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Tuesday, December 31, 2024

GRICE ITALO A-Z L LI

 

Grice e Lia: la memoria conversazionale – filosofia napoletana – scuola di Castrovillari – filosofia cosenze – filosofia calabrese – filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Castrovillari).  Filosofo . Filosofo italiano. Castrovillari, Cosenza, Calabria.  Frate minorita. Nato a Castrovillari da Amostante L. e una Gesualdo, assunse il cognome materno in quanto di più antico e nobile casato. Entrato ad appena dieci anni come oblato nel convento cittadino di San Francesco, ret-  to dai frati minoriti, fu ammesso al noviziato. I Minoriti si presero cura della  sua formazione, mandandolo a studiare a Roma, Treviso e Padova. In quest’ultima città  Gesualdo prese gli ordini sacerdotali egli venne affidato un lettorato presso lo  studium. La sua attività didattica si protrasse per un ventennio in vari collegi dell’ordine  e il capitolo generale gli conferì il titolo di Maestro. Venne eletto ministro generale dell’Ordine, di cui perseguì una radicale riforma. Il generalato del Gesualdo è dunque volto al rinnovamento dei voti di povertà e di vita comune, spesso disattesi  dagli stessi frati. Tra l’agosto e il settembre dello stesso anno, egli fissò i Decreta de casuum  reservatione, con i quali venivano abolite tutte le deroghe ai voti, s’introduceva l’obbligo  di rendicontazione e conservazione dei documenti amministrativi e, infine, veniva isti-  tuita l’obbligatorietà dei seminari per i novizi. La carica a Generale venne riconfermata  per altre due volte, grazie all’appoggio di Clemente. E vescovo di Cariati  e Cerenzia. Muore a Cariati. Su di lui e la sua opera si veda Busolini; Russo; Keller-Dall’Asta; Cipani 2017, pp. 89-95.Iofepbus Tamplorut. PJJ >. PLVTOSOFIA di FILIPPO GESVALDO MINOR CON. Nella quale, fi (piega l'Arte, della Memoria*  con altre cole notabili pertinenti,    24. ì> . 31.. ‘ ... i r, } /T'4 T"V t'f   - ì -A S. ^ v-« 'w->' X • i ' li A   \h ' ’ -'• IJ A V 23 f    "7 ? J* * r T   iù i -a    •X o 3 ;. o A 1 t/i    ÈiottfiW. r.'!sb su k'I II : XX   Q - l ^ * t br: ii;v, ; o H : d ti ic . 1 5)03 oi -A ì >1 J W 4 i4 A 4 J A O 1 ;3 A T   ^ J A jl v t a h -, V.I.V. ’  • x *- x ; r », .IO   '•• r&v.  V»*      'MCa-   V,. •- > Vt et.   ^•.... *T /    m V    > f?£    .*■' 1 c£$é . - w.    r-^iL   >«r 'v-.'vr^    : -^- v r :x’   • •      J \ i-ì à • : * oliif ! oì)o:r*q A «Violai a: 7 *   4. a Ai    .XXXV.v^ *&$gij,x.    \ .   41 ALLILLVSTRISS ET REVERENDISS. SIGNOR arnolpho vchanskii, CONTE DI SLVZEVVO,  » . ’ .* I * j { *1   ABBATE DI SVLEOVIA. Signor mio Colendisfimo.   cn > o   Diuotisfimo feruo r   : > 3 j 'Z\nii*r-Pi s   Paolo Meietti. ALLA    GLORIOSISSIMA.   H ABITATRICE   DEL CIELO   CATERINA VERDINE*   « '    ILLVMINATRICE, ET PROTETTRICE   DI S^TlEJ^Tl&c.   I € H E gli antichi fapienti appende -  nano in Sa c/e Colonnt le compite Ope-  re .loro, egli Moderni qlii nomi dì Fa  mòfi et lllujlr tifimi Trencipi cort e -  crar le fogliano : però battendo io dato fine hoggi all utilis fimo Compendio  della memoria artificiale, quale per  esser tesoro e ricihc^a d'ogni bimana fapienza, mi parue intitolarlo con parole greche plutosofia, hò no luto raccomandarlo alh MeJJaggieri angelici, che co-  lonne fono del Cielo, e confecrarlo al nome di te che feiuna  delle più care Spofe di Chrifìo, et una delle più fauorite Tren  cipejje del' Taradifo t Serenisftma per fangue, Illuflrisfima per  lapidila, purisftma per virginità, Santisfima per gratia t Con -   ftantisjima     flantìsfìma per Martìrio, felicìsfima per gloria . JE fe tate  non è il dono, quale ric ercar ebbe t importane del foggetto t  e meritarebbe la dignità dello tuo fiato ; è perà tale quale fi  può da me pre/entare, in qucHa fua prima delineatura.  Ideila quale t fe ui è co fa di lode, lariconofco dalle tue gra-  tic, col le quali ni impetra (li gratta apprefjo il tuo e mio Signo  re di formarla . E fe cofa ui è di biafimo ( coni io {limo di  certo ) ante s' attribuita, che tmperfettis/imo mi ricono fco.  Spero che accettando tu il dono, et aggradendo per tua pie-  tà il Donatore ; ti digneraì ancora ( di che uiuamente tiprie •  go ) ottenere à me lume, ch'io pojja col tempo illufìrarla di  quella chiarella e perfettione, che con la prima mano non  Jho laputo e potuto darle ; et à quelli che la leggeranno, gratia  dinteUigen'^a,fi che poffano arricchirli felicemente in quello  foblime The loro di Memoria * Ex fi come io tenacemente ten  go fcolpito il tuo gran T^ome nella mia Memoria, E femprc  uiuol tuo culto fra gli diuotipcufieri della mia Mente ;  coti ti fupplico che mi tengbi uiuo, tra le tue uiuaci  et efficaci Intercesso», inaila. ghriofa prefen-  T^a del Tadre delle mifericordte Dio, c  •j diOieùi tuo Spofo,& dilla M«drc   ielle gratie Mar (adergine, 1 ' J XX  ., alli quali con profon-  da fima humiltà   1, ’’** di CH&rt t ‘ C- a X-L -   per   me%p tuo faccio riueren^a.   Dì Palermo  ÌV, '    . Tuo Diuotixfimo Sento   Fra Filippo Cefualdi Minor' Conuentoale.    TAVOLA.    TAVOLA   Delle colè notabili contenute nella Plutofofia.  Innumeri moftrano li fogli, la Intera a. moftra la prima  et il b. moftrala feconda facciata*     :uu    1 I.  . 1.  ' Emoria è Teforo et Erario.  Necessità dealermo     ÌV, '. Tuo Diuotixfimo Sento   Fra Filippo Cefualdi Minor' Conuentoale. TAVOLA. TAVOLA   Delle colè notabili contenute nella Plutofofia.  Innumeri moftrano li fogli, la Intera a. moftra la prima  et il b. moftrala feconda facciata* :uu    1 I. . 1.  ' Emoria è Teforo et Erario. Necessità della Memoria. Titolo di qutft Opera,  i^c 9. Guide allukezza delle Mule*  Encomij della Memoria •   Memoria diumità Humana.   Memoria nona Sfera Cclcttc et angelica No«e ordini Angelici nell’Huomo.   Memoria perche nuda nell’Origine. Memoria come fi uefte. Memoria prima parte dell'Oratore Memoria rara e difficile .   Pcrfonc illuftrisfime nella Memoria.   Pci/onc infelici di Memoria .   LETTIGHE.   Clgnificati della Memoria.   *^Se nell Huomo fia Memoria intellettiua.   Se nella parte lènfitiua ui fia Memoria.   Se li Bruti hanno Memoria. In che qualità confitte la Memoria. Tre forti d'ingegni. Caggione della tenacità della Memoria. Co'i e fi caggionano li fimolacri perla Memoria.  Detti fimolacri imaginati . LETTIGHE. III. A Tto di Memoria qual fia.  Due atti di Memoria. Differenza tra Memoria e Reminiscenza.   Come posfiamo ricordarci di colà dimenticata •  Documenti per facilitar U Memoria.   Muodi di facilitar la Memoria •   C me fi aiuta la Memoria otturale •   Rimedi j per la Memoria • ** ' J    t.u   i. b;   a.a.   14 .   a a.  a. ai   а. bu   j. a.  j.b.  j.b.   4 -*.   4 «a.   4 .b»    a    ff Accora    /    Aceorgùncntrperaiutodella Memoria Dcirefftrrcitio. neceflario alla Memoria.  Nome Hebraico della Memoria mifteriofb •  Dell’Arte della Memoria.   Inuentore dell’Arte della Memoria.   Auttori c Scrittori dell’Arte della M emoria»  Muodo d’infegnar queft'Arte.   L ETT I 0 7^E. ITi   C He colà fia Memoria artificiale •   Nomee titolo di queftfArtc.   Soggetto di qucft’Arte..   Parti tionc di qucft’Arte.   Delli Luoghi perla Memoria.’» Dclli luoghi imaginati (è fumo per l’Arte.  Deili luoghi Naturali fepofiono ulàrfi  Delli luoghi Artificiali ottimi  Conditioni perla formatione di luoghi  Del Doue, prima conditionc del luogo  Del Sen/àto, feconda conditone  L E T T l  V * A   D Ella formatione di luochi til   Dell’ufo di luochi    ai . s ini    jqt:    E. V.    iDb uxa/    vM    ti cruoiiE    j CU    adì    E VU  l / . f.X  Della    10. a.   10. a.b.  iò.a.  xo.b.   11. a»  1 IUU   x i.a»  X i.b, ■   n.b.   ri.bt  1 1.b»   ia,b.   a>.a.   Ijb*   l£.b.   ì^b.   X   15. su   I/Jéb..   lòa.   16. b»   1 7.8»  J7.b.   i8.a.  18. b.  ip.b»  ao.a.  ao.b.  ao.b.  ai. a.   ai.b.   11. a.    Detta Perfona (labile neìluocM   LETTfO'KE  lEtti taoCirinmiTc raTr Vili .    a 6 . a.  26 ai  » 7 »a*    D Lh*   Detti lunchiperckittwiayaf  Detti luochi alternati  Luochi (opra la perfona humana-    Q T* E IX,   L Voghi perprogreflfo rigreffo et alternati a8. 29- 30,  Luoghi perla Circolatione   limoli' jt.   D Elle Imagini per l’Arte   Due muodi di collocar imagini-  Del collocar mediato in due muodi  Del collocar Concetti  Del collocar le parole  Della collocatone di uerbi  Della collocatone delle cole   L E T T 1 0 ìi É   /^Ottocatione dette cofe figurate formabili  Collocatone delle cofe naturali eccedenti  Collocat one delle perfone.   MetHt do dì collocar cofe no figurate»   Collocar per limili longilinea tio ne.   L ETTI 0 ^ E X T T,   C ^Oilocarper Mmiimiùmeui vu^   A  “ X A    tv lUHVf m   Collocar per aggiungimento.   Cotto   Collocar per il nuolgimento .  rTT " r_rT 7  L h x — 1 — j u e X 1 71.   C ollocare pei ta uaiiabonc   Collocar per bittitci    Collo    la com    linone    Collocar perla diuilione  Alfabeti per la diuiuon     ^ E X J V.    nocar pe ma di uppoin    ^Collocar perii uolontario  Mcto che quello fi può intendere da tre  cole, Complesfione, Età, et alteradone. quanto al primo, eh 'c  la Complcfììone,dico fecondo lifìlofofi, che dalle due quali-  tà humidità,etficcità,fi argomentano e concludono l’apprcn  fiua,c la retétiua-.poiche 1 numido è atto all’app renderceli fèc  "co al ritenere. Colsi fi uedel Acqua, che facilmente appréde,  malamente ritiene;il Salso difficilmente apprende, tenacisfi-  mamente ritiene; l’Acqua per l'humidità, il Salso per la licci*  tà.Parimentc l’apprenfiua in noi confille nella qualità humi*  dada retentiua nella qualità lecca del ceruello . £ fi trouano  tre lord d’ingegni, alcuni nel predominio de? lécco, c quelli  difficilmente apprendono; ma tenacemente ritengono, com’il  Saffo. Altri nel predominio delThumido, e quelli prontilfi-  mamentc apprendono; ma puoco ritengono, à guila dell’Acqua. Altri confiflono in una mediocre qualità d humido, et  lecco, e quelli mediocremente apprendono, e mediocremen  te ritengono.La caggione dunque della cattiua Memoria, è  il flulftì, et il fouerchio humido del ceruello . Quanto al fccó  do dell'Età dico, che dall’Età fi uedel'augmento et il manca-  mento negli organi fènficiui; l’augmento nclli Fanciulli nelli  quali ui c l’alteratione del nutrimento che lèmpre crelcc: fi co  me nelli vecchi ui è il mancamerto; per la quale alteratione,  li fimolacri fenfibilifonoimpcdid,e periicono ; àguilà, che  la forma del uolto,che fi uede ftapataaiell’Acqua penice, per  l'alterationc, c mouimento dell' Acqua. Di piu dall’iflcfaEtà  li uede, cheli Fanciulli fon teneri et numidi ; li Vecchi duri c  fecchi: per lo che, quelli facilmente,nceueno li fimolacri ;et  in quelli ; per la durezza e ficcittàdc gli organi intcriori, difficilmentc .,7   film erteli Gmolacri trapassano: tome fi nedc,c'hel lume tra-  pala per l’Aria, thè ha del fottile è puro ; non però trapala  pef il Marmo, che ha del grò (so, duro,c, fecco. Quanto al ter  20 dico, che l'alteratione può naScere, ò da pasfionc di timo  re,ò d’infermità, ò d’imbriachezza ; perle quali alterationi per  turbati gli organi, non riceuono ; ò Se riceuono, non ritengo  noli fimolacri Sòmmiftillrati da Senfi, E Semi dirai che li Fan  ciulli hanno tenace Memoria; poiché creSciuti in età fi ricor-  dano delle prime co/è, che appre/èro : e parimente li Vecchi  fi ricordano di molte colè antiche. Rispondo quanto alli Fan  ciulli, che per due raggioni hanno quella tenace Memoria.La  prima Secondo Arinotele et Auerroe; perche alli fanciulli, le  prime cole ch’apprendono sono nuouec mirabile però con attentionc apprendendole, tenacemente le ritengono. La onde  li fanciulli meglio fi racordano d’una semplice favola, che pargoletti intcScro dalla nutrice; che di cento altre ch’esfi  medesimi huomini fatti leggano ne i Poeti. Veggiamo eSfer  ciò cònaturalc à noi, che lecoSenuouc prime, e rare ci appor  tano marauiglia;la marauiglia porta Sèco gagliarda attentionc  nellapprendente, ilqualc inten/àmente attendendo, tenace-  mente ritiene. L’ifteSlo ci rroftra l’eSperienza, che più ci ricor  damo d’vna Cometa apparta, che de mille Stelle cadenti nel  notturno Cielo; più d vn’Eccli/Te del Sole, che di dieci della Luna; come che la Stella crinitica, ò il Sole Eccli Sfato hanno  men del frequente, c piu del nuouo e raro ; e per confequcn-  za piò marauiglia apportano. La feconda ragione è d'Auiccn  na, ilquale dice che li Fanciulli tenacemente ritengono quel  che apprendono nella fanciullezza; perche in quell’età Sono  alieni da penfieri, cure, affanni, c trauagli : perlochc, come  fgombrati da ogni impedimento fbn’attisfimi à riceuere,per  ritener tenacemente le prim’apprenfioni . E quella ragione  d’Auicenna, è rifiutata dal Sig.Porta,nel fuo trattato della Me  moria nel capitolo vndecimo. Mà perche la ragione di AriSlo  tele mira I oggetto mouentc;e la ragione d‘ Auiccna mira il fo*  getto riccucntc : lolodola prima ragione mirante la dtfpofi-  tione oggettiua; e non rifiuto la lèconda ragione, laquale ma  rala difpolìtione del riceuenteipoiche la nouità dell’oggetto, Ja purità del Soggetto, fanno ch’il Fanciullo tenacemente ritenga;    rìtenga;oue per cagione di qualità complesfionale non potrei  be tenacemente ritenere. Al fecondo dubbio delti vecchi fi ri  Iponde, chè quella facilità di Memoria nafee, per la moltiplf-  catione delle meditationi, Se eflercitio, Se vfo dell'intenderej  Però dice Arillotele nel fecondo capo del fuo libretto della  Memoria, e Remini feenza, che Meditationes Mcmoriam confer  uant reminijeendo. E quello, perche l’Intelletto viene ad habi  tuarfi colla frequente meditatone; è queflhabito poi,viene à  facilitare l'atto del ricordare . £ quello balli quanto al primo  lignificato della Memoria,chc è la potentia memoratiua. E •  paflfando al fecondo lignificato della Memoria, che c il fimo-  lacro dirò due cofe; prima, comcfi fà in noi quella Memo-  ria; fecondo fe oltre latro del Senio, fi polla in noi far Memo  ria. Al primo dico, che il fimolacro in noi fi caggiona prin  cipalmente da Senfi, li quali riceuono lifimolacri Icnfibili, e  per quelli Senfi, come per tante Finellre, e Porte, paflàno al  le llanze interiori Senio comune e Memoria, doue fi ftabili-  Icono e fermano : li quali fimolacri fono da le potenti muoue  re la potentia cognitiua,per l’atto del conofcere . E quelli fimolacri, idee, Se imagini fono da Filofofi chiamati fantalmi, li  quali depurati poi per l’intelletto agente diuentano fimola-  cri, e fpccie intelligibili. E quelli limolacri intelligibili fi ri  ceueno neU’Intelletto posfibile; poiché come diceuamo l’Ani-  ma lepacata, pure ritiene li fimolacri conofoibili ; il che non  irebbe, fe fidamente nella Memoria finfitiua li fimolacri fi ri  ceucfTero.   Al fecondo dico, che la Memoria, non fidamente riceue li  fimolacri, li quali intieramente fumo nei Sentì; rnà ctiandio  li fimolacri imaginati formati dalla nofira Cogitatiua, la qua  lehauendo li primi fimolacri nella Memoria contemplando-  li, puolc congiongcrc uno fimolacro con 1 altro;ò uero racco  gliere dalTifiefio fimolacro nuoue imagini, e quelli fimolacri  et imagini poi fi riceuono nella Memoria. Per clcmpio nella  Memoria ui è il fimolacro del Sole, Se il fimolacro del verde  villi dal Senfo; prefentandofi quell» due fimolacri al a Cogi-  tatiu ;li congionge, è dice, il Sole verde, Se nidi la Memoria riceue quello fimolactodel Sole verde. È parimente fi fa de  gli altri imaginati fimolacrij come del monte d’0.o,ckll’B*p   ‘pocctuc. p© cerno, e della Chimera. Forma ancora delle prime figure,  et idée, ò arguitiuamente, ò per ragione di fbmiglianza altri  ** nuoui fimolacri; li quali fi chiameranno imaginati; perche  non comprcfìda fenfi. Liquali fimolacri imaginati fono necef  fari j all’Arte della Memoria: nella quale ci {bruiremo, non fò-  llmente de gli fimolacri hauuti da gli Senfi ; ma ancora degli  raccolti dalla Memoria,c Cogitatiua. E quello balli perla co-  gnitione del fecondo lignificato della Memoria,& anco per  quella Lettione. Douendo raggionare del Terzo lignificato delia Memo  ria,ch*è l'attoal recordatione, quando attoalmente ci ra  cordamo, ( il qual’atto propriamente fi chiama ricordare, fi  ben’ anco li chiama con nome generale, Memoria ) diremo  tre colè. Prima, come fi fa quelt'atto.Secondo in quanti muo  di fi fa auefl'atto.Tcrzo in che modo fi può facilitar quell- .   atto, al che mira l'Arte della Memoria, della quale noi trat-  tando.   Quanto al primo dico, che quell’atto fi fa, quando la potè  za cognitiua fiumana drizzata al Tesoro della Memoria, fé li  offerifeano fpeditamente,e prefentano li fimolacri, con li quali  ò contemplai raggiona,ò infegna,ò predica, fecondo l’ufo  delle forze interpretatiue.   Quanto al fecondo dico, che l’atto della Memoria parago-  nato all’impedimento antecedente, prende due nomi, l’uno  chiamato ripigliamento di memoria^’ altro Rcminifccnza. Il  primo quando fi frapone interrompimcnto di tempo.ll fèco  do, quando fi framette interrompi mento d’obliuione, e dime  ticanza. E che quelli due atti fiano differenti, appare per due  ragioni Arifloteliche. La prima dall’attitudine, La feconda  i dai fòggetto.Quantoalla prima chi è pronto ad apprendere^  capire, e ueloceadimpararc;è pronto, e uelocealla reminifeenza.E chi è tardo ad imparare et apprendere; è pronto alla ri  membranza « Quanto alla feconda, la rimembranza o ricordarsi; è atto dt molti Animali: mila reminileenza ddTHuotr»  lolamente,comc dirò piu inanzi . £ per darui vn cflcmpio di  quelli due atti, prendo qucll’auttorità, Sapientiam fine fi filone* 0  didici, et fine inuidia communico,& bone fìat era illitts nonabfcon  do . Haueudo hoggi riporto nella Memoria quell ’auttorità, e  domani volendo recitarle, le inticramctela Memoria me la ra  prefenrarà, quell’atto di Memoria li chiama ripigliamcnto di  Memoria: perche tra l’atto d'hieri, c quello d’hoggi fidamen-  te ci ètrapollo interromptmento di tempo. Mi fcdelvcrfb  che hieri m’albergai in Memoria, hoggi io mi ricordo la pri-  ma, e la feconda parola, e non mi ficordcrò la terza, ò quar-  ta; e pcnlàndo, eripenlàfldo, dopò quella obliuione,è dimen  ticanza mi lòuiene la parola dimenticata; qncfl’atto di ricordarmi colà /cordata, li chiama atto di reminileenza ; perche  vi fi c trapolla dimenticanza et obliuione.Sichela reminilceiT  aa none ogni atto di Memoria, dopo qual fi uoglia interrom  pimento; mà lolamcntc l'atto di Memoria dopò l'interrompi-  mento di obliuione. £ quelli due atti fecondo Ariflotile fono  coli differenti, che >1 primo è communc à gli Huomini et alti  Giomenti; mà il fecondo, che di reminileenza conuiene lo-  lamcnte à gli Huomini: perche la reminileenza c vna reflesfio f  ne dell'Intelletto difcorrcnte, per ricordarli la colà dimenti-  cata; fiche la reminileenza è atto dell intelletto, ò della Cogita  ciua lènfitiua,congionta all'Intelletto. Quanto al terzo principale, in ch$ muodo fi può facilitar  l’atto della Memoria, dico che ò pariamo dell’atto della remi-  nileenza, ò del repigliamento della Memoria. Se del primo at-  to, racoglicndo da quel che dice Arillotcienel libretto della Me  moria c reminileenza, dico che in tre muodi noi postiamo ri  cordarci di colà dimenticata. Primo hauendo l’occhio all'or-  dine delle colè; Secondo al tempo ; Terzo al luogo . Quanto  al primo, dico che dobbiamo mirare alle cole antecedenti, ò  iòflequenti alla colà che noi ci fiamo /cordati ; che coli ci Ib-  uenirà la colà mezzana; ilche fi vede per elperienza di quelli p  che làpendo molti uerfi, e /cordandoti del terzo, ò quarto;  recitando il primo, e fecondo, li louiene il terzo, et il quarto. Da quello nalcc dice il Filolofo, che alle volte ci ricordiamo d’vna colà pafiàta d’?n gran tempo ; et una cola del riftcflfo gjornojA d’vn’altro innanzi fatta, non «i G>uiene:per»  che quella cofa fouucnutaci nouamente,hà qualche collegaza  et ordine có quella cofa, che noi prefcntialmcnte penfàuamo.  Et il procreilo in quella colliganza fi fa in tre maniere, come  dice Ariliotilc; dal limile; dal contrario : dal propinquo. Dal  Amile, come le mi ricorderò di Socrate; ricordandomi di Pla-  tone, ìlquale c limile à quello nella fapienza. Dal contrario,  come fe mi ricorderò di AchiIIc;facendo mentionedel fuo au  uerfario Hettore. Dal propinquo, fe mi ricorderò del Padre-  mentre fò rimembranza del Figlio. Il fecondo muodo è mira  re al tempo;perche volendoci ricordare d’vna colà paflàta,di-  ftinguendoli tempi, e conAdcrando d’hora in hora potremo  ricordarci della colà dimenticata. Il terzo muodo, è mirare al  luogo: perche conAdcrando diparte, in parte, i luoghi ne’qua  li habbiamo fatto dimora et operato, potrà louuenirci il fat-  to che vogliamo . Quelli tre muodi di ageuolare la remini-  Icenza, lon fondate nell’ordine, ilqualc è ottima guida per la  facilita ancora del recordare. Indi A traggono d’Arillotilc a.  documenti per facilitar la Memoria, e la reminilcenza. Il primo, chele cofe da collocare in Mcmoria, Aano ben ordinate,  diftinte, e ridotte in capi : perlochelc colè malamente ordi-  nate, tardamente ci lbucngono.Il lècondo, che le gli porga vna  gagliarda attentione di mente: perlochc alle uolte ci ricordamo piu d’vna cofa villa vna fol volta ; che un’altra villa piu,  volte. Il terzo che frequentemente Aano meditate, et repetite  con ordine. 11 quarto che nel volerli ricordare colà dimentica .  ta, li Riabbia 1 occhio al principio della colà, ilqualc è atto atra  her a fe il nello, per la colligaza et ordinejcome A tira vn luco  filo, da chi prende il capo. Se pariamo del ripigliamcnto del-  la Memoria, et vmuerfalmentcd ogni atto di Memoria dico  chem tre muodi posAamo haucr faciltà in quell’atti; primo  per natura; fecondo per clfercitio; terzo per arte. Della natu  ra noi non posAamo farci maeftri; poiché c dono di Dio, il-  qualc dono l’habbiamo An da forigine; et cflendonenoi do-  tati eccellentemente, dobbiamo renderne lode a l’auttor del-  la natura ; et eAèndonc bifognoA, dobbiamo ricorrere a fua  diurna MaeAa per aiuto: poiché ìnitium omnù Sapienti, timor  Domini e/t . E ben vero, che la Memoria naturale puoi elfer   C aiutata    aiutata dalli Medicamenti, dairE{Tcrcitio, e dall’Arte. Dell’Arte, e dell’Effcrcitio diremo poi. Quanto alli Medicamenti, no  reiterò di dire*, che per lo più fogliono riufcire perigliofi, e par  ticolarmcntc le vntioni, che li fogliono tare alla poppa del  cerucllo ( chiamata l’occiput ) per ingagliardire la Memoria.  Lequali vntioni fogliono effer di qualità calida,c fecca; e per  che il caldo accende li fpiritidel cerucllo, e quelli (piriti aceli  et infiammati alterano, muouono, perturbano, dilordinano  li fimolacri; ne fiegue che quelli liquali vfano imprudentemé  te limili vntioni bene fpelfo diuentano frenetici, e pazzi. E fè  pure non incorrcfiero in quello danno ; non polìono fuggire  qucll’altro: perche fi sa bene, che l’ingagliardimento d’vn cò-  trario,rende debole la forza dell’altro contrario; à guifà, che  il calor che fubentra nell’Acqua, quanto più prende forza, tan  to più fi feema e, và mancando il freddo ; c perche l’ingegno  e l’acutezza dcllapprenfiua confitte nell humido; la tenacità  della Memoria confitte nel fccco ; però li Medicamenti calidi,  è fecchi; mentre ditteccano la Memoria, chiaro è che inga-  gliardendo la retentiua, debilitano l'apprenfiua . Laonde que-  fti tali mentre cercano d’hauer felice retentiua, diuentano roz'  zi, (tolti, c tardi, nell’apprenfiuaj intanto, che non fon’attimè  da fe fare inuentioni; nè ben faper’ imitar l’altrui; habili fola-  mente à leggere l’altrui fcritti, e quelli parolatamente riporli  alla Memoria, Ne per quello intendo negar affatto tali Medicamenti: mà concedo bene poter effer vfati,col configlio d’vn  efpertisfimo Medico, ilqualc conofccndo la qualità e forza par  ticolare del medicamento, la qualità, la complesfione, l’età, il  bifogno delmcdicato,potràopportunamenteordinare,& indi  con ficurczza vfarfi l’ordinato medicamento. Fra gliremedij  vniuerfali,fi recitano, Il moto, Il lauare; La tenebra, e la mediocre attcntione. La onde fi formano quelli quattro quefiti.  Il primo perche caufa quelli, che fi vogliono ricordare muo-  uono il Capo. 11 fecondo, perche caufa il lauare del Capo gi.o  ua alla buona Memoria. Il Terzo, perche meglio ci ricordia-  mo nella tenebra, che nella luce.ll Quarto, perche fapendo noi  recitar vna cefi, udendo darci molta diligenza, et attcntione;  ci feordiamo di quella. Al primo rifpódo,che alle volte nell’organo della potéza Mcmoratiua,vi è qualche oppilatione, laqua IO   le impedifceil libero paflaggio dell» 1 (piriti fenfitiui: e mouédoì  noi il capo, s’apre quell’impedimento, et aperto pa/Tano li  Spiriti, c ci ricordiamo. Al fecondo dico, che per tal lauamen  to s’aprono li pori della Tcfta, perii quali cleono fuora li fu  mi, che ingombrauano il ceruello, et impediuano illuogo co  fèruatiuo dclli fimolacri; la onde ufciti quelli fumi,reftando  libero l’organo, facilmente ci ricordatilo. Al terzo ri/pondo,   . che ne. la luce li moti de l’oggetti lenfibili efteriori, come piu  gagliardi, impediuano il moto delli fimolacri interiori, che fò  no men gagliardi. Per lo che fi da regola, che l’huomo per ri-  cordai fi, e per collocar in Memoria, li può feruire dellatene-  bra,ò naturale, ò uolontariamaturalc del luogo o/curo;uoloa  taria, chiudendo gli occhi nella luce. Al quarto dico, che la fi>  uerchia diligenza^ attcntionc,preci/àmcntenclli fimolacri bc  ne habituati, perturba li /piriti, c muouc gagliardamente li fi-  molacri riporti nelforgani ; c quefta pcrturbatione ecommo  uimcnto alterando, dilfordinando, e confondendo li fimola-  cri, impedi/ce l’atto perfetto della Memoria- Ma ponendo me-  diocre attentione,e diligenza : non ne fiegue quefta perturba  tionc,e di/ordinationeje però li fimolacri meglio fi ripigliano.   Quanto all c/sercitio dico, che ottimo rimedio, per facilitar  l’atto della Memoria, è l’clcrcitio mentale, e uocalejpcr Io che  fi riferilee di quel Filo/òfo lettore, il quale più e più uolte ri  chiefto da’Difcepoli,chc uoleflelor’infegnare l’Arte della Me  moria : dopò molte preghiere, all’vltimo con Metafore di Me  tonomia figurando l’e/èrcitio difse,chc fi riccucflc Scarpa fa  na,c Scanno confumato.Volendo inferire, che lo Scolaro, per  far buona Memoria, fuggendo li fuiamenti; debbe /edere, c  uigilando /Indiar molti Libri, E chi non sà,chc fedendo affai  lo Sc-nno, ouc fi fiede fi confuma ;ele Scarpe, perii ripo/ò  rimangono lanc.E qudfto forfè, uolfe dire il Filo/ofo in quel  fuo detto fedendo, e ejuiefcendo,Jinimns fit prudens. Indi credo, che Adamo /àpientemente impor endo li nomi alle co/c,  chiama/Tc la Memoria con parola hebrea, Zecher. Il qual nome, c comporto di trelettre; Zain,che c Interpretata oliua.  Caph,chc interpretata,curuati funt: Res, ch’e interpretata  Caput. Volendo dire, chelaMemoria confifte nel Capo cur-  ilo^ per Io cheuolendoci noi ricordare d’una cosa dimenticata, curuamo et inarcamo il Capo; perche ri fedendo la Memoria nella parte deretana del ceruello, chinando noi il Capo  al Petto, con quello moto s’aprc l’organo, e fasfi più atto, e fa  cile alla fua operatione. E di più la Memoria dice Capocur-  uo; perche dobbiamo curuar il Capo à lludiar li libri ; e da  qui nalce poi(come dice il filosofo)cheli Studenti per lo più,  hanno qualche poco di Gobba ; perche non piegano pigri  il Capo alle (palle fopral'otiofe piume; mà diligenti I'incur-  uano al petto, fopra gli aperti Libri . E di più il nome della  Memoria contiene l'Oliua, dalla quale fi fa foglio, udendoci  moftrare,che l'Huomo per acquillar buona Memoria, debbe  uigilare, non folamente con la luce diurna del Sole ; màcon  la notturna dcll’oglio.Oltra che il lume dell’oglio,è più atto  di quello del Seuo,ò graffo, il quale col noiofo fumo, e feto  re appanna gli occhi, c difturba affai il cerudlo. Auertendo per fine di ciò,che in quello capo curuo non fi prenda fred  do nell’occiputjmà fi mantenga col fuo calor naturale, non ec  ceduto, nè alterato da calor eitrinleco : acciò il calor’acciden  tale, non perturbi l’ordine de’fimolacri :& il freddo nonag  giacci,& induri l’humidojfi che fi rendano poi l’organi tardi,  pigri, e difficili all’operatfone.Disfi dell’efercitio uocale, inté  dendo di quelli li quali ripongono in Memoria, per recitare  leggendo, predicando, od orando; perche lappiamo, che non  folamente l’Intelletto è habituabile; mà ancora la Mano, eia  Lingua; quella à fcriuere, quella al recitarejpcr chchauendo  noi imparato uinti,ò trenta uerfi,& affoefacendoci in recitar  li molti, è molti giorni, la Lingua uiene ad habituarfi, intan-  to, chefenza penlarci ò darci mente recita, e feorre diuerfo  in uerfo ottimamente.Dunque, perche la Lingua è cosfi ha-  bituabile,e porge aiuto alla Memoria in recitare;è molto ben  fatto alloggando nella Memoriale colè, e repetendoleper Ha  bilirle in quella, fare che ancorla Lingua le reciti, el’efplichi  con uocc quanto più fi può intelligibile ; e quello fi uederì  con elperienza,'chc apporterà grandiflimo giouamento alla  Memoria.   Quanto aTArte da facilitar l’atto della Memoria ; quella  farà la parte, che s’ha da trattare diffufamentedanoi . Della  quale, come uoglionocommunementcli periti de quell’ Arte   e P  1 1   e precifàmente Cicerone, e Quintiliano, nc fu primo inuento  re Simonide Melico Poeta Lirico, il quale hauendo uifto mol  ti fedenti in unconuito,& efsendo poi caduta la ftanzadelcó  uiuio;& vccifi, c dislìpati li cóu tati di maniera, che nó poteua  no elTerconofciuti diflintamcte dalli parenti et amici, che vole  uano farli gli honori funerali, Simonidc Poeta fbp radette, hauS  do per prima riporti nella Memoria licóuitati, fecondo l’ordine de’luoghi oue fedeuano; diftintamente vno p vno li rico?- -  nobbe . Metrodoro feeptio fece perfetta qucft’Arte, Cicer:  adHercnnio ne trattò efquifìtamente, cort Quintiliano, Sene  c a, Petrarca, Rauenna ne fa un trattato ih  titolato la Fenice. Fra Lorenzo Guglielmo debordine minor  conuentuale, pienamente ne tratta nella fua Rhettorica. Fra  Cofma Rortellio dell’ordine dc’Predicatori, ne fà un libro in-  titolato, Thesàurus memoria: artificiose . E prima di lui ne  trattò pienamente F.Gio. Romberch, Iacopo Publitio, Ma-  theolo Perugino, Francefco Monleo et altri nelle opre della  Retorica.il Sig.Dolce in forma di Dialogo, uolgarizò il Trac  tato del Romberch. E finalmente il Sig.Gio:Battifta la PORTA (vedasi), n’hà fatto un bellissimo trattato, Io mi sforzerò, et imitando inuentando; ridur queft’Arte, àquel compito Metodo,  che fi potrà maggiorc.Notando, che due colè iidefiderano in  qucft’Arte; primo, Il ucro Methodo della Dottrina; fecondo  la Voce uiua di chi bene l’infègni.Per difetto del primo, mol  tireftanopriui di queft’Arte; per difetto del Secondo Tariffi  mi ne riefeono; perche queft’Arte, à mio giuditio,è limile al-  la Mathematica,c Notomia ; le quali, mentre fi fpiegano, bifo  gna ch’il Mathcmatico habbi la fua tauoletta ingefsata, fbprà  la quale difegni, e moftri le Figure Mathematiche: et il Noto  mifta habbi dinanzi a gli occhi, e /òtto le Mani, e tagli di Prat-  tici, il Corpo humanojfòpra il quale infegnando con la Lin-  gua; moftri con il Dito di parte in parte, tutte le membra hu  manc.Cofiì il Lettore d» que/l'Arte,bifogna che feelga uin-  ti,ò trenta luoghi, e quelli uifti dalli Scolari, c ben polli in Me  moria, come preamboli; fiuadipoidi parte, in parte, efplican  do il contenuto dell’Arte. D Alle cofc fopradette raccolgo, c concludo quattro colè;  la diffinitionc della Memoria Artificiale, il titolo dell'Art, il foggetto, la partitione. Del primo dico, che la Memoria Artificiale^ vna forza ac-  quiftatacon arteficio ingeniofo, perlaquale tenacemente li fimolacri di cofe ò di parole fi ritengono, c viuacemcnte alla  virtù contemplatiua, cnarratiua fi rapprefentano. Dclfecon  do dico, che queft’Arte fi chiama, Arte di Memoria ; e chi la  volcfle chiamare Arte di Memoria vdita, non errarebbe ; poi-  ché è vn’Artc, che conuienc,non folamentc efler iftudiata nel  li Libri; ma vdita ancora da voce viua ; nella guifà che forfè  Ariftotele (fecondo alcuni) intitulò li primi Libri della Fdo-  fòfia,de Phifico auditu . Indi credo, che tra gli Ieroglifichi,  l’Orecchia fi troua confccrataalla Memoria . E fi bene dottamente Porta, intitulò queft’Arte, l’Arte del ricordare :  poiché la Memoria Artificiale mira, et attende à facilitar l’atto della Memoria, che è il ricordare; non però ne ficgue, che il  titolo antico, e communc diqueft’Arte debbia edere rifiutato; poiché e da Filofofi, e daThcologi, tanto la potenza della  Memoria; quanto il fuo fimolacro, c l’atto, son chiamati memoria. E fe ben affermo,  che queft’Arte mira anco la reminifccnzajquando ne i limola  cri albergati, foccedeffe obliuione: nondimeno conueniente-  mcnte fù chiamata da gli antichi Rettorici, Arte di Memoria;  non fedamente dal fine, come dice il Sig. Porta: poiché il tutto  fi fa per accrefcere la Memoria; ma perche ogni atto di ricor  dare, e chiamato Memoria, com’io disfi. Del Terzo dico, che  il foggetto di queft’Arte, c il Luogo ideato per ricordarci;inté  dendoper l’Idea il fimolacro,la fimilitudine,I’imagine, la qua-  le fi colloca nel Luogo ftabile: acciò viuacemcnte ci raprefèn  ti la co(à,ò parola della quale vogliamo ricordarci.E da que»  fto foggetto, io prendo la partitione dell'Arte, laqualc è diui-  fa,in Luoghi, et Imagini.E fèbene il Signor Porta aggiongala  Perfona,tra il Luogo, e l’Imaginc j nondimeno diremo al fuo  luogo,fe quefta Perfona, fi deue ammettere in queft’Arte . Et ammettendofqla redurremoal Luogo, ò allTmaginctfi che re  ftafofficientela partitione,in Luoghi et Imagini.il luogo è  come Materia; l'imagine come Forma; Il Luogo ca guifa del  la carta nella quale li fcriuc: L knaginec à guifa della (cattu-  ra che fi (tende (òpra la carta, e come dice Quintiliano con CICERONE (si veda) il Luogo c come tauoletta incerata, l'imagine, co-  me lettera. Si che il Luogo, è quella parte materiale, (labile,  diftinta, e proportionata, laquale c bafe della Imagine, Figura,  è fimilitudme della cofa,ò parofa,come vn’Angolo d’vna Cel-  la. L’imagine c la Forma,!* Figura, la Similitudine, ó Segno  di quella cofa,ò parola, che noi vogliamo ricordarci, come la  forma d’vn’Huomo, ò d’vn Leone, quale con la noftra Men-  te, noi collocamo nel Luogo.Del qual Luogo, e poi dell’Ima-  ginctrattarcmo.   Delli Luoghi.   Dirò ordinatamente tre colè delli Luoghi, ’la Partitiotie, le  Conditioni, ò Regole, et il muodo da formarli nella Me-  moria .   Quanto alla Paninone, ò diuifionede i Luoghi, dico che il  Luogo c di tre (orti ^ Imaginato.   rti, il primo Reale, il j. imiginato. Il pri  roo e quello, che nel Luogo ucde il Senio,comc nel primo  Luogo ci troua la Porta, nel fecondo l’Angolo,nel terzo la Fi  ncllra. Iinagmato c quello, che ut formala Mente; per clfem-  pio le da Angolo ad Angolo di una danza ui foffe uno fpatio  troppo grande per un luogo, ecapacedt due Luoghi, c‘  che non ci foffe in tale fpatio niunodidintiuo ; io pollo for-  marcene uno, con la mente, collocandoci una Pcrlona, una Fi  gura, un colore, un’altro limile fegno ;ò pure le uoi hauede  commodtcà, farebbe bene farci un fegno reale, come làreb-  beà dire prender un Banco ò Caffa,ò altro artificiato, e por   10 in quello fpatio per fegno ; ò pure appendere nel Muro  qualche colà con un chiodo, come un Quadro, una Figura, ò  ergerui un’Altare, fè pure non uiuolede (bruire del Muro per  carta di pazzi, dipingendoci un legno col carbone, o altro co  lorante. Equedi fegnifian uidi, reuidi,e maneggiati; c poi  fermati,e repetiti nell.; Memoria. E fc bene fi rimouinoqucl   11 fegni da i luoghi, fi ritengano però fempre nella Memoria,  come la prima uolta ui fi uiddcro.Auucrtendo (opra il tutto,  che il fegno del didintiuo, non fia troppo piccolo; perche nó  darebbe quella uiuezza che fi dcfidcra .   Seftò, Del Numero. Il numero di Luoghi, mira il bilogno di chi li forma; per-  che chi uuole Luoghi per li Concetti, un mediocre nu-  mero li bada; chili uuole ufare anco per le parole di molto  numero n’ha-btfogno, fi come colui,che fcriucpoco, di poca  carta hàbtfogno; mà chi Icriue molto, di molta è bifrgnolbr J 6 Il Raaenna fi uanta d’hauerne formati cento diece mila . Il  Rolfellio ftima, che il gran numero offende alla Memoria .  Cicerone ftimò,che fidamente cento luochi baftalfcro. S.To-  mafTo con Teglia ad hauerne molti. Il Petrarca, il Rauéna,Gio:  di Michiele, Matheo Veronefèò Perugino, ìsibuto, e Chirio,  et con quelli il Romberch fi dilungano da Cicerone. Voi formatencne prima cento, per rclfcrcitio j e poi di mano in ma-  rno formatene dell’altri, hor collocando vnaChiefa,hor un  Palazzo, hor un’altra Chiclà, finche haueretc la lèmma d’un  mille luoghi. E le quelli non ui baftalTero, potrete formarne,  de gli altri; purché non pasfiatc à formar li Luoghi della feconda Chiefa, ò Palaggio;fe prima non haurete molto bene Ila  biliti nella Memoria li luoghi formati nella prima Chiefà ò  Palazzo, ch’altrimente facendo, offendcrelle la Memoria, e con  la confu fione, e con la fatica.   Settimo, Della Diuerfìtà.  Non è colà doue fi ricerca tanta uarietà,c diuerfità, quan  toin queft’Artc; per lo che l’uniformità, ò Gmilitudine  delle colè, c diametralmente opposta alla Memoria di Luoghi.  Però in un Clauftro,doue fi ueggono Archi, e Colonne tutte  limili, non fi polTono formar Luoghi;!! come nc meno nelle  Celle di Dormitori; di Rcligiofi, parlo di quelle che tutte ha  no le porte, e diftanze fimili. Si ben’ alcuni uolcndofi feruire  di tali Luoghi fimili, diano Regola delli Diftintiui imaginati;  come legnarcon la mente le Colonne, una con una Croce,  un’altra con una Mano, vna Cella con un Santo, l’altra con  un’altra Figura;non dimeno quello mi pare uano c fuperfluo,  si perla difficoltà, che s’aggiongealla Memoria, come per ha  ucr noi ampia commodità da poter cIegger’aItrfLuoghi,qua  li per la dilfomiglianza,c diftintiui reali fon più atti, e facili al  la Memoria, lènza lottomcttcrci Se à quella nuoua fatica, et à  tal pericolo di uacillarnclli fimili. E ben uero, che le noi nel  formar di Luoghi, doùesfimo palTar da Luogo Commune  ad altro Luogo Commune, come palfarda una Cielàad una  Sacreftia; e per congiongcr quelli due Luoghi Communi, ci  conuenilfe palTar, per un Clauftro colonnato, e che le Colon   ne fu-    nefuflero poche in numero, come tre,ò quattro ; non nega-  rei il palTat per quelle, e diftinguerle con qualche legno reale  pofto ad tempus^com’io disfi nel Capo quinto del Diftintiuo,  ò collocandoci perfone familiari, fecondo le regole che fi di  ranno delle perfone ftabili, ò almeno diftinguerle con fegni  imaginati. Delle Celle fimih di Dormitori, s’auerta,che ce  ne potiamo lèruirc,ò palpando, ò entrando; le palTando,e tut  te le Porte, e le dirtanzc,tra Porta, e Portalono uguali, e fimi  li: è difficoltà a i oprarle, àchi non le li fàprattiche,diltinguc  dole per diftintiui efficaci, c particolarmente per Peritane che  ui habitano, quando lon molto ben conolciute dal Formato  . re. Se entrando è gran commodità ; perche col diftintiuo ef  ficace ritrouata la Cella, fi portono dentro di quella ordina-  tamente formare alcuni Luoghi, et ufeendo da una paflarc  per lo fpatio tra mezzo alla lequente Cella.   Ocrauo Dell* Lumi,   DErche forniamo fi Luoghi,per collocarci l’Imagini, e talmé  *•' teli raprelentano alla Mente l’Imagini, quafi l’hauesfimo  dinanzi à gli occhi: però bilogna,che il Luoco fia illuminato;  acciò Mangine fi posfimortrareallofguardo. La onde il Luo  go oleuro, non catto per queft’ Arte; perche fèpelifce, uela,&  acceca Tlmagine.E fi come l’Imagine porta in aperto Luogo,  perii fouercnio lume fi rende all’occhio fbuerchiamentefplc  dente, d’occhio irtelso s'offulca in mirarla, ne può diurna-  mente, e commodamente contemplarla; cofi la Mente non ef  fìcacemente apprende, nè uiuacemente la Memoria csfibilce  qucll'Imagine, cheda foucrchto lumeè illuftrata . E però le  Strade aperte; le Piazze, le Muraglie, che fono dalla parte di  fuori dell’Edificii, non fono troppo atti per quert’Arte. E qua  to aH’ofcurità,il Sauona dice,cheil Luogo oleuro, fi può far  luminolo: le fi confiderà, efi forma con un lume di Lucerna,  e Tempre fi mantenga nella Memoria cosfi illurtrato,come fu  uifto con il lume quella prima uolta.Ma quello io l'ammetto,  quando quel Luogo oleuro forte neccrtario all’ordine di Luo  ghi, per non interromperli; fi che per continuarli bilognaflc  palfar per un Luogo oleuro. Il limile dico dclli Luoghi aper    ti, che per cotinuar Luogo Còmfflune, al Luogo Comma  ne, mi bi/bgnaffc pattar per vn'Andito, ò per vna Strada,ò  per vn Cortile': potrei in tali Luoghi aperti, formar i Luoghi  diftinti.E quando fodero /ouerchiamenie luminofi :fitor-  mino i Luoghi in tempo nuuololojò nell’hore, quando s’itn  bruna il giorno la /era, ò quando fi chiarifce la mattina. E  nel modo che furo vidi la prima volta che fi formaro ; così  fiano Tempre ramcntatt. Et auertail Formatore, di non eflcr  troppo fcrupoloio intorno alli Luoghi aperti; perche ctten-  do aperti uerio il Cielo, e per il progretto, nondimeno fono  chiufi a faccia, con mura et habitationi non troppo dittanti»  come /bgliono ctter le ftrade per le Città;e s’ofl'crui quelche  fi dirà della folitudinc,e fic detto di lumi, di formar i luoghi  in certe hofe del giorno, quando e men frequentati, e men  luminofi fi veggono; non c dubbio che permisfibili fono alf-  Artè. •   Nono Della Quantità. m   P Erche ne gli Luoghi fi collocano l’Imagini corporali, di-  ftefe per larghezza, et altezza;però bifogna, che li Luoghi  habbino la loro debbita grandezza. Et perche il Luogo trop  po piccolo, non potrebbe capir l'Imaginc ; e fe fotte troppo  grande fuiarebbe lo /guardo, et confequentemente la Men-  te # laquale ila attenta alla Memoria, che è fondata nel fenfo:  però fi attegna la larghezza di otto ò noue palmi, òpiedi;per  che in tanta larghezza, fi può à braccia aperte, e fpiegatedi-  ftender vn’Huomo.Nó meno, acciò nello fpiegar delle brac  ciad’vna perfona,noningombratteilLuogointanto: che nò  reftatte fpatio per l’altra Per/ona, quando per occorrenza del  l'Imaginc bifbgnatte fimilmcnte fpiegar le braccia.Non più»  perche noi uogliamo feruirfi delti Luoghi, non /blamente  per li Concetti: ma anco per le Parole. E fi come malamen-  te leggiamo le parole, quando le lettre, fillabe, ò le parole an  Cora /on'troppo dittanti l’vna dall’altra: così tardamente /om  minittra la Memoria, quando li fimolacri non hanno tra loro vna cofiueniente vicinità» come diremo nelfeguente Capo della Dittanza. E Decimo Della Diftantia.'   C icerone vuole, che un Luogo Ila dittante dall’altro trenta  Piedi, ilchc lìcgue ilMonlco. Il Rottcllio vuole, che 30 .  Piedi, s’intenda del Luogo ampio; ma del particolare, quin-  dici ò vndici Piedi. Il Sig. Porta dice, che Cicerone vlàua i  Luoghi per li Concetti giudicali, douebifognaua hauer fpa  tio grande, per depingcrci gran fatto: ma per le noftre Regole batta la diftanzadi otto palmi . Alche fottoferiuo io di  ccndo y col detto Sig.Portarche le per calò ogni otto palmi*  non s’ihcontrafle Angolo^Porta^ Fineftra, ò dtftintiuo nel  Muro ; mà il dittintiuo fotte puoco amati, 11 che bifognal^  fc dittender’il Luogo altri due palmi, non importa che la di-  dimi Ila di dieci palmi . Si come incontrando il dittintiuo  nel lètti mo palmo, e nelfottauo non ci fette ; non farebbe er  rorc, il fermarfì nel dittintiuo.E la dittanza s’intende, dal cé-  tro,e dal mezzo del Luogo, al centro dell’altro Luogo : lì che  ne fìegue,che li Luoghi habbino ad etter fbccesfiui, e conti-  gui . Il Rauenna adegua la dittanza di cinque ò Tei piedi : il  che le ben potette pattare,nondimcno è più lìcuro darli la Iar  ghezza d'vn huomo,con le braccia (piegate e diftefejaccio  occorrendo farli Ipiegar le braccia non s’ingombrino le Per  ione tra loro.URomber eh oltre che (lima ottimala Regola  dclRauenna,aflegna ancora la dittanza di due piedi quando  l’Angolo,ò altra cola lègnalata,abbracciafle i luochi.Ilche le  s’i mende da centro à cétro, forfè pattarebbe, per la collocano  ne immcdiata:ma non è congruo perla cJlocatione media-  ta, laquale ricerca Pcrlone Se Imagini,lequali douendofi fpie  gare per larghezza,non li ballano due piedi; le pure per pie-  di, non intendefle due moti, e pasfi. Ma s’egli intende della di  flanza,tra il fìne di vn Luogo, et il principio del feguente : fe  la necessitaci conftringe à far quello* c permetto com’io dif  fi con Porta.   -,  Icttioiic La soccessione di Luoghi, ò s'intende tra Luogo Comma ne,e Commune:ò tra Particolare, è Particolare . Quanto  alla prima foccesfione, (irebbe bene in vna Città, hauendo  più Luochi Communi:chc il Formatore (ì sforza (Te ordinar  li, conforme al (ito ideilo che fi trouano;paflàndo da Luogo  Comtnune al Luogo Commune ordinatamente:cioc da un  Luogo Commune, li pas(i all'altro Luogo Commune più ui  cinoje co(i poi al terzo, c poi al quartoje girando, ò caminaa  do per dritto ordinatamente, pauarall altri foccesfìuamente.  E non potendoli ciò fare di tutti; (i faccino in due ò tre par*  tite.Et perpaflar da vn Luogo Commune, ad vn’altro Com  mune, coinè da vna Chieli ad vn Palazzo, da quedo ad vn al-  tra Chicli: (irà ben’incatenar quedi Luoghi Communi, con  alcuni Luoghi Particolari;purche il uiaggio da brcue,cli Luo  ghi fi posfino formare commodamcnte, come disli nell’otta  uo.capodelli Lumi, e nel (èttimo della Diucrfità. E queda  (òcceslìone tra Luoghi Communi c vtile: perche collocando  voi vna T*redica,od Oratione, e li Luoghi Particolari d’vna  Chieli, non ui badalsero, perlochc ui bilognalse paflar ad  vn’altro Luogo Commune:gioua il paflirci,per un mezo con  tiguatojaltrimente la Memoria fuariarcbbc.È notate, che que  fio paflagio li fà in due modi nel recitare, primo conpaulà,  fecondo lenza paufa.Con paula c poli, per elfempio hauen-  do finito il Prohemio, il dicitore prende fiato, epoi ripiglia  la Narratiua:in queda polita, può il dicitore far paesaggio  da Luogo Scontiguato,ad un Luogo Dilcontiguato ; c non  (blamente da Luogo Commune, ad vn’altro Commune, che  lia in unaidefsa Città:tna ad un’altro Luogo Commune, che  fia in vn’altra Città.Pcr efempio, hauerò collocato il Prohe-  mio, nclli Luoghi della Chiefa di San Francefcodi Palermo;  polso collocar la prima Parte della Predica, nclli Luoghi di  San Domenico di Palcrmojò nelli Luoghi della Minerua di   £ a Roma, e la feconda parte, in vn’altrà Chicli . E così, non è inconucniente pattar da Luogo feontiguato,à Luogo feonti-  guato;& ctiamdio lontano, quando li prende fiato . Mal nel  fecondo muodo,tjuando bifogna farpaiTaggio lènza paulà,  e fenzapofata: è pericolofo,il pattar da Luogo Commune, à  Luogo Commune, lènza qualche mezo. Per eflempio,la  prima parte d’vna Predicabile va fcguita lènza pofata ; bilbr  gna collocarla in un Luogo Commune. E fé un Luogo Com  munc non baftaflè ? Dico che collocandola tu ledeui darai-  tergo in un Luogo Commune, che fiacapace:e così fuggiti  pericolo.E le per mancamento di Luoghi, ò per inauertenza  te la troui collocata in un Luogo Commune, e poi fei forza-  to pattar ad vn’altro Luogo Communc:dico chedeui pattare  advn’altro Commune vicino, quale però fia contiguato per  Luoghi Particola ri, co m’io diceua. E le quello non fofic có  modo difarfi? Dico che bifogna adoprarl’allutia, fingendo  qualche coliche ti dia tanto di Paulà; quanto commodamc  te la Memoria, con la Mente uoliiio al principio dell’altro  Luogo Commune, e trouato il principio lèguir la Narratiua.  Per efsempio predicando, quando farògiutoal finedelli Luo  ghi Particolari d'vna Chiela,c douédo pafsar ad vn’altraChie  falontana;fingerò che mi venghi vnatofse, ò cheti Compa-  gno michiama;c mentre ltarò,ò à tosfire e purgarmi, ò uol-  tandomi parlar, ò attenderai Compagno; pafserò con la Me  moria, e con la Mente, al principio dell’altro Luogo Comma  ne, e trouatolo e ben polsedcndolo, ripiglio il ragionamento, e così con l’Arte, e con l’allutia cuopro il difetto . E quello  fia detto della lòccesfione de’ Luoghi Communi, che della  lòccesfione di Luoghi Particolari, non occorre dir altro: poi  che quella li conchiude dalle due Regole antecedenti, Quanti  •tà, e Dillanza, alle quali necefiariamente ficguc la contigua-  tionc,e lòccesfione. L’Ordine del Moto, s’intende dell’ordine che li de tenere  dilcorrcndo per li luochi : fe fi deue cominciare da man  delira, c campando finire nella man finillra; ò difeorrere al   v - -- contrario.il Raucnna parche cominci dalla delira. Si bené  il Rombcrch r duca il Rauenna al mot* perla deftra;ma cominciaudo dalla liniftra.il Roffcllio vuole, che lì cominci da  man finiftraj (è bene non rifiuta il contrario.. Il Porta lodai’*  rn’è l’altro;purchc li fèguiti l'ordine, che cominciando dall-  yna,fi Unifica all’altra.Che dalla delira fi de cominciare, cc Io-  perfuade il Filofofo diccnte, ch'il moto comincia dalla parte  delira. Che dalla liniftra lo proua il Rofcelho: perche queft*-  Arte,è poco differente dall Arte di Icriuerc, come dice Cicero  ne:e perche noi lcriuendo,e leggcndo;fcriuemo,è lcggemo,Co  minciaudo dalla f!niftra,e cammamoalla dcftra;però li de ca  minar. per i luoghi dalla Anidra alla delira. Alcuni ftimano,  che quelli che ucggono bene col l’occhio deliro, come lon’-  io; e poco e niente coll’occhio lìniftro, Icofrefsero dalla de-  lira alla finiftra; quelli che vgualmente ueggono, con ambe-  due gli occhi, pofsono indifferentemente di /correre dall’ vna,  e dall’altra parte. Nódimeno l’elperienza moftra, che èco-  sì facile cominciar da vna parte, e finir nell’altra : come co-  minciar dall’altra, e finir nell’vna.EIa raggione,non è, nè l’v-  na,nèl’altra asfignata dal Rofsellio : perche l’vna, efclude l’al-  tra. Che fe fofse,pcr il moto dello fcriuere: non farebbe faci-  le vgualméte il leggerete i Luoghi al rouerlo, come l’efpe-  rienzaci moftra. Se fofseil mote, che comincia dal deliro : ci  farebbe difficile il cominciar da man manca,ilchenon c vero:  fi che ne l’vna nel altra raggione, elattamente,& elquifitamé  te ci quieta.La ondeùn quello fatto ftimo, che ò pariamo de  la collocatone dell’Imagini : ò della formatone di Luoghi. Quanto alli Luoghi, vgualmente è facile rallentarli, per vn  verlo;comc per l'altro . Quanto airimagini,ò fono Imagini  intere e Iole, di concetti, ò di parole intiere i E così, perche o-  gni Luogo hi la fua intiera Imagine; parimente è così facile  i difeorrere per un uerfo,come peri altro.Mà fel'Imagini fof  lerodi parole, et Imagini fpezzatc, cbilògni leggerle, nel muo  do è uerfo,che fi leggono le fìllabe al dritto non al riucrlb :  così è più facile difcorrer’à quel verfo,chc fon collocate. Per  elsempio,nel primo Luogo ci metto quelle parole, te Ibl’ado  ro. per T. ci metto vna pei fona chiamata Tiberio, alqualc  dò in mano un Tridente, colquale fora una fòlad’oro . e così   da da Tiberio, hòilT.dal Tridente l'E,e dalla fclàdioro,que*  Ile due parole fol’adoro,e tutte tre quelle figure fanno,te fol*  adoro.Qucde tre figure le pofso collocare in due muodi,pri  mo all’vfo hebreo, che legge dalla delira alla fmiftra, fecon-  do all’ vfo greco, ò latino, che fcriue,e legge dalla fin idra alla  dedra.Se io le colloco al primo muodo, 'più facile farà proce  der poi, dalla dedra alla finidrarperchccon quclVordinc io  tengo albcrgatcncllaMcmoria.Se le colloco al fecondo muo  do;più facilmente procederò, dalla lìmdra alla dedra parte .  Mà feillmagincc intiera d’vna fola figura, come fe nel j^ri- ’  ino Luogo ci metterò queda parola Geronimo, 1 eper quedft  parola ci colloco l’Imagine di vn San Geronimo, colpetto  ignudo, e col fallo alla dedra mano : pollo ugualmente ben  ricordarmi queda parola, ò dalla dedra, ò dallj linidra par-  te, ch’io cominci.E la raggionc, perche la nodra Memoria, et  al dedro,& all’oppodo muodo vgualmcntc esfibifee, credo  che fia: perche non mira l’ordine del moto di nodripiedi;ma  l'ordine che ritroua nelle colè uide dall’occhio. E perche nel  le cole uide, non /blamente ui c l'ordine dal primo al fecon-  do, e daquedo al terzo,ecofi loccesfiuamentc fin’ull’vltimo j  ma vi è parimente l’ordine dall’infimo focccsfiuamente fino  al primo:pcrò ordinati ncU’idelTò muodo li fimolacrì, puo-  le la Memoria fondata nel lenfo,&al dritto,& al rouerfo esfi  birh fenza difficoltà alcunaifi come l’occhio con l’ide/fa faci  lità,che mira gli oggetti dalla dedra alla finidraj puolc mirar  li dalla finidra alla dedra. Della Solitudine. Non parlo di quella solitudine, chefinfe Cicerone della Città da formarsi da noi cò l’imaginationein vn De  (èrto, per darli tutte le conditionidi Luoghijperchc di queda  ne raggionaiyquando disfi delli Luoghi imaginati : ma inten-  do dclìi Luoghi artificiali reali, liquali fecondo 1 ide/To Cice  fonedeuono efler eletti, in Luoghi folitarii, non frequenta»  da gcnte;pcrche la frequentia.il pa/feggio,lo drepito delle gé  ti,didurba, e debilita li fegni delFlm?gini, che all’incontro la sòlitudinc conlerua integre llmagioìdi fimolacri.il Rauenni dima ftinuuana ropinione della fblitudine, ciocche non fi elegga-  no Luoghi,d >uec frequenta di gente, come le piazze publi  che, le ftradc della Città frequentate: perche balla hauer uifti  quelli Luoghi qualche uolta lolita rii, e lènza gente. loftimo  che quel che dice il Raucnna fia uero delle Chielè,e Tempii,  liquali in certe horelòn uacue,e lènza gente: et inqucll’bore noi poslìamo formar li Luoghi;!! che balla la prima uol-  t.i haucruilli tali Luoghi uacui. Ma delle piazze, e llrade fre-  quentate d’ognihoradiurna, non so come le poslìamo ueder  folitdrie,e uacuejeccétto che lèm’empilTe l’orccchiedi bom-  bacc,ò cottone,pcr non lèntir’il tumultojc con 1-occhi facef  fi un’eftàfe mctaphilìcale, e non attendere ad altro con gli oc  chi Cc non à ucdcr’e formar i Luoghi; ò pure formar iXuo-  ghi, nella prima hora del giorno, quando tali Luoghi foglio-  no elfer quafi igombri di gentc,com'io disfi nel cap.8. à pro-  pofito di lumi. Et in quella maniera, potresfimo ancora for-  mar Luoghi in tali Luoghi frequentati; Ma potendo hauer*  altri Luoghi più com modi, io non mi metterei à quella im«  prelà faticofa, e periglio là. Dell’Altezza.   I L RauennauuoIe, che li Luoghi non fiano alti:ma coli iti  lpofti,che mettedoci l’Imagine dcll’Huomo, tocchi il Luo  go dcfignato.& à mio giudicio, poiché haueteintelo della Iar  ghezza del Luogo, douete anco hauer Regola dell’ Altezza, che  mira la !ommità,ela baie del Luogo. La lommità,e bafe, ftabilitcla con l'altezza d'una perlbna humaua:fiche il piedcye  balè del Luogo, fia il tcrreno,ò l’aftricatOjò il mattonato, ò  folaroda fommità fia. (òpra il capo, tanto quanto può gion-  ger col braccio dirtelo insù, e toccar conia fommità della ma  no.E quello,pcrche occorrerà alle uolte,dar gefto alla pérlo  na di braccio alzato uerlb il ciclo, ò darli qualche colà in ma-  no, quale per fila conditti one ricerca TAltezza;comelè tenef.  fè una bandicra.Et il piede l intendo in Luogo, che l'occhio  poflà mirar tutta la perfona albergata . E fe nel Luogo ui fia  banco, poggio, ò grado, fi potrà ftabilir la perlbna, con li pie- *  di fopra di quellijsforzandofi però per quanto più fi potrà.    che li Luoghi fiano pari, e di fimile altezza, quando la {labili  tà di Luochi,non ricerchi far’altrimcnte, come nelle fcalc, nel  li afcenfi Src.Epcr la parità di Luoghi, che da cofc mobili fuf  fè impedita: fi potrebbe, o ad tenipus,o con 1 imaginatione fi  muoucrc quelle cofe,& formar nella Memoria li Luoghi pa Dei Sito. ;  • Z   N On balla hauer il Luogo particolare : mabifogna co-  nofeer la parte del Luogo, douc s’ha da fituare rimagi  ne;e quella parte deuc cller’il mezzo del Luogo particolare.  E (ebene il Roflcllio dubita, e difputa fiele Figure fi debbo-  no colle care ne gli Angoli, ò nelTlnterflitii tra Angoli, Se Aa  go!i; non dimeno noi hauendo asfignata la quantità, e la di-  ilanza de’ Luoghi particolari, con la mifiira della larghezza .  d’vn’Huomoj confequcntementc concludiamo la Figura, e l’I-  magine doucr effer fituate, nel centro; difendendole poi dal  l*vna, e l'ajtra banda, delira e finiftra, tanto quanto ricercherà  la grandezza et quantità delle Figure, et Itnagini. E fé in un  Luogo occorrerà collocar più Figure: fi potranno collocare  proportionataipentc compartendoli Luogo, fi che ciafcuna  Figura habbi il filo didimo, e conueniente Sito.il Romberch  non loda gli Angolitperche la ftrettezza,che farebbero le col  locate Imagini,&l’ombra et ofeurità, impedirebbero la didin  tione,& chiara uifta. Nondimeno quello impedimento fi to-  glievo! giuditiodel collocante; mentre non ingombrerà fo-  4i erchiatnente il Luogo; ma in tal mifura, che le Imagini fi  modrino all’occhio lueidee didime.  Della Signatione Numerica.   V Volc Cicerone, che per ogni quinto Luogo particola  re; fi ponga un fegno numerale. Per efiempio, al quinto  Luogo mettere una Mano d’oro, che con le cinque dita moftra un cinque, e così (occcsfiuamente . Il Signor Porta (lima  quella Regola di CICERONE (si veda)  /uperflitiofà, e difiutile. Ermippo,  come dice Iacopo Supplitio,uuole che ciafcun Luoco è SEGNATO col numero. Alberto, che ogni decimo Luoco habbi U  j ~ ' fuo    „ t ir   Tuo mimero, Qulntiliatio con CICERONE (si veda) .chc ogni quinto. Que  flinumeriòli pongono per dirtimiui, ò per recitartele per  diftintiui fon fuperflui: poiché cialcun Luoco hi il fuodt-  (lintiuo, fenza far quella terza fatica. Se per recitarli, il nu-  mero è parte d lmagine,c pero mobile, non immobile ; poi-  ché nè à tutti li Luochi fcrue, ne in ogni occafione . L per  le occafioni, bada ad hauer li Luochi numerali dclli quali  dirò poi. E quella Regola Ciceroniana – CICERONE (si veda) -- fia da me riferita, più  torto, per non lafciar cofa intatta, per la intiera notitia di que  {l’Arte; che ci habbia* o à lèruir di quella. E perche molti  Scrittori quali Dilcepoli Pitagorici, feguendo chi prima fcrif  fe c dille, empiono le loroprc di dottrine fuperflue, mutili,  et alle volte nociue, con poco profitto di chi le Icgqe;laonde  per auertirui rtn conftrctto alle volte trattar di cofe à fuga,  non a lèquela. Comc anco firn sforzato dirui di quella rego  ia'che dà il Roinberch, che li Luoghi non liano circolari :  perche il Circolo non hà principio, ne mezzo, ne fine. Nul-  la è quella Regola; perche parlando noi dclli Luoghi perii  quali li dilcorre; le ben c’incontramo in vna danza Circo-  lare, cffendoci la parte per la quale s’entra; bilogna, che ci  fia la faccia dcringrello, &. indi la parte delira, e limftra ; e  dalle parti dell’ingrediente, c caminante lòcccsliuamente, li  formano li Luoghi con li fuoidirtintiui. Della Proporcione' . I L RolTcllio affegna quella condittione nelli Luoghi, che  habbmo proportione con le cole Iocate;perchc volendo ra  contar Panni di Sacrcrtia,più colimene collocarli in Sacre-  ftia; clic in Cantina, ò in Cocina. Io rtiinarei quella Regola  efler bona, quando com meda mente fipotefle lare: perche le  racconterò molte cofe,c l’albergarò in vn Palazzo;c gtongcn  dpal mezzo, non conuiene, douendo idear colà Sacra, lenza  paula lalcia r li Luoghi locccsliui, per entrar* in Sacrertia ;  ma fi deue continouar nelli Luoghi cominciati ; perche col  lalto ad altro Luogo communc, non loccesliuo, fuariareb-  be, e li perderebbe la Memoria . Oltra che la cola in lolita,   F apporta    apporta con la nouità maggior atttntione: Uche fuppli&e, »  quel che manca della proportionc.   Letti one VII-   P Ropofi la Partitione,e le Condittioni di Luoghi, et an  co laformationc di quelli} hauédo à baftanza detto del  primo c del fecondo ; reità che breuemente tratti del ter-  zo, e poi dica dcU’vfo di Luoghi, c delle Perfòne, coni io  prumilì • • i t >* i r .1 . > ;)} Della Formationo di Luoghi . H Auendovoi ben iftudiateli foprapofti d ieci fette capi, an  darete alli Luoghi communi;& iui conforme alle Conditioni,e Regole aslignate, formarete i Luoghi. Laqualfor-  mationc, nura tre cole, IlDengnare,U Colli care, et il Rcpc  tere Primo, con l’occhio ben mirate, e rimirate il Luogo »  col foo diftintiuo; edifcgnato il primo Luogo particolare,  defignate il fecondo, e coli focccsfiuamente procedendo,  finche giongerctc al fine del Luogo communc. E fatto que  Ito al dritto, ritornerete àriuedcrli alrouerfo, e tante uolte  ciò fate, finche habbiate perfettamente il difegno di Luochi.  Secondo, ben difegnatilt Luoghi, con le regole fopradette  in mano,cominciarcte a collocarli in Memoria, uno per vnc;  collocandone una uolta dieci, poi altri dicci, e così di uolta  in uolta in più giorni collocaretc tutti. Terzo li repctirete,  più e più uolte, dt à dritto, et à rouerfo; fin tanto, che fenza  alcun’impedimento, c difficoltà, da per uoi lontano dalli  Luoghi, li fàprctc così ben recitarejcome felhauefte attoal-  mente dinanzi à gli occhi. E non ci rincre(ca(dice il Signor  Porta) recitarli trenta è cinquanta uolte il giorno ; poiché  quello c il fondamento dell opera. E come diccilRauenna,  quelli Luochi coli formati, li repetano,tre,o quattro uolte il  Mele: perche la repctitione di Luoghi, non è prezzo che Rimar la nosft .    che le dimoftrino, e faccino parere;  dunquegran facilità farà à tutti quefti bifogni, il ritrouar  ne i Luoghi le Perfone . La quarta perche con grande alle-  grezza^ chiarezza li viene al Luogo,oue fu una Persona, la- quale dii porga merauigl!a,ò II apporti diletto. La onde le  tn Muronud >ò altra Pcr(oua>nt, n così circonlìantionata,  ci fa ricordare vna fola parola; quella ci porgerà vn veri© m  tiero,come chfcfe ci preferita chiara» lumino!*, desiderata,  amata, diletteuole,"e : lrabilita.E le bene per vn numero con  ucnicnte e mediocre di Luoghi, comedi cento, ò ducano, lì  potrebbe far quella diligenza delle pecione inondimene in  un numero grande di cinqueccnt, e mille, e più Luoghi, lì  tratta co fa molto difficile il vler aggeauar la Memoria di  quella doppia fatica. Gkrachc farebbe vn’empir i Luoghi  di perfbnc communi, lcquali non farebbono ni una gagliar-  da motionc, come le foprapolle,e però a colui, che ha nume  ro grande di Luoghi, ne li reftano molti nudi. Olirachc in  certe occafioni*fon più atti li nudi, che li pfònati;come in ro  ler recitare vinti, ò trenta Santi, ò eflemptgò Auttomà lóro*  et effondo note à noi lelor figure ; più facile ci farà albergar  ne i Luoghi nudi, quelle figure grandi proportionate,e quali  Ttue,che il uolcr addattar la perlòna,chc fìanel Lu' go,chc  prenda figura di quel Santo: perche in collocar quel Santo,  nò lolo letica d: colVcarlo;mà far che la Pcrlona del Luo-  go, me lo rapprclcnti,hò due fatiche, la pr.ma di fpogliar-  mi della fila qualità, è pervadermi, che lia un’altro, e poi  datali quella figura, a llocarla nella Memoria; fi che con l’c-  Ipcricnza, riefee più facile il primo muodo . Il limile dico,  in uolcr recitare molti nomi di Pcrfoneconofciute;chepiù  facile mi làrà,fubbito nel Luogo nudo collocar la Pcrfòna  cóno!ciuta,che m ler con l'imaginationc, formar’ altra Ima  gine,ò Figura nella Perfona (labile del Luogo. li fimilc di-  co di molte Imagini, che lì formano dalla conuenicnza del  la lcrittura,ò pronuntia, come diremo al fuoLuogo;lc quali  imagini, più fpeditamenre et cfijuifitamente fon raprefenta  te.ptfrle proprie imagini delle Pcrfonc, che dalle aliene. •  InoItrc,fc uorremo ufarc I Alfabeto perlonalc del Rauea.  na, che ogni lettera hà la fua Perfona,come A Antonio B  Bifliano C Carlo ecc., fàrà un metter Perii ma nella perfo--  na,fe il Luogo none ignudo da altra Perlòna.Oltra cheuo-  fendo noi effigiare la Pcrlona flante,non Icmpre conucrrà  à lei l’effigie dcliderata : che te uorrò l’effigie d’Androtnc-    Ja,ò di Lucrerò)» trouado nel Luogo un‘huomo uecchio,'  molto ben da.mé coup Aiuto, come lo fatò Donna, fenza  «he gran repugnanza mi fi dia, e nel Collocai la, e nel ramentarla-ln olircela Perfona,per la Aia friabilità, è inetta à ro-  llar Tempre col luoco; perche à quella Perlòna,che fi trou  collocata, puole Tuccedere alla giornata cafo di morte, e  di morte orwbde,ilcheal formatore, come amico, apporte-  rà difgufto et borrorp,e difturbo graude ogni uolta, che  Te li tara incontro rimembrando, llqual difturbo, quanta  fu nociuo all’ufo della memoria; la elperienza l’infegni.  Per quefte caggioni dunque c per lelpericnza iftefla conclu  do, che non conuiene,haucr tutti li Luoghi perfonati.E le  d’alcuni lo concedo, non oftaranno leraggioni, che fi po£  fono addurre in contrario, Non ofta primieramente eh?  gli Antichi, non deflero quello Mctodo:perche l’Arti col tf  po fon crefciute, migliorate, augmenrate,c fatte lèmprepii);  perfette, con le nuoue raggioni, inuentioni, Scelperienze,  Nc olla fecondo, che il Metodi della Perfona, aggionge fa  ne;poiche l’efperienza, laquale  r uerace maeftra delle cole c* infegna,che quelle Perfone apportano all Arce merautgliofogiouamento, et inelphcabiJc  ageu dezza, c facilità alla Memoria, e chi noi crede, ne facci  lc(pcricnza,e poi parli. E quello balli delle Perfone.  Per compimento della coguitlone di Luoghi, voglio m  quella Lcttionc raggionaredi alcuni metbodi Angolari  degni da saperli, il primo di Numeri, il fecondo dell» Luoghi per dritto, e per riuerfo, il terzo 'per ogni verfo dal capo,  dal piede, dal mezzo, quinci, e quindi, il quarto Luogo per  la circjlationc color rettoria?   -••(«li..; .   Dclli Luoghi Numerali -  t ...   .d  -’-O* J • *>- ‘fj ... fi* * i Essempio. r,    -mi)!   •un ijl *5 ESSEMPIO .’*>   Parole che s’han da collocare làran XX.  Videlicec. 0 *i L L   ( 9, Morte.   ’UI CliO'   io. Porta.    li. Inferno.    i2.Cie'o.   iflitfD •:   1 3. Sole.   u sA iy   -iì 14. Luna. ; HHli'l   « • if.Orizonte. ' o ( ina3i   iil j O .5   ip.Marc. • oq «fati   ao.Tempio. 1 &i>Oili   0. ./od i\   »OT 3 t 5 ;i   ;, - >• b "  • ’J • l«- i* /(. li 1. 1 L   pftiarri (.1 f|o r j 0 i> ; .V . * :   1k /.'Vc-mb ù Riti    -sxapaiibnu tlkuaiaiip   tlciSOlU T -il 3.1 . Modo di Collocarle.   1 11 1  1Tr'mo le finità e Decine,  I. Rota.  io.Porta.  ao.Tempio.    Secondo per le Cinquine,  5. Luce.  ij.Orizonte. fi  '* Terzo per li Tari .  .... a. Pena. 4 Pane 6 Vita 8 Verità 12 Cielo 14 Luna 16 Raggio 18 F»gho,  >1   t   :«    *e    •‘ P tt  1 tO’j-Ó lì XtJDii starno? 1*1 noa oiu'    xi « • t ' . .  ' •* . .u / ;>q ìm    si sr   » * 4 £. Pietra.   7 -V^   5. Morte. ^ >,oìtìi. 1  li. Interno. etnico >1   IJ.Solc.,. n,   jp.Marc. G Oltre «  .1 Oltre di ciò nel collocarle parole, bifogna collocarle im-  mediatamente fenza imagincima folamente fiano quelli nu-  meri come la carta neHa quale Hanno ferine leproprieparo  le, fenza Imagini.E s’aucrra che collocando à memoriali nu  n eri con le parole, non fi fermino ò dabililcono in Luoghi  ò nella carta:perche v’apportarebbe confusone col ricorrere à duebande,& alli Luoghi imaginati, et al luogo ou’cra  fermo il numero, e la parola. Ma folamente prendete il lem  plice nome ò parola col fuo numero, e collocateli in memoria. Et di più nel recitar bilogna non (blamente recitar le pa  role, malinameri congiouti con le paiole, perche hauendo  noi familiari li numeri, dicendo il numero lubito ci rappre-  fenra la parola collocata nel numero, e con esplicar il numero si prende tempo tra pareli, e parola, fiche lì può commodamente e pensare, e pigliare la paro a fcguente.E per far  quello bifogna al principio proporre tutt’il numerò intiero  dclli titoli, ò nomi,ò cofe da recitarle, e cofi propofte poi  condì numeri ordinali recitarti, per eflempio dirò. SanMat  theo che (criue la Genclogia di Chrido con. quarantadue  perlonaggi, il pnmo è Abramo, il fecondo Ilàac, il terzo la  cob, il quarto Giuda, il quinto Pharcs, e così Seguiterai fino al 42. e poi volendo dir concetti, ò fpiegar vno per vno,  ù coimnci dal 42. retrocèdendo linai primo.E quello badi  quanto alli Numeri, per Luoghi numerali, quali àmerielco  no facili per il cotid ano edcrcitio che ci ho latto.Ma perche  noi non lodainolt luoghi imaginati potendo haucr li reali;  però potrete fcruiruid’vn’altro modo numeralc,ilqualcèdi  neceslità che fi facci in queft'arte, cioè che lì habbi uno, ò  due Luòghi communi, chchabbino cento, ò ducente Luoghi,  e quelli tutti lianb ordinatamente fegnati con li numeri.1.2.  $ .4. c così procedendo, c quelli Luoghi liano podi in memo  ru con li fuoi numeri, fiche lappiate recitarli al dritto, et al  riucr(o,e làppiatbàll'tmprouilopigliar qual lì uoglia nume-  ro contenuto ndccmo, o nclli ducento . Le note numerali  £ di riino nel trattato dcllìmagini.E quando vorrete recitar  molte cole numerate, collocarne le parole con l'imagini in  detti Luoghi, e potretc-lermrui di quelli ad ogni verlb.   mio w Peni Dclli Luoghi per dritto, e riucr fo . .* n. r.: • ... . ; :, . (} (r   I L recitare al dritto>& al riuerfo fi può Far in due modi, ò  con le parole fole,ò con le parole e numeri, del primo le io  Uoglio recitar lènza numero, li patri della Gcntlogu dirò,  Mactheo racconta (antenati di Chrifto,ehe fon quelli, Abra  mo,I/aac, Giactb, Giuda, Fares,&c. quelli nomi li collocale  rò per-via d’Imagini nelli Luoghi ftabih nudi,ècon l’ifteffa  facilita li diro al dritto che al, riuerfo . Del foco n do le io vo-  glio non folamentc dir quelli nomi; ma h numeri ordinali  dicendo Abramo il primo,il fecondo Ifaac, il terzo Giacob»  il quarto Fares, Sic. per quello recitare io mi fornirò dclli  Luoghi numerali, quali fon neccllarij in quell’arte, e quelli  lou di due forti come diifi nel palfato capo, li Luoghi di nu  meri foli,ò luoghi {labili fognati con li numeri, l’vm, e l’al-  tri poflono foruir à quello effetto, li ben li fecondi fon mU  ghori.   Dclli Luoghi Alternati. '»L recitare non fidamente à dritto, et al riuerfo, ma ancora  f dal capo e dal fine alternata méte, per effempiod1rel142.no  mi della Genclogia di Chrilto cominciando d’Àbramo fino  a Chnllq,ficondo far regreffo cominciando da Chrillo e ri  tornando fino ad Abramo, Terzo prendere Abramo, e Chri  do, Ifaac eh e il focoudo,& il penultimo, e cosìalternatamé  te pigliando vno al dritto, Se vn’altroal riuerlb,uno dal pria  cipio, l'altro dal fine: fi può fare in tre modi, primo con li  Luoghi d’vna perfona humana, fecondo con li Luoghi da-  bili fucceslìui, terzo co li Luoghi dabtli che danno à faccia . Quanto al prun> della pcriòna humana fi uede l'effehi  pio apprefio, doue fono numerati 4 Luoghi . Il primo alla punta del piede, tl ai calcagnoli £. al ptfoione della gam  ba,il 4. al «inocchio, e così il 5. alle cofoie, alla Centura il 6 .  al fegato il /.all’afoella 1 8. Al gomito il 9. alla giuntura della  mano il x. al dito auncularc l’i i* al duo anolarc il 1 a. al 4i-   G x to to mezzano il i $. al dito indice i! 14. al dito police il r y.  allofTo tra la mano, e’1 gomito il 16. nelloflo tra il gomito, C la fpalliil ^.nclla altezza della fpalla il i8.nella gola il ijfc  Yiell’orccebia il 20. nelli capelli il 21.& altri tanti aU’aliro  lato procedendo di maniera, che li Luoghi liano fegnati l’vno  di 1 impetro all’ altro nelli lati, come lì vede, l’orecchio con 1 al  tro orecchio. £ praticati nella voftra ifteifa perlona quelli  Luoghi, volendo collocare li nomi, partiteli per metà,& Vna  parte méttete da vn lato, e l’altra metà dall’altro lato, comm  ciaiido à cóllocar dal capo difendendo al ballo finche ui (a  ranno nomi, e poi prender 1 altri dall altro lato fin al capotac  ciò il primo nome li rincontri e llta di rimperto coll'vltimo,  et il fecondo col penultimo, et in quella guifa potrete reci  tarli al dritto, al riucrfb, c d'ambe 1? parti alternatamente. Notando che quelle parole si pongono lènza Imagine, et im  mediatamente à guifa che fanno le parole fritte fopra la  Carta. E di quella perfona cosi difpofla,vi potrete anco fr-  uire nelle parole con li numeri ordinali, udendoli recitare  per ogni ucrfo,e col proceflò alternato. •idsnflitn lt ^ ; ^*i:l>i 0 o r,. . .1  .ili* 7*4} 'HO    n taf   040! 7  Gratia 13 18   Piena 1 4 1 .  Nel quale esscmpio appare come è cofàfacilisfima far quelli progresli,e regredii, et alternati; Te ben all auditii  te appare gran cofa quel uaj-iare, come quello che non sà  l’Arte: che yòi dicendo al nucrfo, e prendendo in qua, et in  li le parole, tutte nondimeno le recitate per la drittura, è  foccesfioue ord nata di Luoghi. Anzi dico di più, che po«  trete. far n iT medclimo; eoo xij. Luoghi, che /ararono un ter-  zp manco, e faranno èflfcttojdixviij. Luoghi, c quello fi fi,  collocando l’vlti ma parola njcl primo Luogo, e nel fèllo ui',  fia la prima, enelli figucriti vi. Luoghi collocateci le parole alternate # e recitando cominciate dal fèllo Luogo i  ritornando al primo: poi ripigliate il primo  Luogo, c fegu ite fia' al xij. e così ha-    ll.  r   "o : il    uerctc dette le 6. parole tre  uolte, peti dritto, per  riucrfo,& af-  ter^   natamente, eme appa-  re inqueflo et    l • —  -- I i    i - il } I    io. DI    n   •a  ' Fi    i    r»-i    r vi    /Si, . - 1. _ . j> j   sn*M j t    r • ^ììgj'^ìc va    l :,1   -4   stv>n 1 «» ! I ; £,; * °    I 1 LVOCHI    x.    lanieri di Luoghi, che in tutto fono XII.    »!> '  LVOCM   1 • • »    1   4 .li .   Tcctlljl   0   lfr!   »   • ' “* * i Dominus 5  ?   ii|'   • Piena   4   Progteflo   OJP jS   4 -,n   Grada   .   3   il -ri:   5 Maria • .   i   6   • « i   Auc   i 7   Aue   (   -a   8   • Tecum   os 1  1   0   o   o   9   Maria   l   o 1   tu   ro   Donvnus   5   ni  -i   a   1 1   Gratta   3   tu   rt   II   Piena 4 H RegrefTo     /?\ Vanto al muodo delti Luoghi {labili,' che danno à fap  eia. Dico che quello fi potrà fare, quando il forma*  tore potelfe incontrarle in vna corfia di Luoghi, ò camere  dentro Camere, che habbino quelle Conditioni. Siano i Luoghi dalle Bande l’vn contra Palerò. I  Luochi di quà, c di là, non funo troppo dittante; e fe folfc*  ro diftanti o'jò, ò diesci piedi, làrebbono ottimi. Da  no li Luoghi particolari àiuerfi, 6 che per la fimihtudìne,  non fu.irij la. Memoria. Perq le camere dentro camere, quando le porte danno nej mezzo, e Tvna di rimpetto all'altra,  fon atte, sì perla dmerlità J come ancp perche fi Ipoflonq  formar Luoghi l’f n contro l'altro, per 1 Angoli, Se. i  Interdici). Quar^oifiano dedgnàti li Lqo^  ghi particolari, t che l’vri dia dirim-  petto' all’altro; fiche dando  tu in mezzo, pof   . . tr riveder li y j * . ' 8   Luoghi, fenza troppo giro doc^   chi. Comcapparc nel te- r guentc edempio . „ [    tz    «IjVÙ) CI    1 i    - j   ° t   -r i    V>«   -Si    %x    ...{ . 1.1 ., r«   . ! .{* ! 1 1 1 1  X I r  3J   Z r,J! 5 I -j {.r.U^' t? -'   iàiAì tj G    a .ti    •3 jì:  ÌÌ»i/£    i  i jtn^u;  omiiq,  TPOÌ  JàJ r rton    li o    ; U    11, B   II !, ai ... •!    l fQf   ni i.!).cij    16   *7   ’ 't 1 ‘V • c j - '   1. : ni .‘.fi   oj ait uno-ld^Jog ii> ;>  y s.ic I iì ‘-> *•> ' ’ -  11    >, * 3 (* i    *4, . :: . che è  delle imagini .   .. ob.'*; : l . Q S 1 orr.tiu !. CI v! a ù ut    I O t Ill^> ; étagenus,Sul tri pi iciter 1 intédo, dalle tre dita della ma  Zioalzate.il fccódo muodo, ponedo la prima parola fola, p  laquale il recitate hi legno di tutte le parole fequcti ( p elle  po)p raccordarmi quella femeza. Specie» eft qu* predica -  tui,3ic. porrò nel Luogo fola mente la parola Ipec.e», dan-  do in mano d'vna perfora un ncartocc-o, o un tacchetto di  fpetie,ò pure una piperà. Auertcndo per co p mcio di tut  to quefto,ci.equando nelle parole, li vainueft gaiidoffcUi fi  troua attionc; nò loio intendo 1 attuane immediata éte ftgnifì  cata per la parola; ma anco 1 anione, clic (i j otti, e med ata-  mente rurarc dalla parola . Dell’ Attiene immediata fu  queflo esempio. Voglio metter quella fcntcnza, Sede e cft  verbum infinitum . La parola federe immediatamente può  cfTer’ideata,pcrvno che licda m vno Scanro: mà fe dirò,  Aue giatia piena, Se benedilla, quell Aneli può ridurre al-  l'attione d’vno che faluu vn'altro;e coli la parola bened    Figurate, j p cr Volontà. Per Ingegno.  Le cofe figurate per Natura, ò sono uomini, ò altre co-   I i fc fotto  fc fottocelefti . Per Arte lecolc materiali formate dell’Arte.  Per Volontà come gl’Angeli, e ii Demoni j, che in certe oo  cafioni piendono forma Humana; e le Diurne perfone che  vna lì vede d Humanità, che fù il Figlio che fi riè huomo in  tempo, lo spirito santo appare in forma di colomba, e il  padre ancora ci vien dipinto in forma Maieftofa d’un vecchio sedente nel trono reale. Per ingegno come fono le £»  magini figurate, e fìnte di tanti Dei, con li loro Pegni, et im>  prelè, Giquc con li fulmini, Saturno con la falce, MARTE con LA LANCIA, Venere col fuo Cupido, Amore arcicro, Dia  naia Fonte, Mercurio con l’Alce’! Caduceo, Apolline col  Parrò, e cofi de gli altri . Così anco le Imagini, delle virtù  Morali, e Theologali, delle fcicnze, et Art» hberali, delle Mu-  ie, della Morte, della Vita, e filmili. Delle figurale per ingegno, e per volontà, dò unacoirmune Regola, chcoccorren  dori fintili cofc, le potiamo collocare con le loro Imagini, nel muodo, cheli formatore 1 ha utile, depinte; e conforme  a quel che bà letto, le fonnacon la imaginatione talmente,  quafi che rhaueffe dinanzi à gli occhi Delle colè Artificia-  li fi dice il medefimo, eccetto fe fodero eccedenti, che in ta^  calò bifogna ricorrer’ al limile ritratto ; conte fi dirà poi in  altro propofito,che farà delle cofe Eccedenti, nel lèguen-   ie. Delle cofe Nariuali > et eccèdenti.   Le cose naturai, o son uomini, o no. Trattamo delle seconde, quali ò fon proportionate al Luogo ; ò sono  improportionate, ed eccedenti. Se nel primo modo, quelle  iftelfe colè fi poffono collocare. Se fuflcro eccedenti, bisogna ò con la forza della mente invaginarle piccole c propor  nottate; ò attender alla foitanza della colà, lènza far troppo  penficro della grandezza; ò uero ( ilche meglio mi pare, e  più fccuro) collocar nel luogo la imagine di qualche figura artificiale dipinta, o scolpita di quella cola Pcreflempio,  mi bifogna collocar una Città, un monte una gran torre,  una naue, una Chicfa, un palaggio, una lèlua, una uigna, una   quer-    qticrcia'& altre cote fimi!! naturali et artificiali. 11 collocar  nel luogo cofe tali, è una improportione grande ; peròbi»  fógna ricorrer’ alle tre regole adegnate, cioè ò {limandole  piccole, ò non attendendo fé non alla fi>llanza,ò feruendo-  fi delli ritratti loro, Il che lèrue ancora, per le cote cclefticor  forali; et per qual fi uoglia alrra coti troppo eccedente,  E te quello non bafta,ò non piace; fi ricorra alle ^regole del  le parole non figurate. Nel collocar le persone ne 1 luoghi ; io miro à tre colè,  al proprio, aH'Imaginc,al limile. Chiamo proprio la  j>erlona propria tale dame mila, e conolciuta facialmente,   E quello farà il primo muodo di collocar Ieperlóne ; quan  do ci metterò le proprie perfone,perloro diede. Per eflem  piouorrò dire il papa, il re, 1’mperadore; porrò nel luo  go l'i(let(ì, Papa Rè, &. Imperadore da me uilli ecopolèiutl  11 fecondo muodo è, quando la perfona io non l’ho uill*  facialmente; ma fi bene per ritratto, e pitturalo fcultura, c  quello muodo lèrue, per collocar li Santi, li Profeti, li Patr j  archi, e tutte quelle perfone, le quali ci fon note per piuu  «,ò fcultura II terzo muodo è dal limile, che mancando-  mi 1 Imagini delle perlonc uilte facialmente, ò per ritratto 1  di pittura, ò fcultura ; io ricorro al fimilc( per elfempio)  udendo dir Papa Sifta, collocherq.un papa da me uifio,  che per habito papale, mi rapprelenta il prefèntc Papa, i  Coft uolendo metter quelli tre nomi, Pietro, Martino e Francesco; io metterò alii luoghi tre perfone, che hanno fimile nome, e fon da me conol’ciute. Le quali fc bene non fono.  Ti delle perfone, delle quali fi raggiona; fono nondimeno fi-  ntili di nome. Enel collocar delle perlóne bi fogna sforzar  fi, per quanto p ù fi potrà, collocar delle perfone più note, e  conofciute; perche più efficacemente mucuono.Nemi Icor.  do delle perfone, quali dieesfimo douer eflèr’ in alcuoàLuo-  ghi ; non mobili, mà immobili ; che eflèndoui tali perlo-  ue immobili, bifjgnarcbbe dar à loro il tutto, e trasformar ', ~ " l«>per D fc, per p«rcp.«rcl fi nomi che noi uoghW * ben l «e   rnre che nel particolare di nomi nefea piu fac.Ie,& cfped»  «b,il metter Ie P propne,d dipinte, à fintili p(one,delchcinl  rimetto all’efpertenza, e quello baRi per hora. Delle Cofe non figurato.   Jsfi abattanza delle parole di anioni, e delle cofe fìgtl-   -Jratc* refta trattar della difficd.siima parte delle Im agirla qulle confitte intorno alle cose non figurate E pre-  fupponco una diftintione.chc le cofe non figurate lono in  due modi.Le prime non figurate dallocchio, le feconde no  figurate da mun fenfo, Le prme fondi oggetti dell. quac.  tro fenfi, vd.to.gutto, odorato e tatto;come.l duro, A gol  le, il caldo, .1 freddo, l'amaro, il dolce, 1 odore, il fuono.Q^c  fte colereali, e perccpute dagl, alm leni», non pcio fon^  fte da gl. occhi, li chenepasfi Idea perla Memoria at tttic.a  le. Come dunque collocaremo no. .1 do ce, tamaro, 1 odo-  re, il fuono, e limili > R.fpondo che b. fogna ricorrere alle  Caufe,airelfet. ice, alla materiale, et all, getticeli,ftesl. fenfi.  Primieramente b.fogna uederc,dachi natte, e procede, “  fa; c così fi porrà l’efficiente F cr 1 effetto; cosi la can pana,  per il fuono, li cantanti per la uoce. fecondo mirateti og-  getto, e la materia in cui f. troua quella colmici f ggeto  ponete, per la cofa Aggettata; e cosi porrete ^^co per.l  caldo, la neue per il freddo, .1 P ;,mo per 1 odore,.l fatto per  ilduro, l’acqua per il molle, il fauo per .1 dolce, I  per l'amaro, e così d. fimili, sforzandofi di Pender .l fogget  to in cui eccesfiuamcntc fi troui quella qual.tà fcnfibile.l er  20 mirate li getti di fenfi patienti, e così il capo piegato coir  Parecchie erfe, moftrail fuono; le nari ritratte col pomo in,  nanzi, moftrano 1 odore, &c. E fe mi d.ra. come (. formerà  Immagine del tuono Celefte, ò del Lampo ? R.fpondo dh .1  Tuono lo formo, con poner un Arteghana dinanzi a Gio-,   ue, ilquale con la Saetta llda fdocd je così hauerete Lan po;   Fulgore, et fracalTo del Tuono. Quello fi* detto delle co  ft, che non hanno Irnagme daU’occhio; fe bene dall altri tta fu Dell’altré co Teglie da neflun fenfola Memoria Artific/a  le prende le Tue Imagini,dirò eoa quella .maggior facilità, c  Mcthodo> che làrà posfibile.   Quelle Imagini fi formano io In Significa- i.In-  a rei J tione. * » : "4i   il Si- i a.In Vo primo quando auuiene che la uqcc  tutta intiera lignifica cola, disfunilem colà, limile in noce •  Per cflempio, incontrandomi in quella parola auuerbiule.  Àncora, metterò nel Luogo l i nagincd'un’Ancora di Na-  uc; poiché quello nomee quell auueib.o han limile fcsétttt.* r i  fa, Te ben son dissimili ih SIGNIFICATO, e accento. Cosi ìncoii  tran domi in quella parola “porrò” (cf. Grice, ConTENT) : metterò nel Luogo in ma  no d’yna persona vn “porro” (cf. Grice, CONTent). E fe la parola tutta ioticra'non c  Amile ad un'altra parola, che SIGNIFICA cosa figurata; bisogna ricorrere al secondo muodo della similitudine in voce,  fecondo alcuna parte, e quello com'io proposi si fa in varij muodi.  DcU’Aggiongimento. Per ritrouar rimagine in parola Amile in parte, conuicne  alterarla con aggiungerli qualche fillaba o lettera. Perciò  fèmpio, uolcndo collocar quella parola Per. ui aggiungo  un'A. nel principio, e fi forma la parola Aper, laquale figni  fica colà Figurata, e cosi pongo nel luogo un Porco lèluag-  gio,e mi raprefenta il Per. E quello aggiungimcnto fifa in  tre muodi, nel principio, nel mezzo, e nel fine . Liquali tre  muodi, fon le tre Figure allignate da Grammatici, e Poeti,  la Protefi, laquale aggiunge nel principio . L'Epentefi, Che  aggiunge nel mezzo. LaParagoge, che aggiungenel fine. Si  che hauendo parola di cofa Infigurata, fi dilcorra perle lette  re, e per le fiUabc, aggiungendo nel principio, poinel mezzo,  poi nel fine: è riufeendo parola che fignifìchi colà figurata,  quella fi collochi nel Luogho . Della prima figura alTegno  quattro elTempi,il primo elfempio del per, 3t Aper, detto dì  /opra. 11 fecondo elfempio del Che, alla quale parola aggiun  gendo un’o,farà la parola oche. Laonde mettendo in mano  d’uua perfona due oche, mi rapprelènterà il che. Il terzo e£  /èmpio di quella parola, Scire, ui metterò il Sarto col fuo  cufure; perche allo (ciré aggiungendo la fillaba cu, fà cuci-  re. 11 quarto elTempio di quella parola Amo, allaquale ag-  giungendo la lettera h, fà la parola hamo di pefeatore .  Della feconda figura, che aggiunge al mezzo, fia il primo ef  /èmpio, quella parola, pena, allaquale aggiungendo la lette  ra n, fi fila parola penna di fcr;uerc,ò altra. Il fecondo c£  fempio ila quella parola, Alium, allaquale aggiungendo un  1, fi fa la parola Album, fiche dando una penna, ò Aglio in   K mano    mano d’una perfòna, mi rapprefenterà la parola pena,©  ali u m. Interzo eflempio di quella parola, forme, aggiungen  do'oci linaio la Intera A, fila parola, foramejficbe la perfò  na inoltrante il forame dun muro, mi rapprcfenter4 quella  pacala forme . Della.terza Figura,cheaggiimgenel fine,  fia. per eflempio quella parola, ò articolo, uolgarejAH», à -  cui aggiungo la lìHaba um, e farà album. II fecondo eflèm-  p : o diquetta parola Vcl, allaquale giungi un’o,e-farà Velo.   Il terzo di quella parola, Vdut,aggiungafi un’o,c fifaràla  parola Veluto . Mà bi fogna hauerla Regola della coltoca*  none delle parole, cosi figurate coll’aggiongimento, et è,  •che fi ponga legno aila.cofa, perequale fi conofca, clic bi-  fogna tome qualche colà dal principio,© dal mezzo, ò dal fi  ne. £ lidie per lane fi farà, con la nudità: nelle bcftié, con li  fccwtitdtura, ò troncatura di membra ; nelle piante, con la  fcorticatura, ò inedionc; ncU’attioni, col mancamento ncll-  iilrumenti,ò coliègno nelle perfonej nelle cofc tenute dalle  perfone,con uelami,ò fógni nella perfona tenente. E quelli  fegnidi faccino ordinatamente ; fiche per la prima figura,  xhc aggiunge al principio, fi facci il legno al capo, ò princi  pio della colà, per la feconda al mezzo, et per la terza al fine?  Per eflempio alfApcr, li tronco, ò fcorticoilcapo, che mi  moflra douerfi torre la prima Intera, e fillaba; alloche pari  mente le ‘faccio moflrare lenza Telta;al cufcire fnudo il brac  ciò al Sarto. Alla penna la'nigrcggio nel mezzo, all’Aglio lo  fò tenere e coprire Con la mano nel mezzo; e così la penna,  dirà pena; c l’allium, alium. Al uclo, farò che uno lo tagli  dal piede, e co ì dal uelo, haurò uel. Marni dirai, ieoccor-  reficychc il nome hauefle quattro, ò cinque fillabc: comefa  rò à conofccr fc dal mezzo deuo lcuar la terzi, ò la quarta Ti rifpondo, che quello fi può fare, con dillinguerla perfò  na in lette parti, capo, petto, Ucntre, uelo, colcie, gambe, piedi,   et in.quelle parti ordinar le lillabe, la prima al capo, la fècóda  al petto, la j. al neutre, la 4. al uelo, la j.alle cofcie,la d.Jallc ga ’  be,la 7 .àib picdi;(ìcbe perla prima fiaséprealcapo,el’ultinia  fillaba all* piedi. (è la parola è di tre fillabe,la fècóda al petto,  le c di quattro, la terza al uentre. le è di cinque la quarta al  uel 0,' c coti lcguendo>L douc fi fàl’aggiuntione, là fi pon-     ^ il'lègno.E le quello fi FI nd T eBefliV, fi “diifidalà bdH*  •infette parti, in capo, pcttó con piedi d’innanzMj-feen  tre, groppa con piedi di dietro, Coda, Es’olferui! iftéflò òfr-  dinc,che della perlona. E quello dico ddle Bcftie di debi-  ta et atta grandezza; perche nelle Hdlie ò inette, ò ptecò-  lc;i legni li faranno nella perlona. 11 che fi oflèrui nellipt  ante, tir altre cole, che commodamente non pòflono ricelie  're tale dillintione. PerelTempio uogliodiré fante, e prendo  • un’elefante; lo trouo col capo tronro,c collo (corticato* 8c  ho légno, che leggendo lafcio le due prime fillabe, e profè-  rifeo fante; Se uorrò dire l’amaro, darò in mano della pcr-  fona,un caIamiro,c farò comparire la perlona,;con la tè-  da e barba ra(à,il che mi fegna,ché fi debbe tor la prima fil  laba. Volendo dir polue, pongo in mano della perlona un  poluerino,e li fnudo il uentre con tutto ilreftòin giu, e cò  sì leggendo ; leggo le due prime fillabe, e trouando Tallire  parti nude,m’arrcfto . E (opra I tutto la facilità di qneftì fe-  gni,nafce dall’atcentione della mente deftgnatricc di eslr; là  quale hauendo dcfignaro,coH >cato nella Memoria, e ftabilf-  tò il tutto con la repetitione,fenza intoppo riefee nella con  templatione,ò narratone, precifamcnte «eirAggiurigimcn-  to delle lettere. Del Mancamento . C OrrilponJe il Mancamento al filo òppofto aggiungimi?   tò*fi che camina con l’iltclsc reg le ; perche nòh’rìufcé  da di ritrouar, parola figurata per raggiungi tódntóy ricorre  mo al mancamente), togliendo dal principio, ò dal mezzo, ò  dal fine. Indi le tre figuri dd'm'ahcànìcrtto,chramaté, Afe4‘  relì > Sìneopa,& Apocope, la'prifrfa* che tòglie dal principiò,!! 1'  feconda dal mezzora terza del fine. Del primo hò da coi-,  locar questa parola, malignojtolgo uia la prima lìllaba,emì'  reità hgno, et un legno colloco in fpalia ad una perlona.  CoìÌ di quella parola, doue; li tolgo la prima lettera, creila  oue. Coli di quella parola, dementa, li tolgo eie, e rella mé  ta; e da quella paioli contingi t,leuo uia il con, e rella tin-   K a gir,    git, petli quali ponendo rimagm!, il legno mi darà mali-  gno, la menta dementa) un cedo d’oue il doue, un tintore  .che tinge il panno mi dara il contingit.E (èmi domandi, co  me li conoscerà che il legno uuol dire maligno, la menta e-  IementaPci rifpondo che lo conofccrai in tre modiche ti fèr  ueranno per Regole, la prima per la prefìssone della tua  mente, che così ttabili, del che tu ti ricordi . fecondo per  quel clic manca, tu puoi collocar lettere, ò altre figure ; on-  de per dir maligno, ui colloco una pcrlona chiamata Anto-  nio, che mi rapprefental’A, per la Intera MJi dò nella man  delira un tridente, colquale percuote un legno che flà al la  to iìniftro. fé ben quello muodo partienc piu rollo alla di-  uilìcne,che al mancamento.terzo per quel che manca, li può  dar un fegno alh luoghi afsegnati già di fopra, nella perfo-  na,ò corpi di beftie; come al tintore dare in fronte un tu-  more,© una gonfiagione. per le quali fi conofce, che bilò-  gna aggiungere. Della feconda figura y quando fi toglie dal  mezzo, per elfempio udendo dire caulà, ui metto una cala,  per conolcie cdcie;& il légno del mancamento fi può for-  mare conforme alle tre Regole, aflegnate di fopra nel manca  mento dal principio. Della terza Figura che toglie dal fine,  uolcndo collocar principiti, ui métterò principi, per fblemo  Iole, pcrcanit due cani. E peraflegnar li légni da conoféer il  mancamento, e 1 aggiungimento, che fi de’ fare; fi ofTeruino  le tre Regole di fopra, uar>ando 1 ordine j perche nella pri*  ma figura, per la terza regola, li fegni fi danno nel capo,  nella feconda nel mezzo, e nella terza ideili piedi . 11 tintore  hà'l tumore nella fronte; chi indirà la cafa l'hà nel petto,  h cani nelli piedi, per liquali légni al tingit dico contingit,  a cafa caulà, a cani canit ; alli principi li darò le podagre  Belli piedi, per li quali intendo, che ci bilògna aggiunger  qualche colà . E quello badi dell aggiungimelo, e man-  camento . Et fiano ben notate le Regole aflegnate, per  intrichi, aflegnati d'alcuni in quelli proponti. Del Riuolgimento . S E bene ogni tralponimento irebbe al proposto; nondi-  meno della fola Riuolutione, hò fatta mcntione; Rimati  do quella tra gli altri e flcr men difficile. Io tre muodi fi può  trafporre ma parola, ò riuolgendola dal fine al principio»  come Amor, Roma, fecondo cangiando fito delle fillabe,co  me core, reco. Tento variando fito delle lettere, come alto,  lato . Siche per il primo muodo,in luoco di Roma, porrò  Amore.pcr il fecondo per reco, porrò rn core.E cóforme al  terzo.per alto, porrò lato. La regola delriuolgimento è, che la  colà fi ponga al riuerlò ; accio fi conofca che al riuerfo li  proferifee la parola, cosi per Roma ponendo Amore, por-  rò Cupido col capo in giù, e con li piedi in sù.E quella Re  gola del riuoIg!tnento,non è trpppo familiare, nell'ufo del-  lArte.  La variazione, è quando la parola lèrbando rifleflo ordì  ne delle parole, fe li caogia qualche lettcrajcomeper que  Ila parola, mente, cangiando 1 m. in u. dico uentre, et per  mentre colloco nel luogo un uentre. E quelle parole fi tro  uano,col difeorfo delle lettere dell’Alfabeto, rimouendo le  confonanti, et in uece di quelle ponendo dell’altre, ò nella   r ima,ò nella feconda.ò in altra fillaba, finche riefea paro- .   che lignifichi cofa atta da poter cller collocata. Per cficm  pio dirò mentre, poi rimofso l’m. comincio à decorrere  per le lettere confonanti, bentre, centre> dentre, fentre, gen-  ttc, ientre, »entre, uentre, pentre, rentre, fentre, tentre, uentrc.   Ecco che fri tutte quefte paro le, non ritrouo altre, che cen-  ttc * CU£n trc, fiche ò ui pongo un uentre, ò molte Centre,  fe io intendo quello uocabolo di centre, per quelli chiodct-    ti piccoli chiamiti, «iure, A centrcBc.o tacce.o uccietw.  E re timone, >do la prima Confonante non, mi fufte nuli.,  ta parola lignificante, haurci rimolfo I n. e fatto 1 iftcflo dl-   tHHVu   L’agnominazioné, e Bifticcio,i!qnale è uno fchcrzo/di  parole, per uariationc di Lettcrejè regola molto al prò  polito per formar l'imagini. Li bifticci fono per elk mpio;  ponnoj panno; benché, banca; palla, perla ; lagg'a»  menica, manico; ora, ara; pena, pane; loco, luto, e limili. Si-  che, per pena, porro pane, per faggio icgg'a» P cr benché ba  che, per parla, perla, per ponnò, panno, o penna. Pcr liqua  li Bifticci li notino tre cofc, primo come li formino, fecon  do 1 vfodi quelli, p la memoria, terzo il fogno, che 'e li dà per  nò cófoivkrf, nel ramétarli Quanto al pruno, vedete, li mici  Methodi di moltiplicar i Cócetti; doucio a degno il n-.uo o  db fori ar li B.fticci.E qùì balli fapere, che tale formaturne,!»  fa fcccrédo.ple 5 .vocali;p cficpio m’incótro in qiicfta parp  h>póno,difcorro per le quattro uocah, panno, penna, pinna,  puuuo;duedi quelli nomi fon' al propofito, cioè peqna, p  panno; poiché lignificano cole figurate, et atte pcr cfler fol  locate. Quanto al fecondo dico che in i qucft'A myion fola  mente fi riceuono bifticci regolati, ma anco di quelli che  fon goffi; anzi piu goffi, e feonfer ati fono, purché habbinòi  la fomiglianza della uoce) maggiormente muouono .come  fece colui éhe per l’Ariosto pone un pezzo d'Arrofto. Quanto al terzo dico, che nelle cofe collocate, ùi fi può tot  mar fegno;còme fi formang, nclli Age.pnglmènti «i df fa  . prà, ponendo il lègBÒ ; àl'lùógo-doiie e latta lùlictàtione, o  nella primari nella lecouda lillaba.  La composizione congiunge le parole, che li douerebbo t  no diuidcre, e questo non folamente fi fà delle parole  intiere;mà delle litiabe. Per elTempio,quefte fon due parole,  qui, es, componendole faralfc la parola, quies, e coli per  quelle due parole, metterò vn che fi ripofa,    E   Erto rcifta.   E   fi, U. ; ' r *1 !   F Fabro F Fondcchiero G   Gouernatore G Geometra H Hofle H Hisloriografia I Imbiancatore P   Poct*. 3   Q Quo «aio. (£  R   JL-’. ;1   R   Ricamatore S Spedale S Sartore T Trombettiere T Tcslitorc V Vcfcouo V Vaiato X    X   rrj'.-Arf J   z  Zeccatore z Zoccolaro. M A à quelle perfonc,bi fogna darli vn fcgno:acciò non  fi prenda il nome della pcrfona, in vece del nome dei-  lane, dell'officio, ò della dignità . Quanto al Terzo Alfabetto fia per elfempio K Aquila A Agnello B Bue. y B Bufalo C Cane C   Cerno D Drago D Delfino E Elefante.   E F Falcone. ' 'r   F Fagiano G Gallo G Gatto H Harpia H    1   Iftrice .   I L Leone L Lupo M Montone M   Moietta N Nottola N Nibbio O   Oca O Orlò.    PpjCO p  Porco P   Pallone.  CL,   Quaglia.  i   R  Rinocerote, Ródmclla  R   Regolo  s   Simia S Satiro  T   Tigre T   Toro. ì V Volpe. ‘ i   V Vacca X  X   .i y yj z, rii •   z   iof/.-. ibi.uirt s Idbntniii   r z   * ' . . J * u   E Perche le medefime co fir, fi potrebbono prendere anco  ra per Imagi ni: però bi(ogna chc’l Formatore,dia uh (e  gno à quella colà, che fi determina per lettera, come il Leo  ne con vn monticai collo, fia per Lettera; lenza monile, fia  per Imagine. Quanto al Quarto Alfabeto .    Q Vefto Alfabeto, non fi prende dalle Lettere delle paro  ^ le, come li tre precedenti ; mà dalla forma, e figura  della cofa, laquale é limile alla figurac carattere della lettera;  per lochc ridee più facile di tutti li altri, come che alla pri-  ma occhiataci rapprefenta quella figura di lettera, quale fia  mo vii di veder con l’occhio legendo. Delquale Alfabeto no  ftro latino, fi reggono le figure nel Rombcrch, nel Dolce,  e nei Rottdho, le ben da altri anco lono ferirti. Et io nc fa  rò qua vna feelta delti più noti . •  t/l Vn Archipendolo di Muratori . Vn comparto grande  di legno, con li ferri in terra, quale vlino i Legnai-  uoli .   B Vn Liuto col manico verfo il Cielo, e conlecorde al-  la finiftra. Vn Acciaiuoleò focile da gittar fuoco.   C Vna Comma di Pottighom. Vn ferro di Cauallo.Vnà •  Luna piccola, quale fi mira di fette giorni.   D Vna mezza Luna. Vna tetta di Toro, con vn còrno in  terra, c col mulo alta delira . Vna tetta di fanciullo,  col nafi> alla delira». Vn t$?zzo circolo, con l’arco alla   L a dcftia. i  delira. * . . * M   £ Vn pettine caualliiio di denti larghi dritto.Vna metta  rota, col rotto a man delira. Vna lega dritta, con li tre  legni alia man delira. F Vua falce di mòrte, col ferro in sù . Vna fcfmitatra f  con la. punta in terra, e col pendente del manico à  man delira.   G Vnacornamufa, ò ciramella e Piua di pallore .Vna  falce col piede in terra, e col taglio à man delira.   H Due colonne larghe, e con un trauerlo che li lega   f e llringenel mezzo, come li uede l’Imprclàdel Plus  'ultra.   J Vna Colonna, Vna torre, Vn campanile, tali quali li  ueggono dipinti. Vna uerga. Vna, candela.   I Vna accetta grande, col ferro in terra, e manico in sù,  Vna Zappa nel medefimo muodo . Vn capo fuo-  co. '   Vn tre piedi di caldaia . Vn tridente di Nettuno.  Vn paro di forche, cól fuotrauerfo. Vn paro di mol  lette di fuoco. Vn paro diBilancic.   0 Vnallrolabio circolare. Vn cerch o di tauerna . Vna  Corona. Vna Girlanda. Vna medaglia.   2» Vn Palio rale di Vefcoui. Vn uentagho.Vn manico di  forbice di Cimbatore.   Vn pozonctto,ò padella col manico in giù,& alquan  to pendente ; ò un ramaiolo nel medefimo muodo.   R Vn paro di Tenaglie. .   S Vna Tromba torta. T Vn Martello. Vn Succhiello,© triuclla grande di Le-   gnaiuoli.   V Vn rafolo mezzo aperto in sù. Vn compaflo aperto  in sù.   X Vnacroce. VnaSeggia.   Z Vna Zappa col ferro in sù uolto à man finiftra,&alqua  to ripiegata.   Le figure di quello Alfabeto fi ueggono nel RolTclUo, c   con miglior intaglio nel Sopplitip, nel Romberch, et nel   Dolce. Doler. Se bene alcuni ih cambio di quelle figure,adoprst  no l’iflesfi caratteri di Lettere, invaginandoli grandi, come  li capitoni ò maiufcole.E farebbe anco bene formarli la pri  ma uolta di cartone, e tali quali fi uiddero, collocaro, c re*  pctiro la prima uolta le invagini di quelli caratteri ; tali ro-  llino lempre nella memoria. Quelli quattro Alfabeti fatti familiari dal formatore, le  he fornirà nelle parole non figurate, auertendo prima che  è beneiluariar le lettere et Alfabeti, ordinandole con giudi  ciò, fi che habbino corrifpondenza infieme, e particolarme  te ordinandole con le perfòne . Per efiempio uorrò dire.  Anima, prendo dal terzo Alfabeto l’Agnello, dal fecondo il  Notaro,dal quarto una uerga. E per ordinarle infieme, pó  go il Notaro,chc con una fune tirai’ Agnello, nell’altra ma-  no tien la uerga, c dinanzi à lui ci fia Antonio, che con  un tridente ribatte ilNotaro.Dall'AgnelIo hò l'A. dal Notaro IN. dalla verga IT. d’Antonio, hòl’A.e dal tridente  l’m.E Umilmente fi faccino l’altrc figure da collocarli, per  uia di Lettere. Auertail formatore, che il primo et fecondo  Alfabeto, fc li potrà formare anco di nomi Latini, fecondo  li ucrrà più commodo: purché fimoflri la lettera, per cui  flabilifce la perfona’. Il terzo Alfabeto Io può formare, ò  dell’ Animali podi per effempio da me, ò di altri qyali più  aggradiranno ad efTo; purché fiano noti,&atti fecondo l'ar  te. E parimente il quarto Alfabeto, fclo potrà formare ò  delle figure polle da noi, ò di altrcjpurche uiuamentc Iirap  prefentano il defiderato Carattere.   E fè occorrerà fcriucre in greco, in hebreo, ò in altri i-  diomi,che uariafTero caratteri e figure, il formatore fi for-  mi le figure conforme all’Idioma.   :iij  u 'ìojafti uy ovint**-f . D lfsi che fi formano l’imagini dalli firodi, e dalli diflimi  Iij se hauédo detto à ballaza delli limili, retta che breuemente diciamo delli diliìmih,e primo dcUVppofiti. Non  ftarò à riferirui la molciplicita dell oppofiuonc : poiché mi  pare fuperfluo in quello luogo* non douendo noi adopra-  re, (e non alcune cole in certe uolte, quando ci mancatici  perfetta notitia dello ppofiti. Et à mio giudicio,ci posfia-  no f ruire delli relatiui,come porre il feruo per il patrone,  quando quello mi fufè noe* »e quello m c ignoto ; porre il  Dtlcepolo peni Maftro, il Figho per il Padre, quando quel  li mi fuJlero noti,e quelli ignoti. Màbilogna darli legno, per  ilquale s’intenda, che non eslì per fc ftesfij mà per rapprefen  Urei altri, in quel luogo lon collocati .   Del Volontario .   Q Velia Regola fu molto commendata dagli antichi Greci; fc ben CICERONE (si veda) par che la rifiuti. Il modo uolon  torio è far una leelta di cento, ò ducento parole, che più lon frequentate nella profeslione del formatore, c parole che nò  hanno lignificato figurato, come le coniuntiorii, le disiuntio  ni, h fincatego remati, li articoli, aduerbij, e fintili, e pcrcia-  feuna di quelle parole a (legnarli vna cofa materiale, et oc-  correndo poi la parola, ripor fubito nel luogo quella cola .  Per elTempto, quelle parole. Et. Àn. Vel. In. Quia. Ad. Per  A, pongo vn melone; per An, vna Zucca; per Vel, un Cedro; per In, pongo un Granato; per Quia, vna Noce; per  Ad, vn Cocomero, c così de gli altri. Quello modo vfato  nelle poo. parole infigurate  prendo ducento colè materiali, che ftanno fempre per quel  le parole, io diuento pouero dlmagini; perche le perla pa  rola vcl, tengo vn Cedro, e per vn’Et, vn Melone; fo m’oc-  corrcllc fcruirmi del Melo ne, e del Cedro per altra Imagine,  che per le dae parole Et, e Vel; io fon priuo di quelle colè  à poterle collocare. E (è pur le uorrò collocare, mi confonderò, mentre il Cedro nou (blamente è imagine del Cedro;  mà del Vcl Se ben per torre quella confulìone, potresfimo fegnar la figura con vn fogno diftinguenre la parola dall’Imaginè; noivdimciio io à quefto effetto mi forno delle per  iòne, perche (bruendomi fempre di cento, ò ducento perfo  ne, (blamente i quefto effetto, io non m'impoucrifto d’ima '  gim, non mancand-uni d'altre perfonc da ftru’nni in altri  btfogni.N.- miti genera confufione, poiché quelle pfone nò  mi (eruono ad altroché |> tal’effetto.Dunq; li olferuino que  Ile Regole, per riufeirehonoratamente in quefto modo uoló  tar o. Pruno, fi cófideri, in che arte, ò jpfesfione,ò eifercitio,vi  uorrcte fornire del modo uolontario,fo in latino fo inuolga  re,fo in Logica, fo in Grammatica, foin Filofofia,fo in Theo  logia, fom predicare die: e da quella profestione et eflerci-  tio,(ì prendano le parole più ufitate e manco figurate. Se-  condo, quelle parole lì formano in un libretto ordinatami  te; c dirimpetto àciafouna parola,!! fcriua la perfona . Ter-  zo, fiano collocate con frequentato elfcrcnio nella memoria, in tanto che indire ò incontrarli leggendo, ò in udir im-  parando quella parola, Tubilo ui fi raprefonn la perfona.   Per cllempio nella Grammatica, prendo quelle parole,dan  dolile Tue Pcrfone dirimpetto. Et    Et   Antonio.   n;   • ?;i o/licp orto In Vincenzo. N.   i» nifi vilkitnoq   Ad Tornado.   N.   un ti -di Sur»   Ab Piero. N.   ì.litorali zìi: ni :-5 Quia   Paolo.   N.   ir. Jirioa t! 'lijj’.UI   Cuna Francelco.  N.   •rmioil-i ìwi   De   Sempronio   ' N.   .snclvjq ^tab Ex Natalitio.   N. -•conrjph clqrvq   Propter   Lorenzo.   -N.   D Ol pioT. ql?!    Per Filippo. N.,   E così dell’altre parole, facendo il'fimile in altra prorcslìo-*  re et eflercitio. Ne fi Igomcntila pcrlona al primo incon-  tro, quafi il far quello lìa fatica grande: poiché è cola mira  bilisiimamcnte utile e gioueuole, et una fatiga fola di otto  giorni, in pratticar qucfte parole e pcrfone, dura in eterno^  e con apportar mcrauigliofii facilità alla ipemoria,iog le la  fatiga grande, che fi ha informar l’imagini^ alle parole infigu  rate; poiché in fentirquclla parola, ò trouàdola, fubbito col  loco la perlona, quale mi rapprelenta uiuamente la parola.  Quello modo lerueacoljro,che udendo lettione, ò predi-  ca, ò altro, collocano con merauigliofa preftezza . Et quelli  che fanno profesfione di fcriucre ad uerbum, fotto lauiua  uoce di Lettori, Oratori,ò predicatori; li termino con 1 i-  flelTo modo tre cento, ò cinque cento parole, ò più o meno  delle più ufitate in queUcflercitio ; et a quelle dianoli luoi  fègni, ecarattcriuolontarii,liquali fatti tamiliari allo fent-  tore,làrà men ueloce i' dicitore à recitare, che lo fermare  à fcriuere. E chi uolelfe far quella profesfione, olTerui l in-  fra Icritte Rcgole.Pri no fi fcriua in un libretto le parole piu  ufitate in quella facoltà, et eflercitio . Secondo, lormi li le-  gni, ecaratteri dillinti per cialcuna perlona.Tcrzo,licaratte  rifiano breui,edi pochi tratti di penne; accio nonuadi piu  tempo a Icriucre il carattere, che la parola. Alle parrole breui e piccole, si diano li caratteri più piccoli; alle parole più grandi, si potranno dare li caratteri maggiori, man  co grandi però, che fi potrà. Laonde fc non faranno futficienti li caratteri d’vn Ibi tratto di penna, bifognando ler-  uirfi di Caratteri formati di più tratti di penna, quelli lì dia   no    fio allupatole maggiori. Li caratteri potranno clfe-  re lettere di Alfabeti, latino, greco, ebraico; caratteri di  nutnèri, tratti Geometrici et altri legni volontarij ad arbi-  trio del formatore. Sello, potrà formar caratteri dalle prime lettere delle parole; auertendo pecche vn carattere nq  fia fimile all’altro. Settimo, lipotran formar caratteri, per  abbreuiaturc, Icquali lon familiari alli Greci,& anco all» La  tini, Logici, c Filoli-fi. Ilriufcirin quello particola  re è cofa diffìcile, per la gran fatica che bifogna à farli fami  Ilari li caratteri; nondimeno, perche è vna profesfione par-  ticolare, allaqualc alcuni totalmente lì dedic .no; pcròlcirer  citio grande li farà facile il tutto. E lederemo fi facci con pi  gliar (critturc, Latine, e Volgari, et quelle traferiuendo per  Caratteri elfercitarfi ; intendendo che li caratteri liano non  di tutte le parole, mà delle più frequentate comedislì. Con quello Methodo flimo fulìe notata tutta la oratione, che  hebbe Catone in Senato, contro i Congiurati di Catilina, e  contra il voto di Cesare, come racconta Plutarco . £ Tuo  Vcfpafiano, comeriferifce SVETONIO » raccoglieua velocisti*»  mameute le altrui parole. Del ConnefTo.  I L terrò modo propollo delli disltmili» c il ConnefTo»ilqtu  ic riduco à fei capi. i, Ugello. >   1 i. L’Etimologia . M j. Il legno.   w; - l- ’ q.. L’inlegna, et imprelà.   * •• i >•' ( J j.L’inllromento.    e quelli ter-  uono per formar 1 Imagini delle Arti,, et Ariette» di qual li    soglia forte; onde per il Zappatore fi ponga la «appi, perii  Notaro la penna, per il Soldato la Spata, e l’Elmo, per lAr*  tore l’aratro con li buoi. Il folito di dire c vn contingente,  che mira qualche perfona, laqualc frequentemente dice o una parola, o una sentenza [cf. UTTERER’S MEANING, UTTERANCE-MEANING, SENTENCE-MEANING, WORD-MEANING]; laonde incon randomi poi in  quella parola ò fentenza da collocarvi metto quella perfo-  oa, laquale c lolita dir quella parola ò fentenza . Indi per- il  Quamquam, pongo una perfona, che lèmpre comincia il fuo  parlare, con il Quamquam. Per quella sententia, Auaritia  «Il Idoloru n feruuus; pongo vna perfona, che in tutti li prò  pofitil'hà in bocca, ccofì li intenda dell* altre Umili parole,  o fèntcnze.É quello balli delti Conncsfi,3c inficine di tutto  il Methodo di formar l’Imagini, ilqualc con ellrema fatica,  c molte vigilie, e flato da me inucntato,e prolequito; fe bea  quanto al fatto, in qualche parte fi ritroui dottrina diciò ap  predo h Scrittori di quell’Arte. Retta mò,chepasfiamoaUc  Regole deU’Imagini.  Regola per rimaglili. pRopofi di trature delle Regole dcll’itnagini, per compii  JL mento dell’Arte della memoria Artificialejlc quali Rcgo  le io le ridurrò ad alcuni capi, quali confiderà» c ponderati, daranno compiu notitia di quanto fi defidera fopr»  Ciò,  in Collocar le persone, fi habbi auertenza di dar  li quelle attioni, che conuengono alla fua qualitàjpcrchc no  Corni iene ad un muritore darli atto di predicare, ne ad un  predicatore darli atto di murare, quando fi poffono haue*  re le perfine appropriate; e parlo dcUi luoghi nudi, lènza  perfone immob.li. li. L’imaginehabbia qualche moto, e (è fufTc cola immo   bile, fi ponghi nel luogo perfona, che la rapprefenti . E per  colà immobile s’inreude colà, che non è animale. Le imagini non filano odo fé; perche non moucreb   bono con uiuezza; pcrò,clTendoui nel luogo un Cauallo»  fate che con la zampa zappi il terreno, ò tiri di calci ; il lupo, che dcuori pecora; il pallore, che minacci l'Agntllo .Et  eflcndo imagini congiunte con altre cofc; con qucllliftelTe  facciano li atti c gedi. Se la cola è animata, mà c piccola, comeFormica  Mofca, zenzala,pulice; bilogna metterai pcrfona, cheli mo  dri. Mà come li farà, per uederlc? Dico che lì ucdrà primo  perla prefissone delia mente. Secondo perle cofeannefi»  le àtali animali; come, fe fbpra un piatto di mele la pcrlo  na (tenderà un paramediche, lì cnnolceranno le Molche; et  come le formiche, nel mucchio di Grano. Terzo perii ap-  propriati di alcune perfone; come fece il Raucnna, che ha-  uendo uifto uno die ftropicciaua un puhee, lo chiamaua e  colloca ua per pulice. Così fi potrebbe far degli altri. Mà  fe uorrò dire Formica,e non Formiche; come farò, (e tan-  te e non una fi mette nel luogo? Rifpondo, che la perlona  nuda,moltrail (ingoiare; 1; cpme ucllita, il plurale, come fi  dirà poi al fuo luòco. Se molte Imagini fi collocano in uno delio luogo,  ò pure perla continuationc della parola didima in piuluo  chi c ben fatto per quanto più fi può, darle continuatone  di attionefra loro. Per efiempio, udendo collocar per lettere queda parola, Deus, pongo nel luogo Dominico, i!  quale con un pettine, pettina un uitello, tenuto da Siluia.  Da Dominico hò il D. dal peuine l’E dal vitello I V. da  Silula l.S. L’Imagini liano proportionate al luogo non ecce-denti; e c fodero eccedenti, già disfi che modo s’hà da tene   re. Il che s’hauede confiderato il Monlco, non harebbe ri-  prefo il Supphcio, il quale nell’Alfabeto d’artificiati, pofè  per 1. una torre, c per X. una naue; poiché le colè eccedenti, ò per liinaginanone,ò per le figure, fi rendono propor-  ticna:c,come disfi.   Vii. Le perlonc che fi collocano nclli luoghi habbino  del grande, del uiuo, dell efficace quanto più fi può ; perche  più efficacemente muouono. La Figura et imagine,non (la /olita à (tare in quel  luogo dòuè fi colloca; perche eflendoui /olita, non muoué  efficacemente ; attento che giungendo nel luogo, crederai  che tal cofa non fia indagine; mà parte ordinaria di quel lùo  go, E per ouiarc à quello inconueniente, olferua la regola  di uariar quella cofa con l’imaginatione, dandoli qualche ua  riatione inlolita; per eflempio giungendo ad un luogo do-  ue fia una feggia,e uorrò in quello luogo porre per indagi-  ne una feggia, io metterò quella feggia trauerfatain terra,  per lo qual fegno efficacemente conofcerò,che la feggia nò  fi troua nel luogo, come cola ordinaria; ma come Cola for  mata per imagine. Nel collocar all'improuifo, bada metter una ima"  gine per luogo; ;icl collocar pofatamente le cofe che fi ftu  diano à bel agio, non è inconueniente, porre molte imagini  in un luogojpurche fiano didime, c commodamcnte fiucg  ghinoc rapprefentino. Vogliono comunemente li profclfori di qucft’Arte,  che le imagini fiano collocate in atti fporchi, laidi, c ridicelo  fi ; perche quanto più fi uederanno goffe e fporche, tanto  maggiormente meucranno . Il che potendofi Tare lènza  fcrupolo di mouimento indegno nel formatore; nudereb-  be molto utile all’Arte . Per lo che non laudo la dishoneftà  delle imagini.  Dottamente difeorre Cicerone intorno alla viuezza  delle imagini ; perche quelle cofe, che noi per efperiqhza co  nolciamo, che ci muouono à conofccrle attentamente fc à  ucderle anfiamentc, quelle lon’al propofito di moucr cffica  cernente e uiuamcnte la noftra Memoria, in ricordarli. Però le cofe nuoue,lc cofe merauigliofe,le cofe rare, le cofe di  letteuoli,le cofe brutte, fporche, e ridicolofe, le cod horri-  bih e fpaucntcuolijlc cod di gran uarictà, le cod eccesfiue  in bellezze, eccesfiue in brutezze, come una faccia tagliata,  vn nafo grande, vna gobba monftruolà. Così le cofe ecccl-  fiuc in degniti, come vn Rè, vn Impcradorc,vn lommo Pon  tcfice; e limili; le colè eccesfiue mpouertà è mendicità, co-  me un pouerello ftracciato ccncioIofo,e fimili oggetti, (cm-  attislìim alla viuezza deil’Imagiai. Et à fimili accidenti deuc   hauer » li uadi (èmprè ri  . perendo; per elfcmpio polla la prima figura fi pasfi alla fe-  conda, e poi fi ripigli la prima recitando, c contcplando, c  porta la terza fi ripeta di nuouo c la feconda, e la primate  portala quarta fi repctano l’antecedenti, e porta la x.fi repe  tano le antecedenti per folto, la prima, la fèptitna. lanona.la  Tetta la quarta, per le fpari per le pari, al dritto al riuerfo,chc  cofi tenacemente fi (colpirono le Imagini nella Memoria.  Sehoggi hauete collocato per imaginc una cofa ;  auertite dimani, non collocarla per'Imagine d vii altra cofa  diuerfo. Come le hoggi per quefta parola Agnus, hauete  porto vn Agnello, dimani non porrete l’Agnello per l’inno  cenza; perche vi potrebbe apportar confuhonc, mentre ui  rapprefenta due parole; le pur non fufte dimenticati della  prima fignificationc,ò pure forte variata 1 Imaginc con le-  gni, ò bene rtabilità con li dirtintiui della mente, c con la  prefisfione della ripetitione.  Quando fi ha da collocar à memoria vna oratione,  ò periodo,parolatamentc; prima fi legghi due e tre volte pia  namente,e diftintamente,come vuole Cicerone, ilchc appor  (a non poca vtilità. Collocando le parole, fi dia proportione al Genere col fèllo; perche fe uoglio dir ricchezza, eh e di Genere  feminino, meglio è collocarci vna donna ricca, chevnhuo-  mo ricco.  Se vorrete collocar periodi intieri ò parole, et oc-  correndo di ritrouar otto, ò dieci, o piu, ò meno parole,  quali noi fiprece molto ben recitare, fcnz’akra collocatio-  he; non occorre far fatica d’Imagini interno alle parole che  voi fopetej mi balla collocarne una principale, quale ricor-  data u apporta cohfequcntcmente tutte l’altre. Et quello in-  tendo, nelle coltocationi delle panie, lcquali recitate, noa  curamo chccì reftino à memoriamo ne delle Orationi, Prc  diche, Comedie, ecc. Le Figure, e Imagini habbino proportionata al-  tezza, fiche l’occhio. 'non habbi fatica d alzarli troppo, pc®  vederle; nè all'incontro abballarli ioucrchiamcnte per contem- fuuer l'occhio il formator di quefl’Artè Nel collocar le Figure, et Imagini    lem piarle. Indi fiate cauti nelTordirfàtione, che fa il Roi»:  berch dellìmagroi l ena fopra l’altra, peiche hauendo noi  luoghi commodi da far progreffo per la.go, non occorre  aggrauarla memoria, laquale memorando procede con lo   ftabdimento del fenfo. Formando rimagini, non fiate prefittoli m rubi-  lo collocarle, quando agiatamente potete formarle e collo-  carle* pche occorrendoui poi vna Imagine piu atta,& elqui-  fita della prima ui irebbe difficile in collocar la feconda, ha  uendo collocatala prima; ò vi farebbe graue tralasciar la fe  concia, elTcndo miglior dcllaprima. Dunque peniate, e ri-  pense prima, fe altra miglior u occorre, e poi collocate le   Imagini formate. Sopra il tutto fate, chele Itnagmi fiano di cote ja  *oi note, è notisfime;e però ui douete attenere dalle imagi-  ni finte, potendo hauer le reali » e dalle ignote hauendo le  note, e dalle men note haueodo le piu mahifcftc. Si come nuoce la fotniglianza tra li luoghi, nella for  mattone di luoghi; cosi la fomigltanza tra le figure, nelp  formationc delle imagini. Però ui sforzerete di farle, quan-  do più fi potrà diuerfe e di filmili; accio non u’ingannatc ntf  la fomigltanza di elle; perloche hauendo à dire tre Francc-  fchi, dtllingueteli perle Cicatrici, ò per gli atti,e gelti, un  gobbo, un monoculo, un fenzanafo,e cò altri limili accidcn   ti Eccesfiui. # . . VT . Siate cauti nelti sinonimi ed equivoci. Nell’equivoci, accio ponendo il cane, per IL CAN CELESTE. Non diciate  cane, che rode l’olio. E nelli sinonomi, come pietra faflo^  accio una ftcflfa cosa hauendo piu nomi  non li dichi 1 un  nome per l’altro, il che fi può diitingucre, per l’attentione  della mente, nel collocarle e ripeterle, piuiiolte; o pure co  qualche altro diftintiuo, pollo neUa cofa, o di lettera o d’- »le picolc,e quello per non ingombrar tanto il luogo, e per  (farlo più capace Onde ne fiegue, che minor numero di luoghi farari neceflarn ; c li così picm. per la diversità, rie*  /cono più efficaci. Per cflempio per quella parola ffauentc, pongo nel luogo un’uomo chiamato Nicola, il quale  nella man delira tiene Un piatto di faue, che lo porge ad  un fuo Figliolino che li Uà alla delira, e nella man finiflra  tenga un Martelli, cól quale minacci e fcacci una fanciulla chiamata Emilia . E così legerete dal piatto Fauc. Dalla persona. Nicola, N. Dal Martello, T. Da Emilia, E. e da tutti  l'intiera parola faucnte. Laonde larà benfatto, tra gl’alfabeti di perlòne, hauerdue Alfabeti, vno di Fanciulli, l'altro  di Fanciulle, oltre li due di Huomini, e di Donne. Nel collocare, prendendo le parole ò concetti dalla carta,e riponendo nelli Luoghi, non fi facci memoria nel  la carta e parti fue; Mà (blamente nelli luoghi; perche làrebbe doppia fatica in ricordarti è delti luoghi, e della carta. Oltra che apporta gran confusione, perche la mente uedea  do, e. nella carta, e nclli luoghi uacilla, e fi confonde ; men-  tre a due parti fuggelo (guardo,e quella Regola li noti  molto bene. Nel collocarc,e ripetere l’Imagini, fi auertifca, di  non far’altri geflr, chc quelli che fi ricercano opportunaméte  fecondo l'Arte della pronuntia nel Recitatore. E-fi guardi il Formatore dinonappKarfi, ò collocado, ò ripetendo ;  à qualche geflo intcnlàmcntc fuor dell’Arte, come il contar con ledita^ener il capo faldo et erto, mirar in sù,piegar  fi in giù; ma indifferentemente redi libero d’ogni intenfa applìcatione di fi nifi atti; perche alrrirrt^nte facendo, il Recitatore recitando farà poi l’iftcsfi gclli inconuenicnti,c periglio  li j inconucnicntijperche concro l’Arte; pcriglioli, perche  le in qualche accidente muta gesto li fuiarcbbela Memoria, e fuariarebbe la mente. Per mancamento di quella Regola, hò uillo alcuni Recitanti, Ila re come che hau elferoin  giyctita una fpada, inflasfibili Hi erti; c con gli occhi fitti al  ìjjuro, che Ila lor dirimpfctto, quali che fuiferò fiatar. la  /quii Uò.fanon (blamente difdicc aitili; ma fciiopre l’Arte, il-  che èflifettuo(b,làpCndo elfer principal dell'Arte, il làp'ec  celar l'Arte, intanto che quel che l 'Intorno fi per Arte,coiU ’  libqrfa dd’li gclli, e' domiiniò de gli atti, moliti che lo facci   per •• i    f.TI    I   W M M  per felicità di natura. £ quello piace affai, e giuramento  de piacere, e dilettare ; poiché nell’Arte fi fcuopre l’inge-  gno notro, e nelli doni della natura la bontà influente del  1 Auttor della natura. E conuieneohe piu. ci aggradi l'opra  di Dio, chela notraje che la prima laude, honorc, e glo-  ria fia di Dio, non della creatura, laquals fc per Arte, ò per  ingegno fa, ò sà, ò può cofa, il tutto ultimamente de riferire à fua Diurna Maeftà.   R icerca queft’Arte della Memoria per fila compita perfettione,chc hauendoui trattato delle fueprencipi par  ti, Luogo, et Imaginc; tratti alcune cole particolari, vtili, e  neceflarie da làperlì. E tralalciando l'altreal giudicio, ingc  gno,e fatica del Formatore; tratterò preedàmente, delmo-  do di collocar li Libri, li Numeri, li Generi, li Tempi, li  Cali, li Punti, li Argomentale Quotationi. Dirò poi delle  Dittature, della Libraria,e dell vfo della Memoria, e fògilla-  ro alla fine il tutto, con l’Arte dcll'Oblmione    Della Collocatione di Libri.   O ccorrendo collocar Libri di qual li voglia profesfione,  è di necesfijp haucr l’Imagini formate di cialcun di loro. Laonde cftrtcuno fi potrà formar l'Imagini dclli Tuoi Li-  bri, intorno a quali vcrlà;comelo Scrtttorale formi immagini dclli Libri della Sacra Bibia, Il Thcologo delti Scolatici, IL FILOSOFO DELLA FILOSOFIA, il Medico della Medicina, Il  Canonifta di Canoni, Il Giunta delle Leggi, il Logico della Logica, ecoii faccino tutti gli altri. E nel formar l’Imagini olferui quete Regole . Primo fi fcriua in vn foglio tutti  li Libri, intorno a quali uerla il Formatore . Secondo for-  mi, l’Imagine da vn fatto principale di quel Libro, ò dal ti-  tolo, ò dall’agente, ò dalla prima parola del Libro, ò di qual’  altro capo fi yoglia;purche Ila reprefentatiuo del nome del   N Libro*    Libro.Terzo queft’Imagìnc ò la ponga (opra vn Libro, ò  la ponga nel luogo col Libro» ò vi metta la perfona che rap  prefènci il nome del Libro . Quarto nel collocar li Libri »  può il formatore. Icruirli dcirAuttore di quel Libro, come  fe in citar Paolo, vi metterò S. Paolo col Libro in mano, e  per faper qual libro Ha, vi metterò la fua Imagine,come le  fard illibrodi Corinti, ui metterò vnCore . Coli le uorrò  collocar l’auttorità dell'Euangelio, vi porrò l’Euangcltrta,  col libro, e fua figura, Giouanni con l’Aquila, Mattheo con  FHuomo alato, Marco col Leone, Luca col Vitello . E le  vu’Auttorc hi comporto più labri, vi pongo i fegni per di  ftingncrli, per dTempio, Giouanni hàfcritto l’Euangclo, l’Epiftola» l'ApocahlIc; per l'Euangclo lo pongo ledente,  predicante, per l’Epiftola lo pongo Icriuente, pcrl'ApocalilTe lo pongo con gli occhi merauigliofi alzati al Cielo, come in atto d; ueder colèi aulita te e noue. San Luca che ha.  fcritto rEuangcto, egli atti Apoftolici ; per l’Euangelo lo  pongo con Chrilio, per gli Atti lo pongo con gli Aportoli.  Mole che hà comporto, e le ritto il Pentateuco, Geneti, Efo*  do, Leuitìco, Numeri, Deutoronomio ;nel primo lo pon-  go con Adamo, Se Eua, nel fecondo con Faraone, nel terza  col Sacerdote, nel quarto con gl’Elìcrciti, nel quinto con  le Tauole della Legge. E pattando à gli altri Libri, li Libri  di Reggi li formarctecon li Reggi, il primo con Saul, et Da  uid Fanciullo, iUècondo con altri; ò pure balia hauer libro  c Rè, e poi li numeri porli per caratteri nu.i erali, come fi  dirà poi. Coli il L bro di Giofuc con Gi^lue, di Giud ci  con Sanlbnc, di Ruth con Ruthapprcflb i mietatori, Efter  col Rè Alfuero, Giudit con Oloferne, li Profeti con loro  medelimi, Efiua con la Slega, Geremia ch’è porto nel Lago,  Daniele fra Leoni, Ezechiele fra Rote,8c animali alati, Gio-  na nella bocca della Balena, e h libri di Machabei con Giu-  da Machabco, di Solomone con elfo in fedia Regale giudi  cante,& il. limile degli almLibri fi facci in qual li uogUafcic  za e profesiìone .  Per numeri, altri adoprano caratteri formati da varij inftromenti. Altri adoprano perfone, dando loro li nume  ri. Altri. adoprano cofe Materiali,allequali volontariamen-  te attribuirono li numeri, come che il Melone lia vno,il Ce  druolo due, la Zucca tre, il Cedro quattro. Quello modo  l’hà.per mirabile il Monleo,il fecondo lo fieguc il Rauennaj  il primo mi pare piu atto di tutti. Oppone il Monleo al primo modo dicendo, che li caratteri non fi muouono. Alche  Rilpondo,chc tali caratteri fi pongono in pcrlona morente,  come fi dirà poi: per loche Reità che fiano attisfimi tali ca  ratteri. Il modo delle perfone c bello; ma è alquanto diffici  Ic,& intrigato. Il terzo mi pare che apporta poucrtà c con--  fufione al formatore; poiché fc li tolgono le cole materiali  delle quali potrebbe liberamente fcruirli, per imagini. Ne  è il fimilcdelli caratteri noflfri ; poiché noi ci feruimo loia-  mente di noue cole, dou’egli nc prende cento. Il modo e  fecondo, c terzo lòn belli, e chi li vuol leguire ved i li lopra-  detti Auttori; à me balla darui le Regole, per lèruiruidcl  primo modo. Si prendono dunque noue colè materiali, c  quelle lèruino per l’vnità, e per gli otto'primi numeri,  per cllcmpio I. Vn Spiedo, ò vn Pugnale  a. Vn paro di Forbici.   3. VnTriangolo. ' •   4. Vn Quadrangolo,  j. Vn Serpe ritorto.   6, Vna Lumaca, ò chiocciola grande marina col ca-  po fuor del gufeio .   7. Vna Squadra di Muratori.   8. Vna Zucca a fialco, che ha due ventri lWn lo-  pra l’altro.   9. Vn’Alciadi Legnaiuolo. Quelle Figure noue, ò altre noue che parranno al for-  matore, lèruono per tutti numeri occorrenti’, olTeruando  l’infrafcrittc Regole. Primo per fuggirla confu (ione di que-   N a fte  ite Soue co fé, perche potrebbonò eflcr prefe tal uolta per  Imagine; Ciano diftintc ; per elTempio Io Spiedo che fta per  cola fu con carne, quando (là per numero dia con vcello;  il pugnale quando c cola lia nudo, quando numero lia fodra  to; li forbici percola fiano con panno, per numero lènza;  il triangolo per colà lia di legno, per numero lia di ferro ;  cofi il quatrangolo ; il lerpe per numero lia nero, per colà  fia pinto; la chiocciola per colà habbi il capo ritirato, per  numero lo Sporga in fuora;la Squadrali vari jjcon legno e fer  re; la Zucca fi vari; in figura, ^perche non mandano delle  Zucche, e tonde, e larghe da poter feruire per colà;l'A(cia  fi vari} con manico ligneo, e ferreo, e cofi fi friggerà la con-  fusione. Secondo perche li numeri altri (on d’vnità, altri di  decine, altri di ccntenaia, altri di migliaia; l'ifteftè figure icr  uiranno per tutti li numeri, con quell’ordine, che quando  la figura, è nella man finiftra, dice vnità; quando nella Spalla  finiftra, dice decine; quando nella fpalla delira, dice ccnte-  naia; quando nella man delira f dice migliaia- Per elf^mpio  vorrò dire “1345,” “1.345” pongo alla delira mano della pcrlonalo  Spiedo, che infilzi il triangolo che Uà alla Ipalla delira, e paf  Ando per fiotto il mento infilza il quadrato, che Uà alla Ipal  la finiltra, e co la punta trapallà il Serpe che Ila alla man fini-  flra. Terzo quelle figure filano polle con la perlòna, laquale   S uanto più farà posfib ile, habbi e facci qualche attione,còle  ette figure, come ho mollrato có lo Spiedo, triàgolo quadra  to, e lèrpe. Quarto le li numeri limili fi moltiplicano, Ciano  anco moltiplicate le figui e limili, come fie uorrò dire “1551”  porrò due pugnali; uno alla man delira, e l'altro alla. man  finiftra, e due Sèrpi uno alla fpalla delira, e l'altro alla Spalla  finiftra della perlòna, la quale con pugnali impugnati, e co  braccia curue ferole Sèrpi. Bisognando moltiplicar  le migliaia per decine, e centenaia; bisogna per le decine por  le figure alla Centura delira, per li centinaia allo Ginocchio  deliro. Onde udendo dire “182659”, “182.679”: “cento ottanta due mila sei cento cinquanta nove”; porrò nella cintura delira d’un  Eremita la fialchetta, et al Ginocchio un Fanciullino, che  con uq pugnale ò Spiedo, fora la fialca ; e nella man delira  della perfiona un paro di forbici colliquali tronca le corna   alla    alla lumaca, quale ftl alla /paHa delira'; é con l'A/cia dell»  man Anidra percote il Serpe, che ila alla /palla fmiftra . £  Infognando moltiplicar per migliaia, fi ponghino le figu.  te alla piedi; onde «olendo dire,518265 aggiungo fra li  piedi dell’Eremita, che portailfiafco, unferpe,chcuà amor  der’il fanciullo il quale fora con lo Ipiedo il fufco . E bisognando aggiungere altri numeri (i ponghino ordinatamen-  te nel poggio, c fcabello della per/ona del luogo ; ò uero fi  ponghino nel luogo antecedente, nell’altra pcrlòna. Eque  ilo badi quanto ahi Numeri aritmetica!!, che quanto alti numeri grammaticali /ingoiare e plurale^ dira nel capo dell»  Cafi.   J J f * ' d * * • ili | . ‘ r ' - M  Dclli Generi.   ; - - • • * • ! ‘ • » • - • * • J . • • k s poiché li generi fi nominano con li nomi di/esfi, perii  genere ma Tedino farete che la perfòna fia mafchiaje per  il genere feminino fia donna. E per didinguer IL MASCOLINO e feminino dal neutro, quando occorreflc, per quelli generi  MASCOLINO e feminino, Alcuni fanno che le persone habbino fuelati li uafi GENITALI; e perii neutro l'habbino uelatij/c  ben io li didinguerei col variar vela e, dando per l'unoe  l’altro fedo le mutande ò codiali, e perii neutro il velo aggroppato. Delli Tempi, habbiamo da fàpere il modo di collocare  l'Annijli Mefi, liGiorni, rHore, il prelente, spallato, il futuro. Per l’anni si collochi un fcrpente, che fi morda la co  da, al modo che faceano gli Egitti; significando che l'Anno  fi rincuruae ripiega in le defiò, mentre fi congiunge il fine,  al principio. Li Meli fi podono figurare in tre modi . Primo per li fo-  gni ò caratteri delti dodici legni del Zodiaco, ponendole figure idede, un Montone per Marzo, Toro per aprile, gemi  su    tu per Maggio, ò li Caratteri ufati  la man delira il Geniti  no, la fimltra il Dattilo,]! petto l’Acculàtiuo, il piede e gara  ba delira il Vocatiuo,il fimftro l’Ablatiuo.Si che, fc la pa-  rola è in calo nominatiuo, fi ponga in telta; le ablatiuo fi  ponghi al piede fimftro.E per faper anco li numeri s’ofler-  ui,chc la parte nuda rnoftra il numero (ingoiare; la parte  ucllita mollra II numero plurate. Per esempio uorrò di-  re, Ego fum panis. Porrò un cello di pane in capo alla per  fona, e che il capo lìa (nudato ; il capo mi mollra il noinimtiuo, c la nudità mollra il numero (ingoiare. E le l'ima  gineè perlòna,li puòconolcereil cafo,ò per la parte, ò per  il Pegno, per la parte > Te Francclco hauendo tutto il redo  uellito, (blamente mi mollra la manfiniftra nuda, intendo il dativo. per il legno, fètutta la perfona è nuda, che midi  il (ingoiarmi rnoftra la man finiftra ferita, al qual legno  intendo il caso dativo. Conuiene che le parole habbino i Ior PUNTI, per non ap  portar contusone al legente [JOYCE], come li punti finali, pcr  fine del periodo, li mezzi ponti per prender fiato; così conviencchc anco in quella collocatione della scrittura della  Memoria ui fiano le diftanze debite, non (blamente tra leu  tenza e Temenza, n.à anco tra parola c parola: accio le lette-  re duna,non paslìno alla compofitione dell’altra parola  E quello oltra che fila, da una certa diftanzache fi de da  realleimagini, nfulta ancora dalla repetitione del Formatore, il quale collocando prefigge con la mente, douefi co-  mincia, e doue fi fini Ice. E fecondo, quello lì può Tare con  alcuni geftì, per ellempio, nel PUNTO FINALE [il clistico di R. M. Hare – H. P. Grice], fare che la perlo  na ultima del periodo dia di fianco, con la faccia rivolta al rocchio del legente. Enel mezzo punto fare, che feafid  con le spalle al luogo, riuolti fidamente la faccia alla delira,  yerfol’occbio dellegentp. Nella diftintione delle parole fi può fare, che la perlona donde cominciala parola,  facci qualche gcflo, contro la perfona dell’ antecedente parola, e quella perfona fi ririti in un certo modo, dandoli  quella ò con un pugno, ò con vn calcio, ò con altro fecondo  che occorrerà, per l'opportunità dell’magine, e dell’annesti* -!iJ  L’argomenti, che si fanno universalmcnte, si riducono alli sillogismi, e alle consequenze d’entimeme, delli quali  balla qui dire della formatione dell’imagini, e del modo di  collocarli. Quanto alla formatione si tenghi il methodo universale, o formando immagini per li concetti, ò per le parole, e fi sforzi il formatore formar 1 In aginc del mezzo termine. Quanto al modo di collocar l’argomenti, o son syllogismi, o entimeme. Li Sillogismi, che hanno tre propositioni, la maggiore si colloca alta man delira, la minore alla man siniftra, la conclulìone al capo. Se bisogna provar la maggiore, le prove fiano collocate al lato deliro ordinatamele. Seia minore, fiano collocate le prove nel lato fini(lro,e feoc corre fare un prosìllogismo dalla conclufionc, che enei ca-,  pórli tiri la minore nel petto, la conclufione nel ventre. Se  l’argomento ha in confequcza; l’antecedentc llia nella ma de  fera, il cófequcte nella finiftra. E se bisogna provar consequenza, si collochino le prove alla faccia, petto, e ventre. E felatcce  détcs’ ha da ^puare, si collochino le prove al lato suo deliro, e  quelche bilògnafle per ile conseguente, si collochi nel lato fi-  ni(lro, haucndo memoria delti luoghi, ch'io formai ordinatimente nell! lati della pedona fiumana, e quello Modo balla  per fiatelligenti, à quale fofficicnte in tal propofito collocar Immediatamente, mà ehi uoleflfe collocar ogni colà mediatamente per imaginipotrà (cruiriì dclli luoghi {labili  ordinatamente.  Per citationi intendo quel riferire che si fà delli Libri,  delli Numeri de Libri, ò di capitoli, ò di titoli, e di limili. Lequali si uariano, secondo la uarietà delle profeslìoni; onde  il Theologo cota dift. par. ar. memb. Il Filosofo tex. com.  Il Lcgillaìeg. glof. tit. $. confil. Il Canonista quell, can.&c.  c tutte le Cotationi, io le riduco a tre capi, Libro, Nome  di Libro, et Aggiunto, dclli quali dirò didimamente. Della Cotationc di Libri, c Nomi di libri, mi riferifeo à  quel ch'io disfi, nella Lctt. 1 5. della collocatone di Libri;  aggiungendo, che li Nomi di libri, ò titoli di libri, si pollono ideare con l’iflcsfi libri; quali noi vlàmo gornalmcnte,c  di quali damo polfcfibri. Laonde fc uorrò citare Ai ili. nel-  la Metafilica, io pongo nel luogo, in mano d'Arifiotcle il  mio libro della Mctafifica . E le vorrò citare il Macllro delle  fentenze, vi pongo l'iflcflo mio libro delle fentenze del Mae  ftro. E cosi fi può far de gli altri libri, in qual fi voglia prò  fesfionc. E di più, fe li nomi di libri d’vna profesfionc tufi,  {èro pochi, come tre ò quattro, fi potrebbono diftingucre  con li colori, vn nero, vn bianco, vn rollò, vn giallo, &c. co  me San Giouanni che ha fcrittotre libri, Evangelo, Apocalisse, et Epillola, diftinguerò quelli tre libri con tre colori  rofTo,ncro,uerde, per l'Euangelo colloco il libro rollo, in  mano di San Giouanni, per l’ApocalilTe il nero, per FIEpi-  flolu il verde. Con fimil muodo facci il Filosofo, il Legilla, c qual fi uoglia profefiorc. Dclli Aggiunti della Cotationo. S ’Aggiunge al Libro, c Nome del libro, il capitolo, il nu*  meiOjò limili. Quello aggiunto alle volte precede il nome del libro, alle volte fosfieguè ; precede quando l’Autto  rehà comporti molti libri in vn medefimo (oggetto, come  fe diccfte, Agoft. lib. 1 2. de ciuitate Dei, all'Auttore dò il  Libro, fieguc il numero, quale precede il nome dell’opera e  libro. Alle volte lòsliegue,& è di due (òrti, immediato, mediato. L'aggiunto immediato c la particolar cotatione di ca  pitoli, di dift. di terti,e limili, come s’io dicelle, Aug. de Ciuitate Dei quella parola cap. è aggiunto im  mediato, fi come il numero 4. c l’aggiunto mediato. Eque  rto aggiunto mediato, alle uolte fi fa per numero; come nel  J'addutto elfempio . Alle uolte fi fà per parola, come vfa il  Legifta,c Canonifta, che adduce la prima parola della legge,  Pan. in c.tua nos. e con l'ifteftb progrefi'o, ò di numeri, ò di  parole, fi fanno molce Cotationi mediate, fecondo ladiuer  fità delle profesfioni . Per le cotationi di numeri s’auer a,  primo, difarle ordinate, il numero del libro fi ponga alia  parte del libro, et il numero del capitolo ail’altra parte ; ac-  cio il formatore non fi confonda, per elfempio dicendo Au- { ;uft. Iibr.a.de Ciuitate Dei cap.7. nella man delira li dò il  ibro, e con fiftelTamano li fò moftrare due dita fpiegate,  che mi moftrano li due, e nell’altra mano li dò lo sguadro »  colquale tocca U capo; e coli hò dal capo il capitolo, e dallo sguadro il 7. Si noti fecondo, che quelli numeri fi poP  fono formare, con l’irtelfe dita della perlina ; e quando  il numero trapalfa il cinque, fi pongano l’imagini di nume  ri alle parti del corpo della pcrlona, conforme alle Regoli  date di numeri. La Cotatione della parola, del capitolo, del titolo,  ò della legge, tkc. fi formi con le Regole deljlmagini delle  parole figurate, ò non figurate. Laonde per la parola de vfu  ns, quel formatore poneua vn Hebreovfuraro. De gli aggiunti di capitoli,.di tedi, com. gioii leg. $. e  limili, fi pollino formare in tre modi; primo, per Imagini, conforme al Methodo allignato della formatione  dell’Imagini. Secondo, dipingendo, ò (colpendo nel li-  bro, in lettere maiufcole quelle Cotationi; o ponendoli  caratteri del quarto Alfabeto nella perlina . Terzo, per via  Notariaca dal nome, che principia con la prima lettera della della Cotationè, fcruendol! ùell’irteffa perfoha j Laonde! >er cap. coiti, can. conf. tocchi il cappello, o’I capo, o’I col  o, ol cigl o ; per tit. tex. tocchi la tempia j Per dirti Dub,  tocchi li denti; per legg. Iett. tocchi la lingua, ò le labbia ;  per Glof. la guancia; per num. tocchi il nafo. In fimil mo-  do fi formino laltre, con li nomi ò volgari, ò Latini della  perfona humana . Mi lì guardi ilfoamatore di non feruir-  li d’vn’iftelfa parte humana, per due Cotationi, quando  nell'ufo l’occorra l’una, c l'altra Cotatione;perche l’apportarebbe confu (ione, fe pure non la dirtingueilecon qual-  che legno, come fe il labbro corallino dica Legge, il lmi-  do c nero dica Lettione ; il capo biondo dica cap. il nero  com. il bianco confi e coli de gli altri.  Delle Dittature.   Per dittature intendo lo rtupcndo dittare d'alcuni profeffori di queft’Arte, hquali in vn medefìmo tempo han  dittato à cinque, ò dieci e più acrittori, con dire dieci parole di dieci (oggetti ordinatamente, e poi fèguitare le tralafciate di mano in mano, fenza errar un iota dal propofito foggetto di ciafcuno. Il far quello perdono sopra naturale (GRICE: NATURA) c sopra nostro humano, non cade sotto le regole dell'arte (GRICE: ARTE). Mà il farlo per arte, in quanto poslìamo noia-  feendere, mi pare (i facci in qucfto modo cioè . Che il dittatore formati h (oggetti diuerfi, ò di Lettioni,òdi Predi-  che, ò di lettere milione, ò di qual (ì voglia altro (oggetto, e difpofte le parole in tanti fogli, quanti fon li soggetti ; prenda ordinatamente le parole alternatiuamcnte da  ciafcun fogl o, He le alberghi nelli Luoghi. Per cflempio, la prima parola del primo loglio nel primo Luogo, la prima del secondo foglio nel fecondo luogo, la prima del terzo foglio nel terzo luogo, e coli di mano in mano finche  faran collocate tutte le prime parole delli dieci fogli. Poi  fi ricominci, c la feconda parola del primo foglio, (ìa collo-  cata nel vndecimo luogo, la feconda del fecondo foglio nel duodecimo luogo, e eoli feqnendo. E finite le feconde, fia^  no con l'illcffo ordine collocate le terze, poi le quarte, poi  le quinte, finche fitran finite tutte le parole. E udendo dit  tare facci diftributione delli soggetti alli Scrittori, fecondo  l’ordine delli fogli fcritti, già collocati . E facendo fcriuere  vna parcla per vno ordinatamente, alla fine ciafcuno Scrit-  tore ritroueràil fuo (oggetto compito . E quell’ordine che  fi tiene delle parole, fi può tare ancora delli concetti, òdcl  le fentenze ; fc bene il primo delle parole pare più stupendo. E chi voleflc dittare per ogni uerfo, primo dal primo  all’vltimo, poi dairvlcimo al principio, potrà con fimil mo-  do collocar le parole, che giungendo all vltimo non fi rico-  minci dal primo, ma dall’vItimo.E chi di quello mo-  do fi feru i (le per raggionare, farebbe un mo-  do di raggionare allo fpropofito ; fe  ben’ordinate poi le parole,cia-  fcuna al fuo (oggetto, ri u-  feirebbono al propo  fito li raggionamenti,  come .j   appare in quello effempio diquattro  dittata- E-tv, Per quello uerfo fi Collocano, e dittano. 3 Ci   i-i   i Aue 2   Benedid* Ti   Nunc 4 Magnificat 'o   pp   0  o '  9 Gratia   IO Deus   I 1 Scruum I 2  Mea   c 3 0   rp   "-i   1 3  Piena 4   Ifrael s   Tuum   I 6 DominCi u>  n   ciT c • o  •no   17 Dominus  i 8 Quia 9 Donnine  20 Et £0 •*t 0 o 2 I Tecum   22   Vifitauit 3 Secudum 14 Exultauit 1,   Li Numeri moftrano li luoghi  iuccesfìui. •V*'.  i  . Quello (la detto del dittare 1 molti per Arte ; lafctamfo  di qqcl che fi polla per felicità d ingegno, come credo facef  fc Giulio Cefare, Uguale dittaua à quat o, et egli per qutn .  to fcriuea altro figge to, come credo, anco lacelle Origene  Adamantio ( non però lenza fuperior dpno)il quale di continouo dittaua à lètte Icrittori ; per lo che non e incredibi Icych'cgli componefle fei milia uolumi, qluli tellifica hauct  Midi San Geronimo. Della Libraria della Memoria. E Tanta la forza di quello ricco tcfbro della Memoria,  chcdiuenca anco Biblioteca ò Libraria, e con maggior  felicità e facilità delle librarie, nelle quali fi gloriano communemente gli huornini (ludi oli. Non attendendo che 1 ha  ucr libraria, non c perfettioneperleità; ma imperfetta, che  (opplilce all’in perfetto de gli huornini. A Ili quali mancan  do la memoria fecónda piena et adorna, con la tenacità e  e permaoentia perpetua dell' fimoIacri,(bn conllretti tener  copia dij'bri, dalli quali. posfmo riccucr li primi concetti  delle colè, e nuocar li dimenticati . Per lo che Iddio ch’c  'perfettiifimo, non ha quella che da noi è chiamata pcrlet-  tiotiejpoichc neH’illeira effenza lua, come in terlislimo fpcc  chio uede e contempla ogni cola. Gli Angeli ancora, non  han bilògno di libraria ; poiché per la cognitione uefpcr-  tina, cheè delle creature nelli lor propri! generi, hanno la  memòria perfetta, fin da la lorcreatione, quadofu 'or data  ogni pienezza di fimolacri, così tenacemente impresfi, che  tempo non può Scancellarli . Simile dono lù fatto a primi  noftri primi Progenitori; la onde non hauerebbono hauuto bisigno di libraria, poiché nella lor memoria per dono  gratuito albergano tutti li limolacri. E perche il peccato,  quali ladro ei lpoghò, e tra gli altri beni ci lolle ancora què  Ho dono, et introdulTc per peggio noltro l’ignoranza. erim   hebecillita; per l’Ignoranza ciascuno nafce con la memoria no .  da, come ingelfata parete; e per la imbecillità alle fatiche'  dell’acquillati fimolacri bene fpeito foccede obliuione. In- 1  di per fouenir’ He all’ignoranza, et all’obliuione; l’Arte hi.  introdotto l’aiuto dclli libri. Li quali ancora lopplifcono. à due imperfettioni, dillanza, e morte; perche non elfendo  prefente la uocc dell’Auttorc ò maftro, fopplifcela fcrittu  ra del fuo libro ; et eflendo egli morto, uiue nella fcrittura  del libro, per lo che li Rudenti mentre ftudiano (come fi di  ce per prouerbio)parlano con li morti.Se bene dunqueli li  bri (ono utili,cneceirarii al noftro (iato imperfetto; non  dimeno (ludiati che fi fono una uolta, meglio è hauer la Me  moria per Libraria, che 14 Libraria di carte e (critture; poi  che la Libraria cfatta,per fopplimento della Memoria. C  fe così è, meglio è hauer la memoria, che c il principale)  chela Libraria che è il fopplimento; fi come meglio è hauer la gamba e piede di carne e d’ossa, che di legno. In oh  ire quella Libraria apporta fatica, fpcfa, pcfo, travaglio; que  (fa non è d'altra fatica, che di ufiria. Di più la Libraria è  in uno ò alcuni luoghi 1, non in tutti feuza grandisfima in-  corri modi ci; quella l’haucte doue ui trouate, e lènza pagar  altro nolo che della uoltra perfona la portate vofeo doue uo  lete. Quella conuiene (blamente à ricchi, et à chi abbonda  in denari; quella c commune anco à poueri. £ fe quella ui  fa Huomini, quella ui fa fimili all’Angeli, et à Dio, li quali  ogni feientia hanno fempre feco. Echi non sà che le cofe  quanto piùs’auuicinano al perpetuo e necelfario, tanto più  fon perfette ? l'uniuerfile,come cheaftrahe da tempo e luo  go c più a(lratto,c confequentemente più perfetto del (in-  goiare, il quale c immerfo nel tempo e luogho; la memoria  ha ptùdcll’adratto che la libraria ; poiché li libri con l’ufo  e tempo s’inuecchiano e confumano, la memoria con l’ulb  e tempo fi perpetua; quelli perifcono, quella fempre refla;  nè (ì puole commodamcnte hauer per ogni luogo quella Si  blioteca come quella, che uiue e dimora lèmpre col forma-  tore. L’Oracoli parlano à voce prefentialmente, e Oracoli fono (limati quei làpienti, li quali all'improuifo, senza girar l’occhio alh libri, rilpondono elquiiitamente ad ogni proposto della lor profesfionc; Come fifa quello Te noti  con l’aiuto della libraria della memoria, la quale toglie quel  rinconuemente, chc dille una uolta UN FILOSOFO di quel Me  dico equiuoco,ilquale refpexit librum,& mortuuscft aigro  tus.E fé ben’io ammiro l’induftrta di Gordiano Jmperadore, il quale lìimaua camole lettere eie fcienze,che più atte  (èall’acquillo di Libri, che al teforo d’argenti, d’ori, e di  gemme. La onde li legge, che raccolte nella Tua Libraria tef  tenta due india uolumi. Lodo la diligenza di 1 irannione  Grammatico, (che uilTeà tempi di Pompeo magno) ilquale  liebbe in fuo polle fio tre milia libri. Stupifco delle Pergamene Librarie, le quali, come riferifee Plutarco, haucano  ducento milia volumi. Ofieruo grandemente Tolomeo Filadelfo, il quale per compir la Tua Libraria, quale ordinaua  in Alelfandria, ottenne dalli Gerofolimitam tettanta dclli  più teuii et clpcrti nelle l'acre lettere, c pr «felibri dcllVn’e  l’altro Idoma, acciò li traducelfero la Bibia (aera da hebreo in greco. Mi più ammiro, lodo, celebro, et ofleruo la  Libraria della Memoria, che hvbbe Lsdra, ilquale come ri-  feritee Eulèbio,hauendo li Reggi Caldei prelì li libri tecri  di Mofe, egli tutti ad Verbum h recitò, e dal fuo recitare  furnodittati in quella maniera, che poi la Sinagoga 1 ado-  praua. E perche non me chia&o, fc quella Libraria di Ete  dra, folte artificiale, mi balìa auteporui I’cltempio del Ra-  uenna, ilquale tanto fi gloria di quella Libraria delia Memoria che dice, Cum patriam relinquo, ut peregrinus urbes Italia? uideam,dicerc polTum, Omnia mea mecum porto. E  perche non mancheranno di quell’che uoranno formarli  quella perfetta Libraria; pcrò allignerò alcuni Capi, dalli  quali potrete raccogliere il modo. È di neccsfità  haucr m’gliarac migliara di Luoghi, quali fi potranno formare alla giornata, fecondo che con 1’occasione dello (India.  re, creile il bisogno del formatore. Quel tanto ch’il formatore alla giornata ordinatamente, fecondo l’ordine  della Scicntiaò Artc,(ludia della fua profesfione ; gtornalmente collochi il tutto nell 1 formati Luoghi, non tralafcian  do colà che Ila necelfaria Terzo, Quelli Luoghi pieni firn  pre rellano piente per hauer la fermezza c tenacità della Memo- M€nàona, cbe 6 dcfidcra eotitrtl’óbliul olle > tH« e il Urlo e.  la poluè,che rode e dftirugge quella Libraria; bi fogna rivederla con l’vfo della ripetitione. E quello fi può fare con pi  gliar vn giorno di vacanza della fertimana, c ripetere quel  che nouamente fi è collocato in quella lèttimana, 3c in un'al  trhora ripetere vna parte cominciando dal principio, s forzandoti che fia tal notate compartita la ripetitiope, che per  ciafeun Mefc fia npetita e rcuifta tutta la Libraria. Per la  qual ripetitione ancora fi potrà dare quell hora, eh il forma  torc fi troua difbccupato dall’efiercitij diurni, ne i giorni fc  ftiui. Sicomc nelle Librarie fogliono alcuni tener Qija  dri dipinti, con ritratti d’Auttori, di Sapienti, o potenti, di  fe mcdefimi,ò d’alcun'altre pitture bene fpeflo vane, e lafci  ue; il formatore di quella Libraria vi ponga Quadri di San»  tif eleggendoti vn certo numero di Prencipi del Paradilb,  Angeli, et Huomini, c quelli fi conftituifca per Protettori di  quella bella imprela, raccomandando à cialcuno di loro vn  libro, ò vna fetenza, ò vna materia, fecondo che meglio pare al divoto formatore, et à quei Santi il formatore oiicri  Ica, voti, digiuni, oratio.ni, fecondo la (uà diuotione,5cc.   Quinto la Libraria come scrive VITRUVIO (si veda) debbe cfler fat  ta dirimpetto all’Oriente, poiché l'vlo di libri ricerca il lume mannaie; c perche la Libraria della Memoria adopra lume interno, però io aucrtilco il formatore, che li sforzi d ha  ucr r.Oricnte Spirituale che c Chrillo, chiamato oriente da  vn Profeta, Ecce vir Oricns nomcn eius. Anzi Chrillo c il  Sole, come di ife vn’altro Profeta, Orieturvobis timcntibus.  nomen meum Sol iuftitiat. E1 Oriente diquello Sole,quan  to alla deità è il Padre eterno, e l’Oriente quanto alla temporale huinanità è Maria Vergine. Dirimpetto à quelli oric  ti c lumi debbe il formatore drizzai lafua Libraria; sforzan  doli di fuggirli peccati, e conferuarfi nella gratia di Dio, poi  che, Imtium Sapientia: eli timor Domini. Sello, ficome nelle Librarie li libri (on polli con ordine,  fiche in vna parte fon ripolli quelli della logica, in vn’al-  tra quelli della Eliofoba, in queiraltro canto quelli della Geo  mctna, &c. coti bifegna ordinarli luoghi communi, che trà   P loro  i  toro fiano di'ftintì . Per esemplo, neHI luoghi tTvft* Ciftà  -cojloco là Logica, et in quelli d’vo’aitraJi FilofoAa, in quelli della terza la Theologia, et in un luogo comniune della  feconda Città ei colloco il primo della Fisica, nel secondo il  secondo, e co fi procedendo nell» fequenti libri della FILOSOFIA. Equeft’ordine èneceflfarioj, per poter fubito ri tcoaara  li libri, eli (oggetti, che A defidcrano . E fc mi dirai, che  quella Biblioteca hà del fa ti còlo affai . Secondo, pare che la  Memoria, nó porta (offrire tanto pefo.Terzo,parc vn Chaos  di confttAonfc» Ache l’Huomo non puole à Aia voglia ritrouare le materie c (oggetti. Quarto, come A farà, in voler for  mare vn raggionamento da quefta Libraria . Quinto, fe oc-  correre all» giornata aggiungere alli foggetri albergatrnuo"  ui concetti j' non A potrà far quello lènza confusone dello  prime imagini. Sedo, come A potrà contemplare in quefta  Libraria. Come porrà il formatore feruirft di Iuq»  ghi va coi. Ottano, fe conuienc à Padri di famiglia £ar che, IL  Figli ftudiofi Aano arricchiti di quefta Libraria. Rispondo  didimamente à quefti otto Capi, per compimento di quefta Libreria   Al primo, dico che A come il pefeatore non pup hauen  pefei lenza bagnarA, nè l'auido trouar The Airi senza romper Terra e làsli; coli non può l’huomo far’acquiftodiquc-t  ft'inclphcabile vtdità, fenza gran fatica. Laquale pare gran-  de, perch’è infolita e non polla in vfo;ma cominci il forma  torèconle dueguide, diligenza, e patienza,à farne dpcrien  2 a,e conofeeri che, mi dithcile volenti . Fingono li Poeti,  che Giafone con fatato di Medea acquifta il vello d’oro ;  mi non però fenza vincer e domar Tori, arar terra, feminar denti, armarfe contrafchierearmate, fupcrar Draghi «  Medea c 1 Arte della Memoria, Giafone il formatore, Tori  Draghi, dicroti fon le fatiche, li pudori, le vigilie, f impcdimenti, li patimenti, che s’offerifeono alle frontiere di que_  fta imprefa, quali peròdcuono efter foffriti, e vinti da colui,  che alpira alia palina c corona d’vna tanta felicità.   Al fecondo, dico che la memoria, quando con bel’agio,  et à poco à poco uien' alla giornata ripiena, non fentepelb  edifturbo, anzi diletto e follcuamento; poiché col riccuer   nuoui    nàoui tìmolacrl.  Jr,che con lelperienzartegionano-dr quella utilisfima e ne  diària ptofesilonc.Nc chiami inutile ingombro, e fatico»  fo impacciò, il teloro utilisfimo,elucidisiimo di fimolacrt.   Poiché li Luoghi et Iinagini,fono come penne ciuanni, che  aggiungendo pelo all’ Vccllo, rapportano facilità et agilità,  inerauigliola al aolojcosi mentre s'accolla la Memoria Luo  ghi,8t imaginiycon qacfti come con due ali uola con facili-  tà itupenda^pcr l’altezza della contemplatione,& attione in  terpetratiua JE J fe quelli mezzi fon difficili; fegoo à che il fi N ie è di gran preggio-E chi mira l’afprezza del mezzo follmente^ non l’agcuola con la dolcezza del fine,c incauto et  impcudenccvpoichcfauio,c prudente è colui, che contrape’  findoiljialore&: il preggio del ficee dcll’acquifto, difpo-  necon prudenza, intende con fapicnzajabbraccia'cori' rorezza, lìegue con patienzali debiti mezzi. E non peflo fi 1  non marauigliarmi d’Ippoino, il quale biafima l’Arte della Memoria, e pur fenc fcrue ; perche fi non è eie--  co, quand’egli collocai un’gratnone à Memoria, non fa egli- Memoria IocaIc,nelli fogli delfi carta feri nailon de prende*  le parole ò concetti, elicgli colloca?e fibenequcflameriio  ria locale, non cl’ Arte fpicgata,è nondimeno Arte confa* magini, dclle tpia  li diccsfm.o; ìSc ii> parte hauerli pofiono, da quel che fìegue.  Priipo, per utilisfimo documento, hab >i il formatore qual-  cheparticoiar diuotionc, per li luoghi, per la collocatione-  deHimagini,c per il recitare. Per li Luoghi formandoli habi  bia l’occhio fé ui troua figure di Santi, Altari, Ctocififiò  Jmagine di Maria Vergine, e per ogni luogo commufcc fi a-,  legga tre, quattro, ò cinque, più ò meno ( fecondo la copia  di luoghi, e fecondo la diuotionc del formatore ) di quelle  finte Figure, et alli lor figurati, con effetto pio raccoman- x  di la tutela della Memoria, sforzandoli che il primo»& ul->  timo luogo fiano figurati . E quando ripetendo i lunghi ui-  palla Culi la mente, "li facci il formatore riuerenza,con qual  chfcdiuota Oratione. Il limile facci prima cbenelli Luoghi;  collochi l’ImaginijC prima che recitile collocate; diodo un  S,ro   6i  giro con ti mente, per quelle defignate figure Sante, è eia-'  leuna offerendo calda oratione,c mentale, e uocàlc.   Secondo, auerca il formatore di non effer fcru polo fo intorno al veder lume prima chcegli uadi à recitare ; perche  quantunq; fia ben fatto dimorar in tenebre, et in luogo ri*c  tirato, e (olitario,e lontano da ogni ftrepito, mentre ripone  le Imagini à memoria, e coli in quel tempo che è immediato il recitare: Non dimeno ftar tempre cofi, e non ueder  mai lume, fenò quello ch'egli uede quando recita, è colà  perighofà; perche i’infolito apporta dirturbo e confusone.  Però (limo ch'il f amatore debba una uolta à luce aperta^  ripeter le Tue cote. Terzo, ripeter fra ftrepiti e fragori gioua: perche asficu-  ra la Memoria intanto, che per qual fi “voglia ftrepito ò ca  fo che auenghi poi fra’l recitare, non fi (marritee il dicitore. Indi è da effer notato, et imitato l'effcrcitio di Demoftinc, ilquale per telleuarfi d’alcuni difetti di natura, come r.fe  ri tee VALERIO MASSIMO (si veda), combattendo con la natura, la uinfe con i'artificial effercitio. Imperochc effondo egli Bacco di  fianchi, e debole di lcna,& perciò impotente al dire, s’ingagltardì con la fuica, et effercitio; auczzandofi à recitar mol  ti ucrii ad un (iato, e pronunciando mentre con ncloci paf  fi (àliua per uiefaticolc, et erte. Oraua dirimpetto alli fra*  gori marini che pcrcoteuano li (coglie li lidi; si per fortificar la lena, come anco, acciò afluefatte l’orccchie à quel  rumore e ftrepito del ripercotimento del mare, potettero  patientemente al rumore della ragunata moltitudine perfe-  ucrarc, non sgomentandoli nel (ènte, nè uacillando con la  Memoria. E per hauer la lingua piu fpedita e fciolta alla lo-  quela, ulàua pariarea lungo, con te pictruzze in bocca; accio uacoa folte poi più pronta, et efpedita.Et hauendo la uo  ce tettile e molto a fpra, e noiofa aU’audienti; col continuo ef  fermio, c grande induftria, la ridufse al maturo, graue, egra  to fuono. E perche nel principio della fua giouentù, quali  fulinguato,non poteua bcn'cfprimere la lettera che noi chia  marno R. laqualo principia il nomò dell' arte Retto ri ca,  che egli imparbua ; usò tanta diligenza che muno dipoi la  proferiua meglio di lui. Quarto, bifogqa rifuegliar le tepitc, e Ranche forze del-  i i> Q^. te  I le potenze, quando fi ua 1 recitare, con raiutl /pirituali, e  corporali; li primi di orationi à Dio, et à Santi, li fecondi  •con alcuni riftoratiui, come nell’Estate rifrelcarfi il uolto,e  mani, neirinuerno prender un’alito di fuoco, odorar cole  grate, purché non fiano dieccesfiua qualità; toccarfi le narici e polli, con odorifero uino,e limili, fecondo il coniglio  del perito Medico. Quinto, habbi l’occhio il formatore di lenirli della Me  mona, non come fine ultimato ;-mà come fine ordinato ad  altro fine, cioè feruirfi di quella all’ultimo fine dell’orare,  eh e il perfuadere,e ricordili che non li troua la maggior per  ucrfità, che peruertir l’ordine, e lèruirfi del mezzo per fine;  Ilche accenna Agostino in quel detto, Summa pcruerfitas  cft frui utendis. Le parti oratorie fon fini, mà però ordina  tiall’ultimo fine del persuaderc; però non conuiene affettar  tanto quelle parti, che all'ultimo l’audiente lòdi quella ò qwe  fi altra parte, fenza che relli uinto, prcfo,emoflo dalla per  fualionc intenta. Dedalo uola per mezzo,’ nè col gelo baffo  soggiaccia, nè colcalor loprano fi liqueface; mà Icaro incau  to, ilquale inuaghito delle nuoue, et inlohte penne, affetta  con troppo alto eccelfo il uolo; fapete che ruinofo cade nel  1 \ l’onde falle. Coli quelli che allontanandoli dalla prudente  mediocrità, pongono tutta la lor mira nell’cccelfo di Memo  ria; cadono per l'imprudenza, perche non mirano il fine ^  che deu’elfer fine ultimato;e perche mirano il proprio hono  re,& una uana pompa, non l'honor e gloria di Dio, di qua  li può ben dire il falmeggiante Dauid. In fecuri,& Afciade  iecerunt eam. Parla il Profeta di quelli, che dislì pano la Chic  fa, con ilparolarc,e memorare, che fon parti di chiraggio-  m - na. La fecure c la lingua ò parola, per loche Dimolline fi>  lea dire, che il fuo auer fario oratore Fedone era vna fecur  re; perche con breue, mà acuta oratione molto li refifieua,  e contradiceua. L’Afcia come fi dilfe mollra la memoria, per  lochenci Sepolcri gli antichi fcriueuano quell’Elogio.Sub  JVfciam dedi vetuit . Con quelle armi ;gli Eretici cercano  disfipar la Chiefa, c li vani Oratori poco frutto l'apporta-  no, mentre s’aggregano al numero di quei Maellri; di quali predille S. Paolo. Ad fua defideria coaceruabunt magillros  prurientcs auribus. Dilettano l’orecchio, con puoco frutto   J del 6 %   détto rptrito: vogliono parer ftupendi, còito felicità di Memoria,6t afFettatione di parole, nè curano d’efFer fruttuosi à convertir gl’animi à Dio. Dunque conftituifcafi l’oratore per  fine quel che deeefler fine cioè, l’acquifto dell’audienté S ual’è feopo, per cui è ordinato il Tuo officio; c per quello  ne poi; fenza affetiatione, farà lecito adopr.tr come mezzi  le nobilislime parti della Memoria. Serto, verte in dubbio tra gli formatori, (è è meglio ripor  à memoria le parole, ò li concetti nell’vfo dell orare, predi  care, craggionarc, in diverse profesfioni.Collocar parole c  quando li fcriuono cento ò ducento parole in vn loglio,e  coli fcritte fi ripóngono in memoria, c le iflefFe collocate c  scrittc poi si recitano . Collocar concetti è quando il forma  tore fi forma il concetto, et cfphcandolo poi con la lingua  non s’obliga à premeditate parole ; m^ lo fpiega con quella  fauella, che all’irpprouifo la maftra natura gli fomminirtra. Chi ha tempo da farlo, c fenza dubbio meglio ripor le parole: perche l’Oratore humano ò Ecclefiaftico,non direbbe  cofa e parola, (è non premeditata, fecondo il detto dì Dauid, che dcfcritle le parole del Signore eflèr premeditate cfà  minate, et raffinate sette volte. Eloquia domini, eloquia carta, argentum igneexaminatum, probatum terrac, purgati  septuplum. E come premeditate farebbero proprie, fcclte, ornate d’eloquenza, abbellite di colori rcttorici ; non  uaneggurebbe il ^dicitore fuor di termini defignati, non  difcorrcrebbe con digreslìoni lunghe, e noiofc, ollcruarebbc l’amata breuità, aggiungerebbe di parte in parte al dire  futili gerti del corpo, e tuoni della ucce, che richiede un'cfquilita pronuntia.Mà perche non tutti li foggetti ricerca-  no quert’obligo parolato; nè tempre à ciò fare il tempo è  commodo c (officiente ;t brache in alcune occafioni, fom- Kninirtrando lo fpirito celerte nuoui penfieri e nuovi colori in premeditati, non deue il dicitore farli reftrtenza, òporfi impedimento: però il collocar concetti ancora non è, da  eflcr biafmato. Nel collocare e prccifàmente i concetti, per facilitar la memòria all’ufo del parlare,!! sforzi il dicitore d’m  ftttitfef efquifuamenre il concetto, e diffonderlo anco in car  ta; c prima cheto fpieghi in publico x 1 efplichi da fe folo, ì  z uocc noce quanto più li pud intelligibile: perche pofledendo be  ne il fatto, con facilità e habile à narrarlo. E fcriuendo, e re  citando uien‘ada(Tuefarf), et habilitarfi maggiormente; e  affuefaccndofi, s’apre la firada alla chiarezza maggiore del  (oggetto, alla qual chiarezza fìegue poi prontezza c, uiuaci  tà maggiore neidire. Larto di fcordarfc/. \rA i‘  ;i:> .) i il ii. t atti _>t   SE bene, oppofitorum eadem difciplina, ir. tanto che ha  uendo noi detto a badanza della memoria, potrebbe eia  feuno da fé (ledo intender che cosa lia il suo opposto eh’ è l’obliuione; non dimeno perche daU’obliuione lì prendono  alcune utilità in qued’Àrte, è bene à trattarne, non inquan  to e didruttiua, mà in quanto per certa consequenza accU  dentale è perfettiua della rimembranza . Perche hauendo  fcoggi recitata un’oratione, e udendo din ani fcruirmi del  rdleslì luoghi, trouandoli in gorobrati dalle precedenti ima  ginij come me ne potrò io feruire, tènza grandiffima difficoltà e confufione ? Dirò tre cofe, primo a che cofa ferue  qued’obliuionc, fecondo a chi è facile per natura, terzo fé  per Arte si può far dimenticanza. Qiiant’al primo dico, che  noi collocamo Della memoria tre sorti di cose, le prime del  le quali uogliamo fempre ricordarci. Le feconde delle quali  uorresfimo,fe poteslìmo fempre ricordarci. Le terze delle  quali uorre>fimo fubito fcordarccne. Le prime sono i luoghi dabili, e quelle imagini di dottrina, quali noi collocamo, acciò tèmpre diano uiue nella memoria, per la felicità  •del fapere, come fece il Raucnna che tutto quello che hauea dudiato, lo colloca nelli luoghi intanto, che non har  uea bifogno d’adoprar libri, e per chiarezza di ciò, noi hab  daino dato il modo di far la Libraria della Memoria. E  rifpctto a queda memorià, noi non uogliamo obhuionfc 9  dimenticanza ; e fe pur fe ne tratta, l’intento è di trattarne come fàil medico de gli Vcneni, il Grammatico deH’inco»   gtuo  o, il Logico del fallo, per fuggirli, non per feqnirli. Le  ècondc colè fon quelle, delle quali fe fu lfe posfibilc uorref  fimo lempre ricordarci, come fono le prediche ò le partì  principali di quelle, le quali haueresfimo molto caro che ci  feftafleno Tempre nella memoria, mentre dura l elfercitio  del predicare; accio douendo farle, c recitarle altre uolte,  lènza ugual noua fatica di collocarle, ci reftalfero tenaci, e  urne nella memoria. Mi perche quello è difficile, però fat  te e recitate una uolta,non curandoci che fian fepolte nell’obliuione, defiderando li luoghi uacoi, defidcramo Meto-  do da poterci dimenticare di quelle, e a quello fcruel’Arte dell’oblivione. Le terze cofe fon quelle, che le colloca-  mo alla memoria per fcruircenc una uolta fola, e poi dclide  raresfimo chcfubitoct ufciflcro di mente; come fono le  Comedie, et altre cofe fimili collocate da recitatori. A que  (lo anco ferue l’Arte de l’obliuione ; fi che non e inutile il  trattarne, accio non habbiate a lamentarui, come faceaTe-  miftoclecon Simonide, che più torto dcfidcraua l’Arte di  dimenticarli, che del ricordarli. E lìa sempre lodato GIULIO (si veda) Cesare, che così facilmente fifeorda dclfingiurie riceuute; oue nel reftantchauea felieisfima memoria, la qual Arte è più torto christiana, che pagana; per lo chedicca. Nulla Laudabile Obliuio, nisi Iniuriarum. Quanto al secondo, dalle cose dette nelle prime lcttoni della memoria naturale, in qual temperamento e qualità c fondata, lì trahe pep  consequenza, che quelli liquali fon felici nell’apprenfiua  per l’humido, facilmente all’equifcono l’effetto di queft’ Arte; ma con molta difficoltà quelli, che fono per la complefr  fione fccca tenaci et aridi. Quanto al Terzo dico, che l’Arte gioua aliai, per farci feordare; fe bene nefee più difficile  che il ricordarci, e quello per mancamento del tempo, il  quale e padre dell’oblivione. La doue uòlendo noi in un  fubito,e fenza lunghezza di tempo dimenticarci, si tratta via  estraordinaria, c potenza maggiore si ricerca, per ottener l’intento. Oltra che effondo la memoria perfezione dcllana tura, lobliuione imperfettionc; più inten fan ente è quelli  riccuuta,c più caraméte ritenuta. Ma quale lìa quello muo  do di far lobliuione, non e facile dimortrare. Li Poeti ci  mandarebbero à ber l’acqua di Lethe fiume dcU’Abifio, del  s cui cui fiumare gufando fS dimenticare tutte le colè paflàtcj  onde e detto Lethe da lithis,che uuol dire obliuìonc. LiCof  mografi ci manderebbono ò nell’ilbla di Zca,oapprelTo Cli 1  tone Città d’Arcadia,douc fon’acque delle quali chiane bc- ucdiuenta (memorato; ò pure ui condurrebono inBoetia,  ouc fon due Fonti, l’un de quali fà buona memoria) e Tal  tra fà fcordare ogni colà. Il Rombercli dice, il profelforc di queft’Arte habbi molti luoghi : accio polla uanargior-, nalmente,fi.che palTa col tempo la memoria dellimagmi Mà quello fcordare,non c per Arte,elTendo per uia del tempo, il quale per il corlo naturale apporta obliuione. Il Mó lco rifiutando molti mod'jftimache balli il tralalciar il pea  fiero delle imagini; perche così vanno in oblivione. Mi, chi  non s'accorge che quello eaiuto piu tolto di natura, per via del tempo; che regola d'arte PIo tralafciando quelli aiuti  nali,che fono manifelli:farò raccolta d’alcuni aiuti artificiali, li quali congiunti insieme, porgeràno facilità all’oblivione. Li  quali aiuti e modi, lon nftretti ncll ifralcritti Capiò Regole, Primo, avendo recitate, e udendo mandar in oblivione  le imagini; òdi giorno con gli occhi chiufi, ò di notte fra le tenebre, lì uadicon la mente girando per tutti li luoghi ideati con invaginarci vn’olcurisfuna tenebra notturna,chccuopra  tutti h luoghi, e cofi procedendo, e retrocedendo piu uolte con la mente, e non vedendoci imagini facilmente fuamfee ogni figura. Secondo, si vadi correndo per tutti li luoghi co la méte,  dritto, à roverso, c si contemplino uacoi e nudi, tali quali la prima uolta senza alcuna imagine turno formati, c quello di?  Icorlò fi facci più volte. Terzo, se le peritine tacili luoghi sono llabili, si riucggtó  no con la mente per ogni verlò più volte, e si contemplino  nel modo come prima ui furo llabiIite, col capochino, con  le braccia pendenti, e senza imagini aggiunte. Quarto, si come il pittore ingclfa e di di bianco alle pitture, per cancellarle; così noi con colori polli sopra le imigini possiamo cancellarle. E quelli colori, o sia il bianco  o’I ucrde, o’l nero; imaginando sopra li luoghi, tende biantche, o lenzuoli verdi, o panni neri, condiscorrer più uolc«, per li luoghi, con tal velo di colori. E lì poflono ancora imaginare gtnare li fuòchi, pieni, che virtute u po  fu e re Dii fudore parandam. Alla qual arte le voi con patienza uigilia e timor di Dio atttenderete; avendo per Metodo quello mio trattato, mi rendo certo, che uoi nufciretc pierauigliofi nell’uso StclTercirto della memoria, col favor  del divino nostro signore, alli cui piedi, e della sua Clvefi santa catholica e apostolica romana gitto me'ltellb, e lòttopongo ogni mio detco e scritto, ora e sempre. Filippo Gesualdo di Lia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lia.” Lia.

