all’ osservanza
della norma; un dato della coscienza che la abbraccia, che la
riveste e la investe di questo motivo, clic la sente così. Quale sia
la preoccupazione pratica da cui nasce e si alimenta il preconcetto, e.
quale, sia il processo per cui si viene ad assegnare alla costruzione
normativa un compito al quale essa non può soddisfare in nessun modo, ho
pure già cercato di mostrare altrove, e non serve di ripetere. Piuttosto
non mi par privo di interesse mettere in chiaro con 1’analisi come i
modi, nei quali può essere interpretato e tentato il proposito di fondare una
norma obbligatoria si riducano a postulare l’esistenza
dell’obbligo, quando non riescono a una forma più o meno larvata di IMPERATIVO
IPOTETICO. E come poi, per il verso opposto, assumendo l’imperativo
categorico per dato o postulato, non se ne possa ricavare la
determinazione delle norme; ma si richieda perciò l’assunzione espressa o
sottintesa di un fine, o di un criterio di valutazione e derivazione,
estraneo e indipendente da quello. Il compito di assegnare una norma
che abbia autorità obbligatoria può essere, e lu in effetto, inteso in
più significati diversi; i quali si possono ridurre ai quattro tipi
seguenti. Dimostrare che la norma proposta corrisponde a un sentimento, a un
motivo, a una disposizione che si manifesta nella coscienza come obbligo. Allora
il senso reale ò, non già che la do ttrina dia essa autorità o
bbligatoria alle su e norme; bensì questo: che essa riduca, traduca
o formuli in norme i modi di condotta ai quali la coscienz a si
sente obbligata. Ma così la categoricità del precetto è constatata e
assunta, non posta, nè fondata dalla dottrina; e la norma obbliga solo
se •ed in quanto i suoi comandi ripetono i comandi della coscienza;
il suo tono imperativo è un’eco, e vien meno se tace la voce della quale
assume il tono. Presentare le norme come ordini di un Potere
(qualunque ne sia la natura) irresistibile, che costringe volenti e
nolenti a seguirlo. Intesa così l’autorità non viene nò dalla natura
delle norme, nò da quella del fine a cui sono ordinate, ma da quel
Potere del quale l’Etica fa, per dir così, la presentazione; anzi il suo
ufficio si riduce in realtà a quello di interprete ed araldo di quel
Potere ; che essa non pone, ma a cui là appello, e che suppone sia
riconosciuto dalle coscienze alle quali parla in nome suo. Ad ogni
modo l’espressione analizzata, se si usa ad indicar questo ullìcio, è del
tutto abus iva; l’espressione esatta ò questa: compito dell’Etica ò
di determinare quale sia la legge imposta da quel potere indis cutibile e
irresist ibile, di cui si ammette o si riconosce l’esistenza. Dimostrare
che ciò che la norma prescrive dovrebbe esser voluto dall’ uomo, sopra
ogni altra cosa : cioè sarebbe voluto in effetto, se, invece di
essere come ò, 1’uomo fosse diverso; seguisse la sua vera natura, fosse
giusto, o perfetto, o realizzasse un certo tipo ideale. Ma è chiaro che in
questo senso non si là che o determinare il fine in l'unzione di un certo
tipo ideale, o il tipo in funzione del line; ossia, in altre parole,
determinare la relazione che sussiste tra una certa natura e una certa
condotta. La qual relazione per necessaria che sia, non si vede come
[tossa far nascere la coscienza d’ un obbligo. Se si pensa di fondare in
tal modo 1’obbligatorietà, manifestamente si suppone ebe il conformarsi a
un certo tipo, il realizzare un certo ideale sia già sentito come
obbligo; e si rientra, quanto al fondamento di questo, nel primo dei casi
enumerati. Se poi si intendesse dire che chi vuoi essere uomo
davvero, giusto, o perfetto, deve proporsi un certo fine o seguire una
certa condotta, si avrebbe non piii un imperativo categorico, ma un IMPERATIVO
IPOTETICO (GRICE, CONCEPTION OF VALUE). Dimostrare che ciò che la norma
prescrive, dece essere voluto universalmenta e incondizionatamente.
Questo ò manifestamente il significato che pare più proprio, e nel quale
intesero e intendono l’esigenza i moralisti i quali credono di poter ricavare
l’obbligo dalla natura del fine che assumono come ideale etico. Ma
l’intendere la tesi così, implica che si ammetta la possibilità di
una di queste due vie o derivare l’obbligatorietà dal valore
riconosciuto al fine, assumendo questo riconoscimento come dato o
postulato; o derivare dalla natura del fine l’ obbligo di riconoscere al
fine stesso un tal valore. E l’una e l’altra di queste due tesi deve
essere considerata distintamente e un po’ più a lungo. Posto pure che al
fine assunto fosse riconosciuto in realtà universalmente valore di
sommo bene, non ne seguirebbe in nessun modo che il sentirlo e
riconoscerlo come sommo bene porti con se il sentirsi obbligati a volerlo
e cercarlo. Questo riconoscimento non genera la coscienza dell’obbligo,
bensì ne mostra la ragionevolezza, fa che la coscienza approvi l’autori
tà ob bligante; cioè giustifica P obbligo, posto che ci sia. Ora una
tale giustificazione riesce a questa alternativa: o serve a
dimostrare che Insognerebbe ragionevolmente trovar buona e seguire la norma
anche se non si sentisse l’obbligo, perchè la norma è ordinata a quel
certo fine che è riconosciuto come sommamente DESIDERABILE. E in questa
forma la pretesa fondazione dell’ imperativo categorico si riduce alla
formulazione di un imperativo ipotetico, che si sostituisce o si aggiunge al
categorico. 0 riesce a un’argomentazione di questo genere : Siccome è
bene sommo il fine, è bene l’osservanza della norma; e poiché si
ammette o si suppone che la coscienza d’un obbligo assoluto sia
necessaria a garantire questa osservanza, l’imperativo categorico
appare la condizione sine qua non, acquista valore di MEZZO
indispensabile al proseguimento del FINE. Nel primo modo si viene a dire
che l’imperativo categorico è giustificato perchè è bene ciò che esso
comanda; nel secondo che è giustificato perchè è bene che esso comandi in quel
tono. Ma nè l’uno nè l’altro modo nè ambedue insieme riescono a
fondare l’obbligo assoluto; anzi appunto perchè 10 giustificano gli
tolgono il carattere di categorico. Il che se nel primo caso è più
evidente, non è meno vero nel secondo. Infatti, posto pure che la
categoricità dell’ imperativo sia condizione necessaria all’osservanza
della norma, non ne viene perciò che l’obbligo sia categorico, ma soltanto
che sarebbe bene che fosse, che è desiderabile che sia: ossia la pretesa
derivazione che se ne fa, mostra la necessità di una condizione, non la
pone in atto se manca; pone in chiaro un’esigenza, non la soddisfa. In
secondo luogo la dimostrazione stessa di questa esigenza è contradditoria,
perchè a convincere la necessità dell’obbligo categorico ne assegna le
ragioni; il che equivale ad ammettere che venendo meno queste ragioni verrebbe
meno quella necessità; ossia che l’obbligo dovrebbe valere come
categorico, finché è utile che valga; come chi dicesse un’ autorità che si fa
valere incondizionatamente sotto certe condizioni. Adunque, se la c Qscienza
d’un obbligo asso luto manca, la derivazione che se ne pretenda fare
da un fine, qualunque sia il valore che gli si attribuisce, non può farla
sorgere; se c’è, la giustificazione riesce ad assegnare le condizioni della
sua validità, cioè a togliergli il carattere di obbligo
incondizionato. Il che può però aver un senso, se si guarda bene; ma in
un caso soltanto: nel caso che la coscienza la quale si rende
ragione delle condizioni che importano questa necessità o utilità dell’
imperativo categorico, e la coscienza nella quale 1’imperativo vale come categorico,
siano due coscienze diverse; ossia nel caso che una coscienza riconosca la
necessità che 1’imperativo valga incondizionatamente per un’altra
coscienza. Che è un senso assai meno strano di quel che possa parere
a prima vista. Oppure finalmente si intende che apprendere ciò clic
è posto come line equivalga per ciascuno a dover riconoscerlo come tale;
che non si possa conoscere la natura del line senza sentirsi
obbligati a riconoscergli valore di bene supremo; cioè che la conoscenza
generi la coscienza d’un obbligo. Questa che è in sostanza la tesi
difesa, tra gli altri, con grande vigore dal nostro SERBATI, è veramente
l’interpretazione tipica, più audace e radicale, del pensiero di derivare
l’obbligo dal fine, o di dare all’obbligo un fondamento oggettivo nella
natura stessa di quello. Ma senza dilungarmi su questo tema in una
critica troppo nota è inevitabile questa alternativa. O il dover riconoscere
esprime una necessità puramente logica, e non può dare quello a cui è
invocata, cioè nè il valore né l’obbligo di riconoscere il valore; o vuol
esprimere una necessità diversa, e si riduce a un paralogismo; perchè
pretende ricavare da una determinazione obbiettiva la constatazione di uno
stato subiettivo, la quale presuppone appunto resistenza di quella
coscienza dell’obbligo, che crede di far nascere e senza della quale la
constatazione non è possibile. E per tal modo si ricade ancora una volta
nel primo tipo di interpretazione; quando non si voglia ammettere
questa tesi : che è obbligo riconoscere quel fine come sommo bene e volerlo,
così se lo si crede tale, come se non lo si crede; cioè sia che la
coscienza senta sia che non senta di dover attribuirgli quel valore.