 

Grice e Libanio: la ragione conversazionale e la setta di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Supports Giuliano in his attempt to revive paganism (a charming letter survives) – “but he is also a friend and teacher of many Christians, can you believe it?” – Loeb.

 

Grice e Liberale: la ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Not to be confused with Liberace, he is staying at Lyons (Lugdunum) at the time it was destroyed by fire. A dear friend of Seneca. He follows the Porch. In his eulogy, Seneca declaims: “While he is accustomed to dealing with everyday difficulties, a catastrophe, unexpected, and of such magnitude,  is more than he could handle.” Ebuzio Liberale.

 

 

Grice e Liberatore: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’ULIVO DELLA PACE filosofia campanese – scuola di Salerno -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo italiano. Salerno, Campania. Grice: “One could write a whole dissertation – especially in Italy: their erudition has no bounds – about Liberatore’s choice of the sign being conventional, ‘ramo d’olivo’ = pace. It’s so obscure! Aeneas held one, against the Phyrgians – but did the Phyrgians know? And if Mars is often represented wearing an olive wreath, one would not think there is a ‘patto’ between Aeneas and the Phyrgian commander about that!”  Grice: “I like Liberatore – a systematic philosopher, as I am! His logic has the expected discussion on ‘sign.’ A conventional sign he says is a branch of olive ‘signifying’ peace – as opposed to smoke naturally meaning fire – As a footnote, one should note that in Noah’s days, the signification of the dove was ALSO natural – although not strictly ‘factive’ – but then not ALL smoke (e. g. dry ice smoke) signifies fire, as every actor knows!”  “Ma il difetto molto comune degl’economisti è il mancare di giuste idee filosofiche, e con ciò non ostante voler sovente filosofare.” Entra nel collegio dei gesuiti di Napoli e chiede di far parte della Compagnia di Gesù. Insegna filosofia. Fonda a Napoli “La Scienza e la Fede” con lo scopo di criticare le nuove idee del razionalismo, dell'idealismo e del liberalismo, dalle pagine del quale venne sostenuta una strenua battaglia in favore del brigantaggio, interpretato come movimento politico contrario all'unità d'Italia, ovvero: "La cagione del brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo governo". Fonda “La Civiltà” per diffondere AQUINO. Uno degl’estensori dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Studia Aquino. Pubblica “Corso di filosofia”. Membro dell'Accademia Romana,. Combatté il razionalismo e l'ontologismo, così come le idee di SERBATI. Sostenne che il brigantaggio e la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma soprattutto ideologica. Difensore dei diritti della chiesa e studioso dei problemi della vita cristiana, delle relazioni tra chiesa e stato, tra la morale e la vita sociale.  I filosofi della sua scuola mettono in evidenza a acutezza dei giudizi, la forza degli argomenti, la sequenza logica del pensiero, la stretta osservazione dei fatti, la conoscenza dell'uomo e del mondo, la semplicità ed eleganza dello stile.  All'inizio professore e giudicato da molti nella Chiesa cattolica il più grande filosofo dei suoi tempi. Si ritenene che vive santamente, e si scorge in lui un profondo spirito religioso. Considerato uno dei precursori del personalismo economico. Altri saggi: “Logica, metafisica, etica e diritto naturale, e in particolare:  “Dialoghi filosofici” (Napoli); “Institutiones logicae et metaphysicae” (Napoli);“Theses ex metaphysica selectae quas suscipit propugnandas Franciscus Pirenzio in collegio neapolitano S. J. ab. divi Sebastiani Quinto” (Napoli); “Dialogo sopra l'origine delle idee” (Napoli); “Il panteismo trascendentale: dialogo” (Napoli); “Il Progresso: dialogo filosofico” (Genova); “Ethicae et juris naturae elementa” (Napoli); “Elementi di filosofia” (Napoli); “Institutiones philosophicae” (Napoli); “Della conoscenza intellettuale” (Napoli); “Compendium logicae et metaphysicae” (Roma); “Sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma); “Risposta ad una lettera sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma); “Dell'uomo” (Roma); “La Filosofia di ALIGHIERI”; In Omaggio a Aligh. dei Cattolici ital. (Roma); “Ethica et ius naturae” (Roma, Typis civilitatis catholicae); “Lo stato italiano” (Napoli, Real tipografia Giannini); “Della composizione sostanziale dei corpi” (Napoli, Giannini); “L'auto-crazia dell'ente” (Napoli); “Degl’universali -- confutazione della filosofia di Serbati” (Roma); “Principii di economia politica” (Roma, Befani); “La proposta dell'imperatore germanico di un accordo internazionale in favore degl’operai”; “Le associazioni operaie”; “Dell'intervenzione governativa nel regolamento del lavoro”; “L'Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII”; “De conditione opificium”; “La civiltà cattolica spiega nei dettagli il clima di "difesa" in cui la chiesa si sente. Il ritorno ad Aquino dov’essere orientato alle sue dottrine originarie. Convinto che dopo di lui ben poco di nuovo ha prodotto il pensiero umano.  Brigantaggio. Legittima difesa del Sud. Gli articoli della "Civiltà Cattolica"  introduzione di Turco (Napoli, Giglio); “Per l'atteggiamento arroccato in difesa della Chiesa vedi ad esempio Sillabo # La "cupa scia" del Sillabo  Nardini, Manca di verità e si oppone ad AQUINO la soluzione di un alto problema metafisico abbracciata da L.” (Roma, Pallotta); “Lettere edificanti della provincia napoletana della Compagnia di Gesù, in La Civiltà cattolica, Civiltà cattolica:, antologia  Rosa,  [ma San Giovanni Valdarno] ad ind.; G. Mellinato, Carteggio inedito L. Cornoldi in lotta per la filosofia di Aquino (Roma, Volpe, I gesuiti nel Napoletano, Napoli, Dezza, Alle origini del tomismo, Milano, Devizzi, La critica all'ontologismo, Rivista di filosofia neo-scolastica, Mirabella, Il pensiero politico di ed il suo contributo ai rapporti tra Chiesa e Stato, Milano, Scaduto, Il pensiero politico ed il contributo ai rapporti tra la Chiesa e lo Stato, in Archivum historicum Societatis Iesu, Serbati, Roma G. Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, Bari ad ind.; Lombardi, La Civiltà cattolica e la stesura della "Rerum novarum". Nuovi documenti sul contributo, La Civiltà cattolica, Dante, Storia della "Civiltà cattolica", Roma Nomenclator literarius theologiae catholicae,  Grande antologia filosofica, Milano, C. Curci, Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum Novarum Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana., presentazione del libro su La Civiltà Cattolica e il brigantaggio. Segno – SENNO -- è generalmente tutto ciò che, alla potenza conoscitiva, ra-ppresenta alcuna cosa da se distinta. Perciò tal denominazione ben si addice al concetto il quale esprime al vivo e ra-ppresenta alla mente l'obbietto intorno a cui si aggira. Ma il concetto è interno all'animo e per pale sarsi di fuora ha bisogno di un segno SENNO esterno. Questo segno SEENO esterno consiste ne' voicaboli, i quali tra tutti i segni ottennero la preminenza iq.ordine alla manifestazione delle cose, che internamente concepiamo. Così il termine mentale, cio è il concetto, e d il termine ora le cioè il vocabolo, convengono tra loro nella generica ragione di segno o SENNO. Ma si differenziano grandemente nella ragione specifica. Imperocchè, primieramente il concetto è segno naturale; il vocabolo è segno – O SENNO -- convenzionale. Dicesi segno naturale quello che di per sè e per sua natura mena alla cognizione di un'altra cosa -- come il fumo, per esempio, rispetto al fuoco, e generalmente ogni effetto, riguardo alla CAUSA. Dicesi segno convenzionale quello, che ARBITRARIAMENTE  o PER PATTO vien destinato a di-notare alcuna cosa; come il ramo d'olivo si ad opera per il termine orale, benchè prossimamente significhi (E SENNO DI) il concetto, non dimeno mediante il concetto significa (E SENNO DI) lo stesso oggetto. Anzi, poi chè da chi parla è ad operato per di-notare il concetto non subbiettivamente ma obbiettivamente, cioè in quanto è espressione della cosa percepita. Ne segue che, quanto alla significazione (SENNO), esso si confonde quasi col concetto, dicuiè come la veste e l'esterna apparizione. E però la logica a buon diritto tratta per ora ni un vocabolo è di sua natura connesso con un determinato concetto; e però tanta varietà di loquela si scorge presso le diverse nazioni. Al contrario, il concetto di per sè e necessariamente rappresenta l'obbietto, essendo ne una natural rassomiglianza; e però il discorso mentale è lo stesso appo tutti. Inoltre il concetto è segno formale; il vocabolo è segno (SENNO) istrumentale. Ad intendere questa differenza, è necessario osservare, che il vocabolo permenarci alla conoscenza della cosa significata, ha mestieri d'esser prima dạ noi compreso. E pero appartiene a quel genere di segni (SENNO), a a cui può applicarsi la seguente definizione. Segno (SENNO) è ciò che, conosciuto, adduce alla conoscenza di un'altra cosa. Ma del concetto non è così: giacchè esso, senza bisogno d'esser prima conosciuto, col solo attuare la mente, ci mena alla conoscenza del l'obbietto, sicchè questo appunto sia il primo ad essere diretta mente percepito. Ciò di leggieri apparisce, tanto solo che si consideri che il concetto non può percepirsi, se non per cognizione riflessa e pel ritorno della mente sopra sè stessa. Laonde quello che si percepisce per prima e diretta cognizione, non può essere esso concetto, ma necessariamente è una qualche cosa diversa dal medesimo. A di-notare per tanto una tal differenza, venne introdotta la distinzione del segno (SENNO) formale e del segno (SENNO) istrumentale. Viene l'abuso del linguaggio che è il mezzo dato all'uomo per esternare ad altrui gl’interni concepimenti dell'animo. L'analisi de’ vocaboli è ordinariamente un grande aiuto allo spirito per rischiarare le idee, merce chè essi sovente tengon chiusi sotto la loro spoglia. Ma accade altresì che si arroghino più di quello che loro di ragion si compele, e tentino non di essere esaminali e giudicali dall'intelletto, ma manciparselo e deltargli legge a capriccio. Per diverse maniere principalmente i vocaboli introducono falsi concetti nell'animo. Per la loro ambiguità e confusione, imperocchè ci ha delle voci d'incerto significato, le quali han bisogno d'esser determinale nel senso in cui si tolgono, altrimenti ingenerano concetto vago e mal fermo da cui procedon poi fallaci giudizii. Tale è a cagion d'esempio la voce natura, la quale suol prender sia d’esprimere or l'essenza di una cosa, or il mondo sensibile; or l'autore dell'universo, or tull'altro a talento di co foi che l'usa. Parimente le idee significate pe' vocaboli sovente sono assai complesse e complicate; e pero ove non bene si risolvano per via d'analisi ne’loro elementi, son cagione che si formiun assai confuse ed informe concetto. Secondo, tal volta i vocaboli vengono ad operati a significar mere negazioni o prodotti arbitrarii della immaginativa, o semplici ASTRAZIONI ell'animo; come la voce “cecità”, “fortuna”, “centauro”, “località”, e somiglianti. Oravviene che per difetto di debita considerazione si cada nella credenza ch'esse esprimano cose positive e reali si nell'essere che nel modo onde sou concepite. I vocaboli delle cose immateriali son formati d'ordinario per analogia presa dagli obbietti materiali, e quindi avviene che talora si confondano le une cogl’altri. Ne'nomi derivati sebbene spesso l'origine e l'etimologia del vocabolo coincide col senso in che comunemente si prende, tuttavia non rade volte se ne dilunga. Nel qual caso per mancanza di attenzione può avvenire che l'una coll'altro si scambi. A queste cause può aggiugnersi la novità de’ vocaboli di che taluni stranamente si piacciono, e l'uso incostante che fanno di quelli stessi che fuor di ragione introduceno. La filosofia per quanto può nell'ad operare il linguaggio non deve scostarsi dall’uso comune, nè cambiare a capriccio il senso delle voci ricevute o da sè stessa una volta determinate. Una indebita applicazione de’ mezzi di conoscenza è radice mal nal ad'errore. Accadecia in prima dal non bene distinguere con quali facoltà dove l'oggetto concepirsi; come a cagion d'esempio in chi con la fantasia vuole comprender ciò che allrimenti non si può che con l'intelletto. Dippiù si bada talora più alla vivacità e felicità della RAPPRESENTANZA, che alla fermezza del motivo che spinge all'assenso. E così le cose che vivacemente e prestamente feriscono l'animo più di leggieri si ammettono che allre non fornite di questa dote, ma più salde per forza di argomenti. Inoltre si procede temerariamente a giudizii senza prima considerare se l'obbietto è debitamente proposto giusta le leggi e le condizioni volute dalla natura. Quinci le fallacie de’ sensi, lo scambiarsi per i principii proposizioni arbitrarie, il formare assiomi illegittimi, il dedurre conseguenze erronee da sofistici ragionamenti. E perciocchè lo schivar questi mali richiede la  conoscenza del dritto cammino che deve tener la mente per le vie del vero, passiamo a trattar diligentemente questa materia, alla quale premettiamo il seguente articolo, che ad essa valga come d'introduzione. Cum animi nostri sensus cogitationesque animo ipso lateant, nec per sese ceteris patefiant; homo, qui ad societatem cum aliis coëundam e nascitur, idoneis mediis a provido naturae Auctore instructus est, ut ideas suas aliis, quibuscum vivit, manifestet. Haec media SIGNA (SENNI) quaedam sunt. Sic enim nominantur quaecumque ad res alias innuendas sive natura sive VOLVNTATE sunt INSTITUTA. Omnibus vere signis, quibus conceptus nostros et affectus animi patefacimus, maximopere vocabula praestant. Etsi enim suspiria, gemitus, nutus, sensa animi nostri significent; minime tamen id efficiunt eadem facilitate, perspicuitate, distinctione ac varietate, quae vocabulorum propria est. Quam quam non diffitear gestuum loquelam, si vivax sit, vehementius commovere, propterea quod imaginationem vividius feriat, et rem veluti ponat ob oculos. Vocabulum definiri potest: vox articulate prolata ad ideam aliquam significandam. Ex quo intelligitur, ope vocabulorum proxime et immediate conceptus, vi autem conceptuum ipsa obiecta significari. Ad originem sermonis quod spectat, nemini dubium est quin, etsi vis loquendi ingenit a nobis sit, verborum tamen determinatio ab arbitrio generatim pendeat. Secus si quodlibet determinatum verbum determinatam rem natura sua innueret; qui fieri posset ut verbum idem apud diversas gentes, quibus certe eadem natura inest, non idem exprimat? De hoc nulla est controversia; at quaestio in eo est utrum absolutae necessitatis fuerit ut sermo aliquis primis hominibus a Deo communicaretur, an homo sermocinandi tantum virtute ornatus sermonem ipse repererit vel saltem reperire potuerit. Qua de re in contrarias sententias FILOSOFI distrahuntur. Non nulli enim non modo possibilitatem, sed factum etiam tuentur, atque hominem sermone destitutum sermonis auctorem fuisse autumant. Alii id neutiquam evenire potuisse arbitrantur, cum sermo sine usu intelligentiae. efforinari nequeat, et ad usum intelligentiae sermonem necessarium esse putent. Equidem sic existimo: ad absolutam possibilitatem quod at tinet, hominem per se potuisse ex insita propensione et facultate loquendi, quam accepit, determinatum sensum vocibus quibus dam tribuere, et sic sponte sua efformare sermonem. Quid enim repugnasset ut homo rem sensibus occurrentem nutu aliquo com mopstraret aliis, atque ex innata vi loquendi sonum syllabis quibusdam distinctum proferret et ad commonstratam rem significandam libere determinaret. Expressis autem rebus sensibilibus, ad insensibiles significandas gradatim pervenire impossibile sane non erat; cum ad has exprimendas nomina quaedam ex rebus materialibus, propter analogiam, quam homo inter utrasque per spicit, transferri facile potuissent. At si non de absoluta et abstracta possibilitate, sed de facto loquimur, rem aliter contigisse certum est. Nam ex sacris litteris indubie colligimus elementa sermonis primo homini a Deo tributa esse, quantum saltem sufficeret ad domesticam societatem, in qua ille conditus est, retinendam. Cuius rei congruentia vel inde patet, quod si, ut supra dictum est, ad divinam pertinuit providentiam opportuna scientia instruere protoparen tem; hoc multo magis de usu sermonis dicendum sit,cuius longe maior necessitas imminebat. An sapienter cogitari poterit totius generis humani parens et magister, qui quasi principium et fun damentum constituebatur futurae societatis civilis et sacrae, sine actuali copia illorum mediorum, quae ad munus hoc adimplen dum tantopere requirebantur. Accedit, quod eruditorum vestigationes, qui de origine linguarum tractarunt, huc tandem concludendo devenerunt, ut omnes linguae tamquam dialecti linguae cuiusdam primitivae, quae perierit, habendae sint. At si sermo inventio esset humana, singulae familiae, quae diversis populis originem dederunt, linguam sibi omnino propriam atque ab aliis radicitus discrepantem creavissent. De utilitate vero, quam ex sermone pro rerum intelligentia mens capit, permulta fabulati sunt FILOSOFI quidam, in primisque Condillachius. Putarunt enim illum esse necessarium ad analysim et synthesim idearum habendam, nec sine ipso ideas generales efformari posse. Quin etiam eo progressi sunt, ut dicerent ipsam intelligentiam non nisi ex usu loquelae progigni. At enim haec esse ridicula optimus quisque iudicabit, modo cogitet non posse loquendi usum concipi nisi iam antea intelligentia sub audiatur. Non enim quia loquimur intelligimus, sed viceversa quia intelligimus loquimur. Unde bruta, quia intelligentia carent, id circo loquendi facultate privantur. Quod si intelligentia e sermone non pendet, poterit illa quidem suis uti viribus ad ideas sive dividendas sive componendas sive etiam abstrahendas, quin id circo sermo velut causa aut instrumentum adhibeatur. Sed de hac refusius erit in Metaphysica disputandum. Vera igitur emolumenta sermonis his continentur. Prae terquam quod ad ideas communicandas inserviat, ac proinde ve luti vinculum sit societatis; intellectui subvenit, quatenus loco phantasmatum verba ut signa sensibilia in imaginatione substituit. Memoriae opitulatur ad ideas semel habitas revocandas. Mentis attentionem figit detinetque in obiecto, quod exprimit, quae secus ad alia contemplanda statim raperetur. Mentis opificia conservat, efficitque, ut illa postquam contemplationis suae partus vocabulis scriptura exaratis ad retinen dum tradiderit, soluta curis ad nova speculanda impune progredi possit. Hae potissimum utilitates e sermone in hominem proficiscuntur; ceterae, quae a nonnullis nimium exaggerantur, sine fundamento ponuntur, et animo humano sunt dedecori. Denique ad dotes loquendi quod attinet, sermo sit perspicuus, usitatus, brevis; non ea tamen brevitate, qua obscurior sententia fiat; sed ea, quam rite descripsit Tullius CICERONE, ubi inquit brevitatem appellanda messe cum verbum nullum redundat, velcum tantum verborum est, quantum necesse est 1.  ANTICHITÀ PER L'INTELLIGENZA DELL'ISTORIA ROMANA E DEI FILOSOFI LATINI DELL'ABATE DECLAUSTRE Wwwna IN VENEZIA CO'TORCHI DI GIUSEPPE MOLINARI MITOLOGICHE   SLIEHE HE KOS WIEN HOFBIBLION KA  1 eeeeeeeeexe erele cele ; egli Ateniesi lee ressero delle statue. Ella fu ancora più celebra ta presso i romani, i quali le innalzarono il più grande ed il più m a goifico tempioche fosse in Roma. Questo tempia, le cui rovine ed anche una parte delle volte restano ancora io piedi, fu cominciato da Agrippina, e poscia compiuto da Vespasiano. Scrive Giuseppe, che gl'imperadori VESPASIANO e Tito deposero nel tempio della pace le ricche spoglie, che aveano levate al tempio di Gerusalemme. In questa tempio della Pace si adunavano quelli che professavano le belle arti per disputervi sopra le loro prerogative, acciocchè alla presenza della dea restasse bandita qualsi voglia asprezza pelle loro dispute. Questotem. pio fu rovinato da un incendio al tempo dell'imperator COMMODO. Presso i greci la Pace veniva rappresentata in questa maniera. Una dono aportava sulla mano il dio Pluto fanciullo. Presso I Romani poi si trova per ordinari o rappresentata la Pace con un ramo di ulivo PACIFERA. In una Medaglia di Marco Aurelio, Minerva viene chiamata “pacifera”; e in una di Massimino si legge Marte puciferus, qmegli, o quella che porta la pace, PACTIA.Suddito dei Persiani, al riferire d'Erodoto, essendosi ricoperato a Cuma città greca, i Persiani non mancarono di mandare a di mandarlo, acciocchè loro fosse consegnato nelle mani. I Cumeifo .  dea P Pace. I Greci e di Romani onoravano la Pace come una gran qualche volta colle ali, tenendo un caduceo, e con un serpente ai piedi, Le danno ancora il cornucopia, el'ulivo è il simbolo della Pace, e il caduceo è il simbolo del Mercurio Negoziatore, per additare la negoziazione, da cui n'è seguita la Pace. In una medaglia di Antonino Pio tiene in una mano un ramo di ulivo, e colla sinistra dà fuoco ad alcu di scudi,e corazze, j   PALAMEDE . Figliuolo di Nauplio re dell'isola d'Eubea, coman daya gli Eubei nell'assedio di Troja. Vi si fece molto stimare per la sua prudenza, pel suo coraggio, e de sperienza nell'arte militare; e dicono che insegnasse ai Greci il formare i battagliopi, e lo schierarsi. Gli attribuiscono l'invenzione di dar la parola delle sentipeļle, quel la di molti giuochi, come dei dadi e degli scacchi, per servire di trat tenimento ugualmente all'ufficiale e al soldato nella noja di up lungo assedio. ΡΑ1CHE tott an que 9 be 8Q CO 32 ti 8 $1 AL sto fu çerp ip contapepte ricercare l'oracolo de’ Branchidi, per sapere come doveano contenersi; el'oracolo rispose, che lo consegnassero. Aristodico, uno dei principali della città, il quale non era di questo parere, ottenne col suo credito, che si mandasse un' altra volta ad interrogare l'oracolo, ed egli stesso si fece mettere nel numero dei deputati. L'oracolo non diede altra risposta, che quella avea data prima. Poco sod disfatto Aristodico, penso nel passeggi. The branch of ‘ulivo’ is represented in the reverse of a coin of Antonius Pius --. Matteo Liberatore. “Segno e cio che, conosciuto, adduce alla conosence di un’altra cosa” – cf. Eco’s tesi su Aquino. Liberatore. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liberatore” – The Swimming-Pool Library. Liberatore.

 

Grice e Licenzio: la ragione conversazionale e il filosofo poeta – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – A pupil of Agostino. He achieves a reputation of a poet. Licenzio.

 

Grice e Liceti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia ligure – l scuola di Rapallo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapallo). Filosofo italiano. Rapallo, Liguria. Grice: “Liceti is a fascinating philosopher; must say my favourite of his oeuvre is “Geroglifici,” which as he knows it’s a coded message – the old Egyptian priests kept this ‘figurata’ away from the plebs!” – Grice: “Alice once wondered what the good of a piece of philosophy is without ‘illustrations;’ surely Liceti’s beats them all!” Allievo ed erede di CREMONINI (si veda). Nacque prematuro (6 mesi), venendo alla luce su una nave presa da tempesta lungo le coste tra Recco e Rapallo. Sempre secondo la tradizione orale suo padre, un medicoo, lo mise in una scatola di cotone dentro un forno, come si fa per far schiudere le uova, inventando così il prototipo della moderna incubatrice. Dopo aver compiuto i primi studi letterari a Rapallo, venne inviato a Bologna per compiere e approfondire gli studi legati alla FILOSOFIA. Insegna a Pisa. Padova, e Bologna. Ascritto ai “Ricovrati”  (oggi i galileii – degl’Accademia Galileiana di scienze, lettere ed arti.  Quando comparve in cielo una cometa, si riaccese una controversia analoga a quella suscitata dalla stella nova  ma questa volta le difese della teoria aristotelica furono assunte da L. ed il compito di attaccarla, partito ormai GALILEI (si veda), e assunto dal suo successore sulla cattedra di matematica, GLORIOSI, che se la prese appunto con L.. Questi risponde pubblicando un suo De novis astris et cometis, in cui, oltre a difendere il LIZIO, critica scienziati, tra i quali anche GALILEI, ma con espressioni molto rispettose e lusinghiere. A questo saggio GALILEI fa rispondere dal suo amico GIUDICCI col Discorso sulle comete. Srive saggi di filosofia, tra le quali “De monstruorum causis, natura et differentiis”,  (Padova), con aggiunte di Blaes, nei quali riprese le soluzioni del LIZIO sul problema delle anomalie genetiche, e “De spontaneo viventium ortu” nei quali sostenne la generazione spontanea degl’animali inferiori.  Altri saggi importanti per la ricerca sono “De lucernis antiquorum reconditis” apprezzato da Berigardo, e la “Silloge Hieroglyphica, sive antiqua schemata gemmarum anularium.” Tratta inoltre la questione dell'anima delle bestie nel “De feriis altricis animae nemeseticae disputationes.” I suoi saggi sono chiaramente ispirate al LIZIO, in particolare gli studi sul problema della generazione vivente e sul cosmo, entrando talvolta in contrasto con GALILEI, specialmente per quanto riguarda la struttura dei cieli e della Luna, che L. considera una sfera perfetta e trasparente la cui luminosità non e un riflesso della luce solare, ma veniva generata al suo interno. Al centro di questo dissenso cosmologico, c'e, infatti, il tentativo di spiegare il fenomeno luminescente della pietra di Bologna, che L. considera un frammento di materia lunare. Alcuni saggi di L. rimasero inediti a causa delle ampie discussioni riportate sulle novità astronomiche. Nella congerie immensa dei suoi saggi e commenti va notata la difesa della pietas d'Aristotele; quella pietas così vivacemente messa in forse alcuni anni più tardi dal platonicissimo cappuccino Valeriano Magno, che taccia d'a-teismo il sistema dello Stagirita. L. invece disserta «de gradu pietatis Aristotelis erga Deum et homines», e nel saggio sua «Philosophi sententiae plurimae, fidelium auditui durae, salubribus explicationibus emollitae, ad pias aures accommodantur, illaeso genuino sensu Aristotelis». E ad epigrafe dell'opera sua si compiace del distico Vulgus Aristotelem gravat impietate, L. Doctorem purgat. Numquid uterque pius? La città di Padova ed Spinola di Roccaforte rendeno omaggio al filosofo facendo erigere una statua in marmo scolpita da Rizzi. A Rapallo vi è dedicata una via. Gli è stato dedicato il cratere “L.” sulla Luna.  Altri saggi: “De centro et circumferentia”’ “De regulari motu minimaque parallaxi cometarum caelestium disputationes”Vtini, Nicola Schiratti, Vicetiae, Amadio, Bolzetta, Encyclopaedia ad aram mysticam Nonarii Terrigenae, Patavii, Crivellari“ Allegoria peripatetica de generatione, amicitia, et privatione in aristotelicum aenigma elia lelia crispis. Ad aram lemniam Dosiadae, poëtae vetustissimi et obscurissimi, encyclopaedia, Paris, Cottard; Ad Syringam publilianam encyclopaedia, Patauii, Pasquato, Bortolo, “Ad Epei Securim Encyclopaedia Genuensis FILOSOFI ac medici, Bononiae, Monti, “De centro et circumferentia, Vtini, Schiratti, “De luminis natura et efficientia, Vtini, Schiratti, “Litheosphorus, siue De lapide Bononiensi lucem in se conceptam ab ambiente claro mox in tenebris mire conservante, Vtini,  Schiratti, “Ad alas amoris divini a Simmia Rhodio compactas, Patavii, Crivellari,“De lucidis in sublimi ingenuarum exercitationum liber, Patauii, Crivellari “De Lunae Sub-obscura Luce prope coniunctiones, “Hieroglyphica”, Patavii, Sebastiano Sardi, “Hydrologiae peripateticae disputationes”, Vtini,  Schiratti, Ad syringam a Syracusio compactam et inflatam Encyclopaedia, Vtini, Schiratti, Baldassarri, La pietra di Bologna da Descartes a Spallanzani. Sviluppo di un modello scientifico tra curiosità, metodo, analogia, esempio e prova empirica, Nel nome di Lazzaro. Saggi di storia della scienza e delle istituzioni scientifiche, Garin, La filosofia, Milano, Vallardi, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, Bartholin, Institutiones anatomicae, Lugduni Batavorum, Riolan, Opuscula anatomica nova, in Id., Opera anatomica, L Pombaiae Parisiorum, Bartholin, Epistolarum medicinalium centuria Hafniae (lettere); Vesling, Observationes anatomicae et epistolae, Hafniae, lettere a L.; Dallari, I rotuli dei lettori legisti e artisti dello STUDIO BOLOGNESE, Bologna ad ind.; Edizione delle opere di Galilei, Firenze  ad indices; Acta nationis Germanicae artistarum, Rossetti, Padova, ad ind.; Rossetti, A Gamba, Padova, ad ind.; Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata, A: verbali delle adunanze, Gamba,  Rossetti, Trieste ad ind.; Salomoni, Urbis Patavinae inscriptions, Patavii Facciolati, FASTI GYMNASII PATAVINI, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Renan, Averroès et l'averroïsme, Paris Taruffi, “Storia della teratologia” Bologna, Favaro, Amici e corrispondenti di Galilei, Gloriosi, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, Favaro, Saggio di  dello Studio di Padova, Venezia, Ducceschi, L'epistolario di Severino, Rivista di storia delle scienze mediche e naturali, Castiglioni, Storia della medicina, Milano, Ducceschi, Un epistolario inedito di dotti padovani in Atti e memorie della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova, Alberti, La prima incubatrice per prematuri, Minerva medica varia, Boffito, Battaglia di marche tipografiche di  Bella e l'ultima memoria scientifica dettata da Galilei, in La Bibliofilia, Pesce, La iconografia di L., in Genova. Rivista del Comune, Geymonat, Galilei, Torino, Rossetti, L'opera di L. in un manoscritto inedito della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, in Studia Patavina, Bertolaso, Ricerche d'archivio su alcuni aspetti dell'insegnamento medico presso Padova, in Acta medicae historiae Patavinae, Ongaro, Contributi alla biografia di Alpini, Tomba, Gli originali di Galileo in Physis, Ongaro, L'opera di L., in Atti del Congresso di storia della medicina, Roma, Ongaro, La generazione e il moto del sangue in Liceti, in Castalia, Rizza, Peiresc e l'Italia, Torino Simili, Una dedica autografa di Galilei a L. e il clima delle loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in Galileo nella storia e nella filosofia della scienza. Atti del Symposium internazionale, Firenze-Pisa, Firenze Mirandola, Naudé a Padova. Contributo allo studio del mito italiano, in Lettere italiane, Castellani, Marangio, I problemi della scienza nel carteggio con Galilei, Bollettino di storia della filosofia dell'Università degli studi di Lecce, Marilena Marangio, La disputa sul centro dell'universo nel "De Terra" di L., Soppelsa, Genesi del metodo galileiano e tramonto dell'aristotelismo nella Scuola di Padova, Padova, Agosto et al., Rapallo, Berti, Galileo e l'aristotelismo patavino del suo tempo, in Studia Patavina, Ongaro, Atomismo e aristotelismo nel pensiero medico-biologico di L., in Scienza e cultura, Galilei e Morgagni, Padova. Brizzolara, Per una storia degli studi antiquari in Studi e memorie per la storia dell'Bologna, nZanca, L. e la scienza dei mostri in Europa, in Atti del Congresso della Società italiana di storia della medicina, Padova, Trieste, Padova Re, "De lucernis antiquorum reconditis": il capolavoro calcografico di Schiratti, in Ce fastu? Lohr, Latin Aristotle commentaries, Firenze, Basso, erudito ed antiquario, con particolare riguardo agli studi di sfragistica, in Forum Iulii, Basso, "Fortasse licebit". La marca tipografica di Schiratti e l'impresa accademica di L., in Quaderni Artisti Cattolici Ellero, Ongaro, La scoperta del condotto pancreatico, in Scienza e cultura, Poppi, Il "De caelesti substantia" di Ferchio fra tradizione e innovazione, in Galileo e la cultura padovana, Santinello, Padova, Kristeller, Iter Italicum, ad indices. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. sapere, De Agostini, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ruff. L.. Beerbohm: “Send me a letter; I live in Rapallo.” “How should I address it.” “Beerbohm, Rapallo” “Do not worry, there is only one Rapallo.” “Vico L., Rapallo” – “Statua a L. da Rizzi, Spinelli Roccaforte, Padova.xstril. minnstiii UAiTiO Stjftdsb iupon Ratfatia in IV libros De his, quidiuvi- P uunt fine alimento. P1?- 1 in quo eaptobatissimisautonbus afferuntur obferuationes eorum, qui vitra biduu . ab omni obo potuque abftmuere. Abstinentiae vana: intra fepumam diem conclu- .ffaec. Abfimenu, a iepfmo ad decimum diem extenfj. Abftmentixi decimo ad vigefiraumdiera protc- fe.cap.£. Abstinentii ad mensem produAfe. Abstinentiae a primo ad tertium mensem produ-. Ax. c Iehmium populorum Lucomonae ad quinque me des quotannis mire productum. Abstinentia Oftimeftns in muliete Patavina. Abstinentia pueli Tufer ad feitumdec unum- Spiritus non aliaere. Aerem in mitto vivente non ali aere intrinlecus quoraodocunqucattra Ao.lenem in mitto non abfumerc acrcm. Partes animalis 4 przdommio aereas non ali aere inspirato. nui Aerem hunc, quem inffiramus, non efle alendo et creari c 'i t. fpintus. Ad nutricationem metaphoricam non semper cd- sequi veram Rondelctij difficilis alfertio. Soluuntur argumenta quibus nititur pnor opinio, mensem protradla. Abstinentix ad II annos produAx. Ablhncntix ad III annos protenf. Historia puellæ Spirenfis quadriennium abftinen- . tiscap.it. Abftinentt a quarto ad duodecimum annum de- duAx. Abstinenn vitra duodecim annos longissime pro duA varia exempla. Abstinenti $ diuturnae incerto temporis spatio ad-  i' mentr. Difficultatem negotii nos retrahere non debere a proposito. Curante omnia oporteatnos aliorum dogmata de Chatnxleontcm, ac Viperas non ahaere propol i t c tpeudere. inqua omnesaliorum opiniones examinand breui catalogo numerantur. tn quo examinantur sapientum virorum opiniones de natura et caudis tam diu- turni lciumj. Opinio Argenteoj et aliorum exiftimantiu abstmcntcs nomos nutriri aere inlpirato. Cancmlcucm et Manucodiatam apud Indos non alucrc.Secunda opmio Medici Clariflimt ex Augento, Si . M a nardo contendentis abstinentt ncftrosalf odoribus, fle exhala tione aerem obfidente car Examinatur propofita fcntenua, &: primum often diturnon elfe in topi acre vaporem, ac cxhalationcm.cap.a». Exhalationem infpiratam vi calori? humant non pofle cogi in fanguincm.St^ alimentum. Exhalationem non alere 1eiunantcs. Expenditurallata opinio demonttrando primum Non omne fapidu111 alere. caloris aAionein humorem non elle conti- nuam ;caqueiugi, nonidco affiduam clfc debe- re nutricationem, cap.i. intus in animali aereos non efltjfcd igneos. C. J. aimores proprie non ali.Spmtus in viuenni corpore r,ou nutriri.Odores non alere,quia non funt miftorum fpccits, prima ratio Arifiotchs aduerfus PITAGORICI c1phcatur.cap.2d. Secunda ratio Anftotclis LIZIO demonttrans odores n6 alere, quia per coAioncm a calore non podint ex odoribus excrementa lcgrcgan. Omne genera sed vnicum ottcnditurj nec ali omnia qiuecu que diffluunt in viufnteA^" reftauritionc indigent. Acrem ml piratum pon efle miftum, nec adeo ut fit alendo corpori. Explicantur allata dogmata Galeni de eo quod ctt ipiritus aere nutriri, J. Alexandri, Nicolai, CICERONE, ac Thcophraflirii- fla confiderantur.de eo, qupd eft att:m alerem fpiritus,& calorem; et ad A rittotclis, ac Hippo- cratis ccnfuram rediguntur.tf. Hippocratis afiettio dc triplici alimento illuftra- tlir Olimpiodori. ic Platonicorum dogma 'de horni mbus acre, ac radijs folartbus enutritis expendi tur.cap.primo noridari trianutrinientorum trrfs T Omnealimentum, feuexternum, feuinternumco coqui deberc, coftioneque aberctementispur- Odorem n aloris ita concoqui non poffe, vcab excrementis dicatur expurgari quia limplicem, l'eu nutriendo corpori omnino diflimilcm naturam obtineat, Ab odore vi caloris concoqnenris nec tenue, nec craflum fegregari excrementum.cap.j». Tertia ratio Arillotelisoftcndcns odorem nonale requiacoftionea calorenonincraffatur.cajt Quarta ratio, qua Ariftotcles probae odorem non Ci£,& quandopropemare ambulantes falfura. re fenrianr, et alsarum faporem quos prope ab- finthii fuccus agitatur. Tertia opimo doitiilimi Co/lii prxeeptoris exiftf m.mns abflinente» nofttos aqua enutrita» primumofle- Propoli ta sententia confideratnr, ac Ari ditur ex autorita te Platonis ^Haiqpupoacmrantoins a,lere, ftotehs, Galeni, &Auicennp cap Aquamvi calorisnoncraflefcere,ideoqu-everH ahftinentemalerc. Pvrauftas non ali exhalatione illi connmili cremento arugmeri fine ten^ imminutione, o. Plantae non Canemleucm non ali rore, Manucodiatain rore non pafc1. Argumentum duci non polle a brutomm alimen- to ad nutrimentum hominis. Quo fcnfu verum fit Quod ftpit nutrit, Exhalationem acri permiftam efle fapidl  t Exhalationem non efle odoriferam, et Allomos noneffe, quiod oribusnutriantur, quicqurdFici nusfenfcnt. Democritum, Homerum odonbus vitam libi prorogafle ceu medicamentis, non vt alimentis. Animo delinquentes odotibus recrearr non ut ali- mentis,fcd vt medicamentis Hippocratis dogma vulgatum de ctlcir nutncatio Aqua nihil inefle lcntiatur,nec epota ne per odoratum lUuitratur non poffc in alendi fubflantiam. effealendocorpori, quianonferaturadmem- Aquam coflione non fienfimile malendo corpobra nutrimentis dicau. Quinto confirmat Ariftotcles odorem non alere, quia nonnifi per accidens fertur w fontem ali- menti. Odor effe medicamentum, non alimentum texta ratione probatur, Ccnfurare fponfionum dcraonftratiombus Antro telicisab Argcntcnoallatarum. Respondetur ad argumenta, quibbs nititur fenten fupenor, ac primum oftendirur exhalatione de terra Turgentem non ubique pntfto fuiffe abftinentibus, nec effe milium, cap.jd. Bxhalationetn odore tciro afferam efle, lapidam ri,vt decet alimentum cap.do. effe Aquam non effe tale mtftom/juale oportet ali roentum.capdr. Aquam effe vehiculum alimenti, alimenniracap.dx. Satisfit rationibus quibus nititut et propterea non aliquot primoque decernitur cur ablhnentium hu- aquam potarent; quoniarmadpiocualbeihc,afpm^c3- mido inftauretur huraidum Aqua nec plantas ali,nec aquatdia. campf.t Arfu.mcnto, Vium non feruartccaalloroirse pvarbualnoi:mc*alorem vtcon- humorem non efleaquammec aqueum. Aqua non reftmn quod aqueume corporibus ef- fluxerit.cap.dd. alimento, &cauf carnem, 5tlac; quxpluatpoftca. AquaexAnflotelcquomodofit obigratia,fi noneffe.Exhalationem a calore non condenlan. Exhalationem in acre cogi non poffc infanguine Qua ratione potuerit animalia pluere,ac fpeciatim vitulum, pifces,ranas,atque lemmer. Hippocratis dogma illuftratur de cxhalatrone ve Solis attrafta ex animalium corporibus. Rorem non effe vaporem vi caloris c6crctum,ncc alimentum cicadarum.Mannam non fieri ex vapore vi caloris dentato in aere,nec folam alere poffc ad Hxbraic* mannas difcnmcn.Mei non effe purum rorem concretum, nec tale quid fine alio nutrimento diu pofle hominem fa ftcrilitatis,& pilobus affumatur non vere alit  adeo ex igno, Animatu quomodo conftituantnuurtriantur aqua_> et aqua,vt moucanlur nigonee,ft vere alimentum. Hippocrati ; cui aqua cap. femper ex morbo intermitti funiiiones vitx: quxue operationis lilio morbum fequatur. cVigelimaquinta opinion Qucrcetanireferendsab- ilinenttx caudam in petrificationcm partium . ventrisimi, &nutricatumaliarumexaere,ac odoribus.Expenditurallata lentenda offendendo longum ieiunium haud ortum ede a pctnficatione par- tium naturahum,& a nutricatu aliarum cx aere in vlkiabdinente. Soluuntur allatx rationes hanc opinionem robo- rantes, de dilcriminc inter Ecdafim,ac fom- num;VinterEcdafimgrauem, acleuema- gcntes.cap.aoo. viralianonaerenutrita, necalijsvitamcommu- Vigcfimapriraa opinio Podhij afferentis homines diu ab alrmemo abdincre, anima illorum pec cataphoram,& intendorem fomnum vacante a proprijsofficijs. cap.ioi. Examinatur, et improbatur opinio decernes ab- ftincntiam diuturnam abalto,&t_ profundiori fomno prodirc. Refpondctur ad argumenta de (omni differen- dis, et de longum tempus dormientibus, Vigefimalecunda opinio Benedilti, Montui,& Mercuriales dicendum caudam longi iciunij ede condri&ionem cutis, pororumque occlu- fionem quidquain ecorpore diffluere non per- uri ttentem.cap.2a4. Expenditur allata lententia demondrando vfum, ac necelficatem alimentorum non ede abfolute indaurationcm deperditi, fcd m alium finem : nec ita meatus omnes occludi pode,vt nihil ef- fluat ccorpore.Soluuntur Beucdifli, et Montui radones, oflendendo cur cxlum alimends non egear; et quo- modo corpora, c quibus nihil effluat, ali vanicade. Vigefimafcxta opinio decernens abdinantes no- ftrosdiufinecibo, potuqueviuercviherbx, ac medicamendcuiuldamfamem,fiumquepellen tu. Expenditur allata fentenda offendendo abdinentesnodros nullius hcrbx, autmcdicamenu vir- tute adeo longum pruduxideiciumum. Occurntur argumentis allatam fentenuam corfir- manubus, confiderando naturam herbarum,& pharmacorum fitmem dumque pellentium Vigclimaicptima opinio ex Valeriola referens caudam aiuturnxabdinendxin puram confue tudmcm.Expenditur propofita fentenda, offendendo contuet udinem non patere tam longam abffinentiatrc  r. Satisfit rationibus viri Clariffimi, offendendo qua rarione medicamenta, &venenanonagantin. aduetos;&quomodofc habeat confuctudo ad cibum, et potum, cap.aaa. Soluuntur argumenta Quercetani odendendo ab (linentis vilcera naturalia non fuide petnficata; libri Capita centum Prifatio, inqua& difla dicendis attexuntur, tam mitti Diftnbuitur viucnrium genus m fuas fpccies fupre Ariftotcli mus.cap.r. minem Quomodo fe habeant ad alimenta propofira vi- ucntiura fpecies vniucrfim. cap.z. Semen animalium St in vtero, extra vtrmm . femper viuere fine alimento, In animalium mortalium genere aurelias, 8r nym phas appellatas nunquam vllo alimento vri: co. paraturque generatio infefli ex verme cum ge- LIZIO in tex- pofle Ariflo neratione hominis. Semen plantarum non tota fui vita, fed tamen fine alimento viuere.Oua diu fine alimento viuere, quamuis non diu peratione viuere ex definitionibus nflotcle promulgatis, Deducitur hoc ipfum cx tngefimo De anima. o- animae ab A- fexto fecundi vitam fine alimento viuant. cap.tf Ligna,fcu ramos,&arboresextra humum totam diu fine Adijcittir his definitio vira in Tamis exarata propofitam iniermiflionem nis adftruens. naturalibus nutricatio- alimento viuere. Stirpes terra infixas diu, ac fpeciarim tota fine alimento viuere pofle. cap.8. Brutorum imperfeftioris naturi plurimas hieme Ariftotclihocidemplacuiflcin Moralium, primo Magnorum diu fine ali mento viuere pofle: ac fpeciarim icuinio, &ortu brutorum viucnrium intra ioli- diflimos, imperuiofquc lapides copertorum.c. Aues quampluresdiu abftmere incolumes, c.ro. Pifces diuturnam tolerareabftincnriam. cap. Tcrrcftrium brutorum perferorum plurima tumumagere ieiunium. cap.r Homines diu a cibo,potuque abftincrc pofle.c.r Quotuplex,quique caufla dc propofito nobis inquirenda fit. Quotuplex,quiquefitcommunisidea vniuerfa-, lilque forma diuturni abfhncntra. y. E quibufnam fontibus hauriantur argumenta caufla efficiens urqs abftinentes non ali confirmantia, Homines in diuturno ieiunio nutriendi Quid.dr' quomodo radicalis humoris a calore nanem intermittere pofle ratione aninra. Nos diuabftinctes pofle a nutricatione toto co tf- penitus prohibere peffit. ponstraiiuociari corporis habita rarione. De differentia originis xt 8. citra vitfdifpendiuhabitaquoqj ratione caloris.c. jr. iqualitatum mifli, deque Homines diu pofle nutriendi munere priuari ongtne radicalis humoris. Differentia cflentu tnum squalitatum eflcntia natiui calonsfliumidique dicalis explicatur. cap4y. 1 Pofle diuturnam nos agere vitam citra nutrica- tumex ratione vira, fcu viuentis totius, quod ex anima et corpore mediante calore conftitui. tur. Diu intermini pofle nutricationem abhomine ra- propofi- tioneipfiusmct nutricationis. Diu pofle intermitti funrtionem alendi ratione peramentorum, miflorumaqualium tcfcunt; a quibus feiungirur aequalitas humoris primigeni;, Differentia promulgatarum ipecierum hu,, om- natiui mons quicalorifubditusefledicitur nino ratione fpirituum. Confirmatur diu fine opera nutneatus viuerepoffe homines dc lententia principium autorum, ac pnmum Hippocratis, Nutricatione diu intermitti ex decreto Ocian diu nos pofle 3 nutriendi munere penes durationcm. cap Qui fitiqualitas impediens confumptionem Celfi.c.14, ad aures Galeni ex illuftn fentcnria m opere it lotis ait hu- natiui, SC humidi radicalis reperiri pofle. . et humoris naturalia Quomo- ffir.- caloris, I tvi dicendorum ratio, naturaque proponitur. Liber Tertius, inquoexrei natura difquiruntur caufisephyficx tara longum ieiunium confti- tuentes, efficientes, conferuantes, terminantes, ac diftinguetcs cum generarim, tum fpeciarim. fpecies Hominem diutius nutricatione intermittere pof- no- 1 6. funflio- diutunra huius abftinentii. ' Aequalitatem virium in homine diu fcruari pofle.  de lc de mente LIZIO in y. problemate prtmit  1 j. diu- frOionis.aif.j6. LIZIO fuppofuifle,ac potius exprefle 3. Laurentio nutricationem vira ncceflariam non fe.cap.3p. ef- Idipfum confirmatur ex eodem Galeno Corrtcli/ fententiam approbante, propofi- Confirmaturhomincmfine aflione alendi ftercpofle conii- diu de mete Galeni excorni 1 feOionis. t.a'phor. Operationem virtutis nutririuse in atrophia ex Auicemra fententia. quoque pnuatum aflionc nutriendi viuere pofle intextuij.hb.i.dc Confirmatur id ipfum ex eodem tu -e1ufdcmoperis. Nutricationem inviuente intermitti ho- anima. teleautorein yltimo problemate dteimtt fOiorir. Confirmatur hominem pofleabfquenuiricndi dccreuif- fe viuentia funflionem alendi poffeintcruutte- re, quod ena notauit Auerroes s.dcan. Marcello nutricationem in viucntibus pofle. intermica Colligitur forma, 8 idea vniuerfaJit abftincnrra noftrum iciunantium. Quptuplex,qu*qile fit vniuerialis riuo confumpeionem. Quotuplex efle pofllt *qualitas in mifto. cap.4?. tarum; ra Difcrimen trium earundem xqualitatum ratione leuradicah. squalitas quantitatis diferera; vnde mnumcry fpecies moris radicalis a calore nanuo. Æqualitatem caloris quoad virtutis in homine inter- teinno- caloris Quomodo aequalitas virium caloris natiui, er fe fitim procreent Vt allinentis per fe non refrigeretur vlla ratione-, calor nauuus.Anflotclis difficilis locus explicatur de refrigerio calor.s ab alimento.Galeno nem alimentum non refrigerare calortm natiumn, nili per accidens, fed per fcilluin au- gere. Vtalimentis augeatur caloris innati gradus, feu qualitas;nonfolamateriacalida exercitatio ; cumdortilfimo Fcrnelio. do. Vt alimentis non pofiit caloris virtus mtfdi abfq; Vt verne melerei de ventrtenld, inteftinis f» gant alimentum non expertato fine cortioms. Vt folia, ttores, frurtus, et femina plantarum pars tes vere non fint, fed excrementa potius,  Vt cx co, ouod oua,& femina citra nutricatum vi uant,colligere polfimus perferta quoque anima lia vitam polle traducere ablquc alimentorum vfu. co quod fubicrta calori materia augeatur. Vt anima nutriens artum habeat immediatum, et Curnonfintfrequentioresnofiri abfiinentes, fed proprium, in quo edendo no v tat ur organo cor» porco. Calorem natiuum in nobis,quin etiam ignis riam- tnamapudnos, non indigerencccllario humoris,quo vcluti pabulo nutriatur, Cur calor humorem in milio, et in viuentc prxfertim d:palcatur,& intentum procuret, exercita- tio cum liibtililfiino Scaligcro. Vttn Ecllali ceffct anima nutriens ab alcndimu- nei4.Vt Ecftafis non Iit priuatio munerum animi intcl ligeutis, exercitatio cu virodortiliiino, ex Sca- ligero.dd. Vehementi fiupore^hjsque plurimis de caudis de 1. Jertabanimopolle omnes nouones, et habitus, c Vtalimentivfusnon fitadrefiaurationemde per- di ti,fcd ad auocandum calorem a cita conlum- tione humons: exercitatio cum Magno Al- crto.cCur femen maris in vtero femina: concipientis no alatur.Vt IcmcnnonIit parsanimati, inquoeff.Vt ou»iubutntancaliat ammata. Digil qt fit  mK cuerti naturae lr| Calor, definiendo^ non^UfrAr.cap.8*. o Vt calor iniitus igneo pro| iCrefpondcnscoi cum femetipfo coUlgaturitluod vcgcticficak.re,&hieme tiamehushabeant. aa,.:j) mi Ha.t.gMUlCi fsklJlli l"v'i fcwnq..4,..V«m .t {}.{ioli 1. :S utrori'' 1 1 ) r tluf. tvi. 11 . 5 . un. l M-k 'V' t -'iiklia^. Ohtvn.i,*!* i!,» lRttift j 1? ' m. .j.j.il r.cvt .1 r4 .1 a» c ii t.ojSjva nm.iinhijjafc. Btiftt remtr.il buUma ttiu^ bi' iV.  min vituentCe fiuniftionecs UDt inirn^» marica Mntehumorem abfumert.dicatur. BnOoniidoaw» rf.u. bkrAt^natnitii\«i>.tthtij . t .1 Sei.t e«10»rilrurfvht 1 ? 9* i >v fp wuiMe''•{! a.l8-t. aavttt '»wj.iW'i'i :.!.wtvers qiRt . J.vrf>u.*-c tiVa humorem \ .s-u.-ue. K.,i .1 i/.XIA'VtrQ\i,' "i'l 9\a.1r’.av.iii.pi iA.ivr1 As.ftla,i),at;yi juajm.ih. i1riumdicaviipfuiacunfuaitre Yalcat.0^.1^AwimtarUiAnti«naV.v,?y..«ri*a:Trium Cupidinum; Voluptuofum tyranni demin Animæ facultas, concupiscibilisvtin anima vin Amotescur Alatifingantur. Cur Amores Nudifingantur. De Amoristergemini pulchritudine. Amor curnoncæcus inSchemate fidus. sa, gercnsincacumine volucrem, et caueam De fructuarborissapientiæ, nostroinSchema Inter.viros altafapientiaprestantes, efequi nonvocedocerefintapts, fedtantum, Schema Gemme. Sapientium,sciendi cupidos edocere valentium, tresesseclasses.Coruicumviro fapientiæ scriptore detegitur analogia. Schematis Amorumtrium explicatio Medica. Devolumine Mufices, invnguibus Coruimy ab Alciato, consideracur. Schema Gemma. Explicatio viri eruditi de Amore nocturnas Amoris origo mirabilis; a Platone polica,de Defrondibus Aoribus hwnanæsapientiæ. claratur. Amor voluptuolus veergabellicum, et litera Amor fapiêtiæcúrnuduse fictus. Decer gemina significatione ftellæ prælucen. Amor sapientiæ curalatus, et quænam finteius cisin Schemate poni caput viripsallentis. Alæ. Quomodo fapientiæsymbolumsitarboranno Amoris Emblemanoftroperfimile,propofitum voce tantumodo docere valeant. Schema primç Gemma. De arboris in Schemate piata coinparatione 16 busomnibus, modo fcriptis. geminos Amoresprobaspassomexercere, çatirascibilem, et rationalem, Amor cur a veteribus Diuinitatc donatus, Explicatio Schematis ab incerto propolica consideratur. Yeiundas. Depriscis Anularium Gemmarum Sche maribus cxplicandis. Amor sapientiæcur, præteralas,adhibearetiam brachiamanusque geminas, quibusfuniculo riuin impcriolam tyrannidem exerceat. Sapientiam apprehendi ab Animo Doctrinę Humanus animus crga sapientiam cur se habeat sermone vocali discendi cupidos crudi. ente :primumque de biformis inferoa parte fticicanentis, repræsentat (1.. Inter viros dostos inueniri, qui non fcriptis Amor sapientiæ cureffictusingemma puellus Supremamonftriparshunana declaratur. Vt Amor pusio,corporepusilo imocens, arq;moribusfimplex gallum referente. Pientia comparatur. ad arborem scientiæ boni et malı, dudum a De fru&u arboris scientiæ boni et mali, primæ uæ in Paradiso cantilenas ad amicam personante perpen duplicisecollarinaltum. Responsio de Veterum Gemmarum ex- Demagnoconatu, ingentiquelabore, quofa plicationcadcunda. Amoris differentiæ tres cxplicatæ. Cur Amores ætate pueri fingantur a veteri sedulalectione, acintenta Aufcultatione. Schema Gemme. ditur. Propria proponitur explicatiode viro fapien. Amor fapientiæ curingem mafi Ausefteffigie DeBarbito, seulyradigitishumanispulfara pusionis,acinfantis. Deo in Paradiso creatam . cedelincatæ.  Pror Proposito Schemati comparauraliud Fabij Septentiam Viricl. hocsensusunprám, nocon cundiatoris, exterminatione confiftere, Schema Gemmę. uenire Schematis imaginibus, oftendirur. Propria Schematis explicatio prior eft, de Amico veromọitain Amaci et defunctime. De Armış offendentibus, Heroico Amoribel licodatis in Schema re. De Cun&ationebellicaper Amoremftantem Proponiturexpofitiopropriadeamorę Ca. indicata, tofis: cap.xlvi. postulan. Amicum verum inaduerfitate dignofces, cile fót: vél Tetbydis, aut Veneris Amores:vel Ægyptusludens ditur. Prima cxplicatio noftra moralis, de formola Peleum, velVencris ad Anchisen delatione, formofitas, do oscaffo, Şecunda Schematis explicatio, de Amico Pulchra mulier, permarevitavagarsadare De Amoris bel lici clypeo hieroglyphicum, Cur Amor istebellicus Pedes,non Equesef, Super incrementa Nili. Amici de funéti memoria femper in corde confer. raptaproponitur, &adhistoricamfidemrc digitur, Amoris bellici, ro, qui dignoscitur in aduersa fortuna, Schema Gemma, exarmati, pendicur. indignacionem.cap.liv. Coniugalis Amor armis offendentibus expolia. Proprja sententiaproponitur,quæ’est,obocu losooni Schemate noftro proprietares Amoris irascibilis, fiuemilitaris: primumque de Schema . Gemme. Index Titulorum, De Amoris bellicivultufæuo, seuero, actan. Explicatio Schematisacl.Viropropolita, de cumnontoruo,minaçique. De propria significatione Galeæ incapito dicitiam Matriş-familias. Schema Gemm &. De Amore civili, qui vocatur Amicitia, vt a tri muliere,quæ nimium extra domum vagans ad arbitrium,vel eft,vel euadit impudica, yanda;& Amantem non redamatum,indi-  Propria explicatio Gemmæ proponitur, de gnabundum extinguerequam affectionem, Schema Gemmx . Triconepulchram Nympham marinam yo, Aliena Viri cl.explicatio,de Amore monftran lentematq; lubentemcomplecterte, perqs maria ferentc. redamato, syum Amorem extinguente per Amorem Heroi cummilitiamagisin conferuatio Secundus eruditi viri sensus explicatur, et ne Ducis, et Exercitus oportune celeris, et cunctantis, quaminhoftium expenditur, moriam eonseruante, Opinio, dicenshocese hieroglyphicum Amo Secunda Şchematis explicatio, de Amantenon ris concupiscibilis per visam negociofam corpore milicis generatim. De Amoris belli ciceleritace, perAlaşindica- CupidineindigneferenteSibifpiculanegari a Venere,proponitur et expenditur, filius in Schemate noftræ Gemmulæ, IN SchemąGemma Smithi anaexplicatiode Nereideper falum Amicus vs que ad Aram Amico illicila busantea declaratis, Concupiscibili, Ra. Secunda explication fabulofa, vel Tethydisadrionali, et irascibili contradistinguitur. Opinio ponons hoc esse symbolum Amorisvo- Terrinexplicatio physicade Ægyprolafciui luptuosi, expenditur, entesuperincrementa Nilio Rapina puellas dealiasrespulchras exponit Propria declaratio prima de Amico vsque ad Aras., cap.xlviii. Fur et pudica Maire- familias. piugali,exarmatospiculisoffensjonisperpu bitrium, velimpudicaeft, velimpudicafa. equo marinoveda, proponitur, et cxpene Sententia virieruditide puella vere a Tritong tccun&ashumanasr esessevanas, proponi- Secunda cxplicatio,deTijroneraptāpuellam tur, et explicatur primosensu noftratélubvndasasportāte, Tertia Capicum Operis. Tertia moralis eft explicatio, depiratis,acpræ- Deoratione Mentalisubhieroglyphiconudæ mortali. Propria Schematisexplicatio, declarans spe tem et  faciem interga versa in,cumligneum scipionem. cDe forma templi Delphici in Schemate. De consulentis Delphicum oraculum baculo, Mundi Systema, partesquevniuerfuminte. grantes, explicantur. ASTV'S DEV DITVR ASTV. In cogniti viri explicatio indicata ex senis datotibus, aliisquemaritimaclasserapienti- mulierisgenuflexæ,sedentis, et vicumque busresalicnas. Sententia C l . viri, de primo quadrigarum inuentore proponitur ac expenditur. Oraculorum Diuinorum propriumest, homini, deEricthonioaPallade, ceu filiofpurio, et tanquam presentes. Schema Gemma. De Papauere, simulachrosomni,aquoprima De rupe templo Delphico subiect:.  Propria fententia proponitur primumquecal sumitexordia et  inquodimidiumsuædura giliapatratarum, perenneinin conftantiam. Proprialententiaproponitur, et confirmatur, impuro proicãobus euentus futuros demonftrare Schema Gemme. Aliena declaratioproponitur,& explicatur. ciarim arborem in lacus propeod ntem,& hominis cõsulentisoraculum cumpailijpar De Papilionc, significante breuitatem humanæ vitæ. De Simulachro in templo Delphico. De Canopo, Deo Aepytiorum, superante Iouis figura vesitaptum Terræ hieroglyphicũ. OratioVocalisatque Mentalisvnacon pirantes Pallas nuda ve fignct ignis Elementun . Deum flectunt,ob efficaciterexorant. Schema xiv, Gemma. De Mercurij ligno, Elementum Aeris repræ de Detribus orandi modis antiquis: ftatario,ad Beneficij, velabrutisaccepsi,Deumefegratum remuneratorem geniculato et sedentario.  decoreftantis, ambabusmanibus Deocor offerentis. Deque antiquo more tenendi Pallijmotus in terga declaratur. Explicatio noftrade Mundi Syftemate,parti tumAquæ.cap.xci. uariælymbolummedium explicaturdevita Dc Rota,lignantehumanarum actionum, invi. Schema Genoma. Tionis habet humana vita. De Vrna sepulchrali, ad quam terminantur a&iones omnes humanæ vitæ mortalis. Schema Gemme. Deum Chaldæorum Ignem, viâorem omnium aliorum Numinum Gentilitatis. buiqueintegrantibus, proponitur; primum que Zodiaci declaratur imago, pro toto Cælo.D e oraçione Mentali vereres profanos egisse. Facici mira versio in tergus explicata. Schema Gemma, corroboratur. Voca- De Nepturo, repræsentantetotum Elemen D e viribus et proprietatibus orationis  lis, atque Mentalis, Deo Accendo p orrigen . sentante, Poeta HEROV M FILII NOX £ . autoribus proponitur et Humana vita eft morsvndique miserysobfella. expenditur. De oratione Vocali, fignata per mulieremic. miamittam, quædexteralacinian tenet,fini- Schema Gemma, Explicatio Viri Cl. re&taproponitur, et latius ftraserpentem porrigit. Aras ab orantibus. Poetabonus, ad Lgraincanerenescius: vel  Propria Schemaris explicatio proponitur, de canere nescio.  Secunda Schematis explicatio depromitur ex pium natura generica, Proserpinæ Schema Schema Gemm &.  ponendis apre facilequedislidijstum ánimo rum dilceptantium, tum corporca violen:. Noftra explicatiode Ducisexercituumeripli- Sacrilegus Brenus ad Altaresempli Delphici ciproprietate. Tertia declaratio nultra de Amoris genitabilis fcibilis et Rationalis, explicari Schemare. Produnturin Schemate. mortem fibi metipfi sponte conscisceredebuis, Auroranettens Atheraterris,prouchit oria diem . Schema Gemma. Aurora diejnuncia, celeriterorbem terrarum circuit. cap.ciij. tiabelligerantur, setranfuerberat. absolute, frustra laboráns. Hesiodo poeta bono carmita sua ad lyram  adagio veçusto de viro fruftra laborante. PRINCIPATVS ANIMALIVM, Ducis exercituum proprietates: Amorisgenitalisimperiosapotestas, G Amoris tres differentia, Elementa vitalia. imperiosapotestate.  vel Ampli il regna benegubernantur, Explicatio viri Cl. de Principatu animalium. altronomo Lunæ, liderumque seruante, phasesob- De Ajace semetipsum interficiente, gladiodu dum ab He&ore sibi donato terramcum Plutoneraptoremanente,totie dem supracerráapudmatremdegente,my. Num Sahemapossitintelligi.dam fra&tam supplente,affertur,& expen ditur, Schema Gemma. De Cererisfilia Proserpina,sexmenses intra Amoris tresdifferentias,Irascibilis,Concupi Elementa viuentium fcracia,& altricia, terna Anonymisententiade Decio proponitur et  cxpenditur,obferuatoris hieroglyphicum. Schema Gemme, numpoflicimago Schematis interprecari.Explicatio fabulosa, seu poetica viri do &i de Schema Gemme. De Mercurio Canicipite, Regnum Acgyptium optimegubernante, Schema Gemench. De viribus Sapientiæ, ac Eloquentiæincom. Ajaxfurens, ob Achillis armfaibi negata, Schema Gemma. De Catone Veicense, semetipfum cõfodiente, Proponitur explicatio propria,de Brenno, Proditoremnunquamplacereviroforti, etiam cui sot vtilis prodirio nesati hoftis, Schema Gemm. Explicatiovirido &ideCicada, citharæchor Pulchra fæcunditas, a terracalore rapta, fex menfeslater intra terra viscera, totidem. que fupra terram in aere degit, C. Sapientia, don Eloquentia litigantes, atque pugnantesanimos apsefaciley, componit. Aftrorum Lunariummotuum et phasium Endymione a Diana ad amato. Propria Schematis explicari o proponitur d e Gallorum Duce facrilego, qui semetipsum confecerit ad Aram Apollinis in templo Index Titulorum, thologia cómunis explicata. Propria explicatio de vegetabilium, feu stir te, fabulisquerepræsentata, Sapientia, et fortitudine,fagaciqueprudentia De Bruto, separiter pugione confodiente, Delphico Schema Gemme. De off Au Cæsaris accipientis caput Pompeij Magni a proditore, qui virum interfecerat,  Schema Gemma. Larma. fiueperfona Dramaticum Poctamoftendit. Sue prijci sacrificabantvbigfingulisfere Dijs vitaprecellentibus, ta vetusta.  AftNo . Schema Gemma, Schema Gemma. Virtute fortunamsuperari. Dc Qliadrigain Anulosignatorio PlinijSca cundilunioris,& Rana fignatoria Mecæna eis. cap.cxiv. tasmaximoperedecet. Schema Gemme. cultatibusin columem. Martiales virimulierumraptor esprimi, par: Centauri cuerentis, et fagitcantis tergeminum novelfatuplenum, et excrinsecusoleolisi. Generofasindoles educaridebereab Heroibus ujoueperundum. Lætarin eminemo porterefraude; quum et ipse consimili capi valeat. cPropriæ fententiæ declaratio, devitæconcemAmpli Dominij splendor non ofuseatsidera viro Virumingenio, probitate, fortitudineque polen? thiuminbono Principe, Magnoque Mini, Stro,quem taciturnitas atque celeri. sememergeredefawienrisfortunediffi Gerimis Anulorum insculpiconsucuisse vultus gemina, fugax, dprocax, mysticerepre. Jenialacalefti Sagittario. Insignium virorum, adillorummemoriam, cultum, et imitationem. De Hominisin Alinumtransformationeper maleficā libidine abutentem myfteriumexplicatur,primumquedeScr monishumanidifferentia,& velocitace. Veterumsaltatio Iudicrasupervtresplenos, et extrinfecusvnitosexplicaia. Eodem Hieroglyphico denotari humanæ vitæ naturam fugacem, geminaquc differentia De vererum ludicra (alcationesuper vtrem vi. Schema Gemms. Personam non attribui PoetæLyrico,vel Epi- Chiron Centaurus, vtviruina&uofæfimul& contemplatiuæ vitæperitumindicet adomnia:jeaprecipue Veneriadpuritatem coniugý; dfæcunduarem prolisinNuprijs. Schema Gemma. Furum ex rapto viuentium antiquitus condi Schema Genome, De SacrificioSuisapudantiquos. Fraudulenti pari fraudecapiuniør: do Vitecontemplatricisverumacgenuinum hieroglyphicum. Schema Gemma. Gandium& Mæror viciffomfibifuccedunt. Schema Gemme. Anonymi sententia perpendicur de Psyche Pyralidisalasbabente, ansit Animesymbo fomquediffamati. Humani Sermonis ; do bumana vite natura in actuos apariter et incontemplatrice Schema Gemmt. Furacisrapacitatistypus,& inftrumen. Virorum infignium imagines Anulis in sculpifo: litas,adeorum memoriam, culium, Mulierumraptoresprimos,& paffim fuissevi ros bellicolos. imitationem. Libidinis atque Magia prauapoteftasingens, Schema Gemma, virtutis, et vitijdistinctam,maximeque libi. dinosam. Cole delle proprium symbolum Dramatici. aprum cducaregenerosa indolis adolcicencs. De Marlya geminatæ tibiæinucntorc fabula menio latjusexplicato. Schema Gemme. Schema Gemma. tionesexplicatæ. lum absolute. Platricisintimis attributis. Atuosa vita prima species Bigisinludorum Alia Panos explicatio devniuerfo proponitur. Circensium Schemare currentibus hieroglyphice interpretata. Aftuofa vita secunda species, Moralis&Actiua lufta Zelotypamulieris indignatio, familjemaeft: nuncupata, Quadrigarum fpectaculomy. ftice representata. Schema Gemme de Equo Troianoproposita,&expensa: Propria Schematis explicatio primumque Darctis Phrygij deNaturalicu narratio. piditatesciendi. Virorum Heroica virtute preftantium vultus Potentiorum præde opulenti: Telluris occupatio apud antiquos merorieac imitationis ergo Dilly's Cretensis Ephemeridum inuentio communis receptio. veterum, Achillisi mago qualis, et curin Schemace. vltionem, Bigarum cursus in stadio ve indicet Artificum vitam effe&ricem. comprehendere fatagientis. Responsio LICETI denneac formasuisymboli Schema Gemmik. Sophiftaperimitindocius, adoctisinterficitur in literario mundo. Quadrigarum cursu signariviram Adiuam, Naturalis cupido sciendiqu. erielatentesrerum præcipueque Milicarem. que Aduerfus hoftesinbelloiusto,dolis Schema Gemma, expenduntur. cap.cxli. paratur, ac de singulis tribus censura pro mulgatur. interitus, Schema xlvij. Gemma. pafjem effigiatos. haberi. a fortioribus: Agraria Legis occafio, do ego Amicitia cogens ad iustam PerfeisimulacrocurfignaueritAlexander, cur vsiveteresin Numis. Multiplexænigmatis explicatio: et primade potentioribus diripientibus aliorum opes. De Anulis, quos adsignandum habebat Magnus Alexander. Secunda Schematis explicatio nostra est,de robustioribus,terræ dominium, acpofsef Panos Hieroglyphica, deSermone,deque Vniuerfo declarata. Tertia explicatio politica noftra Schematis, de terræ distributionem ilitibusvi&toribus, per Schema Gemma Platonica Panos explicatio, de conditionibus, Legem Agrariam, affertur. Quarta Schematis explicatio noftrae ftphysi. Auctarium. Schema Gemima. ca, de typo Agriculturæ. Hostium donfau fpecta fempereffedebere.nam. Poetarum et historicorum communisopinio, Veriores fententiæ deSphinge proponuntur exalijs,cap.cxlij. Tertia sententia PLINIO, Pausaniæque de Troia Equo proponitur, et allatisanteacom Arcana Numinis, et edifta Principumnonime telligentem, acnonobferuantemmanet Schemaxlij. Gemme. vis: Agriculturetypus: Ægyptus: Schema xlvii. Gemma, et PROPIA NATURA SERMONIS HUMANI proponitur. QuintanoftriSchematis explicacio, de regione fionem fibi occupantibus. licerarij. inuentis ingenia macerat. Schema Gemme. aqueacviribusvtendum . Aliorum opiniones de Sphingereferuntur,& Propria Schematis explicatio proponitur de Troiano Equo secundum senfa poetarum Principum,& nonintelligentesoracula. Index Titulorum, De Schemate noftri Mercurij Pana fugientem caufas, quibus inuentiscellat, non Sphinx curinterimat non obseruantesedi et a Ægypti. Postres i Poftreina Schematis explicatioest, de Amici- . Crucifixi Predicatores, Pifcatoreshominum: ciæ, ad vindictam injuriarum cxcrcitum. co. Chiorumantiquain Homerum obseruanti apu Explicatio prima Smethiæ Gemmæ de Crucie c Explicatio primæ Gemmæ Rhodianæ, rife, Propria Schematis explicario de Mula Thalia rentis obseruatores cæleftium luminumn proponitur et comprobatur. Curanti quis acerdotes offerrentali quando la Secunda explicatio Gemmæ, dehomineforcu crificia Numinisedentes, licibello Cælaris Augusti nata, Belisarja. Afferturgenuina declaratio Numi Comitis11 Comica lafcime gaudet fermone Thalia: vel Sccunda nostra Schematis affertur explicatio dia gentium comparari. Salute patratum natomarehumanævitænauigante ventose chariftie Sacramento.Schema Gemme. ad veritatis imaginem. Felicishominis,feu formuaritypus, Nawigans cum ventis in V'tre conclufis. culo. gentis, hieroglyphico, c UniuersalisIudicijtypus: Mirabileconuiuium in Deserto; Viros fapientes publicismonumentisefe colendos Schema. Numifmatis, Schemą liv, Gemm. De Smithiana gemma.cap.clxii, Animo pacato sacrificandum et fupplicandum, Fructuum atque frugum vbertatem concors Schema Gemma. Concordia, et fidedata, feruataquçmirificam Miles atrocibella fuper ftes in ærum nofam incidit inopiam fæpiffime duobus piscibus mirifice, Quarta explication Gemmæ, de Sacrofan&oEu Schema Gemma. cundoadarbitrium,fincracionis guberna blica.cli, Comparantur Numismati de-Lazara duo ali Numiab Augustino propositi. rá curba in deserto quinque panibus et explication viri eruditi de Venere, loco, et Cupidi neproponitur, cap.clv. Schema Gemma, De Amore fơecundante criainferaelementa. apud homines promoucri bonorum ome niumybercarem, Schemalvý, Gemma Belisarij et Horatij [ORAZIO] poetæ paupertas, exinfc Fortiondinis audar facinus, pro patrie næ calamitatisfere çoinpar exprimitur. Digreffiode Cicuræ medicamentis, &veneno. Mutij Sczuolæ Romani grande facinus et inli- Responsio deCicutæviribus: et pri mum, cus non habeat vim ex purgandi cor et eucharistia symbolum. Fixi prædicatoribus hominum piscatoribus. Schema Gemmila luftriss, loannisde Lazara, De sepulchrorum differentiis et Homericu. Secunda explicatio Gemmæ, finale iudiciuin mulo, cap,cliii. Poeta Comici, Lyrici uelafciuiori sactus, Gemma celestium obferuationivacandum animo curis vacuo, quies centeque corporeprorsus Expendunturalları Schematis imagines, & sensaViricl.cap.clvi, Aftronomio blernaca, et Aftrologiludicia, vc exarretieridebcant.cap.clxvii. myftice referentis.Tertia explication Gemmæ, desaturatainnume de Poerafcu Comico, feulyricolafciua fupidoMaria,Terras doAeremfæcundans: carmina pangente, cap.clviii, gnis erga Patriam Pictas atquc fortitudo detegiturinGemma cap.clxi.  pora çiçuræplanta: deque duplici genere Cicutarum, Sale. beat molliendi. etiamproba, plerumque multum nocet sibi, dum viro coniugi, Cupido au olans a Psyche fibi non morigera, Amaritudomunuscælitus datumhumanænaty. Ra ad procreandas multasbonasactiones. Schema lix. Gemma. Quatuor Nouissimorum explicatio in gemma de mortis memoria, per anulum schematis De secundonouiffimo, quodeftludicium Dei poftobitum hominum, perperdentis corum post ludicium luendis a vita de f u n et is per perenni poft obitum, aut purgationem in cælis possidenda, per Stellam, lunam et cicadam hieroglyphice signata. Per oratio totius Operis,Caputvlcim  n quo agitur de Monftris generatim. CJ Onflri varia ftgnijicatio 5 (02 propria efi, ac noflri inflituti^. deteoitHr, Monjlri etymologia vulgaris, quaft res eventnras monjiret^confiitatidr; vem (^ propria proponttur» DeMonjlroriim Hnmanorum reali existentia, Realts extftentta Monjlrornm irrationalium naturam non eoredientium patefit, OBenditur in fiirpibus etiam revera MonBra contingere, De Mon''hor Hmcauffis generatim ijtiot ^qu^ecjue fint, Monflrorum caujfa Hnalis generatim (jtiQtupLex^qucec^He fit. DeMonflrorumcattffaformaligeneratim, quotuplex quaquefit, De Moniirorum caufia ejfetirice generatim, quotaplex, qu& quefit De MonflrorHm caiifia effeflrice generatimtquotuple Xiqucequefit, Propria Alonfiriffeneratim accepti definitio investigator. Inventa Monfiri definitioexplicatur.CMonfridivifioin fuas fpeciesfupremasmtiltiplexaffertur, fedaptior eltgitur In quo fpeciatim agitur de Monftris tjumanis.Attexensdi6iisdicenda^&dkendorumordinempromulgans.ORige canjfd Mon^f OYPimh manorumcomm Hmsqti<e^ &quotwplexejfe valeat. Monftrorum in humana f^ecie mutilorum realis exiftentia ex Uifloricis elicitur, Origo, ( prima caujfa monBri uniformis mutili educitur ex propria materits defeu. Secunda caujjfa^ C=f orfgo MonHri mutili oHenditurejfe ex dehilitate, ac defe^uvirtutis formatricis, Tertia causa, ( origo MonBrimutilijlatuiturinangufiiauteri, acloci f(stum continentis, uarta mutili Monjlricaujfa^(origoadmateriaineptitudinem redigitUY. Quinta Mon(iri mutiLicaujja^ (£ origo eft ex parente itidem trunco. Sexta causa 3 origo Monflri mutili admorhumfoetus attinere dicitur, Monflra muttlaex imaginationis parentum viexoririnonpojfc Monjiri uniformis excedentis redis exifientia ex hiHoricis item compro- batur, (tajia, Monjiriexcedentisnatura, G?caujfa. prima elicitor ex parentum phan- Secunda causa, (^ origo Monjlri excedentis in materics nimio excejfu ejje perhibetur. Non omnia A^fonjlra excedentia ex materi^srednndantia ex oririiJed aliquaexcedeniiumfuicaajfamtertio locoin una materiae penuria obtinere. ^jiarta canfa, (^ oriuo Monjlri excedentis infk perfcetattone collocatur, .^inta caujja, origo Monjlri excedentis rejolvitur in iteratam ejfu^ Jionem maternifeminis in uterum citrafispeYfQ^tattonem. Sextacauffa, £? origo Monjtri excedemis pertinet ad anguHiam uteri Septima caujfi, c^ origo Adonftri excedentis ex parentibus monjirofts elicitur. OUava origo, ^ caujfa Monftri excedentis in vitio nutricationis confiftcre perhibetur„ Nona ratto, (^ canfja Monftri excedentis monftratnr in animipajfionibus parentes aJJicientibHS : ex^rciiatio cum Cavdano, (^ Parxo., Decima causa origo MonjiriexcedentisinviolentafKaternicorpo^ ns concnljione reponimr, .U/idecimacmjpi, ^origo Mon riexcedentisrefertnradmorhnm fœtus, Monjlrorum ancipitis natur^efHbfillentia realis demonflratnr,  Jldonftrianctpitisorigo, Causa. Communis injtntiaturj ermturque prima. ex ?nateriet diverfce dcfe^H, ac excejja. Secmda Alondrfancipitisorigo, caujjaextiteriangufiia, (de" feSiu virtuttsformatricis explicatur Tertia Monjtnancipitis origo, cau^ainmorhofmtm, ^ffiperfce' tatiom deteqitur^ ^iarta Mon^ri ancipitis origo, caujsa refertur in materi<e ineptitudinem, iteratammaterntjeminis, (fanguinisejjluxtoftemaduterum, citra fiper fostationsm, intaMonjlriancipitisorigo, causa de promitur ex parentum corpore Monjlrojb. Sexta Monjlriancipitisorigoy Ccaujfaex vehemenii parentum imaginationei vitio nutricationis in faetu enucleator Mofiflri ancipitis origo, Cscaujja feptima reponitur in arte, peccata JSfatura imitante, ac nonfine ai^ilio Naturiz operante. Mon^ridijformisexi Bentiaexhi Horicispromalgatur. De Monjlri dijformis natura, caujfis; primaque illius origo refoU vitur in malam uteri conformationem Secunda Monjlridijformisorigo, &caujfaJpe5lat ad malumjitum placenta nuncupatas: cujus ufns explicatur, Tertia dijformisMonfhicaujfa, (^origoexmoladepromitur. arta Monjiridiffhrmisorigo, (canjfaofienditurexmotu,  inta Monjlri dijformis origOj (caujfa flatuitur imhecillitas fa- cuttatis difcretricis, yi. Sexta origo, (caujfa Monjiri dijformis ad nimiam materiie vifet- ditatem rediaitur, f^lI. Monflra informia, dehitam memhrorum figuram non retinentia reipfa inveniri. Cde Ad onflrovuminformiumorigine,&caujfa; qu^primlmde ducitur ex imbecillitatefacultatis formatricis. Secunda Monfirtinformisorigo, (^caujfj,exanguliiautericolli" gitur.  Tertia informium monfirorum caujfa, (origo in motu inordinato repO nltur„. arta informis Monflri origoi caufpi d(?prmiturifi mola (fLicema, tumore utm^concuTYmie virtHtisform^trkn imhcilliime, acmatem tertceweptimdifie,inta informis Monflri orlgo j ($' C(^0jj4 ex imMgimtio^e parmtum vehementiexi^ltcatHr» Cap, Sexiatn formis Monftricauffa origo innsonflrofo parentedete* gttMY, Septimainformis Monjlriorig QcaajfnrefertmadmenflrmYHm fliixum tempore conceptus, Monjirienormisexi Hentiapatefit, Monjlra enormia et omnino monfira mn ejfe infantcs candidos e fareKtibus JEihioipibws ortos necviciffm iEthiopum moremgros e cmdidis: (^decolore Aadromeds.  Monflri enormis origo, caujfa prima ejje in imaginatione paren» tHmperhibetur: ^miiltadeaureocri^re Pythagorse confiderantHr, Secunda Monfirienormisaureofemorecaujfa, origo reponitur tn exhalationeigneadecorporeviveniis efliMente, Tertia Monfirie normisameofemore caufia, origorefblvitHYin morbum regium, ana Monfiri enormiter pilofi caujfa i (origo ex craffitiei (fuligi num copia extruditptr; ubiplura de cordepilofo Ariftomenis, inta Manflri enormiterpilofi origo, causa ex parentepariterpih» Jo petenda eft. Sexta Monflri enormiter Upi defcentis origo et causa ex intempefiei tic materiae ineptttudine dedudtur Mon^rimuiltt formtsineademfpeciefnbf Mentiapatefit; ubidecapi-'le ytrtli mulieris corpori ajfixo de Hermapbrodttts mira quadam explaviantur. Monfirimultiformisin eadem fpecie^muUerisnempevirite caput habenits origo, ej" cauffa prima ex hetero^e»ea feminis natura educitur j  defemi» nis' Vulgo tnwiafculosmutatts; Qfdemn fculisefieminatis, Secund.canfia ejufdem moftlhi multiformis ( ori<To excutitur ex de jtdu fminis m^fcpilei Tenia Monjiri multiformis in eadsmfpecie origo (£ cauJfarefertHf i,id pdrentumimairin Mionem..t^ariuorigo, (^cauffaMonfirimuliiformisin eademfpecieadpa rent^s conjimilem natnram attinef, monfira mnltiformia ^diverfas animulium species in ecdem genere proxmoreferemta fnonefie figmsnta ^jed in rernmnatura reperiri J^donjlYt midti formis diverfas animali Hmfpecies in eodem geneYepYO^ ximo referentiSy canjfa c origo frima depromitur ex apparentia. Secunda causa, G? origo Jkfanflri, mtiltiplicis fpeciei animalia referen' tts, ex imbecillitate generantis pendere demon(lrattir,  Tertia canjfa, Cs* origo Adonflri multiformi animalium fpecie elicitur ex deirenerata fsminis anima in nattiram alienam.arta Aionflri mnltiformis varias animaliam species referentis origo causa ermtm ex materialifostus principio, jtinta Monflri lotimani hrntalem effigiem habentis orioo scattjfa ex virtnt is alentis vitio elicitptr, Ssxta hominis monflroseferinaspartes habentisoritroj caujfain altmentaris materiis vitio reperitar, Septimacanjfa,(^origo Monflrihitmaniferinam effigiem habentisex morboelicitur. O avacauffa, origo Monflrihnmaniybrtitorumejfl gieminmem' bris habentiSfjx imaginatione parentum defttmitHr Nona caufja, corigo Alonflri varias animalitim effigies habentis agnofcitnr ex parentzbfis monflrofs, Decima causa origo Monflri partes habentisbrtitorum membra (hnmana referentes, explicatur exfeminum miHione, ac nefaria venere. Dttbitafiones propofltam theoriam. urgentes diluuntur (prima edn a ex ARISTOTELE, alicubi n^gante monjlrtim fieri ex animalibus diverfs fpeciei. AlteradubitatiQ Maniliana, G Lucretiana diluitur, negans qtiiA ejfe nobis commune cum feris, plantis ad invicem {nam Caftronianam ver^ bistemer efttffttltam, non autemrationibusinnixam, latedif cujfimusinopett de Feriis Aitricis Anim3?, difputat. Tertia dubitatio viri eximii negantis ex variis fpeciebus poffe ejuid uni tantum parenti congeneum nafci. Exercitatio cum acutiffimo Delrio. Di in le magis explicatur origo humani monflri ex fera nafcentis,Vndecima causa et origo Monfiri y varics speciei anirmliumi partes habentis, ex cacodamonis opera elicitur, Monflra muhiformia fuijfe conflruUa ex partibus referentibus animantia diversl generis, Monflrihttmani membravHiorumanimalium habentis origo caujfa prima in apparentiam refertur.  Secunda Monfira diverp generis origo S cauffa ex imbeciUitatsj vtrtutis generamis colligitur. Tertia Monflridmffigemi origo, emffain Milifate fcrma- tricis repomtnr artacmujfa c origo Monflrimnln gemie cimbecillitatcviv tmisfeparatricis dedHcttm. inta causa,  erigo Monflri multigenei referturad femims degeneranoncm. Sexta caujfa Monflri poligenii materice ineptitudo ejfe offenditur. Septima causa origo Monflri multigeneidejumitur ex debilitate virtmis alentisfoetum,  Octava causa origo Monflri diverft genii ex inepto partium alimento educitur,  Nona cauffa, origo Monflri multigenii ex morbofostus adducitur, Decima caujfa, G? origo Monflri multtgenii ex parentum imagi' natione hauritur. Vndecima cauflaj Gf origo Monflri diverft generis adparentes  mon Yofosrefertur, Duodecima causa y origo Monflripoligenii habetur infemitium permifiione, Decima tertia causa originis Medufaei tapitis in ovogallin s...Decima quarta caujfa origo Monjirimultigeniiadvim mali Diemonis refertur,  Monftricacodamonis origo explicatur ex causis prius adducis.  Vewv&tio totius operis. Licetus. Fortunio Liceti. Liceti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liceti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Licone: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Licoforonte: all’isola -- la scuola siciliana – Roma – filosofia siciliana – scuola di Leonzio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. Leonzio, Sicilia. A pupil of GORGIA (si veda) di Leonzio. Primarily a sophist, he takes positions on philosophical matters. For example, he declares that being from a noble family is worthless in itself, as its value depends solely on the esteem in which the family is held. Licofronte. Licofronte.