Ossia non si ammetta la tesi dell’obbligo di credere anche senza o contro
l’attestazione della coscienza. Il che renderebbe inevitabile l’appello a una
autorità esterna, alla quale la coscienza si deve inchinare; e
farebbe della morale del bene oggettivo una morale dommatica, che rientra
nel secondo tipo. Adunque l’analisi dei modi nei quali può essere
interpretato e tentato il compito di fondare una norma obbligatoria conduce a
questa conclusione: o si intende che fondare una norma obbligatoria »
voglia dire derivare l’autorità della norma dal valore del fine; e
allora, come s’è visto, c come avea notato chiarissimamente Kant,
non si può per questa via riuscire che a un imperativo ipotetico –
cf. Grice, THE CONCEPTION OF VALUE -- ; o si intende che voglia dire
assumere come dato l’obbligo e determinare le norme in conformità a
questo dato. Nel primo caso 1’ esigenza in questione non è
soddisfatta. Nel secondo 1’ obbligazione è assunta, non posta o
dimostrata; ossia o esiste: e la sua esistenza e validità sussiste all’
infuori della costruzione dottrinale, che la postula, ma non la fa
essere; o non esiste: e il fatto di assumerla come esistente non la pone
in essere, nè ne legittima per sè l’assunzione. Per tal modo, se il
difetto capitale di una scienza normativa etica conforme al
concetto esposto sul suo ufficio e i suoi limiti, è quello di non^
poter presentare le norme col carattere di imperativo categorico, questo
difetto è comune, e non potrebbe essere altrimenti, a qualsiasi costruz
ione dottrinale. die non si proponga di derivare le norme da un
imperativo categorico assunto come dato. Ed allora resta da vedere
se. prendendo l’imperativo categorico per dato o postulato, si possa ricavare
da esso la determinazione delle norme; o se non si debba ancora ricorrere
all’ assunzione espressa o sottintesa di un fine, o di un criterio
di valutazione e di derivazione, estraneo e indipendente da
quello. CJie^ i 1 dato dell’ imperatività sia per sè in sufficiente alla d
eterni i nazione .-dei le jparmc morali è manifesto, qualora si intenda
con esso assumere null a più che la forma destinata a rivestire un
contenuto qualsiasi ricavato d’altronde: nel qual caso è pur manifesto
che, appunto perciò, il dato dell’obbli- gazione rimane estraneo alla
costruzione dottrinale. Ma non è altrettanto evidente, quando si
ammetta che nel dato dell’ obbligazione è contenuta ad un tempo la
forma dell’ imperativo e la m ater ia del precetto ; ossia che da questo
dato si possa ricavare, hjUifot vtA »pUóh UàwtiH o ad esso
debba conformarsi e subordinarsi sia la determinazione del fine sia il
contenuto delle norme. Senonchè, quando si prenda come dato non
la pura ferina soltanto ma un cer to contenuto, si è inevitabilmente
condotti, come l’analisi precedente ha dimostrato, a fondare la morale
.sull’autorità, superiore ad ogni discussione, di una certa rivelazione,
interna o esterna ; e ad assegnare all’ Etica 1’ufficio di espositrice e
interprete di questa. Rilevando questa conseguenza io non intendo
affatto di darle il valore di una dimostrazione per assurdo. La tesi
nella forma a cui è ridotta ò tutt’altro che nuova e straordinaria; ed ha, in
confronto dell’ affermazione generica e ambigua che la morale deve dare
norme obbligatorie il pregio di essere chiara e non equivoca. .Ma
appunto perciò essa fa apparire manifesta la difficoltà, a cui si
trova di fronte. Tanto se si intende che la rivelazione da
interpretare sia in|£g^ quanto se si intende che sia esterna, si presenta
la medesima difficoltà; quella difficoltà, antica e notissima, dalla
quale venne il primo stimolo alla riflessione e alla critica nel campo
della morale: l a pluralità delle rivelazioni. Poiché i responsi della
cosc ienza morale sono s toricamente diversi e anch e-apposti, come sono
divèrse e in parte op poste le rivelazioni religio se, resta, o che si
riconosca a tutte la medesima autorità, cosi co me i l tono imperativo è. il
medesimo; o che si scelga. Quanto alle. religion i ò .troppo chiaro
che nessun criterio ricavato dalla rivelazione stessa può valere a
dimostrar l’autorità di una piuttosto che del1’altra, poiché t utte si danno
come assolutament e certe e indiscutib ili ; e le stesse prove sulle
quali una rilevazione attesta la sua autorità sono adoperate da
ciascun’altra per asserire la propria, e da tutte risuona sui precetti
morali diversi il medesimo tono di comando. Si cerca il criterio della
scelta nella natur a del le cose co mandate o proibite, come avviene
quando si parla di m aggior sapienz a o el evatez za o n obiltà de
i prec etti morali di una religione rispetto a quelli di un’altra? Allora
è i ^contenuto dei precetti morali che viene assunto come criterio
dell’autorità della rivelazione. E il valore di questo contenuto,
che è così usato a provare la superiorità di una rivelazione
sulle altre, si può dunque riconoscere indipendentemente dal suo
presentarsi sotto la forma di un comando rivelato, dal momento che è esso
invocato a provare l’autorità del comando. Ma allora I’ulhcio dell’Etica
lungi dall’essere quello di interprete e araldo di una rivelazione, 6
quell,o_di giudice _deHc % U- t ? ^ rivelazio ni. Il che importa a
ben più forte ragione che tanto il fine quanto le norme morali si suppone
che possano e debbano essere conosciute c determinate a ll’ infuori di ogni
snodale rivelazione. cioè all’infuori da ogni appello
all’autorità. Ciò che vale per l’autorità di una rivelazione esterna,
vale per quella di una rivelazione interna. Tra due coscienze, delle quali
rispetto alla medesima azione una ponga come obbligo il fare e l’altra il
non fare, il criterio di valutazione comparativa non può esser dato dal
carattere imperativo, che è comune ad ambedue, ma deve essere un
altro. Ed anche allora il criterio che serve alla valutazione comparativa
sarebbe esso in realtà quello da cui dipende cosi la determinazione come
la giustificazione delle norme. Non resterebbe che riconoscere ja medesima
autorità a tutte le rivelazioni. Il che importa l’una e l’altra di queste
conseguenze: o la assoluta indifferenza del contenuto per qualsiasi luogo
-“ e tempo; o la limitazione a determinate condizio ni storiche
dell’autorità e del valore di ciascuna. Se non si vuol accettare la prima,
si presenta la domanda: Questa limitazione ha o non ha Mi permetto di non
fermarmi ad esaminare la tesi della assoluta indifferenza del contenuto.
Sarebbe come sostenere nel campo della terapeutica che ciò che importa
nella ricetta è la firma della sua ragion di essere nelle condizioni
storiche, dalla cui presenza è circoscritta la sua validità? Se la
limitazione non dipende da queste condizioni, ma essa pure non ha altra ragione
di essere all’ infuori dell’ autorità o del carattere imperativo col quale hic
et nunc si presenta, allora si ammette che, astrazion l'atta da questo
carattere di obbligatorietà col quale una certa norma si presenta in quel
certo tempo e luogo, non vi sarebbe nessuna ragione di preferire nelle
stesse circostanze una norma ad un’altra, cioè si giunge per un altra via
all’indifferenza del contenuto. Se poi questa limitazione ha la sua
ragione di essere nelle condizioni storiche stesse, entro le quali
è valida, cioè in una parola se ò relativa a queste condizioni, allora si
ammette che sono queste condizioni il criterio della limitazione ed è la
corrispondenza a queste condizioni storiche il criterio della validità.
Cioè si ammette che vi è qualche cosa che dà alla norma il suo valore
all’ infuori del1’ obbligazione e al disopra dell’autorità
obbligante, medico, e le prescrizioni di qualunque genere si equivalgono
1’una l’altra. E forse è ancor meno manifestamente falso questo che
quello. Non sarà però inopportuno avvertire che ogni questione
intorno al merito dell’ agente rimane qui al tutto in disparte. (lT
E lascio^ le difficoltà che nascono dalla necessità di ammettere un’altra
rivelazione alla cui autorità si possa ricondurre la limitazione in
discorso. dal momento che esso serve anche a stabilire i limiti
entro i quali 1 autorità è riconosciuta come valida. Cioò si viene a
riconoscere ancora come 1’ obbligazione non possa essere un dato sufficiente
alla determinazione e valutazione delle norme, e come per essa non
solo non possa essere negata, ma venga confermata la legittimità di una
scienza normativa morale. Senoncliè a questo punto mi sento opporre un
nome, un gran nome: Kant. Ma dunque non esiste la morale kantiana ? Non
ricava egli dalla volontà buona, dal dovere, dall’osservanza della
l egge perda legge, la norma morale suprema, nella notissima formula,
nella quale, indipendentemente da ogni particolare rivelazione storica, c
sopra ogni speciale contenuto materiale, si raccoglie tutto un sistema di
norme razionali? E se la sua morale è f m^gle. cessa perciò
di avere il suo valore, e sopratutto cessa di esistere, e, a
fortiori, di essere possibile? Certamente a nessuno può venire in mente
di negare la possibilità di un sistema che ò esistito ed esiste, e
a me, forse meno che ad altri, di negarne il valore. Così la grande
costruzione razionale dei doveri dell’ uomo di Kant, come la grande
costruzione razionale dei diritti dell’uomo che piglia nome dalla rivoluzione
francese sono ben lungi dal melo ri tare il facije compatimento col quale
parlano di astrazioni e di formalismo certi fonografi della