 

Grice e Liguori: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura critica – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Personally, my favourite of Liguori’s metaphors is ‘the abyss of reason,’ since Speranza has elaborated on this: it’s Gide’s ‘mise-en-abyme’ no less, which breaks my principle of ‘conversational perspicuity’ – a mise-en-abyme text is just untextable!” -- Grice:  “Liguori has studied the metamorphosis of language in one of his philosophical noble ancestors!” “I like Liguori: he has the gift of the gab for metaphor: ‘i baratri della ragione,” “la fucina del filosofo,” “l’alambicco dell’anima,” “la condizione del senso” ‘il razionale dello irrazionale” o “le ragione dell’irrazionale” “le ambiguita della ragione,” “Trasimaco ha ragione” “Giustizia e carita” Ritratto. Frequenta il liceo classico dell’Istituto Massimo di Roma. Studia alla Sapienza. “Scherzi della memoria.” Si laurea con la tesi “La scesi giuridica.” Insegna a Lecce ed Ostuni. Si dedica alla storia della filosofia. Insegna a Bari, Urbino, Ferrara, Trento, Salento, Torino, Firenze, Lecce, Cassino, Napoli, e Noceto. Con “E il vero baratro della ragione umana” – cf. H. P. Grice, “Mise-en-abyme conversazionale” --  viene riconosciuto come uno studioso di Kant, Graf, LEOPARDI (si veda), e Cartesio. Tratta  Positivismo di Sergi,  Lombroso, Morselli e Vignoli; della scesi di RENSI (si veda) ponendolo in critica relazione tra LEOPARDI (si veda) e PIRANDELLO (si veda). Scrive di de' Liguori e di Benedictis, detto l'Aletino. Collabora con l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli. Tenne rapporti epistolari con GARIN, BOBBIO, Augias, Binni, Donini, Ferrarotti e Timpanaro. Fonda ad Ostuni il Circolo Culturale “Sic et Non”, cui aderiscono e collaborano note personalità della politica e della cultura quali Donini,  Fiore,  Radice, matematico e fondatore e direttore di “Riforma della scuola” e docenti delle Bari, Roma e Lecce. “Sic et Non” si impegna in complesse battaglie civili come quella per un dialogo tra marxisti e cattolici, ed altre incombenti questioni sociali come la campagna per il divorzio. Stringe intese, oltre che con moti uomini politici e studiosi di chiara fama, con il gruppo dei cattolici del Gallo di Genova e coi fiorentini seguaci di Giorgio La Pira, i quali si riunivano intorno alla rivista “Testimonianze” diretta da Balducci e Zolo, nonché con i ragazzi della Scuola di Barbiana, diretta da Don Lorenzo Milani. Manifesto editoriale del "Sic et Non" è la rivista Presenza, da lui diretta, che testimonia questa attività politica allora pionieristica per una piccola provincia del Sud Italia. I sette numeri pubblicati della rivista Presenza, e altra documentazione di tale impegno politico, sono attualmente depositati presso la Biblioteca di Ostuni intitolata a Trinchera e comunque ampiamente documentati nell'unico saggio autobiografico dello stesso autore.  Critica e commenti sull'opera di L. Carteggio con illustri studiosi Bobbio: Il saggio mi pare di grande interesse, per l’ampiezza e la serietà della ricerca su un tema, se non sbaglio, mai scandagliato a fondo, eppure importante nell'ambito più vasto della storia della filosofia positiva, della critica letteraria e della cultura torinese (argomento a me particolarmente caro). Sono convinto che si tratta di un lavoro di prim'ordine, che rende giustizia a uno studioso e a uno scrittore (e poeta) che è stato sì, ricordato più volte dai suoi discepoli, ma è stato poi dimenticato dagli storici. Credo che questo libro sia un effettivo contributo alla migliore di quel periodo della nostra storia che la cultura idealistica aveva disdegnato: un contributo di cui soprattutto noi piemontesi dobbiamo essere grati». Sebastiano Timpanaro: «Mi sembra, e non lo dico per adulazione, ma con piena sincerità, un'opera di livello davvero eccezionalmente alto, per la caratterizzazione del protagonista e di tutto il suo ambiente, per tutto ciò che finora ignoto essa porta alla luce. E’ venuto fuori cosi un lavoro che molto di rado accade di leggere». Donini: “Mi pare, ad un primo esame, fondamentale per la conoscenza del periodo ancora poco conosciuto. Apprezzo moltissimo tale metodo di indagine e la serietà della documentazione. Uno studio di questo genere è certamente costato decenni di intensa documentazione.  Oldrini: ho letto subito il volume su Graf così ricco e con non poco profitto. Quando l’autore, in un punto se la prende con gli storici della filosofia italiana che trascurano Graf, anzi noni menzionano affatto, mi sento in colpa; e tanto più in quanto io, studioso della cultura napoletana, mi son lasciato sfuggire quei nessi di Graf con Napoli che il volume di L. illustra con tanta passione». Contorbia: “poche volte accade di fare i conti con un libro così fatto, stratificato, totalizzante; ad apertura di pagina si avverte l’impegno, il grado di coinvolgimento appassionato con cui lei ha condotto avanti negli anni una così impegnativa ricerca peculiare, quasi il centro della sua esistenza intellettuale, il punto di arrivo (e a un tempo di partenza) di un confronto che è culturale ma anche morale e politico.La qualità di un tale lavoro, mi pare, fuori dell’ordinario». Valli: «L’autore ha consegnato alla critica e alla conoscenza uno studio così complesso da poter essere considerato un esaustivo panorama della cultura del secondo Ottocento italiano e non solo italiano]». Recensioni di illustri studiosi Rossi, “L'autore… ha fatto emergere un quadro ricco e articolato dove accanto alle ombre brillano alcune luci importanti». Recensione sulla rivista «Panorama» riguardante il  di de Liguori Materialismo inquieto, edito da Laterza. Cosmacini, «Il lavoro di L. è largamente meritorio oltreché ampiamente documentato». Recensione uscita su «Il Corriere della sera» riguardante il  di L. Materialismo inquieto, edito da Laterza. Marti::Dalle appassionate e diuturne indagini dell’autore su Graf e il suo tempo è venuto fuori il ponderoso, massiccio volume, che ho ricevuto come caro e preziosissimo dono. Davvero lusinghiera la “presentazione” di un grande Maestro come Garin, e accattivante e simpatica l’”Avvertenza”. Tutto il resto è da leggere». Recensione al volume di L. su Graf, Giornale storico della letteratura italiana. Augias: «Quella di De Liguori è infatti una storia meridionale che parte da una finzione narrativa di gusto classico ma così classico da poterla ritrovare in alcuni capolavori tanto celebri che non vale nemmeno la pena di citarli. Saggi: “Trasimaco ha ragione” (La Rassegna pugliese); “Giustizia e carità” “fra filosofia e vita” Ivi “Lo scetticismo giuridico di Rensi” (Rivista di Filosofia del diritto); “Una moderna enciclopedia del sapere, Rassegna pugliese, II“Efirov e la filosofia italiana, «Problemi», “Un Leopardi anti-progressivo” (Dimensioni); In tema di materialismo comunista, Ivi, “Gioberti e la filosofia leopardiana -- momenti del conflitto tra l’ideologia cattolico borghese e la protesta leopardiana” (Problemi); “Un episodio di solitudine. Rassegna di studi su Graf,” Ivi “Leopardi e i gesuiti -- appunti per la storia della censura leopardiana, Rassegna della Letteratura italiana, Quel povero “Diavolo” di Graf, «Giornale critico della Filosofia italiana», Le «Scandalose razzie». Scienza, politica, fede in Graf Ivi, Scetticismo e religiosità in una rivista militante: «Pietre» in, La filosofia italiana attraverso le riviste, A. Verri, Micella, Lecce,  “La condizione del senso”; “Per una riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi” «La Rassegna della Lett. It.», Il mito e la storia” – “Le ragioni dell’irrazionale in Graf, «Problemi», Quella «dubitante religiosità». Graf e il modernismo, «Giornale cr. della fil. It.», Doria tra platonismo e riformismo, «GCFI», Il sodalizio Labriola-Graf negli anni della loro formazione «Studi Piemontesi»,  Un anti-cartesiano di Terra d’Otranto: Benedictis, in, Miscellanea di Storia Ligure, Genova); “Materialismo e positivism -- questioni di metodo” (Facoltà di Filosofia, Bari); “Aletino e le polemiche anti-cartesiane a Napoli” (Rivista di storia della filosofia); “L’araba fenice: ossia la filosofia nella secondaria, «Idee», “E il vero baratro della ragione umana” – “Graf e la cultura” Prefazione diGarin, Lacaita, Manduria,  “Le ambiguità della ragione” – cf. Grice: ‘the equi-vocality of ‘reason’ Grice: “Liguori has a taste for unnecessary plurals: the abysses – the ambiguities -- ” -- «Idee», “Per la storia della psico-fisica in Italia”; “Il materialismo psico-fisico e il dibattito sulle teorie parallelistiche in Italia -- Masci e Faggi «Teorie e modelli», “Di una rinnovata attenzione al materialism” (Idee); “Mito e scienza nell’antropologia e nella storiografia del positivismo italiano”; “La filosofia tra tecnica e mito, Atti del Convegno della SFI, Assisi,  Porziuncola); Dimensioni», Livorno, Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism” (Laterza Bari); “Tommasi e la filosofia zoologica di Siciliani, Rileggere Siciliani, G. Invitto e N. Paparella, Capone, LecceI Presupposti epistemologici e immagine della scienza in Morselli e Graf, Filosofia e politica a Genova nell’età del positivismo, Atti del Conv. dell’Associazione filosofica Ligure--  Cofrancesco,  Compagnia dei Librai, Genova, pMaterialismo e scienze dell’uomo; Kant e la religiosità filosofica di Martinetti, iA partire da Kant; L’eredità della “Critica della ragion pura”, A. Fabris e L. Baccelli. Introduzione di Marcucci, Angeli, Milano, Materialismo e scienze dell’uomo -- Il dibattito su scienze e filosofia, Lacaita, Manduria, La fondazione razionale della fede in Martinetti, Dimensioni, Livorno, Darwinismo e teorie dell’evoluzione nella prospettiva monistica di  Morselli, Il nucleo filosofico della scienza, Cimino, Congedo, Galatina,  L’immagine della donna nel paradigma positivistico della degenerazione, Morelli. Emancipazione e democrazia, G. Conti Odorisio, Scientif. Ital., Napoli, La cultura filosofica in Torino, Rivista di filosofia», Presupposti torinesi della singolarità filosofica di Martinetti, «Studi Piemontesi»,  E’ possibile la storia dello scetticismo?, “Segni e comprensione»”; “ filosofi delle bancarelle». Per la critica della storiografia filosofica,  «Lavoro critico»,  Il sentiero dei perplessi -- scetticismo, nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, La città del Sole, Napoli, La reazione a Cartesio in Napoli, Giovambattista De Benedictis, «GCFI», La revisione della storiografia sul mezzogiorno, «Segni e comprensione», Positivismo e letteratura. Antologia di testi, con Introd. e note, Graphis Bari, La lezione scettica di Rensi, Critica liberale,- La psicofisica in Italia,  La psicologia in Italia, a cura di Cimino e Dazzi, Led, Milano, Vignoli e la psicologia animale e comparata, Ivi, Pensatori dell’area torinese --Percorsi», Quaderni del Centro Frassati, Torino, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo leopardiano, in Biscuso e Gallo, Leopardi anti-italiano, Manifesto libri, Roma, Kant e le scienze della natura -- in margine alle lezioni kantiane di Geografia fisica, in Filosofia, Lecce, Lacaita Manduria, Cattaneo, Psicologia delle menti associate, G. de L., Riuniti, Roma, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli»,  Geymonat, Treccani. Antropologia e tassonomia in Kant. Da Blumembach a Buffon, Atti del Convegno sulla Geo-fisica kantiana, Congedo Lecce, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli»,  Cronache di filosofia del diritto in Italia. Sforza e i suoi corrispondenti, in «Quaderni di Storia dell’Torino»,  Per Mucciarelli: positivismo psicologia e storia, «Segni e comprensione», Geymonat e il “materialismo verso il basso”, GCFI, Il materialismo di Timpanaro, «Critica liberale»,  Lettere di Timpanaro a Liguori, in Il Ponte, Da Teofrasto a Stratone. L’itinerario filosofico di Leopardi, «Quaderni materialisti», Labriola e Graf -- Principio e fine di un sodalizio di vita e di pensiero, in Labriola e la sua università. Mostra documentaria per settecento anni della “Sapienza” Aracne, Roma, A. Graf, Memorie, Introduzione, commento e cura, “Gli Arsilli”, Edizioni dell’Orso, Alessandria Un catalogo per Labriola, «Critica Sociologica», Utilità dell’inutile. Dalla elaborazione concettuale alla programmazione e alla costruzione di un catalogo, «Itinerari», I Gesuiti. Le polemiche sui riti confuciani tra l’Aletino e i missionari domenicani, «Studi filosofici»,Le «imbrogliate bestemmie germaniche». Moleschott e la medicina materialistica, «Physis», La fucina del filosofo. «Segni e comprensione», Filosofia teologia e fisica di Cartesio nella Difesa della Terza lettera apologetica dell’Aletino, «Il Cannocchiale», Liguori e la filosofia del suo tempo: Spinoza, Bayle, Hobbes e Locke, Rivista di Storia della Filosofia, “Libido Sciendi”. Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento (da Magalotti a Valsecchi), GCFI, Scherzi della memoria. Mappa di un itinerario non turistico tra politica e cultura in una provincia del Sud, Prefazione di Ferrarotti; Postafazione di Cumis, Salvatore Sciascia, Medicina e filosofia in Italia tra evoluzionismo e scientismo. Da Tommasi a Morse,  «Il cannocchiale»,, L’ ”il lambicco dell’anima”. Note sul Mind body problem in Italia nell’età del positivismo, in Anima, mente e cervello. Alle origini del problema mente-corpo, P. Quintili, Unicopoli,  L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Le Monnier /Università, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, Romanzo con pefazione di C. Augias Movimedia, Lecce, Pensatori dell’area torinese tra i due secoli, in Quaderni  Noce, Marco,  Lungro di Cosenza, Ateismo e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e sul rapporto tra fede e ragione, «Il Cannocchiale», Le metamorfosi del linguaggio nella controversistica e nella pratica missionaria, Le metamorfosi dei linguaggi, Borghero e  Loretelli, Edizioni di Storia e letteratura, Roma, Dannazione e redenzione dell'Eros. Soggetti e figure dell'emarginazione: la donna come oggetto determinante nella invenzione cattolica del peccato di lussuria in «Bollettino della Società filosofica italiana»,  Le cose che non sono, in «Critica Liberale»,   Prefazione di E. Garin, Manduria (TA), Bari, Roma, Lacaita, Gemoynat Treccani, Le Carteggio privato (corrispondenza autografa) tra L. e i singoli autori citati  Rossi, Viaggio nel Positivismo, in Panorama, Arnoldo Mondadori, L., Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism, Bari, Roma, Laterza, Giorgio Cosmacini, Povero medico condannato al materialismo, in Corriere della Sera,  Marti, Recensione a I baratri della ragione  in Giornale storico della letteratura italiana, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, [Romanzo], Prefazione di Augias, Lecce, Movimedia.  Dannazione e redenzione dell’eros. Soggetti e figure dell’emarginazione: la donna come oggetto determinante nell’invenzione cattolica del “peccato” di lussuria di L. Il Cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto vario e molteplice nei modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si riproducono e a cui gli antichi avevano preposta una della maggiori fra le divinità dell’Olimpo, è, agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e turpe e la malvagità e turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura d’Adamo, essere emendate dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non altro in teoria, condizione di vita assai più pregevole e degna che non il coniugio e la continenza è virtù che va tra le maggiori. A. Graf1. L. examines the story of Eros, from ancient Greece to the age of Enlightenment, and tries to underline relevant connections with other events of thought and religious traditions as well as European popular customs. The ideological conflict with Christian ethics and Catholic church is particularly highlighted thanks to a specific textu- al analysis, particularly during 17th and 18th centuries. Keywords: Subjects and Figures of Marginalization, Woman Condi- tion, Ethics and Christianity, St. Alphonsus M. de’ Liguori. 1 A. Graf, Il Diavolo, Treves, cur. Perrone, introduzione di Firpo, Salerno, Roma. Avverto l’eventuale lettore che il saggio che segue ha natura meramente divulgativa e di mera indicazione didattica nei confronti dei docenti di discipline storico-filosofiche. Nasce dall’assemblaggio di appunti per il canovaccio di uno spettacolo tenutosi a Parma al Teatro del Vicolo, dal titolo Eros e Poesia. M’è d’obbligo infine rimandare sull’argomento che qui espongo, agli interventi di alta e corretta divulgazione, curati per Rai Educational, di Argentieri, Curi e Moravia, in Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche. Raccolta e catalogazione dei materiali Non partiamo dalla consueta e abusata presunzione ontologica; non diciamo che le cose sono, piuttosto ci limitiamo, cartesianamente, a scoprire in noi il pensiero e, col pensiero il corpo e la sua capacità di rapportarci ad altri corpi attraverso quelli che chiamiamo i sensi. Ci hanno preceduto i sensi sti: nulla è dentro la nostra mente che non ci viene fornito dai sensi. E così la fantasia, la logica, la ragione, la fede altro non sono che gli strumenti più raffinati di un corpo tra i corpi (materia) che, come l’infima creatura che emette pseudopodi, procede dal coacervato all’ameba e arriva all’uo- mo, cuspide di presunzione, anelito più che sensata pregnanza di vita.. Non lasciamoci impressionare dai prodotti di questo strumentario intellettuale: arti, religioni, presenze invisibili, futurologie improbabili, paradisi perduti o escatologici disegni, virtualità effimere come sogni, denunciate già dal fol- le di Danimarca una volta per tutte. Sono sirene lusingatrici di contro al cui canto ammaliante hanno ancora buona validità i tappi di cera nelle orecchie usati da Odisseo, navigante curioso, per escludere i suoi compagni2. Qualcuno sostiene che le cose non sono se non create. Qui noi non soste- niamo l’inesistenza delle cose: in tal caso dovremmo postulare e ammettere la trascendenza, laddove noi riteniamo l’oltre una autonoma creazione (se vogliamo mantenere il termine) del nostro pensiero. Abbiamo raggiunto (a livello di pensiero puro, non certo di pensiero soggettivo) un tale grado di evoluzione da creare dal niente, come aveva, in termini tutti romanti- ci, spiegato Fichte enunciando i tre celebri principi della sua dottrina della scienza! Ma gli sviluppi delle neuroscienze, in particolare, hanno reso sterili tali tentativi di esplicazione del reale. Idealismo e religione fanno a gara a rincorrersi nella loro foga di raggiungere la verità eterna! Meglio perciò rinchiudere i filosofi nel trittico che si sono costruiti con secolare pazienza della Metafisica, Teodicea e Ontologia. Che farnetichino in eterno sull’ori- gine dell’anima, sul rapporto col corpo e sul destino futuro della umanità. Si potrà, una volta sgombrato il terreno dalla zavorra, procedere in modo più lineare, ordinato ed onesto alla diagnosi del male di vivere: del nascere e morire. Tolta di mezzo la pretesa razionalità e la scientificità teologica (e teleologica) con la sua saccenteria, gli strumenti dei sensi come la fantasia, la fede, la ragione potranno riprendere legittimamente la loro funzione di guida o di orientamento. Se partiamo dalla nostra “condizione umana” (senza scomodare Mal- reau) vera e concreta, viene prepotente in ballo, la nostra sensualità, prima ancora che la nostra sensitività. Avvertiti da Freud, che va ascoltato con la 2 Vedi quanto scrive, Berto, L’esistenza non è logica. Dal quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma. 30  dovuta prudenza filosofica, ci accorgiamo facilmente che è l’eros la molla privilegiata delle nostre azioni o inazioni. Tanto è vero che sul terreno della storia è con l’eros che il Cristianesimo ha ingaggiato fin dalle sue prime origini la sua battaglia aperta, dagli erotici furori degli anacoreti fino ai ra- ziocinanti dogmatismi teologici dei nostri giorni. Conviene delinearne un breve profilo. Profilo storico dell’Eros in Occidente. Dal mito di Venere a Maria Vergine È proprio nel mondo romano, e in quella che gli storici designano come età tardo-antica, che si compie una storica metamorfosi della mitologia pa- gana: il suo graduale trasferimento da religione delle classi colte e dominanti a religione dei campi (pagi = pagani), della plebe rurale. Indicativo tra tutti il passaggio di Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fecondità, da un canto, a quella di Demonio, Lucifero (portatore di luce), stella del mattino, per i suoi referenti legati alla sessualità, e, dall’altro, a quella della Vergine Maria, madre di Gesù Bisogna ricordare che mentre avanza il Cristianesimo, il mito di Roma non solo permane ma, sotto mutate spoglie, cresce e si svolge fino ai nostri giorni. Perde la sua valenza politica, la sua forza sugli eventi immediati ma guadagna nell’immaginario. Entra a far parte del grande patrimonio del- la memoria collettiva. Ma in tale processo, se perde i suoi caratteri storici, obbiettivi, acquista una rinnovata immagine fantastica, rispondente alle esigenze delle masse. Soprattutto il Medioevo trasforma Roma, i suoi dei, la sua cultura in nuova mitologia sincretica, mista di elementi tradiziona- li e di apporti nuovi conferiti dalle differenti popolazioni d’Europa, attinti soprattutto alla nuova fede cristiana che diventa l’amalgama di germane- simo, usanze barbariche, romanità, orientalismi, ecc. Roma continuava ad avere un suo primato nell’immaginario o mondo incantato dei miti e delle leggende3, come l’aveva avuto in quello, storico, politico culturale e civile. Ricordiamo l’accorato rimpianto di Rutilio Namaziano Fecisti patriam diversis gentibus unam. Urbem fecisti quae prius orbis erat Nella cultura illuministica, tra Settecento e Ottocento, il mito di Roma si veste di forme neo classiche. Goethe, Winkelmann, e Byron che 3 Cfr. F. Denis, Le monde enchanté,. Cosmographie et histoire naturelle fantastiques du Moyen Âge, richiamato da Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, 2 voll., Loe- scher, Torino. Ma vedi, dello stesso, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio evo, 2 voll., Loescher, Torino  ne fa la patria ideale delle genti Oh Rome! My country! City of the soul! The orphans of th heart must turne to thee, Lon mother of dead impires! Tale trasformazione della mitologia classica, porta con sé naturalmente un radicale cambiamento della maniera di concepire l’amore e di vivere l’e- ros. L’amore tra uomo e donna acquista differenti valenze e si prepara quella teorizzazione dell’amore tutto spirituale che verrà dommatizzato e praticato per tutto il Medioevo e, nella forma più angelicata e sublime, da Dante al Petrarca, ...quel dolce di Calliope labbro che amore nudo in Grecia e nudo in Roma, d’un velo candidissimo adornando, rendeva in grembo a Venere celeste. Dilagheranno per tutta Europa fenomeni di sessuofobia completamente ignoti alla società greca e latina, quale ad es. il fenomeno dell’ascetismo. Sorgerà la figura, del tutto nuova e inconcepibile per il mondo classico, dell’anacoreta e, d’altro canto, l’immagine del peccato prenderà aspetto dia- bolico orripilante, venendo a popolare tutta una nuova mitologia di presen- ze infernali che accompagnano e turbano la vita degli uomini del Medioevo. Molte e varie le rappresentazioni tipiche della diabolicità mostruosa, frutto, in particolare, del peccato di lussuria, quali il mosaico nel Battistero di Fi- renze, opera popolaresca di Coppo di Marcovaldo che tanto impressionò Dante fanciullo, il poema predantesco di Bonvesin della Riva, Il libro delle tre scritture o il De Babilonia di Giacomino da Verona e i vari “precursori” di Dante, fino alle allucinate raffigurazioni de il Giardino delle delizie di Bosch al Museo del Prado4. Ma che accadeva? Venere, scacciata, veniva ugualmente a tentare gli sciagurati che volevano sfuggirle, quali monaci ed asceti; e, come ci ricorda sempre Graf, «invadeva le loro celle ugualmente, immagine vagheggiata e detestata a un tempo». Siamo nell’epoca delle tentazioni. Ecco l’autorevolis- sima testimonianza di San Girolamo, il grande dottore della Chiesa, autore indiscutibile della Volgata, l’edizione ufficiale della Sacra Scrittura, in una sua lettera alla vergine Eustochia: Si ricordi, Villari, Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia, «Annali delle Univ. Toscane», Pisa. Soprattutto, A. D’Ancona, I precursori di Dante, Sansoni, Firenze. Per ulteriori e dettagliati riferimenti, cfr. il mio, I baratri della ragione. Graf e la cultura del secondo Ottocento, prefazione di Garin, Lacaita, Manduria. Oh quante volte, essendo io nel deserto, in quella vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione, immaginavo d’essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima d’amarezza, vestito di turpe sacco e fatto nelle carni simile a un Etiope. Non passava giorno, senza lagrime, senza gemiti e quando mi vinceva, mio malgrado, il sonno, m’era letto la nuda terra. E quell’io, che per timor dell’inferno m’era dannato a tal vita e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di fiere, spesso m’im- maginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti. Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva di desideri e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divampavano gli incendi della libidine. E qui l’iconografia sacra ha lavorato sul santo, riempiendo di San Girolami, atteggiati in guise diverse, tele, altari, absidi, pale, trittici per tutto il medioevo e il Rinascimento. Da Dürer a Caravaggio, da Cima da Conegliano a Masolino, da Masaccio a Tiziano, dalle tentazioni di Giovanni Girolamo Savoldo al Perugino, fino alla compostezza gotico-geometrica di Antonello, ecc.Si assiste ad una evoluzione storica dell’eros, che si arricchisce, per così dire, dell’idea stessa del peccato. Simboleggiato dal frutto proibito, l’atto carnale tra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre viene stigmatizzato come peccato originale, una sorta di marchio che da quel momento in poi mac- chierà ogni creatura. Homo vulneratus est naturaliter, sanziona definitiva- mente San Paolo! Anche se la dottrina della chiesa troverà il modo di recu- perare in positivo quella ferita, quella malattia costituzionale, con il concet- to dell’agape, nel quale l’eros si diluisce in amicizia includente la mediazione del Cristo. Ma la cosa più sorprendente è che Venere, simbolo dell’amore carnale, cantata da Lucrezio, poeta epicureo, come colei che presiede alla bellezza della fecondazione sia di piante che di animali, e perciò come voluttà d’uo- mini e di dei, subisce nel corso della storia differenti e impensabili metamor- fosi. Da un canto, come quasi tutte le divinità pagane, trapassa a popolare la mitologia cristiana di nuove figure positive e negative, arrivando a iden- tificarsi dapprima con il Demonio in persona, poi con la stella portatrice di luce, (Lucifero, angelo caduto e stella del mattino); infine, fattasi mite e mise- ricordiosa, gradualmente perdendo i suoi più accesi caratteri erotici di beltà voluttuosa, assurge addirittura al ruolo di Maria Vergine, concepita senza peccato, Madre di Gesù, figlio unigenito di Dio! Siamo di fronte a un fenomeno storico noto agli storici e agli antropologi come sincretismo religioso 5 Trad. fedele di Graf da Gerolamo, Epistolae, in Patrologia latina, cur. Migne, Parigi. Cfr. Graf, Il Diavolo, cit.,per cui le divinità pagane continuano una loro vita, si direbbe più dimessa e quasi nascosta, nei pagi, nelle campagne tra la povera gente, trasformandosi, e sovente confondendosi, coi santi e le divinità della nuova religione ebraica e cristiana. Ne è un esempio la favola di Tanhäuser, il cavaliere francone di cui la dea Venere si innamora. È nel mondo romano in sfacelo che gli dei di Roma – GIOVE CAPITOLINO -- si avviano alla loro metamorfosi -- quello che non e accaduto agli dei ellenici. Da un canto si rintanano nei pagi, nei campi, tra la povera gente di campagna e ne continuano a propiziare raccolti, a combattere carestie ad aiutare la gente misera nelle quotidiane disgrazie che affliggevano gl’umili e gl’indifesi. Dall’altro lato, in questa storica trasformazione, raccolgono in loro tutto il male esecrabile del mondo antico: il turpe, il diabolico, l’illecito, il peccaminoso del mondo romano. Soprattutto l’osceno -- ciò che è dietro alla scena e, pertanto, non è visibile -- e il sensuale nei rapporti amorosi. Gli dei di ROMA si trasformano così in demoni. Si passa dalla celebrazione dell’amore fisico, cantato dai poeti, da OVIDIO (si veda), Catullo (i neoteroi) a LUCREZIO (si veda), che lo inserisce nel fluire e divenire dei fenomeni naturali, alla definitiva divaricazione della sessualità dall’amore spirituale, come aspetti di una passionalità di differente e contrapposta natura. Si ricordi l’inno a Venere di LUCREZIO: AENEADVM GENITRIX HOMINVM DIVOMQVAE VOLVPTAS ALMA VENUS CAELI SVBTER LABENTIA SIGNA QUAE MARE NAVIGERVM QVAE TERRAS FRUGIFERENTES CONCELEBRAS PER TE QUONIAN GENVS OMNE ANIMANTVM CONCIPITVR VISITQVAE EXORTVM LVMINA SOLIS. Ma ecco come espone Graf, storico dei miti romani, la sottile trasformazione degli dei di Roma -- quelli stessi che VIRGILIO, guida d’ALIGHIERI, chiama falsi e bugiardi  -- in divinità o potenze demoniache. I numi che hanno altari e templi non muoiono, non dileguano. Si trasformano in demoni, perdendo alcuni l’antica formosità seduttrice, serbando tutti la gravità antica, accrescendola. GIOVE DEL CAMPIDOGLIO, Giunone, Diana, Apollo, MERCURIO, Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al culto che loro e reso, ricompaiono fra le tenebre dell’inferno, ingombrano di strani terrori le menti, provocano fantasie e leggende paurose. Diana, mutata in demonio meridiano, invade i disaccorti troppo obliosi di lor salute, e la notte, pei silenzi dei cieli stellati, si trarrà dietro a volo le [6 G. Paris, Legendes du Moyen Age, Hachette, Paris, dove esamina la storia e la diffusione della leggenda (La légende de Tanuhäuser). Fonte delle varianti della stessa leggenda resta Guglielmo di Malmesbury. Vedi Graf, Il Diavolo]  squadre delle maliarde, istruite da lei. Venere sempre accesa d’amore, non meno bella demonio che dea, usa negli uomini l’arti antiche, inspira ardori inestinguibili, usurpa il letto alle spose, si trarrà fra le braccia, sotterra, il cavaliere Tanhäuser, ebbro di desiderio, non più curante di Cristo, avido di dannazione. Scienza, filosofia e fantasia: il pensiero femminile e la ”teoria e pratica della dimenticanza”. Il rapporto latente tra il sapere e il credere. Ogni proposta gnoseologica parte opportunamente da quelle ben note premesse che GALILEI (si veda) autorevolmente chiama la sensata esperienza, anche se le pone in relazione con la certa dimostrazione. Così, prudentemente procedendo, ogni teoria della conoscenza, pur restando legata alla dimensione esperienziale, per così dire, non esclude né puo escludere l’elaborazione successiva di ipotesi con l’ausilio della fantasia, della fede, dell’intuizione oltre che della facoltà razionale con la quale da sempre la mente umana prova ad elaborare i portati sensoriali, di volta in volta vari e complicati. Proviamo a valutare, ad esempio, non le nostre idee, o i nostri elaborati razionali ma alcuni particolari sentimenti o pulsioni come l’amore, l’erotismo, o, addirittura, la poesia con cui ci accostiamo ad una persona o ad uno scenario naturale quale, che so? la volta celeste di kantiana memoria. Gl’eroi greci per comprendere una verità nascosta, scendevano nell’Ade, entrano nel regno imperscrutabile delle ombre. Da altra prospettiva, sub specie feminae, da quel che oggi chiamiamo pensiero femminile, ci viene incontro, spalancandoci una diversa rinnovata visuale, un modo solitamen-te desueto di scrutare l’imperscrutabile. Abbiamo davanti un continente dissepolto, il nostro Ade, tutto da esplorare. È così che – s’è detto e sostenuto da parte delle donne – le poesie vivono delle voci narranti che, appassionatamente, riflettono su un passato da abbandonare. Quel che sembra finito e nascosto entro i luoghi del cuore. Da tale prospettiva, per giungere a tanto bisogna scendere all’Ade, come fa il viaggiatore Odisseo: provare i dolori più cupi e le delusioni più cocenti a cui seguono le esperienze. S’entra così nell’universo del senso fantastico senza ripudiare la possibilità razionale di elaborare non [Graf, Il Diavolo. Utilizzo in questo paragrafo, frammettendone brani a mie riflessioni e commenti, il testo originale inedito, cortesemente messo a mia disposizione, dalla filosofa della mente Bussolati, Teoria e pratica della dimenticanza.] più ciò che è nei sensi ma quanto ribolle nella fantasia. Un esempio potrebbe fornircelo LEOPARDI dell’infinito laddove dalla esperienza sensibile -- la siepe, il vento, lo stormir delle foglie -- che non si lascia elaborare razionalmente, sale, quasi spinozianamente, ad un sapere più complesso: una sorta d’amor dei intellectualis che s’apre al mistero sia della poesia che dell’amore. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio e questa voce vo comparando e mi sovviene l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e il suon di lei. E, ancora, entrando nel campo intricato del male di vivere, addirittura nelle patologie del comportamento, delle ossessioni, delle schizofrenie, laddove ci siamo chiesti, con l’angoscia nel cuore, se questo è un uomo, proviamo a proporre la teoria e pratica della dimenticanza: l’obliviologia. È certo come un lavoro di scavo; ma non abbiamo da riportare al celeste raggio nessuna sepolta Pompei. Non procediamo, in senso freudiano, a rimestare nella memoria, nel sogno, recuperando oggetti rimossi, tutt’altro. L’oggetto è diventato uno scheletro che va dimenticato, ritenuto per non posto: mai esistito. La dimenticanza è dapprima una sola pratica; quasi l’abitudine a dimenticare le chiavi di casa. Poi assurge a tecnica e, infine a teoria e pratica dell’oblio. Corre, in un certo senso, parallela alla terapia farmacologica del sonno, indotto da dosi opportune di psicofarmaci. Si tratta di togliere le fissazioni tramite la dimenticanza: di riportare il conosciuto agl’elementi puri ma allo scopo di favorire un intervento di maggior forza ectoplasmica sugli oggetti e sugli eventi esterni, e per eliminare il noto processo di invecchiamento e, infine, di morte mentale. Scendendo al piano sperimentale, abbiamo cancellato i sovraccarichi delle impressioni mnemonizzatrici e fatto sparire le figure retoriche fantasmatiche, i “mostri” o “giganti” che si fissano e si ripetono continuamente, oberando la mente affralita. Dimenticare diventa così l’ausilio migliore del vivere senza alcun sforzo il presente. Non è la panacea, non si raggiunge il Nirvana; non si recuperano paradi- si perduti. Si vive riconquistando un più corretto rapporto col corpo, i sensi, la natura. La memoria deve servirci, non turbarci. Se è una soffitta ingombra rischia di confonderci nel suo disordine; dobbiamo far pulizia perché la vita va vissuta non sopportata E arriviamo infine a una considerazione alquanto complessa ma di facile comprensione. Quella stessa nostra propensione che chiamiamo fede altro non è, finanche nella sua forma più umile, che sempre e soltanto costruzio- 36  ne della ragione, in quanto ogni fede presuppone sempre un giudizio della ragione. Da tale considerazione deriva la plateale conseguenza che la fede non è altro, alla fin fine, che la nostra visione più o meno razionale della realtà; pertanto quella fede nel numinoso e nel fantastico che è la fede re- ligiosa dei fedeli e che alla nostra razionalità più sofisticata ripugna, è solo un puro e semplice equivoco, imposto dall’educazione, dalle convenzioni e mai può derivare dalla nostra libera scelta intelligente che in tal modo si contraddirebbe9. Credere, altro non è che atto razionale; in quanto, rigoro- samente, non c’è fede senza il sostegno della ragione. Ma, ci si chiede, fino a che punto? Il limite è il sano buon senso. Oltre c’è la follia e l’assurdo; ma follia, sempre ed esclusivamente della ragione stessa, unico vero soggetto di quanto chiamiamo fede! 4. Emarginazione femminile e non. La donna da oggetto a soggetto di pensiero Da differente angolatura l’oggetto del mistero che chiamano la verità, si svela gradatamente, di sotto il velame delli versi strani. Del resto, a ben pensare, quando penso, penso al maschile, ho sempre pensato al maschile. La storia, la civiltà tutta, occidentale e orientale, hanno pensato soltanto al maschile. Non solo: per secoli, il vero, il bene, il bello sono stati visti, si al maschile, ma ancora nella implicita insignificanza oltre che della donna, di altre figure sociali di grande rilevanza: del bambino, del disadattato o del diseredato o escluso dalla comunità, dell’alienato o del demente. Interi uni- versi come continenti inesplorati si sono schiusi appena abbiamo provato a visitarli. Erano emersi, nella dannazione dell’inferno dantesco, nei mosaici e negli affreschi allucinati di Coppo, nei battisteri, nelle chiese medioevali, nelle allucinazioni di raffiguratori fantasiosi fino al paradosso come in Bosch o in Goja, nei racconti favolosi delle mitiche origini di intere popolazio- 9 Cfr. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura di Agazzi, Ed. di Comunità, Milano, dove tra l’altro si legge: «Anche LA FILOSOFIA è sotto certi rispetti una fede; in quanto essa è uno sforzo verso l’unità sistematica che in ogni grado raggiunto si pone come una visione definitiva della realtà; ciò che non può fare che trasformandosi in una fede razionale; la fede nella dottrina kantiana. D’altra parte la fede comune non è assolutamente irrazionale; è una razionalità adatta alla mente comune, ma è una forma di razionalità; non v’è sistema di dogmi così assurdo che non tenti subito una razionalizzazione. Ogni esposizione d’un sistema di filosofia è, sotto questo riguardo, l’esposizione di una fede. Non ha quindi ragion d’essere la contrapposizione della ragione e della fede (come qualcosa di irrazionale): la fede è l’espressione stessa di una formazione razionale; ogni grado della vita razionale in quanto si esprime, si fissa e diventa una realtà operante, è una fede». Più analitica esposizione della questione si trova nel mio, Ateismo e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e contempora- neo e sul conflitto tra la fede e la ragione, Il Cannocchiale,  ni, tramandate oralmente nei miti e nelle leggende che correvano per l’Eu- ropa come fiumi carsici, uscendo di tanto in tanto al “celeste raggio”, dove l’oblio di secoli li aveva segregati....Soltanto oggi cominciamo a prenderne consapevolezza, filosofica e scientifica: scopriamo un nuovo continente speculativo, il pensiero al femminile come rinnovato modo di guardare la vita, la storia, la natura. Proviamo a riandare di qualche secolo addietro. Le cosiddette scienze umane ci si erano accostate per via di quel loro par- ticolare porsi dalla prospettiva del diverso, ma solo l’assurgere di quell’og- getto alla dignità di soggetto pensante e determinante trasforma del tutto la prospettiva. La partecipazione del femminile come quella del diverso, del disadattato alla ricerca della verità completa veramente il mondo storico della cultura portandolo al suo stadio più alto, fuori da ogni gilepposo pa- ternalismo o indulgente concessione caritatevole. Del tutto trascurati o stipati alla rinfusa nella soffitta anodina della eru- dizione, alcuni sprazzi di consapevole disponibilità al diverso erano emersi già nel passato, in ambito borghese progressista, presso spiriti particolar- mente sensibili. Ma restava un fatto isolato che non ha vissuto significanza o storicità. Sentite questa: siamo: E dei disadattati all’ambiente non è giusto parlar con tanto disprezzo. Ol- trecché esercitano alcune funzioni non esercitate dagli altri, essi sono un lievito sociale utile e necessario; tengon viva nell’organismo collettivo un’inquietezza nemica delle stagnazioni prolungate, e non avvien mutazio- ne alla quale in qualche maniera non cooperino che se i geni fossero pazzi davvero bisognerebbe riconoscereche i più disadattati fra i disadattati, quali son per l’appunto i pazzi, resero alla misera umanità più di un buon servigio. Da altra banda è da considerare che un perfetto adattamento all’ambiente farebbe gli uomini supinamente contenti e tranquilli e porte- rebbe fine al moto della storia, per la ragione potentissima che chi sta bene non si muove. Lo direi il vademecum per l’onest’uomo del nostro tempo! Ma molto an- cora resta da fare: e questa è la vergogna del nostro tempo. La chiesa cat- tolica ad es., che ha chiesto, solo di recente, con un pontefice tormentato e disponibile al dialogo, perdono al mondo islamico, ha ancora da chiedere scusa alle donne, ai bambini, alle coppie di fatto, agli omosessuali, agli atei, agli agnostici, agli scienziati onesti e laici che dalle dottrine e dai dogmi della chiesa vengono quotidianamente offesi, respinti e vilipesi. I libri proibiti e il rapporto sessuale come “peccato” contro il sesto precetto del Decalogo Tra i compiti primari che si assunsero al loro tempo gli apologisti catto- lici e i controversisti, figura subito in primo piano quello della lotta ai libri proibiti, che è come dire a tutta la prodizione libraria moderna. Prendo an- cora ad es. emblematico il santo teologo moralista e dottore autorevole della Chiesa: L. Ne La vera sposa di Gesù Cristo10, a dimostrazio- ne di quanto possa essere pericolosa la lettura in genere, sconsiglia alle Mo- nache addirittura lo studio sia della Teologia Morale che di quella Mistica. Parimenti libri inutili ordinariamente sono, ed alle volte anche nocivi per le Religiose, i libri di Teologia Morale, poiché ivi facilmente possono inquietarsi con la coscienza oppure apprendere ciò che lor giova non sapere. An- che nociva può essere a taluna la lettura dei libri di Teologia Mistica, giacché può essere che ella si invogli dell’orazion soprannaturale, e così lascerà la via ordinaria della sua orazione solita, in meditare e fare affetti, e così resterà digiuna dell’una e dell’altra. Vige, come una sentenza inappellabile, il motto lapidario di San Paolo: Sapienza carnis inimica est Deo. L’amore del sapere viene paragonato ad un vizio, alla libidine sessuale: libido sciendi11. Circa i classici del pensiero che pur contengono delle verità, si domanda con San Girolamo: Che bisogno hai di andar cercando un poco d’oro in mezzo a tanto fango, quando puoi leggere i libri devoti, dove troverai tutt’o- ro senza fango?». La lettura è importante, fondamentale anche alla via della salute, ma ha dei rigorosi limiti. Quanto è nociva la lettura de’libri cattivi, altrettanto è profittevole quella de’buoni. Il primo autore de’libri devoti è lo Spirito di Dio; ma de’li- bri perniciosi l’autore n’è lo spirito del Demonio, il quale spesso usa l’arte con alcune persone di nascondere il veleno, che v’è in tali suoi libri, sotto il pretesto di apprendersi ivi il modo di ben parlare, e la scienza delle cose del mondo per ben governarsi, o almeno di passare il tempo senza tedio. Con determinate categorie di persone, l’esclusione si fa radicale. Alle suore scrive così: Ma che danno fanno i romanzi e le poesie profane, dove non sono parole 10 Cito dall’ed. Remondini, Bassano, Vedi l’uso di tale espressione nella denuncia controversistica cattolica (aristotelica) della filosofia cartesiana e moderna nel saggio di chi scrive, «Libido sciendi». Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento (Da Magalotti al padre Valsecchi), Giornale critico della filosofia italiana,  immodeste? Che danno voi dite? Eccolo: ivi si accende la concupiscenza de’ sensi, si svegliano specialmente le passioni, e queste poi facilmente si gua- dagnano la volontà, o almeno la rendono così debole, che venendo appresso l’occasione di qualche affezione non pura verso qualche persona, il Demonio trova l’anima già disposta per farla precipitare12. Contro il risveglio delle passioni e contro la concupiscenza dei sensi, i controversisti scagliano i loro dardi infuocati e avviano le loro sottili disqui- zioni teologiche su quanto vada considerato peccato mortale. Ed è questo un fardello che la chiesa si porta dietro così come uno ster- corale si rotola la sua palla di escrementi. L’ossessione del sesso: la cura me- ticolosa con cui si prova da secoli a disciplinarlo, legittimarlo, canalizzarlo, evirandolo della sua essenza: la ricerca del piacere e costringendolo alla sola funzione riproduttiva. Ci serviremo non di un semplice scrittore di opere di pietà ma di un autorevole moralista della chiesa cattolica, santo per giunta, dottore della chiesa, uomo di grande pietà e d’erudizione: che CROCE define il più santo dei napoletani, il più napoletano dei santi. Ecco cosa scrive il nostro moralista sul sesto precetto del Decalogo e in che modo espone le sue precauzioni con cui anticipa una minuziosa tratta- zione di quanto potremo chiamare la fattispecie del peccato mortale. Il peccato contro questo precetto è la materia più ordinaria delle Confessioni, ed è quel vizio che riempie d’Anime l’Inferno; onde su questo precetto parleremo delle cose più minutamente; e le diremo in latino, affinché non si leggano facilmente da altri che dai confessori, o da quei sacerdoti che in- tendano abilitarsi a prendere la Confessione; e preghiamo costoro a non leg- gere né in questo né in altro libro di quella materia (che colla sola lezione o discorso infetta la mente) se non dopo tutti gli altri trattati e quando ormai sono prossimi ad amministrare il Sacramento della Penitenza. Affronta perciò subito lo scabroso tema della fornicazione, e dei rapporti carnali con l’altro sesso con minuta casistica sessuofobica: de tactibus, de muliebre permittente se tangere, an puella oppressa teneatur clamare, an possit unquam permittere sua violationem, de aspectis, de verbis, de audientibus verba turpie, ecc. Ma non manca di precisare: Ante omnia advertendum, quod in materia luxuriae (quidquid alii dicant de levi attrectatione manus foeminae, vel de in torsione digiti) non datur par- vitas materiae; ita uti omnis delectaio carnalis, cum plena advertentia, et consensu capta, mortale peccatum est. La vera Sposa di G.C., L., Istruzione e pratica per li Confessori, Giuseppe Di Domenico, Napoli, e sgg., anche per le citaz. successive. 40  Il pio moralista, scaltrito nella casistica giuridica, sa che bisogna scende- re nei minimi particolari per trovare la situazione peccaminosa: se grave o lieve o poco rilevante o, addirittura, del tutto inesistente; perciò distingue gli atti sessuali compiuti nel matrimonio o extra matrimonium. In situazio- ne extra coniugale, tutti i toccamenti, oscula et amplexus ob delectatione, mortale sunt. Vi sono numerosi casi dubbi da esplicitare: ne va di mezzo la salute delle anime, calate in situazioni mondane sempre diverse e comunque sempre a stretto contatto con le tentazioni della carne. Ad es., la donna o il fanciullo non peccano se si fanno toccare secondo la consueta pudicizia dettata dalla simpatia o dalla buona affettuosa disposizione; peccano invece se non si op- pongono a contatti impudichi, o a baci insistenti (morosis) e furtivi. E anco- ra: la fanciulla aggredita allo scopo di usarne violenza è tenuta a urlare ad se liberandam a turpitudine? Nel caso non invocasse aiuto con la dovuta forza e insistenza lo stupro si cambierebbe facilmente in consenso peccaminoso. Ma la questione resta controversa se debba ritenersi consenso il non aver gridato o invocato aiuto, secondo un’antica sentenza per la quale, praesume- batur puella non clamans consentiente. Perviene infine a definizioni accurate degli atti turpi, differenziando quelli compiuti naturalmente da quelli innaturalmente. Ecco la definizione di fornicazione e di concubinaggio, quali peccati mortali: Fornicatio est coitus intersolutos ex mutuo consensu. Concubinatus autem non est aliud quam continuata fornicatio, habita uxorio modo in eadem vel alia domo; [e quella di stupro, come:] defloratio virginis ipsa invita, et ideo praeter fornicationis malitiam habet etiam injustitiae. Attraverso una minuziosa casistica quasi boccaccesca, buona – si direbbe - ad arricchire la documentazione erotica di un romanziere libertino, il moralista passa in rassegna le svariate forme di rapporti sessuali, da quelle legittime a quelle addirittura più strane e peregrine, come l’accoppiarsi in luogo sacro, quali una chiesa, il cimitero, l’oratorio, il monastero, ecc. Pone addirittura questioni dubbie sulle maniere e le condizioni in cui tale rap- porto potrebbe verificarsi. Pur ammettendosi il peccato, sorge la questio se si tratti o meno di sacrilegio. Ad es. «an copula maritalis, aut occulta abita in Ecclesia, sit sacrilegium?» Vi si potrebbero emanare tre sentenze differenti: una che ritiene irrilevante la condizione di coniugi, un’altra la situazione occulta (che l’abbiano fatto di nascosto) e una terza che ritiene essere sacri- lego l’atto in ogni caso. Addirittura se si tratta di marito e moglie, secondo alcuni teologi, l’atto consumato in chiesa potrebbe essere scusato, si ipsi sint in morali necessitate coeundi, puta si ipsi in pericolo continentitiae, vel si diu in Ecclesia permanere debeant. Il lettore ne trae l’impressione che l’autore (più che dietro suggerimenti letterari coevi) vada ad estirpare direttamente dalla vita, dalle lussuriose esperienze dei peccatori, dalle situazione più impensabili, apprese nelle lun- ghe ore passate al confessionale ad ascoltare ed a sollecitare le confessioni più intime dei fedeli, tutte le forme, i modi che la secolare ricerca del piacere ha suggerito di epoca in epoca all’uomo, dalle più rozze e volgari maniere di accoppiamento fino alle più raffinate arti di amare e trarre godimento che proprio I LIBERTINI andano perfezionando e praticando in forme sempre più sofisticate. La stessa lingua latina – ma qui dovrebbe- ro dirla i linguisti – si fa molto particolare fino all’uso di neologismi non presenti nei classici. Parlando della sodomia distingue quella propriamente detta da quella impropria ed eterosessuale coitum viri in vase praepostero mulieris esse sodomiam imperfectam, specie distinctam a perfecta. Si quis autem se pollueret inter crura aut brachia mu- lieres, duo peccata diversa committeret, unum fornicationis inchoatae, alterum contra naturam. An pollutio in ore fit diverse speciei? Affirmant aliqui, vocantque hoc peccatum irrumantionem, dicentes quod sempre ac sit pollutio in alio vase quan naturali, speciem mutat. Sed probabilius sentiunt quod si pollutio viri sit in ore maris est sodomia; si in ore feminae, sit fornicatio inchoata, et in super peccatum contra naturam ut mox diximus... Arriva addirittura ad ipotizzare il coito cum femina morta, che non rien- trerebbe nella fattispecie dei rapporti bestiali ma nella polluzione e in quella che Alfonso chiama fornicatio affective. Dalla sessuofobia all’erotismo peccaminoso: Cortigiane poetesse e libertini filosofi. L’Eros redento Prendiamo due secoli di storia molto emblematici. Dall’Italia delle corti signorili alla Francia della grande rivoluzione. Due secoli in cui l’eros vive una sua storia illustre, tra cortigiane raffinate poetesse e abati filosofi e libertini. A dirla franca alla sua maniera sull’eros e a dargli veste poetica disinibita, ci pensa subito Pietro Aretino: ma sempre da una angolatura tutta maschile. Nonostante si salvi la dignità della partner che qui giuoca un ruolo attivo di co-protagonista del rapporto amoroso, in cui l’atto sessuale si trasforma in una sticomitia drammatica non priva di poetica oscenità. Soltanto nel petrarcheggiare delle cortigiane, come la soave Franco che riceve sotto le sue lenzuola di tela d’Olanda finanche Enrico III di Valois, la donna trova finalmente il suo primo vero riscatto sul maschio, con un suo modo raffinato (di alto erotismo) di 42  pilotare la barca dell’Amorosa Dea; ad esse, tra principi, sovrani, alti prela- ti, pontefici gaudenti, spetta il compito di riscattare dall’eterna dannazione l’Eros e fargli recuperare il valore perduto colla tradizione ebraica-cristiana. Un recupero, tutto al femminile, del paradiso perduto. Così canta il suo ufficio amoroso, guidato da Apollo, la dolce Veronica. Febo che serve a l’ amorosa Dea E in dolce guiderdon da lei ottiene Quel che via più che l’esser Dio il bea, A rilevar nel mio pensier ne viene Quei modi che con lui Venere adopra Mentre in soavi abbracciamenti il tiene. Ond’io instrutta a questi so dar opra, Si ben nel letto, che d’Apollo all’arte Questa ne va d’assai spazio di sopra E il mio cantar e ‘l mio scrivere in carte S’oblia in chi mi prova in quella guisa Ch’a suoi seguaci Venere comparte. Nel Settecento, cui ora vogliam far cenno, sia pur per sommi capi, le cose stavano in modo ben differente da come ce le hanno rappresentate quando a scuola ci hanno spiegato quel periodo. I libri del Marchese de Sade rap- presentano, ad es., una nuova filosofia morale e non sono la pura e semplice invenzione di tecniche erotiche pervertite, come comunemente si crede. I recenti studi hanno sfatato quella immagine del divin marchese. “La filo- sofia deve dire tutto”, egli ha affermato: tutto senza ipocrisie e fingimenti. Egli non fu né il primo né il solo a sostenere i diritti della carne, che grida la sua legittima soddisfazione contro le assurde costrizioni della cosiddetta civiltà. Il celeberrimo sadismo: ricerca del piacere attraverso il godimento per la sofferenza del partner, ha ben altre origini che le sole discendenze da Sade. Bisognerebbe intanto rifarsi alle meticolese ricerche di Skipp, di Leeds, che ha schedato tutti i testi erotici inglesi scoprendovi come l’uso educativo della frusta e le sculacciate a pelle nuda sui ragazzi, era praticato dai gesuiti in chiave educativa e correttiva, ma finiva per confinare molto spesso con l’erotismo portando addirittura all’orgasmo vero e proprio. Nacque un termine: “orbinolismo” che vuol dire “smania di frustare” (Cfr. Rodez, Memorie storiche sull’orbinolismo). Né si dimentichi, oltre la pratica, anche l’elogio cattolico, presso non solo l’ordine dei gesuiti ma anche di Scolopi e Salesiani, fatto in termini pedagogici della frusta e della sua frequente pratica a scopi educativi e correttivi: virga tua et baculus tuus salus mea fuerunt!.... A tali osservazioni sul costume del secolo va aggiunto che la proverbia- le sporcizia che caratterizzava il ménage domestico dell’epoca anche tra le famiglie nobili e abbienti, non era poi così generalizzata. Soprattutto le donne avevano introdotto l’uso davvero innovativo dell’erotico bidet (che ha la forma di violino e, al tempo stesso, quella dei fianchi femminili) che permetteva loro di mantenere igiene e pulizia in quelle parti del corpo che ne avevano più bisogno. A tal proposito restano molto istruttive le pagine dei romanzi erotici e libertini, tra i quali spicca Restif de La Breton con il suo Anti Justine dove si nota l’uso frequente e generalizzato di tale strumento da toilette, prima e dopo gli incontri amorosi.. Perciò, una volta sfatata l’immagine stereotipata del Settecento illumi- nistico, astrattamente razionalista, irreligioso e dai costumi depravati, pro- viamo a riguardare sotto diversa luce e angolatura, libere da pregiudizi e remore moralistiche e confessionali, la letteratura erotica e d’amore di quel secolo che, oltre tutto, fu di Mozart, di Kant, di Bach, oltre che di Voltaire, di Rousseau e di Goethe e ci lasciò in eredità non soltanto la grande rivoluzione dell’89 ma anche quella che fu la più colossale e universale summa di sapere moderno: l’Enciclopedia, ovverosia dizionario ragionato di tutte le scienze, le arti e i mestieri contro la quale pullularono subito una serie di Anti-Enciclo- pedie anche da noi in Italia per porre un argine all’avanzata di quelle idee di libertà e di progresso civile. Il ricordare LEOPARDI è qui d’obbligo: Così ti spiacque il vero, dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè, per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il fe palese... Insomma lo zelo sessuofobico, la guerra dichiarata all’istinto sessuale porta il sacerdote, il ministro del culto cattolico, il confessore a scendere nei particolari della vita sessuale singola e della coppia, sia entro che fuori del matrimonio: a scoprire i più segreti momenti dell’intimità delle coppie fino a scrutare e distinguere, entro le fantasie erotiche più raffinate, i comporta- menti più o meno peccaminosi, cioè conformi a canoni tutti da verificare di volta in volta (casistica). Una sorta di filo invisibile lega pertanto il pio cen- sore al libertino e al peccatore o la peccatrice (lo denuncia la stessa corrente espressione possessiva: il” mio” confessore!) tanto da diventare complemen- tari, avvincersi in un legame indissolubile fino a non poter più fare a meno l’uno dell’altro14. Ma il legame tra religiosità e libertinismo, così come tra l’erotismo e la religione cattolica in particolare, si fa sempre più stretto fino a dipendere l’uno dall’altro: come, in regime capitalistico, domanda e offerta. Il cattoli- 14 Cfr., infine, “L’Asino” di Podrecca a Galantara e le critiche positivistiche e anticlericali alla morale alfonsiana, Feltrinelli, Milano] cesimo deve disciplinare a suo modo il sesso e, in genere, tutta l’attività e la fantasia umane; l’eros deve trovare entro una nuova coscienza storica la sua rinnovata voluttà. Ecco allora il piacere stesso trovar vie differenti rispetto al piacere degli antichi, allor quando quella ricerca non veniva combattuta, non era un tabù, anzi era apprezzata come uno dei più ambiti doni della na- tura. Vengono a far parte del piacere anche i marchingegni e i sotterfugi per eludere le prescrizioni correnti e i limiti che le norme religiose impongono dall’esterno. Finanche i pregiudizi siano di ispirazione cattolica o meno - diventano materia di raffinato erotismo. L’esecrabile peccato della lussu- ria, prodotto tipico del Cristianesimo, diventa perciò stesso fonte di piacere (la Jouissance illuministica), proprio perché vietato e esecrato: soprattutto quando l’atto viene compiuto di nascosto, cogliendo quello che è diventato, dopo la mitica cacciata dal Paradiso terrestre, il frutto proibito, il godimen- to raggiunto di soppiatto e contro la legge o la morale corrente perciò più seducente e ricercato per la sua illegtittimità! La letteratura è piena zeppa di esempi e finisce per produrre un genere di scrittura narrativa particolare che chiamiamo “erotica” o “pornografica”: di libri che s’han «da leggere con una mano sola», un genere che non si spiegherebbe prima del cristianesimo e della dannazione dell’eros e del piacere e che va dai canti carnascialeschi al Decamerone, al Ruzante, all’ARETINO, ai poeti dialettali: da BAFFO, veneziano, al grandissimo BELLI, romanesco, al dimenticato TEMPIO, siciliano, nato a Catania, per arrivare alla letteratura erotica del romanzo libertino francese in cui confluiscono le innumerevoli forme e modi di estraniazione, di sogno, di fuga dalla realtà che delineano l’universo fantastico che sarà la base della letteratura romantica europea e soprattutto del romanzo e della grande narrativa ottocentesca e contemporanea, da Balzac a Flaubert, a Hugo a Dumas, dal romanzo russo al nostro MANZONI, a Zola, a VERGA alla miriade dei narratori dei nostri giorni. In conclusio-ne, ma in una maniera tutta nuova, possiamo ritenere avesse davvero visto giusto il grande saggio napoletano CROCE quando affermò che non possiamo non dirci cristiani. Se persino l’erotismo è stato, malgré lui, influenzato e raffinato dal cristianesimo. Se ne stanno accorgendo anche in Francia dove nasce la letteratura libertina e la illuminata filosofia del piacere: dal materialista La Mettrie all’esecrato marchese De Sade16. 15 Emblematico, per quanto qui si va rilevando, il romanzo libertino, non ancora tradot- to, D.A.F. de SADE, Alina et Valcour, ovvero il romanzo filosofico. Cfr., la Mostra: BNF, L’Enfer de la Biblioteque Nazionale. Eros au secret, Paris, 2 Ricco di titoli, è venuto alla luce un significativo numero di opere e autori soltanto  ad opera di specialisti che li vanno pubblicando e illustrando. Intanto segnalo l’originale antologia da Mettrie e Diderot, curata da Quintili, L’Arte di godere. Testi dei filosofi libertini, Manifesto libri, Roma. Alfonso di Liguori. Girolamo de Liguori. Liguori. Keyword: “Associazione Filosofica Ligure” – Keywords: implicature critica, ‘… is the true abyss of human reason” – “il baratro della ragione conversazionale” – l’anima distilata – il lambicco dell’anima”, redenzione dell’eros, la lussuria, la degenerazione, la metamorfosi dei linguaggi – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lilla: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Vico – la scuola di Francavilla Fontana -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Francavilla Fontana). Filosofo italiano. Francavilla Fontana, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Lilla; for one, he ‘revindicated,’ as he puts it, the philosophy of Vico, which, in Italy, is like at Oxford ‘revinidcare’ Locke!” Formatosi nelle scuole dei Padri Scolopi aderì alle idee cattolico liberali divulgate dai filosofi della prima metà dell'Ottocento: Gioberti, Minghetti, Balbo e SERBATI al quale dedicherà molteplici studi subendone una marcata influenza. Lascia Francavilla per l'ostentata contrarietà di tutto il clero  alle sue idee patriottiche d'ispirazione giobertiana, manifestate apertamente nel "Programma d'insegnamento filosofico" pubblicato sul giornale il "Cittadino leccese", decise di trasferirsi a Napoli ove ebbe modo di confrontarsi con le idee di Sanctis, Spaventa, Settembrini, Tari e Vera. Si laurea e insegna a Napoli. Durante questi anni videro la luce "La provvidenza e la libertà considerate nella civiltà", "Dio e il mondo", e "La personalità originaria e la personalità derivata" (Nappoli, Rocco), nei quali getta le premesse degli studi filosofici e giuridici in cui si cimenterà per tutta la vita: la storia della filosofia, la filosofia teoretica e la filosofia del diritto; sviluppando altresì e precorrendo una moderna concezione del rapporto tra "diritti umani e progresso scientifico" sin da “La scienza e la vita” (Torino, Borgarelli) -- titolo paradigmatico del suo saggio – cf. Grice, “Philosophical biology,” “Philosophy of Life” Insegna a Messina. Furono quelli gli anni più fecondi della produzione scientifica volta a perfezionare la sua concezione dello Stato, approfondire le fonti rosminiane, confrontarsi con le teorie evoluzionistiche di Spencer e contemporaneamente intrattenere contatti epistolari con alcuni fra i maggiori filosofi, giuristi, patrioti e storici dell'epoca quali:  Jhering, Bluntschli, Roy, Tommaseo, Capponi e molti altri. Altri saggi: “Kant e SERBATI” (Borgarelli, Torino); “AQUINO” (Torino, Borgarelli); “Filosofia del diritto,”“Critica della dottrina utilitarista liberale empirica etico-giuridica di Mill”“Le supreme dottrine filosofiche e giuridiche di Vico ri-vendicate” -- “La pretesa persona giuridica e le funzioni personali degl’enti morali” (L. Gargiulo); “Della Riforma civile di Spedalieri” (Messina, Amico); “Le fonti del sistema filosofico di Serbati-Rosmini” (L.F. Cogliati); “Due meravigliose scoperte di Rosmin-Serbatii: l'essere possibile e l'unità della storia dei sistemi ideologici, Cogliati, Il Canonico Annibale Maria Di Francia e la sua Pia Opera di beneficenza, Messina, San Giuseppe, Manuale di filosofia del diritto, Milano, Società editrice, Pagine estratte. Martucci, Il concetto dello stato  Antonio Tarantino, Diritti umani e progresso scientifico: Polacco, La "Filosofia del diritto” (Randi); “Filosofia” (Milano, Giuffré); Tarantino, “La filosofia della giustizia sociale, Milano” (Giuffré) – cfr. H. P. Grice, “Social justice” in “The H. P. Grice Papers,” Bancroft, MS. In occasione del conferimento della "Cittadinanza onoraria (di Messina) alla memoria, su nettuno press.Tarantino, Diritti umani e progresso scientifico: emeroteca. provincia. brindisi. Martucci, Il concetto dello stato, su emeroteca.provincia. brindisi. Treccani, su treccani. Lettere a Jhering. non accordabile col supremo principio della Scienza Nuova Ilmiolavoro Vico rivendicato» meritòl'onoredi essere preso in considerazione dai due più competenti degli stu dii vichiani, ed al giudizio dei competenti bisogna dare gran peso, perchè effetto di conoscenza bene approfondita sopra un determinato autore, specialmente se si mira ricostruire la mente di Vico. Questi scrittori sono Ferri e Fornari i quali si trovarono in pienissimo accordo, tanto da far supporro che fosse effetto di un concetto prestabilito. L'accordo fu pie nissimo nella prima parte del lavoro di carattere puramente critico e riconobbero che la rivendicazione delle dottrine filoso fiche e giuridiche da tutte le fallaci interpetrazioni fatte in Europa Rivista Italiana di Filosofia. Quando gli opuscoli hanno un valore così notevole come quello qui sopra indicato del prof. Lilla, è giusto segnalarli all'attenzione degli studiosi piuttosto che i volumi di gran molo o di poca sostanza. Questo lavoro dice molto in poche pagine e il suo intento è questo: rivedere i giu dizi che sulle dottrine del Vico sono stati portati in Italia, in Germania e in Francia particolarmente, ricostruire dietro indagino esatta il concetto di questa dottrina e questo intento ci pare raggiunto. Il Vico non è sem plicemente un ontologista platonico, come parrebbe dal giudizio del Gioberti, nè un razionalista kantiano, o piuttosto un precursore del Kant, come sembra a Spaventa, nè un positivista como fu rappresentato da altri. Questi apprezzamenti risultarono dall'interpetrazione parzialeesoggetti va di qualche parte dei pensieri filosofici del Vico che nelle sue opero non sono esposti in ordine sistematico, e che l'autore di questo lavoro con grande dili genza raccoglie e combina riferendo le formole e le parole proprie dell'autore della scienza nuova sparse nei moltiplici suoi scritti. »   era esauriente e condotta con criterii elevati. La mia interpretazione sulla vera mente di Vico fu riconosciuta vera ed adeguata tanto che il Fornarì mostrò vivissimo desiderio di veder fecondare quelle supreme linee con svolgimenti ed appli cazioni. Dominato da tale pensiero concepii il disegno di scrivere un lavoro di lena, mirante ad un triplice scopo di rivendicare, illustrare, ed integrare la mente dell'autore della « Scienza Nuova» A tale scopo indirizza i tutte le mie ricerche attingendo sempre maggiori lumi dalle sue opere edite ed inedito e fin anche dai manoscritti che si conservano gelosamente nella bi· blioteca Nazionale di Napoli. I grandi genii, e segnatamente il Vico che, come non ha guari, fu appellato da un poderoso intelletto di una delle più famose Università il più grande filosofo del mondo, muovono da una idea madre fecondissima ed alla quale rannodava tutte le idee secondarie e particolari. Uvità ed armonia cioè perfetto organismo è la nota caratteristica del lavoro dei sommi.Ed io vado riunendo non poche idee per ricostruire su solide basi quest'opera di architettura gigante e le mie indagini non ric scono infruttuose, e ne è prova evidentissima questo frammento inedito dal titolo « Pratica della Scienza nuova . » Non poche censure mosse la turba dei filosofanti al Vico perchè s'ispirava a concezioni idealistiche negligentando la pra tica della vita. Tale critica presenta apparenze di verità tanto che VICO stesso no rimase impressionato,ma raffrontando dottrine a dottrine si coglie il genuino e loro vero significato. La grand o idealità diquestamassima la storia ideale eterna delle nazioni. L. ha liberato la dottrina del VICO da tutte le fallaci inter petrazioni. La sua dottrina che mi pare giusta, merita di essere più larga mente svolta. » Nel volume delle Onoranze; è una vera esagerazione, e chi si addentra nella parte riposta del sistema Vichiano si accorgerà che non si possa ascrivere ad essa une perfetta interpetrazione astratta e specialmente raffrottandola colla psicologia sociale che sta a base del processo del filosofo napoletano. Bisogna por mente innanzi tutto alle tre fasi che percorre l'umanità nella sua storica evoluzione; età del senso, della fantasia, e della ragiono. E molto più alla dottrina del corso e ricorso delle nazioni, cioè al loro periodo d'infanzia, di giovinezza e di vecchiaia. Valga ciò a smentire l'assoluto idealismo del VICO il quale è puramente immaginario. Tutta la seconda Scienza nuova è derivata dalla psicologia sociale evoli tiva e tutti i diritti, i costumi, le religioni, le costituzioni plitiche degli stati sono emanazionidiquesto principio. Nelprimo stadio tutto è divino, gli uomini inselvatichiti hanno un diritto divino, tuttoprocededagli Dei; il Governo teocraticorappresen ato dagli oracoli, la lingua divina per atti muti di religiose cerimonie. In Giove e Giunone si personifica ciò che si riferisce agli auspicii ed alle nozzo: la Giurisprudenza è scienza d'intendere i misteri della divinazione; il giudizio divino, cio è che nei templi divini,tutte le azioni sovo invocazioni agli Dei :ogni dritto è divino,ogni pena è sacrificio, ogni guerra assume carat tere religioso ed ha giudici gli Dei: od il giudizio di Dio si riduce a duello ed alle rappressaglie : tali categorie sono sim boleggiate dal lituo, dall'acqua e fuoco sopra un altare. Seguo poi un ordine di fatti eroici da cui deriva la natura eroica, o dei nati sotto gli auspicii di Giove, il costumo eroico como quello di Achille, il governo civico o aristocratico o dei for tissimi, la lingua eroica o delle armi gentilizie o stemmi. I caratteri eroici come Achille ed Ulisse, che personificano tutte le grandezze e i savii consigli. La giurisprudenza eroica, che stà nella solennità delle formule della legge, la ragione di stato conosciuta dai pochi provetti del governo, il giudizio eroico che consiste nell'esatta osservanza delle formule e precipua mente deriva il feudo dalla proprietà dei forti. Infine c'è un or dine di fatti umani, cui corrisponde la natura umana intelligente e perciò benigna,modesta, che riconosce per legge lacoscienza, la ragione, il dovere, e poi il costume officiale, indi il diritto umano fondato dalla ragione, il governo umano dettato dalla ragione, la lingua umana, Abbiamo motivo di credere che VICO impressionato dalle obiezioni dei contemporanei vollo dichiarare il supremo princi pio della Scienza Nuova, cioè la storia eterna ed ideale delle nazioni con questo frammento e senza addarsene disconobbe l'efficacia positiva della Scienza nuova. Egli dotato di mente speculativa, pratica e progressiva, non si poteva mai acconciare a vivere di formule astratte e di  umana, il parlare articolato, i caratteri in telligibili, che la mente umana rivelò dai generi fantastici se parando le forme e le proprietà dai subietti. La giurisprudenza umana che mira non al certo, ma alvero delle leggi. L'auto rità umuna che nasce dalla rinomanza di persone capaci e sa pienti nelle agibili ed intelligibili cose, la ragione umana o ragione naturale che divide a tutte le uguali utilità. Il giu dizio umano velato di pudore naturale e mallevadore della buona fode che ai fatti applica benignamente le leggi temperandone il rigore. E questi fatti hanno ancheiloro simboli nellabilanciache rappresenta le qualità civili nelle repubbliche popolari, perchè la natura ragionevole è uguale in tutti gli uomini. Questi tre ordinidifatti riposanointreprincipii, chesono:iltimore, l'amore, il dolore, simboleggiati dallo altare, dalla pace e dal l'urnacineraria,ecosì sifondarono loreligioni, imatrimoni e l'immortalità dell'anima.In questi concetti siriassume tutta la seconda Scienza nuova. Rispettaro tutto quanto i nostri maggiori operarono di grande è la disposizione più favorevole a quest'opera di conciliazione, ma perchè il ri spettonon portia delle idee esclusive e non soffochi la libertà dei nostri giudizi verso lo scopo ultimo della scienza, avvicinata a questo scopo la pro duzione più perfetta dell'uomo, ci rivela la sua imperfezione, in questo modo è riconosciuta la necessità dell'Ideale, perchè fossecriticatoemiglio rato il presente.  puri concetti metafisici, poichè il processo inquisitivo che egli seguiva aveva un fondamento storico e dava origine ad un temperato e ragionevole positivismo, pel quale non si poteva disgiungere la scienza dalla vita.Egli ben vedeva che la scienza fuori la vita era una vana supellettile intellettuale, un giuoco dialettico del pensiero e non punto proficua al beninteso pro gresso delle nazioni. Esiste un ideale di perfettibilità, supe riore, ma non indipendente dalla vita, verità questa intuita dall'antesignano della scuola storica tedesca, da Savignys, ilquale era ammiratore passionato delle istituzioni giuridiche romane nelle quali vedeva la più alta manifestazione del progresso giu ridico. Ma fatto maturo di anni e di senno confessò apertamente che per quanto possono sembrare perfette le istituzioni romane, pure comparate all'idealità mostrano la loro incompiutezza. VICO gittò le basi di una vasta costruzione scientifica fondata nel processostorico– filosofico. E dàbiasimo al divorzio fraquesti due processi metodici, in questa memoranda sentenza Peccarono per metà i filosofi perchè non accertarono le loro idee coll’autorità dei filogici; peccarono per metà i filologi perchè non inverarono la propria conoscenza coll'autorità dei filosofi». La storia ci rivela il certo, l'origine, le fasi o gl'incrementi degl'istituti politici, sociali giuridici, e la filosofia rivela l'ele mento razionale e addita le perfezioni ideali, cui si possono inalzare; veritá questa intuita da Bacone da Verulamin. I filosofi, dic'egli, scoprono molte cose belle a contemplarsi, ma impossi bile ad essere attuate, ed i giuristi ragionanı) come prigionieri nelle catene. Alla mente di VICO si affaccia, un dubbio che poteva presentare questo supremo principio della scienza studiossi ripararvi con questo frammento inedito. Tutla quesť opera è stata ragionata come una scienza puramente spe culativa intorno alla comune natura dello nazioni. Però sembra per quest’istesso mancare di soccorrere alla prudenza umana, ond'ella si adoperi perchè le nazioni, le quali vanno a cadere o non ruinino affatto, o non s'affrettino alla loro ruina ed in conseguenza mancare nella pratica, qual dev'essere di tutte le scienze, che si ravvalgono d'intorno a materie, le quali dipendano dall'umano arbitrio, che tutte si chiamano attive. Anche nella coscienza dei grandi vi sono delle oscil lazioni sulle loro concezioni. VICO nel fram . citato, dice che la scienza pratica non si possa dare dai FILOSOFI, ma i filosofi civili e i reggitori degli stati possono creare costituzioni politiche e leggi, e richiamare le nazioni al loro stato di perfe zione. Niente di più vero: le nazioni e tutto il mondo moralo creato dall'arbitrio umano non può ridursi a categorie logiche, non può essere sottoposto alla legge ferrea della necessità, e quindi la scienza puramente contemplativa o ideale non può contenere nella sua orbita le leggi relative dei fatti umani. Se quest'ordine è indipendente dalla necessità logica, può essere [Qui do legibus scripserunt, omnes vel tanquam PHILOSOPHI, vel tan quam Jureconsulti, argumentum illud tractaverunt. Atque Philosophi proponunt multa dictu pulcra, sed ab uso remoto. Jureconsulti autem, suae quisque patria legum, vel etiam Romanorum, aut Pontificiarum placctis abnoxüetad dicti, judicio sincero non utuntur,sedtanquam evincolis sermocinantur. Tractatus de dignite et augmentis scientiarum ; solo regolato o disciplinato dalle scienze pratiche ed attive e non dall'ordine puramente scientifico. Nel capitolo VIII della seconda Scienza nuova pare che VICO incorra in un'incoe renza, in quanto si propone di trattare di una storia eterna sulla quale corre di tempo la storia di tutte le nazioni con certo originiecerteperpetuità,e poidico chelescienze pratiche possono regolare la vita. Ma come si può parlare d'una storia eterna, sulla quale sono modellate le storie di tutte le nazioni se il mondo morale, con tutti i suoi fattori, procede dall'arbitrio umano ? Questo ardito disegno del filosofo napoletano racchiude un pen siero riposto. Questa Storia eterna delle nazioni, modellatrice, esemplatrice di tutte le storie delle nazioni è uno dei più grandi problemi della Scienza Nuova, che è assai bisognoso di com menti illustrativi ed esplicativi. In questo capitolo si nasconde una speculazione alta, e, dirò meglio, vertiginosa. Qui il Vico si rivela come idealista, o meglio tale appare, poichè nello stabilire un ideale comune a tutte le nazioni pare che proceda con un metodo astratto e formale, cioè como un ideale fanta stico di pura creazione del cervello. Parvenza vana inganna trice! Ad un pensatore meditativo apparisce,com'è infatti, una dottrina a fondo realistico. Essa non è generata ma è ricavata da uno studio coscienzioso ed accurato dei fatti. Il diritto naturale delle genti è reale quanto la natura umana, ed è la fonte di questa dottrina. Secondo la mente di VICO non si potrà revocare in dubbio l'esistenza d'un dritto naturale, comune a tutti i popoli. Cotal diritto, comune a tutte le nazioni, ricavasi dalla psicologia sociale, la quale ci attesta la natura comune sociale dei popoli.  Questo argomento comparativo trova la sua conferma nel fatto irrecusabile che questo diritto comune, patrimonio di tutto le genti, non poteva essere stato trasferito o comunicato da popolo a popolo, perchè fra loro non vi era, nè era possibile nes suna comunanza di relazione. Ponendo mente all'esistenza di un diritto naturale identico a tutti, o perciò universale e necessario, non si può negare un sicuro fondamento all'esistenza d'una sto ria eterna nella quale corrono di tempo in tempo le storie di tutte le nazioni. Il diritto é uno, come uno è il tipo umano. Nella varietà dei costumi dei popoli vi è qualche cosa che non va ria nè si trasforma. Dunque uno è il diritto, ed una è la storia ideale delle nazioni, la quale è fondata sull'unità del diritto. Dunque dalla medesimezza del costume, sigenera ildirittona turale,e da ciò nasce ildisegno di una storia eterna delle na zioni Concetto ardito e profondo, poichè in tanto è possibile una storia eterna ed ideale, in quanto vi è un tipo unico nel di ritto e nel costume. I grandi genii hanno il presentimento di certe verità che poscia approfondite dalle venture generazioni acquistano piena coscienza. Questa divinazione del VICO oggi è rifermata dalla analisi comparativa degli istituti giuridici e politici, e questa scienza divinata dal Vico è una delle più belle glorie dei nostri tempi, a cui un forte ingegno siciliano addisse il suo ingegno e ne abbozzò il primo disegno. E qui si adombrano le prime lince di un metodo armonico fra il vero e il fatto, fra LA FILOSOFIA e la Storia La Storia dei costumi deve emanare da due cause coefficienti: dall'ordine reale e dell'ordine ideale,e così si avvera il gran principio di VICO, verum et factum reciprocantur. Ma l'ordine ideale per non essere una chimera deve Ideo uniformi nate appo interi popoli fra essi loro non conosciuti, debbono avere un motivo comune di vero. Scienza nuova, Dignitá. avere un'origine per quanto rimota,ma sempre realistica, non è fantasmagorico, ma ricavato,o meglio osservato nell'elemento comune che presenta il costume dei popoli,e perciò non è in fecondo e sterile,ma proficuo alla vita. (1Questo brano è tolto dal capitolo Incoerenze di Vico del mio saggio: La mente del VICO rivendicata, illustrata e integrata.  A riassumere la dottrina giuridica di Vico  è indispensabile determinare i principi fondamentali  dell» scuola storico-filosofica da Ini splendidamente  rappresentata.   La Scienza Nuova è lu riprova più sicura della lenominazione apposta ; iu quel lavoro di architettura gigante si vede adombrato il disegno dell’armonia fra i principii razionali e il fatto storico. La psicologia sociale è il substratum delle leggi,  delle religioni, delle lingue e di tutti gli altri elementi della civiltà. In quella filosofia della storia  contenuta in germe LA FILOSOFIA DEL DIRITTO POSITIVO, perchè le costituzioni civili, sociali e politiche sono  conseguenza necessaria della vita, della cultura e  dei costumi delle varie nazioni.   Egli divide in tre grandi periodi la storia civile  delle nazioni, cioè l’età del senso, della fantasia e della ragione, e tutti i fattori dell’incivilimeiito, dalla  religione alla lingua, da questa alla giurisprudenza  c infine alla politica rispecchiano fedelmente le immagini e i caratteri di quei tre grandi avvenimenti  '‘tarici. Anche nell’opera, De universi iurte et prtnùfno et fine uno le ricerche del DIRITTO FILOSOFICO sono  accompagnate dall’indagine storica e innumerevoli applicazioni fa al diritto romano, da cui poi si eleva  ai supremi principii giuridici. Questo sapiente indirizzo trova la ragion di essere in quel supremo pronunziato del De antiquissima Italorum sapiential, che « verum et factum reeiprocantur. Il fatto adunque deve procedere di  conserva col vero, altrimenti si cade o nel formalismo astratto o nell’imperiamo gretto. E con questo criterio VICO dà biasimo ai FILOSOFI ed ai filologi; mancarono per metà I FILOSOFI perché  non accertarono le loro idee con l’autorità dei filologi, e mancarono per meta i filologi perchè non  avverarono le loro idee con l’autorità dei filosofi.  Il vero e il fatto sono due termini convertibili, e,  perchè convertibili, l’indagine storica trova la sua  vera integrazione nei principii di ragione, e questi  hanno il loro fondamento nell’ordine dei fatti bene  accertati.   Storia e Ragione sono adunque i due fattori del  diritto filosofico e, quando si scinde il fatto dal vero,  si avrà del diritto un’idea esclusiva, incompiuta, o fallace. Il diritto, secondo VICO, è un’idea umana, vale  a dire un principio ideale e storico, o meglio un  principio ideale che si attua nella storia; e tanto  è vero ciò che mette radice nell’ordine eterno dell’eterna ragione o dell’eterna volontà in quanto  prescrive alia volontà umana l’equo bono. Secondo questa dottrina il diritto deriva da due  cause coefficienti, cioè: l’utile e l’eterna ragione. L’una dà la forma e l’altra la materia. Utilità»  fiiit occasio iuris, honestas causa. Tutto ciò risponde esattamente allo spirito del sistema vichiano. Infatti la plebe, insorgendo contro il patriziato, conquistava i propri diritti, eppure era mossa dalla molla dell’interesse. Sicché il progresso morale e  civile delle nazioni era occasionato dalle passioni, lagli interessi, i quali contribuivano a far riconoscere i principii razionali. Quao vis veri sen liumann ratio virtus est quantuin cum cupiditate pugnat. Quantum utilitates diligit et exquat, quao  nnum universi iuris principium unusque iincs. L’utile non è per sè stesso né onesto nè turpe, ma  pnò divenire l’uno o l’altro quando è o confonne o disforme alla giustizia. Ecco dunque come il diritto ha l’anima e il corpo,  la materia e la forma, ed lia un contenuto etico, che applica nell’utile. E da ciò segue la definizione del diritto: Igitur ius est in natura utile a eterno, coniincusu acquale. I punti salienti nei quali si rias  mine la teorica del Vico sono i seguenti : l’indagine storica, base della ricerca razionale, convertibilità. del vero col fatto; insidenza del diritto nel  bene, incarnata nella formula dell’equo buono : inerenza dell’equo buono nell’ordine eterno; futilità  in quanto è regolata dalla ria veri; l’utile è materia;  e la ragione forma del diritto. Vincenzo Lilla. Lilla. Keywords: implicature, Vico, Vico ri-vendicato, Vico ri-vendicate, Luigi Speranza, “Grice e Lilla: la semiotica di Vico” – The Swimming-Pool Library. “Il Vico di Lilla” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Limenanti – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. La dialettica come materia di studio trapassa DA ROMA a BOLOGNA nel Medio Evo. Gli scritti tratteggiati di Marciano Capella, di BOEZIO (si veda), di Cassiodoro, e in parte anche di Agostino e del Pseudo-Agostino, son le fonti esclusive che offrirono allora il materiale per lo studio della logica a BOLOGNA, la prima scuola d’Europa. Li tutt’i luoghi dove, in connessione con il (Rifondersi del Cristianesimo, o sorsero numerosi centri di cultura del tutto nuovi, o anche fu talvolta possibile riattaccarsi ad istituti antichi, troviamo co¬ munemente adottato il corso di studi, più o meno compiuto, del TRIVIO – grammatica filosofica, dialettica, e retorica -- e del Quadrivio – arimmetica, geometria, astronomia, e musica. E sebbene il quadrivio non e coltivato dovunque alla stessa maniera, regna tuttavia per lo più una certa uniformità nello studio del trivio, in quanto che non c’e scuola dove queste tre arti mancano. Non è frase o esagerazione il giudizio che pronunziamo relativamente alla dialettica, che cioè l’intiera ITALIA, per tutta la estensione in cui in generale la filosofia nella sua graduale diffusione è venuta a contatto con esso, è stato addottrinato dalla tradizione dei filosofi, testé nominati, della tarda ROMANITÀ, che cioè in ITALIA si venne effettivamente a conoscenza di un certo materiale di teorie logiche, e anzi soltanto, in modo esclusivo, sul fondamento di quella tradizione. Appunto per questo riguardo, tuttavia, sembra che la storia della dialettica non deve già esorbitare dal campo che le spetta. Si dà cioè il caso che da notizie isolate sopra istituzioni scolastiche, o da cataloghi di biblioteche, e via dicendo, non risulti assolutamente nient’altro, se non che in questo o quel luogo o era semplicemente conservato, o in una qualunque scuola claustrale era anche soltanto letto uno saggio di dialettica, opera di Marciano Capella o di BOEZIO (si veda) ecc., ovvero che c’ è stato chi si è coltivato la mente con questa lettura, o l’ha raccomandata ad altri, e così via. Orbene, queste notizie, per quanto preziose ci possano apparire, proprio a cagione della loro sporadicità, noi dobbiamo lasciarle alla storia generale della filosofia o alla storia della universita di BOLOGNA; poiché per la storia della dialettica basta in generale il fatto di un diffuso esercizio delle sette così dette arti liberali, quale generico fondamento per entrar a parlare del Medio Evo, e su questa base dobbiamo poi andare qui in traccia di ciò che e prodotto da ima personale, per quanto ristretta, attività, di singoli filosofi, e che perciò presenta elementi, i quali hanno contribuito al progresso della filosofia nel corso della sua storia. Inoltre, simili dati, anche se per essi non si oltrepassi la cerchia del materiale apparentemente insignificante, conterranno poi bene in sè a lor volta qualche elemento, che permetta di trarre induzioni relativamente a ciò che dicevamo dianzi, che cioè accanto all’attività individuale isolata, ha da esserci stata una operosità collettiva, rimasta attaccata semplicemente al testo della tradizione dei libri scolastici. Si diffonde nelle scuole la dialettica della tarda LATINITÀ. Ma ima osservazione sola, riguardo a questo materiale scolastico, bisogna premetterla subito qui, in tutto il suo rigore e in tutta la sua estensione. Dobbiamo cioè fin dal principio tener fisso lo sguardo sopra l’assoluta esclusività del materiale stesso, cioè in primo luogo sopra il fatto che questi prodotti filosofici LATINI sono incondizionatamente i soli che si trovassero in circolazione, e che pertanto l’ITALIA non conosce nè poteva adoperare in generale, per la dialettica, nessun’ altra fonte, all’ infuori da Marciano Capella, BOEZIO (si veda), Cassiodoro e l’autentico o lo spurio Agostino. A questo periodo del Medio Evo e possibile, intorno alle opere che stanno a fondamento della dialettica, solamente quella conoscenza di seconda mano, che puo esser attinta appunto a questi filosofi; e particolarmente gli scritti del LIZIO (anzi in generale addirittura anche il nome soltanto di Aristotele) sono conosciuti esclusivamente in quella sola forma, in cui li aveva trasmessi BOEZIO. Quando in documenti si trovano menzionati saggi del LIZIO, non si può pensare a nient’altro assolutamente, se non appunto a queste traduzioni di BOEZIO. Così p. es., quando ') Per Tintento presente debbo pertanto lasciar da parte un materiale di fonti, non scarso e che sono riuscito a raccogliere non senza fatica, un materiale che o si gonfierebbe sino a formare una storia di BOLOGNA, oppure, anche a volersi limitare (cosa del resto non facile a farsi), a una scelta di passi, strappati dal contesto e solo attinenti alla dialettica filosofica, comprenderebbe pur sempre soltanto la documentazione di un fatto, anche senza di ciò universalmente noto, che cioè il contenuto della scienza scolastica e formato da quelli filosofi nominati più sopra.]  tra i libri della Biblioteca di York viene nominato anche un « aoer ArisBobeles » 2 ), o quando troviamo ricordate a Tegemsee le Categorie di Aristotele. Certamente, che simili passi sieno tutti da spiegare soltanto a questa maniera, e perfettamente chiarito al lettore, grazie, per così dire, alla sua personale esperienza, soltanto da ciò che si dirà appresso, come pure dal trapasso a quel periodo, in cui venne a conoscenza del Medio Evo il testo del LIZIO. Ma si è ritenuto non superfluo delimitare esattamente fin da questo momento il campo visivo. Naturalmente una eccezione soltanto apparente è data dalla tradizione di un Bulgaro, un certo Simone, che avrebbe studiato a Costantinopoli la sillogistica di Aristotele. Poiché, che nell’IMPERO ROMANO di Oriente i greci si occupassero di tale materia, si è ba- [La biblioteca fondata a York da Alberto è descritta dallo scolaro di lui, Alcuino, nel suo poema De Pontificibus et Sanctis ecclesiae Eborucensis, Aixuini Opera, ed. Frobenius. Ivi si legge, [Fersus de Sanctis Euboricensis Ecclesiae: cfr. MGH, Poetile latini nevi Carolini, ed. Dùmmler]: Qiute Victor inus script ere BOEZIO alque, Historici velerei, Pompeius, PLINIO, ipse Acer Aristoteles, rhetor quoque TuUius CICERONE ingens [P!L]) Un monaco di Tegernsee scrive in una lettera (riferita dal Pez, Thesaurus Anecdotorum Novissimus,  [Codex diplomatico- historico-epistolaris di Pez e Hueber): stultam fecit Deus sapientiam mundi huius (queste son parole di S. Paolo, ad Corinth.), poslquam exsiccayit fluvios Ethan. Prae dulcitudine enim decem chordurum Davidis.... paene oblitus sum totidem culegoriarum Aristotelis.Posso qui rinviare fino da ora per il momento al noto eccellente lavoro di Jourdain, Recherches critiques sur Page et l’origine des traductions latines (TAristote, Parigi, sia pure riservandomi di doverlo in più luoghi correggere e integrare. Liutprandi Antapodosis Pertz, MGH: hunc etenim Simeonem emiargon, id est semigraecum, esse idebunt, eo quod a puericiu Bizantii Demostenis rhetoricam Aristotelisque silogismos didicerit [PL]. Ma c’ è una notizia isolata, e una soltanto, che potrebbe sembrare in contraddizione con il giudizio da noi pronunziato. Cioè, Papa Paolo I manda a Pipino il Breve, vari scritti, citando egli stesso tra questi, nella lettera relativa, anche libri del LIZIO; tuttavia il documento, se è genuino, e della sua autenticità non sembra esserci ragione di dubitare, parla assai più a favore che non contro la nostra tesi, poiché manifestamente questo esemplare, unico allora in quella regione, di mi testo del LIZIO, rimane sepolto presso la corte di Francia, oppure anda perduto, non riscontrandosi almeno in alcun luogo la minima traccia di uso che ne sia stato fatto. Inoltre, per quei paesi, la prima sicura notizia di traduzioni dal LIZIO, cade anzi in generale soltanto all epoca di Carlo Magno, e appresso verniero ancora i lavori dello Scoto Eriugena (traduzione del Pseudo-Dionigi. La lettera è stampata da Cajetanus Cenni, Monumenta dominationis pontificiae, si ve Codex Carolinus (Roma), dove figura il passo. Direximus edam excellentiae vestrae et libros, quantos reperire potuimus, id est, Antiphonale, et Responsale, in simul artem grammaticam, Aristotelis, Dionysii Ariopagitae libros (nel Cenni si legge, senza segno di divisione, artem Grammaticam Aristotelis), Geomelricam, Orthographiam, Grammaticam, omnes Graeco eloquio scriptores. La frase “graeco eloquio’, il cui significato nel linguaggio dell’epoca è fissato con piena sicurezza, si rifere certo esclusivamente ai libri su nominati, soltanto a incominciare da Aristotele, perchè 1’ Antiphonale e il Responsale sono naturalmente in latino, e così pure probabilmente la prima grammatica, mentre la seconda e in greco. Del resto non si trova questa notizia utilizzata in Jourdain. P. es. nel Chronieon Saxoniae et vicini orbis Arcloj di David Chttraeus (Lipsia  [ed. di Rostock): Instiluit autem Carolus Osnabrugae, ut in collegio [BOLOGNA] assidui lectores Latinae linguae essent. Vidi enim cxerulli um literarum fundationis, ut vocant, quas ecclesiae Osnabrugensi Carolus dedit. E così in molti luoghi, ma sempre con riferimento alla nota ambasceria della Imperatrice Irene e alle relazioni diplomatiche, che ne furono determinate. La tradizione della dialettica scolastica, nei riguardi delle traduzioni di BOEZIO, è limitata e s’ignorano le principali opere logiche di Aristotele. In secondo luogo, tuttavia, anche quel materiale di fonti IN LATINO è, a sua volta, proprio nella parte essenziale, limitato. Mentre cioè gli scritti del LIZIO avrebbero potuto esser letti tutti quanti nelle traduzioni di BOEZIO, che sono per tale oggetto LA UNICA FONTE, proprio qui si presenta ima rigorosa delimitazione; poiché della su citata produzione letteraria di BOEZIO, si adoperano in modo esclusivo soltanto quelle traduzioni, eli egli stesso illustra con commenti e apprestate per uso scolastico A BOLOGNA, cioè, oltre alla doppia ri-elaborazione dell’ “Isagoge” di Porfirio, soltanto la traduzione delle Categorie e le due edizioni del libro de interpretatione [cf. “the only two things on which I lectured with J. L. Austin at Oxford” – H. P. Grice], a cui si aggiungono poi a poco a poco ancora i compendi che son opera dello stesso BOEZIO. All’ incontro, le versioni dei due Analitici, come poire della Topica aristotelica e dei Sophistici elenchi, tutte opere che BOEZIO lascia LATINIZZATA si senza commento, rimaneno, appunto per questo motivo, escluse dalla considerazione, e si sottrassero pertanto alla conoscenza, a tal punto che per lungo tempo non si sa in generale nemmeno più che esistesno. Sicché, quando a poco a poco incominciarono a rendersi note quelle opere principali del LIZIO, e questo un momento decisivo per lo sviluppo della dialettica. E mentre L, ritene fallaci tutt’ i tentativi di dividere in periodi, per motivi interni, la così detta « filosofia » medievale, mi sembra resa possibile per 1 intiero Medio Evo una parti¬ zione in singoli periodi, esclusivamente dal punto di vista della quantità del materiale, di volta in volta esistente o novamente apportato. Così potrei anche nettamente qualificare la differenza, rilevando elle prevale qui una conoscenza frammentaria di BOEZIO, mentre nella Sezione prossima si manifesta un influsso chiaramente visibile, così della conoscenza, che a poco a poco si acquista, DELL’INTIERO BOEZIO, come pure dell’ apprestamento di traduzioni nuove delle opere non utilizzate finora; a ciò si aggiungono in sèguito per le Sezioni successive analoghi arricchimenti di materiale. La dimostrazione di queste 1 mie idee e presentata, come ben s’intende, qui appresso. In poche parole, dunque — per ripetere la delimitazione così recisamente e chiaramente quant’ è possibile —, il materiale tradizionale della dialettica, per questa prima sezione del Medio Evo, è costituito esclusivamente da quanto segue: Marciano Capella, Agostino, pseudo- Agostino. Cassiodoro, e BOEZIO. E, precisamente, di BOEZIO: ad Porphyrium a VITTORINO translatum, ad Porphy - rium a se translatum, ad Aristotelis Categorias, ad Aristotelis DE INTERPRETATIONE, ad CICERONE Topica, Introductio ad categoricos syllogismos, De syllogismo categorico, De syllogismo hypothetico. De divisione, De defninone, De differentiis topicis. Manca invece in questo primo periodo la conoscenza dei due Analitici, della Topica e dei Sophistici elenchi di Aristotele. E limitandosi lo studio della filosofia in modo esclusivo alla DIALETTICA, mentre altri rami, come ■s p. es. la PSCIOLOGIA RAZIONALE e l’ETICA, sono sistematicamente intrecciati con la teologia morale, anche per la filosofia in generale i suddetti filosofi formano il materiale quasi esclusivo; poiché vi si aggiunge ancora solamente, riguardo alla COSMOLOGIA, la traduzione del Timeo piatonico, opera di Calcidio: come pure, d’altra parte, per la così detta questione della teodicea, un materiale spesso sfruttato era fornito dal De consolatione philosophiae di Boezio. Ma duplice e l’attività personale, esercitata da insegnanti o da filosofi di tutto questo periodo, sopra siffatto materiale esclusivo della tradizione scolastica. Vale a dire, o si tratta di aggiustare compendi, per lo più dominati da un affastellamento di svariate fonti, accozzate a casaccio (in maniera del tutto simile a quel che abbiamo dovuto rilevare particolarmente a proposito dello scritto di Cassiodoro [De artibus ac disciplinis liberalium littcrarum ]), oppure ci si occupa di un più o meno minuto COMMENTO dei libri già in uso, tra i quali si fanno avanti in prima linea la Isagoge e le Categorie nella redazione (traduzione e commento) di BOEZIO. Ma inoltre, alla discussione dei problemi della dialettica s’intrecciavano questioni di teologia GIUDEO-CRITSTIANA – non romana --, come pure le controversie della logica fanno risentire il loro possente influsso sopra le contese della dommatica, e anzi in generale domina da principio, per questo riguardo, una situazione molto caratteristica, che non si può lasciar esclusa dalla nostra considerazione. Atteggiamento della ortodossia rispetto alla logica. La dottrina GIUDEO-CRISTIANA, cioè, in se stessa — fatta del tutto astrazione dal processo di formazione delle idee GIUDEO-CRISTIANE in generale — e in verità, nel suo primo manifestarsi, informata ad assoluta semplicità e immediatezza, e parla all’ animo suscettibile di emozione religiosa. Ma nello stesso tempo si trova determinata, nel corso della sua ulteriore propagazione, a operare su di una popolazione, la quale in parte possede una cultura, formata per opera delle scuole che funzionavano nella tarda antichità, e che puo cosi cougiungere al contenuto nuovo di dottrma giudeo-cristiana e di Anta cristiana, un aspetto formale del mondo antico. Come da questa mescolanza d’immediatezza religiosa e di addottrinata capacità didattica, si svolgesse rapidamente l’antitesi fra LAICATO e clero, si formasse cioè una ecclesia docens, e come la Chiesa, per il fatto eh era docens, affatto naturalmente ponesse le mani sopra le istituzioni scolastiche, e così facendo si appoggiasse, formalmente, a quel che già esiste, sou cose che non c’interessano punto qui, nè più nè meno che le lotte, condotte con le armi della dialettica, e attraverso le quali si veniva compiendo la formazione del dogma. Invece è di grande interesse per noi la circostanza, che venne a manifestarsi da un lato una valutazione positiva, e dall’altro lato un disdegno della logica, come già si è appunto veduto per due eminenti rappresentanti della teologia giudeo-cristiana, cioè Girolamo e Agostino, che abbiamo dovuti ricordare più sopra, e dei quali particolarmente il secondo mostra molto chiaramente il presentarsi di quelle due tendenze, una accanto all altra. Ma quanto più energicamente e accentuato in tale contrasto il punto di vista specificamente giudeo-cristiano, tanto maggior importanza dove essere riconosciuta a quella intima immediatezza, che Agostino denomina lux interior: e non soltanto è cosa che si spiega facilmente, ma addirittura risponde a una esigenza teorica, che proprio i più rigidi fra i primi teologi giudeo-cristiani, mentre conduceno la polemica obbligatoria contro il contenuto dell’antica filosofia, hanno un atteggiamento molto riservato anche verso le forme di quella filosofia, da'l quale la fede non soltanto non può essere sostituita, ma resta anche sovente turbata. Fatto sta che così si forma anzitutto un’avversione sistematica contro la logica o dialettica, e se riflettiamo che nelle lotte per la formazione dei dogmi, proprio gl’Ariani e i Pelagiani hanno una effettiva superiorità per cultura e ABILITA DIALETTICA, ci riesce facile spiegarci come quell’avversione si sia sviluppata sino a diventare animosa ostilità. Non soltanto da Ireneo e Tertulliano, ma particolarmente nell’epoca culminante della contesa intorno ai dogmi, da Basilio il Grande, Gregorio Nazianzeno, Epifanio, Hieronymue Presbyter [Stridonensis: S. Girolamo], Faustino, Mansueto, Eusebio, Socrate, Teodoreto e altri, può citarsi una stragrande quantità di passi, nei quali LA DIALETTICA è tacciata di superfluità, o è denominata un ozioso operare, che distrugge se medesimo, e un’artificiosa filastrocca senza scopo, la quale per il suo carattere mondanamente versipelle non può profittare alla semplice pura verità, e in generale è ANTI-cri- [Basilo Magni adversus Eunomium (Opp ., ed. di Parigi): ij xòrv \ApioxoxéXo'JS 5vxwj xal Xpoaduioo auXÀoY'.sp&v éìei rcpòp xà |iaOetv Sxi 6 iYÉvvrjxo; où YSY^vrjxat ;  [PG « mira vere Aristotelis aut Chrysippi syllogismis opus nobis erat, ut disccrcmus eum qui ingenitus est, (neque a seipso, neque ab altero) genitum fuisse. Tertulliani de praescriptione haereticorum, Opp., ed. di Venezia): Miserum Aristotelem! qui illis dialecticam instituit, artificem struendi et destruendi, versipellem in sententiis, coaclam in coniecturis, duram in argumentis, operariam contentionum, molestarli etiam sibi ipsi, omnia relractantem, ne quid omnino tractaverit [PL], Grixohii Nazi.anzeni Oratio 26 (Opera, ed. di Colonia): oOx ol5s Xóy“ v o-potfà(, faas xe ooyibv xa l atviy|iaxa, xal xà; nóppcovo? ivaxàosig, f; è:pééeij, f) àvxiO-éosif, xal xù>v Xpualintou auXXoYiaptùv xàp éiaXùast?, ■?, xiòv 'ApioxoxéÀoog xsxvùv x^v xaxoxexvlav. Oratio: yaipovxsg xalj pspVjXoi; xsvo^òiviatf, xal àvxtOéaect xfjg (tsuìiovòpou Y v( ',aso) f’ xa i? eig oòSèv xpL ( at|iov cpepoùaaij XoY 0 l ia X^ al » [PG: Oratio nec verborura flexus et captiones novit, nec sapientoni dieta et aenigmata, nec Pyrrhonis instantias, aut assensus retentiones, aut oppositiones, nec syllogismoruin Chrysippi solutiones, aut pravorn artium Aristotelis artificiuin. PG Oratio quique inanibus verbis, et contentionibus falso nominatae seientiae, ac disputationum pugnis, quae nullam utilitatcm afferunt, obleetantur Epiphanii adversus haereses Opera, ed. Petavius, Colonia): Ssivóxrjxt gàXXov iaoxoùg ÈxSsStiixaaiv, èvSuaà|ievot ’ApiaxoxsXrjv xs xal xoòj SXXoog xoO xóo|iou StaXexxi- xoùs, iùv xal xo'jf xaprcoùg iiexlaat, |n;8Éva xapnòv 8ixaiooóvi){ eiSóxsf. lbid.. Ili, praef. (p. 809): èx ouXXoYiapffiv y àp xal ’Apiaxo-] -stiana. Epperò tutta la sillogistica, come deve venir meno dinanzi alle semplici parole degli Apostoli, serve dal canto suo ancor mia volta soltanto a contra- xsXixcòv xal Y Et0 ]iSTptxà>v xòv S-sòv Ttaptoxàv jìoóXovxai- Ibid., Ili, 76, 20 (p. 964): xaòxa Ss dxpatpstxai itàaav ooD xùv Xóyiov ouXXo- yumxijv nuÀoXoytav. Kal oì)x èv&èxt'tat ^{*^6 rcpoipé^aatf-ai jiath^ràs Yevéa&ai ’Apia'coxéXoos toD ao5 éicioxdtou»... Où Y a «° * v Xif(p aoXXoYtaxixip r/ [ìaa'.Xs'.a xcòv o&pavù>v, xal èv Xó^iji X 0 |iJta:mx, àXX" èv Suvct|isi xal àXYiO-stqc (v. nota 20). Ibid., 76, 24 (p. 9il): xpooèXaps xò 0-stov, ibg xaxà xòv aiv Xoyov, si; xr ( v auxoO xiaxiv xijv ouXXoYiaxtx^v xaùxnjv aou x^v xsxvoXoyiav. 1PG, calliditatem potius amplexi sunt, seque et ad Aristotelem ac caeteros mundi huius DIALECTICOS accommodare maluerunt: quorum fructus ita consectantur, nullam ut justitiae frugem proferant. PCI, quippe syllogismis quibusdam Aristotelicis ac geometrici Dei naturato explicare studeut. PG atque haec omnia tuam illam argumentorum fabulam circumscribunt. Neque id hortatione ulla pcrficere potes, ut Aristotelis praeceptoris lui discipuli esse velimus. Non enim in syllogismis argumentisve regnum cadeste positura est, neque IN ARROGANTI INFLATOQUE SERMONE, sed in virtute ac ventate ». PG, Deus, ut asse rere videris, tuum illud DIALECTICAE SVBTILITATIS ARTIFICIVM, velut quandam lidei euae accessioncm adjecit. Inoltre proprio in Epifanio si presenta con la massima frequenza affermazioni di questo genere. Cfr. Hieronvmi de perpetua virginitale B. Mariae adversus Helvidium (i Opp ed. di Parigi: Non campimi rhetorici desideramus eloquii, non dialecticorum tendiculus nec Aristotelis spineto conquirimus: ipsa Scripturarum verbo ponendo sunt [PL. Faustini de Trinitate adversus site de Fide contrai Arianos, Bibliolheca Veterum Patrum, cura Andreae Gallando, Venezia, VIE. Noli injelix adversus Christum Dominimi tolius creuturae, Aristotelis artificiosa argomenta colligere, qui te Christiunum qualitercumque profileris, quasi ex disciplina terrenae supputationis circumscriptor advenias [P.L. Theodoreti sermo de natura hominis (Opp., ed. Sirmond, Parigi) [ed. Festa] : fjpslg 8è aòxffiv xf ( v ipjtXrjgiav òXo^upò|isi>a 8xi 8»; ópùvxsg gapfapocpwvoog àvOpui- xoug xtjv 'EXXtjvtxTgv eÒYXtoxxlav vevixrjxóxag, xal xoòg xsxop'jis’Jiié- vo'Jg pùS-ODg xavxÉX&g ijsXtjXapivous, xal xoùg àXiEuxixoog ooXoixp opob? xoùg ’Axxixoùg xaxaXeXoxóxag E'jXXoyi3|ioù? [PG Graecarum affectionum curatio ): trad. Festa: Ma noi compiangiamo la stupidità dei derisori. Vedono' pure che uomini di barbara favella hanno vinta la facondia ellenica, hanno spazzato via. le loro ben composte favole, vedono che i solecismi dei pescatori hanno dissolto i sillogismi attici. Quest’allusione alla semplice parlata dei pescatori si trova pure altrove ancora piuttosto di frequente.] stare e falsificare la fede, come in particolare si vede nel caso degl’ariani, e così via dicendo. Ma se per tal modo LA DIALETTICA, della quale per lo pj£i g]*£} latto responsabile Aristotele, e precisamente in particolare a cagion della sofistica contenuta nelle Categorie, era quasi diventata oggetto di orrore, insorge tuttavia in pari tempo da se stesso il senso della necessità di potersi difendere ad armi uguali contro i nemici della dottrina ortodossa, ed è naturale che finisce con il prevalere questo motivo, che cioè LA DIALETTICA è UTILE per la lotta contro gli eretici. Quel che ora importa, e dunque lo spirito e la intenzione, con cui si coltiva lo studio della DIALETTICA, e a questa maniera si [Irenaei adversus contro haereses, Opp., ed. di Venezia): minutiloquium miteni et sublimitatem circa quaestiones, cum sit Aristotelicum, injerre fidei collant II r [cfr. PO, — Eusf.bii historia ecclesiastica, Opp., ed. di Parigi: Christum ignorarli, sed quaenam syllogismi figura ad suoni impietalem confimiaridaiti reperilur, studiose indagarunt; quod si quisquam forte illis aliquod divini eloquii testimonium pròjerat, quaerunt, ulriim CONIVNCTAM VN DISIVNCTAM syllogismi figuram possit efficere sollerti impiorum astutia et subtilitate simplicem ac sinceroni divinarum scripturarum fidem adulterant [cfr. PC, e Griechische Chrisùiche Schriftsteller traduzione latina di Rufinus, Hieronymi. adversus [Diulogus contrai Luciferianos, Ariana haeresis magis cum sapientiu seculi facit, et argumentationum rivos de Arislotelis fontibus mutuatur [PL) Socratis Historia ecclesiastica, ed. Valesii, Torino: siiOòc o&v èjjsvo?cóva: (intendi Aezio) xoòg èvxUYXà- vovxag. ToOxo 8è Ijxoìei, ta:j xaxrjYOpEcus’ApiaxoxéXoos zioxsóiov gt- jìXEov Ss oilxojf ixxlv èmYSYpa|i|isvov a 5 x(j> - ig aòxàìv xs SiaXsYÓpsvog [xal] iauxijì allaga 7xotv ’ApioxoxéXoos.] puo persino menar vanto delle proprie conoscenze in materia di DIALETTICA ; ma con ciò puo benissimo rimaner legata la idea, che proprio soltanto per ragioni estrinseche la teologia dommatica ha, servendosi della dialettica, messo il piede nel campo di un verbalismo affatto esteriore, e pertanto non ci fa meraviglia trovare più oltre ripetutamente un’aperta ostilità contro qualunque dialettica in generale. La Isagoge di Porfirio. Ma in ogni caso, come si è detto, la ecclesia docens e per questa via, pervenuta ad accogliere nell’ambito della propria attività una certa somma di teorie logiche, e una volta che, per uso dei chierici, sono adottati compendi quali si vogliano, — se pure con le debite riserve per quel che riguardava lo spirito informatore e la intenzione —-, puo e dove bene presentarsi inevita- ouXÀoytO|ix é>S àXy,9-eiav èxrtaiSeùovxa, àXX’oif; gjtXa x-ij« àXr^slaj xaxà xoù 4>eó8oo£ Y‘T vé l 1 ® va 82 > 1189 ‘ Aristotelis syllogismos, et Platonis facundiam aurium adjumentis e cieco didicit Didymus, non quasi veritatem ista doceant, sed quod arma sin! veritatis contra mendacium. Cyrilli Alexandrini Thesaurus de Trinitate, 11 ( Opp, ed. Auberl, Parigi: Ex pa8-vjpàxtov r,|nv xiòv'Apiaxoxé- Xoug ipiuópevot, xal xj Seivóxr ( xt xi)£ Ev x6o|i(p aotplag àTioxsxpxinivoi, xxóxoug èystpcuat ^'rjp.àxtov XEVtòv, oòx e18óxs£ 8 xi xal tipEg xaóxtjv àpaiHB? 8/ovxej èXsYX s ' 1 Ì 30VTal ' S-aupiaai 5 vxwj àxiXooS-ov. 6 xi 8V) xàv iispl xoa |isi^ovo£ xal xoO EXàxxovog Esexàsovxsf Xéyov, i-l xòv Ttspl xoO 6|ic£o’J xal àvopolou |iexar:sTCX(óxaotv, oOx eISóxe; 6 xt, xaxà xr/V ’ApiaxoxéXouj xiyyrp, 4 tp* % pàXiaxa |iEYaXo:ppovEtv Etónlaaiv aòxol, oùx et; xaùxòv xaxaxàxxExat. Y* V °S 33 1:5 6 l i0l0v xal xè àvópoiov. ó)( xal xò pst^ov xal xò IXaxxov [PG. Ea Aristotelica disciplina nobis insultantes, et mundanae sapientiae fastu turgidi, inanes verborum crepitus excitant, parum sibi persuadente se Aristotelicae disciplinae ignaros ostendi posse. Miran- dum enim est quod, rum rationeni majoris et minoris excutiant, ad sermonem de simili et dissimili prolabantur, nescientes, juxta Aristotelis placita quo ipsi plurimum sese jactitant, simile et dissimile non in eodem genere collocari, in quo maius et minus.] bilmente anche il caso di filosofi isolati, i quali, di quel materiale che dove altrimenti servire quale mezzo ordinato al fine, fanno oggetto speciale e indipendente del loro studio. E furono, per questo riguardo, prima di tutto le Categorie, che, in dipendenza dalla tradizione scolastica della tarda età classica, trovarono largo impiego nelle fondamentali questioni teologiche non pagane ma giudeo-cristiane, e soprattutto, precisamente, proprio in Agostino (relativamente alla Trinità e ai così detti attributi del divino. Anzi è persino possibile che già abbastanza anticamente si ritene autentico lo scritto pseudo-agostiniano sopra le Categorie, e ci si sente così francheggiati, nello studio di quest’oggetto, dall’AUTORITA dello stesso Agostino. Ma se le Categorie avevano in ogni caso un valore rilevante per la teologia pagana o romana e giudeo-cristiana, si ha in verità nello scritto di Porfirio, cioè nelle Quinque voces – genus, species, proprium, accidens, differentia -- una introduzione alle Categorie, ritenuta indispensabile nella scuola, e ben e’ intende come, sia per l’insegnamento sia per lo studio, si prende sempre principio dall’ “Isagoge”, che da uno dei commentatori e stata anzi persino indicata come condizione preliminare della beatitudine eterna. Ma tutti due, sia cioè il libro delle Categorie sia anche lo scrittarello di Porfirio, sono accessibili, per la Chiesa latina, nella traduzione di BOEZIO, e inoltre corredati anche di note illustrative, e così diventarono i principali testi scolastici medievali di dialettica. [Miseria del pensiero medievale]. Il corso della storia ci mostra come, esclusivamente dallo stu- [L’argomentazione e di questo tenore. Chi non studia l’ “Isagoge”, non intende le Categorie, e chi non intende le Categorie, non intende il resto dell’Organon. Ma chi non intende l’Organon, non sa pensare rettamente, e chi non pensa rettamente, non sa AGIRE rettamente. Ma a un tale uomo non può toccare la beatitudine eterna.] -dio ininterrotto di Porfirio e di BOEZIO prende origine quella contesa intorno al valore dei così detti ‘universali’, che, secondo si è finora comunemente ammesso, si  presenta come antitesi di due termini soltanto, realismo e NOMINALISMO, ma in verità fa venire in luce una variopinta moltitudine di opinioni, caratteristiche di altrettanti numerosissimi indirizzi. Queste battaglie sul terreno della dialettica non sono già suscitate da una filosofia personale, segnato della impronta di una individualità autonoma, di mi uomo eminente. E bensì una materia tradizionale, sono pensieri ereditariamente trasmessi per via scolastica dall’antichità, e ora non si fa che prenderli a poco a poco in considerazione alquanto più rigorosamente, nè altra che questa e la occasione al formarsi di determinati atteggiamenti, caratteristici delle varie tendenze, e le cui radici sono di già riposte nella tradizione stessa. Di creazione, intimamente indipendente, di un motivo nuovo, non è il caso di parlare, nemmeno nello Scoto Eriugena, e neanche in Abelardo. E im’epoca che sta ancora attaccata tutta quanta nel modo più assoluto alla pura tradizione, e così puo tutt’al più, con uno studio assiduo, pieno di abnegazione, forse anche minuzioso, appesantirsi più ostinatamente, entro gl’angusti limiti che le sono dati, sopra singoli punti, ma non mai dominare liberamente la materia. Giustamente colpisce gli scolastici non la taccia di confidente avventatezza o di tumida vacuità, che li porta forse a scaraventare nel mondo sistemi belli e fatti, nè ci fan rabbia con la loro verbosità. Ma ben piuttosto ci prende un senso di compassione, quando vediamo, con un campo visivo estremamente ristretto, sfruttate fedelissimamente sino all’esaurimento, con una solerzia senz’ombra di genialità, le vedute unilaterali possibili entro quel campo 6 tesso, o quando a questa maniera si sprecano secoli intieri nel vano sforzo d’introdurre metodo nella insensatezza. Simili pensieri malinconici sopra tanto tempo perduto, si destano in noi per lo più proprio là dove con maggior violenza si fan guerra, relativamente agl’universali, le diverse opinioni, svolte sino alle ultime conseguenze, mentre il primo sorgere della contesa ci può pur sempre apparire in parte come principio di un’azione fecondatrice e stimolatrice. Per il progresso di quella scienza che si denomina propriamente filosofia, bisogna considerare questo periodo come un millennio assolutamente perduto, poiché ci si dove, per mezzo del Rinascimento, riattaccare proprio a quel punto, a cui ci si e trovati. [La questione degli universali determina un CONTRASTO DI TENDENZE NEL CAMPO DELLA DIALETTICA: PREVALENZA DI UN REALISMO platonico]. Se riflettiamo che la “Isagoge” di Porfirio e il testo scolastico più universalmente diffuso, il quale e ritenuto condizione preliminare per aver adito allo studio della dialettica, certamente si riesce a spiegare che in tutte le scuole il filosofo della materia, nell’interesse suo e de’ suoi scolari, dovesse indugiarsi alquanto più a lungo sovra UN PASSO d’importanza decisiva, che si trova subito in principio del libriccino (si sa bene che da principio si va avanti volentieri più minuziosamente e più lentamente), cioè sopra quel passo, che nella traduzione di BOEZIO è di questo tenore: essere cioè prima quaestio  se gl’universali hnno realtà obbiettiva come esseri IN-CORPOREI, o sieno solamente finzioni nella sfera dell’intelletto umano. E se ora la risposta più precisa a questa domanda, che riguarda nel modo più chiaro l’antitesi di platonismo e aristotelismo, viene evitata da Porfirio-BOEZIO, perchè altioris ne gotti, proprio da ciò i filosofi piu provetti sono determinati a decidersi per uno o l'altro dei due indirizzi. Vero è ora che il neo-platonico Porfirio dice espressamente in quel luogo, che egli si attene alla tesi della natura obbiettiva degl’universali. Ma in pari tempo ha aggiunto eh’ egli  ha svolto la propria trattazione, per lo più secondo l’indirizzo del LIZIO anche BOEZIO, dal canto suo, dichiara, nella forma più sbrigativa, che gl’universali esistono in verità, e vengono appresi consideratione animi. Cosi da questo passo, di decisiva importanza, del testo di scuola, e bensì reso possibile che molti con tutta ingenuità credreno fosse loro dato di seguire insieme un modo di pensare platonico dell’ACCADEMIA e uno aristotelico del LIZIO. Cf. H. P. Grice, A. Dodd, IZZING and Hazzing, platonism. Ma proprio per quelli che vuole pensarci su con alquanto maggior precisione, si tratta di un aut aut, e rispetto a quest’ alternativa, dal punto di vista teologico romano e giudeo-cristiano, la risoluzione e propriamente presa di già in antecipo a favore di un realismo platonico. Poiché, quando la dialettica e considerata tutta quanta un vuoto formale strimpellamento verbale, quei che si occupano purtuttavia di questa materia, doveno necessariamente industriarsi di dare a tutto il complesso un fondamento reale, e precisamente, come ben s’intende, non puo in ciò esercitare decisivo influsso alcun’altra realtà, all’infuori da quella che si trova nelle idee giudeo-cristiane. Ed è pur anche possibile che, come per altri riguardi, così anche relativa- [V. Col'SIN, Ouvrages inédits d'Abélard, Parigi: riprodotto con alcune correzioni e aggiunte nei Fragnients de philosophie du moyen-àge, Parigi, ha il grande merito di essere stato il primo a mostrare questa vera fonte del nominalismo e del realismo, e in base alle indicazioni di lui, Havréau, De la philosophie scolastique, Parigi, Hist. de la phil. scol., Parigi, ha tratto dai manoscritti ancora vario materiale prezioso.] -mente alla dialettica, hanno cooperato qual autorità perentoria, sentenze che si trovano nell’epistole paoline. Per lo meno vediamo enunciata da Teodoro Raitliuensis, con riferimento diretto a Paolo, la opinione che si trovi in contraddizione con l’apostolo chi designi lo studio delle Categorie come un eminentissimo pregio del teologo, e così porta la pia disposizione d’animo del giudeo-cristiano a non consister d’altro che di parole o suoni [FLATVS] di parole. E sebbene non vogliamo citare questo passo addirittura come la prima e più antica manifestazione dell’anti-tesi fra nominalismo e realismo, è comunque tanto chiaro tuttavia, che, dalla parte della teologia romana e giudeo-cristiana, dev’esserci, in dialettica, una corrente prevalente, nel senso del platonismo dell’ACCADEMIA, e non del nominalismo o concettualismo del LIZIO. La sostanza indi- [Per es.: ud Corinth., I, 1, 17 : s'ia-;~;s'/JX!i^ba.'. oòx èv ao?!a [evangelizare: non in sapientia verbi]: xal 6 Xóyos poo xal xò xV/pUYPà poi» oòx Iv nsiOotc aocflaj Xifo i?, àXX' èv àjtoSelgs'. nvsùpaxos xal Suvà|isioj, iva Jtlaxif 6p(3v pf/ ^ èv aotplqt àvOptóittov 4XX' èv Sovàpei O-soO [et sermo meus, et praedicatio mea non in persuasibilibus humanae sapientiae verbis, sed in ostensione spiritns, et virtutis: ut fides vestra non sit in sapientia hominuni, sed in virtute Dei] ; ad ThessaL. I, 1, 5: xó «flaYYèXiov ^ptòv oOx è^sv^a-ig 5tpò? 5pàs èv Xóyip póvov, àXXà xai èv Sovdpei xal èv nveùpaxi Stylqt Evangelium nostrum non fuit ad vos in sermone tantum, sed et in virtute, et in Spiritu sancto »] ; ad Timoth., I, 6, 3-4: et xtj éxspoSi- SaaxaXsì..., xsxù?(oxai, pr|5èv émaxàpevog, àXXà voacòv itspi ^TjxVjasts xal Xoyopaxiap Si quis aliter docet superbus est, nihil sciens, sed languens circa quaestiones, et pugnas verborum. Theodori Presbìteri Raithuensis Praeparatio de incarnatione ( Bibl. Patr. Galland.): i-ziiy, 5è 4 Heuijpog cJiiXat; jtpoxaOé^Exai cpfflvalj. èv fr/paoi xs póvotp xal ij/oip T1 ì v sùaéjistav 0noxi8-exaf xalxoiYE xoD àrcoaxóXou XéYOvxop „oò Y“P èv Xiyip ij ga- oiXeta xoS 6so0, dcXX’ èv 5ovàps: xal àXvjOsl:?,, (ad Corinth., I, 4, 20). o5xos 5è xap* a&x(j> Seotjptp xpolxiaxog S-sÌXoyos y vwpijsxat. tì)g àv xàf xaxrjYopiaj 'AptoxoxéXooj. xal xà Xouxà xiòv S?o) cpiXoaó;pci>v xoptjià Jjaxrjpévop toyX  ) Orig. II, 23 (p. 29a) [Lindsay]. In his quippe tribù» generibus Philosophiue etium eloquio divina consistunt. Nam aut de natura disputare solent, ut in Genesi et in Ecclesiaste: aut de moribus, ut in Proverbiis et in omnibus sparsim libris: AVT DE LOGICA [DIALETTICA], prò qua nostri Theoreticam [ma Prantl legge tlteolo- giorni sibi vindicant, ut in Cantico canlicorum, et Evangeliis [PL. Per lo meno, quanto al senso, la distinzione coincide perfettamente con quel che si legge nella introduzione allo saggio di VITTORINO da noi conservato, Expositio in CICERONE Rhetoricam (ed. Capperonicr ed. Halm, RHETORES LATINI Minores: Q. Faro Laurentii VITTORINO Explaruitionum in Rhet. M. T. CICERONE, Orig.: Inter arlem et disciplimim Plato non soltanto e possibile tenere staccati come due rami separati il dominio della retorica e quello della speculazione, ma era anche consentito a quest’ultimo di trovare, dal suo lato estrinseco e tecnico, una particolare maniera di trattazione. Compendio di dialettica nelle Origines. Così Isidoro divide tutta la sfera della logica o dialettica, anche tenuto conto della dictio e del sermo, in grammatica, dialettica, e retorica – il trivio, e a quel modo che, rispetto alla distinzione adottata nelle scuole tra questa e quella, si attiene parola per parola a Cassiodoro, così in generale proprio il mostruoso compendio di quest’ ultimo, già da noi più sopra tratteggiato, è quel che Isidoro trasmette, con al¬ cune varianti o aggiunte. Dopo avere cioè compiuto il passaggio dalla PARTIZIONE DELLA FILOSOFIA – psicologia razionale, grammatica razionale -- alla Isagoge in et Aristoteles hanc difjerentiam esse tolueruiit, dicetiles artem esse in his quae se et aliler habere possunt. Disciplina vero est, quae de liis agii quae uliter evenire non possunt. Nam quando veris disputationibus aliquid disseritur, disciplina erit. Quando uliquid verisimile atque opinabile tractatur, nomen artis habebit [PL], e differ. spir. Nunc partes logices exsequamur. Constai autem ex dialectica et rhetorica. DIALECTICA est ratio sive regala disputatali, intellectum mentis acuens, veraque a falsis distinguens. Rhetorica est RATIO DICENDI, jurisperitorum scientia [cf. Grice, the devil of scientism], quam oratores sequuntur. Hac, ut quidam ait, sicut jerrum veneno, sententia armalur eloquio [PL — Orig.]: Logicam, quae rationalis vocatur, Plato subiimxitdividens eam in DIALECTICAM  et Rlictoricam. Dieta autem Logica, i. e. RATIONALIS Aóyoj cnim apud Graecos et SERMONEM significai et rationem [PL — Logici quia in natura et in moribus rationem adiungunt. RATIO enim Graece Xifog dicitur [PL. Dialectica est disciplina ad disserendas rerum causas inventa. Ipsa est FILOSOFIA species, quae Logica dicitur, i. e. rationalis definiendi, quaerendi et disserendi potens. Aristoteles ad regidas quusdam huius doclrinae argumenta perduxit, et Dialecticam nuncupavit, prò eo quod in ea de dictis disputatile. I\'um Xextdv dictio dicitur Ideo autem post Rheloricam disciplinam DIALETTICA sequitur, quia in multis utraque communio existunt [PL] quella «tessa maniera secca, che abbiamo veduta iu Cassiodoro), egli presenta una enumerazione e illustrazione delle quinque voces – genus, species, differentia, proprium, accidens --  dove prende occasione di far risaltare i meriti di Porfirio, di fronte ad Aristotele e CICERONE), e manifestamente non ha fatto che attingere alla traduzione di VITTORINO, commentata da BOEZIO, al quale VITTORINO anzi rinvia egli medesimo). Particolare a lui è, a tal proposito, la pensata sommamente scolastica, di esprimere a mo' d’esempio le cinque voci – genus, species, differentia, proprium, contingents -- in una proposizione. Appresso viene, relativamente alle categorie, una notizia che in principio e in chiusa è ricavata letteralmente da Cassiodoro), ma nella parte centrale è più estesa, e particolarmente più ricca di esempi. Dopo di ciò viene naturalmente de interpr., una Sezione che qui per la prima volta incontriamo con la barbarica – NON-LATINA -- intestazione De Perihermeniis [ Aristoteli s] Le parole introduttive e il nu- [Orig. Cuius disciplinae definitionem plenum existimaverunt Aristoteles et Tulliiis CICERONE ex genere et differentiis consistere. Quidam postea pleniores in docendo eius perfectam substantialem definitionem in quinque V partihus. veluti membris suis, dividerunt [PL]. Boezio, ad Porph. [a Vict. fransi., ed. Brandt  [Opp.], ed. di Basilea [PL]: Isagogas aulem ex Crucco in Latinum transtulil VITTORINO orator, commentumque eius quinque libris BOEZIO edidit [PL]: et est ex omnibus his quinque partihus oratio plenae sententiae, ita, “Homo est animai ralionale, mortale, risibile, boni malique capax” [PL.]. Anche le parole della chiusa del testo d’Isidoro, eh’è guasta, son da leggere secondo il tenore del luogo corrispondente di Cassiodoro. Si ravvisava cioè in Perihermeneias inspi ip |iv)vsia?!. SCRITTO IN UNA SOLA PAROLA, un accusativo plurale, e s’imaginava un corripondente nominativo, “Perihermeneiue”. Invero troviamo nella Storia di S. Gallo di Ii-defons v. Arx, I, p. 262, “die Periemerien » di Aristotele”.] eleo centrale vero e proprio -- la definizione di nomen, verbum, ORATIO (indicativa o enunciativa, imperativa), nuwtiatù, affirmatio, negatio, contradictio) sono copiate parola per parola da Cassiodoro, ma in mezzo ci sono alcune osservazioni più generali, che son prese da BOEZIO, e che, concernendo la relazione tra linguaggio e la psicologia RAZIONALE, vennero ad assumere grande importanza; ma le parole di chiusa segnano il passaggio alla SILLOGISTICA in ima maniera più tollerabile che non sia quella tenuta da Cassiodoro. Segue ora LA SILLOGISTICA  stessa, che, dopo un monito introduttivo a guardarsi dall’abuso sofistico, è presa con la più letterale fedeltà da Cassiodoro. Appresso viene la teoria della definizione, che Isidoro copia da VITTORINO, ragion per cui abbiamo dovuto riferirne il contenuto. Ma dalla definizione si passa alla TOPICA con le stesse parole di Cassiodoro, e anche nella enumerazione dei loci è utilizzato solamente quest’ultimo. Ma anzitutto rimangono qui affatto escluse quelle interpola¬ [[Isidoro riproducel anche il motto su Aristotele: Omnis quippc res, quae una est et uno si^nìficiitur sermone, aut per nomen significatur, aut per verbum: quae dune partes orutionis interpretanlur totum, quidquid conceperit mens ad loquendum. Omnis enim elocutio CONCEPTAE rei mentis interpres est [PL], Particolarmente dobbiamo a questo proposito mettere in rilievo la locuzione concipere, concepito. \Utililas~\ Perihermeniarum haec est, quod ex his INTERPRETAMENTIS syllogismi fumi. Vnde et analytica pertructantur: plurimum lectorem adiuvat ad veritatem investigandam tantum, ut absit ille error decipiendi adversarium per sophismata falsarum conclusionum [PL).] -zioni estranee), e inoltre, omessi i loci retorici, vengono, di quelli dialettici, accolti integralmente soltanto di CICERONE, e tre inoltre di quelli di Temistio. Finalmente la chiusa è data da ima speciale Sezione De opposilis, che senza dubbio qui non sta nella solita connessione con la teoria delle categorie, ma si riattacca ancora al materiale della topica, coni’ è anche di fatto estratta dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE. Altri spunti di teorie logiche. Ma, oltre a questo compendio di dialettica, c’ è in Isidoro qualche cos’ altro ancora, che, grazie all’ autorità da lui goduta esercita influsso sopra la storia. Da un lato cioè si trovano frammenti isolati di teorie logiche in altre sezioni della sua opera enciclopedica. Così, p. es., oltre a ripetere la solita definizione degli omonimi ecc. (nella Sezione intorno alle categorie), Isidoro viene anche nella Grammatica razionale a parlare di quest’oggetto, ma qui egli fa uso delle forme verbali greche. Inoltre, della retorica, è da ri- [fra i loci ivi riferiti di Temistio, troviamo qui soltanto: a loto, a partibiis [PL Invece, in altra forma: Primum genita est contrariorum, quod iuxta CICERONE diversum (leggi AD-versum) vocutur. Secundum genita est relalivorum. Tertium genus est oppositorum -- si osservi la terminologia inesatta -- habitus vel orbatio. Quod genus Cicero privationem vocat. Quartum vero genus ex confirmutione et negatione opponilur. Quod genus quartum apud Dialecticos multimi liabet conflictum, et appellatur ab eis calde oppositum [PL. La fonte di questo vedila in BOEZIO, ad. CICERONE Top.  [PL]; il luogo relativo di Cicerone e citato. Orig. : Synonyma, hoc est PLVRINOMIA. Homonyma [AEQUI-VOX]. hoc est VNINOMIA PL]] - cordare in particolare la Sezione De syLlogismis, perchè, da un lato, fa riconoscere, per l’argomentazioue, un’alto valore all’entimema O IMPLICATURA o raggionamento implicito --, e perchè, dall’altro lato, contiene una, per quanto meschina, notizia della esistenza della IN-duzione. II contenuto di questa teoria del sillogismo non offre, coni’ è naturale, assolutamente NULLA DI NUOVO, bensì è preso da VITTORINO, e attraverso VITTORINO rinvia «ino a CICERONE e ivi par¬ ticolarmente il passo relativo, concernente 1 ’ cnthymemd. D’ altra parte, infine, con alquanti semplici accenni a punti particolari, che in se stessi stanno FUORI DAL CAMPO DELLA LOGICA – ma la prammatica di Grice -- Isidoro — quasi direi senza volere — da occasione a quelli che son venuti dopo, di sollevare questioni, delle quali noi dovremo citare appresso le soluzioni, come elementi del corso della storia. Una delle cose sopra le quali a tal proposito fermiamo l’occhio, è la determinazione di mia DIFFERENZA TRA RAZIONALE E RAGIONABILE [cf. GRICE], che, evidentemente fondata sopra un passo del commento di BOEZIO alla Isagoge, può aver [ Orig.: Syllogismus Graece, Latine ARGVMENTATIO – RATIONAMENTVM -- appellatur. Syllogismorum apud rhetores principulia genera duo sunt: inductio et RATIOCINATIO [PL. Sebbene dunque possa far maraviglia al lettore che di tali cose io faccia menzione qui, risulteranno più sotto sufficentemente i motivi, per cui è bisognato che, dello straricco tesoro di scienza scolastica isidorea, io facessi risaltare proprio questi, e anzi esclusivamente questi due elementi particolari. Si tratta in generale di rendersi conto dell’assoluta intima MANCANZA D’INDEPENDENZA dei ‘filosofi’ di questo periodo. De difjer. spirit.,  [PL] GRICE: INTER RATIONABILE ET RATIONALE hoc interesse sapiens quidam [Agostino, De ordine, PL, dixit RATIONALE est, quod rationis utitur intellectu – ut: “homo.” RATIONABILE vero, quod ratione dicium vel factum est. Lo stesso, quasi alla lettera,’ Differ. PL. Porfirio aveva cioè, nell’indicare quel eh’è comune al yivoc e alla Staqsopà, adoperato come esempio il Xoy ixóv, in un passo che nella traduzione di BOEZIO (p. 95 [In Porph. a se avuto per conseguenza che in seguito si facessero oggetto di ancor più accurata ponderazione le parole del passo. Invece l’altra cosa consiste nell’ affermazione, connessa alla creazione dal nulla, che LE TENEBRE *NON* sono sostanza, e di ciò non tarderemo a trovare appresso ima conseguenza ulteriore. Alcuino: sua compilazione di un compendio di dialettica. Lo stesso punto di vista d’Isidoro, così riguardo al valore della dialettica, come anche nella bislacca compilazione di un compendio, prevale pure in Alcuino: coni’è noto, dell’insegnamento, da lui impartito, della logica allora in voga, profitta lo stesso Carlo Magno. Non soltanto troviamo in Alcuino la partizione delle scienze secondo transl.: ed. Brandt, suona cosi: Cumque sit differentia RATIONALIS praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione ufi, non solum aulem de eo quod est RATIONALE, sed etiam de his qttae sunt sub rationali speciebus praedicabitur ratione uti [PL]. Ora nel commento di queste parole BOEZIO dice (p. 96 [ ittici ., ed. Brandt): de RATIONALI duae differentiae dicuntur. Quod enini RATIONALE est, utitur ratione nel habet rationem. Aliud est aulem. uti ratione, aliud habere rationem.... ergo ipsius RATIONABILITATIS quaedam differentia est ratione uti, sed sub RATIONABILITATE homo positus est [PL, Sentent. : Materia ex qua coelum terraque formata est, ideo informis vocata est, quia nondum ea formata erant, quae formari restabant, verum ipsa materia ex nihilo facta erat: Non ex hoc substantiam habere credetulae sunt TENEBRAE, quia dicit dominus per prophetam. Ego Dominus formans lucem, et creans tenebras [Eisa.] ; sed quia angelica natura, quae non est praevaricata, lux dicitur. Illa autern quae praevaricata est, tenebrarum nomine nuncupatur [PL) Einhahdi Vita Karoli lmperatoris [Pertz, MOH: audivit in discendis caeteris disciplinis Albinum cognomento Alcoinum apud quem et rethoricae et dialecticae ediscendae plurimum et temporis et laboris impertivit [PL. Poeta Saxo, Annalium de gestis Caroli Magni Imperatoris, nel Pertz, MGIT, I, p. 271: Artis rethoricae, seu cui diulectica nomen. Sumpsit ab Alquini dogmute noticium [PL]] uno schema che si conforma a quello d’Isidoro, ma egli inoltre ripete letteralmente, attingendo a quest’ultimo, la su riferita concezione teologica romana o giudeo-cristiana della logica. Nello svolgere questi pensieri, mostra dappertutto di apprezzare altamente LA FILOSOFIA, non la TEOLOGIA, e mentre spesso a tale apprezzamento associa lamentele per la ignoranza largamente diffusa, si leva a sentenziare che le arti liberali son le sette colonne della sapienza, e così, nelle principali questioni teologiche romane e giudeo-cristiane sopra il concetto del divino fa largo uso, rimandando ad Agostino, della tradizionale filosofìa scolastica, cioè della teoria delle categorie. Ma che lo stesso Alcuino scrive intorno a tutte sette le arti, è ima credenza già da gran tempo confutata, essendo stato dimostrato che passa per essere opera di Alcuino mi compendio del De artibus di Cassiodoro, molto letto. È bensì vero invece eh’ egli coltivò la grammatica, la retorica e la dialettica, e che inoltre accompagnò 1’ invio a Carlo Magno del libro pseudo-agostiniano sopra le Categorie con mi prologo metrico dove nel modo d’in- [Ai.cuini Operu, ed. Frobenius, Ratisbona PL e Dialectìca, P. cs., E pisi. Epist. 68 (p. 94), E piu. ed. Diinimler, MGH, Epist. Grammatica PL: Sapicntia liberalium litlerurum septem columnis confirmatur; nec alitar ad perfectam quemlibet deducit scienliarn, itisi bis septem columnis vel etiam grndibus exaltetur. De Fide S. Trinitatis ed Epistola nun- eupatorio: ed. Diinimler, Epist.], Quaestiones de Trin., Epist., Epist. ed. Dummler, Epist. Dal Frobenius, nella Praef., PL Tale prologo è del seguente tenore ed. Dummler, MGH Continet iste decem naturile verbo libellus, Quae iam verbo tenenl remm ratìone stupenda Omne quod in nostrum poterit decurrere sensum. Qui legit ingenium veterum mirabile laudet, Atque suum studeat tali exercere labore, Exomans titulis vitae data tempora honestis. Rune Augustino placuit transferre matender le categorie è implicito il punto di vista di BOEZIO. Lo stesso compendio di dialettica, che reca parimente in cima mi simile INSIGNIFICANTE prologo, è scritto in forma dialogica. LE DOMANDE SONO SEMPRE FATTE DA CARLO MAGNO.  Ma Alcuino dà le risposte. In questo compendio, da principio TUTTO E LETTERALMENTE preso da Isidoro, anche la divisione della logica in retorica e dialettica. Ma al contenuto vero e proprio si passa con una partizione, in sommo grado scolastica, della dialettica in cinque specie, La prima Sezione, cioè, coni’ è naturale, la Isagoge, è COPIATA PAROLA PER PAROLA da Isidoro, e neanche manca quell’unica proposizione esemplificativa. Fa seguito una minuziosa notizia, intorno alle categorie, che è interamente estratta dal compendio pseudo-agostiniano, con trascrizione BARBARICA delle parole greche che vi s’incontrano. Di nuovo c’è aggiunta una cosa soltanto, che cioè anche per le categorie viene ora formala qui una frase unica, presentata come esempio [Ma mentre nel pseudo-Agoslino dopo la decima categoria dell’habere viene la solita trattazione degli op- gislro De veterum guzis Graecorum clave latino. Quem libi rex, magnus sophiae sectator, umator, Munere qui tali gaudes, modo mitto legendum [PL, K. Quot sunt species dilecticae? A. Quinque principales; isagoge, categoriae, syllogismorum. formulae, diffinitiones, topica, periermeniae. In veri là una disposizione mostruosa, che mal si accorda inoltre con il numero di cinque, che si chiude con le seguenti parole: tlaec commentario sermone de isagogis Porphyrii dieta sufficiant. Pinne ardo postulat ad Aristotelis categorias nos transire. K. Ex his omnibus decerti praedicamentis unam mihi conjunge orationem. A. Piena enim oratio de his ita conjungi potesti Augustinus magnus orator, filius illius, stans in tempio, hodie infulatus, disputando fatigatur.] posti, per tale argomento Alcuino disdegna questa fonte, limitandosi a COPIARE ORA PAROLA PER PAROLA, con la intestazione De contrariis vel oppositis, la Sezione corrispondente in Isidoro. Invece immediatamente dopo, per i così detti Postpraedicamenta (prius e simul), fa ancora un salto per ritornare al Pseudo-Agostino, omettendo tuttavia affatto, di quest’ultimo testo, il cap. sull’immutatio. Viene poi, con la intestazione De argumentis, prima di tutto un riassunto estremamente sommario di quell’ estratto della teoria del giudizio, che BOEZIO incorpora al suo scritto De differentiis topicis, e poi, in quanto che proprio lì si viene a parlare anche dell’argomentazione, ima meschina scelta di alcuni esempi di sillogismi ipotetici, svolti da BOEZIO in quello stesso scritto. Ma a ciò si attaccano ancora subito i quattro primi modi dei sillogismi categorici, che son tratti da Isidoro. La teoria della [Con la sola differenza che negl’esempi i nomi propri o il contenuto degli esempi stessi sono trasportati ■iella sfera morale-teologica romana e giudeo-cristiana. Nè al principio di questi postpraedicamenta nè in chiusa, è stato segnato un qualsiasi trapasso, che li riconnettesse alle trattazioni precedenti. Dopo ch ! è stato determinato che cosa sia urgumentum (rei dubiae affirmatio) e che cosa sia oralio (veruni  Dial. Particolarmente si trova anche fatta qui novamente menzione di concetti imaginari, p. es.: HIRCOCERVVS quod graece trngelaphus dicitur. PL. K. Num et Ulne aline species quatuor (non enunciativa, ma, cioè interrogativa, imperativa, deprecativa, e vocativa) ad dialecticos non pertinenl? — A. Non pertinenl ad dialecticos sed ad grammaticos.] zione, ma adduce inoltre alquanti esempi attinenti alla sfera delle fallacie sofistiche, servendogli qui da fonte Aulo GELLIO (si veda)[ Fredegiso da Tours]. Se questi due compendi che abbiamo sinora considerati, ci presentano esclusivamente la forma di opere a centone, nella compilazione delle quali non si fa neanche sentire più il bisogno astrattamente logico di un qualsiasi ordine di successione che tenesse unito il complesso, certamente, al paragone di tali prodotti scolastici, ravvisiamo già un progresso, quando vediamo questo o quello filosofo sentirsi per lo meno stimolato, dal materiale divenuto tradizionale, a proporre questioni, alle quali tenta di dar tale o talaltra risposta. Ma non possiamo pretendere gran che da siffatti primi tentativi: e nient’ altro che un documento di assoluta mancanza di chiarezza, in quelle questioni che non tarderanno a determinare dissidi di tendenze, ci è dato dalla maniera in cui Fredegiso, scolaro di Alcuino, abate di Tours, in una Epistola de nihilo et tenebris, indirizzata ai teologi della corte di Carlo Magno, viene alle prese con i concetti di « nulla » e di « tenebre », dei Dialogus de Rhetorica et Virtutibus PL: Si dicis, non idem ego et tu; et ego homo, consequens est, ut tu homo non sis. Sed quot syllabas habet homo? — Duas. — Nunquid tu dune itine syllubae es? Ne- quaquam. Sed quorsum ista? Ut sophislicam intelligas versutiam. Cfr. La [Stampata nella Steph. Baluzii Miscellanea, ed. Dom. Mansi, Lucca, e di là riprodotta nella PL: ma la edizione migliore, fondata sopra una nuova comparazione dei manoscritti, si trova curata da Ahner, Fredegis von fours, Lipsia. Le parole introduttive son di questo tenore. Omnibus fidelibus et domini nostri serenissimi principis mjt ' J acro eius F tdntio consistentibus Fredegysus Diaconus [IL, quali, secoudo la maniera usata, vuol parlare così ratione, cioè logicamente, come anche auctoritate, cioè conforme alla teologia ortodossa, romana e giudeo-cristiana. La occasione a tutto il dibattito è data certamente, in generale, dal passo già citato di Isidoro, ma il modo d’intendere le questioni, a prescindere dal generale punto di vista teologico romano e giudeo-cristiano, è, per riguardo alla dialettica, cosi rozzo o così ingenuo, che di fatto non troviamo un termine per qualificarlo. Poiché, dove non si presenta neanche la più tenue traccia di riflessione sopra i così detti ‘universali’, ci è impossibile parlare di realismo o di nominalismo. Insomma si tratta di ima mostruosità tale, da non potersi neanche designarla come un primo passo verso idee venute fuori in epoca più tarda. Non soltanto cioè si afferma, in termini secchi, che, insieme con l’ESPRESSIONE (EXPLICATVRA) verbale, noi intendiamo immediatamente la cosa, ma vengono inoltre assunte senz’altro come identiche la signi- [Chl j. m,ue Studichi senza prevenzione, consentirà che questo dualismo di ratio e auctoritas. il quale si manifesta dappertutto rondo li • nd,e de ' le Par ° 1 ! '' * Fredegiso. Queste, sei rondo la piu antica lezione riportata dal Baluze i suonano come segue: huic responsioni oblia,uhm est primari'. Ubet’ sedrZT ‘‘"'T' rfe,We betoniate, non q ua- ., ’ r "',0 ’,r ‘ dumtaxat, quae sola auctoritas est salame immola " f 7 urd / NeS6Uno infaUi si Presterà ad accreditare derZi^ ). Ma poi, anche nello scritto De institutione clericorum, Hrabano viene a parlare delle sette arti liberali: e dopo che ivi egli lia già in generale ammonito i teologi a guardarsi dall’abuso dell’arte di disputare, questo atteggiamento circospetto è quel che predomina in lui, anche là dove, seguendo l’ordine solito di successione, viene propriamente a trattare de DIALETTICA dopo avere parlato della grammatica filosofica e della retorica. Ripete cioè, per prima cosa. Opera, ed. Colvener, Colonia) Hrabani Mauri) De universo: Logica autem dividitur in duus species, hoc est DIALECTICAM et Rhetoricam. De instit. cler.: Sed disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum. quae in litteris sanciis sant penetranda et dissolvendo, plurimum valet; tantum ibi colenda est Pl 'ioTTo I ^ PUenl ' S  e I’815 "or 10 fra r887 « r890) abbia esercitato in . en era e Ti r r ” rì,,i “ ) ’ “,,ra « t:: 1,: è noto; ma può darsi che a noi ~z:: e t abbia T imes ° qn6to s. decisiv ° -*• - °° ICa > ^iche, relativamente al punto il 122» voT ddla Patralógii TeWiomtP-"-,«/; F, t0SS ’ e toTm * ferisco qui nelle citazioni. Ma a nurlli J"*' 18j ? ’ al qua,e n,i ri ‘ opera dell’ Hauréau il Commentairede le % 3ggl £ n . t0 '"Cora,,, r lionus Cupella (nelle Nolices et Extraitì T ^ Ér,gène sur Mar. 2, Parigi 1862 [p. 1 ss.]) Extraits dea Manuscrits, non r’imér^no r qui*'ì!’a 1 nno ' ^ròv^to un rifl'’ 8 *" 0 C °" lo Soot ° letteratura, avendo Nicola Mofli ™T,nten f° anche "ella und seme Irrthiimer OC S F,• tLEB preso posizione (J. S. E tro Fr. Am. Staudr™*™ U sT 1844) con Ze« 1«G. S. E. e la sci. nl,,,1 1 . • dle Wissenschuft seiner te 1834), e contro il Saint-Rtné TaiTi.andifr I>1, Gotha 1860), nè da V Kin. ' m"” C dottrina System des J. S E r« TI Jl. » Naulicm (Dos speculatil e, negli Atti 3,'ll ó è ™ s Peeulativo di G. S. E » IP™!), nè da Gio v. Hubeh (/. slVf  ili vista logico, che lo Scoto si trova ad avere assunto, non sembra comunque essersi pronunziato ancora un giudizio esauriente, quando ci si limita a qualificarlo come realismo, o magari anche come realismo stravagante. Vero è invece che con l’atteggiamento realistico, che in generale è fondato sopra la concezione biblico-teologica romana e giudeo-cristiana, e che naturalmente a nessuno può passare per il capo di negare allo Scoto, si unisce qui, in maniera sommamente caratteristica, un motivo dialettico, al quale ci sembra di dover attribuire somma importanza, perchè in esso ravvisiamo i primi lineamenti del nominalismo scolastico. La prima cosa che certo si manifesta con la massima evidenza a qualsiasi lettore dello Scoto, è la forma rigorosamente sillogistica, nella quale si volge questo filosofo, mettendo con ciò in mostra nello stesso tempo, per così dire, le sue conoscenze scolastiche di logica. È questa ima cosa, della quale per se stessa non faremmo già particolare menzione, non essendo qui compito nostro di registrare per avventura tutti quanti gli scritti di tutti quanti i Padri della Chiesa o filosofi medievali, nei quali si riveli un addestramento logico. Tuttavia nel caso presente sussiste, a quanto ci pare, una stretta connessione fra tale cultura scolastica estrinseca e l’intima struttura dell’ordine d’idee professato dal filosofo. Lo Scoto Eriugena manifestamente, nella persuasione che la sillogistica, proprio nella sua forma rigorosamente scolastica, abbia un valore filosofico, trae partito da tutte le cose consimili. Così ne’ suoi scritti, — a prescindere dalla frequente larga trattazione delle categorie in senso teologico romano o giudeo-cristiano, si presenta, p. es., della teoria del giudizio, la divi- [Des ]. E. Stellung zur mittelalterlichen Scholastik und Mystik f« La posizione di G. E. rispetto alla scolastica e alla mistica medievale], Rostock), nè da Lod. Noack (Weber Leben und Schriften des ] J. S. E.: [die Wissenschaft und Bildung seiner Zeit, Della vita e degli scritti di G. S. E.: la scienza c la cultura del tempo suo »), Lipsia.] aione in giudizi affermativi e giudizi negativi, e anzi con fa terminologia affirmativus e abdicativus, o la indicazione delle varie specie di opposti, tra i quali inol- tre viene sovente messo in particolare rilievo il cosi detto opposto CONTRADITTORIO: come pure viene fatta menzione delle relazioni anti-tetiche sussistenti fra il possibile e 1 impossibile. Si trova anche presa in considevolia ilio Scoto (de dlctóone a^°I'^ 1 p una Cap. delle Categorie pseudo-azostini»,,» - r W3j 111 C0 P‘ are *1 10° sario,  -“j! ch è neces ' de div. nat., I, 14, p. 462: Et hoc Ir i • i’ ^“ 8nto a * giudizio, v. p. es. ^soXoyla iKo^onix-rj del Pseudo Dioniei ° r£ “ ; xaxcreaTtxrj e la damus exempio. Essentia tZaZf A reopag,ta) brevi conci,,. coda : « supe’ressetZTLT ** ^ terminologia che ricorre ancor più volte nelIoVom 6 * 0 ''""' alla confusione che abbiamo trovata di eb n r ’ Va r / 1 f 0n ® chiaro dalla spieoare Pian, ad duplum... ; am per negat’ionZ Z Z SÌnt ’ ut s, ' m ‘ propter) qualitates naturales per abZntiam’m°h “*\ °“*^ (, leggi AVT SECVNDVM PRIVATIONEM, ut mors etvUa- L n tenebrae sanitas et imbecillitas. Su questo numi „ s, u contrarl “m, ut desuma fonte che Isidoro (v. sopri la „mwn? aU ' n, ° alla, ne ' cavato malamente dalle parole di 11 *.. : s °hanto che ha ri- e absentia. 1 ' BOEZIO ° una distinzione tra PRIVATIO [De praedestinatione, 5, 8 n ì"». i,„,, i oluntate posset simul dici « libera est iihe quomodo de eadem CONTRADICTORIE dicuna,r, quia simul fieri n “ l>; haec enim nat.: comradictoZnJZ r p0ssunt - ~ De divis. erit veruni, alterimi falsimi Non !«' 9'"a fient, et necessario unum ”r l htsa calidario ZloaZ 7e sZZ versahter sint, sive particulariter fi, : subjecto eodem, sive unidelia terminologia di BOEZIO (clntradZ ** Vede ’ C è '"escolanza nota 113) con quella di M^ianoTl n ). Copella (proloquium) De divis. nat., II, 29 n 597- Pn*.n,ir in numero rerum computi impossibile dicet.... De quibus quisquis alene T . pl,lloso P lum tium conira- Owi-E, hi JZ’Z,u,‘Z,ZZ": hoc p Z£L~ illt razione la solita enumerazione delle varie specie di definizione. Ma principalmente sono messe in rilievo dallo Scoto, tanto frequentemente, proprio dal punto di vista formale, le forme dell’argomentazione: e non soltanto troviamo in lui, in molti luoghi, intrecciati nel testo, sillogismi formulati assolutamente secondo la regola delle scuole, bensì ancora egli molto si compiace di menzionare, con i loro nomi tecnici, sillogismi appartenenti alla topica. Ma appunto per quest’ ultimo riguardo ha grande im¬ portanza per noi, che lo Scoto accuratamente distingua il procedimento dialettico propriamente detto, cioè il sillo¬ gismo in generale, dalla rimanente sfera puramente retorica, e per la dimostrazione dia importanza decisiva alla sopito dispulutum est. È ben facile capire cbe questo è tutto preso da BOEZIO. Quamvisque multae definitionum species quibusdam esse videuntur, sola ac vera ipsa dicenda est definitio, quae a Graecis oòaubSr jj, a nostris vero essentialis rocari consuevit. Aline siquidem aut connumerationes intelligibilium partium oùatag, ai il argumentationes quaedam extrinsecus per accidentiu, aut qua- liscunque sententiarum species sunt. Sola vero oòauóSrjs id solum recipit ad definiendum, quod perjectionem nuturue, quam definit, complet ac perjicit. Questo può essere ricavato da Alcuino o da Isidoro (v. sopra le note 38 s.) o da BOEZIO. Tali passi non si discostano da quella terminologia ch’è usuale in Boezio; così, p. es., affirmativus, negativus, termini, diulectica proposito, jormula syllogismi condilionulis, e così pure connexio (v. la Sez. XII, nota 141), e persino tropus; inoltre troviamo ancora collectio e reflexio, che son termini propri di Apuleio (v. la Sez. X, note 15 e 19). 81 ) Così, p. es., de praedest., 14, 3, p. 410; ibid., 16, 4, p. 420. — De div. nat., I, 49, p. 491 ; v. anche qui appresso le note 94 ss. 92 ) P. es., de div. nat., I, 27, p. 474: sunt loci diidectici u genere, a specie, a nomine, ab antecedenlibus, u consequeiuibus, a contrariis, ceterique hujusmodi, de quibus nunc disserere longum est. De praedest.: argumentum, quod ub effectibus ad causam sumitur, locus a contrario e locus a similitudine, e similmente più volte. Anche nel Comment. ad Muri. Gap. tres purles syllogismorum, i. e. ab antecedentibusi, a consequentibus, a repugnantibus. Ma la conoscenza di tutti questi loci lo Scoto la poteva ricavare esclusivamente de Cassiodoro. 'orma logica soltanto. Anzitutto cioè viene da lui attribuito già il più eminente valore a quèlla formulazione del sillogismo disgiuntivo, che, da CICERONE in poi, si e conservata nella tradizione come enthymema, e che per tal via aveva avuto accoglimento anche nella Enciclopedia d Isidoro (e ripetuta la stessa cosa, a proposito di Alenino: ed effettivamente Scoto in questa forma del sillogismo ravvisa il punto culminante di tutti gl’argomenta, i quali invero sono ancora pur sempre considerati congiuntamente ai signa i r ra in: anzi la forma dell’entimema ha potere d’in- •'«rio a qualificare l’entimema stesso senz’altro come syllogismus: e in verità in un altro passo, dove dice espressamente di volersi servire deIl’*ico8«i*Tix* le dimostrazioni che seguono, sono appunto presentate esclusivamente in quella forma disgiuntiva; ma nello stesso tempo egli assegna tuttavia decisamente alle forme del cosidetto sillogismo categorico un posto ancor più eie- vato, appun to perchè queste non appartengono al mecca- sumuntur. Qribm tanta ’rii inll [ R - Stu " t contrarietatis loco excellcntwe suae merito a ('rimri^'è'h""'' qt ‘° (ìam privilegio conceptiones rLZ sicJZZ e,,lhymemnt “ dicantur. hoc est, munì est illud, nuoci sumitur * '‘ rsu . met },orum omnium forlissi- calium aptissimum est. quo d ducitur "ab end" ° mnU,m . si S"°rum vo- lhid.. m, 1 n 193 . „ \ tU, et >dem conlranetatts loco. — Diulècticisac RhètorZiseZnt"” ^ediyimus. a xaTavTC'fpaat .5 IW 4vtt*p«oi ^ TestZmTi’uZ grnmmaticis ver ° gnorumque verbalium nobilissima v loT^T ar ^ n -n'orum st¬ iri fine, e cfr. poi la nota 189 * qm appresso la nota 96 > concluditur, quodsemperesTn coni nulo °c" "" '',,r * umento (ora segue un sillogismo della l'orma Non eZnVn'B* 4 ° “** ergo B non est: v. la Se? Vili t.n i l 1 „ et A est. Idem quoque syllogismiis hnr 'm 1 ' p a • XII, note 13 e 69 ).... cibici. 4 3 n T?J w connectitur (id. c. *.). àitoS.txxtx^ utamur, primufnfadversus ZT"e uTl^’ * C *f" r sillogismi della forma ricordata or ,U f ann,° S, '* U1| ° due parole, da uomo consapevole della vitro* P °A S ‘ con queste Via igitur regia gradiZdtm, r, ?''' C ° ncIllsum est igitur.... vcrtendum, etc. ’ ° " d d^ternm, nec ad sinislram di- nismo dell’argomentazione retorica, apparentemente più efficace Bli ). Ma che questa preponderanza della forma sillogistica sia stata anche subito sentita come tale dai lettori dello Scoto, ci è confermato dalla ineccepibile testimonianza di un anonimo del IX secolo, il quale dice che Scoto fa consistere la dialettica in un continuo incalzarsi e cacciarsi (fuga et insecutio) delle proposizioni. Scoto, del resto, la conoscenza delle forme sillogistiche da lui usate, la poteva ricavare esclusivamente da 8l! ) Vale a dire, in occasione di una dimostrazione piuttosto lunga, relativa alla immaterialità della sostanza ( de div. nat., I, 47 ss.), troviamo anzitutto, dopo le parole introduttive hus inique paucas de pluribus dialecticas collectiones considera, due sillogi¬ smi categorici secondo il primo modo della prima figura, c appresso segue un'argomentazione in forma dilemmatica; ma dopo questa si trova la seguente transizione: l’t uulem piane cognoscus,... hunc argumentalionis accipe speciem. [Discipulus] Acci piani ; sed prius quondam formulalii praedictae argumentationis fieri necessarium video. Nam praedicta ratiocinatio plus argumentum u contrario videtur esse, quam dialectici syllogismi imago. [Ma¬ gisteri Fiat igilur maxima propositio sic: e ora seguono quattro sil¬ logismi secondo il modo 2° della 1* figura, con le parole conchiusive: huec formula idonea est; ma immediatamente appresso: [D.] Hoc etiam certa dialettica formula imaginari volo. | M. | Fiat itaque for- nuda syllogismi conditionalis ; il che si verifica nella forma : Si A est, lì est, A vero est; e dopo tutto questo si trova, per chiudere in maniera energica, ancora un entimema: Si autem èvtì-upijiiaTOf. hoc est, conceptionis communis animi syllogismum, qui omnium conclu- sionum principatum oblinet, quia ex his, quae simili esse non pos¬ simi, assumitur, audire desideras, accipe hujusmodi formulam. Riferita da V. Cousin, Ouvr. inéd. d’Abél: Secundum vero Joannem Scottum, est dyalectica quaedam fuga et insecutio, ut cum quis dicit « omnis honestus est », et insequitur alius dicendo omnis honestus non est, talis haec disputatio fugae et insecutioni videtur esse consimilis. Se del resto già l’abate Benedetto da Aniane [Francia Merid.], si lamenta di un syllogismus deltisionis iipud modernos scholasticos, maxime apiid Scotos (Baluzii Misceli., ed. Mansi), non è leeito già inferire da ciò, che lo Scoto abbia potuto ricavare la propria abilità dialettica da studi di logica che fossero con larga diffusione coltivati nelle scuole della Scozia: bensì quel lamento si riferisce esclusivamente a un singolo contrasto dommatico (riguardo alla Trinità), il quale può esser de¬ nominato syllogismus nella sua formulazione, nè più nè meno che cento altri simili Isidoro o da Marciano Capella, e non c’èun solo passo che ci costringa ad ammettere eh egli abbia mai conosciuto anche gli Analitici di Aristotele, nella traduzione di BOEZIO os ). [b) posizione dello Scoto, rispetto alla dialettica Ma proprio questi elementi, che per così dire apparten- gono alla prassi logica dello Scoto, ci apron la via per passar a considerare anche la posizione teoretica di lui, nei rispetti della dialettica. Nelle arti liberali in gene- rale, egli ravvisa i prodotti di una naturale attitudine dell amma umana, e pertanto un suo ornamento B8a ), in quanto che esse sono le compagne e le investigatrici della sapienza "); ma nello stesso tempo riconosce che quel che importa qui è la disposizione di spirito, trovando hi par¬ ticolare la dialettica, della quale è facile abusare, il proprio compito essenziale nella lotta contro gli eretici 10 °). ) 1 oicliè questo punto avrà ancora più volte importanza ner noi ho dovuto di proposito fin qua richiamare còsi n inutàumnte rat’ten- zione sopra le fonti della logica dello Scoto. )G ommenl. ad Mari. Cup.  [Artes libe- :tZ ] n, 0la iPSa amma P erci P' umur ’ nec uliunde assi,n,untar sed nalurahier in anima mieli,gannir ; p. 30: Liberales disciplinar ’natu r ali ter insunl in anima, ut aliunde venire non intelligunUir ■ et ideo TCTTìI ~, Cfr - q,,i appresso la noia l78 - (cioè ri.-’ fi • ’’ ’• P- 430: ^ rrorem - saevissimum eorum (cioè de suoi avversari dommaUci) ....e* utilium discinlinarum alias, psa sapienti a suas comites investigatricesque fie^voluTTdr S ira la notai 50), ignorantia credtdenm sumpsisse primordio In un A ìSi " 4 "'“ — » aZerS denTk 77™ Gotes  Uerum- Sez. XII note 84 J ST: Tt ^zrZiiri uctìones ’ sensui subjacet: cirro nnnm ... . • P nr, ‘ l ' s _>'st, nulhque corporeo versuntur. Al si illa incorporea est^nuTtìb' Ziter'vìd t omnia, quae ani ei adhaerent, au, in P « subsistoZ, ' non possimi, incorporea sint 9 ‘slum, et sine ea esse se immutabiles puro mentis contuitn „ t f r ! ale - f* Q h*er res per ' rontl ‘“" perspiaenlur in sua simplicisce anche il concetto di genere in maniera del tutto rea¬ listica 115a ), anzi ripete minutamente la dimostrazione, ricavata dal Pseudo-Dionigi, che essentia e corpus sono totalmente diversi e non possono essere mai scambia¬ lino. In una parola, è un avversario sistematico della sostanza individuale (del xóSe ti) di Aristotele. [e) ontologia e dialettica], Ma dobbiamo riflettere che, per lo Scoto, tutta quanta la sfera del molteplice (dimque infine anche la pluralità delle categorie stesse) viene a cadere in quello stadio in cui la sussistenza concreta è propriamente qualche cosa che non de- v’ essere, perchè la pluralità è provenuta per via di divisione dalla unità, e ha essenzialmente per funzione di essere di nuovo risolta nella unità, e in tale processo proprio il punto mediano dev’ essere quello di massima lontananza, sia dalla unità originaria sia dalla unità finale. Così la formazione delle cose infinitamente molteplici del mondo sensibile è la prima parte del processo, come dire una scissione della Divinità: e Scoto spiega, in accordo con Gregorio da Nissa, il manifestarsi concreto delle cose sensibili e in tute, aliler senati corporeo in ali quii materia ex concursu earum facto compositae. Omnia erìim, quae intellec- tus in rulione universaliter considerai, particulariter per sensum in rerum omnium discretas cognitiones definitionesque partilur (dun¬ que rSpiattxóv delle definizioni speciali viene già a esser più perti¬ nente alla sfera sensibile. Il passo di BOEZIO).,ls ‘) Comm. ad Alari. Cap„ Genus est multarum formarum substantialis unitas.... Est enim quaedam essentia quae comprehen- dit omnem naturam, cujus participatione consistit omne quod est. Substantia generalis est multorum individuorum substantialis unitas. De div. nat. Sed adversus eoa, qui non aliud esse corpus, et aliud corporis essentiam putant, in tantum seducli, ut ipsam substantiam corpoream esse, visibilemque et traclabilem non dubilent, quaedam breviter dicendo esse arbitrar: f t autem firmius cognoscas, oòalav id est essentiam, incorruptibi- lem esse, lege librum sancti Dionysii Areopagilae de divinis Nomi- nibus eie.: e a ciò fa seguito la dimostrazione estesa. generale la origine della materia, con il fatto che alcune categorie vengono a trovarsi insieme, per modo da poter essere apprese dai sensi) : e nello stesso tempo, in questo generarsi, analogamente che per i filosofi precristiani, opera poi il fuoco, come quello che dà la forma alle cose sensibili. Ma poiché ora, secondo lo Scoto, non in altro che in questa molteplicità del mondo deve, per opera della filosofia, essere scomposta (5iaipruxVj) la unità divina, e da quella deve da capo partire la via da percorrere per il ritorno alla unità (àvaXtmxrj), quel grado intermedio della pluralità acquista una speciale importanza anche per la dialettica, poiché proprio in quella stessa pluralità del sensibile si viene a contessere la favella umana, come mezzo di espressione. A quel modo perciò che nelle cose sensibili le categorie, incor¬ poree in se stesse, sono alla fine diventate corporee (per quanto m maniera enimmatica e mistica), così anche il linguaggio, in quanto è sensibile, afferrerà le categorie soltanto nella forma verbale sensibile-corporea (per quan¬ to parimente con un intrecciarsi di motivi mistici), e appunto lo stadio intermedio della dialettica, vale a dire **? rh ' d ' 34 ’ Quantitàs vero, qualitasque. situs, et habi- fT \ nte \r COeu ’ ltes mater iem.... jungunt, corporeo sensu per - Wcl nU alluTT GregoriusN y s ^-- orti* raHonibu, ita esse ahud dicens matenam esse, nisi aecidentium quondam compositi 0, nem ex mvis.lnlibus causi® ad visibile® materica, prò- cedentem [Lo Scoto cita il Sermo « De Imagine» del NiTsen” ma forse parafrasa I cap^XXHHV del libro « De hominis opificio *] interni 2 ’ 5' 494 S : - Formarum al,l ‘e in oùoia. aline in qualitate uVc" r; j ^ '"°' iOÌa « "‘bstantùdes speciel generis ti^ 'seu mLtn* 8 ’ °, ‘"T- atque P° XÌ,Ì onem naturali um par - “7 " Ì r r r «d quahtatem referri, formatnque proprie vo- membra e [ l ",T dl ? ìtt . am 1 en ‘ e « forma, bensì all’armonia delle membra e bellezza del colorito] ex qualitate ignea, quae est color FXfrDe i rr tur - Et h r n vocatur a form °’ h ° r - si rai ' d  (v! 1 estus [De I erborimi significata ed. Lindsay, p. 73] s v forma) Udum Sa  rii diffinitione non dissential.... (PL 9 lj,y oj. ): Aristoteli genus, speciem, difjerentiam. pro- pnum et accidens, subsistere denegava (se. Minerva), quae Platani subsistentia persuasa. Aristoteli an Plotoni magis credendum pu- latis. Magna est utriusque aucloritas, quatenus rix audeat quis al- lerum alteri dignitate praeferre [PL]. Cui rei Aristoteles in libro Peri Ermenias congrua bis verbis: Sunt ergo ea quae sunt in voce, earum quae sunt. Altre notizie ancora, appartenenti alla seconda metà o alla fine del secolo X, possiamo citarle soltanto come documento del perpetuarsi della tradizione scolastica; tal è il caso, quando vien riferito che il vescovo \ ol¬ ia n g o a Ratisbona in una disputa teologica trovò maniera di applicare le varie specie in cui può esser diviso Yaccidens (a tal proposito c degno tuttavia di nota, che il metodo dialettico viene denominato carnali^ antidotus), o quando vengono menzionati gli studi di logica, di lAbbone da Orléans, che studia a Fleury e ivi successivamente insegna, e del vescovo Bernward a Hil- in anima passionimi nolae [cfr. BOEZIO, p. 216 e 297; Prima cditio, I 1 ed. Meiser, Pars Prior, p. 36; Secunda edilio, I, 1, ed. Meiser, Pars Posi.; PL, 64, 297 e 410], Omnis nota aUcujus rei nota est. Prius ergo res est quam nota. Res ergo prius ponderando est, quum nota».... Boetius tir eruditissimus in libro Peri Ermenias se- cundae editionis [p. 450; VI, 13, ed. Meiser, Pars Post., p. 4a), Spira pret.. Analitici e Topica, e a proposito di quest’ ultima, d’accordo con BOEZIO (de diff. top.), riconosca che i due campi, dialettico e retorico, sono a contatto uno con l’altro, per accennare da ultimo a Cicerone, rappresentante della retorica vera e propria, in quanto questa non venga a ricadere nella sfera dialettica 206 ). [§ 22. — Gerberto, figura ASSOLUTAMENTE INSIGNIFICANTE: a) materiale degli studi di logica al tempo suo]. J "*) Il 1° Libro (ibid., p. 35) s'intitola: Primus libeUus de studiopoetae, qui et scholasticus, e dopo aver trattato della poesia, fa seguire la filosofìa: Inde ubi maiorum tetigit nos cura cibo- rum, Porphyrius claras nobis reseravit Athenas, Qua multi indige¬ nte librabunt verba sophistae. Cernere erat quondam vidtu pallente puellam. Pructica cui limbum pinxitque theorica peplum, Et licet effigiem macularet parva (leggi: prava) vetustas, Ipsa tamen ternas suspendit ab ubere natas (v. ibid. la tri- partizione della sfera teoretica). Praeslitit haec nobis summi sub- sellia ledi. Et postquam strato licuit discumbere cocco. Proceduta senae turba comitante SORORES (cioè dialettica, retorica, ritmica, matematica, musica, astronomia). Ingenui vultus non absque grave- dine gestus Adducit famulas praestanti corpore quinas (cioè le cinque parti che vengono subito appresso) Omnia sub gemino clau- dens Dialectica puncto (il duplice punto di vista è invenlio e io di¬ cium, v. la Sez. XII, ibid.). Prima quidem (la Isagoge) miles generali nomine pollens Insignita tribus (cioè genus, species, difjerentia) unum selegit amictum. Hanc vice continua sequitur gradiente se- cunda (le Categorie). Tertia (la teoria del giudizio) discredi quid- quid primaeva coegit, Dans operam sane cirros crispare secundae, Quos quartae (sillogistica, cioè Analitici) solido collegit fibula nodo. Inslabilem fucum lulit ultima (la Topica) quinque sororum Dodo quibus geminas decernens Graecia jormas (cioè loci dialettici e retorici) Pinxit « quale » tribus, « quid sit » reperendo duabus (cioè il Quale consiste in persona, tempus, circumstanliae —, e invece il Quid in definitio e descriptio), Ut reboant nobis deliramentu Platonis (questo non riesco a spiegarlo). Inde suam stipai comilem pressura sodalem Rhetoricam du- plicis vestitam flore coloris, Quuc iaciens varias nervo pulsante sagit- tas Monstrat hypothetici nobis spedaicula ludi. Et ioni cornuta sur- gens ad sidera fronte Causarum rivos putido profudit ab ore. Sed postquam illatas pepulit conclusilo lites Ipsaque gravigenas conipe- git pace sophistas. Omnibus asseculum veniente porismate laetis Sub pedibus Eogicae recubabat nexa coaevae, Commissura tibi reliquie rum munia, Tulli. A ciò fanno seguito la ritmica e le altre disci¬ pline nominate più sopra. Anche del famoso Gerberto (Papa Silvestro II) dobbiamo anzi affermare la stessa cosa, che cioè egli, senza originalità, rimase assoluta- mente irretito nella tradizione scolastica: purtuttavia c’è d’ uopo bitrattenerci sopra di lui alquanto più a lungo, appunto perchè a lui e al suo comparire si riconnettono notizie preziosissime riguardo ai limiti ristretti, entro i quali era contenuta in quell’epoca la trattazione della logica). Ci racconta cioè anzitutto un contemporaneo di Gerberto, come questi in gioventù fosse iniziato alla logica da un chierico eminente (probabilmente Giselberto) a Reims, dove poi incominciò subito la sua ope¬ rosità di maestro delle solite discipline scolastiche). Ma, come colui che riferisce la notizia enumera a tal proposito distesamente e compiutamente anche tutto m ) Per notizie sul conto di lui in generale, v. M. Buedincer, Gerbert’s U’issenschaftliche und politische Stellung («Posizione scientifica e politica di G. »), Cassel, e K. Werner, Gerbert !’• Aurillac, die Kirche und Wissenscfiaft seiner Zeit (« G. da A., la Chiesa c la scienza del tempo suo»), Vienna [2* ed.,J. a ®) Richeri Historiarum  (Pertz, :MGH, V, p. 617): luvenis igitur apud pupam relictus, ab eo regi (cioè Ottoni) oblatus est. Qui (vale a dire Gerberto) de urte, sua interrogatus, in mathesi se satis posse, logicae vero scientiam se addiscere velie respondit.... Quo tempore G. Remensium archidiaconus in logica clarissimus ha- bebalur. Qui etium a I.othario Francoricm rege eadem tempestate Ottoni regi Italiae legatus directus est (un arcidiacono di Reims in quel tempo, con il nome incominciante per G, sarebbe Giselberto, presente al Concilio d’ingelhcim: v. Marlot, Metro- polis Remensis historia. Lilla; il Buedincer e 1 Olleris; v. [per la precisa citaz. delPoperg;, ai quali si unisce il Werner, pensano a Garamnus, menzionato [dal Mabillon] negli Acta Sanctorum Ordinis S. Benedicti : Saec. [dove precisamente trovo ricordato il « Signum.... Geranni Archidiaconii »]. Cuius adventu iuvenis exhila- ralus, regem adiit, atque ut G.... o committeretur obtinuit. E G.—o per aliquot tempora haesit, Remosque ab eo deductus est. A quo etiam logicae scientiam accipiens, in brevi admodum profecit, G....S vero cum mathesi operam daret, artis difficultate iictus, a musica reiectus est. Gerbertus interea studiorum nobilitate praedicto metro¬ politano commendatus, eius gratium prue omnibus promeruit. linde et ab eo rogatus, discipidorum turmas artibus instruendas et adhi- buiI [PL il repertorio di scritti di logica, di cui si serviva Gerberto nell’ insegnamento, così veniamo in possesso di un do¬ cumento tanto importante quanto decisivo, per provare che pur alla fine del secolo X restava ancora sempre sco¬ nosciuta la traduzione, dovuta a Boezio, degli Analitici e della Topica di Aristotele: perchè proprio di questi man¬ ca la menzione, mentre vengono citate in fila tutte le altre traduzioni e i lavori originali di Boezio (v. la Sez. XII, note 72 s.); ed è altresi degno di nota che Gerberto facesse venire l’insegnamento della retorica soltanto di seguito a quello della dialettica, come pure che il cro¬ nista nel suo racconto assegnasse ancora la retorica alla logica, trovandosi pertanto a considerarle da quel punto di vista, che abbiamo veduto proprio d’Isidoro, Alcuiuo e Hrabano (note 27, 54 e 79 di questa Sezione) 209 ). Ma ci viene riferito inoltre che Gerberto si occupava di de¬ lineare una figura, nella quale fosse rappresentata in una Tabula logica la distribuzione di tutte le cose; venne tuttavia su questo punto a contesa con Otrico, e con ciò va messa in relazione una disputa filosofica che si svolse =l *l Ibill, (in continuazione) L4-6-8J : Dialecticum ergo ordine librorum percurrens, dilucidis senlentiarum verbis enodavit. In primis enim l’orphyrii ysagogas id est introductiones secunduin Pictorini rhethoris trunslationem, inde etinm easdem secunduin Mani inni explanavit, Cathegoriarum id est pruedieamenlorum librino Aristotelis consequenter enucleans. Periermenius vero, id est de interpretatione librimi, cuius luboris sit, aplissime monstravit. Inde edam topica, id est argumentorum sedes, a Tullio de Graeco in Latinum translata et u Manlio constile sex commenlariorum libris dilucidala, suis auditoribus intimavi!. Necnon et quatuor de topicis differentiis libros, de sillogismis cathegoricis duos, de ypotheticis tres, diffinitionumque librum unum, divisionum aeque unum, utililer legil et expressit. Post quorum laborem cum ad rhethoricam suos provehere velici, id sibi suspectum erat, quoti sine locutiontim mo- dis, qui in poelis discendi sunt, ad oratoriam arlem ante perveniri non queat. Poelas igitur adhibuit quibus ussuefactos, locutioniun- que niodis composilos, ad rhethoricam trunsduxit. Qua instructis sophistum adhibuit: apud quem in controversiis exercerentur, ac sic ex urte agerent, ut praeter arlem agere viderentur, quod oratoris maximum videtur. Sed haec de logica. In mathesi vero. etc. [PL a Ravenna, al cospetto di Ottone II, allora quin¬ dicenne 21 °). Un’ altra più minuziosa narrazione concernente questo colloquio, ci fa chiaramente riconoscere, che sopra l’argomento i contendenti sapevano semplicemente a memoria quel che aveva detto Boezio (nel commento alla Isagoge), e su tal fondamento dibattevano la controversia, se cioè il concetto di RAZIONALE sia più ristretto che quello di Mortale, o non piuttosto, viceversa, si dimostri più ristretto quest’ ultimo Z11 ). Huconis monachi Virdunensis, abballa Flaviniacensis, Chro- nicon (P'ertz, MGH) : Quo tempore Otrieus apud Saxones insigni* habebatur.... Adalbero Romam cum Gerberto petebat, et Ticini Augustum (cioè Ottonem) cum Ottico reperit, a quo.... duo tus.... Ravennani, et quia anno superiore Otrieus Gerberti se vepre- hensorem in quudam figura cum mulliplici diversarum rerum distri¬ buitone (presa da Boezio, p. 25 (in l’orph. a Vict. transl.: ed. Brandt; PL) monstraverut, iussu Augusti omnes pnlatii sapientes intra pululium colletti sunt, tirchie piscopus quoque cum Adsone abbate Dervensi et scolastico- rum numerus non parvus; et coeptu disputatone, cum iam pitene lotum diem consumpsissent. Augusti nulu finis impositus est. È in¬ concepibile che il Werner, abbia potuto, con accento di biasimo, rinfacciarmi di aver antccipato la data della disputa, riportandola all'anno 870, perchè nella prima ediz. di questo vo¬ lume (pag. 54) si poteva pur leggere chiaramente il numero 970; senza poi contare che non è lecno ritenermi capace di far parte¬ cipare a un dibattito nell' 870, un uomo che io stesso dò come morto nel 1003. "“) Richerj op. cit., e. 60 e 65, p. 620 s.: Otrieus.... a il: «Quo- niam pliilosophiae partes uliquol hreviter uttigisti, ad plenum oportet ut et dividas, et divisionem enodes...... Tunc quoque Gerbertus: 4 ....secundum Vitruvii (leggi Victorini ) atque Boctii divisionem dicere non pigebit. Est enim philosophia genus; cuius species sunt. predice, et theorelice: praclices vero species dico, dispensativam, di- stribulivam, civilem. Sub theoretice vero non incongrue intelligun- lur, phisica naturalis, mathematica intelligibilis, or theologia intvl- lectbilis. La fonte è BOEZIO. Tunc ve- hementius Otrieus admirans I versa circa la distinzione tra l’octu.s necessaria, l'actus non neces- sanus, il quale ultimo ha origine a palesiate ovvero a subsistendo. e analmente la pura e semplice potenzialità. Gerberto mette questa partizione in forma di tabella: ma in ciò può ben ravvisarsi sol¬ tanto un modesto titolo di merito, poiché, ch’egli non abbia nean¬ che un solo pensiero suo personale. Io dimostriamo, qui come ap- P m?’/ IC ? 1 no\emotiva di Monaco (C.od. lui. 14272), contiene questa lettera. tuisce l’oggetto di giocherelli sillogistici: dopo averla rap¬ presentata cioè in modo assoluto come una disutilaccia, a Adalberone viene in mente di saggiare logicamente la validità universale di questo giudizio riprovativo, e pro¬ cede ora a una disquisizione in forma dialogica, per so¬ stenere che il giudizio è singolare, che c’è un opposto contraddittorio del giudizio stesso, e via dicendo: viene appresso l’invito a fornire a regola d’ arte la dimostra¬ zione della inutilità di quell’animale 2S0 ) ; ciò si fa per¬ correndo nel dialogo, in forma antitetica, l’intiero elenco dei giudizi ipotetici 233 ), e a ciò si trovano anche fram-, hc riempie una pagina e mezzo in folio (fol. 182 tO. Pare elle il titolo riferito più sopra sia stato semplicemente combinato dal Pez. FUilco). Denique haec mula.... non esset universaliter, seri polius aut particulariler aut indefinite, quae paene unum suiti, inu- tilis proponendo.... Igitur quae particulariter quoquo modo utilis est, omnimodis universaliter inutilis non est. — A(dalbero). Si hanc iauliiem atque inhonestam indefinite vituperarem, veruni a falso non diseernerem, nam huius mulae inutilitas, si universaliter esset dedi¬ catila. particulariler esset abdicatila (cioè sarebbero allora predi¬ cati nello stesso tempo concetti contraddittori). Sed haec viluperatio ncque universaliter ncque particulariter est determinata.... igitur quia singularis est, neutrum horum est. — F. Singulare dedicativum nonne suum hubet abdicativum?... Putasne, universale propositio universali, purticularis particolari, indefinita indefinitae sicut siagli- lares contrudictorie opponuntur? A. Piane opponuntur: si sub- stantia fuerit, erit praedicativa, sive sit sive non sit. F. Putasne. si accidens? A. Eodem modo opponuntur, si illud fuit inseparabile. F. Omne inseparabile contrudictorie opponitur? A. Non. _F. Illud tanlummodo cui aliquid possit uccidere, et illud dicitur substuntiale. Sed nunc ex arte, non de arte, nostris affirmalionibus cum luis repugnantiis hanc mulani esse inulilem atque inhonestam  onci nei profiteberis. Qui sono mescolate insieme la teoria di Boe¬ zio (fin Ar. de interpr.. ed. seconda, II, 7 e III, 10: ed. Meiser, p. 117 ss. e 255 ss.; PL, e la terminologia di Alareiano Capella (ibid.. nota 66). 31 ) A. Mula haec si claudicai, male ambulai; atqui claudicai : igitur male ambulai. F. Mula haec si claudicai, mule ambulai: utqiii non claudicai; igitur non male ambulai . A. Mula haec non. si claudicai, male non ambulai; atqui claudicat: igitur male ambulai. F. Mula haec non. si non male ambidat, claudicai : atqui non male ambulai; igitur non claudicat. A. Si valida non est. debilis est; atqui valida non est; igitur debilis est, e via dicendo. 106 mischiate enunciazioni di regole logiche)  ma l’insieme, clf è preso tutto quanto da BOEZIO, si chiude con l’accenno a lma causalità demoniaca della inutilità della mula, una spiegazione, questa, che dovrebbe, a quel che sembra, sodisfare ambedue le parti contendenti. Scolaro di Gerberto e pa- nmente Fulberto, vescovo di Chartres (dove nel 990 aveva aperto una scuola, e vi resse la sede vescovile dal 100/ [o 1006] sino alla morte,che godette di grande reputazione come conoscitore della dialettica 234 ), sì che persino gli f u conferito il sopran¬ nome di Socrate dei Franchi). Ma, mentre assoluta- mente nulla di preciso ci è noto, in ordine alla sua teoria F e' A ' et negalio semper est in pruediculis — nota 119) adhibetur, vind/cat sibi vini contradictionis et modus in- 1 A Hon et eodZTn em P °"" P, r “ cA ' c ""' s Sminati» subiectis. 4 7>liL f'i  nominali appresso da Trite- nuo, sono d. contenuto puramente teologico). erio iì““S . Ji Bereii- m’SLST logica 23B ), dobbiamo in ogni caso tenerlo in gran conto quale maestro di Berengario da Tours, sebbene sia lecito argomentare che da Fulberto le conoscenze e l'abilità, relative alla dialettica, erano ancora tenute del tutto lon¬ tane dal campo teologieo-dogmatico, poiché per quest’ul¬ timo riguardo egli esortava i suoi scolari alla più rigo¬ rosa ortodossia 237 ). Ma possiamo, in generale, scorgere un segno di più intensa operosità, relativamente alle condizioni di quel¬ l’epoca, già nel fatto che di nuovo si procedeva ad ap¬ prestare compendi o si elaborava con commenti conti¬ nuativi il materiale esistente a uso delle scuole, poiché, quantunque in ciò non donimi ancora una energia crea¬ tiva ùltimamente personale, purtuttavia si torna a ravvi¬ sare nella conservazione o nell’ incremento del sapere logico il vero e proprio fine: l’attività si volge cioè alla teoria come tale, sebbene senza originalità. [Anonimo rifacimento metrico della Isa¬ goge e delle Categorie: colorito nominalistico]. Cosi un A il o n i ni o  Ila ri¬ fuso in esametri la Isagoge e le Categorie), per impri¬ mersi nella memoria, con questo primo suo lavoro, come dice egli stesso nella introduzione in prosa, indirizzata a un certo Belinone, il contenuto di quei libri 239 ). Inco- 3, l La notizia, che Fulberto abbia mandato la Isagoge allo « scholaslicus » di un chiostro (v. Fui.berti Opera, ed. Villiers, Pa¬ rigi 1608, Ep. 79, fol. 76 b [PL: Ep.) è priva d'im¬ portanza. I Adelmanno, loc. cit., p. 3 [§ 6-8): obtestans per secreta ilio.... [colloquiai..., et obsecrans per lacrymas,... ut illue omni studio properemus, viam regioni directim gradientes, sunctorum Patrum vestigiis obsenantissime inhaerentes, ut nullum prorsus in diverti- culum. milioni in novam et fallacem semitoni desiliamus etc. f PL. loc. cit. or ora, nella nota 2351. Il lavoro è riprodotto a stampa, di su un codice di St. Ger- main (n. 1095), dal Cousin, Ouvr. inéd. d’Abél., p. 657-669. ) Chi sia stato o dove sia vissuto quel tal Bennone, non può mincia con il prendere da Boezio la divisione (Sex. XII, nota 77) dell’ Organon aristotelico, e pensa a tal proposito che la faccenda sia andata cosi: che cioè Aristotele abbia incominciato con lo scrivere i primi Analitici, e poi, siccome questi erano riusciti incomprensibili, abbia scritto appresso gli Analitici secondi, ai quali per lo stesso motivo ha dovuto far seguito la Topica, come pure poscia il De interpr., e quindi ancora le Categorie; ma non avendo voluto Aristotele scendere, per farsi capire, a un livello ancor più basso, e avendo perciò passato sotto silenzio le quinque voces, è intervenuta qui per for¬ tuna, a compier V opera, l’attività di Porfirio. II contenuto della Isagoge viene poi spicciato molto somma¬ riamente con la semplice indicazione della definizione delle quinque voces 241 ), e indi fanno seguito le Catego- ricavarsi dalla introduzione, che si tiene affatto sulle generali. Del no stesso lavoro dice ivi l'Autore: Quoniam complurium mci ordinis scholusticorum, praesul venerande, oblatus tibi litteras omni gradarum idacritate saepius te audio suscepisse,... tuue con- fisus.... pietati uliqua et ego offerre litterarum jocularia praesumo tliae maiestati. Feri animus, Dei aspirante grada, quum puueissimis oratione metrica absolvere, quod Porphyrii Isagoge et Aristotelis Calegoriae videntur in se continere. Quod batic ob causam maxime decreta agere, ut, quae illi latius difjudere, breviter collecta per me tenaci diligentius crederem memoriae. Nomina quoque grueca quae- doni interposui, ubi lege metri constrictus latina non potili.... Id mihi ne duculur litio, primum abs te, pater piissime, cui hoc litterarum munere ingenii mei primitias immolo, deinde ab omnibus veniam /tostalo. ) lbid„ p. 658: Doctor Aristoliles, cui nomen ipsa dedit res, Ingenio pollens miro praecelluit omnes. Hic, natis post se diulectica ne latuisset, Primos componens Analilicos studiose. De syllogismis ratio perpenditur in quis, Credidit ut sapiens hos planos omnibus esse. Sed cum nullus eis intellectu capiendis Sufficeret, rursus tentai prof erre secundos : Quos ncque posse capi cum sensit. Topica scripsit ; Hinc Perihermenias, postremo Cathegorias : Post quas finitas. descen¬ dere noluit infra. Hic genus ac speciem, proprium, distantia, striti- gens, Simbebicos edam quid sint omnino tacebat. Porphyrius tan¬ dem cernens, nisi cognita quinque Haec sint, bis quinus nesciri ca¬ thegorias, Cuique smini finem signavit convenientem. (Cfr. anche Bokzio, p. 113 rio Ar. prued.. I; PL, 64, 160 s.] ; Sez. XII, nota 841. t Jbid. Dopo la definizione delle cinque voces, si legge: Ni nimis est longutn. communio dicier horuni (vale a dire ciò di cui rie. Dice espressamente l’autore, a proposito di queste, sin dal principio, che si tratta lì non già delle cose per se stesse, ma soltanto delle voces signativae delle cose 242 1, si che troviamo qui una ripetizione di quel punto di vista nominalistico, considerato più sopra (note 149 ss. e 159); ma hi ciò consiste anche tutto quel che di più importante dobbiamo rilevare in questo compendio; poi¬ ché nel rimanente esso si tiene cosi strettamente attaccato allo scritto pseudo-agostiniano intorno alle categorie (Sez. Xll, note 43-50), che di l'atto lo si può denominare, in una parola, una versificazione dello scritto stesso; tut- fai più si può osservare inoltre, che i numerosi termini greci, i quali vi figurano barbaramente trascritti, deri¬ vano ugualmente da quella medesima fonte, dove pure si trovano abbastanza spesso intercalati, restando con ciò molto semplicemente eliminata ogni ipotesi che even¬ tualmente sorgesse, relativamente a studi che fin d’al- lora si facessero sopra l’originale greco 243 ). appreso viene a trattare Porfirio: v. la Sez. XI, note 49 ss.), Non nos barrerei : sed malumus ergo lucere. Ne generelur in his libi nausea discutiendis. :l: ) lbid., p. 658 s. : Post haec, bis quinus pandamus cuthegorias. In quis rir doclus non ex ipsis quasi rebus, Sed signativis de rerum vocibus orans. SuiniI ab omonymis tractandi synonymisque Prin- cipium eie. ***) Poiché tutto questo scrino è semplicemente una ripetizione metrica di quello del Pseudo-Agostino, appare superfluo fare cita¬ zioni particolari. Ma per quel che riguarda i termini greci, spiegati per lo più in latino con glosse interlineari, può ricordarsi: usya, sim- bebicos e simbebicota, enarithnui (àvdpiitpa : Sez. XII, nota 43), epi- phania (a proposito della quantità) T6601, poi, a proposito delia re¬ lazione, Pesametro 1662): Thesin, diuthesin, episthemin, estesili, exin (cioè èiuaxrjprjv, aloDijoiv, IJ'.v e similmente [ il). | Dicilum ornile quod est, rei eneria dinamite (cioè évspysJa e Suvàpzi), come pure, a proposito della qualità 16631: Exis, diathesis, phisices di¬ ttamis poelesque (rcoiÓTrjg Passibilis, potius seu pathos, scemala morphue (axtipaTa popcff,c), nella Sezione che tratta degli opposti 1667 \habitus sleresisque atépr,oi;, e, a proposito del postpraedi- camentum del moto [668-9] : Auxesis, megesis, genesis, florus, aliu- sis. Et Itala ton joras, metabeles associato (cioè aB(;l}Olg, |ia£o)atg, YÉvEatg, àXÀoùasig, xatà xòv tónov, pexagoXtJ). no  [§26. — Intensa attività della Scuola di S. Gallo. Notker Labeo: a) un Tractatus insignificante ].Ma principalmente a S. Gallo noi troviamo, intorno a quell’epoca, una più estesa rielaborazione del materiale logico in uso nelle scuole, e per tale riguardo spetta in ogni caso al famoso NotkerLabeo il merito di aver dato P impulso e diretto la esecuzione, sebbene non tutt’ i lavori dei quali qui si tratta, sieno venuti fuori proprio dalle sue mani 24 *). Non c’è dubbio che qui pure il fondamento è dato solamente dal materiale tradizionale, e non c’ è da aspettarsi propriamente novità 245 ): ma questo materiale tradizionalmente tra¬ smesso è in parte trattato tuttavia in maniera più libera, mostrandosi in ogni caso un interesse, che si volge con abbandono all’ oggetto della trattazione per se medesimo. J4 *) Mentre cioè J. Gbimm («Gott. Gel. Anz. », 1835, N. 921 è (li opinionr che Notker sia l'autore unico di tutti quegli scritti, e a questa opinione aderisce incondizionatamente anche H. Hattemer iDenkmiiler des Mitteltdters « Monumenti del M. Evo », III [S. Gallo, p. 3 ss.), ci sembra invece più giusto, tenuto conto della diversità intrinseca di quei lavori, ammettere con W. Wacker- NACEL I Orse il ichte dir deulschen Lilteralur «Storia della letteratura tedesca », p. 80 s. 12* ed., Basilea 18791 : v. di lui anche la orazione accademica sopra le benemerenze degli Svizzeri verso la lettera¬ tura tedesca, Basilea 1833) che le opere recanti il nome di Notker sieno state composte da vari autori, semplicemente sotto la dire¬ zione di lui: rfr. inoltre appresso la nota 262. FI1 Franti non cita Die Schriften Natkers und seiner Scinde (« (ili scritti di Notker e della sua scuola») editi da P. Piper, Voi. I (Scritti di argomento filosofico). Frihurgo-Tubinga, 1882], ' 45 l Cose straordinarie si posson leggere invero nella Geschiehte Din St. Gallai («Storia di S. Gallo») di Ild. v. Arx. Nella Dialettica, ch’essi dividevano in Logica, Peripatetica, Stoica e Sofica [sic/l, furono loro maestri Aristotele, Platone, Porfirio e BOEZIO: eran loro ben note le dieci categorie e le Periemerie del primo tra essi, le cinque Isagogi di Porfirio e il metodo d’insegnamento di Socrate. Ma nientr’ è facile scorgere subito che tutta questa notizia può fondarsi solamente sopra la più crassa ignoranza dell'autore, si dovrebbe supporre tuttavia ch’esso abbia ricavato da mi qualche manoscritto la informazione che dà, relativamente alla partizione della dialettica; tuttavia anche su questo punto sono -tato messo tranquillo dal mio amico e collega Hofmann, il (piale, in occasione di sue ricerche personali, fece a S. Gallo Tra questi scritti il più insignificante è un « Tractatus inter magistrum et discipulum de artìbus »: l’autore in¬ fatti si è limitato qui a riassumere il Compendio di Al¬ enino (v. sopra le note 48 ss.), conservandone la forma dialogica, e ha inoltre utilizzato in compendio anche BOEZIO, ma epiest ultimo soltanto da principio, cioè a proposito della Isagoge e della categoria della quantità 24 °). [§ b) rifacimento delle Categorie]. — Invece un più diligente studio delle opere di BOEZIO e una rielaborazione alquanto più libera del materiale che vi si trova, sono manifesti in altri due scritti, notoriamente di som¬ ma importanza anche per la storia della lingua tedesca, cioè nel rifacimento delle KaTTjyopi'at, e nel rifacimento del libro IlepUppTjvelas 247 ). Il primo di questi scritti si attiene in complesso rigorosamente, quanto al testo, alla anche nel mio interesse una verifica relativamente alle opere di logica, ma non potè trovare assolutamente nient’altro, all’ infuori da quali t’è stato di già pubblicato, o per lo meno accennato dal (iraff. dal Wackernagel e dallo Hattemer; v. anche appresso nota 271. ’ / bsisle manoscritto alla Biblioteca Governativa di Monaco (Coti. lat..), di dove lo Hattemer ( Denkm. d. Mitlelalt.. [già Cil.l, III, p. 532 ss.) trasse per pubblicarle le sole intestazioni dei capitoli. La partizione della filosofia e della logica è quasi letteral¬ mente presa da Alcuino, ma dove si tratta delle quinque voces, la ' numerazione delle diverse loro sottospecie e gli esempi illustrativi -ono ricavali da Boezio; la Sezione che tratta delle categorie è da principio un riassunto da Alcuino, con omissione degli homony- ni" ecc.; e dopo che di nuovo è stato utilizzato Boezio, solamente riguardo alla categoria della quantità, si viene in seguito a parlari- delie rimanenti categorie, attingendo parola per parola ad Alenino, ma soltanto fino alla categoria dell’/iufiere: e da quell" unica pro¬ posizione esemplificativa (v. qui sopra la nota 57) si passa subito, con la intestazione Quid su,il formulile syllogismorum, alle notizie !" -Alcuino intorno all argomentazione, le quali sono altrettanto '"eraunente riassunte, quanto le seguenti che riguardano Biffi niil( *\ topica e Periermertine. .. 1 F ;^ P 7 Ìo 24S ). ma frammezzo al testo, periodo traduzione di Boezio t n te per periodo, vi è intrecciata una spiegazione, contendi, S ua volta la parte più importante del commento dello «Z Boezio, e a BOEZIO una volta Fautore espressa- niente si richiama: molto spesso la dimostrazione queste spiegazioni viene articolata ne suoi e 1 maniera perspicua, mediante cenni sommari del conte unto o altre intestazioni, anzi anche con la indicazione Propositi io, Asmmptio, Conclusi o«): e gh esempi espli¬ cativi sono in alcuni luoghi personalmente escogitati da Notker; si può osservare ancora che Fautore, con ma¬ nifesta predilezione per la geometria, s indugia piu a lungo e con maggiore originalità su quei passi, che con- tengono un accenno a tale disciplina • re) rifacimento del De mlerpretalione). - Il rif"'" menlo del II.pt nlliene «—« 1»"- • a 1 ™r«n «tesso della storia della logica, lo ho pre- alcun influsso nel torso, - zwe i altesten Compendien srwfttiSX* gj d r p,l l8™“,b ‘ di logica in tedesco»), Monaco,, ^ aria ’ zion ;. ta,l V olta sono ab- brevT.zSi od Soni ^ - — * — dere, e via dicendo. a pedo mule [el disposino ist PÌP -; €o S t 4 p. lC eTaT4 a n9 le s Quesfulti.na terminologia è presa da Hoizio. de syll. hyp.\ v. la nota a • intu itiva «) A questa maniera non soltanto lp. WZ ss. « u5 mediante disegni "jò^l'^niTesaurita la trattazione della *- „ .... diseano diverso che in Roezio. to al testo, parola per parola alla traduzione di BOEZIO, e i commenti che si trovano alla stessa maniera intrec¬ ciati anche qui, si fondano parimente sopra il commento di Boezio, del quale l’autore, come accenna egli stesso, ha utilizzato ambedue l’edizioni ***). Ma ha importanza la introduzione, eh’ è premessa all’ insieme, in quanto che novamente c’ imbattiamo qui pure nel punto di vista nominalistico, che ravvisa nel significato delle parole l'oggetto delle Categorie; ivi inoltre, notizie, ed espres¬ sioni tecniche, tratte da Marciano Capella, vengono intrecciate in maniera caratteristica con quelle osservazioni die riguardano l’ordine ili successione dei libri dell’ Organon, e che sono ricavate da BOEZIO: e appunto rispetto a queste ultime notizie, ci è consentito ancora di ricavare dagl’ ingenui equivoci dell’autore la conchiusione sicura eh’ egli conosceva gli Analitici e la Topica di Aristotele, proprio soltanto per sentito dire, da quel passo di BOEZIO, Hattemer, p. 474 a [ ed. Piper, p. 511: rifacimento del De interpr., Lili. I, 111: Est hoc \tractare 1 nlterius negotii. Taz isl anders uuur zelerenne, samoso er chade, lis mine metaphisicu (v. BOEZIO, p. 230 [ in de interpr., Prima editio: ediz. Meiser, I, 5, p. 74; PL, 64, 3151), dar lero ili tih iz. Ahere boetius saget iz fure in, in secunda editione etc. (cioè Boezio, p. 326 I ih., Seeunda edi¬ tio: ediz. Meiser, II, 5, p. 101; PL. [Est hoc alterius nego- lii. Ciò dev’essere insegnato in altro luogo; così disse egli: «leggi la mia Metafisica; li te lo insegno». Ma BOEZIO lo dice apertamente in secunda editione ete. (Della traduzione, di questo, come dei segg. passi di N. L., debbo esser grato alla dottrina, tanto cortese quanto sicura, del rh.mo collega BATTISTI (si veda). Neanche mancano qui quelle figure, con le quali BOEZIO rende intuitiva la teorica del giudizio, e anzi per esse l’autore rinunzia a servirsi del tedesco. “’) ìhid.. p. 465: Aristotiles sreib cathegorias, chunl zcluenne, uutiz einluzziu uuori pezeichenen (cfr. più sopra le. note 149 ss., 159 c 242, e subito appresso la nota 256); nu lutile er samo chunt ketuon in periermeniis, uuaz zesumine gelogitiu bezeichenen, an dien veruni linde falsum fernomen uuirdet; tiu latine heizent proloquia; an dien aher neuueder uernomen neuuirdet, tilt eloquio heizent (la fonte di questa terminologia, vedila in Marciano Capella, Sez. XII, nota 51, e in Agostino, ibid., nota 33); tero uersuiget er an disamo buoclie. I nandù ouh proloquia geskeiden sint, unde einiu heizent 8. il «De parlibue loicae»; nominalismo]. Un altro scrittarello, intitolato « D e partibus loicae»™) si presenta come una compilazione compendiosa per uso delle scuole, essendovi anzitutto enumerate le sei parti* della logica, compresa la prima, che fu aggiunta da Porfi¬ rio alle cinque aristoteliche) : alla enumerazione fa poi Simplicio, dar eia uerbum ist, ut homo uiuit, andenu duplicia, dar zuei ucrba sint, ut homo si uiuit spirat, so leret er hier simplicia, in topicis leret er duplicia. Fone simplicibus uuerdent predicatoli syllogismi, jone duplicibus uuerdent conditionules syllogismi (la fonte di questa distinzione, in BOEZIO: A ah periermeniis sol man lesen prima analitica, tur er beidero syllogi- smorum kemeina regida syllogislicam heizet: taranah sol man leseti secunda analitica, lar er sull Arrigo leret predicutinos syllo- gismos, tie er heizet upodiclicam (anche chi avesse dato appena una occhiata superficiale agli Analitici stessi, non si potrebb espri¬ mere a questa maniera); zc iungisl sol man lesen topica, un diener oidi sunderigo leret conditionales, tie er heizet dialecticam. Jiu purtes heizenl samenl logica. Nu uernim uuio er dih ielle zuo dien proloquiis (anche nel commento stesso, accanto alla terminologia di BOEZIO, vediamo sovente figurare proloquium). [Aristotele scrive le Categorie, per indicare che cosa significhino le parole isolate. Invece nelle Periermeniae egli stesso dichiarerà quello che signifi¬ cano le combinazioni di parole, con cui viene enunciato il verum e il falsimi, e che in latino soli dette proloquia ; se invece non viene enunciata nessuna delle due cose, «on dette eloquio. Ala su ciò egli tace in questo libro. Inoltre anche nei proloquia si può fare una distinzione, e taluni, p. es. « homo viviti, in cui c è un verbo solo, vengon detti « simplicia », altri, in cui ci sono due verbi, p. es. « homo si vivit spirat», vengon detti « duplicia». Dei simplicia egli ragiona qui, dei duplicia nei Topica. Dai proloquia semplici si fanno i predicativi syllogismi. dai duplici i conditiona- les syllogismi. Dopo le Periermeniae, si leggeranno i primi Anali¬ tici, dove si chiama sillogistica la regola comune agli uni e agli altri sillogismi; dopo di che si leggeranno i secondi Analitici, dov’egli insegna separatamente i sillogismi predicativi, la cui regola chiama apodittica; per ultimo si leggeranno i Topica, dove insegna sepa¬ ratamente i sillogismi condizionali, la cui regola egli chiama dia¬ lettica. Queste parti complessivamente portano il nome di logica. Ed ora apprendi coni’ egli ti guida ai proloquia (ed. Piper, p. 499, op. ull. cit., « Praefatiuncula »)]. 251 ) Edito, di su un manoscritto zurighese, dal XX ackernacel negli Altdeiilsche Bliitter (« Fogli Altotedeschi ») di FIaupt e Hoffmann, II, p. 133 ss., e dallo Hattemer, op. cit., p. 537-540. *“) Hattemer, p. 537: Quot sunt partes logicue? Quinque secun- dum Aristolelem, sextum partem addidit aristotelicus Porphirius; quae sunt: isagoge, calhegoriae, periermeniae, prima analitica, se¬ cunda analitica, topica. seguito una più o meno lunga indicazione del contenuto delle parti stesse. Dopo che cioè della Isagoge sono state citate soltanto, nella traduzione di Boezio, le definizioni delle quinque voces, viene brevemente illustrata mia sola delle categorie, la sostanza, senza che sieno neanche no¬ minate le altre nove, ma in tale occasione viene enun¬ ciata 2o6 ) la concezione nominalistica, ancor più netta¬ mente di quel che s’è veduto or ora, alla nota 253; segue poi, riguardo ai giudizi, la semplice enumerazione delle quattro specie (universale affermativo, universale nega¬ tivo, particolare affermativo, particolare negativo), tratta da Marciano Capella e con la terminologia di lui 2r ‘ 7 ). Ma ciò che viene detto poi intorno agli Analitici primi e secondi, ha ugualmente per fondamento quello stesso passo di Boezio, dove questi espone 1’ ordine delle parti dell’ Organon, e certo neanche qui è fatto uso della tra¬ duzione da lui curata degli Analitici 23S ). Infine si tratta minutamente della Topica, e anzi in piena conformità con Isidoro (v. sopra la nota 39), aggiungendo qui 1* au¬ tore proverbi tedeschi come esempi dei singoli loci 259 ). fe) scritto De syllogismis, e sua importanza ]. Ma il più importante fra tutti questi scritti, provenuti da : “ 8 ) Ibid., p. 538 a: Quid tractutiir in cathegoriis? Prima rerum significano et quid singulae dictiones significent, utrum substantiam an accidens etc. sn )Ibid.: Quid narratile in periermeniis ? Quid consideratile in primis analiticis? SILLOGISTICA quae est communis regula omnium sillogismorum, necessariorum et probabilium, cathegoricorum et ippolhelicorum, item praedicativo- rum et condilionalium (raddoppiamento insulso, risultante daH’aver tirato dentro la terminologia di Marciano Capella. Quid traclatur in secundis analiticis? Apodictica id est demonslraliva quae demonstral veritatem, id est necessarios siilo- gismos. w ) È parimente copiato da Isidoro (nota 27) quanto lo Hattemer (ibid., p. 530 s.) riporta, da un altro luogo dello stesso manoscritto, intorno alla differenza tra dialettica e retorica. S. Gallo, è la monografia De syllogismis 2G0 ) ; poiché, sebbene si fondi parimente ancli’essa sopra una compilazione di materiale svariato, il suo autore, con un maggior corredo di letture, mette mano qui anche sopra cose, per cui non bastava una conoscenza puramente superficiale dei compendi scolastici d’Isidoro o di Alcuino; inoltre egli conserva una notevole indipendenza, in quanto che mostra la tendenza verso una interna, uni¬ taria finalità della logica: con la esposizione di tale fina¬ lità si chiude la monografia. Prima viene enunciata ) la definizione del SILLOGISMO, presa da Marciano Capella, con l’aggiunta di alcune parole della Retorica d Isidoro, — e qui già un considerevole numero di esempi in tedesco serve a chia¬ rire la trattazione: poscia 1 autore, facendo uso di una terminologia mista, presa sia da Marciano sia da Boe¬ zio, adduce la divisione dei sillogismi in categorici e ipotetici 2 ' 12 ); presenta quindi, attingendo a Marciano (Sez. XII, note 63 e 67), le parti costitutive del sillo¬ gismo categorico e del giudizio categorico), per far poi seguire a ciò la esposizione integrale dei diciannove modi del sillogismo, la quale è tratta da Apuleio (Sez. X, 1 Integralmente riprodotto a stampa nello IIattf.mer; in forma di estratti, nel Deutsches Lesebuch [« Anto¬ logia tedesca»] di Gucl. Wackfrnacel, I, p. Ili ss. ) C. 1, ibid., p. 541 a: Quid sii syllogismus. Syllogismus graece, lutine dicitur ratiocinatio.... quuedam indissolubilis oralio .... quae~ dam orutionis catena et inficia ratio. Et ex iis videntur quidam esse qui latine dicuntur praedicativi, alii autem qui dicuntur conditionales.... (p. >12 b) Constai autem omnis syllogismus proloquiis i. e. propo- silionibus. Dalle parole che vengono appresso — proloquia dicumus cruezeda, similiter proposiliones cruezeda [ incroci, combinazioni di voci CI, itera proposiliones pietunga O Bietungen », offerte, trad. lett. di proposiliones 3, alii diami pemeinunga [« Bemeinungen », enun¬ ciazioni) risulta altresì che in ogni caso erano in parecchi a occuparsi di simili rifacimenti della logica Od. Piper: r r hti minori, attinenti a Boezio, lì : «/le Syllogismis », 1], Cioè sumpta, illatio, subiectivum, declaralivum.n-ote 18 ss.), e chiarita con esempi tedeschi, che son opera dello stesso compilatore 2M ). Si passa quindi ai sillogismi ipotetici, e anzi per prima cosa viene presentato, alquanto liberamente elaborato e con intercalati termini di Boezio, quel che su tale argo¬ mento si ritrova in Marciano: solamente appresso trova posto la indicazione compiuta dei sette modi sillogistici enumerati da Cicerone (Sez. Vili, nota 60), e illustrati qui con una minuta spiegazione, che l’autore trae dal commento di BOEZIO alla Topica di CICERONE, e correda parimente di esempi in tedesco 20 °). Ma ora c’ era pur iuoltre in Isidoro un syllogismus rhelo- rum (v. sopra la nota 43), e in connessione con quanto da lui era stato detto, viene colta qui la occasione di passar a considerare più minutamente la teoria retorica, il¬ lustrandosi, con esplicito rinvio a CICERONE (de Inventione, v. la Sez. Vili, nota 59), l’argomentazione retorica, e facendosi uso perciò di un esempio che si trova in Cicerone stesso 2B7 ). Ma subito 1’ autore s’in¬ dustria di ricondurre al sillogismo categorico tale specie di sillogismo, in quanto che questo è adeguato all’ esi¬ genze formali della riprova della verità, — accennando di nuovo sulle orme di Boezio agli elementi semplici dei sillogismi in generale 2B8 ), e a ciò unendo spiegazioni re- C. 3-8, p. 543-47. ) C. 9—12, p. 548 s. L’espressioni usate «la Marciano vengono qui intese come specifica terminologia, cioè: pro/Htsitio, assumptio, conclusio. **) C. 13, p. 55(4—553. Qui LA FONTE è BOEZIO, ad CICERONE Top., V, p. 831 [PL, 64, 1142] ss. I C. 14, p. 553 a: Transeunt vero syllogismi et nd rlietores iam latiores et diffusiores factì.... Ilorum esempla sunt upud Ciceronem in libri* Rhetoricorum. L’esempio ciceroniano del governo del- I universo (de Invcntione, I, 34, 59), elle del resto figura anche in BOEZIO, de cons. phil., I, p. 958 [PL,, viene poi svolto parimente in tedesco. l Ibid., p. 554 a: Praedicntivus est ille syllogismus nut condi lative al giudizio 269 ). E dopo che a ciò hanno fatto se¬ guito disquisizioni etimologiche sopra alcuni concetti, affini per significato al syllogismus — disquisizioni che sono tratte o direttamente da Isidoro, o dal così detto Glossario di Salomone (v. sopra la nota 185), e in parte anche da BOEZIO 27 °) — vien approfondita, in base alla Topica ciceroniana, la differenza tra dialettica e apodit¬ tica 2T1 ) ; tale differenza coincide con quella tra sillogismi ipotetici e categorici, ma proprio per questo, nel fine unico della scoperta del vero, si risolve in ima superiore unità, poiché con il magistero del ragionare si apprende ogni verità umana, mentre il divino trascendente s’in¬ tende senza tale arte 272 ). tionulis?.... Piane ergo praedicativus est.... nam et omnes purtes syllogismorum, sire propositio sive approbalio sive sumptum sive illatio sive conclusio sive ut alii dìcunt complexio (v. la Sez. Vili, nota 59) aut confectio, communi nomine enuntialio vocantur (v. ibid. la nota 45). La fonte di questa riduzione alla proposizione semplice è Boezio, ad Cic. Top., V, p. 823 [PL, 64, 1129]: cfr. anche la Sez. XII, note 131 e 140. "’) lbid.: Est autem enuntialio oratio verum aut falsum signi- ficans.... huius species sunl affirmatio et negatio (Sez. XII, nota 111): successivamente si vien a trattare, in lingua tedesca, di assumptio, illatio, conclusio. OT ) C. 15, p. 555 a: Cioè sopra ratiocinari, disputare, iudicare, experimentum ; e inoltre: argumentum dicitur, ut BOEZIO (ad CICERONE Top., I, p. 763 [PL, 64, 1048]) placet, quod rem arguii i. e. probat. '”) C. 16, p. 556 a: Quuerendum autem magnopere est, quare CICERONE dialecticam in ypolhelicis tantum conslituerit syllogismis.... Est enim medius inter Arislolelem et Stoicos (forse che quella tale notizia, accennata più sopra, nota 245, I. v. Arx l’ha attinta di qua?).... Proplerea Boetius Arislolilem in thopicis dialecticam et in secundis analiticis apodicticam docuisse testalur, cioè il complesso è preso da BOEZIO, ad Cic. Top., I, p. 760 LPL, 64, 1045] g., dove si trova uno svolgimento ulteriore del punto di vista ricordato. De potentia disputandi, i. e. Fone dero muhte des uuissprachonis. Si ergo satis intellectum est, omnem apodicticam constare in decem et novem modis syllogismorum et dialecticam in septem modis syllogismorum, non sit dubitandum, totam earum utilitatem esse in invenienda veritate. Ube niunzen sloz apodicticae unde sibeitiii dialccticae muda gelirnet sin, so uuizin man dormite, duz sie nuzze sint, alla uuarheit mit in zeeruarenne [Quando si sono bene appresi i 19 sillogismi apodittici e i 7 dialettici, con ciò Così l’autore, la cui concezione già con questo ci rammenta, in maniera tanto chiara quanto consolante, 10 Scoto Eriugena (note 111-120), può, per la sfera della umana aspirazione alla verità nel mondo di qua, enun¬ ciare una definizione unitaria della logica, nella quale ha la propria essenza la dialettica «ovvero» apodittica: e quel ch’egli trovava detto già da Boezio (Sez. XII, nota 76), prende da lui mia espressione più precisa ed energica, là dove dice, analogamente allo Scoto, che la logica è la scienza del giudicare o disputare 273 ) : perchè 11 potere della forma, che si manifesta nei sillogismi di qualunque specie, è per lui quel che decide, è il termi¬ ne, nel quale vengono a confluire tutte le differenze che si manifestano entro la sfera della logica 274 ); la reto- stesso apprendiamo che essi giovano a riconoscere ogni sorta di veritàl. Omnia enim his Constant, quae in humanam cadunt ratio- nem. Al daz menniskin irratin mugin, taz uuirdit hinnan guuissot [Quanto gli uomini arrivano a intendere, tutto viene saputo con questo mezzo]. Divina excedunt humanam rationem, intcllectu enim capiunlur. Tiu gotelichin ding uuerdent keistlicho uernomen ane disa meistrrskaft ILe cose divine vengono apprese con l’intelletto, senza questa maestria (nel ragionare) (ed. Piper. Quid sit dialectica vel apodictica. Ergo diffinienda est dialectica sire apodictica, possunt enim unam et eandem suscipere diffinitionem in hunc modum.. Dialectica est sive apodictica iudicandi peritia vel ut olii dicunt disputandi scientia (proprio questo già si trova anche nello Scoto, v. sopra la nota 112). Meisterskafl chiesennes linde rachonnis, taz ist dialectica, taz ist ouh apodictica [La maestria nel giudicare e nel disputare, è la dialettica o l'apodittica (ed. Piper, ed. Piper, ibid.] : l'rius diximus. quia ratio est quae ostendit rem. Reda skeinit uuaz iz ist. Pi dero redo sol man chiesen. ube iz uusen nuige.... Taranah mag er [Il discorso dimo¬ stra quel che una cosa è; con questo discorso si ricercherà se una cossa possa sussistere. In seguito egli potrà] rachon i. disputare, ioh [e anche] uuarrachon. i. ratiocinari.... Ter uuarrachot. ter mit redo sterchit. linde ze uuare bringel. taz er chosot. Reda errihtet unsih allis tes man stritet. Ter dia chan uinden. (p. 621) der ist [Ragiona colui che con il suo discorso rafforza e dimostra quanto ha ricer¬ cato.... Il discorso c’istruisce in tutto ciò su cui si viene a contesa. Chi può trovare questo, è un] index, ter ist raliocinator. ter ist disputator. Ter ist argumentator. ter ist dialecticus. der ist apodicti- cus et sillogisticus. rica invece, la quale serve soltanto alla verisimigliauza ma non già alla verità, è perciò situata su di un altro campo, mentre quel che c’è di comune e di più vera¬ mente omnicomprensivo è la espressione verbale (ver- bum), nella quale deve spaziare così il sermo filosofico come anche la diclio retorica. Ma proprio per que¬ sta ragione il punto di vista che è per l’autore assoluta- mente ovvio e naturale, è quel punto di vista nominali¬ stico, che abbiamo trovato nello Scoto, poiché la diffe¬ renza tra vero e falso, cioè l’oggetto di ogni atto giudi¬ cativo o di ogni disputa nella sfera della logica, può manifestarsi solamente nella forma di giudizi umani, e anche i praedicamenta non sono appunto nient’altro che enunciazioni 276 ). Comunque, è una cosa che ci fa veramente piacere, esserci qui imbattuti in un autore, che sa quel che si vuole, e per noi questo scritto è infinitamente superiore ai giocherelli pedanteschi e senza costrutto di un Ger- berto o di un Anseimo; è anche ben difficile imaginare che si sarebbe venuti a presentar le « prove della esi- ) C. 19, p. 558 b [ed. Piper]: Nec panini hoc alten- dendum est. quantum intellectu quaedam distata, quae simili modo solent interpretati, ut sunti verbum, sermo, dictio.... Qiuie si unum significatela, nequaquam sermo daretur philosophis, dictio vero rhe- toribus; ut auctores docenl (cioè Isidoro: v. sopra la nota 27); nani et Aristotiles dialecticum, quae interprelatur de dictione, ad rhetores traxil et voluit eam esse in argumentìs rhetoricis, i. probabilibus, quae ille iudicavit esse (nel manoscritto: rum esse) discernenda a necessariis argumentìs, de quibus fiunt ypothetici syllogismi et tota dialecticu, ut Cicero docuit (v. Boezio, cit. nella prered. nota 271).... Dignior est namque sermo et gravior, ut sapientes decet, dictio humilior est et plus communis data rheloribus. Verbutn autem om¬ nium est. ■ ''> IbidEt in interpretando proprie sermo (cfr. la nota 321[?]) saga diritur. sic et enuntinlio, quae similiter philosophis tradita est. et disputantibus necessaria est. quia inest ei semper veruni aut fcdsum.... Praedicare autem est, inquit Doetius To non forse 124? ad Ar. pracd., I; PL, 64, 1761), aliquid de aliquo dicere, i. eteuuaz sagen fone etcuuiu. linde et praedicnmenlum dicitur et praedicatio, einis tingis kesprocheni fone demo undermo [Tesser una rosa detta di un’altra cosa]. stenza di Dio », se in generale si fosse conservata quel¬ l’avvedutezza, di esercitare cioè belisi in tutte le dire¬ zioni la maestria deH’argoinentare, iiell’ànibito della realtà da noi percettibile, ma di lasciare invece al pio sentimento dei credenti la rivelazione del Divino nella sua immediatezza. Del resto, dobbiamo pure qui far ugualmente rile¬ vare che l’autore di questa monografia non può aver conosciuto la traduzione degl’analitici curata da BOEZIO, perchè altrimenti, se gli fosse stata accessibile la sillogistica stessa di Aristotele, egli, che pur mostra in generale un corredo di letture maggiore di quello degli altri, non sarebbe certamente andato già a prendere i diciannove modi da Apuleio, nè, con la sua aspirazione alla unità interiore della logica, si sarebbe riattaccato esclusivamente a quegli stessi passi, che a ciascuno erano noti, dalle traduzioni e dai commenti più diffusi di BOEZIO. Ma in quello studio esteso della logica, quale ci si presenta a quest’epoca in S. Gallo, potremmo ben anche ravvisare un fenomeno piuttosto isolato, sempre che non sia determinato solamente da mancanza di notizie il giudizio che pronunciamo, quando diciamo che nella prima metà del secolo XI in generale ha prevalso una mancanza di attività, per quel che con¬ cerne il dibattito delle questioni di logica, o persino la *") In siffatti casi sembra che l'argumentum ex silentio sia asso¬ lutamente calzante, e elle pertanto si aggiunga, come una convali¬ dazione mollo precisa, alla circostanza generale, vale a dire non esserci, in tutta questa letteratura, un solo indizio positivo che sia stato fatto uso di quegli scritti aristotelici. TSoggiugerò qui che lo scritto del Prantl. da lui citato più sopra, comparso negli Atti della Regia Accademia Bavarese delle Scienze (Clas¬ se I, voi. "Vili, Scz. I), riguarda non gli scritti logici di Notker L., bensì due compendi dovuti uno a Ortholph Fuchsperger, l’altro a Volfango Biitner, e rispettivamente stampati ad Augusta e a Lipsia. compilazione di compendi. Nel corso della nostra inda¬ gine, dobbiamo invero a ogni passo tener presente la pos¬ sibilità clic una parte del materiale die esisteva, sia stata sottratta totalmente alla nostra conoscenza, sebbene si sia portati ad ammettere che difficilmente le manifesta¬ zioni di una certa importanza sarebbero dileguate senza lasciar alcuna traccia, e che un silenzio assoluto di tutte le fonti non sarebbe pensabile, se realmente lo studio della logica fosse stato più largamente diffuso. [Altri documenti relativi allo studio DELLA LOGICA NEL SECOLO XI: FrANCONE A LlEGI, OtLOH a Ratisbona, Pier Damiani], Dalla metà circa del secolo XI ci giunge la notizia che un tal Francone, scholasticus a Liegi (intorno al 1047), compose, sopra la quadratura del circolo (v. le note 191 e 251 di questa Sezione), ima monografia che si riattacca al relativo passo di Boezio 278 ) : e forse della stessa epoca possiamo citare almeno l’espressioni, con le quali un monaco di St. Emmeram, Otloh, morto a Ratisbona [dove appunto sorgeva il chiostro di St. Emmeram], vien a ri¬ conoscere che ci sono alcuni dialectici ita simplices, che applicano il canone dialettico a tutte le parole della Sa¬ cra Scrittura, e credono a Boezio più che alla Bibbia stessa 278 ). Ma da quest’ultima doglianza bisogna con- *") Sicebekti Gemblancensis Chronica ad unnum 1047 (Pertz, MiGH, : Franco scolaslicus Leodicensium et scìentia litterarum et morum probitate claret; qui ad Herimannum archie- piscopum scripsit librum de quadratura circuii, de qua re Arislolelcs (com’è riferito da Boezio I in Ar. praed., II; PL, 64, 230], p. 165) ait: Circuii quadratura, si est scibile, scìentia quidem non est, illud vero scibile est |PL, 160, 209]. ”°) Oti.ohni Dialogus de tribus Quaestionibus (riprodotto dal Pez, Thesaur. Anecdot., HI, 2, p. 143 ss.), p. 144-5: Peritos autem dico magis illos, qui in Sacra Scriptura, quarti qui in Dialectica sunt instructi. Nani dialecticos quosdam ita simplices inveni, ut chiudere che il su riferito monito di Fulberto (nota 237) non fu disdegnato solamente da un Berengario, ma che da varie parti fu designata la dialettica come pietra di paragone in questioni teoretico-dommatiche ). La maggioranza invece, com’è ben facile intendere, rima¬ neva fedele al punto di vista originario del Medio Evo cristiano, e può perciò, poiché stiamo ormai per entrare in un’epoca di contese, ricordarsi soltanto a mo’ d’esempio come Pier Damiani, assegnasse alla dialettica il compito di starsene quale pia ancella al servizio della Chiesa, e di tener dietro umilmente pedisequa alla sua padrona 2S1 ), senza che in verità la divota anima del Damiani abbia ancora il minimo presentimento che anche questa do¬ mestica possa licenziarsi e fondarsi un proprio foco¬ lare. omnia Sacrae Scriplurue dieta juxta dialecticae auctoritatem con- stringendo esse decernerent: mugisque Boèlio quam Sanctis Scrip- toribus in plurimis dictis crederent. Linde et eundern Boètium secuti, me reprehendebant, quod personae nomen, (dicui, nisi sub- stimtiae rationali, adscriberem etc. [PL], W. Scheber, Leben VTilliram’s Ables von Ebersberg [« Vita «li Williram, abate di Ebers- berg »] (nei Rendiconti dell’Accademia imperiale, Classe filosofico- storica, voi. 53, Vienna, 1866), p. 289, riferisce queste allusioni a scolari di Lanfranco; cfr. appresso la nota 299. '*') Poiché, a prescindere dal fatto che nei vari scritti teologici di Otloli non si parla in maniera particolare della questione della Santa Cena, e pertanto è difficile che la sua polemica contro i dia¬ lettici si riferisca a Berengario, nel passo sopra citato si tratta pro¬ prio di casi personali, che Otloh designa come conseguenza di un indirizzo generale dell’epoca. *“) Petri Damiani Opera, ed. Cajetano, Parigi,De. divina omnipolentia, V; PL, 145, 603]: Haec piane, quae ex dialecticorum vel rhetorum prodeunt argumentis, non fa¬ cile divinai- virtutis sunl optando mysteriis; et quae ad hoc inventa sunt, ut in syllogismorum instrumenta proficiant, vel clausulas dictionum, absit ut sacris legibus se pertinaciter inferant et divinae virluti conclusiotiis suae necessitates opponant. Quae tamen artis humanae peritia, si quando tractandis sacris eloquiis adhibetur, non debet jus magisterii sibimet arroganler arripere; sed velut ancilla dominue quodam famulatus obsequio subservire, ne, si praecedit, oberrel eie. Movimento più vivace nella seconda metà del SECOLO XI: la scienza giuridica. — Ma proprio nella seconda metà del secolo XI si manifestò nella sto¬ ria della cultura l’azione di fattori, i quali portarono, entro la tradizione della logica delle scuole che si con¬ servava uguale a se medesima, un movimento più vivace, e anche un violento rinnovarsi di vecchi contrasti fra le varie tendenze. Da due lati diversi si risente un influsso sopra la logica, ma in varia maniera e in molto vario grado, perchè di questi lati uno possiamo scorgerlo qui dapprima soltanto in tenui inizi, per poi novamente riattaccarci a questo punto, quando lo stesso fattore si manifesterà più tardi con maggiore intensità, mentre l'altro lato sùbito si leva su con tutta la sua forza, e per molto tempo determina le condizioni in cui la evoluzione compie il suo corso. Ma questi due lati cor¬ rispondono alla giurisprudenza e alla teologia dominatica. Se cioè l’amministrazione della giustizia già per se stessa in generale implica un richiamo alla prassi dialettico-retorica, è facile spiegare come, in un’epoca in cui in Italia s’iniziava un rinnovamento della scienza giuridica e incominciavano a sorgere scuole di diritto), si desse ora maggior peso alla logica pratica, cioè a ima logica, la quale veramente mal si distingue dalla retorica, ma nella teorica dell’argomentazione e nella topica rimane pure conforme al solito materiale ch’era in uso nelle scuole di logica. Come noi stessi per il no¬ stro presente intento abbiamo potuto già da prima (Sez. Vili, note 52 e 68) trovare la nostra fonte in passi che prendevamo dalle Pandette, così sembra d’altra parte fL ) Vedi Savigny, GESCHICHTE DER ROMISCHEN RECHTS IN MITTELALTER Geschichte dea Ròmischen Rcchts im MiUel- alter [Storia del diritto romano nel Medio Evo],. [trad. it., Torino,  J, e Giesebrecht, De lìti, attui, ap. Itiilos, Berlino, 1845, in -4° [ir. it. Pascal, già cit.]. che IN ITALIA lo studio della grammatica filosofica e della retorica abbia conservato una connessione ininterrotta con le materie giuridiche del DIRITTO ROMANO ) : e sebbene noi preferiamo lasciar da parte l’aneddoto letterario, secondo il quale tutto quanto lo studio del DIRITTO ROMANO a BOLOGNA avrebbe preso principio da una spiegazione grammaticale della parola « As » 2S ) Ibid., Aristotelica didicimus disciplina duarurn spe- cierum commistione lertiam gigni minime. Rerum etiam naturam puli nomino non posse, duo contraria simili in eodem esse vel, quod trovava nel commento (li Hoezio alle C-utegorioo. Ma questa medesima questione fu anche oggetto di una disputa che Anseimo sostenne a Magonza, e della quale diede minuta relazione in una lettera al suo maestro Droone. Ecco il nòcciolo della questione: Quando sussiste un’alternativa (p. es. tra lode e bia¬ simo), si può creder di cogliere il giusto mezzo, non facendo nè una cosa nè l’altra; ma si obbietta in contrario, die il giusto mezzo è la unione degli opposti (come p. es. il rosso è la unione di nero e bianco), dunque bi¬ sogna pure scegliere per conseguenza una delle due cose, qualora non si voglia farle tutte due al tempo stesso. Ma a ciò da capo si obbietta che il mezzo è propria¬ mente la negazione dei due opposti (dunque p. es. è impossibilius, eandem essentium procreare. Quod veruni sit necne, quaerimus f Hbetorim., iib. I]. M ° c ) Laudare enim vel vituperare necesse est. «Non lau- dabo, inquid, nec vituperabo, cuoi medium faciam, quod nec laus est nec viluperatio. Est igilur possibile utrum non lucere, ubi ali- quod neutrum est invenire. Si medium, inquam, ut dicitis, fece- rilis, lune et utrumque. Constai enim medium ex utrisque, ut ex albo et nigro rubrum, et ideo medium. Sicque in faciendo neutrum facietis utrumque. Utrum ergo facere necesse est, quoniam in utro vel ulroque utrum non lacere possibile non est». « Medium, inquid, ut dicitis, non ex utrisque, sed ex nega!ione confìcitur utrorumque, ut non quod et album et nigrum illud rubrum, set quod est neu¬ trum, illud dicimus rubrum, sicque omne medium. Utrum ergo lacere necesse non est, quia in meo neutro utrum vel utrumque possibile non est ». « Si ex negatione utrorumque. medium con- fectum est, quod, ut dicitis, neutrum est, non magis utrorumque quarti omnium rerum neutrum est. Quod bene perspectum nichil est. Non enim magis ex albi et nigri negatione confìcitur rubrum, quam cucii et lerrae ceterarumque rerum. Quia sicut est veritas ut, quod nec album nec nigrum est, illud rubrum existat, sic quod nec caelum nec terra nec celerà, illud esse rubrum a veritale non [58] discrepat, Quod aulem omnibus rebus negatis nichil illarum est, illud res praedicari inpossibile est. Rcs vero, quod non est illud, nichil esse necessario consequens est. Sicque in faciendo (diquid facietis nichil. Utrum ergo facere necesse est, utrumque enim vel neutrum impossibile vel nichil est. Epistola Anseimi ad Droconem (sic) mugistrum et condiscipulos de logica disputatione in Gallia habitat. rosso, quel che non è nè bianco nè nero); ma questa obiezione viene respinta, perchè una tale negazione va di là dall’alternativa data (perchè allora si potrebbe dire altrettanto bene, che è rosso, quel che non è nè cielo nè terra), e metterebbe capo infine a una nega¬ zione di tutti gli opposti, cioè dunque a un nulla. Il risultato è, per conseguenza, che nella presente alterna¬ tiva bisogna pure scegliere proprio un solo dei due termini. Abbiamo una prova ulteriore di come la scienza del diritto entrasse in giuoco nello sviluppo della logica, quando in due uommi eminenti di quell’epoca, Lan¬ franco e Irnerio, vediamo presentarcisi, per così dire, ima unione personale di quei domìni. È infatti incontestabile che Lanfranco dedica ampiamente e con buon successo la prima metà della sua operosità, prima che scoppiasse la contesa intorno alla Santa Cena, princi¬ palmente allo studio del diritto 291 ), sebbene non si possa, per ragioni cronologiche, pensare a una relazione diret¬ ta, quale persino gli è stata attribuita con lo stesso Imerio); ma in ogni modo, come risulta dalle testimo- "9 Milonis Crispini Vita Beati Lanfranci, c. 11, riprodotta dal Mabillon, Acia Bened. [Sacc. VI, P. II], Tom. IX, p. 639 [PL, Ab annis puerilibus eruditus est in scholis libe- ralium nrtium, et legum saecidarium ad siate morern patriae. Ado- lescens orulor veteranos adversantes in uctionibus causarum frequentar revicit, torrente facundine accurate dicendo. In ipsa aetale sententias depromere sapuit, quas gratnnter Jurisperiti aul Judices vel Praetores civitatis acceptabanl. Meminit horum Papiu (cioè PAVIA sua patria). At cum in exsilio philosopharetur, accendit ani- mum ejus divinai ignis, et illuxit cordi ejus amor venie sapientiae. Notizie varie, specificamente giuridiche, vedile nel Merkel, op. cit., p. 14 e 46 s. [12 s. e 35 ss. della cit. trad. it.??J. 5 ") Roderti De Monte Auctarium ad chronicam Sigeberti Gem- blacensis ad anntan 1032 (Pertz, MGII): Lanfrancai Papiensis et Garnerius socius eius, repertis upud APVD BONONIAM LEGIBVS ROMANIS quas Iustinianus.... emendaverat, Itis, inquarn, repertis, 9. — C. Prantl, Storia della logica in Occidente, II, manze, quella medesima abilità dialettica, della quale fanno fede le battaglie da lui più tardi sostenute con¬ tro i suoi avversari teologici, lo ha assistito di già fin d’allora. Ma Imerio, e cbe con la sua comparsa segnò, com’è noto, per LA SCUOLA O LO STUDIO DI BOLOGNA, il passaggio dal pruno’ periodo embrionale a una più ricca espansione, viene, nelle glosse di Odofredo, designato espressamente come «logico»; e la circostanza ch’egli sia stato antecedentemente maestro delle arti liberali, spiega quella esagerata sottigliezza cb’è venuta a trovarsi nelle sue glosse-’ Avendo d'altra parte lrnerio composto anche un Formularium, a questo fatto dobbiamo connettere una osservazione preliminare, essersi cioè venuta a creare una particolare ed estesa letteratura, la quale serviva all’arte e alla prassi del notariato, e che valse a mante- ner viva per l’avvenire la relazione tra la retorica in uso nelle scuole, e la materia del diritto. Questi « F o r m u - operam dederant eas legere et aliis exponere; sed Garncrius in hoc « vero disciplinas liberales et litteras divi, tuis m Galli,s multo* edoccns, tandem Beccum verni, et ibi mona, ehm facili* est [PL], Forse tuttavia la obiezione croTolo- gira sollevata dal Savigny [p. 25-6 della trad. it |) e m generale fuor di luogo, se, dove si dice « socius », non pen¬ siamo a relazione personale, ma piuttosto a un comune atteggia- spirituale nei riguardi della concezione del diritto. minorameli Uge 1 ldtima de in "tegrum resti,utione "l", . 2, 22); Or, segnar,, plura non essent dicendo super lege ista Dom.nus lumen } rnenus, quia loicus fui,, et mogister fui. In c rifate istu in arti bus, antequum docerel in legibm, fecit imam g ssam sopitisticun ?, quae est obscurior, quam sii textus. — E (Co- Ìi% l, n /r^ miCa  M,and. Urstis, Francoforte, 1585, p. 433 [Pebtz, >MGH, XX, 376]): l’etrus iste (se. Abailardus).... habuit.... primo praeceptorem Rozelinum quondam, qui  primus noslris temporibus in logica sen- tenti am vocum instiluil, et post ad gravissimos viros Anshelmum Laudunenscm, GwUhelmum Campellensem Catalauni episcopum migrans, ipsorumque dictorum pondus, tanquam sublilitatis acu- mine vacuum iudieans, non diu sustinuit. Inde magistrum induens Furisius venit (v. la Sez. seguente, nota 258). "') [Johannes Turmair detto] Aventinus, Atinales Ducum Boia- riae, VI, 3 (ed. Riezler. Hisee quoque temporibus fuisse reperto Rucelinum Brilanum, magistrum Petri A belar di, novi lycaei conditorem, qui primus scienliam (leggi sententinm) vocum sive dictionum insliluit, novam philosophandi ciani invertii. Eo namque authore duo Arislolelicorum, Peripateticorumque genera esse coeperunt, unum illud vetus, locuples in rebus procreandis, quod scientiam rerum sibi vendicai, qttamobrem reales vocantur, allerum noviim, quod eam distrahit, nominales ideo nuncupali, quod avari rerum, prodigi nominum atque notionum, verborum vi- dentar esse adsertores. "") Joannis Saresbehiensis Metalogicon, (Opera, ed. Gi¬ lè?, V, p. 00 [ed. Webh. Naturata lamen tmiversalium hic omnes expediunt, et allissimum negotium et maioris inquisitio-[Le notizie sul conto di Roscelino rivelano Vastio degli avversari]. — Ma poiché Anselmo 31B ), che nella sua ortodossomania, inventò la squisita espressione di « eretici della dialettica » e la usò a carico di Roscelino, dice, per cieca passionalità o maligna esagerazione, che secondo quella opinione le sostanze universali non sono nient’altro che un flatus vocis, — sarà bene che noi acco¬ gliamo non senza cautela anche le altre notizie comuni¬ cate da quello zelatore del realismo, — tanto più che, come vedremo, se si sta ai prodotti originali della sua dia¬ lettica, non si può ritener che fosse capace di giudicare sopra questioni di logica; così pure egli non fa invero che dar espressione al più intransigente odio partigiano, quando rampogna i seguaci di Roscelino, perchè danno nis contro menlern auctoris esplicare nituntur. Alius ergo consistit in vocibus; licei haec opinio curii Rocelino suo fere omnino iam evanuerit. Alius sermones (v. sotto la noia 324) inluetur et ad illos detorquet quicquid alicubi de universalibus meminit scriptum; in bue autem opinione deprehensus est Peripateticus Palalinus Abae- lardus noster, qui multos reliquit et adhuc quidem aliquos habet professioni huius sectatores.... [iPL, 199, 874], — Così anche nel Polycruticus (Opp., IV, p. 127 [ed. Webb, U, p. 142; PL, 199, 6651): Fuerunt et qui voces ipsus genera dicerenl esse et spe- cies ; sed eorum inni explosa sententia est et facile cum auclore suo evanuil (v. la nota 325). "*) Ansfxmi de fide Trin., c. 2 (ed. Gerberon, p. 42 s. [PL, 158, 265J): llli utique nostri tempori dialeclici (imo dialeclicae haeretici, qui non nii flatum voci putant esse universales sub- stantias, et qui colorem non aliud queunt inielligere quam corpus, nec sapienliam hominis aliud quam animami prorsus a spiritualium quaestionum disputatione sunt exsufflandi. In eorum quippe ani- mabus ratio, quae et princeps et judex omnium debel esse quae sunt in /tornine, sic est in imaginationibus corporulibus obvoluta, ut ex eis se non possit evolvere, nec ab ipsis ea, quae ipsa sola et pura contemplari debel, valcat discernere. Qui enim nondum intei - ligit, quomodo plures homines in specie sint uniis homo, qualiter in illa secretissima et altissima natura comprehendet, quomodo plures personae.... sint uiius Deus? Et cujus meris obscura est ad discemendum inter equum sinim et colorem ejus, qualiter discernet inter unum Deum et plures relationes ejus? Denique qui non potest intelligere aliquid esse hominem, nisi individuum, nullalenus in- telliget hominem, nisi humanam personam. Omnis enim individuus homo, persona est. Quomodo ergo iste intelliget hominem assumptum esse a Verbo eie. la ragione in balia corporalibus imaginationibus : e in verità è lecito sperare, tutt’al contrario, che proprio nulla ci faccia assurgere così alto al disopra dell accidentalità sensibile, come il penetrare a fondo nell uni¬ versale contenuto concettuale delle parole, e che soltanto a questa maniera ci sia aperta la via a un sapere effettivo, conquistato da noi stessi, mentre a una onto¬ logia soprannaturalistica è spesso indispensabile ima ima¬ ginazione irretita nella sensibilità. E possiamo lasciar stare il rimprovero ridicolo, mosso a Roscelino, ossia di non intendere come la pluralità degl’individui nel con¬ cetto della specie sia una unità poiché anzi proprio questo è riuscito invece a intendere Roscelino, che cioè la unità risiede nella parola enimciatrice del concetto. Do¬ vremo ora piuttosto rimettere, come si conviene, le que¬ stioni nei loro veri termini, per quanto concerne le altre osservazioni mosse contro Roscelino: vale a dire ch’e¬ gli fa confusione tra il colore di una cosa e la cosa stessa, e tra le proprietà e i loro substrati, e parimente ch’egli non si rende conto, come altro sia « Uomo », e altro il singolo uomo. Infatti la prima osservazione può significare solamente che, secondo la opinione di Ro¬ scelino, il concetto di una qualità, in quanto concetto, contiene altrettanta universalità quanta ne contiene il concetto di una sostanza, in quanto concetto. L’altra os¬ servazione poi comprende, se la sfrondiamo di quella in- terpetrazione odiosa che le dà il relatore, il semplice prin¬ cipio fondamentale del nominalismo, che cioè obbietti¬ vamente, nell’essere concreto, esiste dappertutto soltanto l’individuale, mentre i concetti della specie e del genere si trovano soltanto subbiettivamente nelle parole del¬ l’uomo, che insomma obbiettivamente gli universali non hanno esistenza separata dall’individuale. Che per con¬ seguenza la Trinità, come obbiettiva essenza di Dio, debba parimente consistere di tre individui), è implicito in una tale veduta logica, coerentemente svolta: e così fu che, analogamente a quanto era accaduto con Berengario, la teologia venne a essere coinvolta nella lotta fra le tendenze che si dividevano il campo della logica. Ma sembra che Roscelino in generale abbia molto conseguentemente svolto sino in fondo da tutt i lati il suo punto di vista, perchè altrimenti sarebbe difficile spiegare, come mai nelle scarse informazioni che ci sono pervenute sul conto di lui, ci sia ancora una volta un certo punto isolato, che ci rhuanda in pieno a quel medesimo principio: si tratta cioè del concetto di parte, che Boezio aveva preso a considerare in vari luoghi, e riguardo al quale, così per Roscelino come per l’Anonimo già ricordato (nota 171 g), il momento subbiettivo è ugualmente il momento decisivo; poiché la notizia, relativa al punto in questione 321 ), va intesa nel senso seguente: Se p. es. il tetto dev’essere considerato come parte della casa, si ha da riflettere che obbiettivamente, in “>) Ibid., Epist. n, 41, p. 357 [PL quia Roscelinus clericus dicil, in Deo tres personas esse tres ab invicem separatns, sicut sunt tres angeli, ita tamen ut una sit voluntas et poteslas: aut Pulrem et Spiritum sanctum esse incarnatum, et tres deos vere posse dici, si usus admilteret. *») Abaelardi [Dialectica, P. V*. liber] divisionum et defin., p. 471 (ed. Cousin): Fuit aulem, memini, magislri nostri Roscellim tam insana sentenlia, ut nullam rem purtibus constare velici, sed sicut solis vocibus species, ila et partes adscribebat. Si quis aulem rem illam, quae domus est, rebus aliis, pariele scilicet et fonda¬ mento, constare diceret (è questo il solito esempio di divisione del tutto in parti, usato da Boezio, p. es. a p. 52 s. [in Porph. a se trami., I, 8; ed. Brandt, p. 154, 156; PL, 64, 80 s.] e a p. 646 [de divisione ; PL, 64, 888]), tali ipsum urgumentatione impugnabili: si res illa quae est puries, rei illius quae domus est, pars sit, cum ipsa domus nihil aliud sit quam ipse paries et tectum et funda- mentum, profecto paries sui ipsius et caeterorum pars erit. At vero quomodo sui ipsius pars fuerit? Amplius, omnis [pars] naturaliter prior est loto suo : quomodo aulem paries prior se et aliis dicelur, cum se nullo modo prior sit? quanto è una cosa, il tetto è una entità perfettamente indipendente, poiché, nel riguardo della obbiettività o dell’essere reale, quel che ci può essere, è appunto sol¬ tanto un tetto di ca6a, e parimente soltanto una casa fornita di tetto (dato cioè che debba essere realmente una casa); perciò, se il tetto fosse oggettivamente una parte della casa, verrebbe a essere ima parte di quella che è ima totalità obbiettivamente indivisibile, e pertanto, in seguito a tale indivisibilità, finirebbe con l’essere anche una parte di se stesso: vale a dire che il con¬ cetto di parte, dal punto di vista obbiettivo o dell’essere reale, conduce a contraddizioni, e la couchiusione giusta è che il tetto viene caratterizzato come parte esclusivamente dalle nostre parole, racchiudenti in sé i con¬ cetti, sicché dunque il concetto di parte, come tale, si trova essere di spettanza della espressione verbale sub- biettiva. Lo stesso può ripetersi, anche relativamente alla priorità della parte di fronte al tutto, poiché dal punto di vista obbiettivo, in quanto è cosa, non è pos¬ sibile che il tetto sia antecedente alla unione obbietti¬ vamente inscindibile di se stesso con qualche cos’altro, poiché allora alla stessa maniera, a cagione della inscin¬ dibilità, risulterebbe che il tetto sarebbe prima di se medesimo : sicché bisogna conchiudere che anche la prio¬ rità del concetto di parte ha luogo solamente nel pen¬ siero subbiettivo. Ma, come anche questa idea di Ro- scelino fu malignamente deformata da’ suoi avversari), così egli stesso l’applicò spiritosamente contro il ra ) Abaelardi Epist. (Opera, ed. Amboes. [ed. Cousin; PL (Epist., Hic sicut pseudo-Dialecticus, ita et pseudo-Christianus, cum in Dialeclica sua nullam rem, sed solam vocem partes habere astruat, ita divinam paginam impudenter perverlit, ut eo loco quo dicitur Dominus parlem piscis assi comedisse, partem huius vocis, quae est piscis assi, non purtem rei intelligere cogatur. Che questa lettera [indirizzata a Gilberto vescovo di Parigi] sia stata scritta da Abelardo, o, com’è opinione del Du Boulay, da un altro intorno al 1095, è, per quel che ri-mutilato Abelardo, da ciò prendendo occasione per assegnare, coerentemente, all’atto intellettuale subiettivo anche il concetto di totalità, poiché, modificandosi la consistenza obbiettiva di una unione inscindibile, deve essere subito sostituita con una denominazione diversa la denominazione che si conformava al suo concetto, e che allora non è più in grado di tener saldo il pen¬ siero soggettivo di una totalità" ')- [c) conchiusione sopra Roscelino ]. — Che del resto il punto di vista di Roscelino non fosse, in sostanza, affatto nuovo, risulta manifesto dal confronto con quel che siamo venuti dicendo più sopra; soltanto che, dopo la com¬ parsa di Berengario, la idea che, nella questione degli universali e della formazion dei concetti, si tratti sola¬ mente di parole, e dell’uso che ne fa l’uomo, aveva prò- vocato ima maggiore circospezione e una più aspra osti¬ lità per parte della ortodossia. C è invece un punto solamente, e forse anzi il più importante, che, in seguito alla mancanza di fonti, ci rimane assolutamente oscuro; nel passo sopraccitato di Giovanni da Salisbury, è fatta cioè una netta distinzione tra coloro che riponevano gli universali nella « vox », e quelli che li riferivano ai « sermones », e si soggiunge che Abelardo era di questi ultimi. Ora, tenuto conto del valore gram- guarda questo passo, indifferente; del resto quanto è stato detto più sopra, nota 314, sembra avvalorarne l’attribuzione [oggi infatti non contestata] ad Abelardo). [Il passo citato, in Lue., XXIV, 421. ra ) Roscelini Epist. [ed. Remerà, p. ol I. S,,J forte Petrum te appellavi posse ex consuetudine mentiens. Cer- tus sum aulem, quod masculini generis nomea, si a suo genere deciderit, rem solitam significare recusabit - Solent emm nomina propriam signìficationem ami tte r e, cum eorum signi¬ ficata contigerit a sua perfeclione recedere. /Veglie emm ablalo tecto vel pariete domus, sed imperfecla domus vocabilur. Sublata igitur parte quae hominem facit, non Petrus, sed imperfectus Petrus appellandus es. maticale delle parole vox e serrno, e antecipatamente riferendoci a quel che prenderemo a considerare più sotto (Sez. seguente, note 308 ss.) a proposito di Abelardo, dobbiamo senz’alcun dubbio congetturare che Ro- scelino, con veduta unilaterale, abbia tenuto presente soltanto il concetto isolato, e pertanto, senz’avere ri¬ guardo alla connessione della proposizione, abbia consi¬ derato le parole come concetti compiuti 324 ); ma non sappiamo invece determinare se la teoria del giudizio sia stata da lui semplicemente trascurala, o se forse egli non abbia contestato anche direttamente il valore del giudizio, o quale procedimento abbia seguito, nel portare così il nominalismo alle ultime sue conseguenze). Raimberto a Lilla, e la logica « vecchia » di Ottone da CambraiJ. Ma proprio per l’epoca, nella quale aveva fatto la sua comparsa Roscelino, pos¬ sediamo una notizia sommamente caratteristica, relati¬ vamente alla lotta delle tendenze sul terreno della lo- ***) [Cfr., su questo punto, Ueberwec-Gf.yer]. Tra i più vecchi nominalisti potrebbero pertanto essere riawicinati a Roscelino, per aver dato un più unilaterale rilievo alla vox, quel tale Pseudo-Hrabano, Jcpa, l’Anonimo, l’Anonimo del Cousin (nota 242), e l’Anonimo di S. Gallo, che ha rifuso il libro De in- terpr., come pure in parte anche lo Scoto Eriugena; sarebbero invece più affini ad Abelardo, per aver tenuto eonto del serrno e del rapporto predicativo, Erico, l’Anonimo di S. Gallo, autore della monografia De syllogismis, e Berengario. Sarebbe possibile, qualora Roseclino avesse re alm ente av¬ valorato con argomenti questa orientazione unilaterale del nomi¬ nalismo, prender alla lettera la succitata espressione di Ottone (primus.... sententiam vocum instituit ); ma risulta comunque da Giovanni da Salisbury, che i seguaci del nomi¬ nalismo non tardarono ad abbandonare questo punto di vista an¬ gusto; soltanto non ci si può, come ha pur fatto già qualcheduno, esprimer nel senso che Giovanni da Salisbury abbia dichiarato il nominalismo in generale ormai spento; v. la Sez. seguente, note 76 ss. 150  gica 326 ). C’era cioè a Lilla un certo Raiinberto, che insegnava la dialettica, al pari di « moltissimi altri », se- **) Hekmajvni Narratio Heslaurulionis Abbuliae Sancii Martini Tornacensis, riferita dal D’Acheby, Spicilegium, ed. De la Barre, PL, 180, 41 ss.; MGH, XTV, p. 274-5]: Iam vero, si scolae appropiares, cernercs magistrum Odonem nunc quidem Feripulelicorum more cura discipulis dovendo deambulan- lem, nunc vero Stoicorum instar residentem, et diversus quaestio- nes solventem.... Sed cum omnium septem libcruliurn artium esset peritus, praecipue tamen in dialeclicu eminebat, et prò ipsa maxime clericorum frequenlia eum expetebat. Scripsit etiam de ea duos libellos, quorum priorem, ad cognoscendu devitandaque sophismala valde utilem, inlitulavit « Sopliistem », alterum vero appellavit li- bruiti « Complexionum »; tcrcium quoque «De re et ente » com- posuit; in quo sol vii, si unum idemque sit res et ens. In his tribus libellis.... non se Odonem, sed, sicut lune ab omnibus vocabatur, nominubat Odardum. Sciendum tamen de eodem magistro, quod eandem dialecticam non juxta quondam modernos (è questo, qua¬ lora non si vogliano per caso invocare le parole citate il testo più antico dove si trovano designati i nomi¬ nalisti come moderni) in voce, sed more Boetii antiquorumque doctorum in re discipulis legebat (dunque, in opposizione alla pretesa innovazione, Boezio e Por¬ firio, in quanto realisti, vengon chiamati antiqui. Unde et magister Baimbertus, qui eodem tempore in oppido Insulensi dialecticam clericis suis in voce legebat, sed et alii quam plures magistri ei non parum invidebant, et delrahebanl, suasque lectiones ipsius meliores esse dicebant; quam ob rem non¬ nulli. ex clericis conturbali, cui magis crederent, haesitabant, quo- niam et magistrum Odardum ub antiquorum doctrina non discre¬ pare videbant, et tamen aliqui ex eis, more Alheniensium aut discere aut audire aliquid novi semper humana curiositate studentes, alios potius laudabant, maxime quia eorum lectiones ad exercilium di- sputandi, vel eloquentiae, immo loquacilatis et facundiae, plus va¬ lere dicebant (Alcuni dunque desideravano di poter congiungere tuttavia all’ortodosso realismo il virtuosismo formale dei loici propriamente detti, cioè dei nominalisti). Unus itaque ex eiusdem ecclesiae canonicis, nomine Gualberlus.... tanta sentenliarum erran- tiumque clericorum varietate permolus, quendam pbitonicum (cioè un indovino rpyt/ion/cum]), surdum et mutum, sed in eadem urbe divinandi famosissimum, secreto adiit, et, cui magistrorum magis esset credendum, digilorum signis et nutibus inquirere coepit. Protinus ille (mirabile dictu!) quaestionem illius intellexit, dexteram- que manum per sinistrae pulmam instar aratri terram scindentis perlrahens, digitumque versus magistri Odonis scholam protendens, signifkabat, doctrinam eius esse rectissimam ; rursus vero digìlum contro Insulense oppidum protendens, manuque ori admota exsuf- flans, innuebat, magistri Raimberti lectionem nonnisi ventosam esse loquacitatem. Haec dixerim, non quo pbitonicos consulendos.... arbitrer..., sed ad redarguendum quorundam superborum nimiam coudo le « moderne » idee nominalistiche (in voce), e costoro, insieme con i loro seguaci, apertamente si at¬ teggiavano ad accanita rivalità contro Oddone, vescovo di Camhrai, il quale aveva ricostituito il chiostro di S. Martino a i ournai, e ivi insegnava logica secondo lo stile « vecchio », cioè secondo l’indirizzo realistico (in re). Ora, poiché ci sono diversi che dal fascino della novità si sentivano attratti verso Raimberto, ma poiché nello stesso tempo, bilanciando tra loro i pregi delle due scuole, non sem¬ brava si potesse ottenere im risultato ben determinato, uno dei canonici di Touruai si rivolse a un indovino che godeva allora di gran fama. Questi, SEBBENE SORDOMUTO, intese subito la questione che gli era rivolta, e con il linguaggio dei gesti si pronunciò incondizionatamente — nè altro ci si poteva aspettare — nel senso di riconoscere come giusta ed eccellente la tendenza rappresentata dalla scuola realistica di Oddone. Se del resto chi ci riferisce questa storia (l’abate Ermanno, vivente a Tournai nella prima metà del secolo XII), il quale del pari, da buon ortodosso, si professa natural¬ mente nemico della ventosa loquacità del nominalismo, ricorda nello stesso tempo scritti di logica, composti da Oddone, dobbiam certo deplorare ch’essi sieno andati perduti; puramente si può congetturare che forse il « Liber complexionum » fosse semplicemente tolto di peso da Boezio (de syll. categ.: v. la Sez. XII, note 131 ss.), e così pure che il « Sophistes » sia stato puta¬ caso in relazione più stretta con le polemiche teologi¬ che, o che, com’è possibile, si limitasse anche a ripetere le nozioni esposte da Cassiodoro (Sez. XII, nota 182); praesumptionem, qui nihil aliud quarentes nisi ut dicantur sapien- tes, in 1‘orphirii Aristolelisque libris magis volimi legi suarn adin- ventitiam novitatem, quam Boetii caetcrorumque antiquorum expo- silionem. maggiore importanza può invece aver avuta lo ecritto « De re et ente », poiché la questione, se res ed ens sien lo stesso, era ivi risolta certamente in senso realistico, quantunque sia da presumere — come la cosa più veri¬ simile — che tutto il complesso semplicemente si limi¬ tasse a richiamarsi a un passo isolato di Boezio (Sez. XII, note 89 s.). — Comunque, si potrebbe ammettere tut¬ tavia che il nominalismo rosceliniano di allora sia stato rappresentato in un numero di scritti, più considere¬ vole di quel che le nostre fonti non ci diano a divedere; poiché, per siffatte notizie letterarie occasionali, siamo invero quasi esclusivamente rimandati ad autori teolo¬ gici, mal disposti sin da principio, quali avversari di una minoranza ch’era loro sospetta, a parlare lunga¬ mente di questa, e invece più propensi ad accordarsi con un Fulberto (nota 237) o un Lanfranco (nota 309) nella condanna della dialettica in generale. Anselmo d’AOSTA (si veda): a) Vargomento ontologico Se pertanto ci volgiamo a considerare) F inventore del concetto di haerelicus dialecticae e dunque il rappresentante attendibile di una logica corret¬ tamente ortodossa, cioè Anseimo [d’AOSTA, arcivescovo] di Canterbury, per prima cosa c’interessa soprattutto quel così detto argomento ontologico, al quale egli deve la sua •") Così dice p. es. Ildeberto da Lavardin, arcivescovo di Tours, Sermo (Opera, ed. Beaugendre [PL Quidum enim in philosophi- cis jacultatibus qiumulam subtilitalem inutilem vel inutilitatem subtilem quaerentes, quibusdam minutiis verborum in cavillatione respondenles utunlur, quibus in disputatione uli, ossa Christi est incinerare.... Ktsi enim deus convertii nos, arlium liberalium phanlusmatibus uli, si in hac Scriptum voluerimus similiter sophi- stice incedere, odibiles Deo erimus, strepitum ranarum Aegypti in terram Gessen traducere molientes. ra ) Quel che nella prima edizione costituiva il contenuto delle note 328-333, è stato qui soppresso. pretesa gloria imperitura 33i ), e che, quanto al suo con¬ tenuto teologico o speculativo, viene a cader fuori dai limiti che qui ci sono imposti, dovendo fermarsi la nostra attenzione puramente sopra il suo aspetto formale. Che in generale l’assunto di voler dimostrare la esistenza obbiettiva di Dio, sia tutto quanto una pazzia (perciò anche lo Hegel, proprio solamente nella sua qualità di neoplatonico ha ripreso per suo conto l’ar¬ gomento ontologico), è cosa ammessa da chiunque non sia filosoficamente già prevenuto, a quel modo stesso che sicuramente si riterrebbe un controsenso l’assunto di dimostrare per sillogismi la esistenza di un mondo obbiettivo; ma che in quell’epoca antifilosofica e senza idee chiare potesse venir fuori un tale tentativo, si spiega benissimo, soprattutto perchè c’era allora, come sostitutivo della filosofia, solamente ima sfera culturale, limitata alla teologia dommatica e ad un’abilità tradizio¬ nale nella logica delle scuole; tostochè, per effetto delle controversie teologiche, ci si era dunque fatta l’abitudine di unire tra loro questi due elementi, in tal ma¬ niera che si tentava di dare un fondamento logico anche a singole frammentarie parti del domma (v. sopra la nota 303), era semplicemente questione di coerenza, che a tale formulazione si procedesse, incominciando su¬ bito da quello che, nella professione di fede obbiettivamente dommatica, è il punto supremo. Ma era perciò naturalmente da porre, quale condizione essenziale, che la posizione dell’Autore si presentasse come un realismo logico, poiché a un nominalista, che avesse informato il [La esposizione esaurientemente particolareggiata che del pensiero di Anselmo è stata pubblicata da Hasse ( Anselm von Canterbury, Lipsia), è informata a una costante sopravvalutazione della importanza di lui. Cfr. del resto anche G. Runze, Der ontologische Gottesbeweis, kritische Darstel- lung seiner Geschichte [« La prova ontologica della esistenza di Dio: esposizione critica della 6ua storia»]. Halle.  proprio pensiero a una certa coerenza, non sarebbe ve¬ nuto mai in niente di dimostrare con parole subbicttiva- mente umane la esistenza obbiettiva di Dio (abbiamo veduto più sopra, nota 272, per questo rispetto, un esem¬ pio molto onorevole di circospezione); e questa connes¬ sione con il modo di vedere realistico, è anche il solo motivo, che c’induce a menzionare questi tentativi di dimostrazione, al loro primo comparire (cfr. anche la Sez. seguente, nota 94 a); perciò siamo anche ben con¬ tenti di rinunziare — per tutt’i successivi sviluppi, nei quali vien meno il punto di vista della logica formale, con la relativa distinzione di contrastanti tendenze — a ricordar le diverse trasformazioni, per le quali è pas¬ sato l’argomento ontologico (p. es. nella filosofìa di Car¬ tesio, Leibniz, Wolff, Mendelssolm, ilaumgarten, Kant). Anseimo si atteneva, nè altro c’è da aspettarsi da un discepolo di Lanfranco, al punto di vista, secondo il quale il sapere ha, nella fede cristiana, la propria con¬ dizione e il proprio limite) ; per conseguenza, egli trova, di fronte al pensiero, una realtà incondizionata¬ mente obbiettiva, nel riguardo intellettuale già bell’e compiuta, sì che a questa realtà obbiettiva il pensiero può semplicemente o partecipare o non partecipare: Anseimo, cioè, com’è di per sè chiaro, in logica è un rea¬ lista. E il singolare desiderio di costringere irrevoca¬ bilmente il nostro pensiero a questa partecipazione in senso obbiettivo, cioè d’imporre per forza di dimostrazione il punto di vista realistico al pensiero umano, è il motivo fondamentale dell’argomento ontologico 336 ) : ar- ’“) Epist., Il, 41 (Opera, cd. Gcrberon, Parigi, 1675), p. 357: Chrisliunus per fidem debet ad intellectum proficere, non per in- telleclum ad fulem accedere, aul, si intelligere non valel, a fide recedere. Sed cum ad intellectum valel perlingere, deleclalur, cum vero nequit, quod capere non potest, veneralur [PL], ”*) Broslogion, c. 2, p. 30 [te6to curato dal Daniels: Beitrage del Baumker, voi. "Vili, fase. I-IIJ : Convincitur ergo etiam insipiens gomento clie ci offre lo spettacolo della massima con¬ traddittorietà, dovendo invero per esso 1 obbietlivismo sistematico più rigoroso, ricevere, come tale, proprio un fondamento subbiettivo. il controsenso di questa intra¬ presa consiste dunque nel proposito stesso del realista, il quale, mentre a priori riconosce l'ideale solamente come obbiettivo, vuole dimostrarne la esistenza obbiet¬ tiva ancor soltanto con mezzi subbiettivi; ora un tale controsenso fu scorto cou perfetta esattezza da G a u- nilone (monaco nell’abbazia di Marmoutier [Tours]), come dimostra la sua aff ermazione che l’argomento var¬ rebbe altrettanto bene anche per provare la esistenza di un’isola incondizionatamente perfetta 337 ), poiché, di fatto, con la medesima formula il realismo avrebbe po¬ esie vel in inlellectu aliquid quo nihil maius cogitari palesi, quia hoc, cum audii, intelligil; et quicquid inlelligitur, in inlellectu est. Et certe id quo maius cogitari nequit non palesi esse in solo intei- leclu. Si enim vel in solo inlellectu est, potest cogitari esse et in re, quod maius est. Si ergo id quo maius cogitari non potest est in solo inlelleclu, id ipsum quo maius cogitari non potest est quo maius cogitari potest. Sed certe hoc esse non potest. Existit ergo procul dubio aliquid, quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re [PL, 158, 228J. — Liber apologeticus contro Gaunilonem [testo c. s.J : Ego dico: si vel cogitari potest esse, necesse est illud esse. Nani quo maius cogitari nequit, non potest cogitari esse nisi sine initio. Quicquid uutem potest cogitari esse et non est, per initium potest cogitari esse. Non ergo quo maius cogitari nequit, cogitari potest esse et non est. Si ergo cogitari potest esse, ex necessitate est, e via dicendo, con grossolana continua confu¬ sione tra cogitari ed esse [PL, 158, 2491. U! ) Liber prò insipiente, c. 6 (Anselmi Opp., p. 36 [testo c. s.]): aiunt quidam ulicubi oceani esse insulam, quam ex difficultale vel potius impossibilitate inveniendi quod non est cognominanl aliqui perditam, quamquam jabulanlur.... universis aliis.... usquequaque praestare. Hoc ita esse dicat mihi quispiam.... At si lune vel ut con- sequenter adiungat ac dicat: non potes ultra dubitare insulam illam lerris omnibus praestantiorem vere esse alicubì in re, quam et in intellectu tuo non ambigis esse, et quia praestantius est, non in intellectu solo sed eliarn esse in re, ideo sic eam necesse est esse, quia nisi fuerit, quaecunque alia in re est terra, praeslantior illa erit; ac sic ipsa iam a le praestantior intellecta praestantior non erit —, si inquam per hacc ille mihi velil astruere de insula illa, quod vere sit, etc, etc. [PL]. — Più minute notizie sopra Gaunilone son date da B. Hauréau, Singularités historiques et lit- téraires, Parigi tuto dimostrare anche la esistenza reale di tutte quante le idee platoniche. Ma quando a ciò Anseimo replica ch’egli non ha parlato già della esistenza del concreto, bensì ha parlato proprio soltanto dell’ Incondiziona¬ to 338 ), si lascia necessariamente prendere al suo stesso laccio; poiché si trova costretto a ricorrer ora tuttavia a un’ascesa per gradi successivi, onde soltanto a poco a poco ci eleviamo dal minore condizionato, mentalmente, sino al pensiero del superlativo incondizionato 339 ) ; per conseguenza, come essere reale, questo Incondizionato non può naturalmente avere se non una realtà che sia posta dal pensiero; ma, da capo, con questa conchiu- sione molto male si armonizza invece quel che dice d’al¬ tra parte lo stesso Anseimo, quando in ciascun pensiero, e anzi espressamente anche nel pensiero drizzato verso cose concrete, distingue mi aspetto puramente nomi¬ nale (vox signìfìcans) e un intendere reale (id ipsiirn quod res est), in maniera tale, che in quest’ultimo sia già implicita la esistenza, ma nel primo sia possibile ogni assurdità 340 ); e infatti, stando così le cose, non c’è *“) Apoi. c. Gaun., c. 3, p. 38: Sed tale est, inquis, ac si aliquis insulam oceani etc . Fidens loquor; quia si quis invenerit mihi [ aliquid] aut re ipsa aut sola cogitatione existens praeter quo[d] maius cogitari non possit, cui optare valeat connexionem huius meae argumenlationis, inveniam et dabo illi perditam insulam amplius non perdendam [PL]. “*) Ibid., c. 8, p. 39: Quoniam namque omne minus bonum in tantum est simile maiori bono in quantum est bonum, patel cuilibel rationabili menti quia de bonis minoribus ad maiora conscendendo ex bis quibus aliquid maius cogitari potest multum possumus coni- cere illud quo nihil potest maius cogituri,... Est igitur linde possit conici quo maius cogitari nequeat | PL. M0 ) Prosi., c. 4, p. 31: Aliter enim cogitatur res cum vox eam significans cogitatur, aliter cum id ipsum quod res est intelligitur. Ilio ilaque modo potest cogitari Deus non esse, isto vero minime. [Nella ed. Gerberon: Nullus quippe intelligens id quod sunt ignis et aqua palesi cogitare ignem esse aquam secundum rem ; licet hoc possit secundum voces, ita igitur nemo intelligens id quod Deus est....] IS'ullus quippe intelligens id quod Deus est potest cogitare quia Deus non est, licet haec verbo dicat in corde aut sine ulta aut cum aliqun estranea significatione [PL bisogno, in generale, nè di ima prova della esistenza, nè di un’ascesa all’Incondizionato, bensì non c è allora nient’altro da fare, che pensare appunto ciascuna cosa dal suo lato obbiettivo reale. Con molta accortezza perciò Anseimo non si adden¬ tra con una sola parola neanche nella più calzante obiezione di Gaunilone; quest’ultimo rappresenta un no¬ minalismo molto ragionevole, quando dice eh è bensì vero che la vox da sola, come semplice vox, cioè pura¬ mente come suono di lettere (dell’alfabeto), non con¬ tiene verità di sorta, ma che nella Bfera della esperienza, dove il significato intelligibile della parola viene con¬ nesso con cose note e commisurato a queste, si pensa ef¬ fettivamente nelle parole l’essere obbiettivamente reale, dovendosi dunque, per quella sfera che trascende ogni esperienza, star contenti alla significano perccptae vocis, che non implica in sè la esistenza obbiettivamente reale della cosa significata 341 ). Dice cioè Gaunilone: nelle no- *“) L. prò insip., c. 4, p. 36[testo c. s.] : Neque enim aut rem ipsam [girne deus est] novi aut ex alia possum conicere simili, quandoquidem et tu talcm asseris illam ut esse non possil simile quicquam. Nam si de homine aliquo mihi prorsus ignoto, quem etiam esse nescirem, dici lamen aliquid audirem, per illam specia- lem generalemve notiliam, qua quid sit homo vel homines novi, de ilio quoque secundum rem ipsam quae est homo cogitare pos- sem. Et tamen fieri posset ut, mentiente ilio qui diccret, ipse quem cogitarem homo non esset; cum tamen ego de ilio secundum veram nihilominus rem, non quae esset ille homo sed quae est homo qui- libet, cogitarem. Nec sic igitur ut haberem fulsum istud in cogi- tatione vel in intellectu, habere possum istud, cum audio dici « Deus » aut « aliquid omnibus maius », cum, quando illud (cioè quell'uomo) secundum rem veram mihique notum cogitare possem, istud (cioè Dio) omnino nequeam nisi tantum secundum vocem, secundum quam solam aut vix aut nunquam potesl ullum cogitaci verum. Siquidem cum ila cogitatur, non tam vox ipsa quae res est utique vera, hoc est litterarum sonus vel syllabarum, quam vocis auditae significatio cogilelur, sed non ita ut ab ilio qui novit quid ea soleat voce significavi, a quo scilicet cogitatur secundum rem vel in sola cogilatione veram : verum ut ab eo qui illud non novit et solummodo cogitat secundum animi molum illius auditu vocis effeclum significationemque perceptae vocis conanlem effin- gere sibi. Quod miruin est si unquam rei peritate potuerit. Ita ergo. stre parole abbiamo la esperienza concreta convertita in concetti, e nelle parole possediamo anche la forza di trascender la immediata realtà; ma tostochè questo accada, ci troviamo esclusivamente nella sfera del pen¬ siero, ed è fatica sprecata voler fare venir fuori da que¬ sto, in quanto puramente subbiettivo, la esistenza ob¬ biettiva del pensato, perchè, proprio quando ci si volge al cogitavi, si rende manifesto che esse e non esse ap¬ partengono alla sfera obbiettiva, sicché la prova onto¬ logica non prova niente, perchè va di là dal proprio campo, e così prova troppo. [b) realismo anselmino, privo di fondamento scien¬ tifico, nel Dialogus de veritate]. — Se dunque l’argo¬ mento ontologico è nato solamente perchè Anseimo non era riuscito a venire logicamente in chiaro neanche del suo proprio punto di vista realistico, questa medesima debolezza si mostra anche in quella professione di fede realistica, cli’è contenuta nel « Dialogus de veritale s >. Già più sopra (nota 319), nel passo indirizzato contro Roscelino, abbiamo veduto la espressione schiettamente realistica «substantiae universales » ; ma proprio un tal modo d’intendere impedisce naturalmente ad Anseimo qualsiasi comprensione di quel che significhi la forma del giudizio logico: poiché, potendo egli sin dal prin¬ cipio considerare la enuntiatio solamente come ricalcata sopra l’essere o il non-essere obbiettivo, nemmeno in tale forma assegna alla enuntiatio stessa la verità, ma questa trasferisce in modo esclusivo nella sfera obbiet¬ tiva, la quale, lungi dall’esser vera nel suo presentarsi come oggetto del giudizio, contiene invece solamente la nec prorsus al iter. adirne in intellectu nuo constai illud haberi, cum audio intelligoque dicentem esse aliquid maius omnibus quae valeanl cogitari. — Haec de eo quod somma illa natura iam esse dicitur in intellectu meo [PL]. causa della verità del giudizio 342 ) ; Anselmo auzi espres¬ samente irride alla forma del giudizio: questo infatti — com'egli si esprime — anche quando è in contraddi¬ zione con lo stato di fatto oggettivo, continua pur sem¬ pre a essere un giudizio giusto, per quanto si attiene puramente all’enunciare e al significare, mentre la vera giustezza, cioè la stessa verità, risiede appimto solamente in quella obbiettività, a raggiunger la quale, in senso obbiettivo, s’ha da tender con uno sforzo, ch’è designato quasi come dovere morale 343 ) : poiché, dato che tutte le cose ricevono Tesser loro solamente dalla suprema Verità 344 ), Tessere stesso prende infine la forma di un *°) Dialogus de ventate, Magister. Quando est numi intuì vera? — Discipulus. Quando est, quod enuntiat si ve affermando sive negando; dico enim esse quod enuntiat, eliam quando negai esse quod tuta est; quia sic enuntiat, quemadmodum res est. An ergo libi videtur, quod res enunliata sit veritas enunlialionis? Non.  Quare? Quia nihil est veruni, itisi participando verilatem: et ideo veri veritas in ipso vero est; res vero enunliata non est in enuntialione vera, unde non ejus ve¬ ritas, sed causa veritatis ejus dicendo est [PL. "*’) Ibid., p. 110: XI. Ergo non est illi [se. enuntiationi\ aliud veritas [?], quam reclitudo. Video quod dicis: sed doce me, quid respotulere possim, si quis dicat, quod ctiam cum [ojratio significai esse quod non est, significai quod dehet: ttariler namque accepit significare esse et quod est et quod non est. Nam si non accepisset significare esse eliam quod non est, non id significarci. Quare eliam cum significai esse quod non est, significai quod debet. Al si, quod debet significando, recto et vera est, sicut ostendisti, vera est oralio, edam cum enuntiat esse quod non est. — XI. Vera quidem non solet dici, cum significai esse quod non est; veritatem tamen et rectitudinem habet, quia jacil quod debet. Sed cum si¬ gnificai esse quod est, dupliciter jacil quod debet: quoniam signi¬ ficai et quod accepit significare, et [adì quod facta est. Sed secun- dum hanc rectitudinem et veritatem, qua significai esse quod est, usu recto et vera dicitur enuntiatio, non secundum illam, qua signi¬ ficai esse eliam quod non est.... Alia igitur est rectitudo et veritas enuntiationis, quia significai ad quod significandurn facta est: alia vero quia significai quod accepit significare. Quippe ista immuta- bilis est ipsi oralioni: illa vero, mutabilis [ PL, p. 111-2: An putas aliquid esse aliquando, autalicubi, quod non sit in stimma ventate, et quod inde non accepcril quod est inquantum est: aut quod possil aliud esse, quam quod ibi est? [PL], Dovere S4B ). Per conseguenza risulta sì un fondamento unitario, semplicemente obbiettivo, della verità 346 ), ma con quanto maggior energia vien dato rilievo all’ ap¬ prendimento esclusivamente spiritualistico di quello), tanto meno si riesce a capire, come mai rimanga an¬ cora una qualsiasi funzione di principio alla forma lo¬ gica del giudizio. [c) punto di vista compassionevolmente basso, nel Dialogus de grammatico]. Ma quanto poco accurata¬ mente elaborata sia stata in generale nell’opera di An¬ seimo la concezione della logica, appare manifesto con la massima chiarezza dallo scritto intitolato « Dialogus de grammatico » 34S ). È vero che si tratta semplicemente *“) : In rerum quoque exislemia, est simililer vera vel falsa significano ; quoniam eo ipso quia est, dicil se debere esse [PL], Con quest’affermazione è connessa anche la totale identilicazione che Anseimo stabilisce tra il Non-essere reale, ovvero il Nulla che è, da una parte, e, dall’altra, il Male ( Epist., II, 8, p. 343 s. [PL), onde, confrontato con lo Scoto Eriugena (note 133 ss.), egli fa una più risoluta professione di rea¬ lismo platonico. '“) Ibid., c. 13, p. 115: Si recliludo non est in rebus illis, quae debent rectiludinem, nisi cum sunt secundum quod debenl, et hoc solum est illis rectas esse, manifestum est, earum omnium unam solam esse rectiludinem.... Quoniam illa (se. veritasj non in ipsis rebus, aut ex ipsis, aul per ipsas, in quibus esse dicitur, habet suum esse; sed cum res ipsae secundum illam sunt, quae semper praesto est his, quae sunt sicut debent, tunc dicitur hujus vel illius rei veritas IPL,Nempe nec plus nec minus continet isla diffinitio veritatis, quam expediat, quoniam nomen reclitudinis di¬ vidii eam ab ornili re, quae rectitudo non vocatur. Quod vero sola mente percipi dicitur, sepurat eam a reclitudine visibili [PL]. **) Dice lo stesso Anseimo (Prologus ad dial. de ver., p. 109 [PL): [edidi tractatum ] non inulilem, ut puto, inlrodu- cendis ad dialecticam, cujus initium est « De grammatico»: e da un passo di SiciBKftTO da Gsmbloux (de scriptoribus ecclesiaslicis, c. 168), dov’è ripetuta questa notizia (vedilo riprodotto dal Fabri- cius nella Dibl. eccl., p. 114 [PL, 160, 586] : scripsit.... alium li- brum inlroducendis ad dialecticam admodum utilem, cujus initium est « De grammatico »), ha avuto origine la opinione erronea, ch’egli abbia scritto una particolare « Introducilo in dialecticam ».di un esercizio scolastico, composto da Anseimo, come dice egli stesso, soltanto in considerazione delle solite numerose trattazioni analoghe 3 '* 9 ) ; ma mentre ci è ignoto se quegli altri scritti consimili sieno mai stati migliori, scorgiamo in ogni caso che questo di Anseimo si tiene a un punto di vista compassionevolmente basso. Poiché è un continuo insulso giocare con proposizioni ricavate da Boezio, e apprese macchinalmente, senza trarsi fuori dalla tediosa fatica di scovare in un primo tempo difficoltà, là dove un uomo ragionevole non ne saprebbe trovare, e poi da capo presentarne la soluzione adeguata; — insomma è il prodotto di una erudizione scolastica estremamente limitata, tanto meschino quanto lo scritto ricordato più sopra di Gerberto; e di un qual¬ che impulso che sia da esso derivato allo studio della dialettica, si può tanto meno parlare, in quanto che, persino relativamente alla questione che divideva il campo della logica in contrarie tendenze, si presenta estremamente ottuso e scolorito. Tutta la trattazione si volge intorno alla questione, se « grammaticus » sia sostanza o sia qualità, dato che ima e l’altra alternativa debbano entrambe esser ammesse, ma non sia possibile che sieno in pari tempo tutt’e due vere 35 °). Ma alla risposta ragionevole, che **) Diulogus de grammatico, Tamen quoniam scis, quantum noslris temporibus diulectici certent de quaestione a te proposila, nolo le sic his quae diximus inhaerere, ut ea perlinaciter teneas, si quis validioribus argumentis haec destruere et diversa valuerit astruere: quod si conti gerii, saltem ad exercitationem di- sputandi nobis haec profecisse non negabis [PL, . B °) lbid., c. 1, p. 143: De grammatico peto ut me cerlum jacias, utrum sit substantia an qualitas, ut, hoc cognito, quid de aliis quae similiier denominative dicuntur, sentire debeam, agnoscam. La questione ha la propria fonte in Boezio (p. 121 [in Ar. praed., I; PL, 64, 171-2]), il quale, dove nelle Categorie vien citato gramma¬ ticus come denominalivum da grammatica, nomina nel commento Aristarco quale esempio di grammaticus, — e inoltre, nel trattare della categoria della sostanza (p 134 [ibid.; PL, 64, 189]), espres¬ samente riconduce grammaticus su su ad animai, mentre è da ag¬ li. cioè son pur vere tutte due le alternative, ci si arriva per via indiretta nel modo più artificioso 351 ). Alla opi¬ nione di chi ammette che « grammaticus » è sostanza, perchè invero il grammatico è un uomo, ma l’uomo è sostanza, si contrappone cioè anzitutto un sillogismo de¬ forme, il quale ha per conchiusione che nessun gram¬ matico è uomo 352 ) : conchiusione, che per prima cosa viene confutata con l’argomento, che alla stessa maniera potrebbe anche dimostrarsi che nessun uomo è un es¬ sere vivente 353 ) ; ora soltanto a tale argomento vien dis¬ giungere che (p. 185 s. [i6., HI; PL, 64, 256-7J) per la categoria delia qualità, grammuticus era diventato l’esempio stereotipato. Perciò Anselmo pone ora una accanto all'altra come reciprocamente contraddittorie le seguenti espressioni: Ut quidem grammaticus prò - betur esse substantia, sufficit quia omnis grammaticus homo, et om- nis homo substantia (cfr. Boezio [ad Porph. a se fransi.], p. 63 s. [probabilmente si deve leggere 36 6.: lib. H, c. 11; ed. Brandt, p. 103-4; PL, 64, 57]).... Quod vero grammaticus sit qualitas, aperte jatentur philosophi, qui de hoc re tructaverunt, quorum auclorita- lem de his rebus est impudenlia improbare. Item quoniam necesse est, ut grammaticus sit aut substantia aul qualitas.... Cum ergo alte- rum horum verum sit, alterum jalsum, rogo ut julsìtatem detegens, aperius mihi veritatem [PL, 158, 561]. K1 ) Ibid„ c. 2: Argumenla, quae ex utraque parte posuisti, ne¬ cessaria sunt; nisi quod dicis, si alterum est, alterum esse non posse. Quare non debes a me exigere, ut alteram partem esse falsam osten- dam, quod ab ulto fieri non potesti sed quomodo sibi invicem non repugnent, aperiam, si a me fieri polest. Sed vellem ego prius a te ipso audire, quid his probalionibus tuis oblici posse opineris \ib., 561-2]. K ‘) Ibid.: Ulani quidem propositionem quae dicit, grammaticum esse hominem, hoc modo repelli existimo : quia nullus grommati• cus potest intelligi sine grammatica, et omnis homo polest intelligi sine grammatica. Item, omnis grammaticus suscipit magis et minus (questo è ricavato da BOEZIO, p. 186 [in Ar. Praed., Ili; PL, 64, 257]), et nullus homo suscipit magis et minus: ex qua utraque con- textione binarum propositionum conficitur una conclusio, id est, nullus grammaticus est homo [PL, 158, 562]. * sl ) C- 3, p. 143 s. : Non sequitur.... Contexe igitur tu ipse qua- tuor.... propositiones.... in duos syllogismos:... « Orane animai polest intelligi praeler rationalitatem; nullus vero homo potest intelligi praeter rationalitatem>. Item: que multipliciter appellatur.... Et communis est multiplex appellatio, edam in his nominibus, quae veluti genera de speciebus dicuntur;e (p. 183 [ibid., PL): Grammatici enim a Grammatica nomìnantur, atque hoc est in pluribus, ut posilo nomine, si quid secundum ipsas qualitales, quale dicilur, ex his ipsis qualilatibus appellatio derivetur. Etc . distinctis qualitatum vocabulis appellantur.... Così neanche Anseimo oltrepassa dunque assolutamente la limitata sfera delle fonti sin qui note, e se si fosse già fin d’allora conosciuta la traduzione degli Analitici, è da credere che in generale tali disquisizioni sarebbero state impossibili. Anseimo tuttavia non ci consente ancora di gustare su¬ bito la sua concezione realistica, bensì ancora per qual¬ che tempo ci mena strascicando attraverso uno sciocco gingillar con le parole. Se cioè si obietta che « gram¬ matico » e « uomo » vengono per conseguenza a essere ugualmente predicati significativi, e che pertanto il pri¬ mo abbraccia del pari in una unità reale il concetto di uomo e il concetto di grammatica — tale obiezione dev’essere ora confutata con la considerazione, che al¬ lora « grammatica » non sarebbe accidente, ma diffe¬ renza sostanziale, il che dovrebb’essere altrettanto vero di tutte le qualità simili: e così pure ne risulterebbe la illazione che un non-uomo, il quale fosse grammatico, dovrebbe allora proprio perciò essere nello stesso tempo uomo 364 ) ; inoltre bisogna ben riflettere appunto sopra la forma di aggettivo che ha la parola gramma- ticus, poiché se « uomo » fosse già per sè contenuto in « grammatico », potrebbe darsi che, con la sostituzione, si dovesse continuar a ripetere all’infinito la parola « uomo », e in generale si sconvolgerebbe il punto di vista proprio degli appellativi derivati, perchè allora p. es. anche hodiemus dovrebb’essere un verbo 363 ). J C. 13, p. 14 ì: Sicut enim homo constai ex ammali et rationa- litate et morlalitale, et idcirco homo significai liaec trio, ila gram¬ matici^ constai ex homine et grammatica; et ideo nomen hoc signi¬ ficai utrumque.... — M. Si ergo itti est, ut tu dicis, diffinitio et esse grammatici est « homo sciens grammalicam ».... Non est igitur gram¬ matica accidens, sed substantialis differentia; et homo est genus, et grammaticus species: nec dissimilis est ratio de albedine, et simi- libus accidentibus: quod falsum esse totius artis traclatus ostendit ((BOEZIO fin Porph. a se transl., IV, 1: ed. Brandi, p. 239 ss.; PL, 64, 115 ss.], p. 79 ss.).... Ponamus, quod sit animai aliquod rationale, non tamen homo, quod ita sciai grammalicam sicut homo ... Est igitur aliquis non homo sciens grammaticam.... At omne sciens gram¬ malicam est grammaticum.... Est igitur quidam non homo gramma¬ ticus.... Sed tu dicis in grammatico intelligi hominem.... Quidam ergo non homo est homo quod falsum est [PL, 158, 571-2], ) Jbid. : Si homo est in grammatico, non praedicatur cum eo simul de aliquo...; non enim apte dicitur, quod Socrates est homo animai (Boezio [loc. ult. cit., II, 6: ed. Brandt, p. 192; PL Dopo che si dà così per dimostrato che grammatica* non chiude in sè unitariamente la sostanzialità dell’uo¬ mo, bensì vale soltanto quale significazione adeguata della grammatica, deve adesso chiarirsi ancora tuttavia in qual modo grammaticus sia puramente un appella¬ tivo mediato dell’uomo; e ciò si fa, con il più balordo scambio di concetti attributivi, mediante questo esem¬ pio, che cioè, se ci sono, uno accanto all’altro, un ca¬ vallo bianco e un bove nero, dicendosi senz’altro  S, qUoJ 7. homo solus, i. e. sine grammatica, est gromma - auinno f b ‘ m °' l,S,ntell W POtest: uno vero, altero falso. Homo quippe (questo e il verni modus) solus, i. e. absque grammatica est qiTnecToh Ter habe ^ ^ m maticam: grammatica nam- que, nec sola nec cum honune. habet grammaticum. Sed homo so - irammn ' grammat,ca - ««* grammatici; quia, absente grammatica, nullus esse grammatici potest (il falsus modus consi alerebbe cioè ne 1 intender quella proposizione nel senso che non per^ r „a n n e ted a n> ^amniotica alla sostanza 7 ». stante dell uomo): sicut qui praecedendo ducit alium, et so - . 