sociologia. Ma qui al proposito nostro importerebbe vedere la
costruzione razionale del Kant sia fondata sul d ato dell’ obbligazione,
co me pare, o non ni ut trist o sulbesigenza dell' universalitaTche n KanT
crede bensì trovare implicita nel concetto del dovere, ma v* /v T<
ì»-^uAtv\ 7 u-iC' che è invec e caratteristica dell’ idea di
' » senza la quale ci può essere Yobbligo, ma non Yap- p robazione
interiore dell’obbligo, che è propria della ^ -y j coscienza del dovere. Perchè
i l concetto iÌT"degg e che serve a Kant per passare dal dato del
dovere all’esigenza dell’universalità, non è un elemento contenuto nel
dato stesso e che possa esserne ricavato analiticamente, ma (L una
sintesi nella qual e insieme coll’obbligazione è già assunta l’esigenza
dell’universalità che la giustifica. Ed è questa esigenza dell’
universalit à, non il dato dell’ obbligazione che fornisce al Kant il
criterio supremo della morale. Ma a ben chiarire questo punto — come, anche
nella morale kantiana, l’imperatività non sia un dato sufficiente alla
determinazione delle norme, e come in realtà venga assunto non solo un
criterio [Di questo argomento ho trattato di proposito altrove. Cfr. Prolegomeni
ecc. ( C* «M. ÀtydL* UO-rutL Kv non ricavato da quella, ma implicitamente
anche un certo contenuto occorrerebbe un’analisi assai meno
sommaria; poiché non è questo un argomento da sbrigarsi così alla
lesta. Basti per ora non aver omesso 1’accenno. Il Fondamento
Intrinseco del Diritto secondo Vanni. Il volume dal titolo Lezioni
di Filosofìa, la cui pubblicazione è curata con riverente pietà e con devota
ammirazione dalla vedova e da alcuni tra i più valenti discepoli poco
dopo la morte immatura di VANNI (si veda), è forse tra i saggi di Vanni
quello in cui la sua dottrina appare più compiutamente ordinata a sistema, e
nel quale a un tempo si rivelano felicemente congiunte le qualità
dello scienziato e dell’insegnante; e veramente si può considerare come il
testamento scientifico del celebrato maestro. Certo, qualunque
giudizio porti sul fondamento e sulla validità intrinseca del sistema, nessuno
può disconoscere la larghezza e la profondità della coltura filosofica
e giuridica, e la chiarezza della trattazione; e sopratutto la sincerità
e, direi, 1’ onestà scientifica che ò propria di chi medita e scrive per
amore disinteressato del vero. Vanni, Lezioni di Filosofia, BOLOGNA, Zanichelli.
La l'ilosofia del Diritto abbraccia, secondo il tre ricerche : la ricerca
critica ; la ricerca sintetica o lcnomenologia giuridica; e la
ricerca deontologica. Nella prima egli comprende non soltanto la determinazione
dell’oggetto, dei metodi e dei rapporti della filosofia del diritto colle
scienze affini, ma anche una indagine preliminare di critica
gnoseologica. che GROPPA li accordandosi con FRAGAPANE ritiene, a mio giudizio
giustamente, estranea al compito di questa disciplina. Giustamente,
finché si intende che la filosofia del diritto debba istituire una
sua propria ricerca gnoseologica ; ma non se si intende anche di negare
la opportunità di premettere, come in fondo fa Vanni in queste lezioni, quali
sono i presupposti gnoseologici accettati. Poiché ogni dottrina deve pur
assumerne, di una o d’altra speeie, esplicitamente o
implicitamente. Ed è bensì vero che essi si possono sottintendere e
si applicano di solito nelle ricerche speciali tacitamente. Ma compito del
filosofo è appunto, come osserva Rosmini, di c omprendere e fo
rmulare elii aramente quello che gl’altri sottintendono. Del resto
il fatto che Vanni voglia prender le mosse da una v alutazione critica
sulla natura e al sapere giuridico, prova quanta larghezza di
pensiero, e direi, di coscienza filosofica egli portasse nelle sue ricerche, e
con quanto scrupolo sentisse l’obbligo di rendersi conto anche dei più
lontani e generali presupposti della sua dottrina. La seconda ricerca si
sdoppia in due parti : statica, che determina la nozione logica del
diritto, inducendola dell’analisi del diritto positivo dei popoli più
progrediti, e similmente dello Stato; DINAMICA, genetica o storica, che studia
la genesi e la formazione storica del Diritto e dello Stato; e si
potrebbe anche chiamare filosofìa della storia del diritto. Finalmente un’altra
ricerca di carattere etico o valutativo ha per oggetto il problema della giustizia,
ossia del fondamento intrinseco e delle esigenze razionali del diritto. Questa,
che costituisce la parte ultima, ò senza dubbio la più importante, perchè
riguarda quello che è il problema centrale della filosofìa del diritto; e
nella cui soluzione principalmente Si manifesta la nota caratteristica delle
diverse dottrine. E la dottrina del Vanni, benché l’indirizzo e. direi,