1 praevius, quia qui sequitur non est praevius,... et solus non lvL pr i5T l 5m l, !cr n T f qui T‘ evius esse non P° test la prima delle due alternative viene utilizzata per la pro¬ fessione di fede realistica, e qui Anselmo aderisce, con l’accento di chi si rassegna di mala voglia, alle idee dei dialettici aristotelici, per salvare almeno quel che po¬ teva essere salvato, poiché, visto che le Categorie gode- van pure di ima così grande autorità, da non poter es¬ sere del tutto rigettate, bisognava far il tentativo d’inter- petrarle in senso realistico. Dice Anselmo cioè, che de¬ signare il grammatico esclusivamente come qualità, è giusto soltanto dal punto di vista delle Categorie ari¬ stoteliche, poiché in quest’opera si tratta in verità non dell’essere reale delle cose stesse, e neanche della desi¬ gnazione puramente appellativa mediante parole, bensì delle voces significativae (v. sopra la nota 363), in quanto che queste significano immediatamente l’essere sostan¬ ziale in se stesso: e perciò è giusto che tra i dialettici sia rimasto in uso di tenersi puramente nell’orbita di questa significazione sostanziale, cioè di servirsi del grammatico, soltanto com’esempio di qualità 3T0 ) ; peroc- ”“) C. 16: Cum vero dicitur, quod grammaticus est qualilas, non recte, nisi secundum tractatum Aristotelis de categoriis, dicitur. C. 17: D. An aliud habet ille tractatus quam « omne quod est, aut est substantia, aut quantitas, aut qualilas, etc. » (BOEZIO [in Ar. Praed., I; PL).... — M. Non tamen fuit princi- palis intentio Aristotelis, hoc in ilio libro ostendere, sed quoniam omne nomen vel verbum atiquid horum significai; non enim inten- debal ostendere, quid sint singulae res, nec qiiarum rerum sint ap- pellalivae singulae voces, sed quorum significativae sint. Sed quo¬ niam roces non significant nisi res, dicendo quid sit quod voces significant, necesse fuit dicere quid sint res.... De qua significatione videtur libi dicere, de illa qua per se significant ipsae voces, et quae illis est subslantiulis, an de altera, quae per aliud est, et acciden- talis? — D. Non nisi de ipsa, quam idem ipse eisdem vocibus esse, diffiniendo nomen et verbum (Boezio [in de interpr., ed. Becunda, I, 1: rdiz. Meiser, Pare Post., p. 13 ss. ; PL, 64, 398-9], p. 293 s.), assignuvil, quae per se significant. — M. An pulas.... aliquem eorum, qui eum sequentes de dialectica scripserunt, aliter sentire voluisse de hac re, quam sentii ipse? — D. Nullo modo eorum scripta hoc aliquem opinari permilliinl: quia nusquam invenitur aliquis eorum posuisse aliquam vocem ad ostendendum aliquid quod significet per aliud, sed semper ad hoc quod per se signifi¬ cai [PL, chè, in questo senso realistico, il grammatico, per ri¬ spetto alle categorie, è, parimente dal punto di vista del linguaggio come nella realtà, una qualità — laddove, fatta astrazione da questa considerazione dialettica, la quale tuttavia deve pertanto contenere Tessere essenzialmente sostanziale, ciò che rimane è solamente il campo della comune maniera di parlare appellativa, nella quale il grammatico è chiamato «uomo»: non diversamente p. es., nel considerare le forme grammaticali, è giusto chiamare maschile il sasso, mentre, nell’uso comune del linguaggio, non c’è nessuno che designi il sasso come mi essere mascolino 3n ). Dunque Anseimo scorge bensì nelle categorie un pò- tere formale, ma lo riferisce esclusivamente alla Tabula logica, già obbiettivamente data, dell’Essere sostanziale. Ma quanto rozzamente ciò da lui sia stato inteso, ap- pare manifesto dalla concliiusione dello scritto, dove si discute ancora la questione, se una sola cosa possa ca¬ dere sotto più categorie; poiché, quando p. es. si dice c ìe armatus può anche rientrare nella categoria della sostanza, perchè l’armato ha in sè una sostanza, vale a In C ' 18, U s .- : Si crgo proposila divisione oraefata (cioè L!X n 7 e ;' leCÌ categorie), quaero a te, q uid sii grammaticm secundum hanc divisionem, et secundum eos. qui illuni scribendo D P™lT2Z qUUn,Ur t: qU,d QUaer0 ’ ° Ut QUÌd mihi rospondebi? - _ -A " ÌUC P ° test quaeri ’ nisi de voce aut de re quam significati quare, qu ia constai grammaticum non significare respondebo^i '"'“'"'T hominem sed grammaticum, Incuneiamo Tve^oauàerlde de - V ° Ce ' quu ) vox significans quali totem, si vero quaens de re, q uia est q ualitas.... Quare si ve quaeralur de yZZlil Ve J e,lf’ CUm quuer,tur quid sit gr animai-ras secundum A ri- stoici s tractatum et secundum sequaces ejus. recte respóndZr -Mila' "t t * men s f cundum oppellationem vere est subslanliu. scribuntd emm V Vere " OS debet ' quod d ulectici ahler utùmur InLc J bUt S0C ‘,ndum quod sunt significativae,,diter eis dèi Idi //T '" secun dum qiwd sunt appellativae: si et gromma- tic ahud dietim secundum formam vocum. aliud secundum reium naturam. Dicunt quippe lapidem esse mascolini generis.... cum tu rno dicat lapidem esse masculum [PL, dire le armi, cou ciò si tocca veramente il colmo della incomprensione della logica; e a noi piace chiudere con la sentenza che Anselmo pronuncia su tale argomento, essere difficile cioè (— poiché non vuole affermare nean¬ che questo con assoluta certezza —) che una cosa, la quale eia un tutto uno, possa cadere sotto più categorie, laddove invece una parola, includente più significati, può ben essere considerata, come non unitaria, dal punto di vista di più categorie: tal è p. es. il caso di albus, ch’e di pertinenza così della categoria della qua¬ lità, come anche di quella dell’avere. Cosi quest’ottuso realismo s’inviluppava, per la sua propria impotenza, in difficoltà, che in generale, per chi consideri le questioni secondo un criterio realmente lo¬ gico, sono inesistenti, e tutto l’atteggiamento di Anseimo ci appare soltanto come un documento di una congenita disgraziata disposizione, dalla quale è affetto, in ordine alle questioni di logica, l’oggettivismo realistico. [§ 35. — Grado ancor basso di sviluppo del con¬ trasto FRA LE TENDENZE. ONORIO DA AUTUN. Ma ili generale sembra in quel tempo, cioè al limite fra l’XI e il XII secolo, essersi manifestato, quale risultato di più Nam, si grammaticus est qualilus, quia significai qualitatem, non video cur armalus non sit substantia,... quia significai habentem substantiam, i. e. arma:... sic grammaticus signi¬ ficai habere, quia significai habentem disciplinam. — M. Nullale- nus.... negare possum, aut armatum esse substantiam aut gromma- ticum [esse] habere.... Rem quidem unam et eamdem non puto sub diversis apiari posse praedicamentis, licet in quibusdam dubitari possit: quod majori et altiori disputationi indigere existimo (sa¬ remmo stati in verità smaniosi (li leggerla, questa altior disputatio).... Unam aulem vocem plura significamela non ut unum, non video quid prohibeat pluribus uliqucndo supponi praedicamentis, ut si albus dicitur qualitas, et habere [PL], Successivamente si prende ancor in esame il concetto di albus, per sostenere ch’esso non è unitario, ma risulta appunto da qualitas e habere appiccicati insieme. e meno recenti controversie logiche e teologiche, un contrasto, ancora dichiaratosi in maniera anzichenò gros¬ solana, tra nominalisti e realisti: si era cioè incapaci, all’infuori da questi due punti di vista, di prenderne in’ considerazione alcun altro, come pure si enunciava cia¬ scuno di quei due unilateralmente, ancora in forma estrema e per così dire grezza. Uno svolgimento di gran lunga più ricco e meglio disciplinato, ce lo presente¬ ranno di già subito i prossimi decenni, e più che mai 1 epoca ulteriore, che per il momento preferiamo tuttavia passar del tutto sotto silenzio. La usata logica delle scuole poteva anzi esser al¬ lora intesa da alcuni singoli scrittori in maniera tale, che rimanesse ancor affatto immune da qualsiasi in¬ flusso del contrasto fra le tendenze, e qual esempio di assoluta ingenuità, così per questo rispetto come relativamente alla logica in generale, possiamo, per chiudere questa Sezione, citare ancora, del principio del secolo XII, alcune amene osservazioni di Onorio da Autun, il quale rappresenta le sette arti liberali come altrettante sedi dell’anima: ed ecco tutto ciò che, a tal proposito, egli sa metter avanti, relativamente alla dialettica: per cin¬ que porte (le quinquc voces) si entra nella vera e pro¬ pria fortezza (cioè le dieci categorie), dove stan pronti due campioni, vale a dire il sillogismo categorico © quello ipotetico, che Aristotele ha armati nella Topica e ha portati poi, nel libro de interpr., sul campo di bat- taglia, sicché ci si può qui metodicamente addestrare nella lotta contro gli eretici S7S ). TO ) Honorii Aucustodunensis de Animae Exsilio et Patria, c. 4, riprod. dal Pez, Thesaur. Tenia civilus est Dialet¬ tica, multis quaestionum propugnando munita.... Uaec per quinque portas adventantes recipit, scilicet per genus, per species, per diffe- rens, per proprium, per accidens; unde et Isagogae introductiones dicuntur, quia per has repatriantes introducuntur. Arx hujus urbis est substantia; turres circumslantes novem sunt accidentia. In hoc duo pugiles sunt et litigantes certa ratione dirimunt: Calhegorico et hypothetico Syllogismo quasi praeclaris armis viantes muniunt. Quos Aristoteles in Topica recipit, argumenlis instruit, in Periher- meniis ad lalum campum syllogismorum educit. In hac urbe docen- tur itineranles haereticis, et aliis hostibus armis rationis resistere eie. [PL PROGRESSO GRADUALE VERSO LA CONOSCENZA COMPIUTA DELLA LOGICA ARISTOTELICA Si colmano le lacune del materiale degli STUDI DI LOGICA, CON LA CONOSCENZA DEI DUE ANALITICI e della Topica, oltre che degli Elenchi Sofistici]. Dopo aver detto più sopra che c’è un solo motivo di dividere in periodi la storia della logica me¬ dievale, motivo che consiste per me nella misura estrin¬ seca della conoscenza, più limitata o più estesa, che si aveva degli scritti aristotelici, e che la differenza di contenuto fra la precedente e la presente Sezione si ri¬ duce in ultima analisi al fatto che sino al principio del sec. XII non erano noti nè utilizzati i due Analitici e la Topica, insieme con gli Elenchi Sofistici, mentre in se¬ guito, a poco a poco, anche questi libri furon tratti entro la sfera dei dibattiti sopra le questioni di logica, — m’incombe ora qui per prima cosa il dovere di fissare anzitutto precisamente quei dati di storia letteraria, che stanno a fondamento della separazione. Per tutta que¬ sta Sezione, con la quale entriamo nell’agitata epoca di Abelardo e procediamo sino al termine del XII se¬ colo, bisogna cioè in primo luogo metter sott’occliio l’àmbito del materiale di cui disponevano gli studiosi di logica, e dal quale scaturirono le numerose controversie di questo periodo, vale a dire bisogna mostrare che, e in qual modo, a poco a poco, per un verso si pervenne alla conoscenza di tutta quanta la produzione letteraria di Boezio, che aveva appunto tradotto l’Organon per intiero, e per l’altro verso si apprestarono traduzioni nuove dei libri suddetti: perchè, solamente dopo fatto ciò, potremo riferire quale attività si sia svolta nel frat¬ tempo sopra questo terreno gradatamente ampliato. Che quella suindicata limitazione sia effettivamente sussistita fino al principio del secolo XII, si può forse darlo ora per dimostrato, sia dalle notizie positive, ad¬ dotte nella Sezione precedente, sia anche dall’asso¬ luta mancanza di qualsiasi accenno in contrario. Ma ap¬ punto, quanto più per questo periodo antecedente invo¬ chiamo in nostro favore la forza dell 'argumentum ex silentio ’), tanto più diligentemente abbiamo preso in considerazione anche le tracce isolate e per così dire cancellate, di manifestazioni, dalle quali quel silenzio viene rotto, a partire da un dato momento. Il punto critico si ha cioè, quando viene presa conoscenza degli Analitici e della Topica, oltre che degli Elenchi Sofi¬ stici*), e per quanto ciò sia accaduto soltanto insensi- Certo non deve perciò negarsi la possibilità di nuove sco¬ perte in qualche Biblioteca, dalle quali vengano messe in luce notizie, contrastanti con questa nostra veduta; ma tuttavia si tratte¬ rebbe sempre soltanto di casi isolati, senz’alcun indosso sopra lo svolgimento generale della logica in quel tempo, perchè a ricono¬ scere l’andamento della logica in generale, sembrano sufficienti le fonti sinora accessibili, ") Jourdain nelle sue Rechcrches critiques si era invero pro¬ posto solamente il compito di ricercare le traduzioni nuove, venute fuori nel Medio Evo, e poteva escludere dunque dalla propria con¬ siderazione questa rivoluzione, in quanto essa concerne la cono¬ scenza di Boezio: ma gli sono sfuggiti testi d'importanza decisiva anche per quel suo intento particolare bilmente e a poco a poco, ci si può bene aspettare che una conoscenza, sia pur ancora frammentaria, di queste principali opere aristoteliche non sarà senza connes¬ sione con lo studio della logica, fattosi ora più ricco e variato. Giacomo da VENEZIA (si veda). Già una notizia che c del seguente tenore: un tale Giacomo da Venezia [SI VEDA] tradusse dal greco i due Analitici, la Topica e gli Elenchi Sofistici, e nello stesso tempo li corredò di un commento, sebbene degli stessi libri ci sia stata una traduzione più antica » *), — riguar¬ da, come si vede, proprio quelle opere, che il periodo precedente non aveva nè conosciute nè utilizzate: e, com’è da rilevare da un lato, che l’informatore, appartenente egli pure al secolo XII, era edotto della esistenza della traduzione, curata da BOEZIO, di quei libri, — poiché dove si parla di una traduzione « più antica », non può alludersi se non a quella —, è parimente chiaro, d’altra parte, che quel tale Giacomo di VENEZIA (si veda) ignorava che la traduzione stessa esistesse, e proprio da ciò era stato indotto a curar egli stesso la sua propria versione di quei libri. Ma il paese, al quale siffatte circostanze vanno ambe¬ due riferite, è L’ITALIA. Prima ancora che si disponga del testo DEI LIBRI ARISTOTELICI SU RICORDATI, TRAPELANO D’ALTRA FONTE NOTIZIE SPORADICHE. Si DIMOSTRA CIÒ CON ARGO- *) In nota a un passo di Roberto da Mont-St.-Michel (Roberti de Monte Cronica, riprod. dal Pertz, MGH, Vili, p. 489), un continuatore (cioè « alia manus », ma, come afferma il Pertz [rectiiu: L. C. Bethmann]) osserva quanto segue: Iacobus Clericus de VENEZIA (si veda) transtulit de Graeco in Latinum quosdam libros Aristolilis, et commen¬ tatili est; scilicet Topica, Anal. priores et posteriores, et Elencos; quamvis anliquior translatio super eosdem libros haberetur fPIL MENTI TRATTI dagli scritti di AbelardoJ. Questa im- portante notizia, la quale contiene dunque elementi re¬ lativi alla conoscenza di quelle opere, e inoltre nello stesso tempo elementi relativi alla non-conoscenza delle opere stesse, non sta tuttavia così isolata, come si ere- deva 4). Una conoscenza di quei libri sembrerebbe cioè, ben è vero, rimaner esclusa a prima vista da dichiara- zioni di Abelardo, affatto categoriche e di amplissima portata. Fatta astrazione dal lamento ch’egli leva, e che qui non c’interessa, per la mancanza di una traduzione della Fisica e della Metafisica di Aristotele 5 ) — Abelardo c’indica egli stesso espressamente le fonti della sua lo¬ gica, e dice che la letteratura in lingua latina, riguar¬ dante la logica, ha per fondamento sette scritti, ripartiti fra tre autori: di Aristotele cioè si conoscono soltanto le Categorie e il de interpr., di Porfirio la Isagoge, ma di BOEZIO sono in uso i trattati de divisione, de differenti™ topicis, de syllogismo categ., de syllogismo hy- poth. b ); inoltre, anche una osservazione, tratta dagli, ora ’ ®“P ra Giacomo da V., anche Ueberwec-Geyer, p. 146] .11I Cousin (Ouvr. inédits d’Abélard, p. L ss, e anche Fragni. de pini, du moyen àge Parigi) è assolutamente in errore, e dai passi di Abelardo che dovremo citare subito appresso, trae conchiusioni, solamente in base al tenore delle parole, estrinse¬ camente considerate, senza por mente al contenuto delle dispute intorno ai problemi della logica. . “I Abaelardi Dialectica, negli Ouvr. inéd. (ed. Cousin), p. 200: in l hysicis [et].... in his libris, quos Metaphysica vocat, exequitur (se. Aristoteles). Quae quidem opera ipsius nullus adhuc translator latinae linguue aptavit. Confido.... non pauciora vel minora me praesti- turum cloquentiae peripateticae munimenta, quam illi praestiterunt, quos latinorum celebrat studiosa doclrina.... Sunt autem tres, quo¬ rum septem codicibus omnis in hac arte eloquenza latina armalur. Aristotelis enim duos tantum, Praedicamentorum scilicel et l J eri ermenias libros usus adhuc latinorum cognovil; Porphyrii vero unum, qui videlicet de Quinque vocibus conscriptus, genere scilicet, specie, differentia, proprio et accidente, introductionem ad ipsa praeparal praedicamenta; BOEZIO autem qualuor in consuetudinem duximus libros, videlicet Divisionum et [2291 Topicorum cum Syllogismis tam Categoricis quam Hypotheticis. Quorum omnium summam no- Elenchi Sofistici, Abelardo la cita una volta, soltanto di seconda mano, espressamente riferendosi a BOEZIO, come a propria fonte 7 ). Mentre dunque Abelardo, com’è di per sè chiaro, da quei passi di BOEZIO già più volte menzionati, do¬ veva aver appreso esattamente quali sieno i libri scritti da Aristotele, si direbbe ch’egli riconosca con le parole ora riferite, in modo assolutamente inequivocabile, che non gli era possibile far "uso delle traduzioni degli Ana¬ litici, della Topica e degli Elenchi Sofistici. Ma tutto quel che ci è lecito conchiudere anche da questo ricono¬ scimento, si è che Abelardo non aveva a disposizione quelle opere principali di Aristotele, perchè queste in generale non si trovavano tra gli scritti entrati nell’uso (si ponga mente all’espressioni « usus.... cognovit » e «in consuetudinem duximus »); vediamo cioè che allora in Francia, in tutti quei luoghi, per i quali Abelardo si andò aggirando o dove in generale ci si occupava di lo¬ gica, non si possedeva un esemplare del testo genuino di quei libri; poiché 6e se ne fosse posseduti, con l’ar¬ dore per gli studi di logica, caratteristico di quell’e¬ strae dialecticae textus pienissime concludet etc. Che per Topica qui non sia da intendere nient’altro che lo scritto de diff. top., è dimostrato, oltre che dalla esposizione che di questo ramo della dialettica si trova nello stesso Abelardo, anche da una quantità di passi, dov’egli cita punti singoli 'del de di/}, top. come « Topica» di BOEZIO, tout court: così, p. es., lntrod. ad thcol. [ed. Amboes.], II, 12, p. 1078 [ed. Cousin, II, 93; PL, 178, 1065] (si riferisce al de diff. top., I, p. 858 s. [corrisponde a PL), Theol. Christ. [ed. Martène], IU, p. 1281 [ed. Cousin, II, p. 488: PL] (si riferisce c. s.). Sic et Non, c. 9, p. 41 della ediz. Henke e LindenkohI [PL (de diff. top., II, p. 866 [PL, ]), ibid., c. 43, p. 105 [PL, 178, 1405] (de diff. top., III, p. 873 [PL, 64, 1197]), ibid.. c. 144, p. 397 [PL] (de diff. top., II, p. 867 [PL]). ') Dialect., ed. Cousin, p. 258: Sex autem sophismatum genera Aristotelem in Sophisticis Elenchis suis posuisse, Boethius in se¬ cando editione Peri ermenias commemorai (BOEZIO, p. 337 s. [in de inlerpr., Secunda editio, II, 6: ed. Meiser, Pars Post., p. 133-4; PL, 64, 460 s.]). poca, li si sarebbe certamente messi in piena luce. Non rimane invece esclusa in tali circostanze la possibilità che qualche elemento di quegli scritti sia tuttavia ve¬ nuto altrimenti a conoscenza del pubblico dei dotti: e sol che si trovasse anche una unica notizia soltanto, della quale si riuscisse a dimostrare che non possa essere stata ricavata da uessun’altra fonte se non da uno di quei libri, sarebbe fornita la prova che in qualche maniera, da qualche altra parte, dati isolati ricavati dagli Analitici e dalla Topica sono filtrati nell’atmosfera degli studiosi francesi di logica. Ma dimostrare per opera di quali uomini e in quale maniera ciò sia accaduto, non è com¬ pito da assegnare a noi; è impossibile fornir tale prova, anzi nemmeno possiamo designare la fonte locale. Che cioè al tempo di Abelardo si fosse venuti a co¬ noscenza di elementi staccati, tratti da quegli scritti ari¬ stotelici che fin allora non erano ancora stati messi a profitto, è cosa della quale possiamo trarre le prove precisamente da Abelardo stesso, e anzi riferendoci non a un pimto soltanto, ma a parecchi. Abelardo osserva una volta, a proposito della definizione del genus 8 ), che in determinate circostanze anche l’individuo può fare da predicato, come p. es. nella proposizione « hoc al¬ bum est Socrates», oppure «/tic veniens est Socrates » : — una considerazione questa, che sarebbe vano ricercare in tutta la serie dei commenti di BOEZIO, ma che si trova bensì negli Analitici Primi, con letterale coinci¬ denza di quelle proposizioni esemplificative; e proprio di là questa notizia dev’essere venuta anche a cono- [Glossae in Porph., ibid., p. 560: videtur esse falsum, quod individua de uno solo praedicenlur, cum hoc individuum Socrates de pluribus habeat praedicari, ut « hoc album est Socrates », « hic veniens est Socrates». Il luogo aristotelico corrispondente si trova negli Anal. pr., I, 27 (nella traduzione di BOEZIO PL. scenza di vari altri cultori della logica 9 ). Abelardo rife¬ risce inoltre che ci son « molti » che traspongono la es¬ senza della definizione esclusivamente nella indicazione delle qualità 10 ) : e non sarebbe il caso di dire che que¬ sta opinione è soltanto una conseguenza estrema rica¬ vata da un passo [delle Categorie] già da gran tempo conosciuto [nella traduzione di Boezio] ll ), perchè un contemporaneo di Abelardo formula quella opinione stessa in termini tali da ricondurci alla vera sua fonte, che troviamo soltanto nella Topica di Aristotele 12 ). Abelardo poi, a proposito della controversia intorno agli universali, usa inoltre una maniera di esprimersi (cioè universalia « appellant in se »), spiegabile soltanto ove si ammetta che la idea fondamentale di quei passi degli Analitici secondi, dove Aristotele tratta di xaxà •) Che la cosa abbia dato occasione a una controversia di moda nelle scuole, ai desume da Joh. Saresb., Metalog., II, 20 (p. 110, ed. Giles d. Webb; PL]) : Hoc enim ex opinione quoTundam sensisse visus est Aristotiles in Ancdeticis dicens (segue quel passo medesimo [cit. nella nota precedente]). ’”) Dialect., p. 492: Unde multi, cum significationem substantiae hitjus nominis quod est « homo » agnoscant, nec qualitates ipsius satis ex ipso percipiant, tantum propter qualitatum demonstrationem diffinitionem requirunt. “) Abistotele, Cut., 5 ; in BOEZIO, PL. L’autore dello scritto De generibus et speciebus, dal Cousin attribuito a torto ad Abelardo (v. sotto le note 49 e 148), dice a p. 541 9.: Concedunt omnes, species ex differentiis constare.... Dicunl, omnes differentias esse in qualitate etc. In tale forma accentuata, quest’ultima affermazione poteva esser ricavata solamente da Ari- stotele. Top. (cioè dalla trattazione, che ivi si trova, della definizione, con la quale si accordano poi altri passi), e ha dovuto in tal maniera appartenere al novero di quelle notizie spo¬ radiche, che ora contribuivano a moltiplicare, le controversie scola¬ stiche; l’autore del De gen. et spec. fa poi sforzatamente risalire la idea ora citata a un altro passo di BOEZIO, p. 62 (ad Porph. [a se transl., II, 5: cd. Brandt, p. 186; PL, 64, 93-4]), e dunque è certo che possedeva come fonti solamente i testi universalmente diffusi. Invece Joh. Saresb., loc. cit., p. 100 [edL Webb, p. 103; PL, 199, 880] mette già in connessione con tale questione anche Sopii. El., 22, 178 b 36. 7tavTÓ£ e di xn pr,ma  d °° Magalo! bi >]U,S cairn istas concedei ; « nllLl, Secunda figura coni,agii m > oni oe justum possibile est ! lum Possibile est esse bo - zs‘?r, • *» : ìt . ’z *• vZ’-£z iz"tr;«,ur Zssrzzzr 6 “ *5 (ibid., nota 5721 _ E-.-, . 41 jnstani esse». Sic et ..._ 6u veraciter componi. ÉZpus enT n Td Syllog,smi  Ibid., c. 27, p. 183 [ed. Webb, p. 193; PL]: Cete- rum conira eos qui veterum favore potiores AristotiUs libros exclu- dunt Boetio fere solo contenti, possent plurima allcgari. ed. Webb, p. 170-1; PL, 199, 919-20]: rosteriorum vero Analeticorum subtilis quidem scientia est et paucis Ma come da questa lamentanza risulta naturalmente manifesto che quei libri eran conosciuti, così d’altra parte viene riferito ancora che la Topica aristotelica, da gran tempo trascurata, proprio allora è stata, per così dire, richiamata da morte a vita 2S ) : e alla infor¬ mazione, secondo la quale questa idea di tirar fuori la Topica ha anche trovato a sua volta i suoi oppositori, si collega anche l’altra notizia, concernente un certo D r o g o n e, che non ci è ulteriormente noto, e che a Troyes manifestamente lavorò attorno alla topica, se¬ condo il modello di quella di Aristotele 2B ). [| 7. — Nuove traduzioni dell’Organon, nella Bassa Italia e nell’Impero Bizantino]. — Ma per quanto concerne ora in particolare il venire in luce di traduzioni nuove, si ricava in verità assai poco da una lettera di Giovanni, che da Costanza richiede copie ingeniis pervia.... Deinde huec ulenlium raritate iam fere in desue- tudinem abiil, eo quod demonstralionis usus vix apud solos malhe- malicos est.... Ad haec, liber quo demonslrativa trudilur disciplina (cfr. la nota 25), ceteris longe lurbutior est, et transposilione sermo- num, traiectione litterarum, desuetudine exemplorum, quae a di- versis disciplinìs mutuata sunt, et postremo, quod non conlingil auctorem, adeo scriplorum depravatiti est vitio, ut fere quot capita, tot obstacula hubeul. Et bene quidem ubi non sunt obstacula capi- tibus pluru. Unde a plerisque in interpretem difficultalis culpa re- junditur, asserenti bus librum ad nos non vede translulum | perve¬ nisse]. A qual traduttore si fa qui allusione, a Boezio o a un altro? B ) Ibid., Ili, 5, p. 135 [ed. Webb, p. 140] : Cum itaque tam evidens sii utilitas Topicorum, miror quare cum aliis a maioribus tam diu intermissus sit Aristotilis liber, ut omnino aul fere in desue- tudinem abierit, quando aetate nostra, diligentis ingenii pulsante studio, quasi a morte vel a somno excitalus est, ut revocarvi er¬ rante* et i iam veritalis quaerenlibus aperiret [PL]. “) Ibid., IV, 24, p. 181 [ed. Webb, p. 191: e v. ivi la nota]: Salis ergo mirari non possum quid mentis habeant (si quid tamen hubent) qui haec Aristotilis opera carpunt.... Magisler Theodoricus, ut memini. Topica non Aristotilis, sed Trecasini Drogonis irridebat; eadem tamen quandoque docuil. Quidam auditores magistri Rodberti de Meliduno (v. appresso le note 453 e.) librum hunc fere inutilem esse calumnianlur [PL I di Jibn aristotelici in generale, e prega inoltre che ven¬ gano anche aggiunte annotazioni, data la possibilità che non ci sia da fidarsi del traduttore 3 °). È invece di grande importanza veder da lui citato un medesimo passo, sia nella traduzione di Boezio, sia anche, e contemporanea- mente, nella versione « nuova >«); e come quest’ultima si distingue per essere più letterale, così in generale Gio- vanni si era fatta una opinione abbastanza precisa in latto di traduzioni (soltanto cioè quando queste aderì- scono, quanto strettamente è possibile, secondo una re- gola rigorosa, all’originale, è dato ottenere una con,- prensione, garentita contro qualsiasi pericolo di unila- teralna da una « ratio indifferentiae »); egli dice che una tale opinione ha trovato allora conferma e appog¬ gio in un Greco da Severinum (cioè da Szoreny in Un- gliena), versato in entrambe le lingue 32 ). Ora quella I Epist. 211 (II, p. 54 s ed. Giles 1PL 19Q oacn ri. > stotehs, quos habelis, mihi facialis exscribi ) \. M,ro . s Ar " supplicatione, quatinus in operibus Aristoteìis ubiZitr 'T "7"“ haaonetn: cicadàtionès enimJùntJ -IL ^ rPL 199 io A m ct ' 11 .’ Sl sunt > menu ad rutionem Sei HI° IT ^ ÌPÌat ° n T dÌ ArÌS, °, • A’sitcaftratio indifferentiae per se stessa non c’interessa per il momento qui, bensì la si vedrà intrecciarsi alla nostra esposizione della logica di Giovanni da Salisbury (note 574 ss.); ma è ben cosa che c’interessa lino da ora, che, in connessione con quella, egli ricordi inoltre anche un secondo traduttore (parimente, è vero, senza riferirne il nome), del quale aveva l'atto la conoscenza nelle Pu¬ glie 33 ). Ma se, coni’ è attestato da questi importanti passi, il comparire di traduzioni nuove, ebbe impulso nell’ Impero tuzantino, e, per opera di Greci, nell’ Ita¬ lia meridionale, e se di ciò ebbero notizia gli studiosi di logica a Parigi o in Inghilterra, si avrebbe qui una prima traccia, sebbene passeggierà, di un influsso del¬ l’epoca di Anna Comncna (v. qui appresso le note 219 e 370, come pure altre notizie nella prossima Sezione, note 1-5 ss.). — Finalmente può ricordarsi ancora, per così dire ad abundantiam, che negli scritti di Giovanni, accanto a citazioni coincidenti in modo assolutamente letterale con la traduzione di Boezio, se ne trovano anche di quelle, che bisogna chiamare per lo meno inesatte, semprechè non sieno state originariamente attinte ad altra fonte 34 ). manga, aU’infuori da quel Severinum che si trova in Ungheria [Webb: / orsan e civitate Sanctae Severinae in Calabria (Santa Se- verina, prov. di Catanzaro)]. ") Ibid., I, 15, p. 40 [ed. Webb, p. 37; PL, 199, 843] : non pigebit re/erre, nec forte audire displicebit quod a Graeco interprete et qui Latinum linguam commode noverai, durn in Apulia morarer, ac- cepi eie. M ) Tra le prime vanno annoverate: Metal., II, 15, p. 86 [ed. Webb, p. 88; PL, 199, 872] (Top., I, 11: nella traduzione di Boezio, p. 667 [I, 9: PL, 64, 916]) — e II, 20, p. 110 [ed. Webb. p. 113; PL, 199, 887] (Anal. pr., I, 27: p. 490 della traduzione di Boezio [I, 28: PL, 64, 669]). — Tra le seconde vanno annoverate: Metal., II, 9, p. 76 [ed. Webb, p. 75-6; PL, 199, 866] (Top., I, 11: p. 667 della traduzione di Boezio |I, 9; PL, 64, 917]) -— II, 20, p. 100 [ed. Webb, p. 103; PL, 199, 880] (De sophisticis Elenchis, cap. 22: nella traduzione di Boezio, p. 750 [II, 3; PL, 64, 1032]) — III, 3, p. 126 [ed. Webb, p. 131; PL, 199, 897] (Top., I, 9: p. 666 della traduzione di Boezio [I, 7; PL, 64, 915. Invece lo Webb rinvia a Cat., 4, 1 b 25 ss.]). CARLO PRANTL f§ - S’iIVTENSIFlCA LO STimm np,, . —A LOGICA C„„ la " tT Cm ' BEL Pseudo-BoezioJ. — Ora ch’è f, Tr filate strato a sufficienza come antece 1, C °“ C1 ° dÌmo " letteraria di Abelardo ^ “ f 1 ^ 6 aI1 ’ atti vità studio della logica fos’se stataT^à arrfccWt^ T ^ sovra punti particolari e „ P arricchita, abneno piersi a poco a dopo 1, ^ Ve “ Uta P OÌ a c °®- Jisbury (di questo sr T°i 3 temP ° ^ Giovanni da Sa- ranno ancora “ ale « ; 0m P Ìme «‘o « si presente- - ci è reso noto cosìVfattor T’- * ?8 ’ 219 allora derivare un birre T t™™: ^ qUale doveva nell’attività svolti 1 • "V™ ° ' lntensità e di estensione si SDie^a t rapporto scambievole die ben SJ spiega, una forza cooperante era do, . . . dalla teologia donunatica: e ciò nere! ' “ a f Uardo ' die Sia di fronte allo Scoto EringLt a ortodossia,,„„l le ta Materi, * * " ' “ «“'»«. ’• stata all’erta così • . q e tloni mgJche, era resse, ora che la diale1 1 ^'^ ViSta dtd n,e(lesin '° inte- si» «.loro. z:::~ * r**r « lotte, si tiraron fuori a Ài * propria vita d intime incularlo teologico affinclo" ordeea> dall’arma- eon,tastanti J '*— Sci. era 'L SS ““ •“'« 1o»n« eliic’ mischiati anche elementi di ^ ^,rapassassero fra m- fera dogmatica p ri » L :,tr;i%r P a a'rr;“ ì r te: - valere, ma ora inZiT' . T *°'  P Ur fatta mettersi in più inten ^ d " C ^ pOSltlvamente a nitro- logica messa in condizioTeTdot ““ !" 8t ° rÌa deUa ~ no'opera di grazie a una certa formulazione di principii logico-onto¬ logici, potè esercitare azione cooperatrice nelle contro¬ versie dei dialettici. Si tratta del de Trinitene del Peeu- do • B o e z i o, e a tal proposito non mancò natural¬ mente di manifestar il proprio influsso il fatto che fosse ritenuto suo autore proprio Boezio, il rappresentante di tutta la logica S5 ). Appunto in quell’epoca cioè, ossia a K ) Da Fr. Nitzsch (Dos System des Boethius und die ihm zu- geschriebenen theologischen Schrijten [«Il sistema di Boezio, e gli scritti teologici a lui attribuiti »]), Berlino, 1860, furono svolte le più valide ragioni elle si oppongono alla tesi [oggi invece generalmente accettata] che sia Boezio l’autore dei trattati teologici a lui attri¬ buiti. E se poi Hermann Usener, Anecdoton Holderi [ : ein Bei- Irug zur Geschichte Roms in Ostgotischer Zeit (« Testo inedito co¬ municato all’Usener da Alfred Holder: contributo alla storia di Roma nel periodo ostrogotico »). Festschrift zur Begriissung dcr XXXII. Versammlung deutscher Philologen und Schulmiinner in Wiesbaden], Lipsia [rectius : Bonn] ha pubblicato di su un manoscritto di Reichenau del secolo X un passo di un sunto di uno scritto di Cassiodoro finora sconosciuto (— il passo Tp. 4] suona così: « Boethius dignitatibus summit excelluit. ulraque lingua peritissima orator fuit.... scripsit librimi de sanciti trinitate et capita quaedam dogmatica et librum contro Nestorium. condidit et carmen bucali- cum. sed in opere artis logicae id est dialecticae transferendo ac mathematicis disciplinis talis fuit ut antiquos auctores aut uequi- peraret aut vinceret » —) e a ciò è unito un tentativo di dimostra¬ zione dell’autenticità di quei trattati, — non direi che gli sia riu¬ scitoconciòdiconfutareffettivamente la opinione, rappresentata dal Nitzsch e ripetutamente suffragata dai competenti specialisti. Poiché rimane senza soluzione la contraddizione innegabile, che cioè un uomo, il quale si mantiene assolutamente entro la sfera della filosofia della tarda antichità e non fa mai il nome di Cristo, nè dice mai una parola intorno alla consolazione della idea cristiana dell’opera di redenzione, si sia occupato minutamente di sottili questioni di doinmatica cristiana. Se l’Usener (p. 50) dice che si devono appunto tener separate le due personalità, dell’uomo e dello scrittore appartenente alla storia della letteratura, questa è cosa che non sembra possibile in tal maniera per l’autore della Consolatio philosophiae, il quale anzi si trova direttamente in presenza della questione della teodicea, questione appartenente all’orbita della religione. Ma poiché in quel manoscritto di Reichenau neanrhe abbiamo un testo che sia dovuto allo stesso Cassiodoro, bensì sola¬ mente l’opera di un epitomatore, che, come ammette l’Usener (p. 28), riassume tutto il lavoro originale frettolosamente, e attri¬ buisce a Boezio fra l’altro anche un Carmen bucolicurn, rimane co¬ munque possibile che l’epitomatore stesso, stando sul terreno della tradizione ch'era in circolazione dal tempo di Alcuino, abbia fatto partir da Abelardo 36 ), si accumulano le citazioni tratte da quei quattro libri intorno alla Trinità, e Gilbert de la Porrée li accompagnò con un ampio commento, sì che non era più possibile lasciarli da parte, nel trattar delle questioni relative.,. Ma ’ 111 ordine a un influsso esercitato sopra la logica, c interessano qui essenzialmente quegli assiomi, che l’Au¬ tore in principio del 3» Libro [cioè del libro «Quo- modo substantia, in eo quod sint, bonae sint, cum non sint smistanti alia bona »] mette in testa a tutto, per poi ri arsi da essi, quando costruisce nel corso ulteriore dei- opera l’edifizio delle sue prove. Premessa una defini¬ zione della communis conceptio, gli assiomi stessi”) si riferiscono alla differenza, invalsa nella teologia, tra es¬ senza Oòcfa) ed esistenza (òrtóaraai?), in quanto che a quest ultima deve ancora aggiungersi la forma dell’Es- sere, e per essa lia pertanto luogo una partecipazione, come pure risulta la possibilità di un avere-in-sc, il che poi conduce alla distinzione di sostanza e accidente, e serve di fondamento a distinguere due modi di essere di quella partecipazione; ma, a tale proposito, viene ato rilievo anche alla unità, in cui sono congiunte negli esseri semplici, a differenza dai composti, la essenza e la es.stenza, e da ultimo viene messa in vista mia na- turale affinità di essenza in seno alla diversità esplicata. “Tp* * di Parigi, traua r]af uth ’ ’ !•’ P ' ? 039 ’ Amho ™- [ed. di d’Anjboisel W.Co^II.mTpI.iS 10Mr,Ser,,ti ^ Fra " S ° ÌS ZtaontZb no,a tìSu/ti£'Za rÌ39Ue etiam d “ ci,jlinis:Pr ° pOSUÌ «EQuesti prineipii, dei quali non ci concerne qui 1 uso che se ne faccia nel campo teologieo-dommatico, non tar¬ darono a essere citati, anche da cultori della dialettica, come « regulae », insieme con altre « auctoritates », e e da ritenere che vari studiosi di logica sin da principio, su questioni ontologiche, si guardassero daH’andar con¬ tro questi assiomi, perchè poteva inoltre esserci la mi¬ naccia di conseguenze pericolose, relativamente alla Tri¬ nità. Così ne venne, che si ebbe qui non già soltanto una più larga applicazione della logica alla teologia, ma an¬ che un diretto influsso di elementi dominatici sopra il movimento di elaborazione della logica nel suo aspetto ontologico. [§ 9. — Contrasto fra logica e dogma]. — Senza dubbio, con questa mescolanza viene a verificarsi una situazione caratteristica, ed è cosa notevole che in quel¬ l’epoca, naturalmente incapace di una chiara e medi¬ tata separazione dei due campi (nel senso in cui 1 hanno intesa p. es. Cristiano Thomasius o Pietro Bayle), venga enunciata tuttavia la incommensurabilità delle due ve¬ rità, teologica e logica, mentre si continuava a svol¬ gere nello stesso tempo i due punti di vista inconcilia¬ bili. Anzi proprio Abelardo stesso, il Peripateticus Pw- latinus, ne dà la più eloquente testimonianza, quando 2) Diversum est esse, et id quod est. Ipsum enim esse nondum est. At vero quod est, accepta essendi forma, est alque consistit. 3) Quod est, participare aliquo potest. Sed ipsum esse nullo modo aliquo participat.... 4) Id quod est. Iutiere aliquid praeterquam quod ipsum est, potest, ipsum vero esse nihil aliud praeler se, habet admistum. 5) Diversum est.... esse aliquid, et esse aliquid in eo quod est: illic enim uccidens, hic substantia significalur. 6) Omne quod est, parlicipat eo quo est esse, ut sit, ulio vero participat, ut aliquid sit.... 7) Omne simplex esse suum, et id quod est. unum habet. 8) Omni composito aliud est esse, aliud ipsum est. 9) Omnis diversitas est discors, similitudo vero quaedam appetendo est. Et quod appetii aliud, tale ipsum esse naluraliter ostenditur, quale est illud ipsum, quod appetit fFL, dice che ai cultori della logica, ovvero Peripatetici, Dio rimane ignoto, perchè da quelli tutto viene sussunto a una o l’altra delle dieci categorie, laddove Dio non può cadere sotto alcuna di queste 38 ) : e mentre ciò potreb- b’eseere ancora interpetrato come il punto di vista ge¬ nerale, venuto in uso fra i teologi da Agosthio in poi (efr. lo Scoto Eriugena, Sez. precedente, note 120 s.), Abelardo, proprio relativamente alla dottrina della Tri¬ nità, si pronuncia con la massima chiarezza, nel senso che quella ha i suoi nemici più pericolosi nei dialettici o peripatetici 39 ), argomentando costoro, dal punto di vista della logica, la unità individuale dalla unità di essenza delle tre Persone, e, viceversa, dalla diversità delle tre Persone la diversità della loro essenza 40 ). E non ténTI D B nRANn D VP e0/ ' Chrht " V- 1271 (ne,la di Mar- tene e Uuram) Thesaurus novus Anccdotorum, Parigi, 1717, voi V) ed- t-ousin, II, p. 478]: Quod autem illi quoque doctore's nostri UT intendimi Logieae. ill„ m summam majestatem, quam in n . L eUm eSSe ',rofì "; nt ", r - omnino ausi non sunt attingere, aut Cum e Z oZ ? COm P rehender *’ ex ipsorum scriptis liquidum est. Cum erum omnem rem aut substantiae aut alieni aliorum genera- lissimorum sub],ciani: inique et Deum, si inter res ipsum eom- dZnnZT ’ aut ? ubstantiis ’ quanti tali bus, aut ceterorum prue- dicamentorum rebus connumerarent, quod nihil omnino esse ex ipsis convmcitur (p. 1273) [480].... qui tamen omnem rem aut siibstantiae aut alieni aliorum praedicamenlorum applicanti palei leni 1’ ruCU,lu h .enpalelicorum illuni summam [481] majesla- tem omnino esse exclusam [PL], ' Christi'^tion / C 1 ’, P ‘ 1242 C44, 8] j S " Pr " univers °> s autem inimicos sani-lue TriniZZZ*’ J,,daeo \ sive Oenliles, subtilius fide,,, essores d el Perquuunt. e, ucutius arguendo contendimi prò- fessores dialecticae, seu import,mitas sophistarum. quos verborum agrume atque sermoni,m inundatione bentos esse Plato irridendo apZtzl mm T dem ’ ° ^ nane dZeZeos [PL^l 78, ]2 lT™ UUaS ^ maXlmM haere *es.... esse repressas eie. eillinl "'Z'f 'I' P ' 1266 r472,: in loco Kravissimae et diffi¬ cili,mae Dialecticorum quaestiones occurrunt. Hi quippe ex unitale duZsTtn, n ",tuU ' m Pecsonarum impugnanti ac cursus ex [473] rìnZn, Pf ‘ rSO " an,m ldentlt !' u ‘ m essentiae oppugnare laborant. rPL T?8 A C, TH Z'T"r P onamus ' r>°'« a dissolvamus di A . r '° A, "dfd fa ora seguire una enumerazione, ' f P t nl, . tre *, ‘•«""•o 'a Trinità, ricavate dalla logica, per confutarle poi teologicamente. 1  è facile (lifatti metter d’accordo il concetto aristotelico della sostanza individuale con il domina della Trinità, sicché a rigore tutt’i cultori della logica, che seguivano Aristotele, si trovavano inevitabilmente esposti alla tac¬ cia di eresia. [ § io. — Pietro Lombardo. Bernardo da Ciiiara- valle]. — Così si riesce a spiegare come Pietro Lombardo (morto nel 1164 [1160.'']), mentre sta ad attestare la connessione tra la controversia intorno alla Trinità, e la scissione delle tendenze sul terreno della logica, respinga nello stesso tempo qualsiasi applica¬ zione della logica a quella fondamentale questione della teologia 41 ). Anzi egli stesso è esclusivamente puro teo¬ logo in così alto grado, che per lui la questione degli universali in generale non è neanche oggetto di con¬ tesa; e mentre più tardi (particolarmente nella Sez. XIX) avremo a sazietà occasione di ravvisare nei nume¬ rosi commenti ai « Sententiarum libri quatuor » del Lom¬ bardo (ch’eran divenuti, com’è noto, il fondamento di tutta quanta la letteratura teologica) un principale tea¬ tro della guerra intorno agli universali, il Lombardo “) Petri Lomhardi Sententiarum 1, 19, 9 (/. 27, ed. dl Ira, 1516 fdi Quaracclii: S. Bonaventurae Opera omnia l,p. ifUj): Videlur tamen mihi ita posse accipi. Cum alt (se- AugustinusJ « substantia est commune, et hypostasis est particulare » ; non ita haec accepit, cum de Pro dicantur, ut aecipiuntur m phtlosophtca disciplina, sed per similitudinem eorum quae a philosophis dicun- tur. locutus est; ut sicu/ ibi commune vel universale dicitur quod praedicatur de pluribus. particulare vero vel individuimi quod d uno solo; ita hic essentia divina dieta est universale, quia de omni¬ bus personis simili et de singulis separutim dicitur, particulare vero singula quaelibet personarum, quia nec de alus hoc de aliqua aliarum singulariler praedicatur. I ropter similitudinem ergo pruedicalionis substantiam Pei dixit universale, et P^ s °nas particularia vel individua.... (e. 101 Dicuntur enim ^ d^erre numero, quando ita difjerunt. ut hoc non sit tUud.... dl b ferunt Socrates et Pialo et huiusmodi, quae apud philosophos di- cuntur individua vel particularia; iuxta quemi modum non possunt dici tres personae differre numero. Etc. [PI-, 192, 57 1 (I, 1, 14 e 1 )]. non si è in alcun luogo immischiato egli medesimo in questa controversia, bensì solamente, con l’uso di de¬ terminate innocenti parole, ha offerto a’ suoi conunen- tatori motivo occasionale di dare, nella lotta già divani- pata, libero corso al loro infiammato zelo. E come ciò si è verificato nella più larga misura per le parole testé mentovate del Lombardo, così il lettore delle « Sente*- tiae » non può, a proposito di moltissimi luoghi, avere neanche il piu lontano sentore della caterva di discus- «oni, attinenti a, problemi logici, che vi si sarebbe più tardi riattaccata la). De] resto ^ p.^ riproducono anche le sofistiche quistioni, più sopra (Sez. precedente, nota 303) citate, dibattute dalla teolo¬ gia medievale « ■»). Nello stesso senso può ricordarsi che anche un altro celebre contemporaneo, cioè Bernardo da Chi ara valle (nato nel 1091, morto nel 53) apertamente si professa nemico della dialettica «). simplex, i. e.'indivisibìlh et inmateliaÙs^pluna’ Es " cn, j a restie! f r ia ’ te r de •h 1-2)1. O similmente L^L^ T-'T^ Qua «u,r'rÌ’ V 49 ’ r 61 ‘ 5 f?) ’ n, 17, i m ; ’ 19 ’ 1 fed ' logia trovò e aÌche°i dd in — -Ha teo- tenga esclusivamente alla letteratura tcXrir° 0013 478) ’ appar " libro di Fr. Protois Pierri* tomi ì .° 0f!ter m veniendam neces- cst logica causa elLuenZZ N P™ Slma «»'*•» omnium inventa disciplinas investigarmi et ’unireM Tert'’ ^ prn ! !tl ' ct, as Principales tractare, et disserro de UlZc Zà veracl ™’ honestius dlas cius per dialecticum, honestius ner rhoZ ** ^ (,mmati c«m, vera- cundiae rectitudinem veritatem heU, rtcam. Logica namque fa- ^asi testualmente nel mZZ’X"‘TZ ad ^ nitt ^ U s,esso - 809]); cfr. ibid.. I r „ ) ì 2 Vn 7 m’ TI ; P - 39 fPL > 17 6, 745, 752, 765], P ' ’ 2 (l >- 7); III, 1 (p . i 5) tPL> 176 . 1 Lhdasc., I, 12 (Opp., HI, p . fj) mj j 7fi 7 . q| . repertae fuerant; sed necesse luitloZ ’ * . ' • Ceterae pnus nemo de rebus con veniente J PljZ quoque invemn ; quoniam quandi rationem agnoverii. — / 6,u"vi TmÓ' iqf IpZZZm ^ Istae tres usu prirnae lucrimi to/ i * * 176, 8091: venta est logica Ouae cum dt i p ? stca P r °Pter eloquentiam in- debet in doctrina - Fr, J ‘, -''"'T' Ul " ma ' prima tamen Excerpt. pnor., loc. ciL, c. 23: In designa la logica come « sermocionalis », perché tratta « de vocibus » 47 ), e la divide ora in una maniera che ci ricorda molto da vicino lo Scoto Eriugena (Sez. prece¬ dente, nota 105), dimodoché, appartenendo alla logica, secondo la più vasta accezione della parola Àóyoc, ogni manifestazione della facoltà di parlare, la logica stessa si divide così in grammatica e logica rarìonalis: que- st’ultima, corrispondente all’accezione più ristretta della parola Àóyo;, viene poi ulteriormente suddivisa nella maniera ordinaria, tenuti presenti i passi ovunque divulgati di BOEZIO. Movimento più intenso: grande estensio¬ ne, E IN PARI TEMPO CARATTERE UNILATERALE, DELLA LETTERATURA ATTINENTE ALLA LOGICA]. — Ben è vero che sa¬ rebbe stato certo più comodo lasciare sin da principio legendis urtibus talis est orda servandus. Prima omnium compa¬ rando est eloquentia, et ideo expetenda logica, deinde etc. [PL], ) Didasc., II, 2 (p. 7) [PL Philosophia dividitur in theoricam, practicam, mechanicam, et logicum. Hae quatuor omnem continenl scientiam.... Logica sennotionalis, quia de vocibus tractat.... Hanc divisionem Boetius fucit uliis verbis.... (segue il passo citato più sopra, Sez. XII, nota 76). *) Ibid., I, 12 (p. 6): Logica dicitur a Graeco vocabulo Àóyog, quod nomen geminam habet interpretationem. Dicitur enim Xiyog sermo sive ratio (v. Isidoro, Sez. precedente, nota 27): et inde logica sermotionalis sive rationalis scientia dici polesl. Logica ralionalis, quae discretiva dicitur, continet dialecticam et rhetoricam. Logica sermotionulis genus est ad grammaticum, dialecticam atque rheto¬ ricam: et continet sub se disertivam. Et haec est logica sermotionalis, quam quartam post theoricam, practicam et mechanicam annume¬ rami^ [PL, 176, 749-501. — Excerpt. prior. TI1, c. 22 (p. 339): Logica dividitur in grammaticum, et rationem disserendi. Ratio disserendi dividitur in probabilem, necessariam. et sophisticam. Pro- babilis dividitur in dialecticam et rhetoricam. Necessaria pertinet ad philosophos, sophistica ad sophistas (v. BOEZIO). Grammatica filosofica est scientia RECTO loquendi. Dialeclica dispulalio acuta, verum a falso distinguens. Rhelorica est disciplina ad persuudendum quaeque idonea [PL, 177, 201-21. — Didasc., Il, 29 (p. 14): Logica dividitur in grammaticam. et in rationem disserendi. Grammatica razionale,... est litteralis scientia.... Ratio disserendi agii de vocibus secundum intellectus fPL, 176, 7631. — Ibid-, 31 (p. 15): Ratio disserendi esaurirsi tutta quauta la logica in un simile cliché tradi¬ zionale, e a questo modo anche le idee platonico-cristiane, del pari che la dommatica teologica, avrebbero po¬ tuto continuare, senz’essere turbate nella loro ingenuità, la innaturale loro alleanza con avanzi di aristotelismo atrofici e contorti. Tuttavia l’intimo impulso ch’è peculiare alla dialettica, era pur anche rimasto vivo, già fino a questo momento, in seno alla stessa ecclesia docens, e poiché ora, come s’è visto, da due lati si faceva strada una più energica spinta (da due lati: vale a dire, da un lato, proprio per effetto della controversia dommatica intorno alla Trinità, e dall’altro, per effetto della cono¬ scenza sporadica, la quale gradualmente veniva com¬ piendosi, dei libri aristotelici fin allora ignoti), si levò ora, nel tempo stesso, sul terreno della logica, accanto alla scuola di S. Vittore, con tutto il suo misticismo, un ricco movimento, diviso in molteplici diramazioni : e qui la stona della logica, dovendosi stare alle fonti esistenti, entra in un periodo di difficoltà estrema. La difficoltà consiste cioè per prima cosa in questa circostanza, che le informazioni a noi accessibili discendono bensì con abbondanza di notizie sino al minuto particolare, ma intanto, con la loro forma semplicemente frammentaria, ci lasciano all’oscuro, riguardo a tutt’i fili di collegamento: a ciò si aggiunge ancora il carattere indeterminato della usuale espressione « quidam » ch’era in uso [per designare i rappresentanti di una data tendenza], o della integrale partes habet, inventionem et judicium (v. più sopra Boe- : divisivas vero demonstrationem, probabilem, sopluslicam. Demonstratio est in necessariis argnmentis, et pertinet ail philosophos. Probubilis pertinet ad dialecticos et ad rhetores. Sophistica ad sopliistas et caviliutores. Probubilis dividitur in dia- lecticam et rhetoricam, quorum utraque integrales partes habet in- venhonem et judicium [PL, 176, 764], Parimente ibid.. Ili, 1 • i i * k’ 176, 765], Le stesse notizie ritornano in una € Epitome iti philosophiam » «li Ugo, edita dall’ Hauréau (Hugues de Saint-Vi- ctor: nouvel examen de l’èdition de ses oeuvres, Parigi indicazione del nome di im cultore della logica, con la semplice lettera iniziale; e così in generale (particolarmente p. es. riguardo a quel frammento, al quale il Cousin diede il titolo « De generibus et speciebus ») 4 "), la ricerca, che comunque sarebbe di già malagevole, viene attraversata inoltre da molteplici difficoltà lette¬ rarie; per di più fra i relatori ce n’è parecchi che in se medesimi son poco degni di fede, e c’imbattiamo in contraddizioni, che non possiamo, per mancanza di al¬ tre fonti, risolvere in maniera adeguata. Ma se poi si domanda ancora come questo materiale slegato e lacunoso debba venir elaborato per la pre¬ sente esposizione, ecco quel che debbo limitarmi a ri¬ spondere: data la impossibilità di svolgere il pensiero dei singoli autori (per la maggior parte non meglio conosciuti) secondo Cordine della successione storica, io sono riuscito a trovare, dopo molta riflessione, soltanto l’espediente di presentare l’epoca di Abelardo in blocco, e precisamente in tal modo che, analogamente a quel che ho fatto nella Sezione XI, vengano messe sott’oc- cbio le numerose controversie, secondo l’ordine di suc¬ cessione di quei gruppi che, negli studi di logica di quel¬ l’epoca, prevalgono per importanza, quanto al conte¬ nuto; a tal riguardo è da notare che le varie opinioni intorno alla Isagoge, cioè la disputa intorno agli Uni- «) Non poteva non esser «ausa di grave confusione, l’errore degli eruditi francesi, i quali con il Cousin hanno ritenuto che questo frammento sia opera di Abelardo; sopra tale punto ha più rettamente giudicato H. Ritter (sebbene non sia per noi accetta» bile la sua congettura, riguardo l’autore di quello scritto: v. ap¬ presso la nota 146); invece — a prescindere dal Rousselot, che non poteva ancora avere sott* occhio, quando compose la sua opera [Études sur la philosophie dans le Moyen a Parigi, 1840-21, il VII 0 volume del Ritter — anche il RÉMUSAT e persino I’Haureau han fatto le. viste di non conoscer affatto la opinione del Ritter,. e, aderendo al Cousin, si sono fondati sopra quello scritto per costruire argomentazioni, che dovevano nuocere alla esatta esposizione della controversia intorno agli universali. CABLO PRANTL versali, offrono un materiale più vasto che non i dibat¬ titi sopra le rimanenti parti della logica. Ma mentre degli autori più eminenti e meglio conosciuti si viene così a parlare, in connessione con questi motivi atti¬ nenti al contenuto, bisognava senza dubbio che io facessi una eccezione, proprio per Abelardo: le vedute di lui intorno agli universali potranno pine a loro volta esser fatte oggetto di sufficiente disamina solamente più tardi, quando si tratterà di esporre la caratteristica di tutta quanta la sua Dialettica, poiché egli è invero il solo, del quale possediamo uno scritto, che abbracci quasi in¬ tiera la sfera della logica. Tuttavia mi è sembrato che un tale smembramento della esposizione delle contro¬ versie, per quanto si riferiscono agli universali, fosse qui proprio il minore degl’inevitabili inconvenienti. Ad Abelardo potremo poi far seguire, allo stesso modo, principalmente Gilbert de la Porrée e Giovanni da Sa- lisbury. Per effetto delle ragioni suindicate, lo studio della logica, a prescinder dalla sua universale diffusione in tutt’i paesi, decisamente progredì, quanto alla inten¬ sità, in rigore e precisione, e per quanta era la esten¬ sione del materiale allora accessibile ai cultori della logica, ci si abituò, con la maggior esattezza possibile, a ponderar e lumeggiare da vari lati tutte le particolari tesi o controversie: certo con questo lavoro, mancando in modo assoluto una base propriamente filosofica, po¬ teva venir fuori soltanto una sottigliezza contraddistinta da unilaterale formalismo, e die per un verso doveva condurre al massimo sminuzzamento nella formazione di contrastanti indirizzi, mentre per l’altro verso fu, a sua volta, parimente alimentata e rafforzata da quello: e il numero dei magiatri, che in tal maniera, per lo più risolvendo polemicamente i contrasti di opinioni, esplo¬ rarono con cura tutto il campo della logica, non può forse, nella sola Francia, essere rimasto molto al di sotto del centinaio. Non farà meraviglia che in un tale movi¬ mento quelli che non avevano a priori, per ragioni teo¬ logiche, un sacro orrore della logica, si trovassero spesso imbrogliati, al primo momento che ne intraprendevano lo studio 50 ) ; anche a noi vengon pure quasi le verti¬ gini, quando dai particolari frammentari risaliamo a una conchiusione concernente quella totalità, alla quale essi avevano appartenuto. È una grande illusione, a pro¬ posito del movimento di quell’epoca nel campo della logica, creder di potersela cavare con i due termini di « nominalismo » e « realismo », tutt’al più aggiungen¬ done ancora un terzo, cioè « concettualismo », poiché in primo luogo, come apparirà manifesto, la divisione in tendenze contrastanti è ben più molteplice, e questa, in secondo luogo, costituisce soltanto una parte dell’at¬ tività complessiva spiegata nello studio della logica.  Le vicende dello studio della logica, NEL RACCONTO CIIE NE FA GIOVANNI DA SALISBURY. Se ci possiamo interamente fidare di Giovanni da Sali-sbury, il quale spesso in verità si è limitato a metter giù impressioni generiche, e in buona parte puramente a memoria (v. appresso la nota 536), in quei decenni il corso seguito dalla logica nel suo svolgimento, in quanto essa fu rielaborata in compendi (artes) o in com¬ menti o semplicemente in glosse 51 ), sarebbe 6tato in complesso il seguente. Giovanni parla cioè di un awer- M ) Abael. Dialect., ediz. Cousin, p. 436: Sed quia labor hujus doclrinae diuturna*.... jatigat Icctores, et multorum studia et aelates sublilitas nimia inaniter consumit, multi.... de ea diffidentes, ad ejus angustissimas fores non audenl accedere; plurimi vero ejus subtili- tate confusi, ab ipso aditu pedem referunt. 51 ) Joh. Sakesb. Metal., ITI, Prol., p. 113 (ed. Giles, voi. V [ed. Wclib, p. 117; PL): Nec in transitu vel semel dialecti- corum attigi scripta, quae vel in arlibus vel in commentariis aul glosematibus scienliam pariunt aut retinent aut reformanl. II sario della sua concezione della logica, da lui simboli¬ camente denominato Cornificio (v. appresso le note 528 se.), e in tale occasione dice 52 ) che quel modo di fare, venuto in voga, di chi, senza uno studio metodico e faticoso, vuol diventare filosofo, ma riesce in realtà a diventare solamente un sofista e a addestrare gli altri nella pura sofistica, proviene da quella scuola, nella quale ) Ibid., I, 1, p. 13 [ed. Webb, p. 8]: Cornificius non ter, stu- diorum eloquenliae imperilus et improbus impugnatoti. (2, p. 14 [ed. Webb, p. 9]): populum qui sibi credat habet; et.... ei.... turba insipientiurn adquiescit. lllorum tnmen maxime, qui.... videri quam esse appelunt sapientes.... 3, p. 15 ss. 110J: sine arlis beneficio.... faciet eloquentes et tramite compendioso sine labore philosophos.... Eo autem tempore ista Cornificius didicit quae nunc docenda re- servut,... quando in liberalibus disciplinis Intera nichil erat et ubique spiritus quuerebutur, qui (ut aiunt) latet in littera. Ylum esse ab Hercule, validum scilicel argurncnlum a forti et robusto argumen- tutore..., et in hunc modum docere omnia, sludium illius aetatis erat. Insolubilis in illa philosophantiurn scola lune temporis quae¬ stio habebatur, an porcus, qui ad renalicium agilur, ab homine an a funiculo teneatur. Item, an capucium emerit qui cuppam integram comparava. Inconveniens prorsus erat oratio, in qua haec verbo, «conveniens » et « inconveniens », « argumentum » et « ratio» non perslrepebant, multiplicatis particulis negativis, et traiectis per « esse » et « non esse », ita ut calculo opus esset, quotiens fuerat di- sputandum. Sufficiebat ad victorium verbosus clamor; et qui undecumque aliquid inferebat, ad propositi perveniebat metam. Eoe- tae, liisloriographi habebanliir infames, et si quis incumbebat labo¬ ri bus anliquorum (cioè degli autori dell’antichità, Porfirio, Boezio), .... omnibus erat in risum. Suis enirn atit magistri sui quisque incum- bebat inventis. l\ec hoc tamen diu licitum, curn ipsi auditores.... urgerentur, ut et ipsi, spretis bis quae a doctoribus suis audierant, cuderent et conderent novas scctas. Fiebant ergo summi repente phi- losophi; nani qui illiteratus accesserat, fere non morabatur in scolis ulterius quam eo curriculo temporis, quo avium pulii plumescunl. Jtaque recentes magistri e scholis ... pari tempore.... avolabanl. Bcce nova fiebant omnia; innovabatur gramalica, immutabatur dialectica, contemnebatur rethorica; et novas totius quadruvii vias, evacuatis priorum regulis, de ipsis philosophiae aditis proferebant. Solam « convenientiam » sive « rationem » loquebantur, « argumen¬ tum » sonabat in ore omnium, et.... nominare.... aliquid opertim naturar instar criminis erat aut ineptum nimis aut rude et a phi- losopho alienum. Impossibile credebatur « convenienter » et ad rationis » normam dicere quicquam, aut facere, nisi « convenien- tis» et « rationist mentio cxpressim esset inserta. Sed nec argu¬ mentum fieri licitum, nisi praemisso nomine argumenti [PL ci si voleva mostrar geniali di suo, con l’occuparsi, sen¬ z’altro fondamento che l’attitudine logica innata, di con¬ troversie del genere più balordo (p. es., se un maiale, portato al mercato, è tenuto dalla fune o dall’uomo, e simili), sempre tuttavia sputando con arrogante alba¬ gìa alquanti termini tecnici della logica, — un indirizzo, questo, tanto intollerante nei riguardi di qualsiasi altra scienza e studio, quanto destinato, con la sua mania del nuovo e il rapido trapasso dall’apprendere all’insegnare, a frantumarsi subito nella più confusa varietà di vedute individuali. Questo anfanare senza ima direzione, ha avuto ora per conseguenza 53 ), che ialini, persuasi della vanità di siffatte cose, in preda a un pessimismo uni¬ versale, si son rifugiati nei monasteri, altri han posto mano, a Salerno e a Montpellier, allo studio della me¬ dicina, per coltivare ora questa scienza con lo stesso spirito cavilloso che prima mettevano nello studio della logica : ma altri a lor volta cercavano di campare alle corti dei ricchi e dei potenti, e altri infine, a nulla pensando fuorché a guadagnare quattrini, si son dedi¬ cati alle sfere più basse di attività (v. appresso la nota 530): insomma, con tutta questa genia, la logica e la scienza in generale son cadute nel massimo dispregio. In seguito tuttavia — continua Giovanni ) — per opera ") Ibid., c. 4, p. 18 ss. [ini. Webb, p. 12; PL,  Alii namque monuchorum aul clericorum claustrum ingressi sunt.... de- prehendentes in se et aliis praedicantes quia quicquid didicerant vanitus vanitatum est. Alii autem.... Salernum vel ad Montem Pessulanum projecli, facti sunt clientuli medicorum, et repente, quales fuerant pliilosophi, tales in momento medici eruperunt...Alii.... se nugis curiulibus mancipaverunt ut, magnorum virorum patrocinio jreli, possent ad divitias aspirare.... Alii autem.... ad vulgi profession.es easque profanas relapsi sunt; parum curante* quid philosophia doceat.... dummodo rem faciant  f 11 » 6 > P- 138 [ed. Webb, p. 143; PL, 199, 904]: Non... inanem reputem operam modernorum, qui equidem nascentes et convalescentes ab Aristotile, inventis eius nudlas adiciunt rationes et regalas prioribus aeque firmas..Habemus graliam.... Peri¬ patetico Palatino, et alus praeceptoribus nostris, qui nobis proficere studuerunt vel in explanatìone veterum vel in inventione novorum. ) Epist. 181 (voi. I, p. 298, ed. Giles) [PL, 199, 179]: Sludiis tuis cangratulor, quem agnosco ex signis perspicuis in urbe garrula et ventosa, ut pace scholarium dictum sit, non tam inutilium argu- mentationum locos inquirere, quam virlutum. Tuttavia è anche pos¬ sibile, poiché non sappiamo nient’allro sul conto del Maestro Ra- «E*» N,CER ' destinatario dt questa lettera, che per urbs ventosa debba intendersi Avignone, essendo passato in proverbio: « Avenio ventosa, stne vento venenosa, cum vento fastidiosa » fluiva col non sapere nemmeno più quale fosse la opi¬ nione sua propria S8 ) : e intanto poi, per amor di gloria personale, si disprezzavano anche gli autori antichi, e si metteva da parte quell’ordine, al quale la logica sco¬ lastica si soleva attenere 5B ). E infine vien fatta ora inol¬ tre espressamente la osservazione, che questo enorme e stupido dispendio di tempo e di energie aveva per suo principale obbietto la Isagoge, e che questa veniva com¬ mentata, assumendosi a compito esclusivo e supremo la contesa intorno agli universali 60 ), sicché da ultimo nella *') Melai., II, 6, p. 72 [od. Webb, p. 71]: Indignantur.... puri philosophi et qui omnia praeter logicam dedignantur, aeque gram- maticae ut phisicae experles et ethicae.... c. 7, p. 73 [72] : qui da- mant in compilis et in triviis docent, et in ea, quam solam profi- tentUT, non decennium aut vicennium, sed lolam consumpserunt aelatem.... Fiunt itaque in pile rili bus Achadcmici senes, omnem dictorum aut scriplorum excutiunt sillabam, immo et litleram; dubi- lanles ad omnia, quaerentes semper, sed numquam ad scientiam pervenientes; et tandem convertuntur ad [73] vaniloquium, nescien¬ te* quid loquantur aut de quibus asserant, errores condunt novos, et antiquorum (cioè degli autori dell’antichità, come più sopra, nota 52) aut nesciunt aut dedignantur sententias imitari. Compilant omnium opiniones, et ea quae eliam a vilissimis dieta vel scripta sunt, ab inopia iudicii scribunt et referunl.... Tanta est opinionum oppositionumque congeries, ut vix suo nota esse possit auctori [PL], — lbid-, c. 18, p. 93 [96; PL] : De magistris ani nullus aut rarus est qui doctoris sui velit inhaerere vesligiis. Ut sibi faeiat nomea, quisque proprium cudit errorem. — Polycr., VII, 12, p. 126 [cd. Webb, li, p. 141] : Veterem.... quaestionem in qua lobo- rans mundus iam senuit, in qua plus temporis consumptum est quam in adquirendo et regendo orbis imperio consumpserit Coesa- rea domus.... Haec enim tam diu multos tenuit ut, cum hoc unum in tota vita quaererent, tandem nec istud nec aliud invenirent [PL, 199, 664]. V. inoltre appresso, nota 540. “1 Enthetìcus, v. 41 ss.: Si sapis auctores, veterum si scripta recenses, Ut staluas, si quid forte probare velis, Undique clamabunt « i ctus hic quo tendit asellus? Cur veterum nobis dieta vel acta refert? A nobis sapimus, docuit se nostra juventus, Non recipit ve¬ terum dogmata nostra cohors. Non onus accipimus, ut eorum verbo sequamur, Quos habet auctores Graecia, ROMA colit.... » (v. 59) « Temporibus pioniere suis veterum bene dieta. Temporibus nostris jam nova sola placent ».... Haec schola non curat, quid sit modus, ordove quid sit, Quam teneanl doctor discipulusque viam [PL Metal., II, 16, p. 89 [ed Webb, p. 901: Sed quia ad hunc elementarem librum (cioè le Categorie) magis elementarem quodam- STORIA DELLA LOGICA IN OCCIDENTE disamina dello scritto di Porfirio si finiva con il cac¬ ciar dentro tutta la filosofia, offrendosi in tal modo un campo alla sodisfazione della vanità personale, e ugual¬ mente recandosi danno all’insegnamento La polemica intorno agli universali: si PUÒ DIMOSTRARE CHE ALMENO TREDICI ERANO LE CORRENTI, NELLE QUALI SI DIVIDEVANO LE OPINIONI SU QUESTO PROBLEMA. Così le notizie, di carattere più generale, trasmesseci da Giovanni da Salisbury, ci portano natu¬ ralmente a prender in esame le controversie intorno agli universali, e da quel che abbiamo veduto sinora, ci è lecito concliiudere legittimamente, che la contesa di¬ vampò, in quella maniera unilaterale e sofistica, nei primi decenni del secolo XII, sicché qui si presenta ma¬ nifesta la connessione storica con la comparsa di Ro- scelino e con le lotte insorgenti in quell’epoca (v. la Sez. precedente, note 312 ss., e particolarmente 326). Ci sono anzi ragioni interne, militanti a favore della opi- modo scripsit Porphirius, eum ante Aristotilem esse credidit anti- quilas praelegendum. Recte quidem, si recte doceatur; id est ut tenebras non inducat [91] erudiendis nec consumat aetatem.... c. 17, p. 90: Naturam tamen universtdium hic omnes expediunt, et altissi- munì negotium et maioris ìnquisitionis contro menlem auctoris expli- care [92] nituntur. — Ibid., Ili, 5, p. 136 [141]: qui in Porphirio aut Categoria explanandis singuli volumina multa et magna con- scribunt [PL, 199: 873-4, 903]. Ciò trova conferma in una espres¬ sione di Abelardo: v. appresso la nota 104. I Ibid., I], 20, p. 113 [ed. Webb] : Nec fideliter cum / or ph trio nec utiliter cum introducendis versantur qui omnium de generibus et speciebus recensent opiniones, omnibus obviant, ut tan¬ dem suae inientionis erigant titulum. — Ibid., Ili, 1, p. 117 [ c d. Webb, p. 121]: Austerus nimis et durus magister cst'lollens quod positura non est et metens quod non est seminatum, qui Porphirium cogit solvere quod omnes pbilosophi acceperunt; cui salisjactum non est, nisi libellus [122] doceat quicquid alicubi scriptum inve- nitur. — Polycr., VII, 12, p. 129 [ed. Webb, II, p. 144]: Qui ergo Porpniriolum omnibus philosophiae partibus replent, introducendo- rum obtundunt ingenia, memoriam lurbant | PL, 199: 888, 891, 666], Vedi inoltre il passo di Guglielmo da Conches, che si tro¬ verà citato appresso, ne, secondo la quale, a partir da quel momento, nelle controversie concernenti gli universali, sarebbe stata piuttosto prevalente, in un primo tempo, la concezione nominalistica : non soltanto infatti è indizio di una tale prevalenza la circostanza, che quei cultori della logica, a quanto riferisce Giovanni, assumevano un contegno esclusivistico e intollerante contro qualsiasi scienza reale (note 52 e 58), ma riesce anche facile argomen¬ tare che gli scrittori citati da Giovanni, come beneme¬ riti del risveglio degli studi di logica, tutti quanti alieni da un nominalismo estremo, o anche in parte avanzati sino ai limiti estremi del realismo, hanno provocato o promosso in ogni caso una rivoluzione, la quale deter¬ minò il passaggio dai principii nominalistici verso dif¬ ferenti cammini. Ma da una più esatta e approfondita ispezione delle fonti a noi accessibili, risulta chiaro che, per tale ri¬ guardo, come abbiamo già detto, il dissidio delle opi¬ nioni non si aggirava soltanto entro i limiti di un con¬ trasto dicotomico o tricotomico, bensì si manifestava di¬ stinto in una serie di graduazioni più numerose. La più precisa notizia ce la dà ancor una volta Giovanni da Salisbury, e, stando a quella, la diversità di opinioni relativamente agli universali, ha preso la forma seguente: 1) la opinione di Roscelino, che gli universali sieno voces 6J ) : — v. le note 76 ss. di questa Sezione; 2) quella di Abelardo e de’ suoi seguaci, che cioè gli universali vadano ridotti a sermones, non potendo K ) Metal., Il, 17, p. 90 [ed. Webb, p. 92; PL, 199, 874], dove alle parole testé citate (nota 60) fa seguito immediatamente quel passo intorno a Roscelino, che abbiamo veduto alla nota 318 della Sezione precedente. mai il predicato di una cosa esser esso stesso una cosa 03 ): — v. appresso le note 283 ss.; 3) la tesi, che intellectus o nono, nel senso attri¬ buito a questi termini da Cicerone (cioè dagli Stoici), sia ciò che si chiama « universale » M ) : — v. appresso le note 581 se. Da costoro Giovanni distingue poi quelli che si ten¬ gono attaccati alle cose ( « rebus inhaerent »), ma a lor volta si scindono in varie tendenze, e dunque: 4) la opinione che fu poi subito ancora abbando¬ nata, di Gualtiero da Mortagne, secondo la quale gli uni- e! ) lbid.: Alius sermones intuetur et ad illos detorquel quicquid alicubi de universalibus meminil scriptum ; in hoc attieni opinione deprehensus est Peripateticus Palatinus Abaelardus nosler, qui mul- tos reliquit et adhuc quidem aliquos habet professionis huius seda- tores et testes. Amici mei sunt ; licet ita plerumque captivatam de- torqueant litleram ut vel durior animus miseratione illius movetur. Rem de re praedicari monslrum dicunt; licet Aristotiles monstruo- sitatis huius auctor sit, et rem de re saepissime asseral praedicari; quod palam est, nisi dissimulent, familiaribus eius. **) lbid. (in continuazione): Alius versatur in intellectibus, et eos dumtaxat genera dicit esse et species. Sumunt enim occasionem a Cicerone et Boetio, qui Aristotilem laudani auclorem, quod haec credi et dici dcbeant noliones. « Est autem », ut aiunt, « notio ex ante perceplu forma cuiusque rei cognitio enodatione indigens » (cosi effettivamente Cicerone, nel passo citato alla nota 37 della Sez. Vili, passo che mostra tuttavia nello stesso tempo com’egli si riferisse non già ad Aristotele, bensì a « Graeci », cioè agli Stoici). Et alibi; « Nodo est quidam intellectus et simplex animi concepito » (così Boezio, ad Cic. top. [Ili], p. 805 [PL, 64, 1106], dove si com¬ menta quel passo di Cicerone: solo [che in Boezio si legge r, " ltUr - ea in Versoi r "“°" e singularibus specialissima gene- lerce 1 aque ™nstuml. Sunt qui more mathematicorum « fornuis » 142] rifinì AW'/ 1  lddquid de univLalibus lert.l.,,1 referunl. Alu discutiunt « tntellectus » (3) et eos uni- iZ “ U uomimbus censeri confirmanl. Fuerunt et qui «voces» (lt ìm*h. UùJZ U L S "'“ *•-»» «M,,c qui r l JVella ediz. Cousin degli Outr. inéd. d’Abélard p 513- n P genertbus et speciebus diversi diversa sentiunt. Alii namqul voces rebus Zo a n?hil P ho PS «dngularcs esse affirmant, in rebus vero mìni horum assignant. Alti vero res generales et spe- ciales universales et singulares esse dicunt; sed et ipsi interne cieTe» 0 *, ' ntlUnt P'"d« m enim dicunt singularia individua esse spe- cies et genera subalterna et generalissima, alio et alio modo alterna mento la distinzione tra coloro che qualificano gli uni¬ versali come vox [voces], e quelli che li considerano come res, ma della posizione di questi ultimi vengono nominate soltanto due sottospecie, cioè 10) la così detta ratio indifferentiae (v. appresso le note 132 ss.) e 11) il punto di vista di Guglielmo da Champeaux, — v. le note 102 ss. Di queste varietà di opinioni parla inoltre una volta anche Abelardo 7S ), ricordando, in seno al realismo, pri- (lo stesso autore indica questa opinione come « sentendo de indif- ferendo »: v. appresso la nota 133). Atti vero quasdam essendas universales fingimi, quas in singulis individuis totas essentialiter esse credunt (che qucst'ultima sia la opinione di Guglielmo, risulterà chiaramente appresso). ™) iE cioè nelle Glossulae super Porphyrium, già più sopra (nota 13) ricordate, e riferite dal Rémusat, op. cit., p. 96 (neanche qui purtroppo ci vicn fatto conoscere il testo originale): La grande queslion que PorphyTe indique en débutant.... arrète Abélard, et il est presque obligé de la traiter seulement pour la poser. Toules les opinions sur les universaux se prévalent, diuil, de grundes auto- rités [testo originale, ed. Geyer: «De generibus et s pe¬ ci eh us quaestiones enodarc compeUiinur, quas (nec ipse Por- pkyrius ausus est solvere, cum cas tamen tangendo ad earum inquisitionem accenda! lectorem ». E, dopo aver accennato alla va¬ rietà delle soluzioni proposte : «tamen unusquisque lue- tur se aurtorilate i u d i c e » (p. 512)] (già qui la traduzione del Rémusat è sbagliata, poiché nella nota egli riproduce le parole dell'originale, « unus quisque se tuetur auctoritale iudice », e queste voglion dire che ciascuno avvalora la propria opinione con l’auto¬ rità tradizionale, cioè Aristotele).... p. 97 : Le premier syslème est celiti de l’existence des choses universelles. lì est plusieurs manie- res de Vétablir. Suivant l’une eie. [Geyer, p. 515: .... primam (se. sententiam de universalihus) quae de rebus est, primi- tus exequamur. De qua etiam sunt plurcs opiniones, cum alii aliter res universales esse affirmant. Nominili cnim....] (ora viene la opinione di Guglielmo da Champeaux: v. appresso la nota 105)... p. 99: «La seconde manière» ecc. [Geyer,  ma di tutto le due tesi dottrinali anche testé ricordate, ma poi 12) una concezione, secondo la quale la differenza ra genere e individuo risiede soltanto in un modo par- ticolare (propalasi) di esistere, in quanto che 1W versale può presentarsi così in parecchie cose insieme come anche in esseri singoli. Invece nel De intellectibus del Pseudo-Ahelardo (v appresso le note 416 ss.) si trova soltanto espressa, in amerà ^determinata e generica, la distinzione tra rea- sii, nominalisti, e opinione di Abelardo u ). l'ZL'mZp mTtó, appreso pou r soutenir que les universali sonldesdoses VoulZT "T^ la communauté, l’on dii ai,'entri- l„ Voulant expliquer singtdière est une diffide TlrtruTl et l * cho.se a etre universelle, la proprietà ani Inni' ",> . ropne, ' i ( l ul consiste mal, le corps est nniZZl et Zel " ? ^ • bt ****- L'ani- et quelque corps ; mais dire  un étre qui aliter re, universales esse videninV affi “ " n® r, u m a 1 i i, nitatem assignnntes dicunt rem .,t;„ • ®,rniare * Hj re bns comrmi- id est alterins proprietatis (il C uru . ver . 6a ^ em > aliam singularem, inéd., p. 522 IDe Zen et s Jc \ « V “ CoVSIN ’ Ou.tr esse ex hoc quod est onivTsai et ^ V ” EAV ’ V, 313) Iaris. Ut animai est universale et mm!!""* h ° C q ” od est sin SB- vel aliquod corpus. Tale est enini ^ ’ j CC t ? men al| quod animai mal esse universale, ne si dieatnr- ni. Undum,lanc sen tentiam ani- animal est, et tale est hoc animai " a s “ nl quorum unumquodque dieatnr: una sola rea«J°hoc d T, 8ol °» ac - espressa in forma indeterminata la r „ n l . na]ment ^ (P- 106) segue, voces [cfr. Geyer, p. 522 - 31 . ’ oncezione degli universali come ^à-VtoZ^ 63 : Philosophie sco - Quidam enim volimi omnZloZ f * diversa -^ntiunt. dam nullas ^ro folti snnt (mane. Il lo,., ”ha "“(til T :zh r p- * T„,-irr rato vel albo Zane cana l VOCabul °' !" ^pus ipsum a colo-altri invece, e certamente i più sconsiderati e più radi¬ cali, come p. es. un tal magister « \ . si appigliavano unicamente al « significare », sì che per e6si in ciascuno dei predicati assegnati a una cosa qualunque, si trova insieme già significata la cosa stessa: e degno di nota è che costoro si appoggino per tal riguardo alla gram¬ matica, secondo la quale ogni nome significa così una sostanza, come anche, al tempo stesso, una qualità 83 ). Dovevan essere nominalisti di quest’ultima specie anche coloro che, forse seguendo in maniera unilaterale le vedute di Rosceliuo (Sez. precedente, nota 321), si spin¬ sero sino ad affermare che la semplice dictio (vale a dire la parola singola, in opposizione con il giudizio) non porta in generale affatto in sè parti dell’atto intel¬ lettivo, vale a dire neanche parti simultanee, bensì come un punto, comprende in uniLà indifferenziata tutto quel che cade entro l’accezione della parola 84 ). — Alcune particolari conseguenze del nominalismo, in ordme alla teoria delle categorie, vedile appresso, alle note 196 s. e 199. M J lbid.: ....Hi vero, qui onirtem vocum impositionem in signi- ficutionem deducunt, auctorilatem protendimi, ut eu quoque signi¬ ficati dicant a voce, quibuscumque ipsa est imposila, ut ipsum quo¬ que hominem ab animali, t ei Socratem ab homine, vel subjectum corpus ab albo vel colorato; nec solum ex arte, verum edam ex auctoritate grammalicae id  conantur ostendere. Cum enim tradat grammatica, omne nomen substantium cum qualitate signi¬ ficare, album quoque, quod subjcctam nominat substantium, et qua- litqlem determinai circa eam, utrumque dicitur significare (dunque, secondo il Cousin, questo dovrebb’essere il modo di vedere proprio del realista Guglielmo da Cbampeaux!). M ) Pseudo-Auael. de ititeli-, loc. cit-, p. 472: Sunt iluque intei- lectus conjunctarum ve! divisatimi rerum, dictionum tantum; coti- jungentes vero vel dividentes intellectus, oralionum tantum sunt. liti quippp simplices sunt, isti compositi (Tale la opinione del- 1 Autore). Sunt plerique fortassis (cioè nominalisti), qui intellectus simplices nullas ninnino purtes habere concedant, ncque scilicet per sticcessionem nequc simili (vale a dire parti non-simultanee, o suc¬ cessive, ne ba in generale soltanto il giudizio, ma non mai la parola singola). Qui enim, inquilini, plura simul intelligit, una simplici actione omnia simul attendit [Arali.. Opera, ed. Cousin, La teoria che gli universali sono « ma- neries » : Ucuccione]. — Ma era certo una ramifica- zione del nominalismo la tesi sostenuta relativamente alla « manerics » (v. sopra la nota 69); poiché è vero che Giovanni da Salisbury l’annovera tra le opinioni realistiche; ma, d’altra parte, non soltanto suscita in noi gravi dubbi quel passo di lui, riferito più sopra (nota 70), dov’egli già finisce con il qualificare tutto quanto come realismo, bensì dobbiamo anche tener conto di un’altra fonte d’informazioni: infatti, secondo quel che viene altrove perentoriamente riferito, erano i nominalisti che, a sostegno della loro opinione, se- condo la quale generi e specie sono soltanto le parole, piu universali o più particolari, enunciate nel soggetto o nel predicato, senz’altro denominavano, nei rispettivi passi di Boezio e di Aristotele, la « res » « vox » e il « ge¬ misi « maneries » *>). La parola « maneries » per "se stessa non e, parimente, nè così mostruosa nè così rara, come Giovanni mostra di ritenere nella notizia più sopra’ riferita: non soltanto infatti la s’incontra, con accezione generica, in Bernardo da Cliiaravalle 8S ), ma, addirittura in senso specificamente logico, in un altro au- ) De gen et spec., loc. cit., p. 522: Ntmc illam sementiam quue toces solas genera et species unìversales et partici,lares prae- subjectas asserii et non res, insistamus.... ( p 523 ) Boe- thius, ira commentano super Categorias ([L. I], p . 114 rp[, 64 162n dici « quoniam rerum decem genera sunt prima, necessefuUdSem suhilrH i eSS \ S,m f. llces voces > dune de simplicibus fin Boezio- subtectis J rebus d,perenti,r ». Hi tamen exponunt: « genera id est Z"Z1* S L r : 0 r dam ™ Aerili 1 S f 7 Jm - rme p aS,raduzi0ne di BOEZIO [Prima Ldino, 1, 7. ed. Meiser, Pars Pnor, p. 82; PL, 64, 318], p 233)- «rerum alme sani unìversales, aline sunt singulares». Hi tamen rUatibic Lo r onTì;,d T ° C " m HU "“ tem tnm «PertM aucto- mentili aut e n‘ l ir"* ",lentes ’ aut di ™nt «udori,a,es TncTdunt. P labor «utes, quia excoriare nesciunt, pellem . Epi y- 402 S° pera ’, d - Martène, Venezia, 1765, 1, p. 156)- m"614] 1 wn ' s pro *,f!lll ° sU - dilla ad mommi non erat [PL, tore dei primi del Duecento, cioè nel canonista Uguc- cione (morto nel 1212), il quale nel suo scritto lessi¬ cale definisce « species » come « rerum maneries » 87 ). E a quel modo che questa parola (il francese « manière »), se stiamo alla sua precisa etimologia, ci riporla da ul¬ timo al significato di « maneggio » o « modo di trat¬ tare » [« Behandlungsweise » da « Hand », come «ma¬ neries » da « manus »] S8 ), cosi, nel suo uso logico, ha do¬ vuto anzitutto significare il modo d’intendere subbiet- tivo, e pertanto raccostarsi alla concezione nominali¬ stica, o a quel tale « colligere » che abbiamo veduto alla nota 68; invece, soltanto allorché «maneries» dall’ac¬ cezione « maniera, guisa », a poco a poco fu volta a si¬ gnificare una « sorta », fu possibile prenderla, come ter¬ mine della logica, in senso oggettivo, per tal modo che potè entrare in giuoco la questione dello « status » (nota 65), sebbene, anche trattandosi di « sorta », venisse an¬ cor fatto abbastanza facilmente di pensare all’ « assor¬tire » (cioè colligere).  I Platonici: a) Bernardo da Cliartres Gli avversari unilaterali degli unilaterali nominalisti fu¬ rono comunque i veri e propri platonici, tra i quali ci si presenta per primo, come principale rappre¬ sentante, Bernardo da Cbartres, soprannomi- *0 Uguccione, autore di una Stimma Decrelorum e di altri scritti canonistici (sul conto di lui, notizie più precise nel Sarti, de claris- simis Arcbigymnasii tìononiensis projessoribus, I, p. 296 ss., c nella Prefazione del Du Cange al suo Glossario,Ugutionis vocabularium »]), aveva scritto un vocabolario (liber derivationum), ricavato in parte da quello su ricordato (Sez. precedente, note 286 ss.) di Papias, e conservatoci in numerosi manoscritti. Da esso il Du Cange j. v . «Maneries » riferisce le seguenti parole: Species dicitur rerum Maneries, secundum quod dicitur « Herba huius speciei, id est, Maneriei, crescit in borio meo ». “) Vedi Diez, Etymtdogisches Wórlerbuch der romanischen Sprachen, p. 216 [s. v. «Maniero», p. 203 della 5" ediz.j. Parola del tutto diversa è maneria, derivante da maneo e affine a mansio, con il significato di « soggiorno » (v. il Du Cance, s. v. « Maneria »).nato Sìlvester (viveva intorno al 1160). [Oggi dai P,U . 81 r,t, ° '' dell, pera idea platonica, laddove il “tLÀTSH”' fica iniziarsi della mescolanza co „ "*”>la olitolo l’aggettivo {album) è ritenuto e, •’ m °“ lre contaminazione insanabile della idea coó 1 T"' '* orna Pertanto ci didicUe del".;.7b ‘ “"T sieno state rese ne.» . «eptorare che non ci * —i .™.,r,:;LT H ~ ri,e nere)], _ PmtaLtt',2ri tu’in  893hVr"“ a o f C 2;;.™* idem 120 [ed i Wcbb ’  124; PL AÌebai a R et q “ Ìbus dominamtur den °- a ~r, 2 ?»SSS. tn ffi emm il/ud, ‘ x culiàs^ l qùod^vJ r b 1 ui^ l lg > ',t ^ nem,/ >v. nelle Opere del Venerabile Beda (ediz. di Colonia, 1688, li. p. 206 ss. [PL, 90, 1127 ss.]). Ma proprio questa medesima parte della Phi¬ losophia detta minor la si ritrova da capo, non soltanto ristampata nella Maxima Bibliotheca Patrum [di Lione], voi. XX, p. 995 [PL, 172, 40 ss.], dov’è indicato come suo autore Onorio da Autun (Sez. precedente, nota 373) [Honorii Augustodunensis De Philo¬ sophia Mundi 11 IVI. bensì ancora in un libro che sta a sè, con il titolo: Philosophicarum et astronomicarum institutionum Gui- lei mi, Hirsaugiensis olim abbatis, libri tres, Basilea, 1531, in -4°. (Questo abate Guglielmo da Hirschau, nato nel 1026, morì nel 1091: v. Pertz, MGH, VII, p. 281; XII, p. 54 e p. 64 ss.; XIV, p. 209 ss.). Se ora 1’ Hauréau ( Singularilés hist. et litlér., p. 240) a favore dell’attribuzione di quello scritto a Guglielmo da Conches può richiamarsi a un manoscritto di Parigi, e nello stesso tempo allega la testimonianza di Guglielmo da S. Thierry, un avversario contemporanco, io ritengo senza dubbio questi argomenti conte de¬ cisivi, ma è da richiamare in ogni caso l’attenzione sopra il fatto che nella stampa nominata per ultima (fatta astrazione da frequenti piccole modificazioni della espressione letterale) è menzionato in più luoghi per nome l’autore arabo Costantino Cartaginese, e del pari è nominato una volta anche Johannitius, cioè Hunain Ibn Tshàk, mentre nelle altre edizioni a stampa, in luogo di questi nomi figurano soltanto le espressioni indeterminate « philosophus » o « philosophì », sicché questa variante richiede forse ancora una ri¬ cerca più approfondita. Le glosse di Guglielmo da Conche* al De consol. phil. di Boezio ei sono state fatte conoscere da Ch. Jour- DAIN (nelle Notices et Extraìls des manose., voi. XX, p. 21. Ma se, come vuole 1’ Hauréau ( op. ull. cit ., p. 242 s.ì sia da attribuirai al nostro Guglielmo anche il commento al Timeo, che il Cousin (Ouvr. inéd. d’Abél., p. 644 ss. r648-157]) ha pubblicato in estratti, attribuendolo a Onorio da Autun, sarebbe cosa da lasciar in dubbio. Senza contestazione sono invece di Guglielmo quei frammenti [della secunda e tertia philosophia (Antropologia e Cosmologia)], che il Cousin ha pubblicati ibid.. p. 669 ss. r670-7. — 1,’Ott AVMNO ha curato la pubblieaz. di Un brano inedito della « Philosophia » di G. di C., Napoli, 1935, illustrando nella Prefazione lo stato attuale delle questioni relative]. glielmo »^) svolge, secondo I ‘ P l8tIca ~ che G u . grafìa, psicologia e fisica 9 ‘ c ). ben sì ^p 21 ™ 16 di co »nio- f, oens! ci limiteremo a quel Bcda, p. 207 r (PL. e 9o" 112820l  per mundi ère,,iohoc foctus est aLmT ** ° ngel,,s “-/"'deus \ f To nnifice ; (irlif(, x mundutn creanti )T°’  r,i ^ v„i. 75 ( 'i873! R ;.1;rs. dc,rArcatlt ' mi; d 'Vie.;:  poco clic c’è ila rammentare, in ordine alle questioni di logica vere e proprie. Guglielmo, che sul terreno della gnoseologia si pone dal punto di vista platonico, di un idealismo che pro¬ cede verso l’alto er ’), e anche espressamente sentenzia che tra i filosofi pagani egli dà la palma a Platone " 6 ), di¬ stingue si una quadruplice maniera di considerare tutte quante le cose, cioè dialettica, sofìstica, retorica, filoso¬ fica 87 ), ma relativamente alle prime due (quanto alle due ultime, è per lui cosa che già s’intende da sè) si schiera risolutamente dalla parte dei realisti, combat¬ tendo coloro che volevano escludere qualsiasi realtà, o infine da ultimo neanche volevano ammettere più i nomi delle cose, bensì, in generale, alquante parole solamente (che sarebbero poi le quinque voces) 9S ). Ma, analoga¬ mente allo Scoto Eriugena, egli almeno riconosce tut¬ tavia, richiamandosi a Boezio, che appartiene allo spi¬ rito umano la funzione d’imporre alle cose che hanno “) V. i frammenti riprodotti dal Cousin, op. cit., c special- mente p. 673 s. M ) Nella edizione già ricordata del Gratarolus, p. 13: Si gen¬ tili* adducenda est opinio, malo Plalonis quam alterius inducalur; plus numque cum nostra fide concordai. ”) Ibid., p. 4: De eodem numque dialectice, sophistice, rhelo- rìce, vel philosophice disserere possumus. Considerare numque de ali quo, an sit singultire un universale, est dialeclicum; probare, ip- sum esse quod non est vel non esse quoti est, sophisticum est: pro¬ bure, ipsum esse dignum proemio vel poena, rhetoricum: sed de natura ipsiusque moribus et officiis disserere, est pbilosophicum. Dialecticus ergo, sophistn, oralor, philosophus, de eudem re diversa considerunles et intendentes disputare possimi. ”) Ibid., p. 5: Quod intelligentes quidam res omnes a dialec- lica et sophisticu di sputulione exter minar erunt, nomina lamen ea- rum receperunt, eaque sola esse universalia vel singulttria prae- dicaverunt; deinde supervenit stultior aetas, quue et res et earum nomina exclusit alque omnium disputationem ad qualuor fere no¬ mina reduxit; ulraqiie tamen seda, quia non erat ex deo, per se defecit. Quei qualuor nomina non posson essere altro elle le quinque voces, escluso forse il proprium : in antitesi ron una siffatta ridu¬ zione di numero, incontreremo in compenso anche sex voces: v. la nota 278. mulo franti. ^r^roi 1 zj,,on'» - Se Be 'ZlTcZ, “‘“T* O—»»]. 8rao platonico, princiml mamfe8tava J ano reali- lenm affermazioni idealistiche"' 6 . e8prÌBlendo8Ì con so- ficanti, era in ogni caso imn ° 3 am P lificazi om edi- t0ria *”**• d i prender oranti JT ° ^ meri * relazione debba pensarsi che L,]i “ 8lderare “ quale esistenti, stiano con gl’individuf.- U1 "r erSah> come eose c7° C ° nSÌ8te Ia ^portanza 2*^J, * ten * C h ani P e a ux (morto nel 119 !) ; U ^ llel «o da ! ma lo 8Ìeo, nel realismo di hii n ’ U pnnto * Imea, rispetto al pimto di ’ P “” ancora m seconda varsi tuttavia, fin da principio i ^ De ™ rile- Guglielmo da Champeaux siàm^l "‘T" 0 * Ue idee di C081 minutamente informati, ^,lmgi dall’essere 8in ; di ahri,. pe re h è rir; r r^ ioj,e dei c - assolutamente andar oltre il n na non Possiamo notizie, a noi accessibili, che,mnT° * ^ ghw - ono le a equivoci «»*). “ lascino per nulla adito w ) Ibid., p. 29 - o, • i Hit 12’un°A OCUlÌS muìlT 1 constituto tr :~«4 ^.rr »" stolrfe in prìmam T? “‘T"' sub °P™£ dicati?’s "’ m istn Stendi . aliai,,,,,,} * secun dam dividitur ali,, ‘H*’ un et e "b Ari - \ T ° P° S! "*sio. ’ allf P‘»ndo ... actus b . 199, 8321 ’ SARESB - I, s, p . 2, S li r . led - ^cbl», p. 16-7; PL Della produzione letteraria di Guglielmo, non ab¬ biamo sotto mano nulla, cbe riguardi oggetti di perti¬ nenza della logica 103 ) : siamo così ridotti a servirci prin¬ cipalmente di una notizia di Abelardo, il quale mena vanto di avere combattuto con felice successo le idee di Guglielmo intorno agli universali, di guisa che quest’ul¬ timo le modificò in misura notevole: ma con questo il suo insegnamento ci scapitò, per autorità e per concorso di uditori, a tal punto che finirono con il passare for- glielmo da Champeaux tutte quante quelle abbreviazioni (« magi- ster V. », « magister noster V. ») che si trovano nel manoscritto, nè più nè meno che quei passi, dove si trova « If illelmus » ; anzi ha persino fatto lo stesso in un certo luogo, dove (de gerì, et spec., p. 509) con le parole « Vel uliter secundum magistrum G. », è indi¬ cata in modo abbastanza chiaro una posizione antitetica a quella del mngister Willclmus antecedentemente (p. 507) nominalo, E co¬ me ora è francamente segno di leggerezza trovare ugualmente in quel magister G. un'allusione al nostro Guglielmo, cosi non è detto cbe in compenso abbiamo un punto di appoggio nell’abbreviatura € V. », tanto più che questa lettera stessa parla in senso contrario. Poiché Abelardo, prima di recarsi presso Guglielmo da Cliam- peaux, aveva cercato d’istruirsi presso tutti i dialettici eminenti ( Epist ., I, c. I, p. 4, Amboes. Ted. Quercetanus di Parigi 16161, [ed. Cousin, I, p. 4; PL, 178, 115]: Proinde diversas disputando perambulans provincias, ubicunque huius arlis vigere studium au- dieram, peripaielicorum uemulalor fuctus sum), come « magister no¬ ster » egli può indicare una quantità di uomini, dei quali ci è ignoto il nome, c dobbiamo guardarci daU’argomentare, senza suf¬ ficiente ponderazione, che si alluda a persone determinate, per evitar di andare fuor di strada (v. per es. più sopra la nota 82 ). Ma alle deduzioni del Cousin aderirono il Rousselot, l’Hauréau, e anche H. Rittcr. lra ) L’Hauréau (De la phil. scoi., I, p. 223 [cfr. Ili ut. de la phil. scol^, I, 322]) riferisce che il Ravaisson ha trovato, nella Biblioteca di Troyes, 42 frammenti di Guglielmo; e con la pubblicazione di questi frammenti, E. Michaud, nel suo scritto Guillaume de Cham- peaux et les écoles de Paris au Xll.e siede (2’ ediz., Parigi, 1868), si sarebbe potuto acquistare una benemerenza. In base a quel ch’è stato detto più sopra (nota precedente), non si può argomentare che Guglielmo da Champeaux abbia scritto «Glossulae super Pe- riermeneias », perchè il passo relativo nella Dialectica di Abelardo (p. 225) attribuisce uno scritto così intitolato semplicemente a un « magister noster V. ». [Ma ora son da vedere i 47 frammenti « Guillelmi Campellensis Sententiae vel Quaestiones XLVII » puhbl. da G. Lefèvrk. Les variations de Guillaume de Champeaux et la question des Universaux, Lilla, 1898, pp. 19 ss.]. malmente tutti alla opinione di Abelardo 104 ). Guglielmo cioè avrebbe affermato ili primo luogo che gli univer¬ sali, in quanto sono, nella loro unità, cose uguali, ineri¬ scono nello stesso tempo essentialiter, in indivisa tota¬ lità, a tutti cpianti gl’individui che cadono nella loro estensione, e pertanto fra gl’individui non sussiste dif¬ ferenza di essenza, bensì le differenze hanno fondamento soltanto nella molteplicità di determinazioni acciden¬ tali. E come ciò trova letterale conferma nel passo del De gen. et spec., citato più sopra (nota 72), ivi appunto ci viene data una spiegazione più precisa-la quale persino ci riporta a un passo, affatto isolato, di Boezio, e ci dà così maniera di veder bene addentro come il daf¬ fare che si davano a quel tempo con le controversie tra opposti indirizzi, avesse fondamento in minuzzaglie di erudizione scolastica, piuttosto che in contrasti intimi fra modi di vedere teoretici. IM ) Abaf.l. Epist., 1, c. 2, p. 4 [ed. Consinl : Perveni tandem ransius, uh, jam maxime disciplina liaec florere consueverat, ad \rUiUclmum scilicet Campellensem praeceptorem meum in hoc lune magisleno re et fama pruecipuum: cum quo aliquanlulum moratus primo et acceptus, poslmodum gravissimiis extiti, cum nonnuttas scuicet ejus sententias refellere conarer, et ratiocinari conira eum sae- pius aggrederer, et nonnunquam superior in disputando viderer tp. a) lum ego ad eum reversus, ut ab ipso rhetoricam audirem. mler caetera disputationum nostrarum conamina, antiquam ejus de uni versali bus sententiam patentissimis argiimentorum dispulationi- hus ipstim commutare, imo destruere compiili. Erat autem in ea senlenlia de commentiate universalium, ut eamdem essentialiter rem imam simul smgulis suis inesse astenerci individuisi quorum quidem nulla esset m essenti!, diversitas, sed sola multitudine accidentium va- netas. ile autem tstam lune suam correxil sententiam, ut deinceps rem eamdem non essentialiter. sed individualiter (la variante « indil- ferenter » [accolta dal Comuni, che la ed. d’Ambois segna in mar- gme Si trovava anche in vari manoscritti; vedi I’Hauréau, op. cit, 1, p. 236 ( H,st. de la ph. scoi., I. p. 3381), dicere,. Et.... quum hanc "le correxisset, imo coactus dimisisset sententiam, in tanlam lectio ejus devoluta est negligentiam, ut jam ad dialecticae lectionem vix admitteretur: quasi in huc scilicet de universalibus senlenlia tota hiijiis artis consisterei summit (cfr. la nota 60). Ilinc tantum roboris et auctontatis nostra suscepit disciplina, ut ii, qui antea vehemen- j nogutro tilt nostro adhaerebant. et maxime nostram infestabant aoctnnam. ad nostras convolarent scholas fPL Affermava cioè Guglielmo che in quel quid di acci¬ dentalmente superaddito (adveniens) son da ravvisare le forme individuali, le quali improntano la materia, consistente nel concetto del genere (malcriam infor¬ marli), in tal maniera, che con ciò la essenza univer¬ sale ne risente una individualizzazione secundum totam sitarti quanlitatem : e lo stesso può ripetersi poi, a que¬ sta maniera, per tutta quanta la scala, dal genere, attra¬ verso la specie, sin giù giù airindividuo 103 ). Inoltre, co¬ me riferisce altrove Ahelardo, Guglielmo, incomin¬ ciando dalle dieci categorie, svolgeva a fondo questo pro¬ cesso d'informazione giù giù sino agl’individui, e poteva allora, poiché quelle stesse forme più individuali diffe- renzianti rimandano da capo agli universali, spiegare la predicahilità degli universali con il fatto che questi spet¬ tano agl'individui, o essenzialmente o adiettivamente iadjacenter) 10 °). Ma proprio in ciò consiste decisamente Ite gen. et sper., p. 513 s. : Uomo quaedam species est, res una essenti ali ter, cui adveniunt forntae quaedam et efficiunt Socra- lem: Ulani eamdetn essentiuliter eodem modo informata formae fa- cientes Platonern et caetera indiridua hominis ; nec aliquìd est in So¬ crate, praeler illas jormas informanles il latti malcriam ad fuciendum Socratem, quia iìlud idem eodem tempore in Platone informatimi sit formis Plalonis. Et hoc intelligunt de singulis spcciebus ad individua et de generi bus ad species.... Ubi enim Socrates est, et homo univer- salis ibi est, secundum totani suoni quantitatem informatus Socratitate (riguardo al concetto di Socratitas, v. la concezione corrispondente di I orfirio e Boezio: Sez. XI, nota 43). Quicquid enim res universalis suscipit, tota sui quantitate retinet.... Quicquid suscipit, tota sui quoti- filale suscipit. Ma anche questo' è proprio ricavato da Boezio, che dice, a proposito della differenza {ad Porph. a se transl., p. 87 tEd. Brandt, IV, 9, p. 263; PL, 64, 1261): Aeque enim sicnt in corpore so¬ ler. esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potcst; getius enim per se consideratimi partes non habet, itisi ad species referalur. Quicquid igitur habet, non purtibus, sed tota sui magnitudine reti- nebit. Cosi, dove si tratta di storia della filosofia medievale, spesso 1 apparenza [della originalità, o della novità! viene a ridursi | grazie alla indicazione delle fonti antiche] a quella ch’è la vera sua portata: “ r - H U ' a PP r re riprod. XTTe": dÌ  ( ?* differentiam et secundum IdZtiZ^eZd^^' ^ Secundum intUfferentiam l>, e J ll *dem prorsus essentiae. — - n hZ£ s : adem -=£t2; nrtlSTò ifhix Sfe isrF"’ SS ff *7 rs s »;s£*Atas pure appartiene infine alla tradizione la notizia isolata, che, riguardo alla topica, egli portava la essenza della inventio a consistere nella scoperta di un termine me¬ dio 110 ). [§ 21. — Le difficoltà e i gradi del realismo]. — È probabile che proprio le difficoltà, alle quali si trova esposta la opinione di Guglielmo da Champeaux, ab¬ biano dato ai realisti — mentre in generale essi pote¬ vano approvare il punto di vista di lui — motivo di scindersi essi medesimi a lor volta fra loro, a forza di tentativi di correggere quella opinione, o di darle nuovo fondamento: si è così formata una quantità d’indirizzi divergenti, ai quali — anche passando affatto sotto si¬ lenzio il nome dei loro rappresentanti — non ci è più possibile tener dietro, considerando minutamente il de¬ terminarsi delle loro particolari differenze. A parte le difficoltà teologiche die si sollevavano, sia che si assumessero gli universali quali prodotti di una creazione, sia che li si assumesse quali entità eterne, tanto più che alcuni effettivamente designavano per tal modo come « cose » tutt’i singoli attributi di Dio nl ), — positìonem ejusdem parti* sequatur pars illius. Sequitur enim bi- punctalem lineam pars ejus, i. e. punclum., non tamen ad punctum pars ejus sequitur, quia indiani habet. u ") Joh. Saresb. Metal. Ili, 9, p. 115 [ed. Webb, p. 152] : Versa- tur in his (se. in Topici*) incentionis muteria, quam hilaris memoriae fVillelmus de Cam pelli*.... diffinivil, etsi non perfecte, esse scienliam reperiendi medium terminimi et inde eliciendi argumentum [PL, 199, 9091. m ) De gen. et spec., p. 517 : Genera et species aut creator sunt aut creatura. Si creatura sunt, ante juit suus creator quam ipsa crea¬ tura. Ila ante juit Deus quam justitia et jortitudo.... Itaque ante juit Deus quam esset justus vel fortis. Sunt auleta qui.... illam divisio- nem.... sic jaciendam esse dicunt: quicquid est, aut genitum est aut ingenitum. Universalia autem ingenita dicuntur et ideo coaeterna, et sic secundum eos qui hoc dicunt,... [noni Deus aliquorum jactor est. — Abael. Inlrod. ud theol., II, 8, p. 1067 ( Amboes. [ed. Cousin, II, p. 85; PL, 178, 1057]): Terlius vero praediclorum (se. magistro- rum divinae paginae, cioè un magister in pago Andegavensi ) non so- ciò che dal punto di vista ontologico si voleva evitare era proprio quel vicendevole invilupparsi di tutti eli universali. 6 Perciò alcuni si appigliarono all’espediente, certo grossolano di assumere quel «sovraggiungersi» (che abbiamo veduto piu sopra, alla nota 105) delle diffe¬ renze specifiche, come qualche cosa di puramente pas¬ seggierò, per salvare così la indipendenza del genere »*) Altri invece tiraron fuori un modo di vedere, ch’era proprio di Aristotele, considerando il genere come la materia che nella sua essenza rimane identica, e che viene diversamente formata nelle specie: ma, proprio per quella identità di essenza, vennero a trovarsi in con- lutto con la teoria degli opposti 11S ). Onde a ccadde, da un lato, che, relativamente a questo «i™ isssrwtsar ir-" -s™ ~~~ hujusmodi, quae iuxta fiumani * erlcor( i‘,im, tram et caelera gnificantur, res quasdam et amil i lonls, c ? nsuetu di nem in Deo si- t ig jfer res diversas conslituat. ' aicumur, tot in Deo dicunt quidam, quia differentiÌe "quldmn m "J° rU . slm P l icitatis, quod genere non fondanti* U%kVt generi ’ sed in subjectum. per se d,c,tur e- sia inasprita, e ahL ia n* 1 « a anZ * C ^ C c * uesta diffìcile controversia si « gran somaro », non essendo C cT alu U " C " t0 ^ r Z ° sco,astico del passo del De gen. et spec u ( man,era . dl comprendere il quod scilicet incoteMens eduttl „ ° PPOSlta - «*• in codem, sententiam tenenl perchè non *" • n { >oss n nt > qui grandis asini :±,rr"° év-J quale n.n fl 1ZS  processo, con il quale alla materia si dà la forma, venne fuori da capo la questione, se cioè la differenza speci¬ fica sia solamente il mezzo per formare le specie, o se essa invece, insieme con il genere, trapassi nello stesso tempo nella essenza della specie medesima, — e alcuni (evidentemente tenendosi più vicini a Guglielmo da Champeaux) si son pure effettivamente decisi a favore della seconda soluzione 114 ) —: e così, d’altra parte, per i concetti di genere e di specie, veniva in luce una diffi¬ coltà, anche per il fatto degli opposti che (almeno nella loro esistenza individualizzata) si trovano in imo e me¬ desimo soggetto: ciò ha per conseguenza che, qualora un uomo sia bensì casto ma in pari tempo sia avaro, dovrebbe in lui coincidere l’universale del bene con quello del male; ora, taluni se la cavavano con una di¬ stinzione tra i generi superiori da un lato, e dall’altro lato le specie degli opposti, nella loro specializzazione, escludendo almeno queste ultime dalla possibilità d’in¬ contrarsi [in un medesimo soggetto], laddove altri esten¬ devano persino ad esse la pericolosa concessione 115 ). 1H ) Abael. Dial., p. 477 : RATIONALITAS enim et mortalitas, adve- niente* subtantiae animulis, eam in speciem creunt. quae est homo. Nec cum ipsae generis substuntium in speciem reddunt, ipsae quoque in essentiam speciei simul transeunt, sed sola genera vel subjecta specificantur.... non quidem cum differentiis, sed per differentias.... Si enim differentiae in speciem transferrentur cum genere,.... sicul quorumdam sententia tenet,... profecto cogeremur jateri, et dijjeren- tias ipsas cum genere aeque in essentia speciei convenire ; linde et ipsas de substanlia rei esse, et in partem maleriae venire contingcrel. m ) Ihid.. p. 390: Sunt uutem quidam qui contraria genera in eodem esse non abhorrent, sed contrarias species in eodem esse im¬ possibile confitentur. Dicunt enim quod cum omnia accidenlia per individua in subjecta veniant, et ipsa contraria genera per individua sua subjeclis contingunt . ut virtus et vitium, quae in hoc homine per hanc castitatem et hanc avaritiam recipiunliir, quae individua sunt caslitatis et avaritiae, quae invicem species non sunt contrarine.... Verum species contrarias esse in eodem per aliquu sua individua, illud prohibet, quod nec ipsarum individua in eodem possunt esse, quorum sunt tota substantia ea quae sunt contraria, utpote species.... Sunt autem et qui species contrarias in eodem posse consistere non denegant. adol e, T ^ C1 " aUrÌ 3UCOra « indotti a adottare 1 esperte radicale, di affermare cioè che la .uizmne della differenza specifica in generale ha luogo tu ta quanta solamente nella categoria della sostanza laddove, quando si tratta delle qualità, le così dette sue’ eie o sottospecie son propriamente da considerare sen z altro come formazione d’individui, sicché n es h' e nero sarebbero due essenze diverse a cuci 1 h che son tali due individui umani ”)’ " ^ 816880 farina, non c’è nane », . 3,10n c e * c e pane », dovendo prima la ~7 n p, *“’ ” c,,e - “ cb - '»a»c»„r;.jr,o " awo cì **•£ [§ 22. Controversie intorno alla definizione- INTORNO al CONCETTO DI PARTE | E cakie»j. — M a controversie ) De gerì, et spec. d ?4i. c tmnsubnantiae differentiis haberTdilZTe?™ Solum P^edicamen- tn duas proximas species. dicunt illaT'nn l cllm . J ff uaht ^ dividati,r aliquas differenti,: »ed et in micas converti tur linde nèn • sc, i,c el furinam esse deserit non sit, panis desit. Eie. equicquam concedila ut, si farina di questo genere, che venivano per lo più agitate, con grande sfoggio di passi di Boezio, sfiorando già, come si vede, il confine della stupidità, venivano altresì dibat¬ tute, secondo il modello della logica in uso nelle scuole, anche nell arringo affine della teoria della divisione (v. sopra la nota 75) e della definizione. Ben è vero che i realisti si trovavano tutti d’accordo nel preferire, in ar¬ monia con il modo di pensare di Boezio (Sez. XII, nota 98), o piuttosto di Porfirio (Sez. XI, note 41 ss.: cfr. la Sez. Ili, note 78 ss.), il procedimento platonico di ima continua dicotomia 118 ); ma subito a proposito della di¬ visione del genere, necessaria per la definizione, doveva già ripresentarsi la questione del come vadan le cose con le parti della essenza, distinguibili nel concetto del ge¬ nere: e mentre da taluni si affermava che tali parti sono unite per mescolanza, press’a poco a quel modo che an¬ che dalla mescolanza di bianco e nero si genera un terzo colore differente 119 ), altri facevano osservare che tutte le parti della essenza del genere posson pure, anche singolarmente, esser enunciate come predicati de¬ gl’individui, appartenenti al genere stesso 120 ); per con- ) Ibid., p. 458: Si aulem genus seni per nel in proximas species t ei in proximas differenlias dìvideretur, omnis divisio generis, sicut Boethio (de divis p. 643 [PL, 64, 8831) placuit, bimembris essel.,.. Hoc autem ad eam philosophicam sententiam respicil, girne res ipsus, non tantum voces, genera et species esse confitetur. ) Oilberti 1 orretae in l. 1 . Boethii de S . Trinitele commenta • ria_ (Bokth. Opera, eri. [costantemente cit. dal Franti] di Basilea, 1570), p. 1144 [PL, 64, 12721 : Butani quidam imperiti.... quod non sit vera dictio. si quis dical « homo est corpus », non addens et ani¬ ma »: uut si dicat « homo est anima », non addens c et corpus ». Opi - nantes quod, ex quo diversa, ut unum componant, conjuncta sunt. esse utriusque adeo sit ex illa conjunctione confusimi, ut sicut cum album et nigrum permìscentur, quod ex illis fit, nec album nec ni- grum dicilur, sed ciijusdam alterius coloris ex illa permixtione pro¬ venienti».... 1 Ibid., p. 1143:.... corporalitàs, non modo de hominis illa parte I qua e corpus e.st], verum etiarn de homine praedicetur. Et.... ratio- nalitas.... non modo de hominis illa parte, quae spiritus est, sed etiam de homine praedicatur.... (p. 1144).... quicquid de parte nuturaliter, idem et de composito affirmandum [PL, 64, 1272-3]. irò, anche questo fu da capo contestato da alcuni, per- che quelle parti della essenza sono predicati, soltanto in quanto sono concetti più generali, fatta cioè astrazione dalla loro connessione con altre note essenziali; dellW mo, p. es„ viene affermata cioè, come predicato, non -dà la corporeità specificamente umana, ma proprio in gè- neraie la corporeità nella sua accezione universale, e tosi parimente anche la spiritualità 121 ). Un’altra controversia manifestamente comiessa con quel che precede, concerneva la seguente questione se ' fr J “ dMÌ *"• ^ il 7o,Z f dilTereuza -pacifica si riferisca «oltau.o alla .peci. O anche, nello stesso tempo, al genere che st r, ’ mento della specie 122 ! Y, 3 fonda - ia specie ). Via via che si separava più net. amente a t ìlferenza dal genere (note 112, 114) g j po z::i re p t n r pit °  lbid., p . H44 f PL 6,,, 'illuni rationalitatem guani Uhm quuè est A,"” al ‘ qU ‘ d ‘ cere 8esti unl, d‘ci. et simUiter scienti,, a liam et alUmr ‘ T™"*' de homine human, corporis est. ’ 1 sparai,totem quam quae notila. PaSS ° re,atÌV ° è ri P r « d »« integralmente più sopra> • ^ Abael. Dialect. n 402 • \f 1 * * noe hujus nominis quod est « homo » 'nen™ s,gn, fi cat ‘t»iem substan- s, at ±' f* x P so percipiant, tantum nronlèr nT 7?’ nec ^ ualitat ^ ipsius diffinitionem requirunt. P P r qualitatum demonstrntionem il suo significalo concettuale, fosse stata accolta, in sen¬ so realistico, quest’ultima soluzione, sicché la proprietà sarebbe definita come un quid, formato da un universale (p. es. [il «bianco» è un] formatum albedine), si poteva da capo domandare se questa sia la definizione della proprietà stessa ( albedo ), o del sostrato qualifi¬ cato (album); e se poi ci si atteneva alla seconda alter¬ nativa, dato che la prima conduce a mia reduplicazione priva di senso, sorgeva il dubbio, se con ciò sia definito ciascun singolo di siffatti sostrati, o non forse invece tutti quanti insieme: e necessariamente ambedue le ipo¬ tesi si mostravan da capo insostenibili, poiché da un lato non si tratta di definire le cose stesse, bensì soltanto ima proprietà, nè d’altra parte le cose, per una sola proprietà che abbian comune, sono identiche nella loro essenza 121 ). Ma a quel modo che tutta questa discussione si at- Ibid., p. 495: Ai vero in fiis diffinitionibus quae sumplorum (con questo termine Abelardo suole indicar gli aggettivi: v. appresso la nota 321) sunl vocabulorum, magna, memini, quaestio solet esse ub his, qui in rebus universalia primo loco ponunt....; duplex enim ho- rum nominum quae sumpta sunt, significatio dicitur, altera.... prin- cipalis, quae est de forma, altera vero secundaria, quae est de for¬ malo. Sic enim « album », et albedinem, quam circa corpus subjec¬ tum determinai, primo loco significare dicitur, et secundo ipsius subjectum, quod nominai. Cum ilaque album hoc modo diffinimus « formatum albedine », quueri solet. ulrum haec diffinitio sii tantum hujus vocis, quae est « album », an alicujus siine significationis. Al vero cum vocem non secundum essenliam suam, sed significulionem diffiniamus, videlur haec diffinitio recte ac primo loco illius esse. Restat ergo quaerere, sive illius significationis sit, quae prima est, i. e. albedinis, sit e cjus, quae seconda est. quae est « subjectum idbe- dinis ». At vero si haec diffinitio albedinis sit, praedicalur de ipsa, et de quocumque albedo dicitur, et ipsa diffinitio prucdicatur. At vero quis vel albedinem vel hanc albedinem formuri albedine conce¬ dei?... Si vero diffinitio supraposita ejus rei, quam « album » nomi- nani, esse dicatur,... quaerilur, utrum uniuscujusque sit per se, quod albedinem susci pi unt.... | il Cousin corregge: suscipiat], sive omnium simul acceptorum. Quod si uniuscujusque sit illa diffinitio, utique et margaritae. Vnde de quocumque illa diffinitio dicitur, et margarita praedicatur, quod omnino falsum est. Si vero omnium simul accep¬ torum esse concedatur, oporlebit ut, de quocumque diffinitio illa enuntiatur, omnia simid praedicenlur. quod iterum falsum est. tiene ancora di regola a quello stesso basso punto di vi- sta, che abbiamo trovato più sopra (Se*, precedente, note 350 ss.), dove si trattava del realista Anseimo, cosi anche le dispute sopra il secondo metodo di divisione, cioè sopra la partizione della o alita ne suoi elementi, recano in sè una ben grave uni- lateraLta. I oiche la questione di stabilire che cosa s’in- tenda per parte originaria (pars principalis), fu forzata a prendere la forma di un’alternativa, in quanto che cioè gli uni denonimavano originarie quelle parti le quali, mentre costituiscono la essenza della totalità, non sono piu a lor volta parti di una parte (p. es„ nell’uomo, anima e corpo), e invece gli altri consideravano come ori- gmane quelle parti costitutive ultime, distrutte le quali viene distrutto il tutto (p. es. la testa o il cuore) -»)• ma a questa maniera, in seguito al realismo ontologico, adot- andosi la prima soluzione, tutto questo punto di vista della divisione rimaneva falsato, e surrettiziamente scam¬ biato con il terreno proprio della definizione, laddove, se »! adottava la seconda soluzione, sconsideratamente « trasponeva la funzione subiettiva dell’intelletto urna- “’ !• q S ° la . Crea ÌJ COncetto di P«le, nella realtà ZTl ì C0MCeZ1One "«usa, della quale già si era li- noi ^ 9 ! “T m ° r ° 8CelÌniauo (Sez. precedente, note 321 s.). Mentre gli uni intendevano la divisione ab «finito come obbiettivamente materiale, ed esclude- no cosi dalla considerazione l’attività formale [die gè- cundarias'^àrtès ZocaH^TnTat^alf 0 ’ o- crates. destructa ungula, remanet Socrates et ila quod prius non erat Socrates, fìt Socrates. O, similmente, ibid., p. 512: Haec.... sen-La teoria dello « status », come tentativo di conciliazione: Gualtiero da Mortacne]. — Se a questa maniera il realismo offriva in realtà molteplici documenti di quella cattiva sorte, che nelle questioni di logica propriamente dette, deve rimanere insepara. . Je da esso ’ non fa maraviglia che da vari lati si sieno battute vie nuove per rendersi conto degli universali, r csidcrandosi co 8I di sfuggire alle difficoltà del reali- amo non meno che alla unilateralità del nominalismo. mbra doversi interpetrare quale forma di passaggio prima di tutto quella concezione, che potrebbe, dal suo termine tecnico caratteristico, denominarsi «teoria e lo status »: e parimente sembra (cfr. la nota “ e *f a 813 8tata originata dalle obiezioni sorte contro le affermazioni di Guglielmo da Champeaux. Se cioè la essenza universale del genere deve, per tutta quanta la sua estensione, venire specializzata mediante lorme individuali (v. sopra la nota 105), è difficile veder bene addentro, come stiano le cose, riguardo a quelle «proprietà superaddite » (advenicntia), che, in seno a IimiT’ ° T Ìan ° ° 80U0 S ° lamente P asse ggiere. Ora alctmi si appigliarmi qui all’espediente di ammettere che ! universale e bensì modificato da siffatte qualità, ma non tuttavia proprio in quanto è un universale: e una faeffe 1 ir e - a arriVatÌ dn ° 3 qUeSt ° P unto ’ 8i rendeva acile la effettiva trasformazione degli miiversali, i quali dai realisti erano stati tenuti b, conto di cose (res) in daT >: i CÌOè ° ra ne »a serie graduale che va dal genere all individuo, non fu più tenuto conto del- 1 Universale, bensì dello .status universali*»: ima con- cezione questa, che era così abbastanza facilmente sug- gerita dal motivo usuale di ma Tabula logica, come an- lentia medium digiti naturam unam esse nonni, creaturam esse merito dubitat. Aut er J Zò, 'che poteva, dal canto suo, trovare parimente appoggio in un passo di Boezio 129 ). Un rappresentante di questo modo di vedere fu Gualtiero da Mortagne [de Mauretania] (inse¬ gnante a Parigi al tempo di Abelardo, e morto, vescovo di Laon, nel 1174) : egli dedicò, è vero, con preponde¬ rante ardore, la propria attività alle controversie dom- maticlie ), ma fece sentire, per incidenza, il suo in¬ flusso anche nel campo della dialettica. Cercò cioè di conciliare la unità numerale deH’universale con la con¬ nessione essenziale, in cui esso sta con le cose singole. > Ibid., p. 514 s.: Amplius sanitas et lunguor in corpore ani- mahs fundalur; albedo et nigredo simpliciter in corpore. (Juod si animai totum existens in Socrate languore afficilur, et totum, quia quicquid suscipit. Iota sui quantitale suscipit, eodem et momento nusquam est sine lang[u)ore; est autem in Platone totum illud idem; ergo edam ibi languerel; sed ibi non languet. Idem de albe¬ dine et nigredine circa corpus. Ad haec enim non rejugiant, ut di- cani etc.... Addurli: animai universale languet, sed non in quantum est universale. L tinum se videant !... Si ad status se transfer ani, di - centes I animai in quantum est universale non languet in univer¬ sali statu », respondcant, de quo velint agere per has voces $ in stata universali ». Ma di questo concetto di « status universalis » scorgeremo a buon diritto la fonte in Boezio, là dov’egli dice, a pro¬ posito della qualità (ad Ar. praed. [I. 11IJ, p. 180 |PL, 64. 250J): Nihil impedit, secundum aliam scilicet ulque aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi spedai suae supponere, ut Socrates in eo quod pater est, ad aliquid dicitur, in eo quod homo, substan¬ tia est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis secundum ea videtur esse dispositus, in disposinone numerula sunt, perchè quel rhc qui deride, è lu espressione « in eo quod » : e rosi pure in un al¬ tro passo ancor più chiaro (ibid., p. 189 [PL, 64, 2611): Si secun¬ dum aliam atque aliam rem duobus generibus eadem res.... supponu- tur, nihil inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines, in eo quod alicuius rei habitudines sunt, in relutione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliqui dicuntur, in quotitele numerantur. Quare nihil est inconveniens, unam atque eamdem rem, secundum dnersas naturae suae potenlias (proprio questo son gli univer¬ sali),... pluribus adnumerare generibus. Le euc lettere (stampate nello Spicil. del D’Achery, ed. De la Barre, Parigi, 1723, III, p. 520 ss.) sono soltanto di contenuto dommatico, e non hanno menomamente rhe fare con la storia della filosofia. [Ora è da vedere il trattato sopra la teoria della indifferenza, attribuito a Gualtiero da Mortagne e pubblicato dall’Hau- rcau (1892), poi dal Willner procedendo a questa maniera, vale a dire con il distin¬ guere nell’individuo, uno per uno, come status diffe¬ renti, la individualità, e il concetto della specie, e così pure il concetto del genere, fino su su al sommo gene¬ re 1SI ). Comunque, sebbene ci manchino del tutto notizie più precise sopra un tal modo di vedere, c’è questo di notevole in esso, che cioè da un lato l’universale è rac¬ costato alle cose singole, e dall’altro lato, per quel te¬ nere distinti i diversi « stati », la operazione intellet¬ tuale subbiettiva si fa più avanti nel primo piano. Per¬ ciò neanche appare indegna di fede quella notizia (v. sopra la nota 69), secondo la quale sembra che taluni, dalla tesi nominalistica della « maneries » sieno passati alla questione dello status (v. la nota 88). [§ 24. — La teoria dell’iindifferenza. Ma la evoluzione interna degli studi di logica ci conduce con ciò spontaneamente alla teoria della indiffe¬ renza, la quale in particolare occupa ima posizione di mediatrice tra le varie tendenze. A suo fondamento sta il principio, che una medesima cosa è, nello stesso tempo, universale e singolare, nel senso non già che si dia un universale essenzialmente inerente alle cose, bensì semplicemente che in queste, in quanto sieno più cose e simili per natura, si presenti alcunché, che esse hanno indifferenziatamente ( indiff&renter ) in comune; per con¬ seguenza, ciò che più cose hanno d’indifferente o intrin¬ secamente simile (indifferens o consimile), è dunque indicato nella definizione come « genere », e, per l’uni¬ versale così inteso, è salva la possibilità della predica¬ zione (praedicari de pluribus ), laddove il realismo ha sempre corso pericolo di dover, di una cosa, predicare ima cosa (v. appr. la nota 287): e quest’ultimo aspetto suhbiettivamente logico poteva ora caso mai venir pure M1 ) Il passo in appoggio, vedilo più sopra, alla noia  unilo anche con il concetto di status, di modo die cia¬ scuna cosa avrebbe in sè uno « stato » d’individualità e nello stesso tempo uno « stato » di universalità 132 ); ma si tratta nonpertanto di un punto di vista, tutto diverso da quello di Gualtiero. Mentre là, cioè, si tiene ancor ferma la esistenza del- u ‘) Abael. Glossulae sup. l’orph., riferite dal Rémusat (v. le note 13 e 73), p. 99 s. : La seconde manière de soutenir l’universalilé des choses, c’est de prétendre que la ménte chose est universelle et particulière; ce n’est plus essentiellement, mais indifféremment que la chose commune est en divers.... Ce qui est dans Platon et dans Socrate, c’est un indifférent, un semblablc, « indifferens vel consi¬ mile ». Il est de certaines choses qui conviennenl ou s’accordent entre elles, c esl-à-dire qui sont scmblables en nature, par exemple en tanl que corps, en lant qu’animaux ; elles sont aitisi universelles et particulières, universelles en ce qu’elles sont plusieurs en coni- munaulé d attributs essenliels, particulières, en ce que chacune est disimele des autres. La définition du genre (« praedicari de piu- ribus »....) ne s’applique alors aux choses qu’elle concerne qu’en tanl qu’elles sont semblables, et non pus en lant qu’elles sont indi- viduelles. Ainsi les mèmes choses ont deux états, leur étal de genre, leur état d’individus, et, suivant leur étal, elles comportenl ou ne comportenl pas une définition differente. [Vedasi ora il testo ori¬ ginale, ediz. Geyer, p. 518: Sunt a lii in rebus unii-er salitatela assignantes, qui eandem rem universalem et parlicularem esse astruunl. Hi namque eandem rem in diversis in differente r, non essentialiter inferioribus affirmunt. Veluti cum dicunt idem esse in Socrate et Plutone, « idem » prò indifferenti, idest consimili, intelligunt. Et cum dicunt idem de pluribus praedicari vel inesse aliquibus, tale est, ac si aperte diceretur: quaedam in aliqua con¬ venire natura, idest similiu esse, ut in eo quod corpora sunt vel ammalia. Et iuxta hanc.... senlentium eandem rem universalem et parti- cularem esse concedunt, diversis tamen respeclibus; universalem quidem in eo quod cum pluribus communitutem habet, particularem secundum hoc quod a ceteris rebus diversa est. Dicunt enim singu- las substunlius ita in propriae suae essentiae discretione diversas esse, ut nullo modo haec substantia sii eadem cum illa, etiamsi substantiae materia penitus formis carerei, quod tale secundum illos praedicari de pluribus, ac si dicatur: aliquis status est, participatione ctiius multae sunt convenientes, praedicari de uno solo, uc si dicatur: aliquis status est, parlici patione cuius mul¬ tae sunt non convenientes 1 . Se il Rémusat abbia effettivamente trovato qui [come (v. s.) effettivamente ha trovato] nel manoscritto il termine « status » — cosi almeno sembra che sia — o se si tratti di un’aggiunta, fondata solamente sopra il suo personale modo di vedere, io non lo so. l’universale, e proprio a quest’ultimo vengono atmbu «stati» differenti, per i sostenitori della tesi della indif¬ ferenza viene avanti in prima linea, con tutto il suo ri¬ gore, la idea, appartenente al nominalismo (note 77 ».), vale a dire che in generale null’altro esiste, all infuori dai soli individui, e apprendendosi il pensiero a questi, come a’ suoi propri oggetti, gli universali si generano soltanto per la diversità dell’apprendimento (aliter et aliter attentum), sicché status o natura dell’essere indi¬ viduo o dell’essere specie e via dicendo, sono da consi¬ derare soltanto come modi di vedere soggettivi: e a tal proposito è prima di tutto da considerare il carattere, per così dire, negativo del procedimento che conduce dall’individuo all’universale, in quanto che Ymtellectus gradualmente lascia da parte (non concipit), intenzio¬ nalmente dimentica ( oblitus ), posterga e abbandona ( postponit, relinquit) le differenze individuali, per prò- gredire nell’apprendimento dell’indifferenziato, sino al grado supremo, cioè alla sostanza 1 ). Pertanto anche questo modo di vedere, analogamente «*) De geli, et spec., p. 518: Nane itaque >Uam, quae de indif- ferentia est. sententi,im perquiramus Cujus *«£«**£**£ JJJJ ninnino est nraeter individuimi; sed et illud aliter et aliter atten tum specie* et genus et genertdissimum est (ugualmente nel pas.o ' ùo già opra! nota 72). Itaque Sacrate* in ea natura (m ponga mente al termine « natura », in luogo del quale subno dopo « de Socrate, quod nota, idemj homo » -^CmfPponat Zio- aagsH’S z zzi: zzi::‘oli.. „ . .» —«—» bocr “ m quod notul « substantia », generulissimttm est. agli altri, può richiamarsi a passi isolati di Boezio, quando si tratta di affermare che l’individuo, conside¬ rato come individuo, non reca in sè nulla d indifferen¬ ziato, ch’egli abbia in comune con altri individui, bensì, per così dire, egli è la differenza stessa, laddove, quanto più si considera questo medesimo individuo come specie o come genere, tanto in maggior numero si sco¬ prono in lui momenti indifferenziati comuni, e allora si abbraccia, come concetto del genere o della specie, tutto quel che c’è di elemento comune 134 ) : cosicché con ciò, poiché infine ogni manifestarsi d’individui si può pren¬ derlo anche dal lato (status) del suo genere più univer¬ sale, ci sono in verità tanti generi universalissimi, quanti sono gl’individui: ora questi generi supremi si raggrup¬ pano a lor volta in dieci classi (categorie), soltanto me¬ diante la considerazione di quel che d’indifferenziato hanno in comune, ma d’altra parte tutt’insieme vengono a formare da capo una unità universalissima, consistente m ) Ibid. : Socrates, in quantum est Socrutes, nidlum prorsus indifferens habet, quod in alio inveniatur; sed in quantum est homo, plura habet indifferentia, quae in Platone et in aliis inve- niuntur. Nam et Plato similiter homo est, ut Socrates, quamvis non sit idem homo essentialiter, qui est Socrates. Idem de animali et substantia. Ma per ricondurre questo testo alla sua fonte, bastano i seguenti passi di Boezio, ad Porph. a se trunsl., I, 11, p. 56 [ed. Brandt, p. 166; PL, 61, 85J : Cogitantur vero univcrsalia, nihilque aliud species esse putanda est, nisi cogilatio collecta ex individuo- rum, dissimilium numero, substantiali similitudine: genus vero co¬ gitano collecta ex spoderimi similitudine. Sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis: cum in universalibus, fit intelli- gibilis ; inoltre ibid.. Ili, 9, p. 76 [ed. Brandt, p. 228; PL, 64, 111]: Individuorurn quidem simililudinem species colligunl, spe- cierum vero genera. Similitudo autem nihil est aliud, nisi quaedam unitas qual itati s ; c ibid., TU, 11, p. 78 [ed. Brandt, p. 235; PL, 64, 114]: ea enim sola dividuntur, quae pluribus communio sunt; his enim unum quodque dividitur, quorum est commune, quorum- que naturam ac simililudinem continel. llla vero, in quibus com¬ mune dividitur, communi natura parteciparti, proprietasque com- munis rei his, quibus communis est, convenit. Al vero individuorurn proprietas nulli communis est. Qui cioè è abbastanza chiaramente preannunriato così il simile o commune, come anche il colligere (nota 136). 17. — C. Pbantl, Storia della logica in Occidente, II.CARCO prantl ili ciò che son proprio essi 1 elemento comune e indif¬ ferenziato 135 ). Nella stessa maniera si configura poi anche la rela¬ zione predicativa, poiché, mentre l'individuo è sempre soltanto il suo proprio predicato, quell’aspetto suo, che viene inteso come specie o come genere, può recare con sè un riferimento reciproco ad altri individui: cioè, p. es., Tesser uomo, di Socrate, è predicato (inhaeret) anche per Platone, e viceversa: e questo esser genere, dell’in- dividuo, è concetto collettivo (colligitur), cosi per que¬ sto stesso individuo come anche per gli altri della me¬ desima specie 13 °) insomma il rapporto dell’universale e del singolare si riduce a un « in quntum », e, non es¬ sendoci nè un puro universale nè un puro individuale, dipende dalla diversità del punto di vista (diversus re- spectus), che l’universale venga considerato come singp- lare, e il singolare come universale 13T ). [Adelardo da Bath: intonazione platonica DA LUI DATA ALLA TEORIA DELLA INDIFFERENZA]. - Ora U5 ) Jbid., p. 519: Solvunt.... illi dicentes: generalissima quidem infinita esse essenlialiter, sed per indifferentiam decem tantum ; quot enim individua substanliae, tot et sunt generulissimae substantiae. Omnia lamen illa generalissima generalissimum unum dicuntur, quia indifferentia sunt. Socrates enim in eo quod est substantia, in- difjerens est cum qualibel substantia in eo statu, quod substantia est. ”“) Ibid.: Sed et hi dicunt: Socrates in nullo slatti aliati inhae¬ ret nisi sibi essenlialiter; sed in statu hominis pluribus dicitur in- haerere, quia olii sibi indifferentes inhaerent; eodem modo in statu animalis.... (p. 520) Dicunt ita: Socrates, in quantum est homo, de se colligitur (si ponga mente a questa espressione) et de Platone caelerisque; unumquodque individuimi, in quantum est homo, de se colligitur. ls, > Ibid., p. 521: Itti tamen non quiescunt, sed dicunt: nullum singulare, in quantum est singulare, est universale, et e converso; et cum universale est, singulare est universale, et e converso. — Ibid., p. 520: Negant hanc consequenliam € si est universale, non est singulare». Nam imposilione suae sententiae habelur: omne universale est singulare, et omne singulare est universale diversis respcctibus. questa dottrina dell’ indifferenza viene tuttavia a sua volta ad armonizzare infine con il principio « Singultire senti tur, universale intelligitur », sicché le era dato di trovare un appoggio anche in Boezio (Sez. XII, nota 91), e comunque si poteva ammettere che per noi quaggiù, in questa valle di lacrime, gli universali soltanto come individui hanno una esistenza percettibile, mentre va riconosciuta a essi in verità una realtà intelligibile: stando così le cose, anche i Platonici, particolarmente per via di quella tendenza dell’ individuale a deviare all’insù, « lasciando » [relinquere] le sue caratteristiche singolarità, potevano prender gusto alla teoria della indifferenza, mentre nello stesso tempo gli Aristo¬ telici erano inclini a por mente in essa alla relazione scambievole tra universale e particolare, come anche al conto in cui quella tiene la operazione suhbiettiva dell’intelletto (di quest’ultimo modo di vedere trove¬ remo un esempio appresso, note 432 s., in imo scolaro di Abelardo). S’intende pertanto come Adelardo da Bat li, il quale compose intorno al 1115 [tra il 1105 e il 1116] imo scritto De eodem et diverso, che aveva per fondamento il platonismo 138 ), credesse di potere, proprio con la dottrina della indifferenza, com¬ porre il contrasto fra Platone e Aristotele. Si lamenta Adelardo dell’aspro contrasto fra opposte tendenze, nel campo della logica, come pure della mania d’innova¬ zioni dominante al tempo suo 13,) ), ma è d’opinione che, lss ) V. sul conto suo maggiori particolari nelle Recherches cri- tiques dello Jourdain (2* ed. 1843, p. 26-7, 97-9 e 258-277), dove si riproducono tradotti, di su un manoscritto parigino, notevoli fram¬ menti di questo libro. [Ma ora del trattato di Adelardo è stato pubblicato integralmente il testo originale, a cura di H. Willner, nei Beitriige del Baunikcr, IV, 1, Miinster, 1903, p. 3-34]. “”) Ibid., p. 262: L'un prétend qu’on doit partir dcs choses sen- sibles, l'autre commence par les choses non sensibles. Celui-là soutient que la Science n'est que dans les premières, cclui-ci qu’elle est. hors des dernières; ils s’inquiètent aitisi mutuellement, à fin qu’aucun d’eux ne s’altire la confiunce.... (p. 263) A qui donc faul-il con il venir bene in chiaro di quel che concerne gli universali, si potrebbe appianare la contesa 140 ). Intorno ai concetti di specie e di genere, egli si esprime qui in perfetto accordo con la teoria della indifferenza, anzi facendo pereino uso quasi degli stessi termini (p. es. diversus respectus, oblivisci, non attendere ecc.), sicché può ritenersi che il nostro informatore su ci¬ tato [v. s. la nota 133] avesse sottocchio lo scritto di Adelardo, non essendoci altra variante, se non che qui non è messo in campo il concetto di status, ed è forse dato un certo maggior peso alla denominazione 141 ). Ma croire d'entre ceux qui tourmenle.nl nos oreilles de leurs innova- tions journalières, qui cheque jour naisscnt pour nous, nouveaux Aristotes et nouveaux Piatomi, qui prometterà également et les choses qu’ils savent, et celles qu’ils ignorent? Ili testo originale, ediz. Willner, p. 6, suona così: « Alius enim a sensibilibus inve- sligundas (se. res) esse censuil, alter ab insensibilibus incepit; alius eus in sensibilibus tantum esse arguii, alter praeter sensibilia etiam. esse divinavit. Sic dum uterque alterum inquietat, neuter fidem adipiscitur.... (p. 7) Cui tandem eorum credendum est, qui cotidia- nis novitatibus aures vexant.” Et assidue quidem etiam nunc cotidie Platones, Aristoleles novi nobis nascuntur, qui aeque ea, quae nc sciant, ut et ea, quae scianl, sine frontis iacluru promittant.... » |. M “> Ibid., p. 267: L’un d’eux (cioè Platone e Aristotele), tran- sporté par l’élévation de son esprit et les uiles qu’il semble s’ètre créés par ses efforts, a entrepris de connuilre les choses par les principes eux-mémes ; a esprime ce qu’ils élaient avant qu’ils ne se reproduisissent dans les corps, et a definì les formes archétypes des choses. L’autre, au conlraire, a commencè par les choses sensibles et composées ; et puisqu’ils se rencontrent dans leur route, doit-on les dire opposés? Si l’un a dit que la Science étuit hors des choses sen¬ sibles, et l’autre, qu'elle était dans ces mémes choses, voici coni¬ mela il jaul les interpréter. [Ed. Willner, p. 11: « Unus eorum meri- lis altitudine clatus pennisque, quas sibi indui obnixe nisus, ab ipsis iniliis res cognoscere aggressus est, et quid essent, antequam in corpora prodirent, expressit, archelypas rerum formas, dum sihi loquilur, definiens. Alter autem.... a sensibilibus et compositis orsus est. Dumque sibi eodem in itinere obviant, contrarii dicendi non sunt.... Quod autem unus ea extra sensibilia, alter in sensibilibus tantum existere dixit, sic accipiendum est. »1. «*) Delle parole ohe ora fanno immediatamente seguito (p. 267-8 del Jourdain), FHauréau (De la philos. scol., I, p. 255 IHistoire de la phil. scol.) riproduce il testo latino origi¬ nale [che qui si riferisce secondo la ediz. Willner] : Genus et species — de his enim senno est — etiam rerum subiectarum nomina sunt. fan poi seguito, secondo lo spirito del platonismo, espres¬ sioni di lamento, perchè agli uomini runiversale si pre¬ senta oscurato dalla indispensabile percezione sensibile, mentre gli universali, nella loro pura semplicità, esi¬ stevano originariamente soltanto nel No0{ divino 11- ); e*a questo si connette subito la strana affermazione, che proprio perciò hanno ragione tutti due, così Aristotele, il quale ha trasportato gli universali in quella sfera, cli’è la sola dove sieno a noi accessibili, come anche Pla¬ tone, che li confina là dov’essi hanno la vera loro realtà, che insomma entrambi, mentre nella maniera di esprimersi sembra si contraddicano, nel merito si trovan d’accordo 143 ). Per arrivare a questa conciliazione, Ade- Nam si res consideres, eidem essentiae et generis et speciei et indi¬ vidui nomina imposita sunt, sed respectu diverso. V olcntes etenim philosophi de rebus agere secundurn Itoc quod sensibus subiectae sunt, secundurn quod a vocibus singularibus notantur et numeraliter diversae sunt, individua vocarunt, se. Socratem, Platonem et celeros. Eosdem autem altius intuente s, videlicet non secundurn quod sen- sualiter diversi sunt, sed in eo quod notantur ab liac voce « homo », speciem vocavertuti. Eosdem item in hoc tantum, quod ab hac voce « animai » notantur, considerantes genus vocaverunt. Nec tamen in consideratione speciali jormas individuales tollunt, sed obliviscuntur, cum a speciali nomine non ponantur, nec in generali speciales oblatas inielligunt, sed incsse non attendunt, vocis genendis significatione contenti. Vox enim haec « animai » in re illa notai substantiam cum animatione et sensibililate ; haec autem « homo » totum illud et in¬ super cum ralionulitale et mortalitate: « Socrates » vero illud idem addila insuper numerali accidentium discrelione [ed. Willner, : Assueti enim rebus . cum speciem in- tueri nituntur, eisdem quodammodo caliginibus implicantur nec ipsam simplicem notam.... contemplari nec [350] ad simplicem spe- cialis vocis positionem ascendere queunl. Inde quidam, cum de universalibus ageretur, sursum inhians « Quis locum earum [se. vocimi] mihi ostendet? », inquit. Adeo rationem imaginatio pertur¬ bai.... Sed id apud mortales. Divinae enim menti.... praesto est muteriam sine formis et jormas sine aliis, immo et omnia cum aliis.... distincte cognoscere. Nani et antequam coniuncta essent, universa quae vide?in ipsa noy simplicia erant [ed. Willner, p. 12]. lbid.: Nunc autem ad propositum redeamus. Quonium igitur illud idem, quod vides, et genus et species et individuimi sit, merito ea Aristoteles non nisi in sensibilibus esse proposuit. Sunt etenim ipsa sensibilia, quamvis acutius considerata. Quoniam vero ea, in- lardo non deve davvero essersi molto stillato il cer¬ vello 144 ). [§ 26. — Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua idea del colligere ]. — Un modo di vedere analogo al principio della teoria della indifferenza, sebbene il metodo seguito fo9«e alquanto diverso, potrebbe ravvi¬ sarsi nella opinione di Gauslenus o Joscelli¬ nus da Soissons (dove fu vescovo dal 1125 [1122] al 1151), il quale ritiene cioè che gli universali non si trovano già negl’individui presi per se stessi, bensì com¬ petono a questi, solamente in quanto l’individuale viene raccolto in una unità (in unum collectis ) 145 ) ; poiché questa è ima tesi che sarebbe perfettamente in armo¬ nia con il principio su riferito (nota 133), vale a dire che esistono esclusivamente individui; soltanto che il formarsi degli universali nel pensiero umano sarebbe ottenuto qui non già con mi lasciar da parte [(re/in- quere ) le differenze individuali], bensì fin da principio con un metter assieme ( colligere ), del quale infine non poteva pur fare a meno neanche la teoria della indiffe¬ renza (nota 136). Ma sopra la opinione di Gauslenus non sappiamo assolutamente nulla di più preciso 14e ) : quantum dicuntur genera et species, nemo sine imaginatione presse pureque intuetur (qua pertanto troviamo veramente «li già la « ignota cosa in sé»), Plato extra sensibilia, scilicet in niente divina, et con- cipi et existere dixit. Sic viri illi, licet verbis contrarii videantur, re lamen idem senserunt [ed. Willner, p. 12], Tanto più che poteva ben essergli accessibile, almeno attra¬ verso Agostino (de civ. Dei, Vili, 6 f?j), il noto passo ciceroniano dello stesso tenore ( Acad. Prior., I, 6 Tv. anche ih., 41, relativa¬ mente ad Antioco [d'Ascalonal). Abbiamo veduto più sopra (nota 66) come anche Bernardo da Chartres si sforzasse di conciliare Pla¬ tone e Aristotele. ’“) Vedi la fonte più sopra, nota 68. “*) Poiché, se H. Bitter, che sopra Gualtiero da Mortagne, Adelardo da Balli ecc. ci dà notizie, in parte prive della necessaria precisione, in parte addirittura erronee, vuole senz’altro riven¬ dicare a Gauslenus lo scritto De generibus et speciebas, per indurci  e mentre da un lato già molto avanti abbiamo veduto (Sez. prec., nota 175) cbe anche il realista Ottone da Cluny si serviva di una espressione analoga, e anzi an¬ che Giovanni da Salisbury sembra riconoscere in Gau- eleno un realista (il che tuttavia non ha forse grande importanza: v. sopra le note 70 e 85), d’altro lato può darsi che soltanto la separazione degli universali da¬ gl’individui singoli sia per noi il principale motivo che c’induce a raccostare la tesi di Gausleno alla teoria della indifferenza: e a conferma di ciò potrebbe fors’anche valere il fatto, ch’egli ha promosso il passaggio alla teo¬ ria nominalistica della « mancries » (v. sopra la nota 68). Allora avremmo qui una ripetizione di quel che fu già affermato, a proposito dei primi inizi di una formazione di contrastanti tendenze dalla parte dell’indirizzo nomi¬ nalistico liT )Lo scritto anonimo de generibus et specie- bus: punto di vista del suo autore: a) critiche ad al¬ tre soluzioni del problema degli universali], — Ma se, relativamente agli universali, l’ordine al quale dobbia¬ mo dar la preferenza (v. sopra la p. 208), ci porta a prender in esame le vedute di AEelardo, come pure di Gilbert de la Porrée e di Giovanni da Salisbury, sola¬ mente qui appresso, in connessione cioè con la totalità della loro dottrina, — per il momento ci rimane da con¬ ati ammettere quest’attribuzione non basterebbero le poche parole di quel l'unica fonte che possediamo intorno a Gauslenus, neanche qualora esse fossero in armonia con le vedute dell’autore dello scritto Do gen. et spec. Ma che un tale accordo sia molto dubbio, può risultare da quanto dovremo ora subito dire, a proposito di quello scritto anonimo [che invece oggi si tende ad attribuire ap¬ punto a Gauslenus o a un discepolo di lui. Del Ritter v. la 3“ parte della già cit. St. d. fil. cristiana, p. 381-6 (Allei, da Bath) e 397401 (Gualt. da Mortagne)]. Cioè il Pseudo-Rabano (Sez. precedente, nota 153) e quel co,i detto Jepa (ibid., nota 170) si sono espressi, intorno al con¬ cetto di genere, in maniera affatto simile. CABLO PRANTL siderare un unico scrittore ancora, e questi è l’autore sco¬ nosciuto dello scritto «De generibus et specie- bus» liS ), il quale ci mostrerà taluni punti di contatto o di affinità con parecchie delle opinioni menzionate «in¬ ora. In origine il lavoro, nel suo complesso, si presen¬ tava certo come ima monografia «De divisione » (cfr. le note 118-128), assolutamente alla stessa maniera dello scritto omonimo di Abelardo (v. appresso le note 277 e 353 ss.), e, come in principio del testo da noi con¬ servato si tratta ancora della questione delle parti ori¬ ginarie di ima totalità, così anche qui l’Autore, altret¬ tanto colto quanto acuto, ha poi preso occasione, dalla discussione intorno alla divisione del genere, per inter¬ venire nella disputa intorno agli universali, e lumeggiando criticamente le opinioni degli altri, e ancora esponendo le ragioni delle sue proprie vedute 149 ). Per prima cosa combatte alla spiccia il nominalismo, con l’argomento che le parole in generale non hanno un essere, poiché ciò che si genera soltanto per suc¬ cessione temporale, non può costituire un tutto unita¬ rio: ima osservazione, questa, che è volta appunto, per 14 “) Del libro, edito dal Cousin ( Ouvrages inédits d'Abélard, p. 507-550) di su un manoscritto di St. Gerniain, manca il principio; e il titolo, che è invenzione dello «tesso Cousin, si può forse con¬ tinuare a adottarlo, ma certamente fatta eccezione per l’aggiunta «Petti Abelardi » ; poiché, che nel suo complesso non sia un’opera di Abelardo (v. sopra la nota 49), se ne sarebbe dovuto accorgere anche il Cousin; la cosa appare manifesta non soltanto da parti¬ colarità stilistiche (p. es. Fespressioni « Attende » o « Solutio », intercalate dove si tratta di risolvere obiezioni, o ancora, il carat¬ teristico termine « rationabile ingenium », clic l’Autore mostra di prediligere, ecc.), ma anche da intrinseche divergenze che modi¬ ficano la teoria stessa, e si acuiscono persino in forma polemica. Sopra questo punto, a scanso di ripetizioni, mi limito a rinviare alle note seguenti, 150, 167, 168, e particolarmente 171, dove si vedrà addirittura designata come « ridicola » una opinione che è di Abelardo. ’*) Con lo studio accurato di questo scritto, potrebbero forse venir meno del tutto le censure enunciate a suo carico da H. Rrr- ter (VII, p. 363), che lo giudica malcostrutto e oscuro. quanto in essa si attiene alla funzione del pensiero nel giudizio, anche contro le idee di Abelardo (v. appresso la nota 315) 15 °); ma poi la relazione tra materia e for¬ ma, dominante nel passaggio dal genere alla specie, neanche sarebbe già assolutamente possibile esprimerla con parole, poiché mai ima parola è materia di un altra parola 151 ). D’altra parte, l’Autore combatte anche il realismo di Guglielmo da Champeaux, poiché se l’universale, in tutto quanto il suo contenuto, viene individualizzato nell’individuo (nota 105), non soltanto questo mede¬ simo contenuto dovrebbe pur trovarsi da capo nello stesso tempo tutto quanto in un altro individuo 152 ), ma dovrebbero altresì spettare a tutti gl’individui anche le proprietà varianti o transitorie 153 ), e nioltre nel concetto del genere si troverebbero poi simultaneamente anche gli opposti 154 ). E ugualmente egli assume più oltre un atteggiamento m ) Cousin, loc. cit., p. 523: ltem voces nec genera sunt nec species nec universales nec singulares nec praedicatae nec subjectae, quia omnino non sunt. Nani ex his, quae per successionem fiunt, nullum omnino totum constare, ipsi qui hanc sententiam tenent, nobiscum credunt. Quemadmodum statua constai ex aere ma¬ teria, forma autem figura, sic species ex genere materia, forma au- tem differentia (v. la nota 160 s.), quod assignare in vocibus im¬ possibile est. Nam cum animul genus sit hominis, vox vocis nullo modo est altera alterius materia. m ) p. 514: Quod si ita est, quis polest solvere, quin Socrates eodem tempore Romae sii et Athenis? Ubi enim Socrates est, et homo universalis ibi est, secundum totani suam quantitatem infor- matus Socratitate.... Si ergo res universalis, tota Socratitate affecta, eodem tempore et Romae est in Plutone tota, impossibile est, quin ibi etiam eodem tempore sii Socratitas, quae totani Ulani essentiam conlinebat. Ubicumque autem Socratitas est in homine, ibi Socrates est: Socrates enim homo Socraticus est. Ibid. Il passo si trova citato già più sopra, n. 129. ”*) p. 515: Quam statim enim rationalitas illam naluram tangit, se. animai, tam statim species efficitur, et in ea rationalitas funda- tur. llla ergo totum informat animai.... Sed eodem modo irrationa- lilas totum animai informat eodem tempore. Ita duo opposita sunt in eodem secundum idem. polemico contro la teoria della indifferenza, cosi attac¬ candola nel suo principio, cioè in quel tale concetto del « comune » (nota 134) 155 ), come anche contraddicendo sia la opinione, che i sostenitori di quella teoria profes¬ sano, relativamente al concetto collettivo (collidere, nota 136) 15 “), sia del pari la conseguenza, che si ricava, e che consiste nelTobliterarsi della differenza tra univer¬ sale e particolare 157 ). [b) soluzione da lui stesso proposta ]. — La sua pro¬ pria opinione traspare già, in primo luogo, dov’egli tratta della divisione all’infinito (note 126 s.), e rico¬ nosce che una totalità può ancora continuar a sussistere, quand’anche una sua parte perda la propria forma e subisca, quanto alla materia, ima diminuzione 158 ), — e cosi pure particolarmente, in secondo luogo, dov’egli esprime la idea, che due punti non vengono ancora a formare una linea, se non c’è la cooperazione di una energia creatrice unitaria (una creatura ) 15B ). Anche nella p. 519: Ncque enim Socrnles aliquam naturarti, quarti ha- beat, fiatoni communicut, quia neque homo qui Socrales est neque animai, in aliquo extra Socratem est. !M ) p. 520: Socrates.... lumen nullo modo de pluribus colligitur, quia in pluribus non est. Già questo dovrebbe renderci circospetti, nell attribuzione di tale scritto a Gausleno: ma v. appresso la nota 162. 15t ) P- 521: Al vero nec particuluritas nec universalitas in se transenni. Namque universalitas potest praedicari de particularitate, ut animai de Socrate vel Platone, et particularitas suscipit praedi- calionem universalitatis ; sed non ut universalitas sit particularitas, nec quod particolare est, universalitas fiat. [Queste parole fan parte di una eitaz. da Boezio, ad Ar. Praed., I, p. 120; PL, 64, 170]. P- 510: Non sequitur « si hic asser est, et medietas hujus asseris est»; posset enim destrui medietas,.... non quanlum ad to¬ tani ejus massam, sed quanlum ad formam, et tamen remanentibus ejus aliquibus particulis non destrueretur hic asser, quoniam me- dietatis ejus materia, forma tantum pereunte, tota non periret. P- 511 : Si quuelibet duo puncta proxime juncla faciunt bìpunctalem lineam, quue sit una creatura, tunc habebit unum fundamentum; sed una atomits non erit ejus fundamentum; jam  polemica contro un emendamento [proposto per sfuggire alle difficoltà] del realismo, egli risolutamente si attiene alla similitudine derivata da Porfirio (Sez. XI, nota 44), e indi passata nelle teorie di Boezio (Sez. xn, nota 97) : la similitudine, cioè, dell’opera d’arte, sic¬ ché per lui il genere è la materia e la differenza è la forma, ma il prodotto stesso, cioè la specie, nella quale la materia è il sostrato della forma (formarti sustinet ), viene considerato come una unione permanente, e desi¬ gnato anche con il termine « materiatum » 160 ) ; in luogo di questo termine, d’altro canto, trovasi pure, ferma re¬ stando rigorosamente la idea di parte, la caratteristica espressione « diffinitivum totum » J01 ). Ma un più preciso fondamento a questa sua opi¬ nione egli lo dà nella maniera seguente: Nell’individuo una certa «essentia», cli’è la materia, porta in sè ( su¬ stinet ) la forma della individualità, ed è composta con essa, dal che appunto si genera la diversità degl’indi¬ vidui singoli; ora, proprio questa essenza, in quanto la si trova non soltanto in uno o nell’altro individuo, ma nello stesso tempo anche, come materia, in tutti quanti insieme, è la specie, la quale pertanto, per molte che sieno le essenze singole ( essenrìaliter multa), viene tutta¬ via designata come concetto collettivo ( collectio) con le enim esset bipunctaliter linentum.... p. 513 : postarlius dicere quod ipsa bipunctaìis linea fundutur in illis duabus alomis ut in sub- jeclis, non in subjecto. ’*’) p. 516: Sed dico: facta est species ex genere et substanliali differentia, et sicut in statua aes est materia, forma autem figura, similiter genus est materia speciei, forma autem differentia. Materia est, quae suscipit formam. Ita genus in ipsa specie constituta for¬ mimi sustinet. Nani et postquum constituta est, ex materia et forma constai, i. e. ex genere et differentia.... p. 517: ontne materiatum sufficienter constituitur ex sua materia et forma. ’") p. 522: Speciem ex genere et substanliali differentia con¬ stare, ut statua ex aere et figura, alidore Porphyrio (in Boezio, ad Porph. a se trinisi., IV, 11, p. 88 fed. Brandt, p. 268; PL]), constat. Itaque pars est speciei materia et similiter differentia. Ipsa vero species est totum diffinitivum eorum. parole « un universale », ovvero « una natura », press a poco come anche il concetto di «popolo» abbraccia molti individui 162 ); non già viene cioè individualizzata in ciascun individuo singolo la specie tutta quanta, bensì solamente una sua parte, cioè appunto una sola siffatta essenza, la quale non è già identica alla totalità che co¬ stituisce la specie (concollectio), ma ha con essa in co¬ mune soltanto la simile composizione o la simile ener¬ gia creatrice (similis compositio, similis creatio ): onde neanche la similitudine con il popolo o con un eserci- cito calza perfettamente, sussistendo tra l’essenze smgole e la loro totalità, data quella somiglianza nella produ- zione, una maggiore identità di essenza che non tra un soldato e l’esercito; tutta questa relazione si presta in¬ vece meglio a esser paragonata con il caso di una massa di metallo piuttosto grande, la quale in una delle sue parti può esser lavorata in forma di coltello, e nello stesso tempo, in un’altra sua parte, in forma di stile. Quid nobis polius lenendum rideatur de his, Deo annuente, amodo ostendemus. Unumquodque individuimi . ex materia et forma compositum est, ut Socrates ex homine materia et Socra- titate forma; sic Plato ex simili materia, se. homine, et forma di¬ versa, se. Platonitale, componitur; sic et singuli homines. Et sicut Socratilas, quae formaliler constituit Socratem, nusquam est extra Socralem, sic illa hominis essentia, quae Socralitatem sustinet in Socrate, nusquam est nisi in Socrate. Ita de singulis. Speciem igitur dico esse non illam esscntiam hominis solum, quae est in Socrate, vel quae est in aliquo alio individuorum, sed tolam illam collectio- nem ex singulis tdiis [5251 hujus naturae conjunc.tam. Quae tota colleclio, quamvis essentialiter multa sit, ab auctoritatibus (cioè da Porfirio e Boezio) tamen una species, unum universale, una natura appellarne, sicut populus (v. la Sez. precedente, nota 153), quamvis ex multis personis collectus sit, unus dicitur. Speciem esse dicimus multitudinem essentiarum in- ter se similium. ut hominem.... lllud tantum humanitatis informatur Socratitate. quod in Socrate est. Ipsum autem species non est, sed illud quod ex ipsa et caeteris similibus essentns conficttur. Attende. Materia est omnis species sui individui et ejus formam suscipit, non ita scilicet, quod singulae essentiae illius speciei informentur illa forma sed una tantum, quae tamen.... similis est compositioms, prorsùs cum omnibus aliis ejusdem naturae essenliis.... Neque.... diversum judicaverunt [se. auctores] unam essenJiam illius con- [Ora questa medesima relazioue si ripete per il con¬ cetto di genere, essendo ciascuna delle esscntiae, appar¬ tenenti alla totalità di una specie, composta a sua volta di una materia e di una forma, con questa sola diffe¬ renza, che cioè la forma qui non è più esclusivamente quella sola della individualità, ma involge essa mede¬ sima in sè la pluralità delle differenze specifiche, cioè sostanziali; ma quella materia come tale appare indif¬ ferenziata ( indifferens ) in quelle essenze singole, che, come materia, stanno a fondamento della formazione della specie, e si chiama ora genere la multitudo dell’es- senze, che possono far da sostrato (sustinere, recipere) alle differenze specifiche 164 ). E lo stesso può infine ripetersi anche relativamenteal « primo principio », perchè le essentiae appartenenti a un genere, consistono a lor volta di materia e forma, e sono, quanto alla materia, parimente indifferenziate colleclionis a tota collectione, sed idem, non quod hoc esset illud, sed quia similis creationis in materia et forma hoc eral cum ilio.... Massam aliquam ferream, de qua fuciendi suiti cultellus et Stylus, videntes, dicimus: hoc fulurum materia cultelli et styli, cum tàmen nunquam tota suscipiut formam alterulrius, sed pars styli, pars cultelli.... (p. 527) Major.... identitas alicujus essentiae illius collec- tionis ad totum, quarti alicujus personue ad cxercitum; illud enim idem est cum suo tato, hoc vero diversum. — Inoltre p. 535: Hoc enim habet nostra sententia, quod animai illud genus in parte sui suscipit rationalilalem et in parte irrationalitalem. 1M ) p. 525 : Item unaquaeque essentia hujus collectionis, quae humanitas appellalur, ex muteria et forma constai, se. ex animali materia, forma autem non una, sed pluribus, rationalitate et mor- talitate et bipedalitate, et si quae sunt ei aliue substantiales. Et sicut de homine dictum est, se. quod illud hominis, quod sustinet Socru- titalem, illud essentialiter non sustinet Platonitatem, ita de animali. Nam illud animai, quod formas [Cousin corregge: formami huma. nilatis, quae in me est, sustinet, illud essentialiter alibi non est, sed illi indifferens est in singulis materiis singulorum individuorum animalis. Hanc itaque mullitudincm essentiarum animalis, quae singularum specierum animalis formas sustinet, genus appellandum esse dico: quae in hoc diversa est ab illa multitudine, quae speciem facit. Illa enim ex solis illis essentiis, quae individuorum formas sustinent, collecta est; ista vero, quae genus est, ex his, [quae] diversurum specierum substantiales differentias recipiunt. C (indiff erentes ), mentre recano in sè, come loro forma, le differenze del genere, e così ancor una volta si ar¬ riva a una multiludo di essenze, come al generalissi- mum, del quale infine può ancora dirsi soltanto, che la sua materia è la « mera essentia » o la sostanza stessa, mentre la sua forma è la susceptibilitas contrario- rum 165 ). Così l’Autore, con il suo caratteristico potenziamento o incastramenti della essenza, si accosta tuttavia ancora molto dappresso a Guglielmo da Cliampeaux; pertanto non si può in verità dire di lui che, come Gauelenus, abbia staccato l’universale dalPiudividilo (v. le note 145 s.), ma nello stesso tempo, mediante i concetti di collectio e d’indifferens, egli viene a contatto con la teoria della indifferenza, mentre quei concetti stessi, hanno certa¬ mente per lui, in grado di gran lunga maggiore, una va¬ lidità obbiettiva. [c) dottrina del giudizio ]. Ma tanto più caratte¬ ristica è perciò la forma che deve qui assumere la con¬ cezione della funzione logica subbiettiva, cioè del giudi¬ care, nei riguardi degli universali, mentre d’altra parte, soltanto con la enunciazione del modo di vedere dell’Au- ’*) Ibid.: Item, ut usque ad primum principium perducalur, sciendum est, quod singulae essentiae illius multitudinis, quue ani¬ mai genus dicitur, ex materia aliqua essendo corporis et formis substantialibus, animatione et sensibililale, constat, quae, sicut de animali diclum est, nusquam alibi essentialiler sunt; sed illae in¬ differentes jormas susdnent omnium specierum corporis. Et haec taliurn corporis essentiarum multiludo genus dicitur illius naturae, quam ex moltitudine essentiarum animalis confectam diximus. Et singulae corporis, quod genus est, essentiae ex materia, se. aliqua essentia substandae, et forma, corporeitate Constant. Quibus indif- ferentes essentiae incorporeitalem, quae forma est, species, susti- nent ; et illa taliurn essentiarum multiludo substantia generalissimum dicitur, quae tamen nondum est simplex, sed ex materia mera es¬ sentia, ut ita [526] dicam, et susceptìbilitate contrariorum forma constattore sopra questo punto, le idee di lui trovano la loro esplicazione compiuta. Egli si lamenta della mancanza di una definizione della relazione predicativa; poiché intenderla senz’altro come inerenza obbiettiva, è un uso non giustificato, a prescinder dal fatto che la inerenza stessa la si può prendere soltanto nel senso sumdicato di divisione: e come ci si deve guardare dalle con¬ seguenze della teoria della indifferenza, è in generale da respingere la identificazione di praedicari e di esse, dal punto di vista del contenuto definitorio della specie: mia osservazione, questa, che certamente è rivolta con¬ tro Abelardo (v. appresso la nota 318), e più che mai assume il carattere di una espressione specificamente polemica, allorquando, prendendosi posizione, come non si può disconoscere, contro una teoria di Abelardo (relativamente ai « sumpta»: v. appresso la nota 321), si afferma che tutte quante le denominazioni universali, sieno aggettivi eieno sostantivi, si riferiscono indiret¬ tamente a forme obbiettive 166 ). Insomma, il giudizio ) p. 526: Audi et attende; praedicari quidem inhaerere di¬ clini. Usus quidem hoc habet; sed ex auctoritate non imeni con - cedo tamen; inhaerere autem dico humanitatem Socrati, non quod tota consumatili- in Socrate, sed una tantum ejus pars Socratitate mformatur (v. la nota 163). - p. 531: Nasse debes quod nusquam, quid sii praedicari, piane dicit auctoritas. Nani quod solet dici quod praedicari est inhaerere, usus est ex nulla auctoritate procedens., p ; 21 ' ltem «pec'es in quid praedicatur de individuo (que¬ st abbreviazione «praedicari in quid» la incontriamo qui per la prima volta - efr. la nota 282: cioè nella traduzione di Boezio [in  p. 527 8.: Sed, dicuril^.. « ralionale » alterius nomen est, prò impositione scilicet animalis, et aliud est quod principaliter significai, se. rationalitas, quam praedicat et subjicit; t homo non asserisce mai che quel dato soggetto e quel dato pre¬ dicato, bensì asserisce solamente che il soggetto va anno¬ verato fra quell’ essenze, che o son costituite da una de¬ terminata materia, o sottostanno a una determinata forma 168 )! pertanto (e ad avvalorar le sue parole 1 Au¬ tore può persino richiamarsi qui a un passo isolato di Boezio) il nome che significa una specie, viene dato appunto soltanto ai rispettivi individui singoli, ma non mai alla specie stessa 170 ); e per tal riguardo si distin¬ guono i sostantivi e gli aggettivi, in quanto che quelli si riferiscono alla materia e questi alla forma, sicché chi parlasse di un accidentale, cioè di un « adiacens » — ma è proprio ancora Abelardo che fa così : v. ap¬ presso le note 283 s. —, commetterebbe il più grande degli errori m ) ; ma se così stanno le cose per quel che concerne il significato originario dei termini, modi di dire, come p. es. « Uomo è un concetto di specie », sono soltanto espressioni traslate, imposte dalla necessità 17 ). vero nihil aliud vel nominai vel significai, quam illam speciem. Absit hoc; imo, sicut « Tallonale » et « homo», sic et quodlibet aliud universale substantivum alterius nomen est, per impositionem quidem ejus, quod principaliter significai. V. g.: rationale vel al¬ bum imposi timi luit Socrati vel alicui sensilium ad nommundum propler formas, i. e. rationalitalem et albedmem, quas principali- ter significant. . . . ’*) p. 528 : Itaque cimi dicitur « Socrates est homo », lue est sensus «Socrates est unus de materialiter constitulis ab homine».... Sicut cum dicitur « Socrates est ralionalis », non iste est sensus « res subjecta est res praedicata », seti « Socrates est unus de sub- jectis huic jormae, qvae est rationalitas ». ... "») Ibid.: Quod aulem « homo » impositum sit lus, quae ma¬ terialiter consliluiinlur ab homine, i. e. individuis, et non speciei, dicit Boethius, in commentario super Calegonas, his verbis etc. (v. BOEZIO liti ir. praed.. II. p. 129); cfr. la Se-/., precedente, nota 121. m ) Ibid.: Nomina illa tantum dicunlur substantiva, quae im- ponuntur ad nominandum aliquem propter ejus malenam.... vel.... expressam essentiam .; adjectiva vero Ma dicuntur, quae,mpo- nuntur alicui propler formam, quam principaliter significai.... I\a quod dici solet, adjectivum esse, quod significai accidens, secun- dum quod adjacet, et substantivum, quod significai essentiam, ut essentiam, ridiculum est vel sine inlellectu. '”) p. 529: Sciendum est ergo: vocabula, quae imposita sunl  [d) propensione al platonismo ]. — Già da ciò è ma¬ nifesto che l’Autore (in antitesi con Abelardo) discono¬ sce il valore effettivo della sintesi che ha luogo nel giu¬ dizio, e, secondo lo spirito del platonismo, isola le pa¬ role tutte quante, come imagini subbiettive di esem¬ plari obbiettivi: pensiero che non potrebb’enunciarsi con maggior chiarezza di quel ch’egli stesso fa, quando p. es. dice : « razionale » non è il nome di ciò che, come soggetto, sottostà al predicato della razionalità, bensi è il nome di una entità, che vien costituita dalla « razio¬ nalità » 17S ) ; anzi, a questa maniera, bisogna ch’egli con¬ cepisca il rapporto predicativo in guisa così indetermi¬ natamente generica, ch’esso si trovi in generale a coin¬ cidere con il prodursi del termine « significante », ed es¬ sendo quest’ultimo momento, per il soggetto e per il predicato, il medesimo, la differenza tra uno e l’altro si riduce a essere puramente esteriore e accidentale; ma, a tal proposito, l’Autore si appoggia a un passo di Pri- sciano, dove, in base alla terminologia generalmente adot¬ tata dagli Stoici (v. la Sez. VI, note 112 ss.), le parti- celle vengono denominate « syncategoreumata », dal che si può argomentare che allora tutte le altre parole sono appunto categoreumata, cioè predicati 174 ). rebus propter aliud significandum principaliter circa eas, quando- que transjerunlUT ad agendum de principali signi ficatione ; ut cum.... translative .... dicilur « rationale est differentia » et « album est spe- cies coloris i, nihil aliud intclligo quam « ralionalitas » et « al- bedo ». Sic.... cum dicilur « homo est species ».... Concedimus ita- que, hanc translationem necessitate fieri. *”) p. 547: Rationale enim non est nomen subjecti rationalitatis, sed rei quae a rulionalitale constiluitur, quae non est ipsum animai. m ) p. 531: Mihi autem videlur, quod praedicari est principa¬ liter signi ficari per vocem praedicatam; subjici vero, significavi principaliter per vocem subjectam, et hoc quodammodo videor ha- bere a Prisciano, quod in tractatu orulionis, unte nomen (cioè nel capitolo che precede la trattazione del Nomen), dicit praepositiones et conjunetiones « syncategoreumata », i. e. consignificantia. Scimus autem « syn » apud graecos « cum » praepositionem [532] signifi¬ care, « categorare » autem « praedicuri » ; unde « categoriae » « prne- 1S. — Questi syncategoreumaia die, presi dalla grainma. tica, son qui messi in campo di passata, e che noi in questa Sezione incontreremo ancora qualche volta, esercitarono più tardi, a partire da Psello (Sez. seguente, note 9 e 92) e da Pietro Ispano (Sez. XVII, nota 256), un influsso estremamente esteso: ma questo è im argomento che, com’è ben naturale, dob¬ biamo riserbare al seguito della presente esposizione. Invece la conseguenza che da ciò ricava qui il nostro anonimo Autore, conduce a un platonismo, che deve farci ricordare da vicino lo Scoto Eriugena. Se cioè « praedicari », a questa maniera, è la stessa cosa che « significari principaliter », la funzione dell’in¬ telletto umano trapassa in quelle forme e maniere di essere obbiettive, che stanno a fondamento degl’indi¬ vidui, poiché il concetto si genera (intellectus consti - tuitur, generante) per mezzo della parola, in vista del- l’universale obbiettivo 1 ”), e anche la inerenza, se con essa si vuole, secondo l’abitudme tradizionale, identi- beare la relazione predicativa, ha tuttavia appunto esclusivamente mi valore obbiettivo nel processo del divenire delle cose ”•). Insomma si tratta soltanto delle irifcantLl d,"" ur - S .' td . em est «eategoreumata» quoti «si- fótér» Til n d0m p « praedicari » quoti « significar, principa- vol i, S41 s „,n SCUN ',°> II, 15 [ed. Hertz, voi I p. 54] suona così: Partes ignur orationis sunt secundum dudecticos dune, uomo,, et verbum, quia hae solae eliam per Te coniunctae plenum facium ortUionem, alias attieni partes « syncate- goremata », hoc est consignificantia, appellabant). WiJJV i" 1 erl * « praedicari. » quoti « si.gnificari princi¬ pali ’ q i SO r‘ m s, Z m J ìc ationem recepit Aristoteles, juxta iUud albani mi significai, msi qualilatem (Cai., 5: v. la Sezione IV nota 476; cosi si storceva qualsiasi testo a favore del proprio perso’ " • m °'!° dl V e dere) : n Cu m enim album «subjectum albedinis » nominando significa, illuni solam significationem notaviI. Aristole- les m qua mtellectus constituitur per vocem.... Sicut ensis et g/a- diuseumdem generant mlcllcelum, ita ilio duo nomina jacerent. ) p. 53.1: Quod si «praedicari» quidem prò « inhaerere » ac- liPl ì q “° d ?* c ° ncedl ™us, ncque enim bonum usimi abo- e lolumus sic dicendum est: omms natura, quae pluribus in¬ olierei indivulins materuiliter, species est. nature » unitarie, che stanno a fondamento delle cose: e, quando il concetto di natura viene ridotto alla similis creatio (v. sopra la nota 163) o rispettiva¬ mente, per mantener la separazione da altre formazioni, alla dissimilis creatio m ), a ciò si connette una teoria platonico-mistica della Creazione, la quale qui non c’in¬ teressa 17S ). Ma è da considerare, a questo proposito, che, da un lato, secondo è stato detto più sopra, vien a essere posta massimamente in rilievo, per la predicazione, la distinzione tra essentia materialis ed essendo forma- lis 17 °), come pure, dall’altro lato, che nel rispetto onto¬ logico viene attribuita una efficienza alla forma soltan¬ to 1S0 ) ; per tali ragioni va combattuta quella opinione — la quale del resto appartiene del pari ad Abelardo (v. appresso la nota 306) — secondo la quale il sommo genere ( genus generalissimom) sarebbe la materia stessa, e pertanto le forme sarebbero le sue specie prossime 181 ); OT ) 1 Ititi. : Hic aulem tantum agitur de naturis. Si uutem quae- ras, quid appellem naturimi, exaudi: naturam dico, quicquid dissi¬ milis crealionis est ab omnibus, quae non sunt vel illud vel de ilio, sive una essentia sii sive plures, ut Socrutes dissimilis crea- tionis ab omnibus, quae non sunt Socrates. Similiter et homo spe- cies est dissimilis creationis ab omnibus rebus, quae non sunt illa species vel aliqua essentia illius speciei. Anche la obiezione relativa alla f enice, la quale esiste soltanto in esemplare unico (v. la Sez. XII, nota 87), viene presa in ronsiderazionc, ma la si rimuove, con la osservazione che la opposizione tra materia e materiatum (v. sopra la nota 160) dev’essere tuttavia mantenuta nella sua uni¬ versalità. ™> p. 538-540. *'") P- 548 s. : Concedo, rationulilatem praedicari de homine in substantia, ut animai, sed illud ut formalem essenliam, aliud [Cou- sin corregge: animali vero ut materialem. Vere attieni assero, imi- Inni simpUcem jormam de alio praedicari substanlialiter, quam de his, quae formaliter constiluit. P- 549: Non est diversus effectus materiarum, imo forma- rum.... Apparvi, quod ille effectus sequitur formas, et non maleriam. m ) p. 546: .... ne concedere cogamur, et muteriam substantiae generalissimum esse genus, et susceptibilitatem contrariorum, et quaslibet simpliccs formas esse species.... Respondendum est, quod in diffinitione generis intelligcndum est, id quod genus est debere 276 e questo perchè, come s’è veduto (nota 165), già nel sommo genere stesso l’Autore ravvisa un prodotto di ma¬ teria e forma, e perciò per queU’ultima materia su¬ prema, cioè per la « mera essenza », altro predicato non gli rimane all’infuori dal puro essere, vale a dire « est » 182 ) ; precisamente alla stessa maniera che anche (v. la nota 170) quella essenza, la quale, come materia, sta a fondamento degl’individui, non ha di già essa stessa un nome che sia dato a lei quale predicalo, per¬ chè invece mi tale nome collettivo viene predicato sola¬ mente dei rispettivi individui 183 ). Ma quest’ultima considerazione viene ora estesa an¬ che alle forme, cioè alle differenze specifiche; in un lungo dibattito, d’intonazione polemica estremamente accentuata, contro la tesi usuale (Sez. XI, nota 44, e Sez. XII, nota 87), si dimostra cioè la impossibilità che la differenza specifica venga a cadere sotto la categoria della qualità, perchè allora la qualità dovrebbe scom¬ porsi in due specie supreme, ciò sono la differenza e la qualità residua, ma ciascuna di esse a sua volta potreb- b’essere costituita solamente mediante mia differenza specifica, e quest’ultima d’altra parte dovrebbe pure ve¬ nir a cadere parimenti sotto la categoria delle qualità, il che non le è possibile in nessuna maniera, cioè nè come genere nè come specie o sottospecie; e così anche, nemmeno in un’altra categoria ci può essere poi ima dif- praedicari de pluribus speciebus proxime sibi supposids, quod, quia deest illi maleriae [Cousin corregge: materia], idcirco non est genus. *) Ibid.: Possumus edam dicere, quia illa mera essendo ad interrogadonem factum per quid convenienler non respondetur.... Si ergo quaeritur «quid est [547] substantia », respondeamus «est». Neque enirn potest responderi per nomen « sub stantia »; namque non est nomen nisi materialorum a substantia, vel ipsiits substan- dae. Per transladonem supervacue responderi manifestum est. “’) p- 534: Opponetur: illa essendo hominis, quae in me est, aliquid est aut nihil.... Respondemus, tali essentiae nullum nomen esse dalum, nec per imposidonem nec per transladonem.ferenza specifica, poiché ciascuna specie della qualità (e a queste la differenza stessa dovrebbe ben appartenere) potrebb’essere soltanto una differenza specifica nell’àm¬ bito della qualità stessa 18, II, p. 98; PL, 199, 640]: Sunt autem dubitubilia sapienti quae.... suis m ulramque parlem nituntur firmamenti. Talia.... sunt, quae quaerunlur.... de materia et motu et principiis corporum. de progressu multttudims et magnitudini sectione an terminos omnino non habeanl (v. sopra le noie 125 ss.). de tempore et loco de numero et mattone, de codoni et diverso, in quo plurima attrilio est, de dividilo et individuo, de substanlia et forma vocis, de statu universalium, de usu et fine orluque virlulum eie. logica, la tendenza propria di quell’epoca; con ciò di¬ remmo di poter in pari tempo rendere compiuta la co¬ noscenza del terreno, sul quale si esercita la operosità tal proposito, anzitutto le Categorie, di fronte alle quali alcuni che ne hanno trattato, hanno assunto invero di Abelardo. [a) sopra le Categorie]. — Per quel che riguarda, a un atteggiamento svalutativo 18 “), già quei concetti pre¬ liminari di aequivocum, univocum e denominativum (v. sopra la nota 93) hanno dato motivo a discrepanze ™°). Ma poi la contrapposizione di sostanza e accidente (Sez. XII, nota 90) fu da taluni contestata, da altri invece o giustificata, limitatamente alle cose naturali concrete, o riferita alla mera relazione predicativa (cfr. la nota 186), o anche, con uno scambio tra forma e accidente, tra¬ sportata nel concetto di totalità costituita da parti m ). *'"l Lo stesso, Metal., IV, 2-1 ( Opp ., V), p. 181 [ed. Velili, p. 191J: Alti detrattimi Catliegoriis IPL, 199, 930J. *) lbid-, III, 2, p. 120 [ed. Wehb, p. 124; PL, 199, 893]: Ex opinione plurima idem principtditer significala denominativa et ca a quibus denominuntur (un’affermazione come questa, può es¬ sere stata fatta esclusivamente da segnaci dell'indirizzo realistico). — Arali. . Dialecl., p. 481 : Alee aequivoca ex sola debent praedU catione judicari ; sed nec unìvoca propler eamdem communionis causarti.... Sani autem nonnulli, qui.... non ad ca, quibus est impo- siturn vocabulum acquivocum et de quibus enuntiatur, respiciunt; imo ad ea, ex quibus est imposilum ; ut « amplector », cum ad eamdem personam, amplectenlem simul et umplexam. acquivocum dicatur, secundum diversarum proprietatum diffinitioncs, uclionis scilicet et passionis, non ad personam commune dicatur, sed ad prò- prietales, quas aeque designat. M Pseudo-Abael. De inlell. (riferito dal CousiN, Fragments piti- losophiques, Parigi, 1840, p. 493 [Abael. Opera, II, p. 753]): Quae- ritur, un linee divisin, leonini qttae sunt, aliud est substantia, uUud est accidens », sit sufficicns. Quod si concedatur, tunc, cum Tulionuli- tas sit, opnrtet esse substantiam vel accidens. Si autem accidens fuerit, potesl adesse et abesse....; quod falsum est.... Quidam dicunt, quod de quocumque veruni est dicere « istud est una res», de eodem ve¬ runi est dicere, esse substantiam vel accidens. Hi tamen non conce¬ duti/, rem imam debere dici, quod per opus hominum liabet exi- slentium, ut domus, nec quod habet pnrtcs disgregalas, sicut popu- Anche la disamina delle singole categorie diede pa¬ recchia materia a controversie, le quali non varcarono tuttavia il limite di quel che si trovava negli scritti di Boezio. Così, per quel che riguarda la relazione, la di- vergenza, che già si era manifestata fra Platone e Ari¬ stotele, rispetto al modo d’intendere questa categoria, si era trasmessa, attraverso i commentatori (Sez. Ili, nota 49; IX, nota 31; XI, nota 71), sino a farsi sentire anche nella discussione che s’incontra in Boezio (Sez. XII, nota 93), e pertanto questo punto controverso torna a com¬ parire anche qui I92 ). Si disputava altresì, se i concetti di somiglianza o di uguaglianza non sieno da ascrivere alla qualità, piuttosto che alla relazione, a quel modo che studiosi isolati assegnavano alla qualità persino la categoria della situazione ( situs) 193 ). Ovvero si metteva hi dubbio che fosse giusto considerare ubi e quando come categorie, dato che son ricavati dai concetti di spazio e di tempo, i quali appartengono alla quantità, e lus.... Alti vero duobus modis dicunl [754] divisionem sufficiente ni esse: praedicatione scilicet, et continentia secundum naluram. Pre¬ dicanone quidem.... v. g.: animalium aliud est rationale, aliud irra- ttonale ; haec divisto est sufficiens praedicatione, quia de quocum- que poterit dici: «istud est animai», de eodem statim consequelur, esse vel rationale vel irrutionale. Continentia.... ut tale sit exem- plum: « domus alia pars paries, alia tectum, alia fundamentum Accidens tamen ibi large accipitur prò forma. ) Abael, Dialect., p. 201 s.: Quae quidem [ diffinitio ] ab alia in eo maxime diversa creditur, quod itane Aristoteles secundum re¬ rumnaluram protulil, illam vero Plato secundum conslruclionein nominum dedit.... Sunt autem qui quemadmodum Platonicam diffi- nilionem nirnis laxum vituperata, ila et Aristolelicam nimis strictam uppellant. ' (kid., p. 204: Sunt tamen, qui « acqualis et inaequalis, simi- hs et dissimilis » inter qualitates contrarias recipianl. — p. 208: Hi vero, qui similitudinem potius inter qualitates enumerant, ut Ma- gislro nostro V. (v. la nota 102) piacili t. (La fonte di questa con¬ troversia è Boezio, messa a confronto con p. 187 \in Ar Praed., II e III: PL, 64, 219 e 259]). — Ibid., p. 201: Unus, memini, Magisler noster erat, qui positionis nomea ad qualitates quasdam aequivoce detorqueret. sono pertanto in perfetto parallelismo, p. es., con l’av¬ verbio interrogativo « qualiter » 104 ). O, ancor una volta, si domandava quale fosse la corretta subordinazione dei concetti di « morte », o di « sonno », e simili 1B5 ). Op¬ pure si discuteva sul come vada inteso il magis vel mi- nus che compare sovente nelle Categorie, se cioè la gra¬ duazione concerna puramente il sostrato, o puramente la proprietà, o uno e l’altra al tempo stesso 106 ). Li tali occa¬ sioni poteva anche venir fuori la distinzione tra i diversi indirizzi sopra la questione di principio, in quanto che i nominalisti, p. es., designavano il concetto di « ieri » come un Non-essere 1B7 ), o facevan valere il proprio lw ) Ibid., p. 199: Videntur autem nec generalissima esse « Ubi » vel « Quando », eo quod prima principia non videantur. Quae enim ex alio nascuntur, prima non videntur principia, sed ipsa quoque principia habenl; Ubi autem ex loco. Quando autem ex tempore..,, originem ducimi.... Solel autem a multis in admiratione[m] ac quae- si ione [ ni ! deduci, cur magis ex loci vel temporis udjaccntia praedi- camenta innascantur, quum ex adhaerenlia aliarum specierum sire generum. Tarn enim bene « Qualiter » unius nomiti generalissimi videtur, sicut « Ubi » vel « Quando », cujus quidem species bene vel male dicerentur [Cousin: bona vel mala dicereturl, sicut « Quando » heri vel nudiustertius, vel « Ubi » Romae vel Antiochiae [200] esse. La fonte di questa controversia, — oltre che la Sezione riguardante la quantità, e nella quale anzi locus e tempus hanno avuto una speciale trattazione (Bof.zio, p. 146 [in Ar. praed.. Il: PL, 64, 205]), — è in particolare il commento dello stesso Boezio, p. 190: « quando» et «ubi» esse non polesl, nisi locus ac tempus fuerit [in Ar. praed.. Ili: PL, 64, 262], ”“) Ibid., p. 402: Solel autem de morte et vita quaeri, utrum in privalionem et habilum, un potius in contraria recipiuntur. — p. 406: Si.... f in dormiente ], inquiunt, visio esset..., ridere eum oporleret. Si vero caecitas inesset, nunqunm amplius ipsum ridere contingeret. “*) Gilb. Porret. de sex princ., 8 (puhhl. nella ediz. lat. delle Opere di Aristotele, Venezia, 1552, I, f.34) : Dicitur autem « magis et minus suscipere » tripliciter. Aiunt enim quidam secundum ere- mentum vel diminutionem eorum, quae suscipiunt, subiectorum. Aliter autem et olii, ipsa quidem, quae suscipiuntur, in suscipiente diminuì et crescere, annuntiant. Alii autem secundum ulrumque, am- borum diminutionem et augmentationem [cfr. PL, 188, 1268. e la nota 21 di questa Sez.]. w ) Abael. Dinlect., p. 196: Cum.... « Iteri » rei existentis de- signativum non videatur.... Sed fortasse hi, qui magis in speciebus 282 CABLO PRANTL punto di vista, anche in ordine alla relazione e agli op. posti, mentre allo stesso modo operava, dal canto suo, la corrente realistica 19S ). Ma sembra che, più spesso di tutto, si sia parlato della categoria della quantità, già per il fatto che questa of¬ friva la opportunità di passare di nuovo alle questioni concernenti il concetto di parte (note 125 ss.). Mentre i nominalisti intendevano i concetti numerali in modo perfettamente analogo a tutto il resto [ intendi : dei con¬ cetti], e perciò designavano i singoli numeri come spe¬ cie, il cui genere è il concetto stesso di Numero I99 ), ciò era negato dai loro avversari; secondo costoro infatti, mancava nei numeri quella essenziale unità di natura, eh e necessaria per il concetto di specie o di genere, e per conseguenza i numeri vanno semplicemente qualifi¬ cati come espressioni aggettivali di un procedimento collettivo; quest’ultimo poi si applicava altresì a tutti quanti i momenti della quantità, in quanto che a ima realtà sostanziale posson pretendere soltanto i fonda¬ menti semplici della quantità, vale a dire i concetti di rerum naturimi quarn vocabulorum impositionem attendimi, per * ^ Qunmduiji praesentem (idjacenliam designari volunt. ) lbid., p. 392: Quod qitidem multos in hanc sententiam in- duxtt, ut contrarium nomen tantum universalium, non eliam sitigli- larium confiterentur, albedinis quidem et nigredinis, non hujus albedmis vel hujus nigredinis. Sic quoque et relutivum et « priva- lio et habitus » nomina tantum universalium diclini. Relativa qui¬ dem.... tantum universalìa dicebanl ex relatione construclionis. « Ha¬ bitus» quoque et « prie alio » universalium tantum nomina diclini, eo quod in individuis non possimi servaci. — lbid.. p. 398: Quidam talem eum (se. Boethium ) divisionali invilisse dicunl, quod contra¬ ria alia siint genera, alia specialissima. Specialissima vero sic subdi- viduniur, ut cornili alia sub eodem genere, alia sub diversis con- trariis ponantur. ' ') lbid., p. 190: Hi vero, quibus videtur. in speciulibus uut generalibus vocabulis non solimi ea contineri, quae una sunt natu- raliter, sed magis ea, quae substantialiter ab ipsis nominantur, pos¬ simi forlasse et istu (rior i singoli ronrrtli numerali) species appel¬ lare, quum videlicel magis logicum in impositione vocimi sequuntur, quam physicam in natura rerum investigando.  punto, unità, istante, lettera [dell’alfabeto, come suono elementare], luogo, ma tutto il resto si riduce a pure espressioni collettive 200 ); fu altresì da alcuni fatto cenno della differenza che sussiste, rispetto alla divisibilità, fra il concetto di tempo e quant’altre quantità ci sono, di¬ visibili e continue 201 ). [b) sopra la teoria del giudizio in generale]. — Nella teoria del giudizio sembra essere stato spesso com¬ pendiato tutto quanto il contenuto essenziale della lo¬ gica, entro i limiti in cui di questo si faceva uso, sempli¬ cemente per la istruzione degli scolari più giovani; im¬ perocché si riduceva il libro De interpretatione in forma di compendi, di « Introductiones » o di « sumrna artis », ”») Ibid., p. 188 Numentm autem colleclionem unilatum de¬ terminimi....’ I ndo maxime Magistri nostri sementiti, membri, con- firmabut, binarium, ternarium, caeterosque numeros spectes numeri non esse, nec numerimi genus oorum, cujus videlicet res una natu- r,diter non esset. Hae namquc dime unitates in hoc homine liomae habitante, et in ilio qui est Antiochiae consistimi, atque lume bina- riunì componimi. Quomodo una res in natura diceretur, aut quomodo ipsae spatio tanto disluntes imam simili specialem seti generalem na- turam reci pieni? Linde potius numeri nomen et binarli et ternani et caeterorum a collectionibus imitatimi sumpta dicebant [così il codice: ma il C. legge « (Magister noster) dicebal»]. — Ibid., p. 179 s.: Ilarum autem (se. qu.mtilalum) aline sunl simplices, alme compositae. Simplices vero quinque dicunt: punctum scilicet. uni- totem, instans quod est indivisibile lemporis momentam, dementimi quoti est vox individua, simplicem locum.... Ilas autem tantum, quae simplices sunt, Magistri nostri sementili speciales appellabili natu- ras, eo videlicet quod sint unite nuturaliter, quae partibus careni, quae vero e* bis sunt compositae, composita individua dicebat, nec una naturaliter esse....; mugisque eurum nomina.... sumpta esse a collectionibus quibusdam.... ™) Ibid., p. 186: Cimi autem res singulae sua habeant tempora in se ipsis jundata, sua scilicet momento, suas horus, silos dies, rei menses, vel annos, omnes lumen dies simul existentes, vel menses, vel anni prò uno accipiuntur.... (p. 187) In ttliis.... lotis, lotum po- situm ponil partem, et pars desimela perimit totum.... In tempore vero e converso est, velati in die. Si enim prima est, dies esse dicitur, sed non convertitur.... Al vero si dies non est, prima non est. sed non convertitur.... In his itaque totis, quae per unum tantum partem semper existunt, iUud, quod de inferenlia totius et partis Boethms (de difj. top.. TI, p. 867 [PL, 64, 1188]) docet, non admittunt.  e si mettevano assieme regole sopra le parti e le forme del giudizio, la quantità, qualità ed equipollenza, il con- trano e il contraddittorio, la verità e la falsità, la con versione e la modalità dei giudizi ecc., cercandosi a que - sta maniera di meglio conformare, per così dire, il li. bro aristotelico all’uso scolastico, e di apportarvi in vari mod! compimenti o ampliamenti 202 ). Ma, per quest’ul¬ timo riguardo, nessuna più precisa notizia ci è stata tra¬ mandata: che a tale lavoro si collegassero da capo altre controversie sovra punti particolari, ci risulta invece an- i le t a e ristrette fonti, a noi accessibili. Furon così sol- evale subito difficoltà, già riguardo al concetto di vox significativa (Se*. XII, nota 109), e tali difficoltà, relati¬ vamente alla propagazione del suono, arrivarono a un tale colmo di astruseria, che alcuni finirono con il de- «ignare addirittura l’aria, come ciò che ha la funzione di « significare » *). Non vale molto di più la questione, QuiZ^n 135]: manifestiti* poteril nuilihet, mterpr.), compendiosius et excepla reverenti vZborZL fn ZT’ T° d " quas Introduciiones foconi Vix est Jn," l ‘ b "r rudintentìs > non doceat, adirai* aUis non mtnTn^LlrS^a qmd nomea, ql,id verbum, quid oratio none Urrunt,taque quae vires enuntiationom 1 orano, qU ae spectes eius, tate, q U ae determinate verae sunt auUahà^ SOrtÌant “ T aut ( i,lnlU team, quae consentiant sibi quae dissentine? 11 ™ qu,bus, l ?qu>pol visim, coniunctim praedicenlur alt con? " ’ 9 “ ae P raed,ca ‘“ dU quae sii natura modalium et auae si et quae non >' il em n ni 11171 . /> • * Quae smgularium contradìctio _ Pcriermeniis docet?"o'uis^'liimd? *** quae vel Aristotile* in cairn totius artìs sumZm Zfc, C ° nq “ lslta l « dicit? Omnes Cfr - ! qUÌaPP^’la noU 366. /aC ‘ 7,7 "“ fra, „ b „ n j~ sollevata a proposito della unità della significano, se cioè una parola possa « significare » anche le lettere da cui è costituita 204 ). Poteva invece esercitare più profondo influsso, — sebbene non ci sia stata tramandata notizia di ulteriori conseguenze —, la netta delimitazione che si segnò, a pro¬ posito del nomea, tra significare e nominare, in quanto che di quello è oggetto la universalità, e di questo il singolare 205 ). E così pure, prima di tutto, — in occa¬ sione della controversia, se le preposizioni e le congiun¬ zioni sieno parimente parole « significanti », o non pos¬ sano invece assolutamente esser annoverate tra le parti del discorso — grande importanza potè avere il contatto che si venne a determinare tra i dialettici e i gramma¬ tici: di questi ultimi, taluni si decisero, da un punto di vista unilaterale, per la seconda alternativa, ma altri tennero conto anche degl’interessi della logica, rendendo con ciò effettuabile una conciliazione, in base alla quale si potè almeno preparare a quelle parti del discorso aeres..., ipsis etiam, quos reverberat, consimilem soni formam attri¬ buita illeque fortasse aliis, qui ad aures diversorum perveniunt. Nostri tamen, mcmini, sententia Magislri ipsum tantum aè- rem proprie audiri ac sonare ac significare volebat. Cfr. qui ap¬ presso la nota 499. ) lbid., p. 488: Totum constai ex suis parli bus, vox ex suis non conslituitur significationibus. Et fil quìdem divisio totius in partes, vocis vero [non] in significationes. Nam etsi hoc in quibus- dam vocibus contingat, ut scilicet ex suis jungantur significationi- bus. ut hoc vocabulum quod est xens» ex littcris suis, quas etiam significai, non tamen id ad naturam vocis, sed totius referendum est; in eo enim quod ex eis constai, totum est earum, non eas signi- ficans. Est etiam et alia quorumdam solutio, ut scilicet concedant, nullam vocem conjungi ex signi ficationibus diversis, ad quas videli- cet diversas impositiones secundum aequivocationem habeal. Ncque enim « eris » ad quaelibet plora dicunt aequivocum, sed tantum ad divcrsorum subslantias praedicamenlorum. linde de lilleris, quae in eodem clauduntur praedicamento. aequivoce non dicilur. *“> J°«- Saresb. Metal., II, 20, p. 100 [ed. Webb, p. 104; PL, 199, 881] : Quod fere in omnium ore celebre est, aliud scilicet esse quod appellativa significant et aliud esse quod nominant. Nominan¬ te singularia, sed universalia significantur. (analogamente, si direbbe, al modo tenuto dall’autore del De gen. et spec.: v. «opra la nota 174) il successivo loro ingresso nella logica 20 °). Può essere ugualmente at¬ tribuita a im influsso della grammatica (ed è possi¬ bile sia stato per opera di Bernardo da Cliartres: v. la preced. nota d9) la introduzione di una terminologia, per la quale giudizi, come ad es. «Uomo è un sostantivo», furon denominati « materialiter im posila», ovvero giu¬ dizi « de significante et significato» 207 ). Ma nei dibat¬ titi sopra la questione della essenza deiraffermazione e della negazione, poteva ricomparire il contrasto fra opposti indirizzi, attenendosi alcuni alla forma gramma¬ ticale, altri ai concetti, altri ancora alla realtà obbiet¬ tiva 208 ). ) Abael. Dialect., p. 216: Praepositiones et conjunctiones de rebus corion, quibus apponuntur, quosdum inlellectus facere viden- tur, alque in hoc impericela canon significalo dicilur, quod... ipsu quoque res, de qua inlellectus habetur, in hujusmodi dictionibus non tenelur stetti in nominibus et eerbis, qtute simul et res de- monstrant ac..... I nde certu apud grammaticos de praepositionibus sementili exlitit, ut res quoque eorum, quorum vocabulis apponun- tur, ipsae destgnarent.... Vnde illa quorumdam dialecticorum seti- tentia potior yidetur, qttam grammaticorum opinio, quae omnino a parlibus orationis hujusmodi voces, quas signifieativas esse per se non judicavit, divisti, uc magis ea quucdarn supplemento ac colli- gamenta (v. la Sezione XII, note 43, 60 e 111) partirne orationis esse aicit.... (p. 217) soni etiam nominili, qui omnino a significativi hujusmodi dictiones remorisse diulecticos adstruant. Cfr. appresso le note 349 Reggi: 348] e 620. 1Q0 1J?"- 1 S . AK T B - MetaL ’ jfl,. 5, P- 137 [ed. Webb, p. 142; PL, JU4J. Interdum tamen dictionem rem esse contingit, cimi idem sermo ad agendum de se assumitur, ut in his quae jtraecepto- res nostri materialiter dicebant imposi la et dicibilia; quale est: «Uomo est nomea », «CurriI est verbum ». — Abael. Dial... p 248- IJitidam tamen trnnsitivam grummaticam in quibusdam propositio- m US esse volimi; qui quidem propositionum alias de consignifi- cantibus vocibus ulias vero de significante et significato fieri diclini, ut soni dlae, quae de ipsis vocibus nomina sua enunciant hoc modo « homo est nomea vcl vox vel disyUabum ». Cfr. la nota 618. ) Abaei.. Dialect., p. 404: Quidam aiitem per « jacere sub af- firmatioae et negatione » finitum et infinitum vocabulum accipiunl.[c) sopra questioni particolari, attinenti alla teoria del giudizio]. — Anche a proposito di vari punti parti¬ colari, che si trovavano dibattuti nel commento di Boe¬ zio, ci si decise senz’altro iu senso contrario all’autorità di lui: così, p. os., riguardo alla unità del giudizio 2UB ), o relativamente alla scomposizione del verbo in due ele¬ menti, la copula e un participio 210 ), o a proposito di cpiei giudizi, nei quali 1 « est » non implica la esistenza effettiva del soggetto 211 ), o a proposito della questione del rapporto quantitativo tra soggetto e predicato 212 ), ut « sedet, non sedetti quidam vero intellectus ab affirmalione et negatione generalos (v. la nota 175): sed nos polius va, quae ab af- firmatione et negatione dicunlur, aceipimus, essentias scilicel rerum, de quibus per affirmulionem et negationem agitar. Ma non si riesce a intender bene Joh. Saie Metal., 11, 11, p. 81 Led. Webb, p. 83; IL, 199, 869]: expedit [ dialeclicu J quaestiones...; quale est: An affirmare sit enuntiare (viceversa, se si potesse leggere « an titilli- tiare sit affirmare », ci sarebbe qualche maggiore possibilità di con- getturare un significato), et: An simili exture possit contradictio. •“) Abael. L)ial., p. 298: Sunt aulem, qui udslruanl, diversa ac- cidentia unam enuntiationem lucere, cum tulio sumuntur, quae ad diversa referuntur, veluti si dicatur : «/ionio citliaroedus bonus» (v. Boezio, p. 419 [in de interpr., ed. secunda, V, 11; cdiz. Meiser, Pars Post., p. 363: PL, 64, 573J). '") lbid., p. 219: Idem dicit « homo ambulata, quunlum prò- ponit «homo est ambulatisi) (Boezio [ ib., V, 12; p. 390: PL, 64, 586], p. 429). Sed ad hoc, memini, magister nosler V. opponete so' let: si, inquit, verbum proprium significationem inhuerere dicit, ve¬ runi autem sii, cam inhuerere, projeclo ipsum verum dicit, ac sen- sum propositionis perfidi. ‘ ) Ibidem, p. 223 s.: Unde quidem, cum dicitur, Homero quo¬ que defuncto, «Homerus est poiitu » (Boezio [//>., V, il; p. 3734: PL, 64, 578], p. 423).... «esse» quoque, quoil inlerponilur, in desi- gnatione non existentium vqlunt accipi.... Nostri vero sementili Ma- Bistri non secundum verbum accidentalem dicebat praedicationem, sed secundum tolius construclionis significaturam, atque impro- priam loculionem.... Sed quaero in ilJu significativa locutione, « Ho¬ merus est poeta», cujus nomea « Homerus» aul « poeta» acci- piatur. At vero, si hominis, falsa est enunciutio, co defuncto ', si vero poemutis.... est.... nova vocis aequivocalio. ' ) lbid., p. 247: In liis autem quae secundum accidens praedi- cunlur nec totani subjecti substantium continent, sed in parte tan¬ tum subjectum attingunt (Boezio [in de interpr., ed. prima, II, 11; ed. Meiser, Pars Prior, p. 159: PL, 64, 358], p. 263).... non est necesse, praedicatum vel majits esse subjecto vel aequale, veluti cum dicitur « animai est homo », vel « quiddam animai est homo alla quale questione potevan riattaccarsi pure sotti¬ gliezze grammaticali 213 ). Anzi le opinioni furono divise, anche in ordine a quei cenni intorno al « giudizio in¬ definito », con i quali Boezio aveva dato il compimento che ci voleva allo scritto aristotelico De interpretatione (Sez. XII, nota 115), essendo stato tale compimento da taluni giustificato, ma da altri respinto, — e fra que¬ sti ultimi ci vien fatta menzione di un Magister « V. », autore di « Glossulae super Periermenias » 214 ). Riguardo ai giudizi modali — v. la Sez. XII, nota 119: il termine tecnico « modalis » appare ora piena¬ mente invalso —•, si deve ravvisare veramente un modo di vedere individuale nell’ atteggiamento di alcuni, i quali deducevano i giudizi stessi dai giudizi non-modali, in tal maniera che dalle parole « possibilmente » o « ne¬ cessariamente » rimanesse modificato non il contenuto di fatto, ma il senso della enunciazione, — ovvero nel¬ l’atteggiamento di altri, i quali dicevano che in tali giu- (cfr. Boezio ( iniroiì. ad cuthegoricos Syll.: PL, 64, 768], p. 562). Quamvis tamen et hic quidam concedunt, animai quod subjicitur non esse majus homine. Diclini cnim, quia animai, quod homo est, ibi subjicitur, quod non est majus homine. “> J° H - Saresb. Metal., n, 20, p. 101 [ed. Webb, p. 105; PL, 199, 881]:.... quia « omnis homo diligit se». Quod si ex relativae dictionis proprietate discutias, incongrue dictum forte causabaris et falsum; siquidem.... sive collcclive sire distributive accipialur quod dicium est « omnis », pronomen relativum « se », quod subiun- gitur, nec universitati singulorum nec alicui omnium veraciter el necesse est, So- cralem non esse equum, possibile est vel necesse esse non equum.... In.... universali bus.... non ita concedunt, ut videlicet tantumdem va- leat « non » ad «esse» praepositum, quantum id [Cousin: ei], quod « esse » copulai compositum. "i Ibid., p. 442: Sunt lamen quidam, qui nec discretionem ul- lam inler categoricam et hypotheticam in disjunclione compositas habenl. sed idem dicunt proponi, cum dicitur « Socrates est vel sa¬ nile vel aeger », et cum dicitur « aut Socrates est sanus aut aeger »; ut scilicet omnis enunliatio, quae disjunctas recipit conjunctiones, hypothetica credatur. Volunt itaque semper in hujus modi catego¬ rici s. quae disjuncliones recipiunl, hypotheticae sensurn intelligi.— veduti cum dicitur «Socrales est sanus vel aeger », tale est ac si dicatur « aut Socrates est sanus aut Socrates est aeger. [d) sopra difficoltà inerenti alla teoria del sillogi¬ smo ]. — Dalla sfera della sillogistica non pos¬ siamo a tutta prima aspettarci ima così fatta letteratura sovra punti controversi, perchè, mentre da un lato i relativi compendi di Boezio, essendo, per così dire, puri formulari scolastici, non porgono occasione a diver¬ genze di opinioni, dall’altro lato, come abbiamo veduto (qui sopra, note 8-34), solamente a poco a poco si venne, appunto in quell’epoca, a conoscenza degli Analitici ari¬ stotelici, i quali inoltre mancavano anche allora di mi apparato esegetico, quale da gran tempo erasi avuto per le rimanenti parti della Logica. Si trova tuttavia, al¬ meno in Giovanni da Salisbury, una notizia, dalla quale sembra potersi argomentare che sia stato preso parti¬ colarmente in considerazione quel tal passo estrema- mente difficile degli Analitici Primi, concernente la con¬ versione dei giudizi modali (Sez. IV, nota 546), in quanto che si trovò necessaria una particolare termino¬ logia ( materia naturalis, contingens, remota), per signi¬ ficare i concetti, che ivi s’incontrano, di quel eh’ è naturalmente determinato [tte^’jxcs], del possibile, e del non-aver-luogo 219 ). Dalla medesima fonte appren¬ diamo altresì, che dei sillogismi, già noti ad Abelardo ") Joh. Sar. Metal., IV, 4, p. 160 [ed. Webb, p. 168; PL, 199, 918], dove in un sommario del contenuto degli Analitici Primi si legge anche quanto segue: quid in loto esse aul non esse, quas prò - positiones ad usum sillogisandi converti contingat et quas non; quidve optinent in his quae modcrnorum (v. la nota 55) usti dicun- tur esse de naturali materia aut contingenti aul remota. Quibtis praemissis, trium figurarum subneclit rationes etc. La eennata tri- partizione poteva essere ricavata da Boezio (Sez. XII, nota 119), il quale dal canto suo aveva attinto ad Ammonio (Sez. XI, nota 157); la terminologia di quest’ultimo passò nel Compendio di Psello (Sez. XV, nota 14), dove il passo corrispondente presenta, nelle tra¬ duzioni latine, le tre espressioni testé ricordate (Sez. XVII, note 38 e 155). Ci troviamo pertanto, anche qui, dinanzi alla possibilità che verso la fine delI’XI secolo si sieno fatti strada nell’Occidente latino sparsi frammenti della letteratura scolastica bizantina.  (nota 17), formati da giudizi modali, fu ora fatto uso frequente, così per parte dei teologi, come pure nelle scuole di dialettica 220 ). Un’argomentazione insidiosa, oc¬ casionalmente menzionata ima volta, e relativa alla pos¬ sibilità del futuro, è d’imitazione ciceroniana 221 ). [e) sopra questioni di Topica ]. — Invece la To¬ pica ebbe a godere ancor una volta di una più vasta e varia attività di studiosi; e ciò risulta già in generale dal¬ l’opera di Abelardo, il quale, a proposito dei singoli loci, si esprime in tal modo da indurci a ritenere ch’egli abbia trovato dappertutto già pronto un numero determinato di « regole » formulate, le quali rappresentavano la reda¬ zione, fatta nelle scuole, delle notizie riferite da Boezio nel suo scritto De diff. top. 222 ); inoltre, a partire dal tempo in cui fu tratta fuori novamente la Topica aristotelica (v. sopra le note 28 s.), ci furono effettivamente alcuni, che tentarono di arricchire questo ramo della dialettica con la invenzione di nuovi loci e di nuove « regole » 223 ), Ibid. : Deinde habila modalium rutione transit ad commix- tiones qitae de necessario sunt aut contingenti rum bis quae sunt de inesse.... Expositores vero divinar paginae rationem modornm pernecessariam esse diclini.... [169] Est enim modus, ut aiunt, quasi quidam medius habitus terminorum (ofr. la Sez. XII, nota 150). Et prafecto, licei nullus modos omnes, linde modales dicuntur, singu¬ ltitivi enumerare sufficiat, quod quidem nec ars exigit (v. ibid., noia 163), lumen mugistri scolarum inde commodissime disputant, Cfr. appresso la nota 623. Lo stesso, Polvcr.. II, 23. p. 125 [ed. Webb. I, p. 132; PL, 199. 455] : Restai libi illius Stoici lui quaestio.... Quaerebat.... enim.... an posses aliquid facete eorum quae minime faclurus es etc. Cfr. la Sez. VI, note 136 e 164. '“) Abael. Dialect., p. es. p. 334 (sunt igitur quatuor hujus in- ferentiae regnine), p. 353 (regulae antecedentis et consequentis), p. 375 (regidae ab interpretatìone), p. 376 (tres autem regidas a ge¬ nere in usum duximus), e cosi via pereorrendo tutta la Topica. ’l Joh. Sar. Metal., Ili, 9, p. 145 [152]: Non omnes tamen locos buie operi (cioè BOEZIO, de diff. top.) insertos arbitror, quia nec po- tuerunt, cum et a modernis, huiiis praeeunte benefìcio, aeque necessa- rios evidentius cotidie docerì conspiciam. — lbid., 6, p. 138 [1431: ma potè nello stesso tempo diffondersi altresì una idea giusta del posto e della importanza della dialettica ). Trasparivano tuttavia anche qui le differenze di ordine generale tra punti di vista, quando da taluni erano posti unilateralmente in maggior rilievo i concetti isolati, fatta astrazione dalla espressione verbale 225 ), da altri in¬ vece s’insisteva solamente sopra la necessità interna del¬ l’ordine di successione nell’argomentazione 22 “), mentre altri ancora, al contrario, ci tenevano a veder presa in considerazione proprio la probabilità subbiettiva. Ma c’erano poi varie controversie, che si collegavano anche a singoli loci o a regole particolari 22S ). Non tamen huic operi (cioè alla Topica aristotelica) tantum tribuo, ut inanem reputem operam modernorum, qui equidem nascentes et convnlescentes ab Aristotile, inventis eius multas adiciunt rationes et regulas prioribus aeque jirmus | PL, 199, 909 e 9011. V. appresso la nota 413 a. “) Ibid., 5, p. 134 [ed. Webb, p. 139; PL, 199, 9021:... scienti Topicorum.... ex opinione multorum dialeclico et oratori principu- liter faciat. ™) Abael. Dialect., p. 426: Dieunlur in argumentis ea, quae a propositionibus ipsis significanti^, ipsi quidem intellectus, ut qui- busdam plucet, quorum conceptio, sine eliam vocis prolulione, ad concessionem alterius ipsum cogit dubitanlem. **•) Ibid-, p- 427: Sunt autem, meniini, qui, verbis auctoritatis nimis adhaerentes, ornile necessarium argumentum in se ipso ne- cessarium dici velini. **) Ibid., p. 335: Sunt autem quidam, qui non solum necessa- rias consecutiones, sed quaslibel quoque probabiles verus esse fa- teanlur. Dicunl enirn, verilatem hypotheticue proposilionis modo in necessitale, modo in sola probabilitale consistere; in qua quidem sentenliu Magistrum etiam nostrum deprehensum dolco.... (p. 336) Dicunl tamen, quia omne quod probabile est, verum est, saltem secundum eum, cui est probabile. *“) Così taluni volevano che tra le maximae propositiones (Sez. XII, nota 165) fossero annoverate anche le regole principali del giu¬ dizio categorico (Abael. Dial., p. 339 s.), e c’eran altri che vole¬ vano estenderle anche di più (ibid., p. 366): oppure si trasferi¬ vano l 'antecedere e il consequens nei [intendi: «si allargava l'ap¬ plicazione delle regulae antecedenti et conseguenti, fino a com¬ prendere anche le relazioni tra i »] singoli termini del sillogismo (ibid., p. 353 s.), o si restringeva il locus a praedicalo puramente a giudizi categorico-ipotetici (p. 381), mentre da altri lo si faceva valere soltanto come principio di prova del locus a genere (p. 384);  293 U 29 . Negli studi di logica, la qualità continua A RIMANER MOLTO AL DISOTTO DELLA QUANTITÀ]. - Ma riflettiamo ora come quasi tutta la materia, che ave¬ vamo da presentar sino a questo punto, si sia dovuto ricavarla da due scrittori soltanto, vale a dire Abelardo e Giovanni da Salisbury, dei quali per caso ci sono con¬ servate opere di più lunga lena, cosicché ci sarebbe co¬ munque da imparar ancora ben di più, qualora si dispo¬ nesse di fonti più abbondanti: e riflettiamo così pure, inoltre, che ciascuna delle opinioni sopra citate, relative a punti particolari, ci permette di argomentare, per parte dello scrittore che se ne fa sostenitore, un’opero¬ sità di studioso, estesa a tutta quanta la sfera della lo¬ gica di quell’epoca; se terremo presenti queste conside¬ razioni, ci sarà difficile andar tropp’oltre, nell’ imagi- narei la estensione dell’attività, svolta in quel tempo, so¬ prattutto in Francia, nel campo della logica. Ben è vero che, ad avvalorare, per così dire, una impressione gene¬ rale ben nota, può darsi che, quanto a intensità, le cose andassero diversamente, perchè in nessuna parte ab¬ biamo trovato, non che una concezione filosofica, nean¬ che segni di effettiva originalità. Come in generale il Medio Evo era e rimase dipendente dal materiale di una tradizione, imposto dal difuori, così anche le nu¬ merose controversie attinenti alla logica, non prende¬ vano principio da un intimo impulso, bensì si fondano sopra uno stimolo esterno, dato dal materiale della tra¬ dizione scolastica, e bisognava, a così dire, che aspettas¬ sero questo stimolo, per avere in generale occasione di inoltre, anche sopra questo stesso ultimo /ocus, si dibatteron da rapo varie controversie, disputandosi cioè se esso abbia validità incondizionata (p. 378), o sia da intendere soltanto in senso cau¬ sale (p. 386): e controversie analoghe concernevano il locus ab ef¬ ficiente. con partecipazione anche di motivi teologici (p. 413), o il locus ab interpretatione, trattandosi di decidere fino a qual punto coincida con la etymologia.  manifestarci. Così anche i rappresentanti delle più im¬ portanti opinioni, caratteristiche dei vari indirizzi, ab¬ biamo pur dovuto spogliarli della gloria di essersi aperti da sè la loro strada; poiché certi passi isolati di Boezio, strappali dal contesto, e che sono stati appunto oggetto di studio appassionato, ci si sono rivelati (note 105, 129, 134, 170) come i punti di partenza, in base ai quali, a forza di stiracchiare, è stato poi messo insieme il resto, E se in mani nostre neanche Abelardo si sottrae forse a un simile destino (nota 286), non ne abbiamo colpa noi, ma la ragione ne va rintracciata nella verità storica come tale. [§ 30 . — Abei.ardo : a) suo ingegno: caratteristica ge¬ nerale], Proprio la considerazione ora esposta, che cioè in quell’epoca, da un lato, una grande moltitudine di maestri si occupavano, discendendo sino ai più mi¬ nuti particolari, del materiale di studi di logica, quale veniva tramandato, e che, dall’altro lato, per l’appunto nella letteratura tradizionale tutto questo genere di pro¬ duzione veniva a trovare le proprie condizioni, derivan¬ done il suo proprio indirizzo — ci doveva già da prin¬ cipio indurre a procedere con circospezione nel nostro giudizio sul conto di Abelardo (nato nel 1079, morto nel 1142): e di fatto, a prender in esame più da presso l’opera sua in connessione con quella dei contem¬ poranei, ci troveremo anche messi in guardia contro ogni esagerazione nell’apprezzamento di lui 22B ). Mentre “) In particolare gli studiosi francesi sembrano propensi a so¬ pravvalutare il loro connazionale, e in ciò, fra i tedeschi, va per lo meno a pari con loro [Federico Cristoforo] Schlossf.r [in un libro del 1807, su Ab. e fra Dolcino]. La vasta opera di Charles de Rémusat, Abélard, Parigi, 1845, in due voli., è, per la parte bio¬ grafica, quanto di meglio possediamo, nella letteratura moderna, sul conto di Abelardo: aH’inoontro, nella esposizione della dottrina, i presupposti storici, consistenti nei movimenti spirituali generali, propri di quell’epoca, son forse lasciati troppo nell’ombra, in con- cioè, riguardo all’etica, ci compiacciamo di ravvisare e riconoscere in Abelardo un eretico del tempo suo, e delle sue benemerenze di teologo 22Ba ) dobbiamo lasciare in- vece che si occupi la storia della teologia, ci apparirà chiaro come, nel campo della logica, egli non abbia esplicato un’attività più originale di forse cento altri suoi contemporanei 23 °). È innegabile la sua grande vi¬ vacità d’intelletto, e prima di tutto la sua straordinaria abilità nella forma retorica di esposizione: anche alla dialettica, come a tutto ciò su cui metteva le mani, si slanciò sopra con appassionato fervore, e si manifestò subito come maestro estremamente suggestivo; la sua attenzione era qui essenzialmente volta all’intento di fronto con le benemerenze personali di Abelardo : a ciò si ag¬ giunge ancora, riguardo alla dialettica, l’inconveniente già più sopra (nota 49, e cfr. la nota 148) rilevato con espressioni di bia¬ simo. w ‘) Su questo argomento, v. la vasta opera di S. Maht. Deutsch, Peter Abàlard: ein kritischer Theologe des 12. Jahrhunderts [P. A.: un teologo critico del XII secolo], Lipsia, 1883. a ") Non s’insisterà mai abbastanza nel ricordare che la nostra indagine si svolge tutta quanta entro i limili segnati esclusivamente dal quantitativo del nostro materiale di fonti. E tra Abelardo c gli altri dialettici dell’epoca sua sussiste qui una differenza sol¬ tanto, che cioè di quello ci sono conservati casualmente moltissimi scritti, si che di lui, per conseguenza, siamo in grado di ricono¬ scere e pienamente svolgere le idee fondamentali, più largamente ricostruite nel loro ordine sistematico, mentre per gli altri non ci è possibile fare altrettanto. Ma dobbiamo guardarci dal convertire in una obbiettiva superiorità di Abelardo, questa circostanza favo¬ revole, che torna a vantaggio della nostra esposizione. m ) Ch’egli sia stato scolaro di Roscelino, ma anche di Gu¬ glielmo da Champeaux, e che inoltre abbia cercato e trovato ispi¬ razione in tutti gli altri eminenti maestri, si vede dalla nota 314 della Sezione precedente, c dalle note 102 e 104 di questa. Del suo presentarsi come maestro fa il racconto egli stesso, Epist., I, c. 2, p. 4 (Amboes.) [ed. Cousin, I, p. 4 c 6] : Perverti tandem Parisius... Factum tandem est ut supra vires aetatis meae de ingenio meo prae- sumens, ad scholarum regimen adolescentulus aspirarem, et locum, in quo id agerem, providerem ; insigne videlicet tunc temporis Me- liduni castrum, et sedem regiurn.... (p. 5) Ab hoc autern scholarum noslrarum lyrocinio [Amboes .: exordio] ita in arte dialeclica no¬ mea meum dilatori coepit, ut non solum condiscipulorum meorum, verum etiam ipsius magistri (cioè Guilelmi Campellensis) fama farsi capire facilmente, adattandosi egli, anche nella scelta del materiale, all’esigenze della scolaresca ), ed è naturale che fosse perciò invitato sovente a esercitare a profitto di altri il suo talento di maestro di logica **). Ma il nomignolo di « Peripateticus Palatimis » [nativo di Palet o Palais] egli lo deve soltanto a questo suo vir¬ tuosismo formale, perchè, da un lato, per i suoi contem¬ poranei « peripatetico » e « cullor della logica » eran espressioni sinonime, nulla conoscendosi in generale di Aristotele aH’infuori dall’Organon, e con quella espres¬ sione volevasi soltanto significare uno che si occupasse molto estesamente o con particolar efficacia di questi scritti aristotelici 2S4 ), senza che con ciò si pensasse già a un pieno esauriente svolgimento del principio aristote¬ lico; ma, d’altro lato, lo stesso Abelardo ha avuto pure contrada paulatim extinguerelur.... (p. 6) [6] 1 unc ego Melidunum reversus, scholas ibi nostras, sicut antea, constitui.... Meliduno l'ari- sius redii . extra civilatem in monte S. Genovejae, scholarum no- slrarum castra positi [PL) Joh. Saresb. Metal., Ili, 1, p. 116 (ed. Giles [cd. Webb, p. 120]): Sic omnem librimi legi oportet, ut quam facillime potasi eorum quae scribuntur hubeatur cognitio. Non enim occasio quae- renda est ingerendue difficultatis, sed ubiqiie facilitas generando. Qttem morem secutum recolo Peripateticum Palatinum. Inde est, ut opinor, quod se ad puerilem de generibus et spedebus, ut pace suorum loquar, inclinavit opinionem: malens instruere et promo¬ vere suos in puerilibus quam in gravitate philosophorum esse obscu- rior. Faciebat enim studiosissime quod in omnibus praecipit fieri Augustinus, i. e., rerum intellecltii serviebut I PL, 199, 890-1J. at ) Abael. Introd. ad llteol., I, Pro!., p. 974 (Amboes. [ed. Con¬ fiti, II, 31): Ad has itaque dissolvendas controversias cum me suf- ficere arbitrarentur, quem quasi ab ipsis eunubitlis [Cousin: inai- nabulis] in Philosophiae studiis ac praecipue Dialecticue, quae om¬ nium mugislra ralionum videtur, conversatimi sciant, atque experi¬ mento, ut aiunt, didicerint, unanimiter postulane, ne talenlum miht a Domino commissum multiplicare differam. — Ep. 1, c. 2, p. 5 [51 : Non multo aiitem interjecto tempore, ex immoderata studii afflic- lione correptus infirmitate, coactus sum repatriare, et per unnos atiquot a Francia quasi remolus. quaerebar ardentius ab iis, quos dialectica sollicitabat doctrina [PL]. =“) Joh. Saresb., loc. cit., I, 5, p. 21 [171 : Peripateticus Pula- tinus, qui logicue opinionem praeripuit omnibus coetuneis suis, adeo ut solus Aristotilis crederetur usits colloquio [PL una felice idea, a tenor della quale poteva, rifacendosi da un unico passo che si trova in Boezio [v. appr. nota 2861, «connettere ad esso il riconoscimento della giu- "tozza della teoria aristotelica del giudizio; ma invece e;>/., p. 226, Abelardo dice, nel passare da questa prima parte principale alla seconda: Hactenus quidem, Dagoberte frater, de partibus orationis, quas dictiones appeUamus, sermonem texuimus. Quorum tractatum tribus vóluminibus comprehendimus. Primarn nam- que partcm libri Partium ante Praedicamenta posuimus ; dehinc autem Praedicamenta submisimus, denique vero Postpraedicamenta novis¬ sime adjecimus, in quibus Partium textum complevimus. Come ven¬ gano intesi gli Antepraedicamenta, apparirà chiaro appresso; ma intanto nel procedere dai Praedicamenta ai Postpraedicamenta, si dice (p. 209): Evolutus superius textus ad discretionem significano- nis nominum et rerum natura s, quae vocibus designantur, diligenter secundum distinctionem decem praedicamentorum aperuit. Nunc autem ad voces significativas recurrenles, quae solae doctrinae deserviunt, quol sint modi significanti studiose perquiramus ( similmente alla p. 245: Non itaque propositiones res aliquas designant simpliciter quemadmodum nomina): e pertanto, alle p. 209—226, segue non già, come fa ritenere il titolo, arbitrariamente imposto dal Cousin, la Sezione de intcrpretationc, bensì solamente una trattazione delle parti della proposizione. Con questa denominazione e suddivisione della prima parte principale si accordano poi anche le citazioni che Abelardo fa di se stesso, sia che rinvìi alla Sezione complessiva, denominandola Liber partium (p. 377 : sicut in libro Partium do- cuimus, e p. 477: sicut in libro Partium, tractatu speciei, disseruimus ), sia che ricorra proprio a quella denominazione nel menzionar pure le suddivisioni (p. 174: sicut secundus anle-praedicamentorum de differentia continet; — p. 249: Nam« homo mortuus» ....compositura nomen est.... sicut in primo Posl-praedicamentorum ostendimus : e questa citazione, al pari delle due altre dello stesso tenore, alle pa¬ gine 296 e 299, si riferisce alla p. 214; negli altri due rinvìi—p. 204: sicut in Libro Partium ostendimus, e p. 205: in Libro Partium requi - rantur — va certamente letto primo, anziché libro). Dei resto, con tutto questo sistematico rilievo dato alle « parti del discorso », riu¬ sciamo ora a spiegarci come Abelardo potesse effettivamente deno¬ minare « Grammatica » un rifacimento delle Categorie (v. qui sopra la nota 241). 273 ) p. 227: Susta et debita serie textus exigente, post tractatum singularum dictionum occurrit comparano orationum .... Non autem quarumlibet orationum construclionem (anche questa e una esptes- questa Sezione Abelardo diede il nome di « Libcr cale- goricorum » 274 )- Ma quando ha poi da far sèguito la teo¬ ria del giudizio ipotetico, Abelardo, anche a ciò deter¬ minato da Boezio (de diff. top.: v. la Sez. XII, nota 167), fa che la validità di queste forme di giudizio sia con¬ dizionata dai loci (v. la nota 269), e pertanto premette il « Liber topicorum », così che soltanto dopo di esso ven¬ gono lo stesso giudizio ipotetico e i sillogismi fondati so¬ pra di questo 275 ) : a quest'ultima Sezione dà il nome di « Liber hypotheticorum » 27e ). Così Abelardo, secondo il suo modo d’ intendere, ha compiutamente svolto la teoria deirargomentazione, pro¬ cedendo dal semplice, cioè dagli elementi, al complesso: quanto al « Liber divisionum », designato dal Cousin come quinta parte della dialettica, non ha alcun nesso sione di Prisciano; v. sopra la noia 263) exequimur, sed in his tantum opera consumenda est, quae verilatem seu falsitatem continent, in quo¬ rum inquisitione dialecticam maxime desudare meminimus. Undc cum inter propositiones quaedam earum simplices sinl et natura priores, ut categoricae, quaedam vero compositae ac posteriores, ut quae ex ca¬ tegorici jungunlur hypotheticae, has quidem quae simplices sunt prius esse tractandas...., unaque earum syllogismos ex ipsis componendos esse apparet. 274 ) È vero che il manoscritto reca qui il titolo (p. 227) « Abae- lardi.... Analyticorum priorum primus», ma non soltanto si cor¬ regge da se stesso nella seconda suddivisione di questa Sezione, dove a p. 253 si legge questo titolo: « Explicit primus; incipit se- cundus eorundem, hoc est categoricorum », bensì ancora dallo stesso Abelardo questa Sezione è citata come Liber categoricorum (p. 395: Sed de hoc quidem uberius in libro Categoricorum egirnus). 275 ) p. 437 : Congruo.... ordine, post categoricorum syllogismorum traditionem, hypotheticorum quoque, tradamus constitulionem. Sed sicut ante ipsorum categoricorum complexiones categoricas propositiones opor- tuit tractari, ex quibus ipsi materiam pariter et nomea ceperunt, sic et hypotheticorum tractatus prius est in hypotheticis proposìtionibus eadem causa consumendus, de quorum quidem locis ac veritate infe- rentiae, quia in Topicis satis, ut arbitror, disseruimus, non est hic in eisdem immorandum. Sed satis earum divisiones exequi. 27e ) Anche qui si verifica la medesima singolare circostanza, che cioè il manoscritto reca da prima (p. 434) il titolo « Abaelardi.... Analyticorum posteriorum primus », ma poi nel passaggio dalla prima alla seconda suddivisione, la indicazione esatta (p. 446): Explicit primus hypotheticorum, incipit secundus. con quel che precede 2 "), ma è ima monografia che sta a sé, concernendo lo stesso oggetto che lo scritto De getter, et spec.; in questa monografia Abelardo unì immediata¬ mente uno all’altro gli scritti di Boezio, de divisione e de definitione, cosicché, a chi consideri 1’ intima diver¬ sità fra questi due (Sez. XII, nota 103), appare con tutta chiarezza, come in Abelardo l’interesse per la logica si converta in interesse per la retorica. Seguendo noi ora perciò, per la nostra esposizione, il suindicato motivo, do¬ minante nella divisione della materia secondo Abelardo, ci atterremo interamente all’ordine già tenuto per Boe¬ zio, e inseriremo, ancor prima della teoria del giudizio, quel che sarà necessario dire della Sezione de divisione, la quale si riattacca alla teoria del concetto. [li) esposizione della Isagoge (Antepraedicamenta), quale risulta dalle Glossae, e soprattutto dalle Glossulae, super Porphyrium: atteggiamenti polemici sopra la que¬ stione degli universali]. — Quanto alla prima Sezione della prima parte principale, cioè la Isagoge o i così detti Antepraedicamenta, la grave lacuna già ricor¬ data dobbiamo cercar di colmarla attingendo ad altra fonte, e precisamente, in special modo, ai testi riferiti dal Rémusat (nota 238) : ma inoltre ricorreremo anche a tutti quegli altri luoghi, che possano aiutarci a compren¬ dere, con maggior vigore o maggior ampiezza, la posi¬ zione di Abelardo nel contrasto fra i diversi indirizzi, sicché già qui si ha da chiarire, quante possibile com¬ piutamente, le questioni essenziali e di principio, e da ot¬ tenere mia conoscenza esatta e approfondita della logica di Abelardo in generale: resterà poi, relativamente alle altre parti della dialettica, da addurre ancora, su tale ) Neanche si trova, in alcun punto del libro, fatto cenno a un ricollegamento con altre parti della dialettica. fondamento, soltanto i testi relativi a punti più parti¬ colari. Ha in sè qualche cosa di sorprendente il fatto che Abelardo, nelle glosse alla Isagoge, non soltanto parla di « sei parole », aggiungendo alle solite cinque anche « in- dividuum », ma osserva altresì che si tratta, oltre che di queste parole stesse, anche di ciò ch’esse significano — significala eorum — 27S ); tuttavia la prima circostanza si spiega in parte con quel passo di Boezio ch’è la fonte, a cui Abelardo attinge 2T9 ), e in parte con la espressa os¬ servazione [fatta dallo stesso Abelardo], che cioè Por¬ firio non ha avuto bisogno di comprendere, subito da principio, nel novero delle voces il concetto d’individuo, perchè già 1’ individuo vien comunque a rientrare sotto le altre cinque parole, e in se stesso è una denomina¬ zione predicativa di un oggetto, nè più nè meno che i ge¬ neri e le specie 28 °). Ma se ora proprio questo rilievo che 27s ) Glossae in Porph., riferite dal Cousin, p. 553: Intendo Por- phyrii est in hoc opere tractare de sex vocibus, i. e. de genere, e! de specie, et de dijjerentia, el de proprio, et de accidenti, et de individuo et de signijìcatis eorum.... Considerare, nullas voces magis esse necessarias ad Categorias quam istas sex voces, quoniam ex istis sex vocibus con - stituunlur praedicamenta, ideo perelegit tractare de istis sex vocibus. Hujus operis sunt materia istae sex voces el earum significata, finis ipse catcgoriae (il Cousin. con le sue modificazioni e con la interpun¬ zione, ha guastato il giusto significato del manoscritto). Scicntiae inveniendi supponitur iste traclatus ([passo già più sopra cit.,] nota 268), quia hic docemur invenire rationcs sufficienles ad probandas quaslibet quaestiones Jactas de istis sex vocibus et de signijìcatis earum. Cfr. appresso la nota 603. 27 *) Questo numero di sei non ha cioè niente che fare, come si capisce da sè, con quel passo, che si è avuto da citare, ricavandolo dai commentatori greci (Sez. XI, nota 134). ma ha per fondamento il contenuto di quelle notizie, date da Porfirio (ibid., nota 43), che son riferite come segue da Boezio, p. 15 [ad Porph. a Vict. transl. I, 16; ed. Brandt, p. 44: PL, 64, 28]: Eorum, quae. dicuntur, alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia individua, ut est Socrates et hic et illud, alia quae ad mulliludinem, ut sunt genera (et) species et differentiae et propria et accidentia. 280 ) p. 553: Et cum intendat tractare de istis sex vocibus et omne (leggi omnes) tractat, lamen non proponit nisi [Cousin: vocibus, et omne tractare tamen non proponit, nisi....] de quibusdam tantum ; ideo  Abelardo dà alla relazione predicativa, torna a coincider pure con il secondo punto, cioè con la presa in conside¬ razione anche di « quel ck’è significato dalle sei parole », d’altra parte Abelardo sopra tale questione fondamentale non presenta qui spiegazioni più precise: bensì, — per¬ sino a proposito di quel passo di essenziale importanza (prima quaestio), al quale da gran tempo abbiamo ve¬ duto riattaccarsi tutta la questione, che dividea tra loro le tendenze contrastanti — egli presenta esclusivamente una sottile distinzione, insignificante nei riguardi degli universali, tra solus intellectus, nudus intellectus e pu- rus intellectus 2S1 ) : e anche nel rimanente della esposi¬ zione, si tiene aderente al testo della Isagoge, prevalen¬ temente limitandosi a dare spiegazione delle parole 282 ). Invece proprio sopra questo punto che ci rimane qui ancora oscuro, gettano la più vivida luce le altre così dette glosse minori alla Isagoge. Ivi cioè Abelardo, alle notizie che dà sopra le opinioni altrui (e per questo ci è servito più sopra egli stesso quale fonte) collega in primo luogo osservazioni polemiche, per poi svolgere la sua personale concezione degli universali. Contro Gu- non ponit de individuo, quia individuum continetur sub unoquoque, et in significatione et in praedicamentali ordine : nam quemadmodum genera et species proprie ponuntur in praedicamento, eodem modo in¬ dividua ipsorum. Anche questo si trovava nel commento di Boezio al passo citato — dove (p. 16 s. [loc. ult. cit., p. 49: PL, 64, 30]) si legge: Ita individua, quae ad unitatem dicunlur, cunctis superio- ribus (cioè quinque vocibus) supposita sunt.... Individua vero.... ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una sunt. Atque.... « ad unitatem dicunlur». Abelardo cioè ne ricavò che le de¬ nominazioni individuali vengono purtuttavia predicate — dicunlur, praedicantur. 2S1 ) p. 555: Illa dicimus poni in solis intellectibus, quae tantum in- telliguntur et non sunt.... Illa dicimus poni in nudis intellectibus. quae, cum sint, aliter intelliguntur esse, quam sirtt.... Illa dicimus poni in puris inlelleclibus, quae intelliguntur simpliciler ut sunt. a82 ) Si può osservare che anche qui la locuzione abbreviata, ri¬ cordata già più sopra (nota 167) „praedicari in quid “ o ., praedicari in quale “ è comunemente adottata nel senso di „ praedicari in eo quod quid “ o,, praedicari in eo quod quale". glielmo da Champeaux osserva (v. sopra la noia 106) che, se si ammette una così poco stretta connessione tra le forme individualizzanti e le sostanze universali, tutte le sostanze _non eccettuata neanche la Fenice, che esiste esclusivamente mia volta sola — appunto come sostanze, dehhon finir con l’essere uguali e identiche fra loro, e neanche possono per conseguenza distinguersi dalla so¬ stanza di Dio : e parimente osserva che questa identità di essenza di tutte le sostanze, o la loro indifferenza ri¬ spetto a qualsiasi forma individuale che vengan a pren¬ dere, conduce a dover ammettere anche la coincidenza degli opposti in ima stessa sostanza Glossulae s. l’orph ., riferite dal Rémusat, toc. cit., II, p. 97-99: Ce SYStème exige que les jormes aient si peu de rapport avec la malière qui leur seri de sujet, que dès qu'elles disparaissenl, la malière ne diffère plus d'une aulre malière sous aucun rapport, et que tous les sùjets individuels se réduisent n l'unité et à l'identité. Une grave hérésie est au bout de cotte doctrine ; car avec elle, la substance divine, qui est reconnue pour n'admettre aucune forme, est nécessairement identique à toute substance quelconque ou à la substance en generai.... Et non - seulement la substance de Dieu, mais la substance du Phénix (v. la Sez. XII, nota 87), qui est unique, n'est dans ce système que la sub- stance pure et simple, sans accident, sans propriélé, qui, partoul la méme, est ainsi la substance universelle. C'est la mème substance qui est raisonnable et sans raison, absolumenl camme la mème substance est à la Jois bianche et assise ; car étre blanc et ótre assis ne soni que des jormes opposées, comme la rationnalité et son contraire, et puisque les deux premières Jormes peuvent notoirement se trouver dans le méme sujet, pourquoi Ics deux secondes ne s'y trouveraient-elles pas égale- menl ? Est-ce parce que la rationnalité et Virrationnalité soni contrai- res ? Ellcs ne le sont point par l'essence, car elles sont toutes deux de Vessence de qualité ; elles ne le sont.... per adjacentia, car elles sont, par la supposilion, adjacentes à un sujet identique. Du moment que la mème substance convient à toutes les Jormes, la contradiction peut se réaliser dans un seul et mème ótre [ed. Geycr del testo originale, p. 515:... « Quibus hoc obicimus: quod si hanc sententiain concedi convenit, quippe si formas contingeret a subiecta materia discedere, ita scilicct quod subiecta bis penitus rarerent, in nullo pcnitus hir et ille differrent, sed iste et ille omnino idem efiicerentur. Ex quo scilicet pessimain haeresim incurrunt, si hoc ponatur, clini scilicet divinam substantiam, quae ab omnibus formis aliena estidem prorsus oporteat esse cum substantia. Nec (propter) deum solum verum est, sed etiam propter alias substantias fortasse, ut est phoenix. — Oportet igilur secundum praedictam Contro la dottrina della indifferenza, egli oppone (v. la nota 132) per prima cosa la definizione del con¬ cetto di genere ( genus est, quod praedicatur de pluri- bus ), dalla quale rimane escluso che ima e medesima cosa possa essere mai al tempo stesso genere e individuo: e poi le oppone anche la relazione predicativa in gene¬ rale, stando alla quale bisogna mantenere la distinzione tra individui e concetti specifici, e deH’universale stesso è impossibile predicare la individualità, — laddove, se si prende l’individuo già nello stesso tempo come specie o come genere, il concetto di genere, in quanto vieu pre¬ dicato, resta privato del proprio soggetto, o, quando si tratta di qualità (cioè di adiacentia ), non può appunto essere più un predicato, valido per diversi soggetti [cfr. il testo originale, ed. Geyer, p. 520: « .... non omni generi convenit, eum omne genus non habeat praedicari in adiacentia »] 2Si ). sententiam substantiam divinam idem esse cubi qualibet substantia, quam constat esse veram et simplicem et ab ni nni proprietate irn- muncm. Praeterea si cadem substantia essentialiter sit in omnibus, ita scilicet (ut) ea quae informata est ralionalitate, sit irrationalitate occupata, quomodo negari potest, quin substantia rationalis sit sub¬ stantia irrationalis ? Quibus obiectis nidlatenus refragari queunt, cum eadem substantia penitus omnibus f'ormis informari ostendatur. Quis enim cum eandem substantiam albedine et nigredine et sessione occupatam viderit, ncgabit substantiam albani esse sedentem ? — Si quis vero dicat insistens rationale esse irrationale, veluti substantia alba est substantia sedens, cum hae oppositae formac contrarrne sint, illae vero non, fallitur, quia nec in essentia magis sunt oppositae istae quam illae, cum eadem essentia qualitatis sit penitus, nec in adiacentia, cum eidem substantiae penitus adiaceant. Sed si quis di- cit formas istas oppositionem habere ex oppositis formis quibus in- formantur, fallitur, cum eadem ratione non possit assignare, onde illae oppositionem trahant »]. 2S1 ) Ibid., p. 100: Muis c’est là ce qui n'esl pus soutenable. La défi- rtition qui veul que le gerire soit ce qui est attribuable à plusieurs, a été donnée à l'exclusion de Vindividu. Ce qu’elle définit ne peut en soi étre à aucun titre, en aucun état, individu. Dire qu'une méme chose tour à tour comporle et ne comporte pas la définition du genre, c'est dire que cette chose est, comme genre, attribuable à plusieurs, mais que, comme genre aussi, elle ne Vest pas, car un individu qui serait attri¬ buable ò plusieurs serait un genre ; par conséquent Vassertion est con- [Finalmente, anche contro quella tesi, a noi non meglio nota, che concerne una proprietas delle cose (v nota 73), rivolge ripetutamente la stessa obiezione tratta dalla definizione del concetto di genere, e denota in generale come la cosa più pericolosa e insostenibile. tradicloire, ou plutòt elle n’a aucun gens. Les auteurs disent que celle nroposition : L’homme se promène, vraie dans le particulier, est fausse de l’espèce (qui tuttavia il Réniusat deve o aver avuto sottocchio un testo scorretto, o aver inteso scorrettamente il testo corretto, poiché lu dottrina ripetutamente enunciata da BOEZIO, a p. 15 [in Porph. a Vici, transl., I, 16: ed. Brandt, p. 45; PL, 64, 27], p. 36 [i6.. II, 10 (Cicero sedet, homo sedei): cd. Brandt, p. 103; PL, 64, 57], ecc., facendo uso dello stesso esempio Cicero ambulai, homo ambulai  è espressa naturalmente nel senso, che l’accidente è predicato, primitivamente dell’ individuo e derivativamente della specie, ma non che questa seconda predicazione sia falsa). Commenl maintenir cotte dislinction, si une ménte chose est espèce et individu ? (p. 101) V individuai ile résultant de formes accidentelles ne saurait èlre l'attribut essentiel d’une substance susceptible d'universalité ; cc- pendant certe substance, en tant que particulière, distincte de ses som- blables, est esscntiellement individueUe, violation manifeste de la règie de logique qui porte que „dans un mème, Vaffirmalion de l'opposé exclut Vaffirmation de l’autre oppose’'’. Lorsqu'on dit que le genre est atlribuable à plusieurs, on parie ou d'attribution essentielle (praedicari in quid), ou de toute autre ; s’il s’agit d'attribution essentielle, camme on le nie aprìs Vavoir affirmé, elle cesse d’ètre essentielle, ou elle em- porte avec elle son sujet ; s'il s’agit d’attribution accidentelle (in adja- ceutia), la définition n’est plus exacte, elle ne convient plus à tout genre [ed. Geyer Huic autem sentcntiae o p p o na¬ ni u s . . . . In primis inquirendum iudico, quomodo Porphyrius dicit praedicari de pluribus ad cxclusioncm individuorum, cum illa scilicet praedicentur de pluribus secundum illos. Sed dicunt mihi, quod cum dicitur genus de pluribus praedicari, tale est, ac si dica- tur: genus in quantum est genus, praedicatur de pluribus. quod con¬ stare non potest. Amplius cum diffinitio generis sit, quod praedicatur etc., oportet eum concedere quod individuimi ex stalli individui sit genus, quia ex ilio quod praedicatur de pluribus, [quod] est animai. Propterea quomodo dicunt « praedicari de pluribus », quod generi convenit, genus ab individuo removcrc, cum idem pror- sus individuo conveniat ?... Amplius quomodo dicit B o e t h iu s super Peri ermenias [Boezio, in libr. de interprete ed. se¬ conda, L. II, c. 6 (ed. Meiser, Pars Post., p. 133: PL, 64, 461), p. 337] quod haec propositio « homo ambulat » de speciali falsa est, de particolari vero vera est ? Numquid et de universali similiter vera est, cum idem sit universale et particulare ? Sed fortassis inquies, quod ab hoc universali ambulatio prorsus removeri potest, a particulari vero non, hoc modo: nullum universale ex statu universali ambulat. Sed similiter dici potest, quod nullum particulare ex statu particu- qualsiasi scambio o confusione tra individuo e universale. [i) soluzione proposta da Abelardo : il senno praedi- cabilis]. — Ma secondo il suo personale modo di vedere, egli credeva di aver trovato la via giusta per poter al¬ fine comporre, com’è sua opinione, il contrasto fra Pla¬ tone e Aristotele, vale a dire appigliandosi a quell’unico passo del libro De interpr., dove l’universale è designato come ciò, ch’è « naturalmente fatto per essere predicato laris anilnilationcm habeat. Haec quippe enuntiatio: « in co quod est universale, non ambulata, duobus modÌ9 potest intelligi, sive interpositum sive praepositum. Interpoeituin sic: in eo quod univer¬ sale, non ambulat, ac si diceretur: proprictas universalis non patitur ambulationem, quod omnino falsum est, eum eidem subiecto uni- versalitas et particularitas et ambulatio adiaceant. Quod si praepo- nilur, intelligitur boc modo: non in eo quod est universale, ambu¬ lat, sicut est illud: non in eo quod animai est, habet caput, hoc est: non exigit proprietas universalis, ut ambulet, sicut non exigit natura animalis, quod habeat caput. Sed eodem modo verum crii de particulari, orai proprietas particularis non exigat ambulatio¬ nem ». Ecc. ecc., sino alla p. 521], 286 ) Ibid., p. 102: La difficulté est toujours de faire cadrer ce système avec la définition du genre. Il faut que la propriété d'ètre attribuable à plusieurs séparé Vuniversel de l'individuel ; or, on vieni de dire que de plusieurs choses chacune est individuellement animai ; le nom indiriduel d'animal serait—il donc le nom de plusieurs ? V indie Uhi se- rait-il attribuable à plusieurs ? Cela ne se peut. Mais comme animai ne peut plus se dire de plusieurs, mais de chacun, il n’y a plus de genre, ou plutòt tout est renversé, c'est l’individu ou le non-universel qui prend la place de Vuniversel, c'est ce qui ne peut s'ajfirmer de plusieurs qui s'affirme de plusieurs. et c'est une pluralité où chacun s'affirme de plusieurs que l'on appelle Vindividu [ed. Geyer, p. 521-22 : « Pri- mum quaerendum est.... quomodo secundum hanc sententiam in¬ dividuimi ab universali differat per praedicari de pluribus, cum indi¬ viduimi habeat praedicari de pluribus, id est plura sunt, quorum unumquodque est individuimi. Sed fortasse inquies, quod recte prae¬ dicari de pluribus in diffinitione universalis ponitur ad exclusionem individuorum, cum omne universale praedicari de pluribus habeat, nullum autem individuimi de pluribus praedicetur. Sed eodem modo inter universale et animai differentia potcrit assignari, cum omne universale de pluribus et nullum animai de pluribus... Praeterea secundum banc sententiam concedere oportet, quod non-universale sit universale et res quae non praedicatur de pluribus, praedicetur de pluribus et multos quorum unumquodque de pluribus praedi¬ catur, concedat individuimi appellali»].  di più cose» (quod natura est de pluribus praedicari ); poteva Abelardo con questo, nella maniera già più sopra ricordata (nota 254 1, far procedere insieme la genesi delle cose qual è data obbiettivamente in natura, e quella pro¬ duzione subbiettivamente umana che è la denominazione, e anzi esprimere questa relazione, persino ricorrendo alla similitudine della statua, la quale è costituita dalla pie¬ tra, che lia esistenza obbiettiva, e dalla forma, ch’è ag¬ giunta dalla mano dell’uomo 286 ). Ma su ciò si fonda ora il vero e proprio sciboleth, che contraddistingue la posizione di Abelardo nel con- 2BC ) liuti., p. 104 s. : Aristote, au dire d'Abélard, parati l'insinuer clairement, qunnd il définit l'universel ce qui est né altribuable à plu~ sieurs, quod de pluribus natum est praedicari. Cest une propriété uree laqtielle il est né, qu’il a d’origine, a nativitate sua. Ór, quelle est la nativité, l'origine des discours ou des noms ? Vinstitution humaine, tandis que l’origine des choses est la création de leurs natures. Celle différence d’origine peut se rencontrer là méme où il s’agit d’une mème essence. Ainsi dans cel exemple : cette pierre et cette statue ne font qu’un, l'étal de pierre ne peut ótre donné à la pierre que par la puissance divine, l’état de statue lui peut ótre donné par la main des hommes. [ed. Geycr, p. 522: «Est alia de universalibus sententi a rationi vieinior, quae nec rebus nec vocibus communi- tatem attribuit; sed serinones sivc singulares sive universales esse disserunt. Quod etiain Aristoteles ... . aperte insinuat, cuin ait: « Universale est, quod est natum praedicari de pluribus », idest a nativitate sua hoc contrahit, ex insti- tutione scilicet.... Hoc enim quod est n o m e u sive s c r m o, ex hominum institutione eontrahit. Vocis vero sive rei nativitas quid aliud est, quam naturar creatio, e uni proprium esse rei sive vocis sola operatione nalurae consistat ? — Itaquc nativitas vocis et sennonis diversitas, etsi penitus in essentia identitas. Quod diligen- tius exemplo declarari potest. Cum idem penitus sit hic lapis et haec imago, alterius tamen opus est iste lapis et a[terius haec imago. Constat enim a divina substantia statura lapidis solummodo posse conferri, statum vero imaginis hominum comparatione posse for- mari»]. Nella traduzione di Boezio, p. 338 [ed. secunda, II, 7: ediz. Meiser. Pars Post., p. 135; PL, 64, 462], il passo aristotelico citato nella Sez. IV. nota 197, è cioè del seguente tenore: Quoniam autem sani haec quidem rerum universalia, illa vero singillatim ; dico autem universale, quod in pluribus natum est praedicari, gingillare vero, quod non, etc. Qui dunque Abelardo poteva appoggiarsi, per la tesi reali¬ stica, alla parola « natum », e al tempo stesso, per la tesi nominali¬ stica, alla parola « praedicari ». Così in quell’epoca, ch’era incapace di assurgere alla visione dei principii, ma si limitava allo studio  « tra ' Van mdirizzi; ««Perocché, una volta che il predicato venga r, conosciuto come naturalmente determi nato, ne consegue che nè le cose come tali, nè le paroJ ' come tali sono 1 universale, bensì la universalità è ri posta soltanto nello stesso praedicari, e dunque in' quella maniera di esprimersi ch’è il giudizio, insomma el « sermo » : con questo si evita ora la opinione sba ghata e insostenibile, che cioè di una cosa possa ori carsi una cosa, sì che, a questa maniera, mia co a f ugual r e in più - e una cm., ma « per r.ppnnto „„ preJica | 0 ' E, mettendo „ ra Abelardo in eo„„e„i„„ e eon ' conseguenza 1, definizione già riferita del genere ne ‘ espressamente che  nega mo) sia di • universale il predicato (ser- ” 3 3ll ° ra ‘“tersale anche la parola in quanto paro a poiché alla stessa maniera si potrebbe d mLT U Cl,e è “• «. 'ce dell alfabet o; „ deve rnvece, in,„eli„ definir .. tener rizzi sano statesenz^tmcozUuIt^o^^* 1 !, 0 he dei J ' vcra ' 'odi- lati diversi da uno all’altro scrittore 77'l f°? dame ? to di passi iso¬ lai/ Ctteratura in uso nelle scuole Cfr -Y* !u testi e l‘e formavano ^)Ibid aPPre - S .° k DOta 293 -‘ P1U S ° Pra n ° tC I05 ’ 129 ’ buatte à plufieurs, ni ìefchòses'n'i fet* 1 umversel Pst d'origine altri - c p n est paste mot. la voix. mais le dilriu, T" Car stori du mot, qui est attribuable à divers C e ? t ~ d ~ dire l ' p *prcs- dis mots, ce ne sont pas les mots mais Ù . 9 lw, g “ P ' Ù S ° Pra (nota 63 > "tato, di GiovauTda Salisb^ “ PaSS °’ fisso l’occhio sopra l’oggetto da essa definito, cioè sopra lo stesso genere, e con ciò si rende manifesto che nella parola singola non è già contenuto il genere stesso nella sua totalità, bensì invece la parola ch’esprime il genere, viene, in un giudizio, predicata di diverse cose, insomma che proprio il giudizio è predicabile, — « sermo est prue - dicabilis » —, perchè il pensiero dispone per ordine le pa¬ role, in vista della descrizione delle cose 2SS ). Se per con¬ seguenza la parola è predicata, non secondo la esterio¬ rità del suo effettivo suono, bensì secondo il suo intimo significato, e è dunque il suo significato che ne fa un uni- - ) Ibid., p. 107 s.: Mais Abelard se faii des objeclions. Comment l oraison peni-elle elre un,vergelle, et non pas la voix, quand la des- criplion du genre convieni aussi bien à l’une qu'à Vautre ? Le genre est ce qui se dii de plusieurs qui diffèrent par Vespèce ; ainsi le décrit PorphyTe. Or, la descnption et le décrit doivenl convenir à tout suiel quelconque ; c est une règie de logique, la règie De quocumque, et camme le discours et Ics mots ont le ménte sujet, ce qui est dit du discours est dii des mots. Vane, comme le discours, la voix est le genre. Celle prò- posti,on est incongrue, non congruit; car la lettre étant dans le mot et par consequent s attribuant à plusieurs comme lui, il s'ensuivrait que la lettre est le genre. Cesi que, pour que la description ou définition du genre so,t appi,cable il faut qu'on Vapplique à quelque ckose qui uit en so, la realite du défim, rem definiti; c'est la condilion de l'appli- catwn de la regie De quocumque, et ici catte condition n'existe pus Le mot ne contieni pas tout le défini, il n'en a pas laute la compréhen- s,on et,1 n est atlnbue a plusieurs, affirmé de plusieurs, pracdicatum de pluniras. qU e parce que le discours est prédicable. est sermo prac- dicabibs, c est-a-d,re parce que la pensée dispose des [si direbbe che Franti intenda come « fosse scritto « Ics »] mots pour décrire toutes choses [ed. Geyer. p. 522-23: «Cui sementine opponi- tur. 1 rimimi enun quaeritur, cur sermones et non voces esse uni- versale? astmant cum descriptio generis tam vocibus quam sermo- mbus conveniate De quocumque enim praedicatur descriptio, et de- scriptum; sed descriptio generis praedicatur de voce, cum vox sit ifiud quod praedicatur de pluribus differentibus specie etc.; vox «ri- tur est genus. — Quod sic s o 1 v i t u r: Huic argumentationi; Cst ', ., '',j US ' ^ mUd q "° d praedicatur ' ( iuia est sermo PaANTL, Storia detta logia, in Occidente, II.versale 289 ), ben può dirsi a questa maniera che il genere e la specie sono una parola (vox), ma non già, viceversa, che la parola è la specie o il genere, perchè la essenza individuale, che è la parola, non può essere predicata di più cose, mentre si può, con una tale concezione, ammettere invece, senza difficoltà, un essere obbiettivamente reale, corrispondente ai generi e alle specie 2D0 ). Generi e 2#s ) Ibid.. p. 108: On peut dotte dire que le discours étanl un gente, et le discours étant un mot, un mot est le genre. Seulement il faul ajouter que c'est ce mot uvee le sens qu’on a entendu lui donner. Ce n'est pus l essence du mot, en tant que mot, qui peut ètre attribuée à plusieurs ; le son vocal qui constitue le mot est toujours actuel et particulier à chaque fois qu’on le prononce, et non pas universel ; mais c'est la si- gnification qu'on y attaché qui est générale [cd. Geyer, p. 523-4:« Cum haec vox sit hic sermo et hic sermo sit genus, quomodo ratiouab ili- ter negari poterit, quin haec vox sit genus ? Quod sic solvitur: Cum dicimus « hic sermo est genus», tale est ac si dicamus: sermo huius institutionis est genus. Sed cum dicimus « haec vox est genus », tale est ac si dicamus: haec essentia vocis est praedicabilis ctc., quod falsum est.... — Concedimus itaque has esse veras: Hoc nomen est genus, hoc nomen est universale. Similiter: Hic sermo « animai» est genus, hoc vocalndum « animai » est genus et universale, et si¬ militer omnes in quihus subicitur vox innuens institi! tionem, non simpliciter essentiam vel prolationem, sed signifìcationem et praedicans eommunitatem, sicut est: genus, universale, sermo, vo- cabulum, dictio, oratio.... »]. *®°) Ibid., p. 108-9: Abélard.... permei qu'on dise que le genre ou l'esp'ece est un mot, est vox, et il rejette les propositions converses ; car si l on disait que le mot est genre, espèce, universel, on attribue- rait une essence individuelle, celle du mot, à plusieurs, ce qui ne se peut. C'est de mème qu'on peul dire: cet animai ( hic status animai) est cette matière, la socratité est Socrate, l’un et l’aulre de ces deux est quelque chose, quoique ces propositions ne puissent ètre renversées [ed. Geyer, p. 524: « Nota tamen, quod haec propositio vera est: genus est vox et species est vox. Tale est enim ac si dicatur: generale vocabulum est vox vel speciale. Convcrsae harum, scilieet: vox est genus vel vox est species, non sunt concedendae, cum per illas com- munitas essentiae ostendatur, quae similiter in omnibus reperitur. Concedimus exiirn propositiones: hic status animai est, haec materia Socratis est Socrates, utrumque istorum est aliquid; conversas vero istarum negamus omnino, scilieet: homo est hic status animai, Socrates est materia Socratis, aliquid ast utrumque istorum»), — Dialect., p. 480: in significationibus suis vocabula saepe nominantur, ut cum ea quoque vel genera vel species vel universalia vel singularia rei substantias vel accidentia nominamus. Nomen autem.... hoc loco accipiendum est quaelibet vox significativa simplex, qua rebus prae- posita vocabula praedicamus. specie, cioè, in quanto sono da noi pensati, si riferiscono bensì a qualche cosa che esiste, e questa cosa afferrano, ina soltanto in senso figurato poteva dirsi che essi esistono quali universali pensati da noi, poiché il senso proprio di tale espressione è solanieute questo, che esiste cioè qual¬ che cosa che dà luogo a questi universali 291 ). 2tfl ) Ibid., p. 109 10: Il décide que. bien que ces concepts (ma chi sa se nell’originale latino ri leggerà in questo punto « conceptus » ? io eongetturo piuttosto che vi si dica « intellectus » : v. appresso le note 313 ss.) ne donneiti pas les choses camme discrètes, L, 64, 121-2], p. 84: rfr. la Sez XI, nota 44), secundum quas ipsa genera, quae ab ipsis divisa sii nt. specificantur.... Nec cum ipsae generis subslantiam in spe¬ derà reildunt, ipsae quoque in essentiam speciei simul transcunt, sed sola "enera vel subjecta specificantur, non qmdem separata a difie- rentiis. sed, nisi ei differentiae adveniunt, ipsa sola non etiam differentiae species efficitur, non quidem cum differentiis, sed per differentias, sicut in libro Partium, tractatu speciei, disseruimus (v la nota 272). Si enim differentiae in speciem transferrentur cum lenere . ipsas de substantia rei esse, et in partem malenae venire rontineeret.... (p. 478) Nihil.... aliud materia jam fannie aclual,ter contunda quam ipsum materiatum, ut nihil aliud est hic annulus aureus quam aurum in rotundilalem duetum.... Stalline.... compostilo, quem Boethius (p. 88) ponit . species non riddar, cum nec materia sit unum, sed operatione hominum, nec substantiae nomen, sed acci- dentis cum statua videtur et a quadam compositione sumptum. z»«) Introd. ad t/no/.. II, 13, p. 1083 [98]: Cum autem species ex genere creaci seti gigni dicantur, non lanieri ideo ri eresse est,genus speries suas tempore, vel per existentiam precedere, ut videlicet ipsum prius esse contigeril quam Mas. Numquam eternai genus nifi per aliquam speciem suam esse contingit, vel ullatenus animai juit, antequam calumale vel irrationale fuerit : et ita quaedam species cum suis generibus simul naturaliter existunt, ut dMlatenus genus sino illis, sicut nec ipsae sine genere esse‘pomerint [PI., 178, lOtuj. praedicatio, la quale può riferirsi ora alla forma, ora alla cosa formata da questa, e via dicendo 29? ). Ma dovendosi, a proposito di questo generarsi delle specie dai generi, toglier di mezzo quella più difficile que- stione riguardante gli opposti (v. sopra le note 113 e ilo s.), ecco qual è su questo punto il modo di vedere di Abelardo: La diversità delle specie può essere determi¬ nata soltanto dal fatto che sussiste ima diversità delle so¬ stanze; ma questa è un prodotto della differenza specifica la quale si chiama sostanziale, proprio perchè realizza entro la sostanza ima separazione di gruppi, e con ciò, al tempo stesso, una unità dei gruppi così separati, eia- scuno dei quali ha una comune natura 888 ); e a quel modo che, per conseguenza, la materia, ch’è il genere, non si presenta più, hi identità di essenza, in tutte quante le specie, cosi dalla differenza specifica vengono esclusiva- mente prodotte soltanto le specie della sostanza stessa; se perciò tutte le altre specie, che non procedono dalla so¬ stanza, si debbono generare senza l’azione esercitata da una differenza sostanziale e debbono pertanto aver il prò- pno fondamento nella sola materia, la unità di quest’ul- tnna va intesa come somiglianza di essenza (consimili- tudo), dalla quale per es„ nonostante la comune essenza ipslls^nriti^t ^ P> 1277 f183]: ^oprie,as ilaque n,aterine ZZ, v/,, secundum quam ex ea materialitcr al,quid fieri habe'. Materiati vero proprietàs est ipsa e converso postcrioritas Pro prietates itaque ipsae impermixtae sunt per praedicMionem licei iosa proprietà.... permixtim de eodem praedicentur. Aliud quippe est prue Ì7{/~\^]. f ° rma,Um ÌPSUm ' h - e - iP sam Jormae subjec- “ ) Dialect., p. 418: Diversitas itaque subslantiae diversitatem quae natura substantiae divina univit operatio.  (lell'esser colori, non rimane esclusa la opposizione con¬ traria del bianco e del nero 2 "). Così Abelardo tiene distinte, da un lato, quelle forme, che son, esse medesime, essenze, e che bisogna pur che entrino nella materia, la quale sta a loro fondamento ( subiectum ), per far di questa qualche cosa, che senza quelle non sarebbe, — e, dall’altro lato, quelle forme, che per se stesse non sono essenze, ma son di già contenute nella materia del genere 300 ) ; naturahnente nelle prime c’è la differenza specifica vera e propria, a quel modo che nelle seconde c’è la così detta nota casuale di differenze accidentali, cioè queU’adiacerma (nota 284), cli’è oggetto della predicazione non-sostanziale 301 ). Ma, con ciò, gli opposti, nelle forme sostanziali, sono derivati soltanto ! ") Uh/., p. 400, dove al passo citato più sopra (nota 113) fa sèguito: Si enim omnium specierum est eadem in essentia materia, tunc albedinis et nigredinis et caeterorum contrariorum, quae omnia.... ejus- dem generis species esse necesse est.... Nostra quoque sententi a te net, solas substantiae species differentiis confici, caeterasque species per solam subsistere materiam, sicut in libro Partium ostendimus. Si ergo eadem prorsus est materia, quae est in ipsis diversitas ? Sed eadem (cioè diversitas in ipsis est), quae est in consimilitudine substantiae, non indeterminatae essentine. Ncque enim ea qualitas, quae est essentia albedinis, essentia est nigredinis, essel enim albedo nigredo, sed con¬ similis in natura generis superioris. Consimilitudo autcm vel sub- stantiae vel jormae contrarietatem non impedit. Riguardo alla consi¬ militudo, e£r. qui appresso la nota 307. 30 °) Pseudo-Abael. de intell., edito dal Cousin, Fragm. phil. (1840), p. 495 s. [Opera, II, p. 755]: Alii autem, qui quasdam formas essentias esse, quasdam minime, perìiibenl. sicut Abaelardus et sui, qui artem dialecticam non obfuscando sed diligentissime perscrutando dilucidante nullas formas essentias esse approbant, nisi quasdam qua- litates, quae sic insunt in subjecto, quod subjectum ad esse earum non sufficit, sicut ad esse quantitatum ipsum subjectum sufficit... et ad esse sessionis necessaria est dispositio partium... Nullam enim for- mam essentiam esse asserunt, cui... poterit assignari... subjectum ad esse illius sujfficere. Theol. Christ., Ili, p. 1280 [487]: sire illa forma sii com- munis differentia, h. e. separabile accidens. ut nasi curvitas, si ve magis propria differentia, i. e. substantialis, sicut est rationalitas, quae sci - licet substantialis differentia non solum facit alterum, i. e. quoquo modo diversum, verum etiam aliud, h. e. substanlialiter atque specie diversum [PL, 178, 1251]. Qui la fonte è Porfirio (Sez. XI, nota 44), cioè Boezio [ad Porph. a se transl., lib. IV], p. 79 ss. dall'attività della differenza specifica e sono senz'altro separati, mentre, trattandosi delle forme non-sostanziali, ci si presentano nella materia del genere, quali possibi¬ lità’' 2 ): e Abelardo, dato che per lui a base di tutte quante le opposizioni puramente qualitative non c’era un substratum sostanziale, mentre un tale substratum andava riconosciuto esclusivamente per quelle opposi¬ zioni che vengono a costituir delle specie, poteva molto facilmente, con il mantenere la non-unificabilità degli opposti, sottrarsi a quella difficoltà che più sopra (nota 115) abbiamo veduta 303 ). ' Ma mentre a questo modo quel processo di creazione, nel quale la differenza specifica opera separando, e le spe¬ cie cosi separate si raccolgono in raggruppamenti unitari (nota 298), si estende, in progrediente graduazione, sino all individuo singolo, il quale è, come tale, essentialiter o entialitcr (non tuttavia secondo la sua sostanza) sepa- rato dal suo simile 3 °fre (B0tZI0 ’ P- ™ nox7Lì h -md ÌS lil l P Ì80 3 r487F-T ^ già, più s °P ra ' aUa mero sun, difierenlia. q uae loia JL,.,L. Z^ZTentt disTctsum sire solo numero ab inviami disteni, ut Socrate* e, i>LT ’ mente come im nome generale equivoco 305 ), ma invece la « subsiantia », in quanto è questo il concetto del genus generalissimum, dev'essere consideratacome quella su¬ prema ultima materia, sulla quale incomincia a eserci¬ tarsi Fattività della differenza specifica 308 ). Così Abelardo, in quanto è platonico, insegna mia ontologia obbiettiva degli universali, la quale da un lato vantaggiosamente si distingue, per la maggior cura con cui si giova di Boezio, dal più grossolano realismo di Guglielmo da Cbampeaux, ma al tempo stesso, mediante il concetto già sopra menzionato (nota 299) di consimili- tulio, viene, d’altra parte, in certo modo, a mettersi in contatto con l’autore dello scritto De gen. et spec. (no¬ te 163 e 177) o con la teoria (nota 132) della indiffe¬ renza 807 ). [mi ma dallo stesso principio Abelardo trae insieme partito secondo il punto di vista aristotelico ]. — Ma ora, quanto a quell’altro modo di vedere di Abelardo, die si 305 ) Glossae ad Porph. (riferite dal Cousin), p. 568: Ens est aequi- vocimi.... [569] videlicet illam definilionem, quam habel ens in prae- dicamento substantiae, nunquam habebit in praedicamento quantità- tis.... Ens non habet unam substantialem diffinitionem, cum qua prae- dicalur de omnibus generalissimis, cum hac diffinitione praedi- catur ens de substantia : substantia est ens, quod ncque est qualitas nec quantitas etc. — V. la Sez. XII, nota 89. 30li ) Ibid.. p. 565: Substantia est generalissimum, quia est solum genus.... — (p. 566) quemadmodum substantia est genus generalis¬ simum, cum suprema sii, eo quod nullum genus supra eam sit, etc. — Inoltre il passo citato più sopra, nota 298, e Dialect., p. 485: Genus omne naturaliter prius est suis speciebus.... genus [est materia] spe- cierum. 307 ) In una maniera consimile, che ricorda quelle teorie, si espri¬ me Abelardo, Theol. Christ., Ili, p. 1261 [468]: Sed nec Socrates, cum sit a Platone numero diversus, li. e. ex discretione propriae essen- tiae ab ipso alius, litio modo ideo ab ipso aliud dicitur. h. e. substantia- liier differens, cum ambo sinl ejus[dem ] naturae secundum ejusdem speciei convenientiam, in eo scilicet [1262] quod uterque ipsorum homo est. — Ibid., p. 1279 [486]: Idem vero similitudine dicuntur quaelibet discreta essentialiler, quae in aliquo invicem similia sunl, ut specics idem sunt in genere vel individua idem in specie [PL]. accorda con il punto di vista logico di Aristotele, bisogna che tentiamo di metter in chiaro, in qual maniera do¬ vesse, secondo lui, intendersi il concetto già ricordato (note 286 ss.) di « sermo », e com’egli ne determinasse minutamente il fondamento: e qui fin da principio sem¬ bra esser degno di nota ch’egli, rimanendo assolutamente fedele al punto di partenza da cui lì aveva preso le mosse, si attiene a passi contenuti nel libroDe interpr. Se cioè deve tenersi fermo il principio dianzi enun¬ ciato, vale a dire che il praedicari è degli universali, quali sono naturalmente determinati, si ha anzi tutto una sem¬ plice parafrasi dello stesso principio, quando si afferma che la predicazione (sermo) è in rapporto di originaria affinità con le cose 308 ) : tuttavia, com’è naturale, ciò va inteso nel senso che la denominazione (vocum impositio ), venendo dopo, è condizionata e dipendente dalle cose ob¬ biettive che essa significa ( res significala) 30S ), anzi che, in questo senso, anche la significano della parola è ancora quel primum, dal quale soltanto dipende la parola come parola 310 ). Vero è poi che a questa maniera i generi e le specie non sono nient’altro che ciò che da queste parole è significato 3n ), ma quel che da esse è significato. 3 " 8 ) Introd. ad theol., II, 10, p. 1074 [90]: Conslat quìppe, juxta Boethium ac Platonem, cognatos de quibus loquuntur rebus oportere [91] esse semiortes [PL, 178, 1062]. — V. Boezio, ad Ar. de interpr. [ed. seconda, II, 4: ediz. Meiser, Pars Post., p. 93; PL, 64, 440-11, p. 323. J 30 °) Dialect., p. 487: vocem secundum imposilionis suae originem re significata posteriorem liquet esse. — Ibid., p. 350: Si nòminis hujus. quod est « homo », propriam impositionem tenueril, secundum id scilicet, quod substantiae hominis ut existenti ex animali etrationa- litote et mortalitate datum est, ratam omnino conseculionem viderit. — Inoltre il passo ricordato più sopra, nota 255. 31 °) Dialect ., p. 345: neque enim nomina ncque verbo sunt, suis non existentibus significationibus. — Ibid.. p. 482: [propria signifi- catio. illa ] scilicet. de qua inlelleclum proprie vox queal generare. 3iI ) Glossae in Porph.. p. 567: genera et species. id est ipsa signi¬ ficata harum vocum, come pure nel passo riferito più sopra (nota 278) si dice sempre: sex voces et significata eorum. in altro non può consistere, a sua volta, se non nei pro¬ dotti (li quel processo di creazione, onde dal genere si scende giù giù sino all’individuo: e avendo i generi e le specie una esistenza concreta soltanto negl’individui, nella proposizione « Socrate è un uomo » noi parliamo per esempio soltanto di quel che significato da queste pa¬ role, ina non già delle parole stesse, in quanto parole 312 ). Ma proprio poiché i generi e le specie non sono ciò ch’esiste concretamente, l’antico motto « singultire senti- lur, universale intelligitur » conserva il proprio valore: ed essendo, dal concetto intellettivo ( intellectus ), affer¬ rato ciò che non cade sotto i sensi 3113 ), bisogna che — poiché quell’universale che non cade sotto i sensi, è ciò ch'è destinato a esser predicato — 1 esso concetto necessa¬riamente contenga in sé il principio onde si genera la predicazione, e venga alla coscienza, attraverso qualsiasi predicato, come principio del generarsi di questo, ovve- rossia: sermo generalur ab intellectu et generar infelice- tum 314 ). Così il « predicare » (sermo) è il terreno degli 312) Diale et., p. 204: Neque enim substantia specierum diversa est ab essentia individuorum, sicul in Libro (leggi primo: v. la nota 272) rartium ostendimus, nec res ita sicut vocabolo diversas esse con- tingit. Sunt namque diversae vocabulorum in se essentiae specialium et singularium, ut « homo » et « Socrates sed non ita rerum diver¬ sae sunt essentiae. Unde Ulani rem, quae est Socrates. Ulani rem. quae homo est, esse dicimus ; sed non illud vocabulum, quod est « Socrates », illud, quod est « homo», linde quod in re speciali contingit, et in ipsius individuis necesse est contingere, cum videlicet nec ipsae species ha- beanl nisi per individua subsislere, nec in ea, quae informant et ad invicem jaciunt respicere, nisi per individua, venire (cfr. la nota 296). 313) Introd. ad theol., li, 3, p. 1061: Proprie.... de invisibilibus intellectus dicitur, secundum quod quidem intellectuales et risibiles naturar dislinguuntur [PL, 178. 1052: e cfr. PL, 76, 1202], 3U ) Theol. Christ.. I, 4, p. 1162 a. [365]: Licei etiam ipsum no- strae mentis conceptum ipsius sermonis lan i effemini quam causam ponere, in proferente quidem causam. in audiente effeclum, quia et sermo ipse loquenlis ab ejus intellectu proficiscens generalur, ut cum - (leni rursus in auditore generel intellectum. Pro hac itaque maxima sermonum et intellectuum cognatione non indecenler in eorum nominibus mutuas fieri licei translationes : quod in rebus quoque et nominibus pro- pter adjunctionem significationis frequenter contingit [PL, 178, 1130]. alcunché di predicato), bensì soltanto nel fn) ispirazione aristote/im al giudizio (praedicari) I _ jù a m dato ce- intellettivo lin e" ^ 1“' “n- non cade,,1,,,; e "p *» »“» lenivo. Con Jè U 00 “ en “ U Intel- povalità (cfv. la nota 252) Tv '7 ’ m mon,e n‘o di tem. M»v enunciato, richiede „„ cèrio i'.'mm,!!" per "'ente significante, * non dopo che tnt.e k,T ' '“'i .teno successi va mente fatte innanzi- e r, ' r„ alicujus exist.it.... fìuod intei cativam dicere, quod unum P de hU*eó"""l ."™‘ 9u, ' ml,bel ’ta signifi-,V U !,a f,,nte è Boezio (ad Ar de ituern l ? tellectus ooncipiatur. Meiser p ars Post ^ ss • PI T, P ‘ Ynf 1 ' 1 seeu “ da - I. 1; ed. Sez. XII, nota 110. - 64 ’ 402 S -L P- 296 s.; V. Ja  siste nella unità di quel pensiero, che esso fa nasce- -re sl8 )- Ma proprio perciò il giudizio, al pari della parola, in quanto questaèelementodelgiudiziostesso, ha essen¬ zialmente due lati a un tempo, uno dei quali consiste nelle cose, delle («de») quali il giudizio tratta {signi¬ ficai io reali*), mentre l’altro riguarda il pensiero, che esso giudizio contiene e genera, ma del quale non tratta (significatio intellectualis ): e c’è pertanto parallelismo tra essere e non-essere, nella realtà obbiettiva, ed esser vero e falso, rispetto al giudizio 317 ). Ben è vero, cioè, 316 ) Ibid., p. 297: ....ut multiplìcem illam dictionem dicamus, quae pluribus imposila est, ex quibus non fit unum, li. e. plura in sentenlia tenet non secundum id, quod ex eis unus procedal intellectus. Sic autem e converso omnis illa una est diclio, quae plurium signi¬ ficativa est. secundum id, quod ex eis unus intellectus procedal. V. Boe¬ zio, p. 335 [o non forse 328? Loc. ult. cit. II. 6. p. 106 ss.: PL, 64, 447-8] (cioè Aristotele: v. la Scz. IV, note 185 ss.). 