la moda oggi prevalente la consideri oltrepassata, merita di essere
ricordata e discussa; perchè mentre intende il compito della filosofia
del diritto non soltanto come storico-genetico, ma anche come normativo,
(nel che si accorda coll’ idealismo) si propone di assolvere questo
compito tenendosi nei limiti d’una costruzionc puramente scientifica, ed
escludendo ogni postulato di natura metafisica; nel che consente
col proposito, se non col metodo, dello storicismo c del
positivismo. Ora il difetto principale della sua dottrina, non
nasce, come può parere a prima vista, dalla pretesa e comunemente ammessa
inconciliabilità tra il compito normativo e la validità scientifica ;
chè anzi questo intendimento, chiaramente concepito e tenacemente
proseguito, di una costruzione normativa scientifica del diritto, è a mio
giudizio, un alto titolo di merito; ma nasce dall’essersi fermato,
direi, a mezza via nel rilevare a quali condizioni sia possibile una
costruzione etico-giuridica che soddisfaccia a un tempo ad ambedue le
esigenze. La dottrina di VANNI, per quel che riguarda il fondamento
intrinseco del diritto e il metodo, si può considerare come una forma di
quella che Spencer ha propugnato e difeso col nome di utilitarismo razionale: e
infatti, pur rilevando giusta¬ mente l’importanza e il valore del
pensiero di Romagnosi, egli la riconosce come il precedente più
immediato e più notevole della sua. Ma la trova erronea per tre rispetti
; perchè ammette un diritto naturale; perchè pretende di costruire una
norma etico-giuridica assoluta; e perchè Analmente Spencer intende le
condizioni di esistenza da cui le norme devono essere dedotte, in un
senso puramente biologico. Principalmente su questo ultimo punto egli
accentua il suo dissenso, prendendo come base, non le condizioni
dell’esistenza individuale e la legge della sopravvivenza dei più adatti,
ma le condizioni dell’esistenza sociale. Il fondamento dell’ etica
sta dunque nella necessità per chi vive in società (e la socialità è la
esigenza suprema del1’esistenza umana) di uniformarsi alle condizioni ed
alle esigenze poste dallo stato sociale ; e l’etica dimostra
intrinsecamente necessarie quelle forme e quei modi di condotta che sono
richiesti dalle condizioni della vita in comune. Fra queste condizioni ve
ne sono alcune che hanno un’ importanza fondamentale e primaria, in quanto
rappresentano l’indispensabile per la convivenza e la cooperazione;
e nell’osservanza delle quali consiste la giustizia. Ma poiché queste
potrebbero non essere spontaneamente osservate, è necessario che le azioni
relative ad esse non restino abbandonate alla buona volontà e alla
spontaneità e che con una norma di condotta irrefragabilmente obbligatoria ed
eventualmente coattiva s’induca all’osservanza anche il volere
recalcitrante. Quindi in altri termini la necessità del diritto, il quale ci
apparisce allora come una norma che ha da garantire le condizioni
fonlamentali per la coesistenza e la cooperazione umana. Cosi non
soltanto l’Etica, ma anche il diritto viene ad avere un fondamento intrinseco,
e viene ad averlo anche lo Stato, il quale è indispensabile alla
funzionalità (tei Diritto Non è
necessario un lungo discorso per vedere che quando il Vanni crede di
fondare in questo modo l’esigenza razionale del diritto finisce per
assumere in realtà come presupposto il principio che egli vuole, e crede
di dovere, derivare apoditticamente, e al quale appunto è subordinato il valore
di necessità razionale assegnato alle norme ideali che devono servire di
modello e di criterio di valutazione. Infatti la relazione naturale e
necessaria tra una certa condotta e certe condizioni, necessarie alla
loro volta alla convivenza e cooperazione sociale, serve bensì a stabilire che
quella condotta deve essere riconosciuta come un mezzo necessario
al fine di conservare e promuovere la convivenza e la cooperazione
sociale, posto che questo sia riconosciuto e voluto come fine ; ma non
vale a stabilire la necessità razionale di riconoscerlo come fine;
e fine precedente in valore e autorità ad ogni altro. Il \ anni par
che intenda superare la difficoltà osservando che la necessità puramente
naturale in quanto è pensata dalla mente si trasforma appunto in
una esigenza ed in una necessità razionale. Essa allora esprime un
principio logico fondamentale, il principio di contraddizione. Se in
forza della natura stessa delle cose c dei rapporti causali, per ottenere
un certo fine è indispensabile un certo mezzo, e per raggiungere un certo
risultato è indispensabile un certo modo di condotta, implica contraddizione
che si potesse impiegare un mezzo diverso o seguire una condotta diversa.