317 ) Ibid., p. 238: Sunt igitur veruni ac falsum nomina intel- lectuum, voluti cum dicimus „intellectus verus et falsus “, h. e. habi¬ tus de eo, quod in re est vel non est, quos quulem intellectus in animo audientis prolata propositio generai.... Sunt cursus vertim ac falsum no¬ mina proposti 1 onum, ut cum dicimus,,propositio vera vel falsa" i. e. veruni vel falsum intellectum generane. Significant propositiones idem, quod in re est, vel quod in re non est. Sicut enim nominum et verborum duplex ad rem et ad intellectum significatio. ita etiam propositiones, quae ex ipsis componuntur, duplicem ex ipsis significationem contrahunt, unam quidem de intelleclibus, aliam vero de rebus.... Patet insuper adco, per propositiones de rebus ipsis. non de intellectibus nos agere. — p. 240 s.: Restat itaque, ut de solis rebus, ut dictum est, propositiones agant, sive idem de rebus, quod in re est, enuncient, ut „homo est ani¬ mai, homo non est lapis “, sive id, quod in re non est, proponant, ut „homo non est animai, homo est lapis “, ut etiam de significatione reali propositionis, non tantum de intellectuali, suprapositae [Prautl cor¬ regge: supraposita] propositionis diffinitio (Boezio, p. 291 [? Corri¬ sponde a loc. ult. cit., Prooem., p. 7 ss.: PL, 64, 395-6]) possit exponi sic significane veruni vel falsum, i. e. dicens illud, quod est in re vel quod non est in re“, et in hac quidem significatione veruni et fal¬ sum nomina sunt earum exislentiarum rerum, quas ipsae propositio¬ nes loquuntur. Cum autem eamdem dijfinilionem et de intellectibus ipsis hoc modo exponimus „significanles [Prantl: significane] verum vel falsum, h. e. generane secundum inventionem suam de rebus, de quibus agitur. verum vel falsum intellectum “, lune quidem ipsos nomi- nani [Prantl: nominai] intellectus. Nota autem, sive de intellectibus sive de rerum existentiis exponamus, orationis praemissionem necce-che la parola « praedicari » ha tre significati: vale a dire,ni primo luogo la si usa, in modo affatto estrinseco, per significare la semplice collocazione di un soggetto e di un predicato, imo di seguito all’altro, fatta astrazione da qualsiasi contenuto reale; ma poi quella stessa parola concerne, in doppio senso, la relazione, qual è data effet¬ tivamente nella realtà obbiettiva, in quanto che, riguardo a quel tale processo di creazione (note 294 ss. e 312), il praedicari mette in rapporto con la materia del genere o il formato ( materiatum ) o la forma ; tuttavia, com’è naturale, soltanto tale relazione, espressa dal termine praedicari in queste due ultime sue accezioni, è ciò di cui («de quo») tratta il giudizio: e in tale significalo praedicari vai quanto esse, sicché, — in quanto non pos¬ siamo enunciare giudizi, se non con parole — che im giudizio sia affermativo, o un altro negativo, e via di¬ cendo, queste son distinzioni che ricadon nell’orbita della modalità della espressione 318 ). Inoltre c’è pur coinci¬ denza tra quel duplice riferimento che può esser con¬ tenuto nei giudizi, e l’antica distinzione tra « de subie- soriani esse. Qui la fonte si trova in Boezio, p. 321 [corrisponde a tm iM ' V/ 7 64 ’ 437 ~ 8] -~ Cf "- anche la 347 - ) Unii., p. 366-7 : Tnbus autem modis „praedicari “ sumilur : uno quidem secundum enuntiationem vocabulorum ad se invicem in conslructione ; duobus vero secundum rerum ad se inhaerentiam, aut cum videlicel in essentia cohaeret sicut materia materiato, aut cum alterum alteri secundum adjacentiam adhaeret, ut forma materiae. Ac secundum quidemenuntiationem omnis enunliatio.... praedicatum et sub- jectum li a bere dicitur.... Sed non de his in propositione aeitur. sed de predicanone tantum rerum, illa scilicet solum. quae in essentia, quae verbo subs,antico expnmitur. consista!.... Tantum itaque ..praedi- can illud accipimus, quantum si „hoc Mud esse 1 * diceremus. tantum per,,removeri'\ quantum per,,non esse 1 *.... Cum itaque per ..praedi- cari, „esse accipiamus, superflue rei „rere“ vel .. affermative “ appo- nitur: Quod emm est aliquid, vere est illud, affirmative autem enun- tiatioms est determinano, quia tantum in vocibus consisti/ affirmatio sicul et modi vel determinationis oppositio [leggi con il Pronti appo- sitio). Modus emm vel determinano (v. la Sez. XII, nota 119) tantum vocum sunt designatila, quae solae moderanmr vel determinata [Prantl: determinantur] in enuntiatione positae.  c/o» e « in subiccto » (v. la Sez. XII, nota 92), e la h>x praedicamenti ha la propria sfera d’influenza proprio in quelle due accezioni reali del giudizio 31 °). Con ciò ci è resa ora soltanto interamente perspicua la su riferita partizione della dialettica (note 272 ss.) secondo Abelardo. Tutto sta nel sermo, cioè nel giudi¬ zio. Ma è anche vero che gli universali sono i predicati che son nati, che sono stati generati nel processo della creazione, e il pensiero li aff erra, secondo la dottrina di Platone, e, secondo la logica di Aristotele, li enuncia, come universali, nel giudizio: e anzi perciò Abelardo, accanto alle solite quinque voces, ne annoverò ancora mia sesta, cioè anche l’individuo (note 278 ss.), poiché l’individuo, quale prima substantia (Sez. XII, nota 91), ovvero, come qui anche lo si denomina, quale princi- palis substantia, viene designato appunto con quella pa¬ rola (vox), che corrisponde all’ultimo grado del processo della creazione 3l2 °). Ma poi, giacché Abelardo con¬ siderava la differenza specifica esclusivamente come forza efficiente, e non come tale che passi essa medesima nella materia del genere (nota 295), egli si trovava a dover prendere qui il nome della differenza non quale sostantivo, come aveva fatto Guglielmo da Champeaux) Glossae in Categ . omnia.... aut dicuntur de princi ’- palibus substantiis sibi subjectis.... servata lege praedicamenti.... aut sani in eis subjectis. Un diverso modo di esprimersi, in luogo di questo, si ha (ibid ., p. 585 s.) nella distinzione tra praedicari sub - stantialiter e praedicari accidentaliter (Boezio, p. 131 \i.n 4r Praed I; PL, 64, 189]): cfr. la nota 322. m> ) Ibid., p. 584: species, in quibus conlinentur principales sub- slamine.... genera et species ordinata post principales substantias sola.... dicuntur secundac substantiae (e ripetutamente a questa stessa ma- mera). p. 591 : Vere primae substantiae significanl aliquid hoc indi¬ viduale, quia illud, qund significatur a prima substnnlia, scilicet quae tox est sicut et consimilia (così si deve leggere secondo il mano¬ scritto, con una piccola modificazione; la lezione del Cousin dà un controsenso), est individuum et unum numero, i. e. parificalum nu¬ merali descriptione, i. e. significatur ab hac voce, quae est individuum et unum numero., bensì alle obiezioni che su questo punto furono sollevate anche da altri (nota 122), poteva sot¬ trarsi con l’interpetrare la parola che designa la diffe¬ renza, come un aggettivo derivato da questa (sump-, um » —,) ss)). Ma a quei predicati nati seguono poi nelle Categorie le cose stesse, in quanto vengono desi¬ gnate con parole — « naturae, quae vocibus designati- tur » — e per conseguenza le categorie contengono le cose a22 ), mentre appresso vengono prima di tutto con¬ siderate le parole, in quanto esse sono ciò che designa, e costituiscono il passaggio al giudizio (sermo) stesso, che è composto da quelle. [o) anche il preteso intellettualismo di Abelardo de¬ riva dal suo aristotelismo]. — Ma allora il giudizio non contiene già le cose, bensì contiene il pensiero ( in- telleetus), e invece tratta intorno alle cose, ma non 321) Dialect., p. 456 : De nominibus dififerentiarum sciendum est, ut non quidem substantiva, sed sumpta a dififierentiis sumantur, posita lumen loco specierum. Oportet eitim in eadem significai ione vocabula dijjerentiarum sumi in divisione generis, in qua significatione ipsa in dijfinitione speciei ponuntur, cum scilicel nomini generali adjacent.... (p. 457) sicut in nostra fixum est senlentia, nullo modo inter accidentia dififerentias admiltamus (v. sopra le note 300 s.). Quod autem Porphyrius per dififerentias genus in species dividi dixit, secundum eam dictum est sentenliam. qua naturam generalem in species redigi atque distri¬ buì per susceptionem dififereniiarum realiter voluit ; aut potius per difi¬ ferentias genus in species dividi voluit, cum earum vocabula adjuncla nomini generis speciem designant, atque diffinìtionem speciei compo- nunt. hoc modo „animai aliud ralionale, aliud irrationale animai .‘ — Ihid, p. 189: In sumplis enim non ea, quae ab ipsis nominantur, com- parantur, sed tantum fiormae, quae per iosa circa subjccta determinane tur ; alioquin et subslantias ipsas comparaci contingeret, quae saepe a sumptis nominibus nominantur, ut ab eo quod est album.... 322 ) lbid.. p. 209 e 245, cioè due passi, che sono stati citati di già più sopra, nota 272. Ma vedi inoltre a p. 220: Subiectarum vero rerum diversitas secundum decem Praedicamentorum discretionem su- perius est ostensa, qua [Cousin: quae] principale ac quasi substan- tialis nomini significano detur. Caeterae vero significationes, quae se¬ cundum modos significando accipiuntur, quaedam posteriores atque ac¬ cidentale* dicuntur. già ili quanto le significhi, bensì in quanto contiene la connessione, afferrata dal pensiero, tra le cose e il pro¬ cesso di creazione. Laddove per conseguenza il predi¬ care Tessere (nel giudizio) non è esso medesimo un es¬ sere, nel predicare si tratta di uno stato di cose reale, cioè della connessione obbiettivamente reale tra ciò ch’è significato dal soggetto, e ciò cli'è significato dal predi¬ calo 323 ). Questa distmzione fra « contenere » e « trat¬ tare » forma l’intimo nòcciolo della concezione del giu¬ dizio secondo Abelardo 324 ). È ben vero, cioè, che il predi¬ cato ha un suo aspetto grammaticale, e che, designando noi nel giudizio una sola e medesima cosa con varie de¬ nominazioni (come per esempio quando chiamiamo So¬ crate ora uomo, ora corpo, ora sostanza), appunto in ciò consiste una differenza tra la espressione verbale e la realtà (efr. la nota 312); ma mentre la praedicatio per eè sola, avulsa dalla obbiettiva rerum inhaerentia, non è assolutamente nulla, precisamente la logica ha il compito di studiare il giudizio, in questo senso, dal lato della espressione verbale S2S ). Anzi quel che più importa è pro- 32S ) lbid., p. 241: Digrumi miteni inquisitione censemus, utrum Mae existentiae rerum. quas propositiones loquiintur, sint aliquae de rebus existentibus. Clanim ilaqiie ex suprapositis arbi¬ trar esse, res aliquas non esse ea, quae a propositionibus dicuniur.... Palei insuper, ea quae propositiones dieunt nullas res esse, cum vi- delicet nulli rei praedicatio eorum apiari possit ; de quibus enim dici putest, quod ipsa sint ..Socrates est lapis “ vel ..Socrates non est lapis"?. ...Esse autem rernaliquam vel non esse, nulla est omnino rerum essentia. Non itaque propositiones res aliquas designant simpliciter quemadmo- dum nomina. Imo qualiter sese ad invicem habeant, utrum scilicel sibi conveniant annon, proponunt ; quae idcirco verae sunt, cum ita est in re sicut enunciant, lune autem falsae, cum non est in re ita. Et est projecto ita in re, sicut dicit vera propositio, sed non est res aliqua, quod dicit. linde quasi quidam rerum modus habendi se per proposi- liones exprimitur, non res aliquae designantur. s24 ) Soltanto dall’avere disconosciuto questa differenza è derivato, che il Cousin, e con lui l’Hauréau e il Rémusat, abbiano ravvisato nella dottrina di Abelardo un intellettualismo o concettualismo. 3 “) Dialecl., p. 247 s.: Si quis itaque secundum rerum inhaeren - tiam rcalem acceperit praedicationem ac subjectionem, secundum id prio ciò, di cui il giudizio « tratta »; ma ciò non è nè la parola nè il pensiero (intellectus), poiché non può dirsi che dalla esistenza di tuia data parola venga posta la esigenza che esista un’altra parola, e neanche sussiste, tra i pensieri, che i giudizi « contengono », una reci¬ proca affinità che li leghi a forza: poiché in ciascun giudizio abbiamo pure un unico pensiero soltanto, e ad ammettere che ne abbiamo parecchi insieme, si arriverebbe alla conseguenza che avremmo al tempo stesso un numero infinito di pensieri, essendo obbiettivamente, di fatto, contenuti in ciascuno stato elementi infiniti in serie continua: invece solamente in ciò, di cui il giu¬ dizio « tratta », deve trovarsi o fissarsi la connessione reale, ovvero quell’obbiettiva relazione reciproca: e perciò anche la modalità della espressione, sia cioè affermazione o negazione o via dicendo (v. la scilicet, quod unaquaeque res in se recipit ac subsistit, sicut nihil esse eam viderel praeter ipsam, ita eam nihil esse per se ipsam invenerit. Al vero magis praedicationem secundum verbo proposiiionis, quam se¬ di ndum rei exislenliam, nostrum est attendere, qui logicae deservimus, secundum quod quidem de eodem diversas facimus enuntialiones hoc modo Socrates est Socrates vel homo vel corpus vel substantia. Aliud enim in nomine Sacratis quam in nomine hominis vel caeteris intelli- gitur ; sed non est alia res unius nominis, quod Socrati inhaeret, quam altcrius. V. inoltre il passo citato più sopra, nota 255. 328 ) lbid., p. 352 s.: Neque enim veram Itane consequenliam „si est homo, est animai “ de vocibus agentem possumus accipere, sive diclionibus sive propositionibus. Falsum est enim, ut, si haec vox ..homo" existat, haec quoque sit quae est,.animai “ ; ac similiter de cnuntiationibus sive earum intellectibus. Ncque enim necesse est, ut qui intellectum praecedenti propositione generatum habet, habeal quoque in- tellectum ex consequenti conceptum. Nulli enim diversi intellectus ita sunt affines, ut ulterum cum altero necesse sit haberi, imo nullos simul intellectus diversos animam retinere, ex propria quisque discretione convicerit, sed totani singulis intellectibus, dum eos habet. vacare in¬ venerit. Quod si quis essentiam intellecluum ad se sequi sicut essentiam rerum, ex quibus habentur intellectus, concesserit, profecto quemlibet intelligentem infinilos intellectus habere concederei, secundum id sci- licei, quod quaelibet propositìo innumerabilia consequentia habet.... Ut igitur verilatem consecutionis teneamus, de rebus tantum eam agere concedamus, et in rerum natura regulas anteccdentis ac consequentis accipiamus. nota 318), non risiede nè nelle parole nè nei pensieri, bensì è da ricondurre soltanto al loro fondamento ob¬ biettivamente reale 32r ). [p) ma in Abelardo, vero spirito aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto l’impulso di Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell'argomentazio¬ ne}. — Ma se a questa maniera, secondo Abelardo, nel giudizio si ha clic fare non con il pensiero ( intellectus ), ma con la inerenza di fatto nella sfera della oggettività, si capisce ora altresì perchè egli (e il motivo al quale in ciò si conforma, è dato dal giuoco di combinare assieme elementi stoici con elementi boeziani) tratti il giudizio categorico solamente come un grado preparatorio al giu¬ dizio ipotetico, nel quale ultimo s’inserisce la topica, come base della sua validità. Il giudizio ipotetico, in quanto è complesso, ha anzi la funzione di servire come espressione adeguata della connessione, e questa viene resa manifesta nel procedimento dell'argomentazione, mediante ragionamenti, nella ipotesi che le premesse abbiano, per chi ascolta, un valore di enunciazione espressiva. Quel, cioè, che l’uomo pensante afferra con la mente, nella maniera rivelata da Platone, ed enuncia con il giudizio, nella maniera fissata da Aristotele, deve ora esser utilizzato per l’argomentazione, nella maniera propria della tradizione retorico-ciceroni alia. Vale a dire che anche neH’argomentazione — come viene osservato con tono polemico contro altri studiosi: v. la nota 225 — non si tratta già dei pensieri ( intellectus ), bensì di quel medesimo oggetto del quale trattano i giudizi, che costituiscono rargomentazione stessa, con questa sola differen¬ za, che cioè qui la necessaria connessione (necessitas) che ci si presenta nello stato di fatto obbiettivo, è nel RAGIONARE espressa precisamente dalla sussunzione (inferentia): ne ad Abelardo sembra d’insistere mai abbastan¬ za nel rilevare che la relazione di dipendenza tra antecedens e CONSEQUENS non è data nel pensiero, ma, come esclusivamente obbiettiva, sussiste già da se stessa nella natura creata, e nel fonda¬ mento reale di tutt i giudizi 329 ). L perciò, anche a quel- 1 altro modo di vedere unilaterale, che abbiamo incon¬ trato più sopra (nota 215), egli nettamente contrappone la idea, che alla modalità dei giudizi, anche relativa¬ mente ai concetti di possibile e di necessario (del pari che più sopra, nota 327), sia da metter a fondamento una modificazione obbiettiva dell’essere. Dicunlur in argumentis ea. quae a propositionibus ipsis significantur. ipsi quidem inlcllectus, ut quibusdam placet, quorum conceptio, SINE ETIAM VOCIS PROLATIONE, ad concessionem al- terius ipsum cogit dubitantem. XJnde et bene rationis nomea in prae- missa diffinitione (cioè in quella di Cicerone [intendi la definizione di CICERONE di ARGVMENTVM ; Top., cap. 2, § 8]: vedila, riprodotta in BOEZIO, neljla Sez. XII, nota 165) dicunt apponi ; ratio enim no- men est intcllcclus. qui in anima est. Sed, si divisioni verbo altendamus, potius argumentum accipiendum erit in designatane eorum, quae a propositionibus dicunlur, quam eorum intellecluum, qui ab ipsis " e- nerantur.... Neque enim in propositione quidquam de intellectu dicilur. sed, cum de rebus agitur, per ipsam intcllectus generatur, qui neque in sua essentia necessilatem tenet, neque in/erentiam ad alterum ... linde potius de bis, quae propositiones ipsae dicunt, supraposita diffinitio ....est accipienda. 3 “ 9 ) Introd. ad theól III. 7, p. 1134 [141] : Ex quo apparet, quarti veruni sit,... in illa.... philosophorum regula, cujus possibile est ante - cedens, et consequens, eos ad creaturarum tantum nomea accommodare [IL. 178, 1112]. — Dialect. Ex his itaque manife- slum est, in consequentiis per propositiones de earum inlelleclibus agen- dum non esse, sed magis de essentia rerum.... Et in hoc quidem signifi- calione eorum, quae propositiones loquuntur, una tamen exponitur re¬ gula, quae ait, posito antecedenti, poni quodlibet consequens ejus ipsitts, h. e.: existente aliqua antecedenti rerum essentia, necesse est existere quamlibet rerum existentiam consequentem ad ipsam. — Ibid., p. 351: Si quis itaque vocum impositionem recte pensaverit, enunliationum quarumlibet veritatem facilius deliberaverit, et rerum consecutionis ne¬ cessitatali velocius animadverterit. — Parimente alle p. 343 s. e 382. 33 °) Dialect. Unde oportet, ut rcctae sint modales, ut etiam de rebus, sicut simplices. agant ; et tunc quidem de possibili et impos¬ sibili et necessario ; quod quidem tam in his, quae singultire subjectum hdbenl, quam in his, quae universale, licei inspicere. Con quel che siamo venuti dicendo intorno alla es¬ senza, al principio e allo svolgimento della dialettica di Abelardo, crediamo di esser giunti a farcene ima idea giusta e approfondita, che, ove ce ne fosse bisogno, po¬ tremmo noi stessi avvalorare con un documento estrin¬ seco, servendoci di un epitafio) composto in onore di Abelardo, da un suo contemporaneo. In questa dialet¬ tica, non è certamente spirito aristotelico quel che ci alita in fronte, bensì di gran lunga più manifesto vi risentiamo l’influsso ammorbante dello stoicismo (v. la Sez. VI, note 47-56), che s’era fatto strada negli scritti di Boezio; poiché quell’associazione di mi rozzo empi¬ rismo con un motivo formale, dato dal progresso verso mia sempre più complessa composizione, e con l’inte¬ resse retorico delFargomentazione, prende — proprio là, dove Abelardo sacrifica dappertutto i motivi logici, per considerare lo stato di fatto obbiettivo — il posto di una sillogistica che torni veramente a profitto del sapere definitorio: e a chi tenga presente la logica di Abelardo nel suo nucleo centrale, egli appare come un retore che fa la teoria dell’argomentazione, piuttosto che come un platonico o un aristotelico. Tuttavia egli è ampiamente giustificabile, perchè delle opere principali di Aristo¬ tele, conosceva, semplicemente per sentito dire, soltanto alcuni particolari frammentari (note 8-18), e in special modo perchè, dato, per un verso, 1 ordine irrazionale in cui erano disposte le parti dell’Organon, come pure date, 881) Citato, attingendo al Rawlinson, dal Rémusat, II. p. 101: Hic docuit voces cum rebus significare, Et docuit voces res significando notare; Errores gencrum correxit, ita specierum. Hic genus et species in sola voce locavit, Et genus et species sermones esse notavit . Sigili* ficativum quid sit (questo, cioè, è il giudizio: v. la nota 315), quid significatami Significans quid sit (questa è la parola singola), pru- dens diversificar il. Hic quid res essenti quid voces significar enti Luci - dius reliquis palefiecit in arte perilis. Sic animai nullumque animai genus esse probalur. Sic et homo et \sed?] nullus homo species vo- citatur [PL, 178, 104], per 1 altro verso, le idee che Boezio aveva prese da Por¬ firio, era inevitabile che traesse origine da ciò mia con¬ cezione contorta e contraddittoria. In Abelardo, e forse in tutti i suoi contemporanei, si compie la vendetta del fatto che, da un lato la Isagoge e le Categorie [delle quali, come sappiamo, il Franti contesta l’autenticità: v. la Sez. IV, nota 5] si tengono più vicine al platoni¬ smo, e che d’altro canto, al tempo stesso, nei libri suc¬ cessivi si trova contenuto l’aristotelismo; e inoltre può darsi che Abelardo dal suo medesimo personale talento fosse portato a non curarsi d’intendere più profonda¬ mente queste antitesi, e trascinato ad assumere Patteg¬ giamento del retore. Si direbbe ch’egli, se fosse vissuto in quei secoli più vicini a noi, sarebbe stato certamente un seguace di Pietro Ramo. [ql continua l'analisi del contenuto della Dialettica: le Categorie]. — Ma adesso ci rimane il compito di se¬ guire, anche attraverso le singole parti della dialettica. Io svolgimento che questa ha avuto da Abelardo, il quale ci si presenta sulla stessa linea degli altri autori di cui sopra, che hanno promosso le particolari controversie già ricordate, e dei quali ci è ignoto il nome. Seguendo la partizione dello stesso Abelardo (no¬ te 2,2 ss.), dobbiamo supporre colmata la lacuna del testo qual è a noi giunto, dovuta alla mancanza degli Antepraedicarnenta, e pensar di essere già stati condotti così a trattare le questioni più generali, e che più pro¬ priamente si posson dire questioni di principio. Agli An¬ te praedicament a tien ora dietro la seconda Sezione della prima parte principale, cioè i Praedicamenta, do¬ ve, come ben s’intende, è preso a fondamento Boezio, che viene ormeggiato a passo a passo. I concetti di uni- vocum, e simili, conforme a quanto abbiamo detto più sopra, sono naturalmente di spettanza dell [a teoria della predicazione, in quanto quest’ultima ha anche un] aspet¬ to grammaticale 332 ). La categoria della substantia, che altrove, d’accordo con il de Trin. del Pseudo-Boezio, viene intesa anche come subsistentia 333 ), è l’atta qui og¬ getto di una trattazione, che in tutto e per tutto si man¬ tiene nel più pieno accordo con Boezio 334 ). Più minutamente è presa in esame la quantità, seb¬ bene qui Abelardo si dovesse appoggiare a quel che n’era stato detto da altri, perchè, com’egli medesimo confessa, era ignorante di aritmetica M5 ) ; egli consente con coloro Icfr. le note 109 e 127), i quali eran di opi¬ nione che la linea consista di punti 33 °), e, riguardo al concetto di numero, si attiene al principio della unità naturale, condizionata dal processo della creazione (no¬ ta 304) : per conseguenza, in contrasto con le su riferite opinioni di altri (note 199 s.), qui il fondamento reali¬ stico è formato dal singolo, in quanto è particolare, co¬ sicché da un lato il « numero in generale » include già la pluralità e ha lo stesso significato che « [le] unità », e d’altra parte i diversi numeri determinati sono, come sostantivi, le denominazioni di diverse unità collettive su¬ periori, in maniera comparabile con il procedimento col¬ lettivo, onde, secondo diversi punti di vista, raccogliamo 332 ) Così, occasionalmente, Dialect., p. 480: Hoc ituque nomea, quoti est aequivocum sive univocum, ex vocabulis tantum in rebus con- tingit. 333 ) Introd. ad theol., II, 10. p. 1071 [88]: Unde et subslanliae quasi subsistentiae esse dictae sunt, et cactcris rebus, quae ei assistunt, [ci] non per se subsistunt. naturaliter priores sunt [PL, 178, 1060], 334 ) Dialect., p. 173—178. (Il testo del manoscritto incomincia pro¬ priamente soltanto a mezzo della categoria substantia, cioè in corri¬ spondenza con Boezio [in Ar. praed., I: PL, 64, 187-8], p. 133). 333 ) Ibid., p. 182: Etsi multas ab arithmeticis solutiones audie- rim, nullam tamen a me praeferendam judico, quia ejus artis ignarum omnino me cognosco. 336 ) Ibid. : Talem autem, memini, rationem Magistri nostri senten- tia praetendebat, ut ex punctis lineam constare convinccretur.... — (p. 183) Alioquin supraposita Magistri sententia, cui et nostra con¬ sentii, etc. le cose ili specie, o sottospecie, o altrimente ili gruppi 337 ). In quanto che nello stesso luogo si deve trattare anche del discorso umano inteso come alcunché di quantita¬ tivo, Abelardo combatte il modo di vedere unilaterale, che abbiamo trovato più sopra, onde si ritenne che fosse l’aria a adempiere l’ufficio di «significante»: e, asse¬ gnando egli invece al suono questa funzione di « signifi¬ care », va in cerca di autorità che suffraghino tale sua opinione 338 ). Ma, immediatamente dopo la quantità, fa posto alle categorie ubi e quando, come a quelle che per natura sono collegate, nella loro origine, con i concetti di luogo e di tempo, presi hi esame nella trattazione della quan¬ tità 339 ), e mentre così intende quelle due categorie in 337 ) P- 186: [numerus] semper.... in natura discretionem habct, qui solam unitatis parlicularilatem requiril.... cum nomea numeri plurale simpliciter videatur atque idem cum co, quod est unitates. Unde opportunius nobis videtur, ut, sicut supra tetigimus, numeri no¬ mea substantivum tantum sii ac particulare unitatis, atque idem in significai ione quod unitates. Binarius vero vel ternarius cacteraque nu - merorum nomina in/eriora sunt ipsius pluralis, sicut homines vel equi ad animalia, aut albi homines et nigri, vel tres vel quinque homines ad homines. Et fonasse quoniam omnia substantiva numerorum no- mina in unitalibus ipsis pluraliter accipiuntur, omnia ejusdem singu- laris pluralia poterunt dici, secundum hoc scilicet, quod diversas uni- tatum collecliones demonstranl (c£r. la nota 307). Numerus quidem simplex metialur plurale, alia vero secundum certas collectiones determinala. A ciò fa poi seguito il passo citato più sopra, nota 199. Cfr. anche alla p. 421: Haec enim unitas hominis Parisiis habitanlis et illa hominis Romae manentis, lume f aduni binarium. Unde sola uni- latum pluralitas numerimi perfidi. — Così pure a p. 486. ) P* 190: Nos autem ipsum proprie sonum audiri ae significare concedimus: unde et Priscianus ( Inst. gramm., I, 1 [ed. Hertz, p. 5]) ait, voccm ipsam tangere aurem, dum auditur, ac cursus ipse Boethius (deMusica [cap. XIV: PL,63, 1177], p. 1071 [della ediz. delle Opere di Boezio, Basilea 1546, cit. dal Cousin: p. 1379 della ediz. di Basilea 1570, alla quale, come s’è visto, suol riferirsi il Prantl]) totam vocem.... ad aures diversorum simul venire perhibet, dopo di che ci si richiama ancora, con le seguenti espressioni, di forma singolare, ad Agostino e a Boezio (p. 193): Ipsum etiam Augusti- num in Categoriis suis asserunt dixisse..., e etiam Boethius dicitur in libro musicae artis.... [194] adhibuisse. 33 °) P- 195: Hactenus de quantitale disputationem habuimus. Nunc ad tractalum pracdicamentorum reliquorum operam transferamus, eaqtie geuso realistico, includendovi anche p. es. il concetto di « ieri » * * 3 '* 0 ), arriva, per via dell’« essere nel luogo » e del- T« essere nel tempo », a considerare i vari significati di « messe » 341 ), ma cerca, in contrasto con obiezioni di al¬ tri, riferite più sopra (nota 194), le quali mettevano in campo l’analogia con l’avverbio interrogativo qualiter, di assegnare quell’espressioni concernenti l’inesse, all’uso del linguaggio secondo la grammatica 342 ), e di giustifi¬ car invece quelle due categorie, come tali, con la consi¬ derazione che in quelle è possibile una comparazione, e che pertanto non è il caso di ricondurle alla quantità, la quale esclude ima comparazione 343 ) : a ciò del resto si lega ancora il lamento che Aristotele sia stato in ge¬ nerale così parsimonioso nella trattazione delle ultime sei categorie 344 ). posi quantitatem exequamur, quae ei naturalitcr adjuncta videntur ac quodam modo ex ea originem ducere ac nasci. Ilaec aulem ., quando *" ei ..ubi." nominibus Aristoteles designai. Quorum quidem alterum ex tempore, alterum ex loco duxit exordium. ***) p. 196: v. sopra la nota 196 [reclius 197J. 3)l ) p. 197 : Quum aulem et ..quando" in tempore esse et ..ubi" in loco esse determinamus, non incommodo hoc loco demonstrabimus, quot modis ..esse in aliquo" accipimus ; Boelliius autem in edilione prima [198] super Categorias novem computai (dei quali modi segue qui la enumerazione, ricavata da Boezio [in Ar. praed., I; PL, 64. 172], p. 121: v. Sez. XII, nota 92; Cousin si scandalizza, per non aver trovato questo passo di Boezio!). 3 «) p. 200: Si quis autem „qualità “ dica! nihil aliud quam quali- tatem demonstrare, et ..ubi"' dicemus nihil aliud quam locurn designare, vel „ quando “ nihil aliud quam lempus. Unde et carlini definitiones recte vel „in loco esse “ vel „in tempore [esse]" dicimus, quae, si gram- maticae proprietatem insistamus, nihil aliud a loco vel tempore diver- sum ostendunt.... Videntur itaque magis prò nominibus accipienda esse ..esse in loco “ vel ..esse in tempore", quam prò definitionibus. M3 ) Ibid .: Haec autem generalissima ipsa, ut arbitror, compara- tionis necessitas meditari compulit. Cum enim quantitates non comparaci constarci (Boezio [in Ar. praed.. II; PL, 64, 215], p. 154), non po- teramus comparalionem,,diu “ vel „diuturni “ vel ..extra" ad tempus vel locum reducere: indeque maxime inveniri pracdicamentu arbitror, ad quae illa reducantur. 3M ) Ibid. : Ac de his quidern praedicamenlis difficile est pertractare, quorum doctrinam ex auctoritate non habemus, sed numerum tantum. Ipse enim Aristoteles, in tota praedìcamentorum serie, sui studii operam Nella controversia intorno alla categoria della rela¬ zione (v. sopra la nota 192), Abelardo finisce con il de¬ cidersi a favore dell’autorità della definizione aristote¬ lica 3, * n ), e così pure la questione del posto da assegnare ai concetti di simile e di uguale (nota 193) è da lui ri¬ solta nel senso che essi appartengano alla qualità 346 ). [r) i PostpraedicamentaJ. — I Postpracdica- menta poi, che costituiscono la terza Sezione del Liber partium, contengono, come si è veduto (nota 272), la trattazione del nome e del verbo, in quanto questi so¬ no i modi di significare le cose, e vengono considerati quali parti, da cui il giudizio, come totalità, è costituito. La opinione di Abelardo, riguardo al concetto di significavi o SIGNIFICATIO (cf. Grice, “Meaning”), da noi precedentemente messa in chiaro, lo porta qui a dichiararsi d’accordo con quel Garinondo (nota 82), ch’era un nominalista moderato, e ìwn nisi qualuor praedicamerUis ndhibuit, Substanliae scilicct. Quan¬ titali, ad Aliquid, Qualitati ; de Facere autem vel Pati nihil aliud docuit, nisi quod contrarietatem ac comparalionem susciperent.... De reliquis autem qualuor. Quando scilicet. Ubi, Situ, Ilabere, eo quod ma¬ nifesta sunt, nihil praeter exempla posuit.... De Ubi quidem ac Quando, ipso quoque attestante Boethio (p. 190 [in .-Ir. praed., HI; PL. 64, 262 s.].), in Physicis, de omnibusque altius subtiliusque in his libris, quos Metaphysica vocat, exequilur. Quae quidem opera ipsius nullus adirne translator lalinac linguae aplavit ; ideoque minus natura horum nobis est cognita. Cfr. più sopra la nota 18, dove abbiamo dovuto accennare di già alla integrazione, portata più tardi da Gilbert de la Porrée: v. appresso le note 488 ss. Ms ) p. 204: Aristoteles de imperfcelione restrictionis sicut Plato de acceptatione nimiae largilatis culpabilis videlur ; uterque enim modum excesserit, alque hic quasi prodigus, ille tanquam avarus redarguendus. Sed et si Aristotelem Peripateticorum principem culpare praesumamus, quem amplius in hac arte recipiemus ? Dicamus itaque, omni ac soli relationi ejus diffìnitionem convenire eie. 346 ) p. 208: At vero, cum similitudo relationibus aggregetur (Boe¬ zio [in Ar. praed., II; PL, 64. 219], p. 157),.... non videtur secundum solas qualitates simile dici.... His autem. qui simile ac dissimile inter qualitatcs computant (Boezio [in Ar. praed., Ili; PL, 64, 259], p. 187), monstrari potcst, res quaslibct in eo, quod dissimiles sunt, esse similes.... At fortasse non impedit, si in eo, quod dissimilitudinem participanl, similes inveniantur (si attiene cioè al passo ult. cit. di BOEZIO. pertanto scorgeva la essenza della significazione non nella parola come tale, bensì nel contenuto concettuale della parola stessa: un modo di vedere, questo, che Abe¬ lardo trova confermato da passi di Boezio,7 ). Nella di¬ sputa intorno alla questione, se le preposizioni e le con¬ giunzioni sieno da considerarsi come parti del discorso ( nota 206), cerca di conciliare i punti di vista imilate¬ rali dei grammatici e dei dialettici, attribuendo bensì a quelle parti del discorso la capacità di significare, ma ri¬ conducendo questa capacità, alla stessa maniera che la modalità della predicazione (note 327 e 330), a una mo¬ dificazione obbiettiva 348 ); onde, come si vede, anche se¬ condo la opinione di Abelardo, i così detti byncatego- reumata (cfr. le note 174 e 206) dovrebbero coerente¬ mente trovar posto in una o nell’altra parte della lo¬ gica- . . Ma in tutto il resto egli si tiene strettamente vicino a Boezio, e cerca di confutare obiezioni, sollevate da al¬ tri 349 ), cogliendo la occasione che di ciò gli era offerta. sn\ 210, dove alle parole già citate (nota 82) fa seguito im¬ mediatamente: linde manifestimi est, eos velie vocabula non omnia illa significare, quae nominimi (che p. es. animai non « significhi » •ria senz’altro homo), sed ea tantum, quae definite designata, ut animai se, Hat animai sensibile, aut album albedinem, quae semper m ipsis denotanlur. Quorum scntentiam ipse commendare Boethius (p. bij ['«' divisione: PL, 64, 877]) videlur, cum ait in divisione vocis „vocis attieni in proprias significationes divisto fit etc .(p. ZÌI) Oiiamen sanificare" proprie ac secundum rectam et propnam ejus dijjinilio- nen, signamus, non alias res significare dicemus, msi quae per vocem concipiuntur. — Cfr. la nota 317. 348 ) p. 217: llla ergo mihi sententia praelucere videtur, ut gram¬ matici consentientes, qui eliam logicae deserviunt, has quoque per se sisnificativas esse confiteamur, sed in eo significatwnem earum esse dicamus, quoti quasdam proprietates circa res forum vocabulorum, qui- bus apponi,ntur praepositiones, quodam modo determinerà.... t.onjunc- tiones quoque, dum quidem rerum demonstrantconjiinctionem, quamdam circa eas determinant proprietatem. — Cfr. la nota 620. ;n ») p eg- 219, dove di fronte alla obiezione ricordata piu sopra (nòta 210), si osserva: Veruni ipse verbo deceptus erat, ac prave id ceperat, verbum dicere rem suam inhaerere. così relativamente a quei giudizi (nota 211) che non im¬ plicano la esistenza effettiva del proprio soggetto 35 ), e questo nesso, che consiste in quella ri¬ spondenza, onde i due concetti son riferiti uno all’altro, è ciò per cui si distingue esso giudizio dal giudizio ca¬ tegorico: questo cioè enuncia la semplice esistenza, men¬ tre l’ipotetico c valido con assoluta necessità, fatta astra¬ zione dalla esistenza delle cose, ma appunto per questo ricorre all'aiuto dei loci, relativamente a ciò che non può desumersi dalla semplice realtà 396 ). In questo senso ex loco firmitalcm halent. Cujus quidem loci proprietas hacc est : vim inferentiae ex habiludine, quarti habet ad terminum illatum, conferre consequentiae, ut ibi tantum, ubi imperjecta est inferentia, locum va¬ lere confiteamur.... Hoc ergo, quod ad per]eclionem inferentiae deest, loci supplet assignatio. La deno mutazione « inferentia » è derivata dal termine boeziano « inferre » : e così parimente anche la idea che la consecuzione abbia a fondamento il nesso della necessità, è presa da Boezio: v. la Sez. XII, note 153 s. 301 ) p. 330 s.: Quae enim in ea ponuntur vocabula, essentiae tan¬ tum, non habitudinis, sunt designativa, ut « homo » et « animai » et « lapis». Qui itaque dicuut « si est homo, est animai, si est homo, non est lapis», nullo modo de habitudinibus rerum, sed de essentiis agunt, ila.... ut, si aliquid sit essentia hominis, et essenlia animalis esse con- cedatur, et lapidis subslanlia esse denegelur. 39S ) p. 336: Quod autem veritas hypotheticae propositionis in ne¬ cessitate consistat, tam ex auctoritate quam ex ralione tenemus. Questa maniera d’intendere il giudizio ipotetico sembra essere stata, in modo speciale, peculiare di Abelardo. (Jon. Saresb. Polycr. II, 22, p. 122 [ed. Webb, I, p. 129]): Solebai nostri temporis Peripateticus Palalinus omnibus his conditionibus obviare, ubi non sequentis intei- leclum anlecedentis conceptio claudit, aut non antecedentis contrarium conseqitentis destructoria ponit, eo quod omnes necessariam tenere consequentiam velint. — Dello stesso, Metalog.: Miror tamen quare Peripateticus Palatinus in ipoteticarum iudicio tam artam praescripseril legem.... Siquidem.... ipotelicas respuebat, nisi manifesta necessitate urgente [PL, 199, 453 e 904]). 39 °) p. 343: Categoricarum autem propositionum veritas, quae re¬ rum aclum circa earum existentiam proponil, simul cum illis incipit et desinit. Hypotheticarum vero sententia nec finem novit nec princi-  pertanto, nelle discussioni dialettiche la concessione fatta daH’mterlocutore va intesa, fatta astrazione dalla sua esatta corrispondenza alla realtà, come una tale neces¬ sità 3B7 ), e nel giudizio ipotetico non si tratta già, come taluni ritengono (nota 228), de’ suoi singoli membri, bensì proprio di tutto quanto il nesso tra antecedens e consequens 3BS ) ; inoltre, per la medesima ragione, nel giudizio disgiuntivo, come già è stato mostrato da Boezio (v. la Sezione XII, nota 141), è semplicemente da rav¬ visarsi un’altra forma di enunciazione del giudizio ipo¬ tetico 3BB ). Li base a tale fondamento si parla poi, d’ac¬ cordo con Boezio, delle cosi dette « maxitnae proposi - tiones » (v. ibid., nota 165), le quali, in polemica con le idee di altri (v. sopra la nota 228), vengono ristrette alla forma del giudizio ipotetico 1B0 ). Indi fan seguito pium. Ulule el antequam homo et animai creata Juerint, vel postquam cliam omnino perierint, aeque in veritate consisti! id, qupd haec conse- quentia proponit « si est homo animai ralionale mortale, est animai. Quia vero calegoricae enuntiationes actum rerum proponunt quuntum ad enuntiationes inhaerentiae praedicati. actus vero rerum ex ipsarum rerum praesentia manifestila est, necessitas autem infe- rentiae ex aclu rerum perpendi non potest, quae acque, ut dictum est, et rebus existcntibus et non existentibus. permanet, arbitror. hinc. lo- cum tantum in hypotheticis propositionibus requiri ; cum de vi infe- rentiae rerum earum dubitatur, quae ex actu rerum convinci non possimi. 3BT ) p. 342: Ncque mirri dialecticus curai, sive vera sit sive falsa inferentia proposilae consequenliae, ilummodo prò vera eam recipiat ille, cum quo sermo conseritur.,.. Seti liaec.... concessio vcrae inferen- tiae in necessitate recipienda est. >W) p. 353: Quidam lamen has regulas non solum in tota antecc- ilenlis et consequcntis enuntiatione, veruni ctiam in terminis eorum assignaiUes.... Sed.... regulae sunt accipiendae in his, quae tota pro- positionum enuntiatione dicuntur. Quoti autem antecedens et consequens in disjunctis quoque lloethius accipit, non ad renna essentias, sed ad enuntiatio- num constitutionem respexit ....Quod ex resolutione disjunctae di e no- sci tur ; ex qua etiam resolutione. hypothelicae, i. e. condilionales, dis- junctivae quoque sunt appellatae. 40 °) p. 359 s.: Maximarum.... proposilionum proprielales inspi- ciamiis, quibus quitlem singularum veritas consequenliarum expri- mitur, quaeque ultimam et perfeclam omnium consecutionum proba- tionem tcnent.... Cum itaque diximus, eas conseculionis sensum habere, categoricas enuntiationes exclusimus. i singoli loci, e qui Abelardo, esclusi quelli retorici, vuole metter in campo solamente i dialettici 401 ); l’or¬ dine di successione in cui son disposti, trova fondamento in Boezio, che, trattando di questo argomento, cerca (de dijf. top . : v. la Sez. XII, nota 168) di accordare i loci di Temistio (Sez. XI, nota 96) con quelli cicero¬ niani ‘"'); ma la conchiusione è costituita da osservazioni sopra ^argomentazione in generale, e sopra la impor¬ tanza che han per la retorica la induzione e l’enti- mema 40S ). Come già più sopra (nota 222) è stato rile¬ vato, la dichiarazione dei singoli loci consiste nella indi¬ cazione ed enumerazione di « regole », fissate secondo l’uso delle scuole: e anche nella esposizione dello stesso Abelardo si fa manifesto, hi connessione con quel che 401 ) p. 334 : Illud praesciendum est, nos, qui haec ad doctrinam artìs dialecticae scribimus, eos solum laens exsequi, quibus ars ista consuevit uti. 102 ) In confronto con quell’ordine di successione [seguito da Cas- siodoro], del quale abbiamo dato notizia nel 1° voi. (Sez. XII, nota 184), la materia si dispone qui nella forma seguente: Anche qui (p. 368) si presentan da principio i loci tratti dalia sostanza stessa, cioè a diffinitionc, a descriptione, a nominis inter pretal ione ; ma ap¬ presso vengono, in una scelta risultante da una combinazione di elementi derivali da Temistio c da Cicerone, i loci che son tratti dalle conseguenze della sostanza (p. 375), cioè a genere, a toto, a par- tibus divisivis, a partibus constilulivis, a pari, a praedicato, ab ante¬ cedenti, a consequenli ; a questi fan seguito (p. 386), come loci presi extrinsecus, solamente le sottospecie del locus ab oppositis, cioè a relatione (inclusi simul e prius), a contrariis, a privatione et habitu, ab ajfirmatione et negatione (in questa trattazione delle quattro spe¬ cie di opposizione vien tirata dentro quasi per intiero la corrispon¬ dente Sezione delle Categorie); poi, come loci medii, seguono a re¬ lativi^, a divisione et parlitione, a conlingenlibiis, e sono quindi indi¬ cati inoltre a compimento — come quelli che vengono raramente in uso (p. 409 : sunt autem alii, quibus diabetici raro ac nunquam fere utuntur, quos tameri Boethius.,.. non praetermisit) — tra i « loci» ex consequentibus substantiam, quelli a causa, a materie, a forma, a fine, a motu. Del resto in tutta questa Sezione il Cousin si è spesso limitato ad accennare con intestazioni di titoli l’ordine della succes¬ sione, senza pubblicare il contenuto stesso. 4 " 3 ) p. 430 ss. I passi ai quali attinge qui Abelardo, son presi da Boezio, de dijf. top., su cui si fondano queste notizie: v. la Sez. XII, note 82 e 137. »i è visto più sopra (nota 228), a quanto muneroso con- Lvorsic generale abbi. 1. ..pi» tonato nelle svuole l’argomento e la occasione 404 )- r z) i sillogismi ipotetici. Giudizio conclusivo sopra l'opera di Abelardo]. - Infine nel Liber hypo, h e ticorum, cioè nella teoria dei gtudtzi e 8 dlo gismi ipotetici, viene ora riprodotto per urti ero d con tenuto dello scritto di Boezio de syll. hypoth Attui trendo a tale scritto, Abelardo incomincia con lo syol aere per prima cosa 406 ) la partizione del gmdmo ipo tetico (v. la Sez. XII, note 139 ss.), e, relativamente ai giudizi che s’iniziano con la congiunzione « cum »  n( . h,, intorno alla causa efficiente e a motu (p. 41.5 ss.) si e g . 376 8B .) causalità divina del creatore de mondo H locas « ge ^ Crca . porla a prender in coimderazione il processo Stendere il locus a ..one e così comdde cernii m iUimit;, ta,nenie universale praedicato (p. 484), i fi incontriamo qui la ter- (p. 381). A proposito del Incus °*>opP - 4fl7 . comp lexa autem miuologia « complexa » c « in P ^ ^ cod em contraria cnun- contraria eas dicimus proposilionc, 7 acgerrt). e così pure tiant hoc SS* immediata inferra- « constantia » (p. 408 [nassunto ue ' imme diMa smt ; qiiam linai habeant, adjietendumesse..ag»J p hrdus]) _ Abelardo ìss'ù.w ù. >. (v. le note 18 e 344). 405) p. 437-439.  tici 406 ); inoltre combatte la opinione già ricordala (nota 218) di altri, relativamente alla posizione del « vel.... vel » nei giudizi disgiuntivi 407 ). Ma è poi notevole quel che vien detto appresso, circa la conversione dei giudizi ipotetici; questi cioè, quando sono in forma disgiuntiva, potrebbero esser convertiti simpliciter (scambiandosi di posto i termini della disgiunzione!), e lo stesso potrebbe pure ripetersi del giudizio, che contenga [la enuncia¬ zione di] una [relazione di] contemporaneità, e che inco¬ minci con «cum»; invece, quando si tratti del giudizio propriamente ipotetico, fondato sopra il nesso della ne¬ cessità naturale, il principio fondamentale, a tutti noto, della consequenlia (vedilo in Boezio, Sez. XII, nota 145) sarebbe da prendere [cfr. ibid., nota 130] nel senso che qui si dia un caso di conversiti per contrapositionem 40S ). Ma se questo preteso compimento della teoria tradizio- sed ad conceptus tummodo leritatem Aeque cairn unus est intellectus ..lapis ratio,la- multos intellectus ' *“"iplicem l’ero intellrctum dicimus muuos intellectus ab invicem dissolutos, ut si dicam animai" pauluhim quiescens, addam „rationale'\ ’ Cfr iuvece ' 4 ?» C " Abc,:!r US Wmim  P erso ' lalem discreti,m,m attendimi, h. e. simpliciter hominem excogilo,,n eo scilicel tantum, quod homo est i e animai rat tonale mortale, non edam in co, quod esVhic ho moti file ri!!ru rSale h “ J iu ‘ c ", s “hslraho individui s. SU itaque abstractio supe¬ rna r‘ l "- feTtor, lbus : «“ scilicet universalium ab individui per praedicationem subjecds, sme Jarmari,m a materiis per fundationem no/, Subtrac "° f ero e con, rario dici potest,... cum alìquis subjeclae naturam essenti,,,- absque omn, forma nidtur speculari. Uterque autem mtellectus, tam abstrahens scilicel quam subtrahens, aliter quam res se habet concipere V, detur.... p. 482: Nusquam enim ita pure subsistit S smt“- Pl T C ° n rP llUr '- E *. m,ìla esl na •) a: Non vidctur ergo transferenda conversatio dialeclicorum ad huiusmodi propter inconvenientia.... — 33, p. 91 b: Quod ergo dica Johannes Damasceni is (v. la Scz. XI. nota 170), non ita accipiendum, ut universalia et individua ita accipiantur sicut in philosophicis di- sciplinis.... Si quaeratur, an hoc praedicabile,.deus“ sii universale rei CARLO PRANTL tavia in molte delle sue trattazioni al De Trinitate del Pseudo-Boezio (v. le note 35 ss.), e anzi con la comica osservazione che quello scritto è fdosofico (!) più che teologico, e che perciò non si deve lasciarsene sviare 451 ) ; inoltre la distinzione della sostanza come soggetto e della sostanza come forma, del pari che la distinzione della forma sostanziale come produttrice dell’individuo e come suscitatrice delle specie e dei generi, ci fan soltanto ve¬ dere il realismo platonico-teologico nella sua forma più rozza 452 ). Parimente nel suo contemporaneo Roberto da M e 1 u n [m. 1167], molto celebrato per la sua superfi- ciale abilità nella dialettica 453 ), si trova nient'altro che il solito realismo ontologico, il quale teoreticamente è tanto ottuso da non poter in generale interessarsi ai momenti individuimi, neutrum hic admittendum [PI,, 211 922 e 921], E tutta¬ via fu anche lui accusato di eresia : v. lu nota 478. 451 ) Ibid., I, 4, p. 8 b: Ideo imponitur Boelio, quod illam diffmi- tionem (cioèfdi persona ) magis posuit ut philosophus, quam ut thcolo- P" s - — 32, p. 93 b. : Sed nostri thcologi plerique non habent illam diffinitionem prò aulhentica, quia magis Juit philosophus quam theo- ^^923 I {t mag * S  “) Ibid,, 1,6, p. 12 a: Subslantia a subslando dicitur ipsum sub- jectum, quod substat Jormis, sive sit corpus sive alia res. Substantia a subsistendo dicitur forma, quae adveniens subjecto illud subsistit, i. e. sub se et aliis Jormis sistit, i. e. substare sibi et aliis Jacit, sìcut imago sigilli ceram.... Sed substantialis forma duplex est, vel quae facit „quis“, et lalis est omnis individualis proprielas, i, e. individuo et proprio nomine, ut Platonitas, cujus parlicipatione Plato est quis ; vel quae facit „quid“. ut speciale vel generale, i. e. quae speciali vel gene¬ rali nomine significatur, ut humanitas, animalitas, cujus participa- tione Plato est ..quid", non vero „quis“ [806-7], 4M ) Joh. Saresb. Metal.. II, 10, p. 78 s. (ed. Giles [e Webb]): Sic ferme loto biennio conversatus in monte (cioè Sanctae Genovefae), artis huius praeceploribus usus sum Alberico (v. sotto la nota 521) et magistro Rodberto Meludensi (ut cognomine designetur quod meruil in scolarum regimine, natione siquidem Angligena est); quorum al¬ ter.... Alter aulem (cioè Roberto), in responsione promptissimus, sub- terfugii causa propositum numquam declinavit articulum, quia alteram contradictionis partem eligeret ani determinata multiplicitate sermonis doceret unam non esse responsionem.... In responsis perspicax, brovis et commodus [PL logici, oppure, dove s’interessa, si mostra appunto in tutta la sua debolezza, come p. es. quando si polemizza contro chi riconosce carattere unitario al significato che è racchiuso in « est », e a quello ch’è racchiuso in « ens » 154 ). Ma per conseguenza non fa maraviglia che gli scolari di questo Roberto vilipendessero la Topica aristotelica, giudicandola un libro inutile (v. sopra la nota 29). [§ 35. — Gilbert de la porrée: a) il commento al De Trinitate del Pseudo-Boezio : posizione teoretica inge¬ nua e contraddittoria]. — Invece LnGilbert de la Porrée (nato a Poitiers, e perciò detto anche Pietà- viensis, morto nel 1154) l’alterco dei teologi intorno alla Trinità ha dato occasione a una concezione logica, net¬ tamente determinata, riguardo agli universali, e bisogna pertanto che ci teniamo presente più da vicino, oltre allo scritto De sex principila, reputato di grande importanza nei secoli successivi, anche il commento dello stesso Gil¬ berto al De Trinitate del Pseudo-Boezio 45 °). Che Gilberto conoscesse di già gli Analitici di Aristotele, è stato ricor¬ dato già più sopra (nota 21); tuttavia, fatta astrazione da quella citazione, egli in realtà non trae ulteriormente 1M ) Oltre alle notizie che si trovano nel De Bollai', Hist. Uni- versitatis Paris., II. p. 264 [ivi, p. 585—628, testi di R. da M.], I’IIauréaU, de la phil. scolasi., I, p. 333 ss. [Hist. de la ph. scol., I, p. 491ss.], ha riprodotto ancora vari tratti da manoscritti ; di quel ch’egli riferisce, poiché tutto il resto non ha che fare con il nostro presente intento, può citarsi, riguardo a un punto di logica, il passo seguente (p. 333 [492]): Has verovoces „esl“ et „ens** ejusdem esse significa- tionis, omnes philosophicae clamitanl scriplurae. In istis ergo locutio- tlibus,,tiiundiis est ens**, ..mundus esf”, terminis oppositis idem signi¬ ficatile; sed nullus tanta amentia ignorantiac excaecatus est, qui aliquam harum vocum „essentia, est, ens** in illa significalione retenta, in qua creaturis convenit, Deuni vcl essenliam divinam significati praesumut, e via dicendo [Su Rob. da Melun, v. ora Uebervveg-Geyer, p. 272 e 276-8], «*) Riprodotto a stampa nel voi. delle Opere di Boezio, ed. di BasUea 1570, p. 1128-1273 [PL, partito da una conoscenza intrinseca dei principii ivi con¬ tenuti, bensì si limita ad aggirarsi entro l’orbita, più ri¬ stretta, della logica scolastica generalmente in uso 4S0 ). Mentre anch’egli ci mostra il singolare spettacolo della contraddizione, onde da un lato si fa sfoggio di tutto l’acume logico nella discussione sopra la Trinità (v. tut¬ tavia la nota 478), e intanto, dall’altro lato, si mantiene ima separazione assoluta di Dio e del mondo della na¬ tura, — semiira in verità che, sul compito e la posizione della logica, egli non sia stato in se stesso del tutto chiaro. Nè si può in Gilberto, neanche allo stesso modo che in Abelardo, distinguere le sfere della ontologia e della logica, ma, a mal grado di tutto il suo fondamentale tono realistico, egli accetta con piena ingenuità e senza incertezze il principio della funzione della espressione lin¬ guistica umana; poiché l’eccitazione della intelligenza egli la fa dipendere affatto ugualmente, ripetendo un detto di Boezio, dalla proprietà delle cose, altrettanto che dal significato costituito delle parole 45 . 7 ): e se alla stessa ma¬ niera trova la qualità del giudizio nella successione delle cose e delle parole, o nella modalità della espressione, — ciò che potrebbe rammentarci Abelardo : v. le note 318, 327, 330 —, e con questo richiama energicamente l’at¬ tenzione sopra la forma verbale 458 ), — egli torna da capo 156 ) Così p. es. a p. 1185 [1315] egli ricorda la differenza tra sil¬ logismo ed entiinena, a p. 1187 [1317] la« dialecticorum omnibus nota topica generalis, », a p. 1225 [1361] la «regula dialeclicorum [de conversione] », ap. 1187 [1317] la «concepito communis », a p. 122 1 [1360] il « conceptus non entis [rectius : ejus quod non esl] » (p. es. i Centauri), a p. 1226 [1362] il nihil come nomea infinitum. e via di¬ cendo: c anche la menzione che fa de’ sei sofismi (p. 1130 [1258]) può averla attinta alla stessa fonte che Abelardo (v. sopra la nota 7). 457 ) Cum in aliis inlelligenliam excilel rei certa proprietas, aul certa vocis positio, ctc. Trio quippe sunt. res, et intellectus, et sermo. Res intellectu concipitur, sermone significatur (Boezio, p. 296 [toc. tilt. cit. (alla nota 436), p.20:PL, 64, 402]: v. la Sez. XII, nota 110). 45s ) p. 1130 [1258]: Qualitas autem orandi vel in rerum atque die- tionum consequentia. vel in earumdem tropis attenditur. logica in occidente a collocare il contenuto filosofico, che 6 considerazione approfondita della proprietàs rerum, immediatamente ac¬ canto alle loqttendi rationes, che son di competenza della logica, e in pari tempo accanto a, momenti gram¬ maticali, e a quelli sofistici, e a quelli retorici • ). fb) concetto di sostanza. Teoria delle formae nativae]. - Pertanto Gilberto, nelle questioni riguardanti la relazione della obbiettività ontologica con la subbie»,vita logica, è persino ancor più ingenuo che non fosse stato lo Scoto Eringena: ma invece, dal primo di tal, punti d, vista, cioè dal lato obbiettivo-ontologico, il concetto, ond eg i prende posizione tra gl’indirizzi che si contrastavano nella contesa intorno agli universali, è il concetto d, sostanza; e se la sua posizione ci mostra punti d, contatto essenziali con altre correnti, questa è appunto una prova novella dell’incrociarsi delle opposte tendenze in vari punti nodali. . Nel concetto di sostanza che, in maniera omnicom¬ prensiva, va considerato come genere supremo d, tutti gli esseri, così corporei come incorporei, Gilberto distingue cioè, conforme al punto di vista della terminologia teologica (ossia dtel Pseudo-Boezio), due aspetti, onde m un essere viene designata quale g ua sostanza così que ch’esso è (quod est - subsistens), come anche ciò, per cui esso è quel che è {quo est - subsistenUa) ). Ma ora, m # [1406]: Quia omnis dictio diversa significa,, quid e, de quo diligens “ u,U X 1246 113831: Ne ergo lectorem decipere possit aliqua dictio, «Hfndat ; ^ locis am siderans, de tot signifi- irSX’lSto pertinet, convenientium illi rationum admt- nÌC ‘t i'X 2 [1281]: Hoc nomea, quod est ..substa,aia“ non a pe- _-\ d. 1145 112741: Subsistentia causa est, ut id, quod per eam est aliquid, suis propriis sit subjectum. — p. 1175 [1305]: Quoties enim subsistens ex subsistentibus conjunctum est. necesse est, ejus totum esse, i. e. Ulani qua ipsum perfectum est subsistentiam, ex om¬ nium parlium suarum omnibus subsistenlus esse conjunctam. concetti ili genere e di specie hanno un altro essere da quel delle cose stesse; poiché i primi hanno appunto so¬ lamente l’essere della sussistenza, e invece le seconde hanno l’essere, come soggetti e sostrati degli attributi uni¬ ficati nella sussistenza 4 ' 0 ). E così il pensiero intende i concetti generici e specifici, come gli universali di fronte alle cose particolari, argomentando, con un atto di met¬ ter assieme (colligere), dagli oggetti particolari concreta¬ mente esistenti, ai quali ineriscono gli attributi, l’es¬ sere della sussistenza 471 ); e da tale punto di vista poi le cose naturali, rispetto alla sussistenza del genere e della specie, alla quale [sussistenza] partecipano, come le cose singole partecipano all’essere sostanziale, vengono significate con i nomi di specie e di genere, del pari che gli attributi vengono enunciati come predicati, e, anche denominativamente, la sussistenza stessa viene chiamata soggetto 472 ). Ma, come il concetto del metter assieme ( collectio ), for- 47,) ) Genera et species, i. e. generales et speciales subsistentiae, subsistunt tantum, non substanl vere.Ncque enim acci- denlia generibus speciebusve contingunt. Ut quod sunt, accidentibus debea ni (il concetto di accidens, qui come dappertutto, è preso in tal senso da comprendere, di fronte alla sostanza, tutte nove le altre categorie).... Individua vero subsistunt quidem vere.... Informata enim sunt jam propriis et specificis differentiis, per quas subsistunt. Non modo autem subsistunt, veruni etiam substanl individua, quoniam et accidentibus, ut esse possitit, ministrant : dum sunt scilicel subjecta.... accidentibus. 471 ) p. 1238 [ 1371—5] : Essentiae in universalibus sunt, in partimi- laribus substant . Subsistentiae [così il Prantl, ma nelle ediz. cit. : substantiae] in universalibus sunt, in parlicularibus capiunt substan- tiam, i. e. substant.... Universalia, quae intellectus ex parlicularibus colligit, sunt, quoniam particularium illud esse dicuntur, quo ipsa particularia aliquid sunt. Particularia vero non modo sunt, quod utique ex hujusmodi suo esse sunt, veruni etiam substant. 472 ) p. 1137 [1265]: Ad generales quoque et speciales subsistcn - tias, quae subsistentium, in quibus sunt. esse dicuntur, eo quodeis, ut sint aliquid, conferunt, ejusdem nominis, i. e. matcriae, alia fil denominatio. — p. 1140 [1269]: Essentia est illa res, quae est ipsum esse, i. e. quae non ab alio lume mutuai dictionem, et ex qua est esse, i. e. quae caeteris omnibus eamdem quadam extrinseca partici- patione communicat .... Namque et in naturalibus omne subsislen- maluiente usato da Gilberto per dar una definizione del genere 473 ), lo abbiamo di già incontrato più sopra nella teoria della indifferenza (nota 136), in Gausleno (nota 146) e nell’autore dello scritto De gen. et spec. (nota 162), — così Gilberto associa a questo concetto, ispirandosi a ve¬ dute realistiche, una concezione, da lui designata con le espressioni « substantialis similitudo » o « conjormantes subsistentiae », ma di preferenza con il termine, che ri¬ corre in lui così frequentemente, di« conjortnilas», anche esteso ai nomi delle cose 471 ); nè può qui disconoscersi tinnì esse ex forma est, i. e. de quocunque subsistcnte dicitur « est », formar, quam in se habet, participatione dicitur. — p. 1141 [ 1270J : Omnia de subsistente dicuntur : ut de aliquo homi/ie tota forma substanliae, qua ipse est perfectus homo, et omne genus omnisque dif- fercntia, ex quibus est ipsa composita, ut corporalitas et animatio, ...et denique omnia, quae vel loti illi formae adsunt, ut humanitati risi- bilitas, vel aliquibus partibus ejus. — p. 1145 [1274]: Quoniam... subsistentia causa est, ut id quod per eam est aliquid, suis propriis sit subjectum, ipsa quoque per denomi nalionem eisdcm subjecta dici¬ tur, et eorunUkm materia.... (p. 1146 [rectius : 1142 (1270)]): et ideo gerteraliter cum qualitalibus qualitas ....dicitur, et cum solis albedini- bus specialiter albedo. Atque adeo multa sunt. quae de. istis dicuntur : ut saepe etiam efficiendi ralione a coaccidentibus ad ea, quibus coacci- dunt, denominativa transsumptio fiat. Ut « linea est longa, albedo est clara». — p. 1199 [1329]: Hoc igitur, quod* habet a sua substantia, nomea, ad ea, quae ex ipso [il Pranll legge: ipsa] fluxerunt, denomi¬ native transsumptum est. 473 ) p. 1252 [1389]: Genus vero nihil alimi putandum est, nisi subsistentiarum secundum totam eorum proprietatem, ex rebus secun¬ dum species suas differentibus, similitudine comparata collectio. 174 ) p. 1135 [1263] :,l)iversae,... subsistentiae, ex quartini aliis homines, et ex aliis equi, sunt ammalia, non imitationis vel imaginaria, sed substantiali similitudine ipsos, qui secundum eas subsistunt, fa¬ cilini esse conformes. — p. 1136 [1263 s.] : Dicuntur etiam multa sub¬ sistentia unum et idem, non naturar unius singularilate, sed multa- rum, quae ralione similitudinis fit, unione ....Ilio, quae divcrsarum nnlurarum adunai conformitas, genere vel specie unum dicuntur .... Tres homines.... neque genere ncque specie, i. e. nulla subsistentia¬ rum dissimilitudine, sed suis accidenlibus dissimilitudinis distant . Sunt conformantium ipsos subsistentiarum numero plures. — p. 1175 [1305]: Conformitate aliqua.... plures homines dicuntur unus homo. — p. 1192 [1322]: Secundum proposìtae naturar plenitudinem.... di¬ citur substantialis similitudo : qualiter album albo simile est, et homo homini. — p. 1194 [1324]: Tales sunt omnes differentiae illae, quae- [cunque] rei huic generalissimo proxime cum ipso quaedam contrae-l’affinità con la« similia creatio» del libro De gen. et spec. (nota 163), e particolarmente con la « consimilitudo » di Abelardo (nota 299) ; ma è degno di nota che il termine « indìfierentia », che pur doveva offrirglisi affatto sponta¬ neamente, Gilberto lo usi esclusivamente a proposito di discussioni teologiche intorno alla Trinità « 5 ), e che pur si serva invece, così per sostanze come per attributi, del termine « identitas» 47B ). In generale egli intende questa virtù formativa degli universali in senso realistico, a tal punto, che, p. es., non solamente la bianchezza, ma anche la unità appare a lui come una tale forma, la quale deve, qualunque sia il predicato, cooperare per far del soggetto di esso una cosa 477 ): e, mentre con ciò si trova esposto alla obiezione sopra citata (nota 438) : ed è possibile che fosse diretta proprio contro Gilberto), arriva qui a sta¬ bilire una distinzione, utilizzabile per la questione della Trinità, ma poi da capo violentemente combattuta da altri, fra la unità e 1’ Uno, o in generale tra gli aggettivi numerali e le forme ideali che stanno loro a fondamento — in quanto che quelli posson essere predicati soltanto delle fiorii similitudinis consumimi genera, quae a logica.... subalterna vo- canlur ■ vel subalterna similiter adhaerentes, quamlibet siib ipsa Sub- sistentiam specialem componunt- p. 1231 [Ì370]: ffomo subsistentia spedala, quae est hujus nomina qualità» una uulan conformilate, sed plures essenliae singulantate, de singola honuni- bus.... Parimente p. 1251 [?}» 1262 [1399], ecc. |9Q0) in ) Così, p. es., p. 1134, 1152 e 1169 [1262, 1280 e 1-99]. 4tg\ p H 69 [1299]: Identitate unionis.... homo idem quod nomo est. Nam'piato et Cicero unione speciei sunt idem homo. .. auae ex proprietate est unitatis |Prantl legge: propnetata est unitale ], q “ra,ion P ale P idem quod rationate est, eduli anima hommu, et,pse homo, non unione speciei, sed unitale propnetata, sunt unum ra donale. [ 1309 ]: Vnilas omnium.... praedicamentorum Comes est. Narri de quocunque aliquid praedicatur, idpraticato ?“**'” «* hoc, quod nomine ab eodem sibi indilo, et verbi iubifonm'i compos.- tione ... esse significata, sed unitale,psi cooccidenfe esf um m ul album albedine quiden, album est, sed un,late cocce,dente albedim, unum, et simul albedine et ejus comite annate est album unum. cose concrete, che appunto sottostanno all’azione forma¬ tiva degli universali ideali 478 ). Ma poi al concetto di conjormitas si associa inoltre an¬ che un modo d’ intendere, secondo il quale nell’ individuo tutte le determinazioni possibili sono unificate per tal maniera, che esso, nella totalità della sua sussistenza (cfr. la nota 462), non è conforme a nessun altro essere, e per¬ tanto la individualità consiste in questa dissimiglianza di essenza, mentre all’ incontro tutto quel che c’è di non¬ individuale si fonda sopra una somiglianza, e può per¬ tanto venire compartito ne’ suoi modi di manifestarsi, individuali e concreti, che in esso sono simili, ma tra loro son dissimili: concezione questa, che Gilberto carat- 47S ) p. 1148 [1277]: Quod est unum, res est unitali subjecta, cui scilicet vel ipsa unilas inest, ut albo : rei adest, ut albedini. Unitas vero est id, quo ipsum, cui inest, et ipsum, cui adest, dicimus unum: ut album unum, albedo una. liursus ea, quae dicimus esse duo, in re¬ bus sunt, i. e. res sunt dualitati similiter subjcctae, quae dune sunl.... ldeoque non unitas ipsa, sed quod ei subjeclum est, unum est ; nec dua- litas ipsa, sed quod ei subjectum est, recle dicitur duo . Nani vere omnis numerus non numeri ipsius, sed rerum sibi suppositarum est numeriti. Ma che in generale persino questo sforzo, ispirato alla più stretta ortodossia, abbia raccolto poca gratitudine dalla parte di vari altri teologi, lo desumiamo dal fatto che, come riferisce il Du Houlay, Il istoria Universitatis Parisiensis, I, p. 404 [rectius : p. 402 ss.: y. inoltri ibid. p. 741, e particolarmente p. 200], il Priore Gualtiero di S. V ittore compose egli stesso uno scritto contro i« quat¬ tro labirinti di trancia» [Contro qualtuor labyrinthos Franciae : lo scritto si suol citare appunto con questo titolo], cioè contro Pietro Lombardo (v. sopra le note 41 ss.), Abelardo, Pietro da Poitiers e Gilberto; da manoscritti di tale opera (conservati nella Biblioteca di S. Vittore) il Launoi, de varia Aristot. in Acad. Paris. Jori., c. 3. p. 29 [p. 189 della ediz. di Vittemberga, 1720], comunica il passo seguente: Quisquis hoc legerit, non dubitabit, qualuor Labyrinthos Franciae, i. e. Abaelardum et Lombardum, Pelrum. Pictavinum et Gilbertum Porretanum. uno spiritu Aristotelico afflalos, dum ineffa- bilia Trinitatis et Incarnationis scholastica levitate tractarent, mul- tas haereses olim vomuisse, et adhuc errores pullulare [Cfr. UEBERtYEG— Geyer, p. 271]. Maggiori particolari sopra questo alterco fra teo¬ logi sono stati riferiti dall’UsENER nei Jahrbiicher fiir protestanti- sche rheologie, voi. V (1879), p. 183 ss. [« Gislcbert de la Porrée» è il titolo della nota, riprodotta nel IV voi. della raccolta delle Kleine Schriflen dell’Usener, Lipsia terizza scegliendo, per i così detti nomina appellativa, il termine « dividila », che troviamo qui per la prima volta, e, per i così detti nomina propria, il termine « indivi¬ dua » 479 )- Per la logica, una maniera di trarre partito da questo realismo ontologico consiste nell’andar su e giù per la Tabula logica, come si fa, secondo il procedimento di Boezio, nella definizione e nella divisione 48 °) : consiste per¬ tanto nella funzione predicativa, inquantochè quel che dal predicato si predica, relativamente alle cose concrete, non è mai l’essere concreto per se stesso, ma solamente la essenza, cioè la sussistenza e gli attributi essenziali 481 ): vale a dire che il realismo di Gilberto trova la propria espressione in ciò, ch’egli considera tutte le categorie come le causalità reali del loro manifestarsi nelle cose concrete, e le designa pertanto come sommi generi non dei 47 9\ y 1164* 112941: Si enim dividuum facit similitudo, consequens est ut individuimi dissimilando. - p. 1236 11372]: Homo et sol a Grammatici appellativa nomina, a Dialeclicis vero dividila vocantiir Plato vero et eius singularis albedo, ab eisdem Grammatica propria, a Dia lecticis vero individua. Sed horum homo tam aclu quam natura appella tivum vel dividuum est; sol vero natura tantum, non aclu. Multi nam que non modo natura, verum etiam actu, et fuerunt, et sunt, et sant, subslanliali similitudine similes hommes. Pestai igitur, ut illa tantum sint individua, quae ex omnibus compo¬ sita. nullis aliis in loto possimi esse conformia, ut ex omnibus, quae et actu et natura fuerunt vel sunt vel futura sunt, Platoms collecta Ha- tomtas. 112g jj 255 j. Sia* in diffinitiva demonstratione specie» aenere, sic in divisiva genus specie declaratur. Nulla species de suo genere praedicatur» in diffimtionum genere verum est; itero « orarti* species de suo genere praedicatur » in divisto- num genere verum est., 48 i\ p. 1244 [1381]: Nunquam enim id, quod est, praedicatut % sea. esse et quod illi adest, praedicabile est, et sine tropo, non msi de eo, quod est. (Se Gilberto con queste parole designava ì giudizi pura¬ mente esistenziali come inconcludenti, si metteva con ciò da capo in contrasto con certi teologi: v. Otto Frisino, de gest. Fnd.. I, 52 n. 437, ed. Urstis [MGH, XX, p. 379-80]: Erat quippe quorun- da'm in logica sententia, [quod.] cum quis diceret, Socratem esse, nihil diceret. Quos praefatus episcopus [intendi appunto 1 episcopus (i tc- taviensis) Gisilbertus ] seclans, talem dicti usuro haud premeditate „d theologiam verterà!).  predicati ma degli oggetti, si che per conseguenza la ja- cultas logica contiene semplicemente un ricalco della realtà 482 ). Ma, su questo punto, non si limita a distin¬ guere le categorie, alla solita maniera, onde quella della sostanza si contrappone a tutte le altre nove, bensì que¬ ste ultime si dividono a lor volta, secondo che appar¬ tengono all’ intima essenza, o han per contenuto sola¬ mente una relazione estrinseca 483 ) ; cioè, qualità e quan¬ tità, che appartengono alla « natura» (nota 461) o alla sussistenza, servono perciò ancora a predicare il vere esse, laddove le altre sette categorie, — inclusa dunque pur quella della relazione —, esclusivamente ricadono nella sfera degli status e delle loro esterne mutevoli circostanze (status : cfr. circumstantia in Boezio, Sez. XII, nota 166) «“). 4S2 ) p. 1173 [1303]: Ilorum nominum illa significata, quae diver- sis rationibus Grammatici qualilates, Dialectici cathegorias, i. e. prae- dicamenla, vocant, praedicantur substantialiter, — p. 1153 11281-2]: Qualilas ....omnium qualitatum gcneralissimum est, et quantilas om¬ nium quantilatum.... Ideoque qualitas est qualitas genere cujuslibet qualitatis, quale vero est quale qualitate cujuslibet generis.... Sirni- liter nullum, quod est ad aliquid, relatio est. et nulla relatio est ad ali- quid. Sed.... id, de quo ijJsa dicilur, est ad aliquid.... Ubi quoque, et quando, et habere, et situm esse, et Jacere, et pati, rwmina sunt gene¬ ralissima, non eorum quae praedicantur, sed eorum de quibus prae¬ dicantur.... Ilaec igitur praedicamenta talia sunt relationibus logicae jacullatis, qualia illa subjecta, de quibus ea convenit dici, permiserint. — p. 1146 [1274]: Caeteras, quae in corporibus sunt, vocantes formas, hoc nomine abutimur, dum non ideae, sed idcarum sint eìxóveq, i. e. imagines, quod ulique nomen eis melius convenit. Assimilantur enim.... quadam extra substantiam imitatione his formìs, quae non sunt in materia constitutae, sinceris) p. 1153 [1282]: Quidquid hoc est subsistentium esse; eorundcm substantia dicilur. Quod ulique sunt omnium subsistentium speciales subsistentiae, et omnes ex quibus hae compositac sunt, scilicet, eorum- dem subsistentium, per quas ipsa sibi conformia sunt, generales, et omnes, per quas ipsa dissimilia sunt, dijjerentiales.... Accidenlia vero de illis quidem substantiis, quae ex esse sunt, aliquid dicuntur, sive in eis creata, sive extrinsecus affixa sint, sed eis tantum, quae esse sunt, accidunt. 484 ) p. 1156 [1285]: Ilare quidem, i. e. subslantiae, qualitates, quantitates, sunt talia, quibus vere sunt, quaecunque his esse propo- nuntur, ideoque recte de ipsis praedicari dicuntur. Reliqua vero sep- [d) lo scritto De sex principiis: un'abborracciatura]. — Ma proprio quest’ultimo argomento ci porta a prender in esame lo scritto di Gilberto De sex principiis, un pasticcio veramente pietoso, che fu già commentato da Lamberto da Auxerre (v. la Sez. XVII, nota 116), e poi, in conse¬ guenza dell’autorità goduta da Alberto Magno (ibid., note 439 s.), venne a essere tenuto in così grande conto da essere formalmente incorporato aH’Organon 485 ). ivi c’ imbattiamo novamente (cfr. la nota 461) nel concetto di essere sostanziale, nel quale risiede la forma di un in¬ trecciarsi degli elementi della essenza 486 ) : e a tale pro¬ posito si fa la osservazione, la quale, come più sopra (nota 464), resta senza motivazione, che cioè dalla sin¬ golarità delle cose concrete il pensiero trae fuori e in¬ tende quell’elemento, cb’è, nella sua unità, commune e universale 487 ). Ma poi si passa a considerar le categorie. lem generai» accidentia.... [non] vera essendi rationc praedicantur. Narri.... extrinsecis scilicet eircumfusus et determinatili minime prae- dicaretur, si non prius suis esset per se propri elalibus informatili. — p. 1160 [1290]: Sic ergo praedicatio alia est, qua vere inhaerens inhaerere praedicatur ; alia, quae quamvis forma inhaerentium fiat, tamen ila exterioribus datur, ut ea nihil alieni inhaerere inlelligatur. Caetera vero (cfr. la nota 461). quae de ipso no- turaliter dicuntur, quidam ejus status vocantur, eo quod nunc sic, nunc vero aliler, rctinens has. quibus aliquid est, mensuras et qualitalcs et ma¬ xime subsistentias, statuatur.... Situ, vel loco, vel Inibita, vel relatione, vel tempore, vel actione, vel passione slatuitur. Cori, quanto alla cate¬ goria della relazione, vien detto inoltre, nella forma più esplicita, a a p. 1163: relativa praedicatio ....consislil.... non in eo, quod est esse. 485 ) In conseguenza del suo accoglimento neH’Organon, è stato stampato in quasi tutte le più antiche traduzioni latine di Aristo¬ tele; io cito dal voi. I delle Opere di Aristotele in versione latina, Venezia 1552, in fnl. [Qui s’includono tra parentesi quadre i riferi¬ menti al testo accolto nella PL: cfr. più sopra la nota 21]. 4S “) Cap. 1, f. 31, v. A: Forma est compositioni contingens, sim- plici et invariabili essentia consistens.... Substanliale vero est, quod conferì esse ex quadam composilione compositioni, ut in pluribus, quod impossibile est deesse ei [PL, 188, 1258—9]. 487 ) f. 31, v. B: Sicut ex plurium partium coniunclionc constitutio quaedam primorum excedens quantitatem ejfìcilur, sic ex singularium discretione unum quoddam intelligilur. eorum excedens praedicatio- nem. — Così anche [Cap. 2], f. 32, r. B: omnes quidem homines eius hominis. qui communis est, et universale con quella stessa dicotomia (note 483 ss.) di categorie in¬ trinseche ed estrinseche, ma con questa differenza tutta¬ via, che cioè qui la categoria della relazione non viene ora più annoverata fra le categorie estrinseche, bensì questo gruppo viene a esser costituito dalle ultime sei categorie soltanto (actio, passio, ubi, quando, situs, ha- bere) : e poiché delle prime quattro categorie ha di già parlato a sufficienza Aristotele, Gilberto vuole trattare ora più compiutamente appunto di queste altre sei 488 ). Sodisfa cosi un bisogno, che abbiamo veduto di già mani¬ festato piu sopra (note 18 e 344): e qualificando Gil¬ berto, con la sua mania realistica, anche queste categorie come « principia» (cfr. le note 477 e 482), tale suo scritto, privo di senso comune, venne ad assumere più tardi, an¬ che in considerazione del suo titolo, una cosi grande im¬ portanza, da esser accolto per cosi dire nelFOrganon come sua parte integrante. [e) i sei « principii»: actio, passio, quando, ubi, si¬ tus, habitus]. — Per prima cosa vien definita l 'actio, e, con il più netto dualismo tra azione corporea e azione psichica, la si qualifica come legata da relazione di reci¬ procità con il concetto di movimento 489 ) : a ciò fa seguito la osservazione che la particolarità delazione ha per 4#8 ) [Cap. 2], f. 32, r. A: Eorum vero, quae contingunt exislenti, singultirli aul extrinsecus advenit, aul intra subslanliam consideratur simpliciler : ut linea, superficics, corpus. Ea vero, quae extrinsecus contingunt, aut actus, aut pati, aul dispositio, aut esse alicubi, aul in mora, aut habere necessario erutti. Sed de his, quae subsistunt, et quae non solum in quo existunt exigunl, in eo qui « de Categoriis» libro inscribilur, disputatimi est: de reliquis vero continuo aeamus [1260], * 4S “) Cap. 2, ibid. : Actio vero est, secundum quam in id, quoti sub- iicitur, agere dicimur.... Differunt autem, quoniam ea, quae corpo- ris est, rnovens est necessario illud, in quo est,.... actio autem animae non id movet, in quo est, sed coniunclum : anima enim, dum agii, im¬ mobile est.... Omnis ergo actio in mota est : omnisque motus in actione firmabitur sua proprietà (li produrre la passio, e che pertanto l'actio è il « principio » primordiale 49 °): a questo punto il concetto di « jacere » viene applicato anche a tutte le rimanenti categorie in ima serie di affermazioni che son delle più aride e peggio fondate 491 ) : e secondo il modello delle quattro prime categorie si fa vedere, anche nel jacere e nel pati, il rapporto di contrarietà e la gradua¬ zione di più o meno 492 ). Ma poi viene, ciononostante, in secondo luogo la pas¬ sio, dandosi per essa rilievo alla varietà di accezioni di questo termine 493 ). Viene appresso presentata, in terzo luogo, la catego¬ ria del quando, la quale è bensì afline al tempus, ma pur se ne distingue, in quanto che i tre tempi, passato e pre¬ sente e futuro, non son già un quando, ma sono solamente un effetto e una proprietà, conforme a cui qualche cosa viene denominata come passata e via dicendo (v. alcun¬ ché di simile alla precedente nota 194); inoltre nulla può misurarsi secondo il quando, ma secondo il tempo sì 494 ). 49 °) f. 32, r. B: Naturqlis vero actionis propnetas est, passionem ex se in id, quod subiicitur, inferre : omnis enim aclio passionis est effectiva.... Et sic actus quidem est primordiale principiata [1261]. 491 ) Ibid.: Facere vero id, quod quale est, ex se gignit.... Quanti- tatum vero particularium positio effectrix est, et qunlilatum uni¬ versa enim liaec a situ substantiam et generalionem kabent.... Situs autem, agere et pati : in dispositionis nonuple compositione quaedam generalio simplicium fil, quam in motiva actione consistere necesse est. Quando vero tempus. Ubi vero locus. Habere autem corpus : ea enim, quae circa corpus sunt, habere dicuntur [1261], 492 ) Ibid.: Recipit autem facere et pati contrarielalem, et magis et minus : secare enim ad plantare contrarium est....: et calefieri magis et minus dicilur [1261-2]. 493 ) C. 3, f. 32, v. A: Passio est effectus illatioque actionis.... Est autem pati eorum, quae multipliciter dicuntur : animae enim actio- num unaquaeque passio dicitur.... Dicilur quoque passio, quod in naturam agii : ut morbus.... Ea vero, quae nunc relinquuntur, in eo qui est « de Generatione» libro tractanlur (questa citazione è presa da Boezio [in Ar. praed.. Ili: PL, 64, 262], p. 190). 494 ) C. 4, ibid. : Quando vero est, quod ex adiacentia (cfr. la nota 504) temporis reliquitur. Tempus vero quando non est, utriusque autem ratio coniuncta est, ut tempus quidem praeteritum quando non est, A ciò fa seguito, come il colmo della stupidità, la indica¬ zione di una differenza tra quando e ubi, in quanto che il quando del presente, in pari tempo che l’istante stesso, è in eodem, ciò che non si verifica per Vubi 49S ), e cosi pure ima divisione del quando e del tempus in semplici e in composti 496 ), e infine la notizia che la relazione di contrarietà, e di più o meno, non ha luogo nel quando 497 ). Quarto viene ora ubi, e qui si presenta la distinzione analoga tra ubi e locus 498 ): e alla impossibilità che due cose sieno in uno stesso luogo o una stessa cosa in diversi luoghi, si collega anche la controversia sopraccennata (nota 203) circa la propagazione del suono); anche Vubi vien distinto in semplice e in complesso, e si esclude che, rispetto ad esso, abbia luogo la relazione di più efeclus autemcius, et affectio, secundum quarti dicilur aliquid fuisse, quando est. Instans autem quando non est, sed secundum quod ali- quid aequale, tei inacquale est: eius autem affectio, secundum quam aliquid dicilur in instanti esse, quando est. Futurum similiter tempus quando non est. — f. 32, v. B: Distai autem et tempus ab eo, quod quando: quoniarn secundum tempus aliquid est mensurabile : ut mo- tus animus.... Al vero secundum quando ri ih il mensuratur, sed ali- quando dicilur esse [1262]. 4 96 ) f. 32, V. B : Differì enim quando ab eo, quod est ubi : quoniarn in quocunque, tempus est vel fuitvcl erit, in eo quidem quando, est vel fuit vel erit, quod secundum idem tempus dicilur: quando enim, quod exislenti est, curn ipso instanti est, et simili in eodern sunt.... Ubi vero et locus, a quo est, vel fit, nunquam simili in eodem : ubi enim in circumscriptione est: locus autem in compicciente [1263], 19a ) Ibid. : Quando ....sicut autem et tempus, aliud quidem compo- situm est, aliud vero simplex. Est autem compositum, quod in compo¬ sita anione consista: simplex vero, quod cum simplici procedit [1263], 497 ) Ibid.: Inest autem quando, non suscipere magis et minus.... Amplius quando nihil est contrarium) C. 5, f. 33, r. A: Ubi vero est circumscriptio corporis, a circum¬ scriptione loci proveniens. Locus autem in eo, quod capii, est, et cir- cumscribit.... Non est autem in eodem locus et ubi: locus enim in eo, quod capii, ubi vero in eo, quod circumscribitur et complectitur [1264]. 4 ") Ibid, : Nequaquam igitur duo in eodem loco esse simul pos- sunt, nec idem unum in diversis.... Movet autem quis quaestionem f orlasse, idem in diversis et pluribus concludens ; etenim vox in auri- bus diversorum est.... Confiteli oportel omnino, urtarti particulam aeris ad aures diversorum pervenire.... Relinquitur igitur, diversum sensum esse imaginabiliter se generanlium, et similiter [1264-5]. o ili meno, e così pure quella di contrarietà, a proposito della quale l’Autore persino espressamente si riferisce ai concetti di sopra e di sotto 50 °). Quinto segue situs, ovvero la categoria, come la chia¬ ma Gilberto, della positio, intesa secondo il realismo più rozzo possibile, sicché tutte le particolari manifestazioni di questa categoria, nel cui novero vengono compresi, p. es., anche lo scabro e il levigato (cfr. la nota 193), sono considerate soltanto come espressioni derivate 501 ); si contesta che questa categoria comporti opposizione contraria, e ciò perchè i contrari appartengono soltanto a un medesimo genere, e invece lo star seduti e il gia¬ cere vanno assegnati a generi differenti, in quanto che soltanto esseri ragionevoli possono star seduti, laddove gli altri stanno a giacere 502 ); e mentre qui è inammissibile an¬ che la relazione di più o di meno, questa categoria va messa nella più stretta connessione con quella della sostanza, pro¬ prio in essa trovando le sostanze il loro ordinamento 503 ). Ml °) f. 33. r. B: Ubi autem. aliud quidem simplex, aliud vero com- posilum. Simplex quidem, quod a simplici loco procedit : composilum autem, quod ex composito.... C.arct autem libi inlenlione et remissione : non enim dicitur alterum altero magis in loco esse vel minus.... Inesl autem ubi, nihil esse contrarium.... Sursuni enim et deorsum esse contraria pluribus videntur.... Conlingit autem contraria in eodem esse.... Si enim sursum esse et inferius esse contraria sunt, cum idem sursum et deorsum sit, colligitur, idem sibimet contrarium fieri [1265]. 601 ) C. 6, f. 33, v. A: Positio est quidam parlium situs, et genera¬ ti onis ordinatio, secundum quam dicuntur stantia vel sedentia.... Se¬ dere autem et lacere positiones non sunt, sed denominative ab his dieta sunt. Solet autem quaestio induci de curvo et recto, aspero et leni.... Non sunt autem positiones ea, quae dieta sunt omnia, sed qualia circa situm existentia [1265-6]. 60S ) Ibid. : Suscipere autem videtur situs contrarietates : nam sedere ad id quod stare contrarium esse videtur.... Ponentibus autem nobis, haec contraria esse, inconvenientia recipere cogimur, hoc, quod unum sit contrarium plurium.... Amplius autem conlrariorum quidem ratio est, circa idem natura existere. : sedere enim et iacere non circa idem natura sunt seiuncta : est enim sedere proprie circa ralionalia, iacere vero et accumbere circa diversa) f. 3, V. B.: Proprium autem positionis, ncque magis neque mi¬ nus dici.... Magis autem proprium videtur esse positionis, substantiae Riinane poi ancora in sesto luogo Vhabitus, categoria identificata con il concetto di adiacentia, già familiare a noi, che conosciamo Abelardo (nota 284) 504 ); quando poi si legge che per habere la relazione di più o di meno è, di regola, ammissibile, ma talora, come, p. es., nel caso dell’« esser vestito », è inammissibile, e che in questa categoria non sussiste contrarietà, perchè esser armato ed esser calzalo non sono opposti 505 ), — anche ciò rende sufficiente testimonianza del talento logico dell’Autore; come particolarità di questa categoria, viene indicato il fatto che essa rimanda sempre a una pluralità, il che può, soltanto per certi rispetti, ripetersi anche per le categorie della quantità e della relazione 508 ); finalmente vengono citate ancora cinque accezioni differenti del ter¬ mine habere 507 ). [f) la controversia intorno al magis e al minus]. — Ma venuta poi a una conchiusione questa disamina dei « prin¬ cipi » 508 ), fa ancor seguito una trattazione speciale del proxime assistere, omnibus qiiidem aliis/ormis suppositis. Posilio autem nihil aliati est. quatti naturalis ipsius subslantiae ordinatio [1260]. S04 ) C. 7, f. 33, v. B: Habitus est corporum, et eorum quae circa corpus suoi, adiacentia : secundum quam hoc quidem habere, illa vero dicunlur halteri. Haec autem non secundum totum dicunlur, sed se¬ canti uni particularem divisionem, ut armatum esse [1267], s01i ) f. 34, r. A: Suscipit autem habitus magis et minus : armatior enim est eques pedite.... In quibusdam autem non videtur, quoti rum magis et minuspraedicentur : ut vestitum esse, et similia. IIabitui quoque nihil est conlrarium : elenim armatio calceationi non est contraria [1267], 60 °) Ibid. : Proprium quidem habitus est, in pluribus existere.... In paucis autem aliis principiis huiusmodi invenies : in quantilate enim solum, et in his quae ad aliquid sunt, similia reperies.... Habitus autem omnis in pluribus necessario existit, ut in corpore. et in his quae circa corpus sunl) Ibid. : Dicilur autem habere multis modis : habere enim dicitur alterationem.... Dicilur etiam ras aliquid habere.... Habere quoque in membro dicimur,... Dicitui vir uxorem habere, et recipere uxor virum.... Quare modi habendi, qui dici consueverunt, quinario numero terminan- lur [1267-8], 50s ) Ibid. : Et quidem de principiis haec dieta sufficiant : reliqua vero in eo, quod de Analylicis est. quaerantur volumine magis et minus ; e qui Gilberto taglia il nodo della contro¬ versia ricordata più sopra (nota 196), non potendo l’or- dine delle graduazioni risieder già nella sostanza stessa, poiché questo urta contro il concetto di sostanza, ma d’altra parte nemmeno negli accidenti, perchè allora il grado superiore, p. es., di bianchezza dovrebbe consi¬ stere nell’ampiezza della superficie (!) : donde consegue che il più o il meno neanche ha la propria sede nell’ima e negli altri insieme, cioè nella sostanza e ne’ suoi acci¬ denti 509 ). Ma la soluzione positiva, che dà ora Gilberto, ha questo fondamento, che cioè il magis vel minus con¬ siste nel grado in cui lo stato di fatto reale sta più vicino o più lontano dall’accezione del termine che designa la qualità, una graduazione questa che non si manifesta, dove si tratta di sostanze, per la ragione che la denomina¬ zione delle sostanze stesse rimane compresa entro saldi confini (in terminis) : tuttavia a tal proposito viene a confes¬ sare egli stesso quali assurdità sieno queste che presenta, quando deve aggiungere che una tale saldezza si ritrova tut¬ tavia anche nella denominazione di talune qualità 51 °). In- 60 “) C. 8, f. 34, r. B: Non ergo secundum suscipicntium ipsorum Crementum vel decremenlum, cum „magis vel minus “ aliqua dicuntur. Nulla cnim ratio obviarel dicenti, hominem et animai et substantiam et caetcra consimilia cum „magis et minus" dici.... Mons eliam alio monte maior dicitur, cum neuler crescat vel decrescat.... Amplius autem ncque secundum ea, quae inficiunt. Si enim, secundum magnitudinem albedinis vel alicuius caelerorum, dicitur aliquid albius aliquo, vel, se¬ cundum parvitatem, minus album, vel quomodolihet aliter, utique et magis albus equus vel homo, vel quodlibet aliud albius margarita di- cetur : etenim maior albedinis quantitas equo accidit quam marga- ritae.... f. 34, v. A: l’atet itaque, nihil secundum,.magis et minus“ praedicari, ncque secundum suhiecti solum augmentum vel diminutio- nem, neque secundum accidentis ; quare ncque secundum utrunaue [1268-9], ^ 61 °) 6 34, v. A: Oportet igilur ab alio ea invenire, quae cum „magis et minus" dicantur. Huiusmodi vero sunt ea, quae. sunt in voce eorum, quae adveniunt, et non secundum subiecti vel mobilis cremenlum vel diminutionem, sed quoniam eorum, quae sunt in voce, impositioni pro- pinquiora sunt, sive ab eadem remotiora sunt : de his etenim cum „ magis" dicuntur, quae proximiora sunt ei, quae in ipsa voce est, impositioni, cum „minus" autem de his, quae remotiora consistunt.... Quanto igitur tìne la faccenda mette pur capo anche alla tesi essenziale, che cioè nella pluralità della realtà materiale in gene¬ rale, hanno loro proprio luogo il divenire e la relatività 511 ), e F illogico realista assume poi a criterio per questo campo la espressione verbale, mentre, per Forbita del vero es¬ sere, possiede nella parola solamente il ricalco di una idea. Così lo scritto di Gilberto intorno alle categorie ci porge un documento veramente miserevole, per provare come quell’epoca non fosse per nulla meno goffa e inetta dei secoli precorsi, tostochè sol si tentasse mai, senza le dande della tradizione, di muover un passo indipen¬ dente, anche senza uscir dall’ambito delle cose più sem¬ plici. [§ 36. — Ottone da Freising, seguace di Gilberto. Lo scritto pseudo—boeziano De imitate et uno]. — Ma quale seguace di Gilberto, riguardo alla concezione degli universali, ci si presenta Ottone da Frei- 8 i'n g (nato nel 1109 [rectius : nel 1114 o 1115], morto nel 1158), che alle sue opere storiche intreccia talvolta disgressioni formali di contenuto filosofico, manifestando in esse, con i modi consueti di espressione, il suo rispetto di teologo verso Platone, e in pari tempo il conto in cui ad vocis impositionem accedens puriori inficitur alitarne, tanto et can- didior assignabitur.... Dubitabit autcni aliquis, quarc haec quidem cum ..magis et minus LL dicantur, substantiae vero minime : hoc autem con- tingit. quoniam subslantiarum impositio quidem in termino est, ultra quem transgredi impossibile est. Additur autem et de accidenlibus qui- busdam, quae sine ..magis et minus “ dicuntur : ut quadrangulus, et triangulus, et similia [1269], 6U ) f. 34, v. B: In subiecto enim duo sunt. quorum haec quidem estjorma secundum rationem, haec autem secundum materiam ; quando igitur in his duobus est transmutatio, generatio et corruptio crii sim- pliciter secundum veritatem.... Est autem materia maxime quidem subiec- lum gencrationis et corruptionis proprie susccptibile.... Haec autem hoc aliquid significant et substantiam, haec autem quale, haec autem quantum. Quaecunque igitur non substantiam significant, non dicuntur simpliciter, sed secundum aliquid generari tiene la logica aristotelica 512 ). Come Ottone occasional¬ mente aderisce una volta alla tesi, che gli esseri concre¬ tamente esistenti formano il contenuto e l’oggetto dei predicati dichiarativi, laddove i concetti di specie e di genere vengono predicati, avuto riguardo alla causalità delle cose che ha in essi fondamento 513 ), — così un’altra volta egli si pronunzia più distesamente sopra questa relazione, in tutto e per tutto ripetendo la opinione di Gilberto, con il quale si accorda anche nella espressione letterale ( nativum, natura, Jorma, con.jorm.is, coadunatio, — « omne esse ex Jorma est» —) 514 ). Nello stesso senso, 612 ) Chron. II, 8, p. 27, cri. Urstis [MGH, XX, p. 147]: Sacrale*.... educaviI Platonem et Aristotilem, quorum alter de potentia. sapientia, bonilate creatoris ac genitura mundi creationevc hominis tam luculenter, lam sapienter, tam vicine verilati disputai.... alter vero dialecticae [li- bros] arti* vel primus edidisse, tei in melius correxisse, aculissimeque ac disertissime iride disputasse invenilur [cfr. il testo della ediz. Wil- mans (M G II), e ivi l’apparato critico], 61a ) De gest. Frid. Prolog., p. 405, cd. Urstis [MGH, XX, p. 352]: Sicut enim iuxta quorundam in logica nolorum positionem, cum non formarum, sed subsistentium proprium sii praedicari seu declarari. ge¬ nera tamen et species praedicamento transsumpto ad causam praedi¬ cari dicuntur. Vel, ut communiori utar exemplo, sicut albedo clara, mors pullida, eo quod claritatis altera, palloris altera causa sit, appel- latur, etc. (La espressione transsumptio, come pure lo stesso esempio albedo clara, si trovano in Gilberto, p. 1142 [1270] : v. la nota 472). M4 ) De gest. Frid. I, 5, p. 408 [354]: Nativum velut natimi aut gemtum, descendens a genuino (v. la nota 464).... In nalivis igitur omnem naturata seu formam, quac integrata esse subsistentis sii, vel adii et natura, vel natura sallem conformem habere necesse est.... Partes aulem hic vaco eas formas (nota 468), quae ad componendarn speciem aut in capite ponuntur, ut generales, aut aggregante, ut differentiales, aut eas comitantur, ut accidentales.... [355] Potei.... humanitatem So- cratis secundum omnes partes et omnimodum effectum humanitali Plu¬ toni* conformem esse, ac secundum hoc Socratem et Platonem eundem et unum in universali dici solere (nota 474),... Concretìo etiam in naturaiibus non solum coadunatione formae et subsistentis. sed ex mol¬ titudine accidentium, quae substanliale esse comilantur, consideravi po- test (note 464 e 471).... Sunl aliae formae subiectum integrum infor¬ mante*, quae naluram tantum conformem habenl. Esse quippe soli*, etsi non aclu, natura conformem habere noscitur. Quare, quamvis plu- res soles non sint, sine repugnanlia tamen naturae plures esse possunt (nota 479).... (p. 410) Omne namque esse ex forma est.... Tantum de co, quae a philosophis genitura, a nobis faclura seu creatura dici solet, disputai inumi inslituimus. Sed notandum, quod compositio alia for- ébìin altro luogo (con. intonazione polemica contro Gu¬ glielmo da Champeaux) qualifica l’universale come« quasi in unum versale», e a ciò unisce una giustificazione eti¬ mologica dei termini e dei concetti di dividuum e indivi- diium 515 )', inoltre condivide con Gilberto l’ingenuo rac- costamento delle cose e delle parole 516 ), come pure ri¬ corda altresì ima volta quell’esercizio ginnastico, che vien fatto nello studio della logica, sull’albero di cuccagna della Tabula logica 517 ). Appartiene allo stesso gruppo anche uno scrittarello anonimo [oggi è riconosciuto esser opera di Domenico Gundissalino] «De unitate et uno», che mani¬ festamente è una produzione determinata dalle polemi¬ che di quel tempo intorno alla Trinità, ma che, al pari di quella più antica opera De Trinitate [oggi, come ab¬ biamo veduto, attribuita appunto a Boezio], fu ritenuta marum, alia est subsistentium.formarum ex formis, subsistenlium ex sub- sistentibus..,. [356] Formarum autem aliae compositae, aline simplices ; simplices, ut albedo, compositae, ut humanitas.... Ulule Boetius in oclava rcgula libri llebdomade „omni composito aliud est esse, aliud ipsum est“ (v. la noia 37). 61S ) Ibid., 53, p. 437 [380] : Universalem..., dico, non ex eo, quod una in plurilius sii, quod est impossibile (noia 105), sed ex Iwc, quod plura in similitudine vivendo [rectius : uniendo] ab assimilamii unione univcrsalis. quasi in unum versalis dicalur.... Ex quo palei . quare.... singularem, individualem vel parlicularem dixerim proprietatem, eam nimirum, qttae suum subiectum non assimilai aliis. ut humanitas, sed ab aliis dividii, discernit, partitur. ut ea, quam fido nomine solemus dicere,,Platonitas “, a dividendo individua, a parliendo particularis, a dissimilando singularis dieta. Nec opponas, quod potius a dividendo dividuam, quam individuam dici oporteat. Nam cum suum subiectum non solum ab aliis dividat vel dissimilet. sed etiam in sua individua¬ litale et dissimilitudine tam firmiter manere faciat, ut nec sii nec fuerit neo futurum sit aliud subiectum, quod secundum eiusmodi proprieta- lem illi assimUari queat, melme individuum privando, quam dividuum ponendo vocalur, eiusque oppositum, quod dividendo pluribus com- munical, et communicando dividii, rectius dividuum dici debet (noia 479). “ 1G ) Ibid., p. 438 [ifc.] : Cum enim omne esse ex forma sii, quodlibet sub- sistens rem et nomea a sua capit forma (note 458, 174, 482). s17 ) Ibid.. 60, p. 444 [386] : iuxta logicorum enim regulam methodus a genere ad destruendum, a specie valet ad aslruendum (nota 480). fattura di Boezio (v. sopra la nota 35) «»). Domina nella questione della unità, che anche Gilherto era stato tratto a discutere (note 477 s.), quello stesso realismo di Gil¬ berto o di Ottone 519 ), e forse possiamo tutt’al più ri¬ cordare che qui si trova una singolare enumerazione di accezioni varie del termine « unum» Alberico (da Reims ?), a Parigi. Willi- RAM DA SoiSSONS. VARI ALTRI AUTORI, MENZIONATI DA Mapes]. Ma nello stesso tempo, cioè press’a poco tra il 1140 e il 1170, viene a cadere anche la com¬ parsa di alcuni altri autori, dei quali conosciamo quasi esclusivamente i nomi, e a ogni passo della nostra in- dagme torna a imporsi la considerazione, che cioè le fonti a noi accessibili ci consentono pur sempre soltanto una conoscenza frammentaria. Si dovrà anzi designare come casuale la notizia dataci da Giovanni da Salisbury, quando, raccontando il corso de’ suoi studi, fa il nome di un certo Alberico, che, morto Abelardo, insegnò aS.te Geneviève in Parigi, e imprese energicamente la „ Q M^n. tampata °P cre di Boezio, ediz. di Basilea 1570, p. 1274 l'òleslpaTJTwTìMiT l * 3 bibli0thè 1 ue * *.s dipar,ements de . ’ 1 ungi 1841, p. 169) trovo m un manoscritto di St -Michel Hd/nf t0 an0nmM p rh e T nd ° aUe righe “ iziali d “ lui citate, c identico a questo Pseudo-Boezio. ".*> p -.,. 1274 t PL ’ „ 63 - 1075]: Omne enim esse ex forma est, in unita* r f ' S> ' " ullum eSSC ex f° rma nini cum forma maleriae unita est. Esse xgitur est nonnisi ex eoniunctione formae cum materia j.m autem forma matenae unitur, ex eoniunctione utriusque necessario al,quid unum consti,ni,ur.... Uni,io autcm non fi, nisi un.tatZ Z- mam autcm non tene, uni,am cum materia nisi unitasi ideo materia egei untiate ad umendum se.... et de natura sua habet multiplicari Uni,as vero retine,, umt e, colligi,. Ac per hoc ne materia divida,ur et spargami -, necesse est, ut ab unitale retineatur ecc. [testo cit. se- 0nd ° a ed £- C r ™ (Beitràge del Baumker, I, 1, p. 3 - 5 )]. ) p. 12/6 fPL, 63, 1077-8]: Unum enim aliud est essentiae Simpl,Citate.... Ahud simplicium eoniunctione.... Aliud.... continui- tate.... Ahud... compositione.... Alia dicuntur unum aggrega,ione Alta.... proportione.... Alia.... accidente.... Alia.... numerai Alia ZZI'"' Al,a ":;. natura . unum ’ ut participatione speciei plures hommes unus. Alia.... natwne.... Alia.... more [testo c. s„ p. 9-10]. STORIA DELLA LOCICA IN OCCIDENTE lotta contro i nominalisti, nella quale pare lo abbia so¬ stenuto un considerevole talento per le distinzioni 521 ). Riferisce inoltre Giovanni, ch’egli stesso ha impartito 1’ in¬ segnamento della logica a tale W i 1 1 i r a m [Gugliel¬ mo ?] da Soissons, il quale, da lui presentato poscia a Adamo dal Petit-Pont (note 440 ss.), ha ideato in seguito una speciale machina contro i seguaci della vecchia logica (antiqui, logicae vetustas: v. sopra le note 55 ss.) 522 ). Giovanni menziona poi un’altra volta, oltre 621 ) Jou. Saresb. Metal., II, 10, p. 78 s. (ed. Giles [e Wcbbj): Contali me ad Peripateticum Palatinum qui. Iurte in monte Sanctae Genoue/ae clarus doclor et admirabilis omnibus praesidebat. Ibi ad pedes eius prima artis huius rudimento accepi.... Deinde post discessum eius, qui michi praeproperus visus est, adhaesi magistro Alberico, qui inter ceteros opinalissimus dialeclicus enitebal et erat revera norninalis sectae acerrimus impugnator. Sic ferme tota biennio conversatus in monte, artis huius praeceptoribus usus sum Alberico et magistro Rodberto Me- ludensi (v. sopra la nota 453)....; quorum alter (cioè Alberico), ad omnia scrupulosus, locum quaestionis inveniebal ubique, ut quamvis polita planilies ojjvndiculo non carerei et, ut aiunl, ei [sjcirpus non esset enodis. Nam et ibi monstrahat quid oporleal enodari ....Apud hos, toto exercilatus biennio, sic locis assignandis assuevi et regulis et aliis rudimentorum elementis, quibus pueriles animi imbitumar, et in qui- bus praejati doctores potentissimi crani et expeditissimi, ut etc. [PL, 199, 867-8). Menzione di questo Alberico si trova fatta da Giovanni anche nell’ Enthelicus, v. 55 s. : Iste loquax dicaxque parum redolel Melidunum, Creditur Albrico doctior iste suo [PL, 199. 966). Ma di quale Alberico si trattasse, fra i parecchi con questo nome, menzio¬ nati in quell’epoca, non è possibile determinare con sicurezza; la indicazione cronologica su riferita rende probabile che fosse Albe¬ rico da Reims, soprannominato de Porta Veneris, il quale fece più tardi accoglienza ospitale a Giovanni da Salibury e all’arcivescovo Tommaso [Becket], quando furon esuli in Italia. V. Du Boulay, Hist. Univ. Par.. II, p. 724. e la Ilistoire littér. de la France, XII, p. [72-6, e particolarmente] 75. 522 ) Ibid., p. 80 [81]: linde ad magistrum Adam.... familiarilalem contraxi ulteriorem.... Interim Willelmiim Suessionensem, qui ad expu- gnandam, ut aiunt sui, logicae vetustatem et consequentias inopinabi- les construendas et antiquorum sentcntias diruendas rnachinam post- modum fedi, prima logices docili dementa et tandem iam dieta prae- ceplori appositi. Ibi forte didicit idem esse ex contradictione, cum Ari- stotiles obloquatur, quia « idem cum sit et non sit, non necesse est idem esse » (queste parole si trovano negli Anni, pr., II, 4, 57 b 3: v. la Sez. TV, nota 614), et item, cum aliquid sit, non necesse est idem esse et non esse. Nichil enim ex contradictione [82] evenit et conlradictio- nem impossibile est ex aliquo evenire. Unde nec amici machina im- a quel suo avversario, denominato da lui Cornificio (v. subito appresso), il rappresentante di un altro indirizzo, a quanto sembra, esagerato e astruso, nello studio della logica, e lo designa con il nome imaginario di Serto- r i u s 523 ). Ma a ciò si aggiunge, oltre a notizie mal verificate circa un tal Davide, a ITirschau, e un Giovanni Serio, a A ork r ’ 24 ), un’altra informazione ancora, che dobbiamo a un autore della fine del secolo XII», cioè a Walter M a p e s, il quale nelle sue poesie occasio¬ nalmente dimostra conoscenza delle personalità e delle tendenze dominanti nelle scuole; costui menziona (con la osservazione, che il maggior numero di seguaci lo ha Abelardo), oltre a Bernardo da Chartres, Pietro da Poi- tiers e Adamo dal Petit—Pont, anche un certo Regi¬ na I d o, uno straordinario sbraitone, che criticava tutti pellente urgeri potili ut credam ex uno impossibili omnia impossi- bitia provenire [PI,, 199, 868], Anche a prescindere dalla questione di determinare in che cosa inai potesse consistere questa misteriosa machina, tutto il passo, del quale può anche ben darsi che il testo sia guasto, mi è rimasto assolutamente incomprensibile; tutto quel che risulta da un altro passo (v. appresso la nota 624), è che si ten- tav f di riattaccare a quelle parole di Aristotele i sillogismi ipotetici. ) Enthet.,\. 116 ss. |PL, 199, 967-8]: Si i/uis credatur logicus, hoc satis est ; Insanire putes potius. quam philosophari, Seria sani etemm cuncta molesta nimis. Dulcescunt nugae, vultum sapientis abhor- rent, lormenti geritts est saepe videre librum. Ablactans nimium te- ncros Sertorius olim Discipulos Jerlur sic docuissc suos ; Doctor mini juvrnum prelio compulsila et aere Pro magno docuit munere scire nihil. tuo ), 1THKMI1 Ann ? liì Uirsaugienses, ann. 1137 (ediz. di S. Gallo. 1690, I, p. 403): David.... monachicum habitum suscepil.... Scripsil quaedam non spernendae lectionis opuscolo.... de grammatica L. 1, in Perihermenias Aristotelis libros duos. Che tuttavia le notizie di Tritemio abbiano scarso valore, lo sanno tutt’ i competenti; d’al¬ tra parte è noto che le cose vanno di gran lunga anche peggio per il 1 ITSEUS [John Pits, 1560-1616], il quale spesso, quando non co¬ piava il Lei and [John Leland (Leyland, Laylonde), antiquario in¬ glese m. 1552], inventava semplicemente menzogne, sicché forse neanche vai la pena di ricordare quel ch’egli dice. De illustribus Anghae scriptoribus. p. 223 s. (ad ann. 1160): Joannes Serio dictus magister Serio.... ex Eboracensi canonico Jactus est.... Fontanus Abbas.... Scripsit.... de aequivocis diclionibus librum unum, de univocis dictio- nibus librum unum. e appiccò Porfirio alla l'orca (laqueo suspendit), sicché potremmo forse ravvisare in lui quel Comifìcio di cui parla Giovanni da Salisbury [e da altri diversamente identificato; cfr. la nota del Webb alla p. 8 della sua ediz. del Metalogicus] ; menziona inoltre, insieme con Ro- bertus Pullus, un Manerius, estremamente sottile, mi arguto Bartolomeo e un Roberto Ami¬ ci a s 525 ). Si può anche ricordare che la poesia finisce con la cacciata dei monaci dalle scuole dei filosofi 528 ): e c’è del pari un’altra poesia, che appartiene press’a poco alla stessa epoca, e rappresenta con molto spirito il con¬ trasto fra il pretume, dedito ai piaceri del senso, e la fine cultura logica 527 ). 5 “) The latin poems commonty attributcd to Walter Mapes, col- lected and edited by TnOMAS Wrigiit (Londra, 1841-4), dove uella Introduzione è anche esposto quel che di più preciso risulta sul conto di Walter Mapes. In una delle poesie, Metamorph. Goliae, v. 189 ss. (p. 28), si trova il passo seguente: Ibi doctor cernitur ille Carnotensis, Cujus lingua vehemens truncat vclut ensis ; Et hic praesul praesulum stai Pictaviensis, Prius et nubenlium [studenlium ?] miles et castrensis (seguono i versi cit. più sopra, nota 442).... [v. 199 ss.) ....Celebrem theologum vidimus Lumbardum ; Cum Yvone, Helyam Petrum (entrambi grammatici), el Bernardino [p. 29], Quo¬ rum opobalsamum, spiralo*, el riardimi. Et professi plurimi sunt Abaie- lardimi. Reginaldus monachus dumose contendit. Et obliqui s singu- los verbi s comprehendit ; Hos et hos redarguii, nec in se descendit. Qui nostrum Porphyrium laqueo suspendit. Roberlus theologus corde vivens mando Adest, el Manerius quem nullis secando ; Alto loquens spiritii el ore profundo. Quo quidem subtilior nullus est in rnundo. Hinc et Bartholomaeus faciem acutus. Retar, dialecticus. sermone astu- tus, Et Robertus Amiclas simile secutus, Cum hiis quos praetereo, populus minutus. 5 -’) Ibid., v. 233 (p. 30): Quidquid tantae curiae sanctione datur. Non ceda t in irritum, ratuni habealur ; Cucullatus igitur grex vilE pendatur. Et a philosophicis scolis expellatur. — Amen. 5 “') De presbytero et logico (parimente edito dal Wrigiit, op. cit., p. 251 ss.) in 216 versi, dove a dire il vero non si trova alcun con¬ tributo d’ informazione storica per il nostro intento. Il contrasto degl indirizzi ha p. es. la sua espressione nei versi 29 ss.: Logicus: «Fallis. fallis, presbvter, coelum Christianum, Abusive loqueris. laedis Priscianum; Te probo falsidicum, te probo vesanum»; ....Presbyter. « Tace, tace, logice ; tace, tir fallator; Tace, (lux insaniae, legis vanne lator ;....» Log. — « Peccasti, sed gravius adjicis peccare. Le- gem hanc adjiciens vanam nominare; Sanum est, dissercre nel gram- C. Prantl, »S 'torio, della logica in Occidente, H.  [§ 38. — Il così detto Cornificio, oggetto della polemica di Giov. da Salisbury]. — Ai già nominati si unisce finalmente ancora tutto quell’ indirizzo, che Gio¬ vanni da Salisbury, volendo combattere non contro la persona, ma esclusivamente contro la cosa, qualifica con il nome simbolico di Cornificio 528 ). I numerosi passi dov’egli rammenta questo suo avversario o i seguaci di lui, coincidono in un punto, che è questo: c’erano cioè parecchi, i quali a priori respingevano come inutile ogni tecnica della parola nudrita di pensiero (eloquentia o lo¬ gica), perchè tutto ha fondamento nella disposizione na¬ turale, e pertanto, chi possieda questa, senza punta tec¬ nica, tocca da se medesimo il segno, e invece chi non ha talento, non fa progressi neanche in grazia della teo¬ ria 629 ). E quando si soggiunge che questi « filosofi di mutilare, — Si insanum reputai, velim dicas quare». Prcsb. — « Dco est udibile vestrum argumentum ; Ibi nulla veritas, toturn estfigmentum ;», o p. es. ai versi 129 ss.: Log. —« Audi, inter phialas quid philoso- pharis ; follus, non philosophus, bine esse probaris ; Stulto sunt si- milia singola quac faris, [parte tua caream quarti ibi lucraris ]. Epi- cure lubrice, dux ingluviei, Cujus Deus venter est, dum sic servis ei etc. ». 62S ) J OH. Saresb. Metal., I, 2, p. 14 [ed. Webb, p. 8|: Utique par est sine derogatione personae sententiam impugnari ; nichilque lurpius quam cum sententia displicet aut opinio, rodere nomea auclo- ris.... [9] Celerum opinioni reluclor, quae multos perdidit, eo quod populum qui sibi credat habet ; et licei antiquo novus Cornificius inep- tior sii, ei tamen turba i nsipienlium adquiescit. — Polycr., I, Prol., p. 15 [16]: Aemulus non quiescit, quonium et ego meum Cornificium habeo.... Quis ipse sit, nisi ab iniuriis temperet, dicam.... Procedat tamen et publicet, arguat meum ralione vel auctoritate mendacium [PL, 199, 828 e 388], Dal modo di esprimersi dello scrittore in questi due ultimi passi, risulta come Giovanni non abbia fatto che traspor¬ tare simbolicamente il nome di Cornificius da un personaggio del- 1 antichità al suo proprio nemico, e può ammettersi con certezza che a ciò gli abbiano dato occasione le notizie di Donato (Pila Vir- gilii, c. 17 s. : vedi le Opere di VIRGILIO, ed. Wagner, I, p. XCIX s.), riguardo a un tale Cornificio, avversario di Virgilio « ob perversam naturami> [cfr., nella ediz. Brummcr delle Vitae Vergilianae, il « Ple- nus apparatus ad vitam Vergilii Donatianam», p. 31], 529 ) Ib., Metal., I, 1, p. 12 [ed. Webb, p. 6]: Miror ilaque.... quid sibi vull, qui eloquentiae negat esse studendum.... p. 13 [8[: Cornifi¬ cius noster, studiorum eloquentiae imperitus et improbus impugnalor. — C. 3, p. 15 [10]: Fabellis tamen et nugis suos pascit interim audi- testa propria », avendo a disdegno F intiero trivio e qua¬ drivio. si son gettati sopra forme di attività pratica e sovra profitti pecuniari ;>3 °), sarebbe in ciò da riscontrare un indizio significativo, in quanto si direbbe che tale corrente, non prendendo ispirazione da vedute clericali o dommatiche bensì per effetto di un impulso pratico, si sarebbe mostrata avversa al farraginoso viluppo della scienza scolastica, e avrebbe richiamato l’attenzione so¬ pra il valore immediato del talento individuale. Così po¬ tremmo intendere tali manifestazioni come un preludio di tendenze svoltesi più tardi. Qualora ci fosse lecito riferire al così detto Cornificio anche la notizia, che ta¬ luni rigettarono le Categorie e la Isagoge come inutili libri elementari 531 ), potremmo forse ritenere che il già tores quos sine artis beneficio, si vera sunt quae promittit, fa ci et elo- quentes et tramite compendioso sine labore philosophos. — C. 5-6, p. 23 [20]: Neque erti rii. ut Cornificius, meipsum docui.... Non est ergo ex eius sententia.... sludendum praeceplis eloquentiae ; quoniam eam cunctis natura ministrai aut negai. Si ultra ministrai aut spante, opera superflua et diligentia ; si vero negai, inefficax est et inanis. — C. 9, p. 29 [26]: Eo itaque opinionis vergit intentio, ut non omnes mutos faciat. quod nec fieri potcst nec expedit, sed ut de medio logicam tollal. — Ibid.. II, Praef., p. 62 [60]: Logica, quam. etsi mutilus sit et amplius mutUandus, Cornificius, parielem solidum eccoti more pal- pans, impudenter attemptat et impudenlius criminatur. — Ibid., IV, 25, p. 181 [192]: Sed Cornificius nosler, logicar criminator, phi- losophantium scorra, non immerito contemnetur. — Enthel., v. 61 ss. « Quum sit ab ingenio totum, non sit libi curae. Quid prius addiscas posteriusve legas ». Ilare schola non curai, quid sit modus ordove quid sit. Quam teneant doctor discipulusve viam [l’L, 199: 827, 828, 833 837, 857, 931, 966], 530) j \Jctal. I, 4, p. 20 [15]: Alii autem Cornificio similes ad vulgi professiones easque prophanas relapsi sunt; parum curantes quid phi- losophia doceat, quid appetendum fugiendumve denuntiet ; dummodo rem faciant, si possunt, recte ; si non, quocumque modo rem (Hor. Ep. 1, 1, 65[-6])....Evadebant illi repentini philosophi et cum Corni¬ ficio non modo trivii nostri sed totius quadruvii contemptores IPL, 199. 831], 531 ) Ibid., III, 3, p. 123 [128]: Sunt qui librum islurn (cioè le Ca- tegoriae), quoniam elementarius est, inutilem fere dicunt, et satis esse putant ad persuadendum se in diabetica disciplina et apodictica esse perfectos, si contempserinl vel ignoraverint illa, quae in primo com¬ mento super Porphirium anlequam artis aliquid attingatur docel Boe- lius praelegenda [PL nominato Reginaldo fosse per lo meno un rappresentante di questa tendenza 532 ), se non apparisse inutile, con tante lacune nella conoscenza delle fonti, presentare semplici congetture. Ma quale idea si fosse fatta lo stesso Giovanni della origine di siffatta opposizione alla logica sco¬ lastica, è stato già più sopra indicato, alle note 52 s. [§ 39. — Giovanni da Salisbury: a) i suoi studi: il « Metalogicus»]. — Ma così è venuto il momento di occuparci proprio di quello stesso autore, che già tante volte abbiamo finora dovuto usare quale fonte, cioè di Giovanni da Salisbury). Costui (morto nel 1180) aveva intrapreso lo studio della logica alla scuola di Abelardo, lo aveva proseguito presso il già ricordato Alberico, Roberto da Melun e Guglielmo da Conches, M2 ) È possibile che nella espressione sopra citala « laquco su- spendi!» (nota 525) si celi anche un’altra volta un giuoco di pa¬ role con Cornificius e carni/ex. V. upprcsso, nota 545, un altro giuoco di parole con cornicari. 693 ) Approfondite ricerche sopra Giovanni da Salisbury, dal punto di vista della storia letteraria, sono state presentate da Cristiano I’ETERSEN nella sua edizione dell’Uref/ietieus (Amburgo, 1843). La monografia, nella quale Ermanno Reuter (Johann von Salisbury : Zur Geschichte der christlichen Wissenschaft im 12. Jnhrhundcrl [G. da S. : Per la storia della scienza cristiana nel 12° Secolo], Berlino, 18 12) ha tentato di svolgere la dottrina di Giovanni, generalmente si risente dell’orientamento proprio dell’Autore, e che è tanto sbagliato quanto estremamente insufficiente. Una ricca esposizione della dot¬ trina stessa la dobbiamo a C. ScHAARSCHMIDT, Joh. Saresberiensis nach Leben und Studiai, Schriften und Philosophie [G. da S. ueda vitu e negli studi, negli scritti e nella filosofia] (Lipsia, 1862): ma le osserva¬ zioni ch’egli muove in questo suo libro (p. 303 ss.) contro il mio modo di vedere, non in’ inducono per nulla a modificare la mia opinione, che trova appoggio nelle fonti. — Le citazioni son fatte sulla base della edizione complessiva di A. Giles (Oxford 1848, in 8°, 5 voli., dei quali il 3° e il 4° comprendono il Policraticus, mentre il Metalo¬ gicus si trova nel 5°), sebbene tale edizione non sia adatto compiuta con diligenza, e sia particolarmente da rilevare conte essa, con la più assurda interpunzione, renda spesso difficile l’intelligenza del testo (le necessarie modificazioni ce le introduco tacitamente). [Qui sono aggiunti, per il Policraticus e per il Melalogicon, i rinvii alle più recenti ediz., curate dal Webb. e seguite in massima nella riprodu¬ zione dei testi]. poi entrò in relazioni scientifiche con Adamo' dal Petit- Pont, ascoltò di nuovo lezioni di dialettica presso Gil- lierto de la Porrée, di teologia presso Roberto Pulleyn [e Simon Pexiacensis], indi ritornò agli Abelardiani, che nel corso di quei vent’anni nulla avevano appreso e nulla dimenticato 534 ), e compose intorno al 1160 535 ) il suo Me- talogicus, dove principalmente espose le sue vedute rela¬ tivamente alla logica. Giovanni ha scritto, come dice egli medesimo, quest’opera sua soltanto a memoria, fretto¬ losamente e in breve tempo, dopo che da molti anni aveva interrotto i suoi studi di logica, e fu suo intento non già di comporre un commento che servisse a inse¬ gnare o a imparare, bensì essenzialmente di dimostrare la utilità della logica, contro gli attacchi che le erano stati mossi, e così difenderla 636 ). 534 ) Metal., II, 10, dove al passo citato più sopra (n. 521) fa se¬ guito (p. 79) [79]: Deinde.... [80] me ad gramaticum de Concilia trans- tuli, ipsumque triennio docentem audivi. Viene appresso il conte¬ nuto della precedente nota 522, e poi [82]: Reversus itaque.... repperi magistrum Gileberlum. ipsumque audivi in logicis et divinis ; sed nimis cito subtractus est. Successa Rodbertus Pullus, quem vita pariter et scienlia commendabanl. Deinde me excepit Simon Pexia¬ censis [J’issiacensis. Pisciacensis, cioè da Poissy: è lecito congettu¬ rare eon lo Wcbb che si tratti dello stesso Simone, di cui v. qui so¬ pra. nota 54].... Sed hos duos in solis theologicis habui praeceptores.... locundum itaque visum est veteres quos reliqueram et quos adhuc dia¬ betica detinebat in monte recisero socios, conferve cum eis super ambi- guilatibus pristinis, ut nostrum invicem ex collatione mutua commeli- remur profectum. Inventi suiti qui fuerant et ubi ; neque enim ad pal- mam visi sunt processisse. Ad quaesliones pristinas dirimendas neque propositiunculam unam adiecerant. — Ibid., Ili, 3, p. 129 [134]: Habui enim hominem (cioè Adamo dal Petit — Pont: v. la nota 441) familiarem assiduitate colloquii et communicatione librorum et coti- diano fere exercitio super emergentibus articulis conferendi ; sed nec una die discipulus eius fui. Et lamen Italico gratias, quod eo docente plura cognovi, plura ipsius.... ipso arbitro reprobavi [PL, 199, 868-9 e 899]. Cfr. inoltre la nota 54. 53ó) V. Petersen, loc. cit., p. VI e 73 ss. 63B ) Metal.. Prol., p. 8 [2]: Siquidem cum opera logicorum vehe- mentius tanquam inulilis rideretur, et me indignanlem et renitenlem aemulus cotidianis fere iurgiis provocare!, tandem litem excepi et ad.... cnlumnias.... studiti responderc.... [3] Placiti! itaque sociis ut hoc ip- sum tumultuario sermone dictarem ; cum nec ad sententias subtiliter . [b) punto di vista utilitaristico, alla maniera di Cice¬ rone. La divisione del sapere ]. — Per lui il punto di vista decisivo è quello della utilità, e per conseguenza dob¬ biamo già aspettarci di trovar in lui un eclettico, che procede assolutamente senza scorta di principii 537 ). Do¬ minato com’è anche lui dalla pratica tendenza utilitaria, si distingue dal suo avversario Cornifichi, soltanto per¬ chè non rigetta, come costui, la dottrina delle scuole, bensì vuole render pratica questa dottrina stessa; ma egli è filosofo tanto poco quanto Cicerone, con il quale si trova in intimo accordo. Anzi fa anche espressamente professione di aderire alla dottrina probabilistica di quella setta degli Accademici, ch’era caldeggiata da Cicerone 63S ), e per conseguenza trova nella utilità pratica il fine unico di ogni scienza 539 ). In tal senso si esprime circa il pe- examinandas nec ad verbo expolienda studium supcresset aut otium.... (p. 9) Nam ingenium hebes est et memoria infidelior quarti ut anti¬ quorum (v. le note 55 ss.) subtilitates percipere aut quae aliquando percepta sunt diutius valeam retinere.... Et quìa logicae suscepì patro - cinium. Metalogicon inscriptus est liber. Praef. p. 113 [117]: Anni fere vigilili elapsi sunt ex quo me ah officiai» et palaestra eorum qui logicam profitrntur rei jamiliaris avulsit angustia.... Unde me excusaliorem habendum pillo in bis quae obtusius et incultius a me dieta leclor internet. Ergo procedat oratio. et quae anliquatae occurrent memoriae de adolescentiae sludiis, quoniam io- cunda aetas ad menlem reducilur ctc. — III, 10, p. 156 [164]: ....prò- positura est ; scilicet, ut potius aemulo occurratur, quarti ut in artes, quits omnes docenl aut discunt, commentarli scribantur a nobis TP!, 199: 824, 889-90, 916], 1 ’ 537 ) Reuter s’inganna a partito, quando parla di un « superiore punto di vista filosofico», che Giovanni avrebbe assunto, elevandosi al disopra degl’ indirizzi allora contrastanti. ) I olycr., I, Pro!., p. 15 [1. 17] : [cum]....in phitosophicis academice disputane prò ralionis modulo quae occurrebant probabilia sectatus sim. Nec Academicorum erubesco professionem. qui in bis quae sunt dubilahilia sapienti, ab eorum vestigiis non recedo. Licei enim seda haec tenebras rebus omnibus videalur inducere, nulla ventati exami- nandae jidelior et, auctore Cicerone qui ad eam in senectute divertii, nulla profectui familiarior est. — Metal., II, 20, p. 102 [106]: qui me in bis, quae sunt dubitabilia sapienti, Academicum esse pridem pro/cssus sum [PL, 199: 388 e 882|. 63 ") Metal., Eroi., p. 9 [4]: De moribus vero nonnulla scienter inserui ; ratus omnia quae legiintur aut scribunlur inutilia esse, nisi dantesco verbalismo e la sottigliezza dei dialettici, fa¬ cendo uso di termini così energici, che il più sistematico nemico della logica in generale, non potrebbe pronun¬ ziarsi con maggiore veemenza 54 °); anzi persino in quelle discettazioni sopra le Categorie, alle quali il suo maestro Gilberto s’era dedicato, egli trova, pur essendo per molti lati d’accordo con lui (v. appresso le note 582 ss., 593 ss. e 606 ss.), da criticare tuttavia qualche cosa, che possa cioè scapitarne la conoscenza morale di noi stessi 5U ) : e trascinato dal suo zelo per la teologia morale, qualifica la logica aristotelica, che pur vuole difender contro chi l’attacchi, con il termine aslutiae, che siamo abituati a veder usato dai nemici fanatici della filosofìa 542 ). quatenus afferunl nliquod adminiculum vilae. Est enirn quaelibet pro¬ fessi philosophandi inutili et falsa, quae se ipsam in cultu virlulis et vitae exhibitione non aperit [PL, 199, 825]. MO) Polycr., VII, 9, p. 110 [II, 123]: Suspice ad moderatores phi- losophoruni temporis nostri....; in regula una aut duobus aut pauculis verbis invenies occupalos. aut ut mullum pauculas quaesliones aplas iurgiis elegerunt, in quibus ingenium sutim exerceant et consumatit aetatem. Eas tamen non sufficiunt etwdare, sed nodum et tolam ambi- guitatem cum ititricntione sua per auditores suos transmittunt posteris dissolvendum.... Latebras quacrunt, variant faciem, nerba distor- quenl,... si in eo perstiteris, ut quocumque verbo defluant et volvan- tur. quid velit, intelligas et quid sentiat [II, 124] in tanta varietale varborum, et tandem vincietur sensu suo et capielur in verbo oris sui, si substantiam eorum quae dicunlur attigeris firmiterque tenueris. — lbid., 12, p. 122 [II, 136]: Erranl ulique et impudenler errant qui philosophiam in solis verbis consistere opinantur ; erranl qui virtutem verbo putant.... Qui verbis inhaerent, malunt videri quam esse sapien- tes.... [II, 137] quaestiuneulas movent, intricala verbo ut suum et alie- num obducant sensum, paratiores ventilare quam examinare si quid difficultalis emersit [PL, 199, 654 e 662]. Inoltre, la precedente nota 58. 511 ) Jbid., Ili, 2, p. 164 [I, 174]: Inde est forte quod illi, qui prima totius philosophiae elemento posteris tradcre curaverunt, substantiam singulorum arbitrati sunl intuendam, quantilatem, ad aliquid. quali- totem, situai esse, ubi, quando, habere, facete, et pati, et suas in omnibus his proprietates, ari intcnsionem admittant, et susceptibilia sint con- trariorum, et ari eis ipsis aliquid invenialur adversum (queste ultime son tutte questioni discusse appunto da Gilberto: v. le note 489-509 [507]). Provide quidem haec et diligenter, etsi in eo negligentiores exsti- terint. quod sui ipsius notitiam in tanta rerum luce non asseculi sunt etc. [PL, 199, 479]. 5! -) Jbid., IV, 3, p. 227 [I, 243]: Astutias Aristolilis, Crisippi acu- Ma se cerchiamo quindi di scoprire quale sia la posi¬ zione che Giovanni assegna alla logica, dal punto di vista di un ordinamento sistematico, vediamo una volta, relativamente alla divisione delle scienze, accennato da lui un tono fondamentale, che ci ricorda molto da vi¬ cino Ugo da S. Vittore (note 45 s.), designandosi come forze ancillari, sotto la sovranità della divina pagina, le discipline meccaniche, teoriche e pratiche, e con esse la filosofia che erige il saldo baluardo 543 ) : e a tal propo¬ sito è degno di nota che anche da Ugo il compito della logica è trasferito nel perfezionamento della espressione verbale. E quando un altra volta, tenendosi attaccato, nella maniera più lampante, a Gilberto (nota 465), Gio¬ vanni distingue ima triplice funzione della ratio, — in quanto che l’uso concreto di questa (modus concretivus) è rivolto alla natura sensibilmente percettibile, Tatti- vita astrattamente analitica ( resolvere ) conduce alla mate¬ matica, e la comparazione riferente (conjerre et rejerre) è compito della logica 544 ), — già da ciò desumiamo l’at¬ titudine di Giovanni ad afferrare a capriccio opinioni varie di altri, e a metterle ancora, ecletticamente, una accanto all’altra. mina, omniumque philosophorum lendiculas resurgens mortuus con- futabat. - Metal., Ili, 8, p. 141 [147]: Pithagoras naluram exculit, Socrates morurn praescribit normam, Plato de omnibus persuader, Ari¬ stotile* argutias procurai [PL, 199. 518 e 906], Cfr. la nota 560.,,J3 ) Enthet., v. 441 ss.: Ilaec scripturarum regina vocalur, eandem Divinam dicunt.... Haec caput agnoscil Philosophia suum ; Huic omnes artes famulae ; medianica quaeque Dogmala, quac variis usibus apio videi, Quae jus non reprobai, sed publicus approbat usus, Iluic operas debent militiamque suam ; Practicus buie servii servitque theoricus; arcem Imperli sacri Philosophia dedii [PL, 199, 971-5]. Riguardò a Ugo, cfr. più oltre la nota 555. 64 ‘) Ibid., v. 659 ss.: Res triplici spedare modo ratio perhibetur, Nec quartum poluit meni reperire modani ; Concretivus hic est, alius concreta resolyit, Res rebus confert tertius atque refert ; Naluram pri- mus, mathesim medius comilatur, Vindical extremum logica sola sibi  [c) punto di vista retorico, come in Cicerone. Gramma¬ tica e dialettica ]. — Ma invero per la logica il punto di vista propriamente eclettico è il punto di vista retorico, perchè questo si libera di tutte le difficoltà che si possono presentare nelle questioni filosofiche fondamentali: e così anche Giovanni è esonerato dalla fatica di decidersi per ima data concezione filosofica, a preferenza delle altre. Senza determinare più precisamente il posto della logica nel campo delle scienze, nè discutere in base a una qual¬ siasi veduta, pur che fosse una e ben definita, la relazione del pensiero subbiettivo con la obbiettività o con la for¬ ma della espressione verbale, egli può qui accontentarsi di opporre ai nemici della logica, sfoggiando una ricca colorita varietà di frasario, e traendo partito dalla so¬ lita tradizione scolastica, il concetto e il valore della « eloquentia» 64S ). La maniera in cui il pensiero si atteggia rispetto alla espressione verbale, è qualificata mercè un fioretto retorico, parlandosi di un « dolce e fecondo con¬ nubio» della ragione e dell’eloquio 546 ), nè diverso va¬ lore ha l’altra frase, che cioè le proprietà delle cose « ri¬ dondano» nelle parole: e data l’affinità che sussiste fra le cose e ciò che di queste si dice [.sermones] (lo stesso 5Ji ) Melai.. I, 7, p. 24 [21]: Cornicatur haec domus insulsa (suis tamen verbis ) et quarti constai totius eloquii contempsisse praecepta.... [22] Ait cairn : Superflua sunl praecepta eloquentia, quoniam ea na- turaliler adest aut abest (nota 529). Quid, inquarti, falsius ? Est enim. eloquentia facullas dicendi commode quod sibi cult animus expediri.... (p. 25) Ergo cui facilitas adest commode exprimendi verbo quidem quod sentii, eloquens est. Et hoc faciendi jacultas rectissime eloquentia no- minatur. Qua quid esse praeslantius possit ad usum, compendiosius ad opes. fidelius ad gratinai, commodius ad gloriam, non facile video [PL. 199. 834]. M6) lbid., I, 1, p. 13 [7]: Ratio, sciattine virlutumque parens..., quae de verbo frequentius concipil et per verbum numerosius et fructuo- sius parit, aut omtrino sterilis permanerei aut quidem infecunda, si non conceptionis eius fructum, in lucem ederet usus eloquii; et invicem quod sentii prudens agitano mentis hominibus publicaret. Haec autem est illa dulcis et fructuosa coniugatio rationis et verbi, quae etc. [PL si legge in Abelardo — cfr. la nota 308 —, e qual¬ che cosa di simile in Gilberto — cfr. la nota 457), si tratterebbe semplicemente di possedere in mente una quantità di cose, e in bocca una quantità di parole 547 ). Insomma per Giovanni il punto di vista più essenziale è rappresentato dalla consistenza dei mezzi, che s’ab- biano una volta a disposizione, appropriati per la manife¬ stazione del pensiero con il discorso, e pertanto la « lo¬ gica nel significato più esteso» della parola, è da lui defi¬ nita in termini ciceroniani come ratio loquendi vel disse- rendi, onde è di sua competenza l’addestramento all’uso del discorso (magisterimn sermonum): e qui essa, mentre da un lato rivela la propria utilità, dall’altro lato tiene anche il primo posto fra le arti liberali, poiché in quella più vasta accezione comprende anche la sfera della gram¬ matica 548 ). Ma mentre con ciò si renderebbe tuttavia manife¬ sta la esigenza di una più rigorosa determinazione, in ordine a questa estesa definizione, della relazione reci¬ proca tra grammatica e logica (cfr. subito appresso la ) Ibid., 16, p. 42 [39]: Natura enìm copiosa est et ubertatis suae pratiam Immotine mdigentiae facit. Inde ergo est, quod [401 prò- pnetas rerum redundat in voces, dum ratio offertat sermone, rebus de quibus loquUur esse cognatos. — Polycr., VII, 12, p. 124 fll. 1391 - A telili cairn utilius, nichil ad gloriam aut rcs adquirendas com'modius inventati quam eloquenza quae ex eo plurimum comparatile si rerum ln r re copia sit ver,l ° rum fPL, 199, 845 e 6631. etuTrìJ, 1 ': 10 ’ P ‘ w 8 - [ 2 J ]: Est ita ^ e lo * ica '  ). Ma poiché ciascun’argomentazione o disputa consiste di espressioni verbali, si la ora la distinzione — in maniera simile che in Abelardo (nota 271), e tenuto conto di que¬ sta definizione più ristretta (cfr. invece la nota 548) — fra la grammatica, che tratta soltanto della dictio, e la dialettica, che ha per oggetto e contenuto i dieta : ma a tal proposito, con atteggiamento di puro indifferenti¬ smo, si qualifica come irrilevante la questione se si tratti qui del profferire, o di quello che vien profferito 556 ). E mentre Giovanni a ciò novamente ricollega la parci- secundo super Porphirium asserii (p. 47 [PL, 64, 73; ed. Brandt, 140]), est orlus logicai disciplinae. Oporluit enim esse scientiam quae veruni a falso discerncret. et doceret quae ratiocinatio veram te- neat similari i disputarteli, quae verisimibm, et quae fida sit, et quae debeat esse suspecta ; alioquin veritas per ratiocinantis operam non po¬ terai diveniri. — I, 15, p. 41 [39]: Diabetica autem id dumtaxalac¬ centai. quoti verum est aut verisimile, et quicquid ab his longius dissi- det ducil absurdum [PL. 199: 857, 858 e 844]. 5M) ihid.. II, 3. p. 65 [64]: Profecta igitur hinc est et sic perfecta scientia disserendi ; quae disputandi modos et rationes probationiim aperit...; aliis philosophicis disciplinis posterior tempore, seti ordine prima (parimente Ugo da S. Vittore, nota 46: e cfr. la nota 543). Inchoanlibus enim philosophiam praelegenda est, eo quod vocum et intellectuum inlerpres est. sine quibus nullus philosophiac articulus recte procedil in lucern [PL, 199, 859]. 5M ) lbid., 4. p. 67 [65] : Est autem diabetica, ut Angustino placet (v. la Sez. XII, nota 30), bene disputandi scientia.... Est autem dis¬ putare, aliquid eorum, quae dubia sunt aut in [66] contradictione po¬ sila aut quae sic rei sic proponunlur catione supposita probare rei irn- probare ; quod quidem quisquis ex arte probabiliter facit, ad dialectici pertingil metani. Hoc autem ei nomea Aristotiles auctor suus impostili, eo quod in ipsa et per ipsam de diclis disputatile : ut enim grama- tica de diclionibus et in dictionibus. teste Ilemigio (Sez. precedente, nota 172), sic ista de dictis et in diclis est. Ilio verbo sensuum P rln ~ cipaliter : sed linee examinat sensus verborum ; nani lecton [aev. .ov] graeco eloquio (sicut ait Isidorus) (Sez. precedente, nota 27) dietum appellalur. Sire autem dicatur a Graeco lexis [>.£''.;], quod locutio interpretalur.... site a lecton [)£Xt6v], quod dietum nuncupatur. non multum refert ; cum ex aminare loculionis vim et eius quod dicitur ve- ritalem et sensum. idem aut fere idem sit ; vis enim verbi sensus est. — III, 5, p. 137 [142]: Est autem res de quo aliquid, dicibile quod de aliquo, dictio quo dicitur hoc de ilio : e a ciò fan seguito le parole sopra citate, alla nota 207 [PL. zione delia logica, venuta in voga nella scuola, da Boe¬ zio in poi 537 ), la conoscenza ch’egli ha di Aristotele, lo porta in pari tempo a distinguere tra apodittica e dia¬ lettica: in tale distinzione tuttavia, neanche la prima delle due reca in se stessa una propria interna finalità, bensì rimane pur sempre come cosa essenziale la utilità della logica, così divisa, nella sua totalità 558 ). [d) conoscenza compiuta . 