Ma ò facile vedere 1’ equivoco. Contraddizione vi è certamente tra il
pensare che una condotta è indispensabile a raggiungere un certo fine e
pensare che questo stesso fine possa essere raggiunto con una condotta
diversa ; ma io non violo nessun principio logico e non sono punto in
contraddizione con me stesso se, ammettendo che un certo fine dipende da
certi mezzi, non voglio il fine e non voglio perciò neanche i
mezzi. E neppure vale il ricongiungere Vordine sociale all’ordine
cosmico, considerandolo come la forma più alta a cui riesce iì processo
della evoluzione universale. Perchè non si fa altro in questo modo,
che spostare il presupposto; cioè ammettere, ancora e sempre, che si riconosca
valore di fine subiremo a questo adattamento all’ ordine cosmico.
Il quale presupposto potrà o non potrà venir legittimamente assunto
come dato o postulato; ma è e rimane un presupposto. E perciò le norme
ideali che se ne deducono hanno questo valore di nonne nell’
ipotesi che si accetti come fine supremo quell’ordine di effetti dal quale sono
dedotte. Ma rilevando cosi il carattere necessariamente ipotetico
della costruzione, alla quale riesce anche il « sistema delle condizioni
della vita in comune del Vanni, io non intendo, anzi escludo, che questo
carattere ipotetico costituisca per sò un vizio proprio di questa e di tutta
una classe di costruzioni etico-giuridiche, come pretende P idealismo
metafì¬ sico. Il quale si illude di poter esso sfuggire a questo
carattere ipotetico riallacciando quel tipo di convivenza e di relazioni
sociali, che assume come modello e in conformità al quale determina
le norme ideali, a un fine di natura metafìsica, che abbia perciò
valore assoluto. Dove sono da notare, sia detto di passata, due
circostanze, a mio giudizio, decisive: che le norme ideali sono pur
sempre ricavate o dedotte, malgrado ogni sforzo od ogni apparenza
contraria, dal tipo sociale assunto come modello, e non dal fine metafisico,
della cui autorità e del cui valore esso si riveste; che il valore
assoluto di questo fine metafisico non può essere che assunto aneli’esso
o come dato o come postulato. La verità è semplicemente che un
sistema di norme giuridiche contempla di necessità un certo ordino
di vita individuale e sociale; e che la validità dello norme dipende dal valore
che si suppone riconosciuto a questo ordine di vita. Questo riconoscimento
di valore, questa valutazione del fine è dunque il presupposto
inevitabile della validità etica del sistema (la quale non esclude la validità
scientifica, ma non si esaurisce in questa); e la questione si riduce a
decidere se si pub o non si può assumere legittimamente come dato o
come postulato questo riconoscimento del valore che nel sistema è
assegnato al fine. Ora è nel rispondere a questa questione, non nel
carattere ipotetico, che si rivela l’insufficienza del sistema di Vanni e
dell’ indirizzo naturalistico in genere; e alla quale del resto non
riesce a sfuggire neppure l’indirizzo metafisico. Infatti una risposta adeguata
alla questione esige che si determinino le condizioni richieste perchè a un
ordine di convivenza e di CO-OPERAZIONE SI RICONOSCA VALORE DI FINE
UNIVERSALMENTE REGOLATORE -- valore, direi, piuttosto che di summum bonum
di PRIMVM DESIRABILE. Ossia perchè si possa ammettere che tutti i soci
consentano liberamente nel valutarlo e volerlo come tale. E che si assuma poi,
come modello per dedurne le norme ideali, il tipo sociale che
soddisfa a questa esigenza ; cioè il tipo sociale configurato in conformità di
quelle condizioni. Ma non è rispondere alla questione il
dimostrare la naturalità della convivenza sociale in genere, o di un
certo tipo che si assuma volta a volta come modello. Questa dimostrazione
può servire a farmi trovar buona o giusta o desiderabile l’osservanza
dell’ordine naturale, se io trovo già buono o giusto o degno di essere
voluto, quel tipo di vita sociale, cbe si presenta come suo effetto ; ma
non inversamente. E se, non trovandolo tale, mi rassegnassi a subirlo per
la coscienza della sua necessità naturale. chi potrebbe legittimamente
scambiare questo subire con un volere . e la rassegnazione a un
male con la aspirazione a un bene? Nemmeno gioverebbe, d’altra
parte, il ricorrere a postulati metafisici. Posto che io non
riconosca l’ordine sociaie ideale contemplato da un sistema come
degno di essere voluto, in qual modo si può presumere legittimamente che
valga a farmelo riconoscere tale l’affermazione (poiché qui di dimostrazione
non si potrebbe parlare) che esso ha un fondamento o una giustificazione
metafisica, se la ragione per la quale il sistema gli assegna
questo fondamento consiste appunto nel valore di fine che esso gli
attribuisce e cbe io, per ipotesi, non gli riconosco? Ma Vanni (per
restringermi a lui. poiché all’ndirizzo metafisico non ho accennato qui se
non per debito di sincerità e di chiarezza) obietterebbe con tutta
probabilità che per la via indicata come la sola legittima si riesce a
una costruzione puramente astratta, di un tipo utopistico di società che
non trova nella realtà storica nessuna corrispondenza; e che si ricade nei
difetti (ai quali appunto egli, d’accordo in ciò con la scuola storica,
s’ è proposto di sfuggire) o del puro formalismo, o di un diritto
assoluto valevole per tutto c sempre, e senza riferimento possibile alla
variabilità dei rapporti sociali. Mentre riponendo, come egli fa, il
fondamento intrinseco del diritto n ella conformità della condotta alle
condizioni richieste dalla vita in comune, questo riferimento non solo
appare possibile ma inevitabile. Infatti, insiste egli nel rilevare, le
condizioni della vita in comune non sfuggono al moto dell’ evoluzione e
della storia ; e se anche alcune hanno il carattere d’una certa
uniformità e costanza, altre invece variano correlativamente al grado di
sviluppo umano e alle forme di organizzazione sociale, e sono proprie di
ciascun grado e di ciascuna forma. Il che importa che debbono variare
corrispondentemente le norme regolatrici; ossia che nell’applicazione il
sistema etico-giuridico fondato sulle condizioni di esistenza va
combinato col principio di evoluzione e subordinato al criterio
della relatività storica.” Ora, lasciando di rilevare come con questa
subordinazione si assuma sempre per presupposto che l’osservanza delle
condizioni richieste dal tipo sociale storicamente dato, abbia, per il solo
l'atto che la coscienza ne riconosce la necessità storica, anche
valore di fine, importa notare come si venga con ciò a rinunziare ad ogni
valutazione comparativa delle diverse forme storiche del diritto. Perchè
una valutazione comparativa richiede di necessità un criterio, il
quale non può essere dato dalla corrispondenza alle condizioni storiche. E se
si prende un criterio diverso, allora è la conformità a questo
criterio e non la necessità storica, che si assume come esigenza
razionale o come giustificazione inrinseca del diritto. È certo che se una
costruzione etico-giuridica per essere razionale dovesse rimanere
sospesa, come gli dei dell’ORTO, tra cielo e terra, e fuori di ogni
possibilità di applicazione alla condotta individuale e collettiva, bisognerebbe
accettare la tesi del fenomenismo, e negare alla filosofia del
diritto qualsiasi funzione pratica riconducendola nell’ ambito della pura
sociologia. Ma esiste davvero questa incompatibilità? E non potrebbe
essa dipendere, invece che dalla radicale sterilità di una costruzione
veramente razionale, dalla preoccupazione di giustificare eti- Se, e a
quali condizioni, una tale costruzione sia possibile, è argomento del
quale si è già discorso altrove e che non può esere toccato di sfuggita.
camentc forme di diritto che non sono eticamente giustificabili, di
assumere come condizioni richieste dalla giustizia e conformi ad essa
certe condizioni, reali sì, e storicamente date, ma che sono la negzione
di quelle richieste dalle esigenze ideali? Perchè se fosse cosi, In conclusione
da trarne sarebbe non che la costruzione razionale ò inapplicabile
come criterio di valutazione e come modello normativo, ma che, essendo le
condizioni reali diverse da quelle idealmente contemplate, le norme
ideali non possono essere applicate simpliciter a condizioni
diverse dalle supposte. Ma esse potranno, anzi dovranno ugualmente servire come
criterio per determinare quale sia in un dato momento storico la condotta
sociale e individuale che, nei bifidi delle esigenze reali
necessariamente imposte dalle condizioni in effetto esistenti, è più
acconcia a favorire la trasformazione di queste nella direzione segnata da
qualle esigenze ideali, ossia tende ad attuarle. il che importa che le esigenze
corrispondenti alle condizioni proprie di un certo momento storico
non siano assunte esse come esigenze razionali del diritto, ma forniscano
il criterio per stabilire entro quali limiti sia possibile tradurre in
norme di diritto positivo le norme ideali. Ossia in breve: l’esigenza
razionale segna le condizioni a cui deve soddisfare un ordino
sociale perchè possa aver valore di fine; la realtà storica. La dottrina
delle due etiche di Spencer e la morale come scienza. Per una scienza
normativa morale Il fondamento intrinseco del diritto secondo Vanni.
Erminio Volfango Francesco Juvalta. Herren von Juvalt. Juvalta. Keywords:
implicature, il metodo dell’economia pura nell’etica, il principio della
cooperazione, cooperazione e desiderabilita universale, ragione e cooperazione,
cooperazione come mezzo, ragione di mezzo, tra altruism ed egoism, amore
proprio, benevolenza, giustizia. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Juvalta on
the categorical imperative,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice.
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