66 [64]: Pro co namquc logica dieta est. quod rationalis, i. e. rationum ministraloria et examinalrix est. Divisti eam Plato in dialeclicam et rethoricam ; sed qui efficaci am eius altius me- tiuntur, et pitica attribuunt. Siquidem ci demonstrativa. probabilis et sopii'stira subicmntur, ecc., in piena conformità con Boezio (v. in Sez. XH, nota 82). Così pure 5, p. 68 [67]: Demonstrativa. pro- babilis, et sophistica, omnes quidcm consistimi in inventione et iudicio, et itidem dividentes, diffinientes, et colligentes, domestici rationibus utuntur : v. ibid. la nota 76 [PL, 199, 859 e 861], yotq Uiid.. II, 14, p. 85 [87]: Principia inique dialecticae proba- bilia sunt ; sicut demonstralivae necessaria . — III, IO, p. 152 [160]: Sophisma est sillogismus litigatorius ; philosofimn vero, demonstrativus ; argumentum aulem. sillogismus dialecticus ; sed aporisma (v. la Scz. IV, nota 33), sillogismus dialecticus contradictionis. Horum omnium necessaria estcognitio, et in facultatibus singulis perutilis est exercilalio. — p. 154 [162]: Sic simrum instrumentorum necessc est logicum expe- dilam habere faciillatem, ut scilicet principia noverii. probabilibus habun- too et inducendi omnes ad manum habeat rationcs [PL iiosce più gli scritti logici parzialmente, e soltanto per sen¬ tito dire, è da lui qualificato come vero duce (campiduc- tor) di tutti gli studiosi di logica, e in ogni caso, sebbene con le riserve dovute all’autorità della fede cristiana e della teologia morale, come maestro dell’arte di dispu¬ tare 559 ): al ciceroniano Giovanni, cioè, manca natural¬ mente il senso dell’ intimo valore filosofico della logica aristotelica, nella quale scorge invece soltanto una tecnica estrinseca: e perciò è anche sua opinione — questo ci fa ricordare la espressione su ricordata (nota 542) « astu- tiae» — che Aristotele mostri maggior vigore nella po¬ lemica contro altri, che non nella costruzione positiva della sua propria dottrina 58 °). Prese le mosse dalla tesi che la logica, come tecnica dei discorsi ( sermones ), comprendendo inventio e iudicium (Sez. XII, nota 76), è lo strumento di tutte le discipline, per la quale ragione appunto Aristotele si è meritato di essere soprannominato « il Filosofo » 581 ), Giovanni con- 559 ) Ihid., Ili, 10, p. 147 [154]: Rei rationalis opifex et campi- doctor (Giles legge campi doctor [PrantJ, campiductor ]) eorum qui lo- gicam profitentur. Campidoctor (come sopru) itaque Peripateticae disciplinae, quae prae ceteris in veritatis indaga- lione laboret, infelicem summam operis dedignatus, taluni compqnil (allusione a Hor. Ars poet., v. 34); cerlus quoti cuiusque operis per- fectio gloriam sui praeconalur aucloris. — IV, 23, p. 180 [190] : Sicul optimus campidoctor (qui anche il Giles dà la lezione corretta [ campiductor ]) hunc ad infcrendam pugnimi, illum inslruit ad cau- telam. — 27, p. 183 [193]: Nec tamen Aristotilem ubique bene aut sensissc aut dixisse protestar, ut sacrosanctum sit quicquid scripsit. Nam in pluribus [194], optinente ratione et auctoritatc fidei, con- vincitur errasse . linde sic accipiendus est, ut ad promovendos iu- vrnes ad gravioris philosophiae instituta doctor sit, non morum sed disceptaiionum [PL, 199: 910, 915-6, 930, 932], 5 ““) Ibid., III, 8, p. 141 [147]: Aristotilem prue ceteris omnibus tam aliae disserendi ratiocinationes quam diffiniendi titulus (cioè il contenuto del 6° Libro della Topica) illustrarci, si tam patenter astrarrei propria quam potenter destruxil aliena [PL, 199, 906], M1 ) Enlhel., v. 821 ss.: Magnus Arisloleles sermonum possidet artes Et de virtutum culmine nomen habvt. Judicii libros componil et inve- niendi Vera, facultales tres famulantur ei; Physicus est moresque docet, sed logica servii Alidori semper officiosa suo ; Haec illi nomen proprium Jacit esse, quod olim Donai amatori sacra Sophia suo ; Nam qui prae - sidera l’intiero Organon in una maniera che perfetta¬ mente si accorda con il modo di pensare di Abelardo (note 271 ss.); Aristotele cioè avrebbe ricevuto dalle mani dei grammatici la semplice vox significativa, della quale avrebbe preso a trattare nelle Categorie, in tal guisa che essa possa poi (De Interpretatione) venire considerata come elemento della complessa struttura del giudizio, e a ciò possa far seguito Io svolgimento di quanto si attiene alla inventio e al iudicium ; la Isagoge compilata da Porfirio [per introdurre] alla prima di queste parti principali, ap¬ partiene al tutto, proprio soltanto quale introduzione, e non si deve, come si suole da molti (note 56 ss.), farne per così dire la cosa principale 562 ). Così però si opera nell’Organon anche una nuova di¬ visione in due gruppi principali, in quanto che la Isa¬ goge, le Categorie e il De interpr. posson valere solamente da gradi preparatorii (praeparaticia artis), essendo tali libri ad artem, piuttosto che de arte, laddove la tecnica vera e propria, nella quale la inventio e il iudicium tro¬ vano la loro piena esplicazione, si presenta nelle tre opere celiò, liluli communis honorem Vindicat. — Metal., II, 16. p. 88 [90]: fìrnnes se Aristotilis adorare vestigio gloriantur ; adeo quidem, ut communi' omnium philosophorum nomea praeminentia quadam sihi proprium fecerit. Nam et antonomasice, i. e. excellenter. Philo- sophus appellatile [PL, 199: 983 c 873], 562) jVf e (a/., II, 16. p. 89 [90]: Ilic ergo (cioè Aristotele) proba- bilium rationes redegit in artem et, quasi ab dementis incipiens, usque ad propositi perfectionem evexit. Hoc autem pianura est his qui scru- tantur et diseutiunt opera cius. Voces enim primo significativas. i. e. sermones incomplexos, de gramolici menu accipiens, differentias et vires eorum diligenler exposuit, ut ad complexionem enuntiationum et inveniendi iudicandique scientiam facilius qccedant. Sed quia ad lume elementarem librum magis elementarem quodammodo scripsit Por- phirius, eum ante Aristotilem esse credidii antiquitas praelegendum. Recte quidem, si recte doceatur ; i, e. ut tenebras non inducal [91] eru- diendis nec consumai aetatem,,.. linde quoniam ad aliu introduclo- rius est, nomine Ysagogarum inscribitur. Itaque inscriptioni dero- gant qui sic versantur in hoc, ut locum principalibus non relinquant [PL, principali: Topica, Analitici e Soph. Elenchi 563 ). Ma pro¬ prio per rispetto alla inventio e al iudicium, risulta di nuovo un altro punto di vista da adottar quale princi¬ pio della partizione, in quanto che la Topica, insieme con i libri precedenti, riguarda prevalentemente e fon¬ damentalmente la inventio, laddove alla stessa maniera Analitici e Soph. El. debbono servire al iudicium ; tut¬ tavia neanche si potrebbe daccapo mantenere rigorosa¬ mente questa partizione (della quale poi non sappiamo davvero perchè in generale sia stata assunta come fon¬ damentale), perchè alla inventio contribuiscon pure gli Analitici e i Soph. El., e viceversa anche la Topica giova al iudicium 564 ). D’altra parte, oltre a tutto ciò, troviamo che Giovanni, per far intendere che cos’è l’Organon, uti- M3 ) Dopo che cioè nel lib. Ili, cap. I, del Metal, si è trattato della Isagoge, nei cap. 2 e 3, delle Categorie, c nel cap. 4, del De in- terpr., al principio del c. 5, p. 134 [139] si legge: Artis praeparalitia praecesserunl, ad quam suus opifex et quasi legislator rudem omnino tironem irreverenter el, ul dici- solet, illotis manibus non censuit ad- mittendum.... Utilissima quidem sunt et, si non satis proprie dican- tur esse de arte, satis vere dicuntur esse ad artem : parum autem refert, si magis dicatur ari sic. Ipsum itaque quodammodo corpus artis, de- ditctis praeparatiliis, principaliter consistit in tribus ; scilicet Topi- corum. Analeticorum. Elenchorumquc notitia; his enim perfecte co- gnitis, et habitu eorum per usum et exercilium roboratis, inventionis et iudicii copia suffragabitur in omni facultate tam demonstratori quam dialectico et sophistae [PL, 199, 902]. M4 ) Ibid., IV. 1, p. 157 [165]: Unde cum inventionis instrumenta procurasset et usum. quasi in conflatorio setlens, examinatorium quod- dam studuit cadere, quo diligentissima fieret examinatio rationum. Ilic autem est Analeticorum liber, qui ad iudicium principaliter spe¬ cial, et lanieri ad inventionem aliquatcnus proficit. Nani [166] disci- plinarum omnium connexae sunt rationes, et qucelibel sui perfectio- nem ah aliis mutuatur. — III. 5, p. 134 [139]: Scientia Topicorum. quae, etsi inventionem principaliter instruat, iudiciis tamen non me- diocriler sujjragatur.... Siquidem sibi invicem universa contribuunt. coque in [140] proposito facultate quisque expeditior est, quo in vicina el cohaerente instructior fueril. Ergo et tam Analetice quam Sophistica conferunt inventori, et Topice itidem conducit indicanti ; facile tamen adquieverim singulas in suo proposito dominari et accessorium esse beneficium cohaerentis. — IV, 8, p. 164 [173]: Licei ad iudicium ma¬ xime dicatur hacc scientia (se. demonstrativa) pcrtinere, invenlioni tamen plurimum conferì [PL izza una similitudine, e compiutamente la svolge, fa¬ cendo corrispondere alle lettere dell’alfabeto le Categorie, e alle sillabe il libro De interpr. 56S ); fa poi seguito la To¬ pica, che rappresenta la parola (dictio) e v’incliiude la col- leclio degli elementi 566 ) : e ciò anzi in tal guisa, che, pro¬ cedendo lo sviluppo nel senso di una costante ascesa, a fondamento di tutta quanta la logica stia il primo libro della Topica 567 ), e cosi poi il libro ottavo corrisponda alla connessione della proposizione ( constructio, espressione di Prisciano — cfr. la nota 273), ond’è proprio questo il libro, in cui si dà la scalata al punto culminante della logica, ed esso, al paragone di tutta la letteratura mo¬ derna (dei moderni : v. le note 55 ss.), dev’essere quali¬ ficato come lo scritto di gran lunga più utile 588 ). Gli Ana- 5C5) Jbid., Ili, 4, p. 130 [135]: Libcr Pcriermeniarum, vel potius Periermenias (v. la Sez. precedente, nota 33), ratione proporlionis sillabicus est, sicul Praedicamenlorum elementarius ; nam dementa ralionum, quae singulatim tradii in sermonibus incomplexis. iste col- ligil, et in modum sillabae comprehensa producit ad veri falsiquc si- gnijlattionern. Tantae quidem subtilitatis est habitus ab antiquis, ut in praeconium eius celebralum ferat Isidorus (v. ibid. la nota 34), quia Aristotiles, quando Periermenias scriplilabat, calamum in mente tinguebat [PL, 199, 899]. _ 66r >) Ibid.. 6, p. 137 s. [143]: Sicul autem elementarius est Praedi- camentorum, Pcriermeniarum vero sillabicus, ila et Topicorum liber quodammodo dictionalis est. Licei enim in Periermeniis agatur de simplici enunliatione, quae ulique veri falsine dictio est, nondum to¬ rnea ad vim colligendi pertingit, nec illud assequilur. in quo dialecll- ces praecipua opera versalur. Ilic vero prirnus est in rationtbus ex pii- candis, doctrinamquc facit localium argumentationum, et sequcntium complexionum pandit initia ]PL, 199, 904]. _ 567 ) Ibid., 5, p. 135 [140]: Odo quidem voluminibus clauditur, fiuntquc semper novissima eius potiora prioribus. Primus autem quasi materiam praeiacit omnium reliquorum [141] et lolius logicae quae- dam conslituit fundamenta [PL, 199, 903]. 56S ) Ibid., 10, p. 147 [154]: Arma lironum siiorum locami m arena, dum sermonum simplicium significationem evolverei et ilem cnunlia- tionum locorumque naturam aperiret.... Ut autem praemissae simili- tudinis sequamur proporlionem, quemadmodum Categoriarurn clcmen- tarius, Pcriermeniarum syllabicus, proemiasi Topici dictwnnles libri sunt ; sic Topicorum octavus constructorius est ralionum, quorum eie- menta vel loca in praecedentibus monstrala sunt. Solus itaque versatur in praeceptis, ex quibus ars compaginatur, et plus confort ad scientiam  litici Primi, che si riattaccano a quel libro stesso, ven¬ gono, con l’aggiunta di una barbarica interpretazione [etimologica] del titolo (cfr. la nota 23 e la Sez. prece¬ dente, n. 288), lodati bensì parimente per la loro utilità, ma nello stesso tempo criticati tuttavia per la sterile loro forma, poiché non soltanto si trova lo stesso contenuto svolto altrove (cioè evidentemente in Boezio, de syll. cat. e Introd. ad syll. cat.) in forma molto più facile e pene¬ trante, ma ancora perchè quell’opera, in generale, con il suo stile conjusus e inintelligibile, è poco meno che inser¬ vibile per dare all’argomentazione il suo apparato este¬ riore (ad phrasim instruendam) : e però ci si doveva limi¬ tare a imparar a memoria le regole in essa contenute (dunque press’a poco alla stessa maniera che troviamo in Boezio, loc. cit. [direi che si riferisca alla nota 77 della Sez. XII, richiamata nella nota — o, più precisa¬ mente, al seguito del testo corrispondente, dove si parla di Boezio, come del primo autore di una logica, indiriz¬ zata all’unico intento di far entrare un certo numero di regole nelle teste dei più stupidi]), ma il rimanente si poteva lasciarlo da parte, come loppa o foglie secche 589 ). disserendi, si memoriter habeatur in corde... .quam omnes fere libri dialecticae, quos moderni patres nostri in scnlis legere consueverant ; nani sine eo non disputatile arte., sed casu [PI]. 60 °) Jbid.. IV, 2, p. 158 [166]: Analeticorum quidem perutilis est scienlia, et sine qua quisquis logicam profitetur, ridiculus est. Ut vero ratio nominis exponatur, quam Graeci Analeticen diclini, nos possumus Rcsolutoriam appellare (questo è un pensiero che Giovanni ha preso da Boezio : v. la Sez. XII, nota 77), familiarius tamen assi- gnabimus. si dixerimus aequam locutionem; nam illi anu « acquale », lexim « locutionem » dicunl. Frequens autem est, cum sermo parum est inlellectus, et eum in notiorem resolvi desideremus aequivalenter ; unde et interpres meus (probabilmente uno o l’altro di que’ due tradut¬ tori, che abbiamo trovati più sopra, note 32 s.), cum verbum audi¬ rei ignotum, et maxime in compositi », dicebat « Analetiza hoc » quod volebat aequivalenter exponi . Ceterum, licei necessaria sit dottrina, liber non eatenus necessarius est ; quicquid enim continet, alibi faci - lius et fidelius traditur, sed certe verius aut forlius nusquam. Siquidem et ab invito fidem extorquel.... Porro exemplorum confusione et tra- iectione litterarum quas tuoi de industria, tum causa brevilatis, tum E se è opinione di Giovanni che questa incomprensibi¬ lità si manifesti per es. particolarmente neU’ultimo capitolo degli Analitici Primi (Sez. IV, note 649 s.) 57 °), lo stesso biasimo è da lui rivolto anche contro tutti quanti gli Analitici Secondi, soltanto con raggiunta, che una parte di colpa ce l’ha forse la traduzione 571 ). Invece il ciceroniano Giovanni si trova ora di nuov o, da buon retore, nel suo elemento, con i Soph. Elenchi, che pertanto, staccati dalla Topica, egli colloca alla fine del- l’Organon; dice che nessun altro libro è più utile di que¬ sto per la gioventù, e com’esso porge il più grande ausilio per la retorica (ad phrasin), così va preferito anche ai due Analitici, perchè promuove, in maniera più facil¬ mente intelligibile, la eloquentia, cioè la espressione del pensiero mediante la parola). Ma dalla Topica ne falsitas alicubi cxemplorum argueretur, interseruit, coleo confusus est, ut cum magno labore co perveniatur, quoti faciliime tradì potest. Sicut autem regulae utiles sunt et necessariae ad scientìam, sic liber fere inutilis est ad frasim instruendam, quam nos verbi supellectilem possumus appellare.... Ergo scientia memoriter est firmando, et verbo pleraque excerpenda sunt ; ....quac alio commode transferunlur et quorum potest esse frequentior usus. Reliquae coae- quantur foliis sine fructu, et oh hoc aut calcantur aul sua relinquuntur in arbore. (Qui fa seguito il passo citato più sopra, nota 20). — Ibid., HI, 4, p. 132 [137]: Sunt autem pleraque quae, si a suis avellas sedi- bus, aut nichil aul minimum sapiunt auditori; qualia fere sunt omnia Analelicorum exempla, ubi litterae ponunlur prò terminisi quae, sicut ad doclrinam profìciunt.. sic tracia alias inutilia sunt. Regulae quo¬ que ipsae, sicut plurimum vigorie habent a veritate doclrinae, sic in commercio verbi minimum possunt [PL, 199, 916-7 e 900-11. 67 °) Ibid., IV, 5, p. 162 [170]: Postremo agii de cognitione natu- rarum. Grande quidem capitulum et quod, licei aliqualenus propo¬ sito conferai, fidem tamen prom issi nequaquam irnpìet. Unum scio, me huius capituli beneficio neminem in cognitione nalurarum vidisse perfectum [PL, 199, 919], Il passo è stato citato di già più sopra (nota 27). E72 ) Metal., IV. 22, p. 178 s. [188]: Sophisticam esse dicium est, quae falsa imagine tam dialecticam quam demonslralìvam acmulatur, et speciem quam virtulem sapientiae magis affettai.... Opus quidem dignum Aristotile et quo aliud magis expedire diventati non facile dixerim .... Frustra sine hac se quisquam [189] gloriabitur esse philo- sophum; cum nequeat cavere mendacium aut alium deprehendere men- lientem.... Unde et ad frasim eoncilìandum et totius philosophiae in- [di Aristotele], che contiene proprio il fondamento della logica, sono scaturiti i rispettivi scritti di Cicerone e di Boezio, come pure il libro di quest’ultimo De divi¬ sione (su questo punto non c’è dubbio che Giovanni ha perfettamente ragione), il quale tra le opere di Boezio occupa un posto particolarmente eminente 573 ). [e) la « ratio indijjerentiae » come indifferentismo scien¬ tifico]. — Con questo ci siamo ora perfettamente orien¬ tati riguardo al punto di vista di Giovanni, e in esso ravvisiamo certo con buon fondamento un’accentuazione di quella, che Abelardo aveva chiamata (nota 267) elo- quentia Peripatetica ; e se nel rispetto filosofico già in Abelardo aveva prevalso una conciliazione inorganica di opinioni opposte, anche questo può ripetersi in più alto grado per Giovanni. È in verità un atteggiamento coe¬ rente il suo, quand’egli, stando con l’attenzione rivolta in modo esclusivo alla eloquenza dell’argomentazione, va in cerca persino di una formula determinata, con cui elevarsi a tutta prima al disopra di quante difficoltà po¬ trebbero esser riposte in una salda posizione filosofica, che fosse assunta nel contrasto fra le tendenze. Questa formula è la sua« ratio indijjerentiae », vale a dire il pro¬ cedimento del perfetto indifferentismo. Egli cioè anzitutto, trattandosi della conoscenza delle cose che posson essere oggetto dei discorsi (rerum praedicamenlalium : v. appresso vesligationes sophisticae exercitatio plurimum prodest ; ita tamen ut veritas, non verbositas, sit huitis excrcilii fructus. — 24, p. ] 81 [191]: In eo autem michi videntur (se. Elenchi ) Analelicis praejerendi, quod non minus ad exercitium conferunt et faciliori intellectu eloquenliam promovent [PL, 199, 929-30], 57a ) Ibid.. Ili, 9, p. 145 [152]: Qui vero librum hunc (cioè la To¬ pica aristotelica) diligentius perscrutatur, non modo Ciceronis et Boetii Topieos ab his septem voluminibus (cioè dai primi sette libri) erulos deprehendet. sed librum Divisionum, qui compendio verborum et eleganlia sensuum inter opera Boetii, quae ad logicam spectant, singularcm gratiam nactus est [PL, e dei discorsi stessi (sermonum), richiama l’attenzione sopra la molteplicità di significato a cui i discorsi si prestano, e osserva che questi all’epoca di Ari¬ stotele potevano avere un significato diverso, perchè in¬ vero, secondo la sentenza oraziana, le parole van via scor¬ rendo in continuo mutamento, e solamente 1’ uso le fissa a questo o quel modo 574 ). E sebbene ora si conceda che, a parità di significato, la terminologia degli antichi sia più degna di reverenza, che non quella dei moderni 57S ), in linea di principio tuttavia l’uso è più potente che non sia lo stesso Aristotele: e perciò, in quanto venga in que¬ stione la verità di fatto nella sua obbiettività, e con essa il senso reale delle parole, ben possono anche sacrificarsi l’espressioni verbali, mentre d’altra parte, fin che la cosa sia soltanto ammissibile, si può conservar insieme, del- 1 antica dottrina, e la lettera e l’intimo significato 576 ). S71 ) Ibid., 3, p. 128 [133]: Profecto rerum praedicamentalium et sermonum pcrulilis est notitia.... Et quia multiplicitas sermonum ple- rumque inlelligentiam claudit, quoliens dicatur unumquodque docci (se. Aristotiles) esse quaerendum.... Conlingit autem tractu temporis, et adquiescente utentium voluntate, multipticitalem sermonum nasci itemque extingui.... (p. 129) [134: Esse in aliquo] multiplicius dici- tur quam Aristotelis tempore diceretur ; et quae lune verbo aliquam. nunc forte nullam habenl significalionem ; siquidem « Multa rena- scentur quae iam recidere, cadentque Quae nunc sunt in honore voca- buia, si volet usus, Quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi » (Hor. Ars poet., v. 70 ss.) [PL, 199, 898-9J. “"') Ibid., 4, p. 131 [136]: Praeterea reverentia exhibenda est verbis auctorum, cum culla et assiduitale utendi ; tum quia quondam a ma - gnis nominibus antiquitatis praeferunt maiestalem, tum quia dispen- diosius ignorantur, cum ad urgendum aut resistendum potentissima sint.... Licei itaque modernorum et veterum sii sensus idem, venera- bilior est velustas [PL, 199, 900]. 6,r ') Patet itaque quod usus Aristotile poten- tior est in derogando verbis vel abrogando verbo ; sed veritatem rerum. quoniam eam homo non statuii, nec voluntas Humana convellit. Itaque. si fieri polest, artium verba teneantur et sensus. Sin autem mi- nus, dum sensus maneat, excidant verbo ; quoniam artes scirc non est scriptorum verbo revolvero, sed nasse vini earum atque senlentias. Enthel., v. 27 ss.: Qui sequitur sine mente sonum, qui verbo capessit. Non sensum, judex integer esse nequit : Quum vim verborum dicendi causa minislrel, Ilaec si nescilur, quid nisi ventus erunl? [PL Già di qua si desume che tale principio deve condurre a una maniera estremamente comoda di fare sparir tutte le difficoltà che vengono a galla, perchè in tutti questi casi basterà dire che la espressione verbale nel corso del tempo è venuta ad assumere un significato diverso, op¬ pure che in generale essa non ha importanza. Cosi dice appunto Giovanni stesso (a proposito di una opinione di Bernardo da Cliartres) che non è per lui di nessun mo¬ mento il prender una parola alla lettera, e che non c’è punta necessità di metter in armonia con un singolo passo, in tal senso, anche tutti gli altri passi). E di fatto a questa maniera la ratio indijjerentiae, ch’egli ri¬ tiene il punto di vista giusto anche ai fini del tradurre (nota 32), prende forma, dov’egli si richiama a essa, di esplicito metodo di negazione dello spirito scientifico. Poi¬ ché certamente è somma leggerezza non soltanto il con¬ siderare, com’egli fa, « significare-» e « praedicare » quali perfetti sinonimi, mentre Abelardo si era pure sforzato di arrivare a una rigorosa definizione (nota 318), — ma anche il denotare, a tal proposito, come cosa assoluta- mente indifferente che p. es. con gli aggettivi si voglia intendere la qualità, ovvero l’oggetto che n’è qualificato; e rimettendosi egli su questo punto per ciascun singolo caso a una benigna interpretatio, fa valere le Categorie come un fondamento essenziale ad avvalorare il suo pro¬ cedimento, proprio perchè in esse si tratta, ora delle pa¬ role significanti, ora delle cose significate 578 ). Similmente 677 ) Metal., dove al passo che abbiamo già citato qui sopra (nota 93) fa seguito: Habet haec opinio sicut impu- gnatores, sic defensores suos. Michi prò minimo est ad nomea in ta- libus disputare, cum intelligentiam dictorum sumendam noverim ex causis dicendi. Nec sic memoratam Arislotilis aliorumve auctoritates in- terprelandas arbitrar, ut trahalur istuc quicquid alicubi dictum re- peritur [PL, 199, 893]. 57S ) Ibid., p. 122 [126]: Ex quo liquel quoniam « significare », sicut et « praedicare », multipliciler dicitur ; sed quis modus familia- rissimus sit, discernere palam est. Inde est, quod iustus et similia si comporta Giovanni, a proposito di un passo aristote¬ lico, e viene su questo punto, conforme alla sua indiffe- rentia o ratio licentiae, al risultato, che 1’ individuo sin¬ golo, percettibile per mezzo dei sensi, può essere tauto predicato quanto soggetto”»). E se nella trattazione di tali questioni siamo con Giovanni al punto dove la lo¬ gica finisce, prima di esser in generale neanche incomin¬ ciata, non può farci maraviglia che, presentandosi difficoltà un poco più riposte, egli enunci subito con tutta disin- passim apudauctores rame dicuntur iustum, nunc iustitiam signifi¬ care vel predicare.... [127J Tale est iUud Aristntilis : Qualitalem si- gnificant, ut album; quantilatem, ut bicubitum (Cai., 4: v. la Sez. IV. nota 303 [dove la citaz. si arresta avanti le esemplifieaz. : Sinr/u Xsuxiv...]; in Boezio [ad Ar. praed., I; PL, 64, 180], p. 127) .Sic ulique quia dantur a quahtale vel quanlitate, ila et qualitalem praedi- cant, quam apposita demonstrant inesse subieclis ; inlerdum dicuntur significare quatta, quomam apposilione sua declarant quali,i sint su- biecta. Sed haec a se, si sit benignus inlerpres, non multum distaili, etsi andito albusintelhgatur in quo albedo ; cum autem albedo (licitar, non mteUigiturin quo talis color ; sed polius color jaciens tale. Illud vero quod nudità voce concipit iniellectus, ipsius familiarissima si- gnificalio est. 3, p. 122 s.: Quia ergo aut acquivoce aul univoco aut denominative, ut sequmtur indifferentiae rationem, singula praedi- canlur, ipsaque praedicatio quaedam ratiocinandi materia est. praedi- camenlorum praemissa sunt instrumenta.... Rationem vero indifferen- tuie, LI—“J quarti semper approbamus, liber iste commendai prue cetens ; etsi ubique dilìgenter inspicienti manifesta sit. Agii enim nunc de sigmficantibus, nunc de significati, aliorumque doctrinam J acU n nomuitbus aliorum [PL, 199, 894-5], « Ih>d " 2 ;?‘ P'., 110 Mine forte est illud in Analeticis Aristomenes intclligibihs semper est; Aristomenes autem non sem- per .'"\ >> ( Ar l al - pr .,, I, 33; in Boezio [PL], p. 445). Et hoc quidem est singulariter individuum, quod salum qui¬ dam munì posse de al,quo praedicari.... Ego quidem opinionem hanc vehementernec impugno, nec propugno; nec enim multum referre arbitror, ob hoc quod illam amplector indifferentiam in vicissitudine sermonum, sino qua non credo quempiam ad mentem auctorum fide- hter pervenire. Itaque hic. sicut et alibi, executus est quod decet libertdium artium pracceptorem, ugens, ut dici solet. Minerva pinguion [Cic. de Amie., V, 19] ut intelligeretur.... Quid ergo prohihcl,uxta hanc licentiae rationem ea quae sunt sensibilia vel praedicari vel subici? Nec opinor auctores hanc vim imposuisse sermoni, ut alligatus sit ad imam in iuncturis omnibus signìficatio- nem, sed doctnnaliter sic esse locutos, ut ubique servianl inlelleclui Ino c ° n ‘™ n f!' !i '! mus est el Q upm ‘bi haberi prue ceteris ratio exigit [PL. 149, 886-/]. V. inoltre appresso [il seguito, nella] voltura il suo punto di vista, come p. es. quando, ri¬ guardo al giudizio universale, prende per equivalenti la inerenza obbiettiva e la predicazione subbiettiva, e tut- t’al più ravvisa qui ima modificazione di terminologia, presentatasi nel corso del tempo 580 ). [f) la Isagoge. Concezione deglia universalia in re»]. — Se dopo di ciò seguiamo nei loro particolari l’espressioni di Giovanni relativamente alla sfera propria della logica, tenendo dietro al filo della partizione da lui stesso as¬ sunta come fondamentale per l'Organon, — incontriamo in lui anzitutto, come ben s’intende, nell analisi della Isagoge, cioè nella questione degli universali, 1 estremo sincretismo o eclettismo, cbe sfocia da ultimo in una con¬ cezione stoico-ciceroniana. Non già al punto di vista di un filosofo cbe stia al disopra della unilaterale contesa tra i contrastanti indirizzi, bensì a mancanza di acume filosofico o a faciloneria da retore praticone, s’informa l’atteggiamento di Giovanni, quando qualifica come in¬ fantile tutta la disputa sui concetti di genere e di specie : e invero, a tal proposito, egli si limita a tirarsi indietro, riferendosi a quella molteplicità di significati delle parole, di cui più sopra (note 574 s.) abbiamo fatto cenno : im¬ perocché genere e specie possono significare cosi il prin¬ cipio della generazione, cioè la base ontologica delle cose, come anche il predicabile, cioè il valore logico dei con¬ cetti universali 58 ^). E a quel modo cbe su questo punto m°) JHd„ IH, 4, p. 132 [137]: Quod dicitur „in loto esse allerum alteri “ vel .. 'in loto non esse ", et „universaliler aliquid de aliquo prae - dicari '“ vel „ab aliquo removeriidem est (cfr. la nota 16); frequens tamen usus est alterius verbi, et alterius fere inlercidit, nisi quatenus ex condicto inlerdum admittitur. Fuit /orlasse tempore Aristotilisutrius- que usus celebrior, sed nunc prae altero viget alterum, quoniam ita vu lt usus. Sic et in co quod dicitur contingens. aliquatenus derogatimi est ei quod apud Aristotilem optinebat [PL, 199, 901] (cfr.la nota 216). 581 ) lbid., 1, p. 116 s. [120]:... sed ad puerilem de genenbus et speciebus.... inclinavit opinionem (s’intende Abelardo); malens in-  Giovanni si appoggia al commento boeziano della Isagoge di Porfirio, così insomma è ancor una volta, come ve¬ dremo (nota 602), in un passo isolato di Boezio che ci si offre concentrata la opinione di lui, sicché anche in lui ritroviamo di nuovo un argomento per provare quanto strettamente tutto il movimento degli studi di logica in quell’epoca si tenesse attaccato a sentenze frammen¬ tarie degli autori tradizionalmente più autorevoli. Perfettamente analogo all’atteggiamento di Abelardo, che si riattaccava a un solo unico passo [della versione boeziana del De inlerpr.] per avvalorare la duplicità del suo modo di vedere [nella questione degli universali] (nota 286), è l’atteggiamento complessivo anche di Gio¬ vanni, in quanto ch’egli presta agli universali un valore ontologico, e logico al tempo stesso; con la sola differenza, che in lui la confusione dei punti di vista è non soltanto più complessa e stravagante, ma anche ben più contraddit¬ toria che non in Abelardo. Giovanni, cioè, non soltanto parla occasionalmente, quale teologo, intorno ai concetti di sostanza e di essenza, alla stessa maniera che si tro¬ vano trattati questi argomenti nel Pseudo-Boezio de Trin. e in Gilberto 582 ), ma anche in quello scritto ch’è dedi- slruere et promovere suos in puerilibus quam in gravitate philosopho- rum esse obscurwr.... Itaque sic Porphirius legendus est, ut sermonum de quibus agitar, significatici teneatur, et ex ipsa superficie habeatur sensus verborum.... Sufficiai ergo introducendo nosse quia nomen ge¬ neris multiplex est et a prima instilutione significai generationis prìn- cipium.... Deinde hinc translatum est ad significandum id, quod de differentibus specie in quid pratdicatur (sopra questa terminologia ab¬ breviata, v. la nota 282). Item et species multipliciter dicilur ; nam ab instilutione formam significai.... Hin autem sumptum est ad significationem eius quod in quid de differentibus numero praedicalur. (lutto ciò ha fondamento in Boezio [ad Porph. a Vict tranci I 22: ed. Brandt, p. 66; PL, 64. 38], p. 22, e [od Porph. a se fransi, lì, 2: ed. Brandt, p 171 ss.; PL, 64, 87-8] 57 s.).... Quid ergo sibi volunt [Webb: voi in qui.... quicquid aliud exeogitari potest, adiciunt ?.... Vo- cabulorum simpliciter aperiantur significai ioncs, apprehendatur illa quae proposito congruit per descriptiones certissimas etc. [PL]. oS ") Epici. Quicquid autem subsistit, sine dubìo in genere vel in natura vel in substantia manet. Quum ergo essentiam cato alla logica, espressamente manifesta il suo accordo con Platone e con il suo realismo ontologico, secondo il quale il vero essere appartiene all’ intelligibile, mentre le cose concrete neanche son degne del verbo «esse» 083 ). E com’egli all’erma quale base reale dell’essere la natura non peritura della sostanza e la persistente efficienza della forma, attenendosi in ciò pedissequamente al motto, tra¬ smesso per antica tradizione « singultire sentitur, univer¬ sale intelligitur » 6M ), così a lui Gilberto è guida, anche relativamente alla definizione della natura, e alla forza plastica- della differenza specifica 686 ): Giovanni anzi si serve persino del termine « jorma nativa » (cfr. la nota 467); nè parimente manca in lui, come non manca in alcuno tra i realisti, il concetto di partecipazione 586 ) ; infine la dicimus significare naturam, vel genus rei suhstantiam. intelligimus ejus rei, qua e in his omnibus semper esse subsistat.... Quod si apud Graecos expressam habent dififerenliam lutee, quae Ilio totics inculcata sunt, essendo, natura, genus, substantia, cam expediri omnium arbitror interesse quamplurimum [PL, 199. 162-3]. i > 83 ) Metal., IV, 35, p. 193 [204]: Plato quoque eorurn quae vere sunt et eorum quae non sunl sed esse videntur, dififerenliam docens, intelligibilia vere esse asseruit.... Unde et eis post essenliam primam reale competei esse; i. e. firmus certusque status, quem verbum, si proprie, ponilur, [205] cxprirnil substantivum ; temporalia vero videntur quidem esse, co quod intelligibilium praetendunt imaginem. Sed appel- latione verbi substanlivi non satis digna sunt quae rum tempore trans- eunt, ut nunquam in eodem statu permansavi, sed ut fumus evane - scant ; fugiunt enim, ut idem ail in Thimaeo (p. 49 E), noe expeetant uppellutionem .... p. 195 [206]: Ideam vero.... sicut aelernam audebat dicere, sic coaeternam esse negabal [PI., 199, 938-9]. 6M) Enthet. Nulla perire potasi substantia, formaque jormae Succedens prohihet, quod movet, esse nihil. Solis corporeis sensus carnalis inhaeret, Res incorporcae sub ratione jacent [PL. 199. 987 e 992]. m ) Metal., I, 8, p. 26 [23]: Est autem natura, ut quibusdam placet (evidente allusione a Gilberto: v. la nota 461), ( licei eam sit dijfinire difiìcile,) vis quaedam genitiva, rebus omnibus insita, ex qua /arare vel [24] pati pnssunt. Genitiva autem dicitur, eo quod ipsam res quaeque controllai, a causa suae generalionis, et ab eo quod cuique est princi- pium existendi.... (p. 27) Sed et unamquamque rem injormans spe¬ cifica differenza, aut ab eo est, per quem facta sunt omnia. aut omnino nichil est. Esto ergo ; sit potens et ejficax vis illa genitiva, indita rebus originaliter [PL, 199, 835—6]. 686 ) Énthet.. v. 395 ss.: Est idea potens veri substantia, quae rem stessa concezione della individualità assume una forma tale, che vi riconosciamo la distinzione di Gilberto tra dividila e individua 587 ). [g) grossolano eclettismo, nella questione degli univer¬ sali]. Ma, dopo avere udito Giovanni pronunziarsi in tal maniera, che non lascia adito a equivoco, abbiamo ragione di maravigliarci che egli, per il fatto che l’in¬ telligibile non può esser universale, ma può soltanto es¬ ser concepito universalmente, dichiari che quella intorno agli universali è una disputa priva di oggetto, nella quale si cerca di acchiappare la sostanzialità di un’ombra o di una nube fuggevole 688 ). Vien ora anche, per quel che riguarda la logica, dato formalmente congedo a Platone, oltre che ad Agostino e a tutt’ i Platonici, per far posto ad Aristotele, sia pure con l’aggiunta, a mo’ di conso¬ lazione, che la dottrina di quest’ultimo può ben darsi Quamlibet informat ut Jacit esse, quod est ; Omne quoti est vcrum, con¬ vinci! forma vel actus, Necfalsum clubites, si quid utroque caret. Forma suo generi quaevis addirla tcnelur Et peragil semper, quicquid origo jubet; Ergo quod informa nativa constai agilve, Quod natura mancns in ratione rnonet Esse sui generis, veruni quid dicilur idque Indicai effectus aut sua forma probat. — Polycr.. Ini- plet autem haecvita omnem creaturam, quia sine ea nulla est substantia creaturae. Omne enim quod est, eius participatione est id quod est [PL, 199: 973-4 e 478], S8 ‘) Metal.Ergo si genera et species a Deo non sunt, omnino nichil sunt. Quod si unumquodque eorum ab ipso est, unum piane et idem bonum est. Sì autem quid unum numero est, protinus et singulare est. Nam quod quidam unum aliquid dicunt, non quod unum in se. sed quod multa unial expressa plurium conformitate, articulo praesenti non derogant.... Omnis namque substantia acciden - tium pluralitate numero subest. Accidens autem omne et forma quae- libet itidem numero subiacet, sed non accidentium aut formarum par- ticipatione, sed singularitate subiecti [PL, 199, 884], Polycr., VII, 12, p. 127 [II, 141]: Sicut in umbra cuiuslibel carpari, frustra solidilatis substantia quaeritur, sic in his quae intelli- gibilia sunt dumtaxat et universaliter concipi nec tamen univcrsaliler esse queunt, solidioris existentiae substantia nequaquam invenitur. In his aetatem terere nichil agentis et frustra laborantis est ; nebulae si- quidem sunt rerum fugacium et, cum quaeruntur avidius, citius da¬ nese uni [PL che non sia per nulla più vera, ma è comunque his di- sciplinis magis accommoda [tale (v. la nota 589) è la espres¬ sione di Giovanni, resa dal Prantl con le parole « fiir die logischen Partien passender »] sa9 ). Vengon ora per¬ tanto criticati tutti coloro, che nella Isagoge voglion metterci dentro un modo di vedere ispirato al platoni¬ smo, o che in altra maniera si scostano da Aristotele: e, richiamandosi nel modo più risoluto alla sentenza ari¬ stotelica, che cioè gli universali non hanno per se stessi esistenza separata, Giovanni respinge a priori qualsiasi teoria che parli di un essere degli universali stessi 590 ), combattendo così in particolare, da questo punto di vi¬ sta, anche la teoria dello status 591 ). Ma se siamo ora effettivamente curiosi di vedere come si risolva cjuesta contraddizione con le tesi prima enun¬ ciate, il nostro stupore crescerà forse ancora di passo in passo. Giovanni cioè anzitutto mette pur in prima linea P intellectus, in tal maniera che, accordandosi quasi 58 B ) Metal., II, 20, p. 112 [115]: Licei Plato cetum philosophorum grandetti et lam Augustinum quatti alios plures nostrorum in statuen- dis ideis habeat assertores, ipsius lanieri dogma in scrutinio univer- salium nequaquam sequimur ; eo quoti hic Peripateticorum principem Aristotilem dogmatis huius principem prafilemur.... [116] Ei qui Pe¬ ri palei ieorutn libros aggredilur, magis Aristotilis sentendo sequenda est ; forte non quia verior, sed piane quia his disciplinis magis accommoda 'est [PL, 199, 888], 60 °) Ihitl.. 19, p. 94 [97] : Quasi ab adverso pectentes (cioè i commentatori della Isagoge), veniunt contro menlem auctoris et, ut Aristo- liles planior sit, Platonis sententiam docent aut erroneam opinionem, quae aequo errore deviai a sententia. Aristotilis et Platonis; siquidem omnes Aristotilem profilentur. 20, p. 94: Porro hic genera et species non esse, sed intelligi tantum asseruit (Anni, post., I, 22 e 11: v. la Sez. Ili, nota 66, e la Sez. IV, nota 373) ....(p. 95) Ergo si Aristo- tiles verus est. qui eis esse tollit. inanis est opera praecedentis inve- stigationis.... [98] Quare [oul] ab Aristotele recedendum est, concedendo ut universalia sint [oul....] [PL], e via dicendo. B91 ) Ibid., 20, p. 102 s. [106]: Sed esto ut statimi aliquem generalem appellativa significent,... status ille quid sit, in quo singola uniuntur, et nichil singulorum est, etsi aliquo modo somniare possim ; lamen quotando sententiae Aristotilis coaptetur. qui universalia non esse con- lendit, non perspicuum habeo [PL, parola per parola con l’autore dello scritto De intellec- tibus, non soltanto dà rilievo all’ intellectus coniungens et disiungens (v. la nota 427), e in priino luogo principal¬ mente alla forza dell’astrazione ( intellectus absirahens: v. la nota 432), — ma, respingendo anche la obiezione che 1 intellectus abstrahcus sia illegittimo ( cassus : v. la nota 429), rivendica all’ intellectus la facoltà di conside¬ rar le cose, altrimenti da quel che sono in concreto (v. le note 432 s.): e con ciò designa l’astrazione, quale con¬ dizione fondamentale di tutta la tecnica dell’intelletto : a tal proposito, mentre si trova d’accordo con Gilberto (abstractim attendere: v. la nota 464), va facendo uso altresì di espressioni che abbiamo trovate adottate dai rappresentanti della teoria della indifferenza ( generaliter intueri, diverso modo attendere: v. [per una terminologia analoga] le note 133 e 13/), e nello stesso tempo viene a trovarsi ancora d’accordo, nel concetto del raccogliere le somiglianze (v. le note 162 s.), con l’autore dello scritto De genenbus et speciebus: anzi, con la risèrva che si tratta qui soltanto della facoltà intellettiva subbiettiva, e che obbiettivamente nella natura gli universali non esistono, si serve persino di quello, ch’era il ter min e in- valso nella teoria, da lui combattuta, dello status (v la nota 132) S92 ). ’*-) limi., 20, p. 95 [98]: Nec verendum ut cassus sii intellectus, qui ea percepent scorsimi a singularibus, cum lumen a singularibus seorsum esse non possint. Intellectus enim quandoque rem simpliciter tntuetur, velut si hominem per se intucatur...; quandoque gradalim suis inceda passibus, ut si hominem albore.... contemplelur. Et hic quidem dicitur esse compositus. Porro simplex rem interdum inspicit ut est, ut si Platonem attendai, interdum alio modo ; nunc enim componendo quae non sunt composita, nunc abstrahendo quae non possunt esse distancta.... p. 96 [99] Ceterum componens, qui disiuncta coniungit (1 esempio è hircocervus [oltre che centaurus]), inanis est ; abstra - hens vero fidelis, et quasi quaedam officina omnium artium. Et qui- ocm rebus existendi unus est modus, quem scilicel natura conlulil, sed easdem intelligendi aut significatali non unus est modus. Licet enim esse nequeat homo qui non sit iste vel alias homo, intelligi tamen potest et significari.... Ergo ad significationem incomplexorum per abstra -Se così, in una variata scelta di motivi, ricavati dalle opinioni di altri autori, si vedon convergere diversi fili, a formar la concezione della operazione subbiettiva del- T intelletto, deve ora riuscirci inaspettato che a ciò si ricolleghi da capo il realismo di Gilberto: la dottrina, cioè, secondo la quale la incorporeità qualifica gli uni¬ versali soltanto negativamente, — laddove, rispetto al loro fondamento positivo, questi debbono, come in ge¬ nerale tutte le cose, esser messi in relazione di dipen¬ denza da Dio; ma Dio ha creato la materia formata, vale a dire che tutte quante le forme, sicno sostanziali sieno accidentali (v. questo punto in Gilberto, alle pre¬ cedenti note 461 s.), hanno da Dio il loro essere e la loro efficienza, e così nell'atto onde sono state espresse le cose, ha predominato un riguardo ai concetti delle spe¬ cie, concetti che pertanto il cultore della logica non può tener separati da Dio, ma in virtù dei quali « le cose son venute fuori [ma Prantl rende « prodierunt » con « eingiengen»] dapprima nella loro propria essenza, e ap¬ presso nell’intelletto umano» 593 ). In seguito a tale cau- hentem inteUectum genera concipianlur el species ; qaae tamen, si quis in rerum natura dùigentius a sensibilibus remota quaerat, nichil aget et frustra laborabil; nichil cnim tale natura peperit. Ratio autem ea deprehendil, substantialem simililudinem rerum differentium perirne- tans apud se. — Polycr., II, 18, p. 96 [I, 103]: InteUectus.... nunc quidem res ut sunt, nunc aliter imudar, nunc simpliciter, nunc com¬ posite, mine disiuncta coniungit, nunc coniuncta distroihil et disiun- gii.... p. 97 [104] Si abstrahentem tuleris inteUectum, liberalium arliurn officina peribit.... Sic hominem intellectus attingit, ut ad neminem hominem aspectus illius descendat, generaliter intuens, quod non nisi singulariter esse potest. Dum itaque rerum similitudines et dissimi- litudines colligit, dum differentium convenientias el convenientium dijfcrentias altius perscrutata, multos apud se rerum invenit status, alios quidem universales, alias singulares [PL, 199, 877-8 c 437-8]. 5#3) Metal., II, 20, p. 103 [106]: Sed et nomina, quae proemisi,,.incorporeum“ et insensibile “, universalibus convenire, privativa in eis dumtaxat sunt, nec proprietates aliquas, quibus natura universa- lium discernatur, illis attribuunt ; siquidem nichil incorporeum aut insensibile universale est.... Quid est autem incorporeum quod non sit substantia creata a Deo vel ipsi concretum ?... Valeanl autem, immo salita mistica di quella clic Gilberto aveva chiamata for¬ ma sostanziale, Giovanni ora può dire che la sostanzia¬ lità degli universali è vera, soltanto riguardo alla causa cognitionis, e in pari tempo riguardo al generarsi delle cose (natura), perchè ciascun ente, secondo ch’è situato a un grado più basso nella Tabula logica, ha bisogno, per il suo proprio essere ed essere pensato, di un altro ente, che si trovi rispettivamente a un grado più alto; ma d’altra parte gli universali non hanno un essere, nè come corpi, nè come spiriti, nè come individui). Cosi dunque Giovanni, mentre segue Gilberto, crede di poter in pari tempo essere un aristotelico, e come ritiene di sfuggire a quella non necessaria duplicazione di sostanze (v. la Sez. Ili, nota 64), ch’è una conseguenza della concezione platonica 5 95 ), cosi dice nella maniera dispereant univcrsalia, si ei obnoxia non sunt. Omnia per ipsum farla sunl, inique lam subiecta formarum quam formae subiectorum.... For- mae quoque, tam substantiales quam accidentales, habenl ab ipso ut sinl et ut suos subiectis operentur effectus. Quod itaque ei obnoxium non est, omnino nichil [107] est (v. inoltre appresso la nota 613)_ p. 104: Ut enim ait Auguslinus, formatam creavit Deus materinm.... Eo spectat illud fìoetii in primo de Trinitate,.omne esse ex forma esl“ (nota 37).... [108] CuiUbet ergo esse quod est, aul quale aut quan- tum est, a forma est. fundamenta iecit Deus; et in ipsa expressione rerum habita est mentio specierum. Non illarum dico, quas logici fìngunt non obnoxias creatori ; sed formarum in quibus res prò- dierunl primo in essentiam suam, et in liumanum deinde intelleclum. Nam hoc ipsum quod aliquid coelum aut terra dicitur, formae. effe¬ ctus est [PL, 199, 882-4], 6M ) ìbid., p. 97 [100]: Quod autern univcrsalia dicuntur esse sub- stantialia singularibus, ad causam cognitionis referendum est singu- lariumque naturam (analogamente lo Scoto Eriugcna aveva, rife¬ rendosi agli universali, fatto uso dell’espressioni causaliter ed effec- tualiler : Sez. XIII. nota 129); hoc enim in singulis patet. siquidem inferiora sine superioribus nec esse nec intelligi possunt.... Quia ergo tale exigit tale, et non exigitur a tali, tam ad essentiam quam ad noti- tiam, ideo hoc illi substantiale dicitur esse. Idem est in individuis, quae exigunt species et genera, sed nequaquam exiguntur ab eis.... Uni- versalia tamen et res dicuntur esse, et plerumque simpliciter esse ; sed non ob hoc aut moles corporum aut subtilitas spirituum aut singula- rium discreta essentia in eis attendendo est [PL, 199, 878-9]. 695 ) Ibid., p. 98 [101]: Itaque detur ut sint univcrsalia, aut etiam ut res sint, si hoc pertinacibus placet ; non tamen ob hoc rerum erit più esplicita che gli universali — i quali stanno a fon¬ damento delle cose, non diversamente dal modo in cui il piano detrazione, che è incorporeo, sta a fondamento delle azioni, che sono invece sensibilmente percettibili, — li troviamo appunto, esclusivamente, soltanto nelle cose singole, le quali ultime si presentano visibilmente come ex empia, in cui gli stessi universali si fanno manifesti: Giovanni cioè risolutamente rappresenta — e su questo punto è il primo, ad assumere tale atteggiamento — la concezione degli « universalia in re», e persino combatte la dottrina platonica degli « universalia ante rem », per¬ chè fuori dal singolo non c’è universale 596 ). Ma poiché, in questa sua posizione, gli sta sempre dinanzi il concetto che ha Gilberto della forma sostan¬ ziale, è naturale che si attenga a quei passi di Aristotele, dove il concetto di genere e il concetto di specie ven¬ gono designati come qualche cosa di qualitativo 597 ). rerum numerum aligeri vel minai prò eo, quoti iuta non sunl in nu¬ mero' rerum [PL, 199, 879], C ' J6 ) Ihid. : Nirli il au tem universale est, nisi quoti in singularibus invenitur.... Nec moveat quoti singularia et corporea exempla sunl uni- versalium et incorporalium ; cttm omnis ratio gerendi... incorporea sit et insensibile, illud tamen quoti geritur, et actus quo geritur, plerum- qite sensibilis sit (anche ciò fa tornare a mente il significato che lo Scolo Eriugena ripone nel termine,,agcre“: v. la Sez. XIII, nota 131). — p. 108 [111]: Habita tamen ratione aequivocationis. qua ens vel esse distinguitur prò diversilate subiectorum, species et genera utrum- qite non sine ratione esse dicuntur. Persuadet enitn ratio ut ea dicantur esse, quorum exempla conspiciuntur in singularibus, quae nullus am¬ bigli esse. Non autem sic dicuntur genera et species exemplaria sitigli - lorttm, ut. iuxta Platonici [112] dogmalis sensum, formae sint exem- plares, quae in mente divina intelligibiliter constiterint, antequam pro- dirent in corporei (questo è il passo di Prisciano. già cit. nella nota 263); sed quotiiam, si quis eius quod communiter concipitur, audito hoc no¬ mine ..homo", aut quod dijjinitur, cttm dicitur ..homo esse animai ra- tionale mortale l % quaerat exemplum, slalim ei Plato aliusve hominum singulorum oslenditur. ut communiter significantis aut dìffinientis ratio solidelur [l’L, 199, 879 e 885-6]. ia, ) Ihid.. p. 100 [103]: /lem Aristotiles : Genera, inquit, et species circa substantiam qualitatem determinanl (Cai., 5: v. Sez. IV. nota 476).... Item in Elenchis (c. 22: in Boezio [II, 3: PL, 64. 1032], p. 750, con una traduzione che alquanto si scosta dal testo: v. so- In queste forme qualificanti scorge la « mano [dell’Arte¬ fice] della natura», che ha dato alle cose la veste delle forme, perchè l’uomo le possa più facilmente compren¬ dere: e perciò si presenta ora con il più spiccato rilievo la prima substantia di Aristotele, cioè l’individuo, mo¬ vendo dal quale l’intelletto da sè solo si eleva, in linea ascendente — per mezzo della uguaglianza di forma che accomuna i singoli ( conjormitas : v. questo concetto in Gilberto, alla precedente nota 474) — sino alla univer¬ salità dei concetti di specie e di genere 598 ): e come Gio¬ vanni si ritrova su questo punto ancora in accordo con la teoria della indifferenza, così adopera anche a tal ri¬ guardo persino la espressione» conjormis status» 599 ). A pra la nota 34):,,/Jomo et omne commune non hoc aliquid, sed quale quid, (rei) ad aliquid vel aliquo modo vel huiusmodi quid significai". Et post paura : „Manifestum quoniam non dandum hoc aliquid esse quod communiter praedicalur de omnibus, sed aut quale aut ad aliquid aut quantum aut talium quid significare". Profecto [104] quod non est hoc aliquid, significatione espressa non potest explanari quid sii [PL, 199, 880]. 69S ) Polycr., II, 18, p. 98 [I, 105]: Et primo substantiam, quae omnibus subest, acutius intuetur (se. intellectus), in qua manus naturae probalur artificis, dum cam variis proprietatibus et formis quasi suis quibusdam vestibus induit et suis sensuum perceplibilibus informat, quo possit aptius humano ingenio comprehendi. Quod igitur sensus percipit, formisque subiectum est, singularis et prima substantia est. Id vero sine quo illa nec esse nec inlclligi potest, ei substantiale est, et plerumque secunda substantia nominatur.... Universale, si, licei non natura, conformitate tamen sii commune multorum. Quod forte faci- lius in intellectu quam in natura rerum poterit inveniri, in quo genera et species, dijferenlias, propria et accidentia, quae universaliter dicun- tur, planum est invenire, cum in actu rerum subsistentiam universa- lium quaerere exiguus fructus sii et labor infinitus, in mente vero Mi¬ litar et faciliime reperiuntur. Si cnim rerum solo numero differen'.ium substantialem similitudinem quis mente pertractet, speciem tenel; si vero etiam specie differentium convenientia menti occurrat, generis lalitudo mente diffunditur. Denique dum rerum, quas natura substan- lialiter vel accidenlaliter assimilavit, conformitatem percipit intellectus, in universalium comprehensionc movetur.... p. 99 [106] Numquid ab- strahens intellectus, dum haec agit, otiosus est aut inutilis, per quem animus honestarum artium gradibus ad thronum consummatae philo- sophiae consccndit? [PL, 199, 438-9]. 69e ) Enthet. Est individuum, quicquid natura creavit, Conformisque status est ralionis opus : Si quis Arislotelem primum questo modo la uguaglianza delle cose tra loro, riguardo alla forma, viene messa in connessione immediata con la inlellectus communitas (communiter intelligi) ), ma gli universali stessi vengono, come tali, trasferiti pura¬ mente nel modus intelligendi (e ciò è in armonia anche con la teoria della maneries : v. la nota 88), sì ch’essi vengono denominati parole « figurali», e appartenenti esclusivamente alla « dottrina » (di figura locutionis ave¬ vano parlato anche i nominalisti: v. la nota), o, in una parola, « jigmenta », che, con le cose singole, si tro¬ vano nella relazione scambievole di mostrare e di essere mostrati, e però han potuto da Aristotele esser accon¬ ciamente denominati « monstra » (— monstrare —) 601 ). [h) concetto indeterminato di notio. Ma questo modo di considerare gli universali è ora in verità così elastico, che nel concetto di« figmentum» Giovanni ci può tra¬ sportare anche l’apprendimento, per parte dell’ intelletto, non censet liabendum, Non reddit merilis proemia digita sttis [PL, 199. 983], 6°°) Melai., II, 20, p. 98 [101]: Ergo quod mcns communiter inteìligil et od qingularia multa aeque perlinet, quod vox communiter significai et acque de mullis ve rum est, indubitanter universale est. — p. 107 [110] Secundum intellectum illuni [111] deliberari pa¬ lesi de re subiecta, i. e. actualiter exemplificari, ob inlellectus commu- nitatem ; res, quae sic intelligi potest, etsi a nullo intclligalur, dicitur esse communis ; res enim conjormes sibi sunt, ipsamque conjormi- latem deducta rerum cogitatione perpendit inlellectus [PL, 199, 879 e 885], ® 01 ) Ergo dumlaxat intelligunlur, secundum Aristotilem, universalia ; sed in actu rerum nichil est quod sii uni¬ versale. A modo enim intelligendi figuralia haec, licenter quidem et doctrinaliter. nomina indila sunt. Ergo ex sententia Ari- stotilis genera et spccies non omnino quid sunt sed quale quid quodam- modo concipiuntur ; et quasi quaedam sunt figmenla rationis, seipsnm in rerum inquisilione et doctrina suhtilius exercentis.... [112] Possunt et monstra dici (si riferisce al noto passo antiplatonico di Aristotele: vedilo qui più sopra, nota 31), quoniam invicem res singulas mon- .siranf, et monstrantur ab eis. Ea vero quae intelligunlur a singularibus abstracta,.... animi figmenla sunt.... quae ex conformitale singularium intellectu non casso concipiuntur [PL.. 199: 885-6 e 897]. 452 CARLO PRANTL dei modelli originari (exempiano), che misticamente eser¬ citano il loro influsso, dalle cose (exempla), sopra l’anima: a tal proposito enuncia con sufficiente chiarezza il suo sincretismo eclettico, qualificando, — oltre che far uso di quell’espressioni d’intonazione nominalistica —, gli universali come prodotti psicologici (phantasiae, termine che ricorda lo Scoto Eriugena: v. appresso la nota 613 [per altre reminiscenze delle dottrine doU’Eriugena]), ma a ciò collegando nel medesimo tempo la concezione stoico¬ ciceroniana, secondo la quale gli universali stessi sono concetti subbiettivi (svvoiou, notiones: v. il luogo ci¬ tato più sopra alla nota 64); e inoltre egli passa ancora, in modo molto manifesto, rasente al platonismo, o per lo meno va d’accordo con Gilberto, in quanto che anche da lui gli universali son tenuti in conto d’ imagini di una originaria purezza ideale, tralucenti dalle somiglianze delle cose singole: con ciò si trova infine ancora commisto l’aristotelismo, poiché queste figurazioni fantastiche non possiedono già una esistenza separata dalle cose singole, bensì, quando si volesse così afferrarle, si dileguano come ombre o come imagini di sogno 602 ). Se ora sembra che non sia effettivamente possibile accumulare, una sull’altra. 602) lbid.. II, 20, p. 96 [99]: Sunt itaque genera et species nor. qui- dem res a singularibus aclu et naturaliter alienae, sei! quaedam notti- ralium et aclualium phantasiae (anche questo termine si trova pa¬ rimente — cfr. [per la concezione di Giovanni degli universalia in re, nella sua relazione con quella dello Scoto Eriugena] le note 594 c 596 — nello Scoto.Eriugena: v. la Sez. XIII, nota 125) renitentes in intellectum, de similitudine aclualium. tamquam in speculo, nativae puritatis ipsius animar, quas Gracci ennoyas [evvoia;] sire yconay- fanas [elxovo22 ) Policr., VII, 7, p. 103 [II, 115]: Sic et geometrae primo peti- nones quasdam quasi totius artis iaciunt fondamento, deinde comma- nes animi conceptiones adiciunl et sic quasi acie ordinala ad ea quae stb, sunt demonstranda procedunt [PL ch’è stata colmata dagli studiosi venuti più tardi (Sez. XII, nota 136), ma anche riguardo ai sillogismi consistenti in combinazioni di giudizi categorici con giudizi di ne¬ cessità e di possibilità (Sez. IV, note 558 ss.), dice che essi non sono esposti da Aristotele in maniera esauriente: e pertanto rimane qui ancora aperto ad altri il campo a un’attività, la quale tuttavia, sussistendo il bisogno pratico di così fatte forme di ragionamento, dovrà for¬ nire. per sodisfarlo, mezzi che sieno, dal punto di vista pratico, più convenienti) e queste sono ehiaccbieie, per le quali, anche dal canto suo, egli stesso sembra do¬ ver pretendere quella benigna interpretatio, di cui s’è fatto cenno più sopra. Similmente Giovanni si pronunzia circa i sillogismi ipotetici, da Aristotele lasciati forse intenzio¬ nalmente da parte, a causa della loro difficoltà; tuttavia, oltre a un accenno a questi sillogismi, che si trova già nella Topica, è stato in particolare un certo passo degli Ana¬ litici. che ha determinato Boezio e altri a colmare la lacuna, sebbene neanche per opera loro sia stata ancora raggiunta la vera compiutezza 624 ). Che Giovanni anche 623) Metnl.. IV, 4, p. 160 [168]: Trium figurarum subnectil rationes (se. Aristotiles) et qui modi in singulis figuri* ex complexione extre- mitatum provenirmi docci : data quidem semente rationis eorum quos, sicul Boetius asserii (il passo è stato citato più sopra, Sez. V, nota 46), Theofrastus et Eudcmus addiderunt. Deinde habita modalium ratione transil ad commixtiones quae de necessario sunl aul contingenti cum his quae sunl de inesse.... A ec tamen dico ipsum Aristotilem alicubi, quod legerim, nisi forte quod ad propositum, de modalibus sujficienler egisse ; sed procedendi de omnibus fidelissimam scientiam trudidit. Expo- silores vero divinae paghine rationem modorum pernecessariam esse dicunt.... [169] Et prof celo licei nullus modos omnes, unde modale s dicuntur, singulatim enumerare sufficiat. quod quidem ncc ars exigit, tamen magistri scolarum inde commodissime disputali t. et, ut pace mul- titudinis loquar, Aristotile ipso commodius [PL, 199, 918j. Cfr. la nota 220. : Dialecticam et apodicticam.... prue - cedentia docent ; in his tamen de ipoteticis syllogismis nichil aut parum est actitatum, Seminarium tamen datum est ab Aristotile, ut et istuc per industriam aliorum possit esse processus. Cum cairn tam proba- bilium quam necessariorum loci monstrati siili, ostensum est quid ex quo sequilur probabiliter aut necessario. Quod quidem ad vpoteticarum negli Analitici avesse dinanzi agli ocelli soltanto lo scopo pratico dell’argomentazione, è manifesto dove fa men¬ zione così della pelino principii B2S ), come pure di alcuni altri momenti della tecnica, tra cui il procedimento della controprova, per il quale sceglie il termine « catasyllo- gismus » «»). Dagli Analitici secondi lia potuto attin¬ gere la conoscenza dei così detti quattro principii ari¬ stotelici 6 “'), e aneli egli è stato inoltre portato a entrare nelle questioni di teoria della conoscenza, che tuttavia discute assai peggio che non l’autore dello scritto De intellectibus (note 418 ss.), perchè a un esordio, d’into¬ nazione ancora abbastanza aristotelica, concernente la percezione sensibile, la fantasia e la opinione, fa se- imUcinm maxime special.... Praeterea Boetius (De syll. hypothetico ( 1. IL, 01 . 836], p. 609) hoc prò seminio inveniendorum dicit acceptum quod Aristotile$ ait in Analeticis (v. sopra la nota 522): ..Idem cum su et non SI', non neresse est idem esse." Ergo ipse et olii (v. la Sez. XII nota 139) aliquatenus suppleverunt imperfectum Aristotilis in line . parte; seti quidem, ut michi visum est, imperjecte (sino a qual punto ‘,‘Zn r:r oss I er ': azione sia v. Md., note 155 e imi [188],Sea forte ab Aristotile de industria relictus est hic lahor. co quòd plus difficultatis quam utilUatis videtur habere libcr illius qui dilLen- ttssime scnpsit. Prof ceto si hunc Aristotiles more suo exequerelur, ve- nsimile est tantae difficultatis fare librum ut praeter Sibillam inlelli- gat nomo. Nec tamen hic de ypotelicis satis arbitrar expeditum, sud- P ien ^ nia vero scolorimi perutilia et necessaria sunt [PI,. 199 928-01 nota 62BW 5 ' P | 161 t 1 . 7 ?] 1, Adicit (-inai. pr.. II, 16: v. la Sez. IV\ nota 628) et regulampetitwnis principii, quae speculatio tam demon- straton quam diabetico satis accommodata est ; licei hic probabilitale gaiiaeat* tue verUatem aumtaxat amplectatur fPL 199 9191 e ) md.; p. 162 [170]: Segui tur de causa falsae conclusioni, et catasillogismi (cosi è anche intitolato effettivamente nella traduzione di Boezio, p. 516 [cap. XX „De falsa ratiocinalione. catasyllogismo iZlZTu l Z l '° ne ì e l e ' en rt° : PL - 64 ’ 7 ° 51 ’ 11 ri8 P««ivo capitolo AnaL pr II, 19. v. la Sez. IV, nota 631) et elenchi (ibid. ; nota 632) et de fallacia secundum opinionem (ibid. : nota 634 s.) et de conver sione medi! et extremerum (ibid., nota 636 s.), cuius tamen tota utili tas longe commodius tradi potest [PL, 199, 919], w ') Enthct., v. 375 ss. [PL. 199, 973]: Quatuor ista solerei laudem praeslare creatis : Subjectum, species, artificisque manus. Finis item cunclis qui nomina rebus adaptat. Arist. Anal. post., II, 11: v la’ Sez. IV, nota 696. Era pertanto affatto inutile che si mettesse in librila SS U " a COnOSCenZa ’ P" ài Giovanni, dei guito subito il concetto ciceroniano di prudenza pratica, al quale viene appresso la concezione platonica della ra¬ do i, per metter capo infine alla sapientia, intesa in senso teologico, come ultima meta 628 ). Parimente, come tratto dalla conoscenza dei Sopii. Elenchi, posti da Giovanni a conchiusione dell’Organon aristotelico, potrebbe tutt’al più essere degno di ricordo il termine « reluclatorius [eluctatorius : v. la nota] syllo- gismus » 629 ), e così pure, come ricavata dairàmbito degli scritti di Boezio, la menzione delle quindici specie di definizione (v. la Sez. XII, nota 107); e qui la lettura superficiale del libro di Boezio ha indotto Giovanni a ritenere che Cicerone abbia composto anche lui uno scritto De definidone 63 °). 6as ) Melai., IV, 9, p. 165 [174]: Cum sensus secundum Aristo- tilem ( Anal. post., II, 19: Scz. IV, nota 51) sit naturalis potenlia indicativa rerum, aut omnino non est aut vix est cognitio, deficiente sensu.... p. 166: Aristotiles autem sensum potius vim animae asserii quarti corporis passioncm. 10, p. 167 [175]: Imaginatio itaque a ra¬ dice sensi!um per memoria’ fomitem oritur. Primum enim iudicium viget in sensu.... Secundum vero imaginationis est; ut cum aliquid perceptorum. relenta imagine, tale vel tale asserii, de fiu- turo iudicans vel remoto. Hoc autem alterutrius iudicium opinio ap- pellalur (così in Boezio si trova tradotto il termine Só^a: v. sopra la nota 19; invece per existimatio v. la nota 423). — 12, p. 169: Pru- dentia autem pst, ut ait Cicero, virtus animae, quae in inquisitione et perspicientia sollertiaque veri versatur. Inde est quod maiores prudentiam vel scientiam ad temporalium et sensibilium noti- liam retulerint : ad spiritualium vero, intellectum vel sapienliam. Nam de humanis scientia, de divinis sapienlia dici solet. Ergo et potenlia et potentine motus ratio appellatur. Ilunc autem mo- tum asserii Plato in Politia vim esse deliberativam animae ctc. Sapendo vero sequitur intellectum, co quod divina de his rebus quas ratio discutit, intellectus excerpsit, suavem habenl gu¬ sta ni et in amorem suum animas intelligentes accendunt [PL, 199: 921-3, 925, 927], 629 ) Ibid., IV, 23, p. 180 [ed. Webb, p. 189]: Sicut enim dialec- ticus elencho, quem nos eluctalorium dicimus sillogismum, eo quod con- tradiclionis est,.... utitur ctc. [PL, 199, 930]. — Cfr. Polycr., II, 27, p. 145 [ed. Webb, I, p. 153; PL, 199, 467], dove, sotto il nome [di syllogismus] „cornutus“, viene messo in opera un dilemma. oso) Vietai., Ili, 8, p. 141 [147]: Sumpserunt hinc (cioè da Arist., Top. VI) doctrinae suae primardio Marius Victorinus et Boelius cum Cicerone, qui singuli libros dififinitionum cdiderunt. Illi quidem difi-  [§ 40. — Alano da Lilla], — Mostra qualche affi¬ nità con Giovanni da Salisbury, nei riguardi della onto¬ logia teologica. Alano da Lilla [ab Insulis], scrit¬ tore tanto scipito quanto affettato (morto intorno al 1200 [circa nel 1203]), a entrambi servendo da comune punto di partenza, circa tali questioni, la concezione di Gilbert de la Porrée. Alano tuttavia non ba trovato che valesse la pena di prender in considerazione, neanche a quella maniera che ci si fa manifesta in Gilberto o magari an¬ che in Giovanni, il valore di questa ontologia dal punto di vista della logica, dovendo, in ordine a quella, rima¬ nere riservato ai teologi il compito di giudicare o apprez¬ zare: bensì ba assunto, nell’ampolloso suo poema « A/i- ticlaiidianus », rispetto alla logica, il punto di vista della dottrina scolastica piu volgarmente ordinaria, che an- cb egli ha in buon conto, solamente come mezzo di ar¬ gomentazione per la battaglia contro gli eretici 631 ). Fa¬ cendo comparire, analogamente a Marciano Capella, le sette arti quali figure simboliche, egli, dopo che per pri¬ ma è stata introdotta la grammatica, rappresenta, in secondo luogo, la logica come una vergine estremamente industriosa e solerte, nel cui volto scolorito si scorgono solamente pelle e ossa, sicché vi si riconoscono le con¬ seguenze delle veglie trascorse nell’applicazione allo stu¬ dio 63 -); enumera poi i suoi doni, ch’essa reca con sé finicndi nomen usque ad quindecim species dilataverunl, describcndi modns dijfinitionis vocabulo subponentes ; hiiic vero de substanliali prae- cipue cura est fPL, 199, 906] (v. la fonte di questo errore alla Sez. XII. note 103 c 106). ' 1 ) Anticlaud ., V II, 6 (Alani Opp., ed. C. de Visch, Anversa 1654, fol., p. 394 [PL, 210, 554]): Succedit Logicae virlus arguta,... Haec docet argutum JMartem ralionis mire, Adversae parti concludere, fran¬ gere vires Oppositas, parlenupie su ani ratione Uteri : Eestigare fugarti veri, falsumque fugare, Schismaticos logicce, falsosque retundere fratres. Et pseudologicos et denudare sophislas [testo cit. secondo la ediz Wright, 11, p. 391: Dist. VII, eap. VI, 1 ss.]. 6 ‘-) Ibid., III, 1, p. 345 [PL]: Latius inquirens, sollers, studiosa, laborans. Virgo secando starlet, intrat penetralia mentis, Sol- licitatque manum, mentem manus excitat, urget Ingenium.... Et decor nella battaglia per la verità, e tra essi precisamente no¬ mina anzitutto la topica, con le sue maximae proposi- tiones, a questa intrecciando la sillogistica, come pure la induzione e Vexemplum: seguono poi la definizione, con inclusa la descrizione (cfr. la Sez. XII, nota 9), e la divisione del genere nelle specie, come pure del lutto nelle parti, e inoltre il ricostituirsi della connessione tra i membri così differenziati: tutte funzioni, queste, con le quali la logica agisce quale strumento o chiave della verità, come pure quale arma per tutte le altre arti 633 ). Finalmente Alano, enumerando gli scrittori di logica, esalta Porfirio come un secondo Edipo, critica Aristo¬ tele, per la confusione di parole che ha introdotta, onde la logica è stata novamente oscurata e velata : ma dopo di lui è venuto Boezio a riportare nel tutto, luce e or¬ dine 634 ). e t species afilasset virginia arlus, Sicul praesignis membrorum disseril orda. Ni facies quadam macie, respersa iacerel. Vallai eam macies, macie vallata profunde Su lisi del. et nudis culis ossibus arida nubit. Ilaec habitu . gesta, macie, pallore, figurai Insomnes animi motus, vi- gilemque Minervam Praedicat, et secum vigiles vigilasse lucernas [p. 310 : Dist. Ili, cap. I, 1 ss.]. 633 ) Ibid., p. 345 f. [PL, 210, 509-10]: Monslrat elenchorum pugnas, logicaeque duellum : Qualiter ancipiti gladii mucrone coruscans Vis lo- gicae veri facie tunicata recidit Falsa, negane falsum veri latitare sub umbra.... Quid locus in logica dicalur quidve localis Congruitas, quid causa loci, quid maxima, quid sitVis argumenli, mattana a fonte locali, C.ur argumentum firmeI locus, armet elenchum Maxima, quae vires proprias largitur elencho.... Cur ligel extremos medius mediator eorum Terminus, et firmo confibulel omnia nexu...., Qualiter usurpans vires et robur elenchi Singula percurrit inductio, colligit omne.... Qualiter excmplum de se paril.... Quomodo diffinit, parlitur, colligit, unii Sin¬ gula, quaegremio complectitur illa capaci. Quomodo res pingens descriptio claudit easdem, Nec sinit in varios descriptio currere vultus. Quid genus in species divisum separai, aut quid Dividit in partes totum, rursusque renodal, Quae sunt sparsa prius, divisaque cogil in unum. Qualiter urs logicae tanquam via, janua, clavis, Ostendil, reserat, aperii secreta sophiae. Qualiter arma gerii, et in omni militai arte.... [p. 311: c. s.. 34 ss.]. B34 ) Ibid., p. 347 [PL, 210, 511]: Auctores logicae, quos donai fama perenni Vita,... recole.ns defu nctos suscitai orbi. [Illic Porphyrius directo tramite pontem Dirigit, et monstrat callem quo lector abyssum latrai Aristotilis, penetrane penetralia libri.] Illic Porphyrius arcana Passaggio alla letteratura del se¬ colo XIII 0 ]. Eccoci giunti così al limite del XII 0 e del XIII° secolo, limite caratterizzato anche dal fatto, che proprio in quel momento da varie parti è stato recato al¬ l’Occidente latino materiale nuovo : la considerazione di questo deve formare l'oggetto delle due prossime Sezioni, perchè sia poi possibile distesamente illustrare i vasti ef¬ fetti di questo materiale nuovo che ha da sopraggiungere. Per quanto si attiene al progresso della storia della ci¬ viltà, è un fatto che la nostra ricerca, sino al punto a cui Pabbiamo condotta, non ci ha davvero presentato punti di vista, i quali ci dian motivo a rallegrarci. Ci siamo sì fatti passare dinanzi multa, ma certamente non multum. Anzi, persino la conoscenza che un poco per volta si ridesta, delle principali opere aristoteliche, non è stata feconda di frutti che meritino di essere ricordati: e al posto di un modo veramente filosofico d’ intendere la logica, quale avrebbe potuto essere determinato dallo studio di Aristotele, sembrò infine volersi ancora far va¬ lere, più che mai di gusto, P impulso alla retorica pratica. E anche le Sezioni che seguiranno più tardi, ci faranno, pure in un’epoca in cui uno spirito nuovo spezza le catene della tradizione e dell’autorità esteriore, assistere, nel campo della logica, solamente a una ripe¬ tizione intensificata di questo giuoco della storia, onde la logica, frammezzo a molte diverse concezioni, con¬ tinua sempre a esser di nuovo cacciata via da una base intimamente filosofica. resolvit, ut alter Aedipodes nostri solvens aenigmata sphingos, Verborum turbator adest, et turbine multos Turbai Aristotiles noster gaudelque In¬ tere. Sic logica tractat, ut non tractasse videtur ; Non quod oberret in hoc, scd quod velamine verbi Omnia sic velai, Quod vix labor ista re- velet.... In lucem tenebrosa rejert, nova ducit in usum, Exusalque 1 ra¬ po s, in normam schema reducit, Exerit ambiguum Severinus ; quo duce linquens Natalem linguam nostri, peregrinai in usum Sermonis logicar virlus, ditatque Latinum [c. s., 107 ss.]. ELENCO DEI NOMI E DELLE COSE PIO NOTEVOLI Abbone da Orléans Abelardo abstractio Adalberone Adamo dal Petit-Pont Adelardo da Balli udjticcnler, adjacentia aequi pollentia Alano da Lilla Alberico Alberico da Monle Cassino Alcuino Anonimo, De gener. et specieb. De intellectibus De interprete De unii, et uno San gali. De p<irt. Loicae SangaU. De syllog., 115 Anselmo d’AOSTA (si veda) Anseimo il Peripatetico Anlepraedicamenta antiqui antiqui e moderni Aristotele (nuove traduzioni di) Arnolfo da Laon Asino (Prova dell’) Bartolomeo Berengario Questo Elenco è mantenuto ei eli'erano stati segnati dai Franti (N. Bernardo da Chartres Bernardo da Chiaravalle Bernhard da Hildesbeim, 93. Borgognone da PISA (si veda) calasyllogismus Categorie colligere concepito conceptus communes conformilas consimilitudo contingens c possibile copida Cornifieio Costantino Cartaginese [note] Damiani Davide da Hirsebau Definizione Differenza, v. Porfirio Diritto (Scienza del), v. Giurisprudenza dividenlia dividuum Drogone da Troyes eloquentiu eloquentia peripatetica Erico da Auxerre forma subslantialis formae nativae Formularii ìtro gli stessi limiti, molto ristretti (I. J'.) Francone da Liegi Fredegiso Fulberto da Charlrcs Gannendo Caunilone Gauslenus da Soissons Genere (Concetto di), v. Universali Gerberto Giacomo da Venezia Gilbert de la Porrée Giovanili da Gorze Giovanni da Saiisbury Giovanni Scoto Eriugena Giovanni Serio Giselberto da Reims Giudizio Giurisprudenza Gualtiero Mapes, v. Mapes Gualtiero da Mortagne Gualtiero da S. Vittore [nota] Gualtiero da Spira Guglielmo da Champeaux Guglielmo da Conches Guglielmo da llirscliau Gunzone ITALO (si veda) Uraliano Mauro identitas Jepa indifferentia Indifferenza (Dottrina della) individualiter inesse informare Intellettualismo inlelleclus intellcclus conceptus intellectus coniungens e dividens Josccllinus da Soissons, v. Gauslcnus Irnerio Isidoro da Siviglia Lanfranco Logica, vecchia e nuova, v. antiqui c moderni maneries Manerius Mapes malerialite.r imposila materialum modulis moderni moderni e antiqui, v. antiqui e moderni monstra, Nominalismo Nominalismo e realismo nominaliter notio Notker Labeone Oddone do Candirai Onorio da Autun Otloli da Ratisbona Ottone da Cluny Ottone da Freising Papia Parte (Concetto di) perihermeniae Pietro LOMBARDO (si veda) Pietro da Poitiers Plutonici Poppone Porfirio (Isagoge di) possibile e conlingens, v. contingens e possibile postpraedicamenta praedicamentalis praedicari praedicari in quid [nota] proprium, v. Universali Pscudo-Abclardo Pseudo-Boczio, De Trin. Pseudo-Boezio, De unii, et uno Pseudo-Erico Pseudo-Hrabano Rainibcrto da Lilla rntionale Realismo Realismo e nominalismo, v. Nominalismo e realismo Reginaldo Reinhard da Wiirzburg Remigio da Auxerre res de re non praedicalur Rhahano Mauro, v. Hrahano Roberto Amiclas Roberto da Melun Roberto da Parigi Roberto Pulleyn Roscelino Salomone (Glossario di) S. Gallo Scoto Eriugcna, v. Giovanni S. E. Sensismo aerino sermocinalis Sertoriu9 sex principia significatimi Sillogismi' (Teoria dei) Sillogismi ipotetici Silvestro li, v. Gerberto Simeone speries, v. Universali status sumplum syllogismi imperfccti syncalegoreumata Tendenze contrastanti Teologia Topica Ugo di S. Vittore Ugucrione universale intelligitur, singultire sentitur Universali (Disputa intorno agli), v. Tendenze contrastanti Universali in re vcrbaliter, v. nominaliter vocalis voce» signativae vocis flatus vocum impositìo Volfango da Ratisbona Williram da Soissons Finito di stampare, in 1500 esemplari numerati, nella Tipografia Fratelli Stianti in Sancasclano Fai di Pesa Esemplare N. * " IL PENSIERO STORICO „ SOTTO GLI AUSPICI DELL’ENTE NAZIONALE DI CULTURA. CONOSCENZA INCOMPIUTA DELLA LOGICA LIZIO Delimitazione dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca . Si diffonde nelle scuole lu logica della lorda latinità .La tradizione della logica scolastica, nei riguardi delle traduzioni di Boezio, è limitata: e s’igno- rutto le principali opere logiche di Aristotele. . » 6 § 4. - Atteggiamento della ortodossiarispettoallalogica La « Isagoge » di Porfirio Miseria del pensiero medievale. La questione degli universali determina un con¬ trasto di tendenze nel campo della logica: pre¬ valenza di un realismo platonico .Pensiero e linguaggio . Isidoro da Siviglia: а) Logica e Teologia Compendio di dialettica nelle « Origine» » . . > 24 c) Altri spunti di teorie logiche . Alenino: sua compilazione di un compendio di dialettica INDICE DELIE MATERIE Fredegiso da Tours . Pag. 35 Hrabuno Mauro: suoi scritti di sicura autenticità. Il « De TrinUate » del Pseudo-Boezio .» 37 Giovanni Scoto Eriugenu: a) Sua abilità nella logicu formale .Posizione dello Scoto, rispetto alla dialettica » 46 c) Realismo teologico dello Scoto, il quale tut¬ tavia fu unche mollo conto della  84 Sterilità del secolo X : tenui tracce di studio della logica: Poppone a Fulda, Reinhard a W'iirzburg, Giovanni da Garze, Canzone Italo ( prende co¬ sci mitemente posizione nel contrasto delle ten¬ denze), Wol fungo a Ratisbona, Abbone du Orléans, Bernward a llildesheim, Gualtiero da Spira. . . » 88 Gerberto, figura assolutamente insignificante: a) Materiale degli studi di storia di logica altemposuo.  Lo scritto «De rationale et ratione uti Adalberone di Laon . Fulberto di Chartres . » 106 Anonimo rifacimento metrico della Isagoge e INDICE DELLE MATERIE XV delle Categorie, del secolo XI: colorito nomina¬ listico .Intensa attività della scuola di Sun Gallo. Notker Labeo: Un trattato insignificante Rifacimento delle Categorie . Rifacimento del «De interpretatione Il «De partibus loicae»: nominalismo. Scritto anonimo « De syllogismis », e sua im¬ portanza . » Conclusione . Altri documrnti relativi allo studio della logica nel secolo XI: Francane u Liegi, Otloh a Rati- sbona, Pier Damiani .Movimento più vivace, la scienza giuridica l’apia. Anseimo il Peripatetico, Lanfranco, Irne- rio; i Formulari . Movimento più vivace nella seconda metà del se¬ colo XI: 2) la teologia. Nominalismo di Berengario nella questione della Santa Cena, e atteg¬ giamento  Movimento più intenso: grande estensione, e in pari tempo carattere imilaterale, della lette¬ ratura attinente alla logica. Le vicende dello studio della logica, nel rac¬ conto che ne fece Giovanni da Salisbury  Contrasto caratteristico fra logica «vecchia» e «nuova» . La polemica intorno agli tuiiversuli : si può di¬ mostrare che almeno tredici erano le correnti. xvn nelle quali si dividevano le opinioni su questo problema . Nominalismo che rasenta il sensismo Grudi vari di questo nominalismo (Garmondo) La teoria che gli universali sono « maneries »: Uguccione  / Platonici: . a) Bernardo da Chartres . Guglielmo da Conches (e Costantino Cartaginese. Il realismo di Guglielmo da Champeaux .Le difficoltà e i gradi del realismo Controversie intorno alla definizione e intorno al concetto di « parte La teoria dello «status», come tentativo di conciliazione. Gualtiero da Mortagne La teoria della « indifferenza Adelardo da Balli : intonazione platonica da lui data alla teoria della « indifferenza Gauslenus o Joscellinus da Soissons: sua idea del colligere. Lo scritto anonimo « de generibus et specie- bus »: punto di vista del suo autore: а) Critiche ad altre soluzioni del problema de- gli universali. Soluzione da lui stesso proposta . Dottrina del giudizio . Propensione al platonismo . Controversie sovra punti speciali. Sopra le « Categorie Sopra la teoria del giudizio in generale Sopra cpiestioni particolari, attinenti alla teoria del giudizio. d) Sopra difficoltà inerenti alla teoria del sillogismo . e) Sopra questioni di Topica .Negli studi di logica, la qualità continua a ri¬ maner molto al disotto della quantità Abelardo : a) Suo ingegno: caratteristica generale Scritti di logica . Dialettica e teologia: intimo dissidio della dottrina di Abelardo . I ag. 299 d) Abelardo aristotelico . » 302 e) Ma il « Peripatetieus Palalinus » è al tempo stesso anche platonico . » 304 j) Nè aristotelico, nè platonico, infine: bensì, retore . » 306 g) La « Dialettica » è la principale tra le. opere logiche di Abelardo: disposizione della materia . Esposizione della « Isagoge » o « Anleprae- dicamenta », quale risulta dalle « Glossae », e soprattutto dalle « Glossulae », « super Por- phyrium»: atteggiamenti polemici sopra la questione degli universali . » 312 i) Soluzione proposta da Ahelardo: il « sermo praedicabilis) L’universale inteso come « quoti natum est de pluribus praedicari »: uso di questo princi¬ pio, secondo lo spirito del platonismo ...» 325 m) Ma dallo stesso principio Ahelardo trae in¬ sieme partito, secondo il punto di vista ari¬ stotelico . » 331 n) Ispirazione aristotelica, nel maggior rilievo dato al giudizio (« praedicari »)) Anche il preteso intellettuulismo di Abelurdo deriva dal suo aristotelismo) Ma in Abelardo, vero spirito aristotelico non c’è: il suo interesse centrale è volto, sotto l’impulso di Boezio e dello stoicismo, alla teoria retorica dell’argomentazione .... » 341 q) Continua l’analisi del contenuto della « Dia¬ lettica»: le « Categorie  La topica . zi l sillogismi ipotetici. Giudizio conclusivo so¬ pra l’opera di Ahelardo Accentuazione dell’ aspetto aristotelico della «Dialettica» di Abelardo: .l Ja B- 371 a) In un commento anonimo del « De interpre- tatione Nell’acuto untore dello scritto pseiulo-abelur- diano «De intelleclibus »: 1) Punto di vista aristotelico . 2) Dottrina del « sermo In Adamo dal Petit-Ponl prevale la teoriu del giudizio Scetticismo logico di Roberto Pulleyn: e reazione teologica di Pietro da Poitiers e di Ro¬ berto da Melun Gilberto de tu Porrée: . Il commento al « De Trinitate » del Pseudo- Boezio: posizione teoretica ingenua e con¬ traddittoria . » b) Concetto di sostanza. Teoria delle « formae nativae ». Realismo di Gilberto .I.o scritto « De sex principiis * : un’abborrac¬ ciatura . > e) I sei « principii » : « actio, passio, quando, ubi, situs, habitus » » /) La controversia intorno al « magi» » e al « minus Ottone da Freising, seguuce di Gilberto. Lo scritto pseudo-boeziano « De unilate et uno Alberico (da Reims?), a Parigi. WUliram de Soissons. Vari altri autori, menzionati da Walter Mapes . Il cosi detto Cornijìcius, oggetto della polemica di Giovanni da Salisbury . » 391 § 39. - Giovanni da Salisbury: a) I suoi studi: il « Metalogicus Punto di vista utilitaristico, alla muniera di Cicerone. La divisione del sapere.  Punto di vista retorico, come in Cicerone. Grammatica e dialettica. Conoscenza compilila dell « Organon ». Punti di contatto con Abelardo, soprattutto nel modo di intendere e giudicare l’opera logica di Aristotele . Pag. 430 e) La « ratio indifferentiae » come indifferenti¬ smo antiscientifico . » 437 f) La « Isagoge ». Concezione degli « universalia in re » . » 441 g) Grossolano eclettismo, nella questione degli universali .» h) Concetto indeterminato di « notio »... » i) Le Categorie .» /) Teoria del. Giudizio . » m ) Topica, sillogistica, teoria dei sofismi Uno scritto insignificante di Alano da Lilla . . » § 41. - Passaggio al XIII secolo. » Elenco dei nomi e delle cose più notevoli LA LOGICA MEDIEVALE CONOSCENZA INCOMPIUTA DELLA LOGICA ARISTOTELICA NEL PRIMO MEDIO EVO Delimitazione dell’oggetto e dell’intento della presente ricerca]. Saggio su PRANTL, STORIA DELLA LOGICA IN OCCIDENTE NELL’ETÀ MEDIEVALE. LA NUOVA ITALIA FIRENZE. La « Geschichte der Logik ini Abendlande » di Prantl, curata da Fock a Lipsia, è divisa in parti. La prima ha por oggetto lo svolgimento della Logica nell’Antichità. Gli fecero sèguito una seconda parte dedicata alla Logica nel Medio Evo. In una Collezione, che ha per suo programma di rendere largamente accessibili ai filosofi italiani quello grande saggio di esplorazione e ricostruzione della storia della filosofia, che sono imperitura gloria della cultura, doveva esser fatto luogo a un classico trattato qual è questo del Prantl. Per ragioni editoriali l’ordine di apparizione dei volumi della traduzione italiana non corrisponde all’ordine di successione del saggio originale: e si è dovuto dare la precedenza al Medio Evo, la quale forma un tutto unico e continuo, dotato di una certa autonomia. Alla traduzione del primo volume che vedrà successivamente la luce, diviso in due o tre tomi, sarà premesso un discorso introduttivo intorno all’Autore, e alla importanza e. vitalità della sua opera: bastino qui brevi cenni, a giustificare il lavoro e a render ragione dei criteri adot¬ tati dal Traduttore. Il disegno di Storia della Logica Medievale presen¬ tato dal Franti non è stato sostituito da opere più re¬ centi: il suo intento, di risparmiare, almeno per lungo volger (Tanni, agli studiosi venturi, la immane fatica di riprender ex novo l'argomento, rifacendosi diretta¬ mente dalle fonti, è stato raggiunto: e il trattato è an¬ cor oggi cosa viva, sì che nessuno studioso, mettendosi, con un suo particolare obbietta, a lavorar attorno a que¬ sta materia, può far a meno di ricorrere e di ricollegarsi a quello: è, a giudizio di CROCE, il solo, tra i libri spe¬ cial, recanti il titolo di Storia della Logica, che, fondato sopra lunghe ricerche, sia veramente insigne per dot¬ trina e per lucida e animata esposizione. Animata, vor¬ rei soggiungere, ancor più che lucida: non di rado, in venta, la espressione è negletta e contorta, e la perspi¬ cuità e sacrificata alla rapidità e alla efficacia: lettura dunque, non tutta agevole, ma tale da far desiderare una versione che, se non sembri troppo ambizioso il propo¬ sito, elimini almeno in parte, pur attenendosi con scru¬ polosa cura di fedeltà all'originale, quelle cause che non possono non render ostica a noi Italiani la greve prosa * f-CXC SC Q, Dei progressi che gli studi son venuti facendo in que¬ sti cinquant anni si doveva naturalmente tener conto, ma senz alcuna intenzione di metter assieme un Prantl nuovo, in luogo di ri presentare nella sua integrità il I rantl vecchio: e la questione era soltanto del modo piu opportuno di far posto a quel pochissimo ch'è del traduttore, nella poderosa costruzione innalzata dal- l Autore. i\on era dunque il caso di contrapporre all'atteggia¬ mento che il Pronti assunse, con icastiche espressioni di disprezzo, di fronte al pensiero medievale, un giudizio valutativo diverso o per lo meno più temperato: anche se nessuno si sentirebbe disposto a ripetere senza riserve che una filosofia medievale non c'è stata, intensificandosi anzi da molte parti lo sforzo di rintracciare nel Medio hyo anticipazioni e presagi del pensiero moderno, il giudizio del Prantl va conservato in tutta la sua cru¬ dezza, per lo meno quale documento significativo di un momento importante nella storia della cultura: d'altra parte, in antitesi con la corrente che, sempre tenden¬ ziosamente talvolta nostalgicamente, porterebbe ad abo- hre la differenza tra Medio Evo ed età moderna, o a sopravvalutare quello, a tutto danno di questa, può avere virtù correttiva, od operare come reazione salutare, la ricomparsa dell'opera di un eminente ricercatore., il quale, proprio studiando lo sviluppo di quella disciplina filosofica che fu più largamente e appassionatamente coltivata nella età di mezzo, ne trasse occasiime a rive¬ lare lo spirito medievale nel suo aspetto deteriore: quasi si direbbe ch’egli si fosse accinto all’ardua impresa di esporre classificare giudicare i cultori illustri e oscuri della logica nel Medio Evo, con la persuasione di ve¬ dersi dispiegare dinanzi agli occhi un panorama tanto interessante quanto poco conosciuto, e tale comunque da compensare il travaglio della indagine: e nei giudizi re¬ cisamente svalutativi da lui pronuziati nei riguardi di quasi tutti gli autori che ha studiati, diresti di sentire la eco di un’amara delusione o un movimento di di¬ spetto, se non addirittura l’accento scorato di chi è tratto ad esclamare: «et oleum et operata perdi di » ! Rimaneggiare l'opera ‘del Pronti, conservando immu¬ tate quelle sole parti che han conservato oggi tutto il loro valore, e sostituendo integrando rifacendo quelle che appaiono antiquate o inadeguate, sarebbe stato in contrasto con l’indirizzo al quale, come s’è accennato, la Collezione si attiene: il rispetto dovuto alle opere in essa incluse, ne esige la riproduzione compiuta, senza modificazioni o mutilazioni, che han sempre l’aria di manomissioni arbitrarie. Primo dovere era quello di rivedere l’ingente mate¬ riale accumulato nelle numerosissime note, che preval¬ gono per ampiezza sopra il testo del Pronti: poderosa raccolta di testi accortamente scelti, della quale ricono¬ scono l'incomparabile valore anche i meno disposti a seguire. l’Autore ne’ suoi apprezzamenti e nelle sue in- terpetrazioni. Era il Pronti uno studioso di esemplare diligenza, e fa veramente, maraviglia che, con lina smi¬ surata mole di lavoro, egli sia soltanto eccezionalmente incorso in errori di trascrizione, sviste nella correzione delle bozze, inesattezze nelle citazioni e nei rimandi. Ma alcune mende s’è pur dovuto rilevare, che, com’era ine¬ vitabile. sono state naturalmente travasate tutte quante nel « Manuldruck. In una traduzione, invece, bisognava procurare di eliminarle, e riscontrar le cita¬ zioni, una per una, con i testi, per ottener la massima possibile correttezza, evitando altresì che, come pure in alcuni luoghi è accaduto all Autore, la trascrizione frammentaria possa alterare o non render intiero il pensiero dello scrittore: si direbbe che il Franti qualche volta prendesse frettolosamente le sue note dai testi da citare, e poi le trascrivesse per la stampa, senza più darsi pen¬ siero di collazionarle con l originale. Inoltre, era suo costume di servirsi a caso di una o al¬ tra edizione che trovava, per ciascun autore, consert ata nelle Biblioteche di Monaco, rendendo così a noi, molto spesso, difficile il riscontro delle sue citazioni con i testi originali da lui usati: era dunque necessario non sola¬ mente emendare e aggiornare le citazioni, ricorrendo, ogni qual volta fosse possibile, a edizioni moderne criti¬ camente condotte, ma inoltre sodisfare una esigenza di uniformità e di unificazione, aggiungendo a ciascun passo il riferimento al luogo corrispondente di un grande re¬ pertorio, largamente diffuso e facilmente accessibile, qual è la Patrologia, Greca e Latina, del Migne (desi¬ gnata nelle note, tra parentesi quadre, con la sigla PC o PL, seguita in cifre arabiche dalla indicazione del vo¬ lume, poi della colonna o delle colonne corrispondenti). Testi che il Franti aveva potuto conoscere solamente di seconda mano, riferendoli secondo le parafrasi di benemeriti studiosi francesi, son oggi editi, e dovevano naturalmente venir citati anche nella forma originale, così rendendosi manifesti i progressirealizzatinella conoscenza di scrittori, quali Adelardo e Abelardo. Successivamente alla comparsa del secondo volume (seconda edizione) della Storia del Pronti, la letteratura concernente gli Autori da lui studiati si è venuta accre¬ scendo in misura molto rilevante: e non c’è forse un solo scrittore o argomento, per il quale non si rendano necessarie allo studioso informazioni bibliografiche supplementari: ma si è voluto evitar di gonfiare la mole della traduzione, introducendovi dati che ciascuno può facilmente trovare raccolti in opere di uso comune, uni¬ versalmente apprezzale per ricchezza ed esattezza d’indi¬ cazioni, qual è, per citare la più nota, il Manuale del- V Ueberweg (voi. II), nelle più recenti edizioni curate dal Paumgartner e dal Geyer. Questioni che si giudicano definitivamente risolte, in senso contrario alle tesi soste¬ nute dal Pronti — quelle, per esempio, che riguardano l’autenticità degli scritti teologici di Boezio, o le rela¬ zioni tra le « Sumniulae » di Pietro Ispano e la « Si¬ nossi » di Psello — non potevano venir qui dibattute: e al lettore basterà veder accennato il presente stato delle questioni stesse. I volumi del Pronti son tipici esemplari dell arte tipografica tedesca, intorno alla metà del secolo scorso: pagine massicce, caratteri minuti, scarsità di capoversi: tutto quelchecivuole,perdisvogliaredalla lettura, o per renderla più che mai fastidiosa. Ben diverso è l’aspetto delle pagine della traduzione: la necessità di conformarla al tipo prescelto per i. volumi precedenti della Collezione, portava di necessità a un considerevole aumento di mole, in confronto con l’originale: e s è dovuto ripartire in tre volumi la materia compresa dal Pronti nel secondo e nel terzo volume: effettivamente le due ultime Sezioni del secondo volume del testo, la XV a («Influsso dei Bizantini») e la XVI a («Influsso degli Arabi»), trovano il loro posto più adatto, meglio che nel presente volume, in quello che gli farà sèguito: non servono di conchiusione. alla Storia della Logica, ma d’introduzione alla Storia della Logica nel XIII 0 secolo: e formeranno dunque opportunamente, insieme con l’amplissima Sezione XVIP, il contenuto del prossimo successivo volume. Ho avuto cura di render sensibile al lettore come si compartisca e articoli la trattazione del Prantl, moltiplicando i « da capo », e soprattutto dividendo e suddividendo in para¬ grafi le varie Sezioni, ciascuna delle quali forma nel testo un tutto compatto: una modificazione, questa, che osiamo sperare sarà apprezzata segnatamente dagli stu¬ diosi, quando ricorreranno al libro per consultazioni e ricerche particolari. I titoli dei paragrafi e sottopara¬ grafi corrispondono inpartealleindicazioni che il Prantl ha raccolte nell’ Indice delle Materie, e anche riprodotte in capo alle pagine, in parte sono state ag¬ giunte dal Traduttore, il quale ha cercato di tener di¬ stinta, compilando l’Indice stesso, una dall’altra parte, mediante l’uso di tipi differenti. Di regola, e nel corso dell’intiero lavoro, ha incluso tra parentesi quadre tutto ciò ch’è aggiunta sua, dichiarativa o emendativa o inte¬ grativa, evitando tuttavia di esporsi alla taccia di pedanteria con una frappo minuta registrazione delle va¬ rianti: solamente il raffronto fra i testi quali sono rife¬ riti nell'originale e nella versione potrebbe, a chi volesse, fornire la misura della pazienza che ha richiesta la revi¬ sione dell’estesissimo prezioso materiale. Il Traduttore non s’illude di esser riuscito a evitare errori e sviste nel lavoro di versione, trascrizione, retti¬ ficazione: ma ha coscienza di aver fatto tutto quello che stava in lui, per ridurli al minimo: è grato a quanti gli hanno agevolato le ricerche, condotte per lungo pe¬ riodo di tempo, presso Biblioteche italiane e straniere: in particolare ringrazia l'insigne collega Mons. Geyer della Università di Bonn, che gli ha liberalmente offerto ospitalità nella sede dell’Albertus Magnus - Institut di Colonia. Nell’attendereaquestanuova edizione riveduta, era mio primo dovere, come ben s*intende, di adeguarla alla presente condizione degli studi: e sebbene non sieno stati molto nume¬ rosi i contributi, recati negli ultimi ventiquattr’anni allu storia della logica medievale, bisognava certamente trarne profitto con la massiina accuratezza. Ma la nostra conoscenza attuale della letteratura logica di quell’epoca presentando pur sempre, sovra punti particolari, varie lacune, sarei lieto di dare rinnovellato impulso alla pubblicazione di testi supplementari, quali appaion desiderabili, tratti dai preziosi fondi manoscritti delle Biblio¬ teche. Questo augurio vale ancor oggi segnatamente nei riguardi della questione pselliana [sopra la quale son da vedere le Se¬ zioni XV e XVII, nel volume successivo di questa versione], clic io sono bensì convinto di avere oramai risolta in linea di principio, ma che debbo tuttavia qualificare come una questione aperta, in quanto che presentemente ci manca tuttora la cono¬ scenza degli anelli intermedi, che si erano avuti antecedente- mente su terreno bizantino. Pbantl. Monaco di Baviera.Relativamente al Medio Evo si trattava ancora di studiare criticamente tutto quanto il' materiale accessibile, come pure di rintracciare la linea effettivamente seguita dal corso della storia. E, per quest’ultimo rispetto, si rese subito manifesto che proprio la storia della logica può aver il compito di correggere o di compiere la conoscenza della così detta filosofia del Medio Evo. A quel modo cioè che, in ordine alla controversia intorno agli universali, è venuta in luce una varietà di tendenze con¬ trastanti. della quale finora non si aveva la idea, — così si .è potuto in compenso non soltanto delimitare esattamente, in quale misura fosse, in quei secoli, conosciuta la letteratura logica, ma anche fornire la dimostrazione incontestabile, che nell’intiero Medio Evo, senza eccezione di sorta, non c’è stato un solo autore che abbia cavalo fuori dalla propria testa un pensiero che fosse suo: bensì la letteratura di quell’epoca era tutta dipendente e condizionata dalla estensione di un mate¬ riale preesistente, trasmesso per tradizione. Soltanto sobbarcan¬ domi alla fatica indicibile di sollevare e di risolvere, quasi direi frase per frase, la questione della fonte dalla quale la frase! fosse stata ricavata, sono riuscito a esporre in maniera obbiettivamente esatta il corso della evoluzione; e anche quella sola volta che (cioè a proposito di Escilo) non sono stalo più in grado di dar una risposta a quella domanda « Di dove? », non è già che su questo punto resti da ciò alterata la giustezza della mia tesi generale, ma in quel caso speciale semplicemente manca alla ricerca il materiale necessario. Se del resto io per principio mi sono limitata a quella produzione letteraria, che abbiamo a nostra disposizione in pubblicazioni a stampa, sono tuttavia contento di ammettere la possibilità che da varie Biblioteche, utilizzandosi materiale manoscritto, vengano tratti alla luce elementi per rettificare o integrare la mia ricerca, e anzi in più luoghi ho espressamente formulato l’augurio che ciò awengà. Purtuttavia in un caso soltanto ho derogato a quel mio principio: da manoscritti pari¬ gini, additati dall’ Hauréau, ho potuto cioè desumere con gioia ch’era mio dovere addurre il materiale che ivi si trova; poiché n’è derivata luce, non meno nuova che interessante, sopra la relazione di Psello con Pietro Ispano, o piuttosto con i pre¬ decessori e contemporanei di quest’ultimo: un risultato, al quale non si sarebbe mai potuti pervenire, con la letteratura a stampa. | Il l J rantl allude qui munì lestamente a scritti inediti di Gu¬ glielmo da Shyreswood e di Lamberto da Auxerre, dei quali tuttavia egli si è giocato non per il 2”, ma per il 3" volume di questa sua Storia. Si veda, nel volume successivo della pre¬ sente traduzione italiana, la Sezione XVII J. Se i passi delle fonti, copiosamente riportati nelle Note, sembrano spesso (particolarmente nella Sezione [la XVI': vedi il voi. successivo della traduzione ] che tratta degli Arabi) con¬ tenere più ancora di quel che ho esposto nel testo, il lettore vorrà scusarmene, considerando che io mi sono sempre sforzalo di attenermi alla massima possibile brevità, e che pertanto mi son provato a presentare nel testo non una semplice traduzione e neanche un riassunto, bensì la intima essenza dei passi origi¬ nali. Al medesimo intento di brevità servono anche i numerosi reciproci rinvii, nei quali il lettore vorrà ravvisare non un ozioso abbellimento, o imbruttimento, ma un mezzo compendioso di tener dinanzi agli occhi in molti casi una più ampia connes¬ sione. Monaco di Baviera. Le difficoltà che s’incontrano in una rassegna del ‘positivismo’ italiano dipendono, in primo luogo, dall’incerto significato del nome stesso, onde puo essere ugualmente designate come POSITIVA, filosofia -- della quale sembra più interessante mettere in luce le caratteristiche differenziali che non i tratti comuni. I positivisti non si definiscono come tali per la concorde adesione a una rigida dottrina, o per la collaborazione consapevole alla costruzione di un sistema ben determinato: si tratta piuttosto di un indirizzo metodico, di una forma mentale che impronta di sè non solamente la ricerca filosofica propriamente detta, ma l’intiero mondo della cultura. Il positivismo ripone e ricerca la verità nel fatto, intende la conoscenza come relativa, la esperienza come unica fonte del sapere e ultimo criterio della certezza, ritiene che la cognizione filosofica non sia diversa per natura dalla scientifica, e anche non possa se non prepararla e integrarla, assume di fronte ai problemi della metafisica un atteggiamento agnostico o semplicemente negativo, concepisce la natura come universale meccanismo, escludendone la teleologia e, pure affermando la irreducibile diversità della materia dallo spi¬ rito, non crede che da ciò rimanga spezzata la unità e interrotta la continuità del reale, interpetra il mondo dei valori come prodotto della evoluzione psicologica, e dei valori stessi domanda la spiegazione e la giustificazione alle leggi della psicologia. Ma l’accordo — che può anche essere parziale — sopra questi principii non esclude la possibilità di svolgimenti molteplici e autonomi, perchè i principii stessi valgon piuttosto a dirigere nella selezione e nella discussione dei problemi, che non ad anteciparne in concreto la soluzione: onde, chi voglia essere cronista esatto del vasto e vario movimento, si trova di necessità a ravvicinare pen¬ satori che si sono reciprocamente ignorati e che proverebbero senza dubbio grande maraviglia di trovarsi messi insieme: particolarmente in Italia il positivismo è affermazione perenne della libertà filosofica, sì che sembra vano ogni tentativo di esprimerlo con una formula, e si manifesta la necessità di determinarne la fisionomia, conside¬ rando in modo distinto la operosità de’ suoi seguaci. E tale neces¬ sità risulta ancora dal fatto che nella maggior parte dei positivisti italiani, sopra il gusto delle costruzioni sistematiche, ha prevalso la tendenza a esplorare determinati campi della indagine: e però limitarsi a registrare le concezioni generali del mondo e della vita, trascurando i contributi recati da più modesti studiosi alle scienze filosofiche speciali, equivarrebbe a dare del movimento una idea affatto inadeguata. Inoltre, appunto perchè in alcune almeno tra le fondamentali assunzioni del positivismo possono, senza chiaro intendimento del loro più profondo significato, consentire anche quegli scienziati che sono affatto estranei agl’interessi speculativi, avvenne che si de¬ corasse del nome di positivismo anche la loro afilosofia, che fu qualche volta, per dirla con Bruno, la loro filasofia, cioè una me¬ tafisica grossolana, ingenua sino alla inconsapevolezza, e di gran lunga peggiore di quella metafisica contro la quale il positivismo era sceso in campo: positivismo non può infatti essere ignoranza della tradizione metafisica e incapacità d’intenderne le ragioni, bensì dev’esspre revisione critica dei postulati assunti e dei metodi tenuti dalla metafisica stessa. Eppure in un quadro sommario che aspiri a riuscire completo, anche queste manifestazioni di pensiero più povere di critica hanno il loro significato e debbono trovare il loro posto. D’altra parte, in Italia, in questi ultimi anni, le fortune della filosofia idealistica, soprattutto nella sua forma attualistica, indus¬ sero i dissenzienti a costituire una fronte unica contro una dottrina che romanticamente presentava la filosofia, piuttosto come opera di fantasia e prodotto di subbiettiva ispirazione, che non come siste¬ mazione di conoscenze vere: e il comune, se pur tutt’altro che uguale, atteggiamento di opposizione e di reazione, ebbe come conse¬ guenza che tendessero a obliterarsi i caratteri differenziali del po¬ sitivismo da altri indirizzi. A far la rassegna dei filosofi che pròfessano oggi di essere positivisti, si sarebbe indotti a conchitidere che i « quadri » non sono stati mai poveri come adesso : eppure mai come in questo momento è apparsa chiara la influenza del positivismo sopra la educazione mentale e la posizione dottrinale di quei pensatori che non si sono ralliés alla filosofia di moda. Il periodo storico che qui si considera, coincide con il cinquantennio dell’attività filosofica di R. Ardigò; questi, nato a Casteldidone, pubblica La psicologia come scienza positiva », segnandovi le linee fondamentali della sua dottrina, già preannunziata l’anno precedente, quand’egli era ancora prete, nella commemorazione di Pomponazzi — e morì a Mantova, avendo atteso fin quasi all’ultimo giorno, all’opera sua di scrittore. Ma alla costruzione del sistema ardighiano erano precorse in Italia altre manifestazioni di pensiero positivistico. Il sorgere e vigoreggiare della filosofia del fatto si lega in Italia come all’estero, a ragioni complesse, fra le quali prevalgono i mara- vigliosi progressi della scienza, nell’ordine cosi delle invenzioni come delle scoperte, il fervore degli studi storici, la reazione contro le intemperanze del pensiero metafisico, il disgusto dei sistemi do¬ gmatici. Le origini prossime del movimento positivista sono da ri¬ cercare nella scuola di Romagnosi, dalla quale uscirono Ferrari e Cattaneo. Ma Ferrari, rappresentante di un fenomenismo estremo che reca le tracce d’influenze discordi e tende a sboccar nello scetticismo, non orientò il suo pensiero verso il positivismo così decisamente come il Cattaneo: questi è comu¬ nemente riconosciuto come l’iniziatore del movimento e il più ef. ficace banditore della dottrina. Nel Cattaneo, patriotta insigne, cittadino intemerato, scrittore magnifico, mente poliedrica, si manifesta l’interesse per la glottologia, la storia e la politica, la demografia, la economia e la organizzazione tecnica della industria e dell’agricoltura: ne’suoi scritti filosofici, non ammette conoscenza che non sia di fatti, e at¬ tribuisce alla filosofia una funzione sintetica rispetto alle altre scien¬ ze: raccogliendo la eredità del Vico, pone come fondamentale il pro-^ bleina deH’incivilimento: la civiltà è opera dell’uomo; ma l’Uomo dei metafisici è una finzione mentale, che non può adeguarsi alla varietà e alla concretezza del mondo umano; la psicologia indivi¬ duale deve integrarsi nella psicologia sociale, o psicologia delle menti associate; mente non si dà, nè funziona e si forma se non in un giuoco di azioni e reazioni, che, poiché i conviventi operano uno sopra l’altro e ogni generazione scomparsa sopra le successive.] è a un tempo il fondamento della unità sociale e della continuità storica. La dottrina del Cattaneo s'intona al positivismo del Comte e all’umanismo del Feuerbach, sebbene si sia costituita in perfetta indipendenza dall'uno e dall’altro, e contiene germi che dovranno maturare nella filosofia dell’Ardigò (« Opere edite e inedite di Cattaneo). Maestro acclamato e autorevolissimo nelle scienze storiche, Villari, che aveva mostrato, nel « Saggio sull’o¬ rigine e sul progresso della Filosofia della Storia, di risentir la influenza di Comte e Mill, illustrò e favori («La Filosofia positiva e il metodo storico) l’indirizzo storico già preva¬ lente nelle scienze morali, sostenendo che queste non avrebbero potuto fiorire come le scienze naturali, se non ne avessero fatto proprio il metodo, positivo o sperimentale. La influenza esercitata dalla divulgazione della dottrina darwi¬ niana, che apriva nuovi orizzonti agli studi biologici ed ebbe fra noi il suo apostolo più fervido in Giovanni Canestrini ( « Antropo¬ logia »  La teoria dell’evoluzione esposta ne’ suoi fondamenti La teoria di Darwin), è manifesta negli scritti di Tommasi, medico insigne che promosse il progresso delle scienze biologiche dallo stato metafisico allo stato positivo, e ammoniva i discepoli a porsi dinanzi ai problemi della natura, con l’animo sgombro da ogni apriorismo dottrinale e meto¬ dico. Il suo naturalismo è concezione della filosofia come organa¬ mento del sapere scientifico, è realismo rigoroso, che tende a iden¬ tificarsi con il materialismo, e non meno rigoroso empirismo: è evoluzionismo che esclude da sè ogni teleologia («Il naturalismo moderno» 1866 «Il rinnovamento della medicina in Italia). Positivista fu pure Cantani, collega del Tommasi e suo successore nella clinica di Napoli. 3. — Il positivismo italiano non è tutto nella dottrina delI’Ardigò e della sua scuola: ma l’Ardigò ne è, per concorde giudizio, la figura più rappresentativa. Di lui gli undici volumi delle Opere Filo¬ sofiche rispecchiano il genio speculativo e l’animo candido e generoso, la fede inconcussa nel Vero e il culto operoso dell’ideale etico, ce¬ lebrato nella esemplare austerità della vita. Il positivismo del Comte era stato giudicato impari, se pur non affatto insensibile, alla esi genza gnoseologica: nè questa era sodisfatta, in modo positivo, dalITnconoscibiie spenceriano, che rappresenta ancora una entità ontologica, onde si mantiene l’antitesi di sostanza e di fenomeno, e il fenomeno è un relativo che postula un Assoluto e trova alla soglia di questo il proprio limite: il sistema dell'A. si forma fuori da ogni diretta influenza di queste dottrine, per la rivoluzione che lo studio delle scienze naturali opera nella sua mente, resa, da lunga consuetudine, familiare con i classici della teologia e della metafi¬ sica: il distacco dalle vecchie credenze non è definitivo, fin ch’egli non ha trovato la soluzione del problema gnoseologico, e non ha inteso come si possa spiegare la origine delle idee, senza ricorrere alla trascendente facoltà dell’intelletto. La posizione centrale asse¬ gnata alla teoria della conoscenza è la caratteristica più significa¬ tiva del sistema dell’A. « Non è senza significato che il positivismo assuma in Italia, quasi al suo apparire coll’A., fisonomia spiccata di naturalismo sistematico affrontando subito il problema dell’infi¬ nito cosmico e traducendone la visione in una concezione organica dell’universo, e che in questa, come unicamente esteriore ed obiet¬ tiva non si acqueti, ma la integri subito colla ricostruzione sin¬ tetica dell’uiiità della coscienza, e invece che tener separata la que¬ stione gnoseologica dalla cosmologica trasfonda l’una nell’altra creando un nuovo concetto si della natura, sì dell’esperienza, tale che l’uria dall’altra non si separano se non per distinzione sopravveniente; questo non è il positivismo di Comte, nè quello di Spencer, è il positivismo di un popolo ove è indigeno il naturalismo del Rina¬ scimento» (Tarozzi). Il fatto è divino, i principii sono umani: ma il fatto primo e as¬ solutamente certo, per la consapevolezza immediata che ne abbiamo, è il fatto di coscienza, la sensazione: la esperienza che sta a fon¬ damento di ogni verità e che non si può tentar di trascendere senza trascorrere dal reale nel chimerico, è esperienza psicologica. Il mo¬ nismo dell’A. che elimina ogni residuo di trascendenza, esclude come fantastica così la contrapposizione dell’oggetto al soggetto, come l’annichilazione dell’oggetto nel soggetto; e sfugge al pregiu¬ dizio del realismo ingenuo senza incorrere nei sofismi del soggetti¬ vismo radicale. La contrapposizione è fra termini di pensiero, fra gruppi di sensazioni: la sensazione afferma se stessa assolutamente, il conoscere non si deve che alla sua virtualità; ma la sensazione, e l’attività psichica in generale, ponendosi, si sdoppia in due mondi, per il doppio sguardo (diblemma psicologico) onde si compie da un lato la sintesi delle sensazioni interne (Autosintesi, Me), dall’al¬ tro, la sintesi delle sensazioni esterne (F.terosintesi, Non-Me): le sensazioni non sono per se stesse nè interne nè esterne, ma il dif¬ ferenziamento si opera, per la specificazione degli organi di senso e per il contrastare di attività stabili e costanti, ad altre accidentali e intermittenti. La sensazione, in quanto tale, è solo quello che è essa stessa in se medesima; ma la reciproca integrazione delle sen¬ sazioni pertinenti a sensi diversi (le quali son tutte fra loro incom¬ mensurabili o reciprocamente trascendenti), converte la sensazione in percezione, aggiunge alla osservazione l’esperimento («Il fatto psicologico della percezione» 188?). Ed è un imperativo logico la sensazione, non soltanto in se stessa, in quanto conoscenza asso¬ luta o posizione di se medesima, ma anche come percezione, o co¬ noscenza relativa e posizione della propria causa: si definisce cosi la oggettività del sapere, mentre si evita l’errore di risolvere il soggetto nell’oggetto. La conoscenza è relativa, ma non perchè abbia il suo termine antitetico in un Assoluto che trascenda la esperienza e figuri come possibile oggetto di una Mente sovrumana, bensì per quel rapporto d’irreducibilità che il pensiero stesso pone fra i propri termini sen¬ sibili, e che, come tale, è noto («L’Inconoscibile di Spencer e il positivismo» 1883). La materia non farà mai conoscere lo spirito, nè lo spirito la materia: ma la trascendenza così intesa, in senso affatto diverso dal tradizionale, non esclude la fondamentale unità, che è l ’indistinto sottostante ai distinti (Me e Non-Me) che vi si co¬ stituiscono, collegandosi in un organismo logico unico. «L’unità dell’indistinto sottostante alla molteplicità dei distinti, e la continuità del processo della duplice distinzione ('spaziale e temporale) caratterizzano la concezione naturalistica del cosmo » (Marchesini). È una formazione naturale la psiche, e la legge della distinzione, che ne spiega l’essere e ne domina lo sviluppo, è legge di tutte le formazioni nelle quali si specifica la realtà: la preminenza e la priorità del problema gnoseologico rispetto a tutti gli altri problemi filosofici si esprimono nel fatto che appunto dallo studio del fenomeno cogitativo induttivamente si ricava il con¬ cetto della natura come indistinto, matrice onnigena inesauribile, infinita virtualità di successivi che si realizza nella infinità dei coe¬ sistenti. Il processo dall’indistinto al distinto è governato dalla legge del ritmo, la quale spiega come ogni formazione naturale debba sempre essere un ordine, malgrado le accidentalità proprie di ogni ordine dato, che è sempre l’effettuazione di uno tra infiniti altri possibili. Per la universale ritmicità si ha infatti nella natura non il caso, ma la cosa e il fatto, il tipo e la legge, l’impero, dunque, della cau¬ salità; ma causalità non è forma a priori dello spirito, nè semplice successione che generi per abitudine l’attesa del riprodursi del passato; l’idea di causa è una formazione naturale endogenetica per l’esperienza subita dal mondo esterno, onde avvertendo costante- mente una determinata successione, siamo costretti ad ammettere che il fatto precedente ha in sè una condizione e ragione di causare: ogni fatto, dunque, emerge in modo necessario dall’indistinto che lo determina. Ma, d’altra parte, la necessità non esclude il caso, perchè l’ordine si attua in seno all’universo che è infinito: onde il fatto può a un tempo dirsi, per la sua intrinseca necessità, equazione del determinato, e, per la imprevedibilità della sua determinazione necessaria, equazione dell’infinito: poiché l’indistinto non è un si¬ stema chiuso, il distinguersi di uno o dell’altro ordine è casuale. Il determinismo non elimina dunque la casualità, nè semplicemente l’ammette come espressione della nostra ignoranza: ma la riconduce alla varietà infinita che è un positivo aspetto della realtà, non meno che la causalità: il caso è l’effetto prodotto per necessità naturale da una causa imprevedibile, assolutamente parlando, e quindi non assegnabile, o non fissata nella stessa natura, a motivo dell’infinità del suo principio, non solo nei momenti del tempo, che è senza limiti, ma anche negli elementi costitutivi, eccedenti ogni confine di spazio (« La formazione naturale nel fatto del sistema solare; la trilogia: « Il Vero»  «La Ragione» L’Unità della Coscienza). E’ una formazione naturale anche la filosofia, che non soltanto ha funzione coordinatrice e sintetica rispetto alle scienze, ma è la matrice perennemente feconda del sapere scientifico e dei problemi che alla scienza appartiene di risolvere. Come l’indistinto si specifica, per un processo di ascendenza dinamica, nei sistemi ritmici, corrispondenti a gradi sempre più alti di autonomia, cosi la filo¬ sofia si viene differenziando nelle discipline speciali che in essa si unificano e di essa risentono l’azione propulsiva (« Lo studio della Storia della filosofia Il compito della filosofia e la sua perennità). Sopra i contributi recati dall’A. alle distinte scienze filosofiche non posso intrattenermi qui: basti ricordare come il suo realismo psicofisico e il prevalente interesse gnoseoiogico lo abbiano portato alla costruzione di un sistema di psicologia, dove la unità della coscienza figura come idea direttrice, e la critica del vecchio associazionismo prepara la teoria della confluenza mentale — come inoltre sovra basi fisiopsicologiche si eriga una concezione della vita mo¬ rale, nella quale la impulsività della sensazione è assunta a spiegare la imperatività della idealità sociale antiegoistica (« La Morale dei positivisti) — come, ancora, la morale s’integri in una sociologia che è piuttosto una filosofia del diritto, o lo studio della formazione naturale della Giustizia, intesa come forza specifica della società («Sociologia» 1886) — come infine le dottrine fondamen¬ tali si coordinino e sbocchino in ima pedagogia, che pone l’esercizio a fondamento cosi della educazione intellettuale come della educa¬ zione morale (La Scienza dell’educazione). Ardigo, prof, di storia della fil. a Padova, fu un caposcuola, e fra i suoi discepoli vogliono essere ricordati in primo luogo Marchesini, Dandolo, Tarozzi, Ranzoli, Troilo. Marchesini (n. 1868), prof, di ped. a Padova, fondatore e direttore della « Rivista di Filosofia, pedagogia e scienze affini, illustrò la figura del Maestro e ne propagò la dottrina, elevandosi dalla esposizione acuta e fedele alla originale ricostruzione e rielaborazione (« La vita e il pensiero di Ardigo; Ardigo, L’uomo e l’umanista. Il M. ha definito il positivismo d’Ardigò come naturalismo umanistico e questa denominazione designa la duplice direzione nella quale egli stesso ha svolto la propria attività di scrittore, integrando felicemente il sistema, che rivela così nella varietà e la novità degli sviluppi la propria feconda vitalità. Il naturalismo del M. si fonda sopratutto sul principio dell’unità come sintesi universale: egli concepisce la unità come continuità dinamica dei fatti fisico, biologico, psichico, postulando il « fatto minimo », come idea-limite, in armonia con lo stesso concetto della continuità nella eterogeneità, e spiegando con la impossibilità di depotenziarci la presunta inintelligibilità del trapasso, alla quale si devono le due estreme concezioni, idealistica e materialistica. La conoscenza, in quanto è determinata dal reale, in ordine al principio della continuità stessa ha un valore assoluto ed obbiettivo, non già puramente simbolico (« La crisi del positivismo e il problema filosofico» 1893 «Il simbolismo nella conoscenza e nella morale» 1901). Umanistico è detto dal Marchesini il naturalismo dell’Ardigò, principalmente perchè riesce alla celebrazione della persona uma¬ na e dà fondamento razionale e positivo all’idealismo etico e alla dottrina dell’autonomia; negli ultimi libri del M., e non soltanto in quelli che hanno più diretta attinenza con la pedagogia (« L’edu¬ cazione morale» I probi, fond. dell’ed. » 1923 «Disegno stor. delle dottr. ped. 7), si manifesta più che mai spiccata la sua eminente vocazione di educatore. Anche per il M. la continuità non esclude, ma comprova l’auto¬ nomia del soggetto umano, come formazione naturale e pedagogica superiore, sulla quale si fonda il diritto a un orgoglio umano ra¬ zionale come vera e propria virtù etica (« Il dominio dello spirito, ossia il problema della personalità eildiritto all’orgoglio » 1902). Sulla stessa autonomia si fonda il principio della tolleranza come rispetto della personalità nella sua costituzione specifica (« L’intol¬ leranza e i suoi presupposti). L’ideale è relativo alla personalità, ma pensato come assoluto acquista da ciò uha particolare potenza utilizzabile pedagogicamente («Le finzioni dell’anima » 1905). In esso, e nelle sue singole specie, si reintegrano le inclinazioni umane fondamentali, all’infuori d’ogni trascendenza metafisica, ch’è puramente simbolica («La dottrina positiva delle idealità). Nella teoria del M. si ravvisa ante- cipata in alcuni de’ suoi elementi più caratteristici e significativi la filosofia del « come se », che ha avuto in questi ultimi anni singolare fortuna e grande diffusione. Giovanni Dandolo (1861-1908), prof, di fil. teor. a Messina, concepì il problema gnoseologico come problema psicologico, e lo fece oggetto d’indagine accurata e penetrante, rivelando rare attitudini all’analisi e alla rappresentazione della vita mentale. Tra fatti psi¬ chici e fatti fisiologici corre un rapporto unitario di correlazione: il fatto psichico non è il riverbero di un evento fisiologico, ma ha la sua specie caratteristica nella coscienza, che è autonoma, è un distinto che si pone assolutamente e del quale è artificioso e vano ricercare il perchè. I limiti dell’esperienza edelconoscerecoinci¬ dono; e continuo è il processo dal senso all’intelletto, se pur non sia possibile risolvere senza residuo la conoscenza nella sensazione; ciò che è necessità di origine si conserva come necessità di sviluppo: la pura sensazione, unità indistinta, s’integra nella percezione, come l’appetito s’integra mercè la conoscenza nel desiderio, e mercè la ragione nella volontà. Contro il realismo ingenuo e l’idealismo do¬ gmatico il D. afferma la relatività reciproca di soggetto e oggetto; il conoscere in generale, mentre si pone come fatto di coscienza, accenna alla necessità di un eterogeneo, d’un termine correlativo esteriore, distinto e in pari tempo inseparabile dal pensiero. Questo incontra nella esperienza un limite alla propria libertà: nella ogget¬ tività della percezione ha fondamento la oggettività della causa, della legge, della scienza. Contro la dottrina della scienza sostenuta dal Mach, il D., mentre riconosce la incommensurabilità della spie¬ gazione scientifica con i fenomeni naturali, sostiene che fra questi e quella intercede un vincolo, che è un adattamento speciale della intelligenza alle cose: il vero è adattamento conquistato dal pen¬ siero sulla realtà naturale (« Le integrazioni psichiche e la percezione esterna» 1898 « Le integrazioni psichiche e la volontà» 1900 «La causa e la legge nell’interpretazione dell’universo» 1901 «Intorno al valore della scienza» 1907 «Studi di psicologia gnoseologica» 1905-7, oltre a numerosi altri saggi, soprattutto di psic. e di st. della psic.). Tarozzi, prof, di fii. a Bologna, occupa in Italia, rispetto alla tradizione storica del positivismo sistematico, una posizione spiccatamente personale: è stato, e si è professato sempre, discepolo delI’Ardigò: e del positivismo infatti accetta il metodo e alcuni fondamentali postulati: la filosofia è anche ricerca, perennemente promossa dai risultati della scienza e dallo svi¬ luppo dei pensiero comune; scienza e filosofia si differenziano non per il metodo bensì per l’oggetto, e insieme tendono a un fine co¬ mune cioè alla obbiettività, la quale può essere raggiunta dallo spi¬ rito umano solo entro l'ambito della categoria quantitativa, onde ha grande valore filosofico lo sforzo di esprimere il qualitativo in termini quantitativi; la esperienza non è di atti ma di fatti; non è concreto se non ciò che è sicuramente determinabile nel tempo e nello spazio. Ma la originalità del T. si è rivelata anzitutto nelle critiche alle quali egli sottopose il determinismo, ravvisando in questo un residuo metafisico e un elemento estraneo allo spirito del positi¬ vismo. il suo indeterminismo, diverso da quelli del Boutroux, del Bergson, del Mach, congiunge le due concezioni del divenire e della spontaneità del fatto singolo, senza lasciarsi sedurre dal Xóyo; àgy ò? del finalismo (« Della necessità nel fatto naturale e umano). Con l’indeterminismo si collega il realismo gnoseologico, li principio che « la realtà è il fatto della esperienza » consente una soluzione esauriente della questione relativa alla determinazione qualitativa e quantitativa della realtà; ma non basta a dar fonda¬ mento alla persuasione della esistenza della realtà: la conoscenza è contingente, e però presuppone il reale come altro da se stessa, e implica l’idea della esistenza come incondizionalità dell’essere rispetto alla conoscenza; da ciò s’inferisce un reale, di cui tutte le determinazioni appartengono alla esperienza, tranne una, cioè la esistenza, che le si sottrae. Il reale così inteso sfugge a quella determinazione del finito che è propria della conoscenza razionale : e però è l’infinita varietà, che come tale non può essere se non dinamica: infinito dev’essere dunque il principio dinamico dell’in- finitamente vario in ciascun essere che l’esperienza ci presenta come determinato e finito. La contingenza della conoscenza, da un lato, giustifica la distinzione della conoscenza pura dalla conoscenza em¬ pirica e quindi il riconoscimento di leggi proprie del pensiero, dal¬ l’altro, ha in tale distinzione e nella esistenza di queste leggi la propria riprova. Nella conoscenza pura, intesa come conoscenza deH’autonomia dello spirito, consiste il fondamento gnoseologico e logico, dell’idealismo etico. Caratteri dell’idealismo etico sono la coscienza della libertà dello spirito, la responsabilità, l’impero effet¬ tivo dell’ideale. La libertà dello spirito, come rivelazione dell’in¬ finito nella coscienza, e capacità che ha l’uomo di creare il regno della sua umanità morale, non esclude ma implica la obbligazione, l’impero dell’universale: l’antitesi che sussiste fra necessario e infi¬ nito, in quanto quello pone un limite che questo esclude, vien meno, infatti, nella necessità morale, e in essa soltanto, perchè in essa l’infinito si limita non negandosi, ma rivelandosi. La responsabilità, in quanto è correlativa alla obbligazione, è responsabilità non soltanto del male, ma anche del bene, in quanto è indipendente dalla obbliga¬ zione, trascende i limiti dell’attività del soggetto, onde questi tende ad assumere sopra di sè il carico del male della umanità intiera. Effettivo è l’impero dell’ideale, perchè esso come autonomia dello spirito, è, per natura sua, un fine: ma non può essere fine a se stesso, bensì presup¬ pone un reale ateleologico che si offre come oggetto e materia al teleo- logismo in cui esso ideale si esplica; presuppone dunque, nell’ordine degli oggetti, la natura indifferente, nell’ordine dei valori, l’utile, il regno dell’interesse egoistico, in cui l’uomo a questa natura indif¬ ferente obbedisce. Moralità è spiritualità, e spiritualità è successiva trascendenza di fini gli uni rispetto agli altri. Con il sentimento dell’infinito ha affinità profonda il sentimento estetico: l’estetica non determina una distinta regione dello spirito, ma si afferma sovrana, come espressione sintetica della humanitas. La pedagogia idealistica che risolve la educazione nell’autoeduca¬ zione, ripugna al senso comune: la educazione dev’essere spiritua¬ listica, perchè promuovere negli educandi il loro valore propria¬ mente umano, significa avviarli a pensare come vera vita la loro vita interiore. Nonostante le ragioni profonde di dissenso, la dottrina del T. appartiene alla storia del positivismo italiano: il suo spirito fervido, aperto a interessi molteplici, non si ferma appagato sulle posizioni raggiunte, bensì è portato a rispondere con sintesi sempre più alte e più vaste e logicamente meglio coerenti, all’esigenze poste dalla fede generosa e sincera nei valori umani; ma egli non ha mai du¬ bitato che quella rivendicazione morale dell’energia dello spirito, che è nello spirito suo il bisogno fondamentale (Gentile), non sia appunto il programma che il positivismo propone a se stesso e ha virtù di realizzare (Del T„ che finora non ha divulgato in modo sistematico tutte le idee qui accennate, vedi: « La coltura intellet¬ tuale contemporanea » 1897 « Ricerche intorno ai fond. della cer¬ tezza raz. » Menti e caratteri » «La virtù contemporanea» 1900 « Idee di una scienza del bene Il contenuto mor. della libertà del n. Tempo L’educazione e la scuola Note di estetica sul Par. di Dante. Anche Troilo, prof, di fil. a Padova, operoso cultore della st. della fil. (« La dottrina della conoscenza nei mod. precursori di Kant» 1904» B. Telesio » La fil. di G. Bruno Figure e studii di st. della fil.» 1918), manifesta, nella esposizione delle sue vedute teoretiche, il travaglio perenne di uno spirito che si cerca: tutta la sua feconda attività di scrittore è in¬ fusa di pathos profondo. Egli riferisce a un’antitetica che si rivela fondamentale nell’attività dello spirito, il perenne avvicendarsi dei due indirizzi, positivistico e idealistico: e tende a uscirne con una dottrina, che superando la unilateralità delle contrastanti vedute, in¬ tegri il positivismo con una sua propria costruzione teoretica (« Idee e ideali del Pos. » 1909 «Il Pos. e i diritti dello spirito). Il suo atteggiamento di calda simpatia per il sistema dell’Ardigò non gli vieta di criticarne il concetto dell’Indistinto psicofisico, nel quale ravvisa una pericolosa concessione al dualismo; d’altra parte, il fenomenismo puro riesce a una finale identificazione con il sog¬ gettivismo idealistico: a questi indirizzi egli oppone lo schietto Monismo ontologico, la necessità dell’Essere come Dato primo as¬ soluto, assolutamente autonomo. Monismo ontologico, ma, d’altra parte, dualismo gnoseologico: nell'Essere, includente in sè quel¬ la forma della Realtà ch’è lo Spirito, la legge è l’Unità: nel Co¬ noscere, il quale altro non è che funzione, la legge è la Dualità: cosi organicamente si compongono Immanenza e Trascendenza, spoglie di ogni residuo metafisico. Ogni filosofia, come espressio¬ ne integrale teoretica e pratica dello spirito, è filosofia morale, pe¬ dagogia dello spirito umano: Philosophia sire Vita : la filosofia che non deve limitarsi a interpetrare il mondo e deve mutarlo, trapassa in storia (« Filosofia, vita, modernità » 1906 « La conflagrazione). Il positivismo del Trailo si determina come Realismo Assoluto : e un Realismo assoluto è anche la dottrina di Ranzoli, prof, di SI. teor. a Genova. L’oggetto della conoscenza non è nè una ima- gine dell’oggetto esterno, nè una creazione del soggetto, bensi lo stesso oggetto che conosce se stesso, e, conoscendosi, .si pone come identico a sè e come diverso da sè, come conoscente e conosciuto, come spirito e come natura (L’idealismo e la fil.). Porsi come natura si¬ gnifica rappresentarsi e « distendersi » in quei rapporti spaziali e temporali che risultando dalla mutua irreducibilità degli elementi della conoscenza, e quindi del reale, si possono definire come la visione panoramica che il reale ha di se stesso («Teoria del tempo e dello spazio). Lo spirito costituisce il ritmo supremo del¬ l’esistenza, ossia il limite di quel processo d’individuazione che rappresenta la legge fondamentale della realtà : legge che non ha nulla in sè di finalistico, ma esprime al contrario la fusione del caso con la causalità (« Il caso nel pensiero e nella vita). Queste idee sono espresse dal R. in una prosa ch’è sovente un modello di stile filosofico: anche di lui può dirsi, come del Dandolo, che la natura sobria dell'ingegno si riflette nella composizione nitida e organica delle dottrine, ma non vieta di avvivarne efficacemente la espressione con imagini colorite e vaghe. Ranzoli, in un pregevole saggio sopra « La fortuna di E. Spencer in Italia» (1904), ha dimostrato che il positivismo no¬ stro mosse i suoi primi passi sotto la sola guida del Comte e del Littré, ma se n’è staccato ben presto, attratto dalle ampie formule della filosofia spenceriana, che meglio si accordavano con la natura del nostro ingegno e delle nostre tradizioni filosofiche, rappresentate non soltanto dal naturalismo del Rinascimento, ma anche da quel filone solitario di filosofia sperimentale che si continua ininterrotto attraverso il Sette e l’Ottocento: il positivismo dello Spencer, me¬ glio di quello del Comte, aiutò l’ingegno italiano a ritrovare se stesso: l’Italia di platonica che era, divenne spenceriana, passando per lo hegelismo: fra questo e il positivismo è l’abisso, ma la scuola hegeliana, dalla quale uscirono alcuni fra i primi positivisti (Marselli, Villari, Angiulli) annovera anche pensatori (basti ricordare il Fiorentino) che, rimanendo sul terreno dello hegelismo, riconob¬ bero, nei limiti della filosofia della natura, il valore del principio della evoluzione. E il positivismo italiano fu, per molta parte, evoluzionistico: il fascino esercitato sopra le menti dalla idea di evo¬ luzione trae il sacerdote giobertiano Trezza, bene a ciò preparato dagli studi storici filosofici religiosi, a convertirsi a una intuizione naturalistica, della quale egli fu il poeta piuttosto che il filosofo: le sue idee si organizzarono (La critica moderna) intorno ai due concetti, della relatività di tutti i fenomeni, onde natura e storia gli appaiono come una serie di trasformazioni perenni — e. della immanenza delle leggi cosmiche che sottrae la natura e la storia all’intervento e all’arbitrio delle volontà trascendenti (Melli). La sintesi spenceriana trovò largo consenso fra gli scienziati: minor favore incontrò la dottrina dell’Inconoscibile, combattuta, per opposte ragioni, da hegeliani e da neo-criticisti, da spiritualisti e da positivisti; ma è manifesta la influenza dello Spencer sopra quel movimento di pensiero che ebbe per organo la « Rivista di filosofia scientifica), fondata e diretta da Morselli, prof, di psichiatria a Genova. L’opera di lui è soprattutto notevole per lo sforzo assiduo di richiamare i filosofi alla scienza e gli scienziati alla filosofia, combattendo la metafisica an- tiintellettualistica, e reagendo contro io spirito antifilosofico, mani¬ festato o anche ostentato da molti scienziati puri. Il M. rappresentò autorevolmente una filosofia monistica ed evoluzionistica, consapevole della propria funzione sintetica e non ignara delle proprie in¬ time difficoltà, ma da ciò indotta non a cedervi bensì a superarle - e una psicologia che si rende conto dei limiti, ma anche del valore del metodo introspettivo («La fil. mon. in Italia» Id. id.» L’evoluz. monistico nella conosc. e nella realtà» 1889 «Il darwinismo e l’evoluzionismo La psic. scient. o pos. e la reaz. neo-ideal. »  ecc.). Classiche sono le ricerche biopsicoso- ciologiche del M. sul suicidio. Anche a dire del M. («C. L. e la fil. scient.» 1906), Cesare Lombroso (1836-1910), prof, di antrop. crim. a Torino, non fu un filosofo: la sua Weltanschauung è schiettamente materialistica, la sua psicologia è puro somatisino; ma se si pensa quanta luce è derivata dalle indagini ch’egli compì o promosse, alla cono¬ scenza delle manifestazioni psicologiche anormali o supernormali; se si considera quante idee, accolte, quand'egli le mise in circo¬ lazione, come scandalose o ridicole, sono diventate, quasi insen¬ sibilmente, elementi vitali della comune cultura e hanno agito sopra la costituzione deila nostra coscienza morale: se infine si pensa alla influenza che la sua antropologia criminale, ispirata a un rigoroso determinismo bio sociologico, ha esercitato in tutto il mondo sopra la legislazione penale è debito di giustizia ricordare l’attinenza dell’opera di lui e de’ suoi discepoli, con il movimento  della filosofia scientifica («L’uomo delinquente» L’anthrop. crim. L’uomo di genio» 1888 «Nuovi studi sul genio). Alla negazione del libero arbitrio e alla fondazione .di una dottrina della imputabilità penale non costituita sopra la responsa¬ bilità morale, diede opera, con altri, Enrico Ferri (n. 1856), fon¬ dando quella scuola del diritto penale, o piuttosto della criminologia, che fu detta positiva, e che propugnò lo studio e la conside¬ razione non del delitto, ma del delinquente. Il Lombroso diffuse in Italia, La circolazione della vita » di Moleschott. Questo saggio, nel Moleschott, prof, a Torino, sostenne le proprie vedute materialistiche, ebbe parte notevole nella ispirazione della dottrina lombrosiana. Al materialismo aderirono o per lo meno inclinarono molti fra i cul¬ tori delle scienze biologiche : e un tale indirizzo è manifesto nelle ricerche psico-fisiologiche di Schiff, prof, di fisiologia a Firenze («Sulla misura della sensaz. e del mo¬ vimento» 1869 «La fisica nella filosofia» 1875), del suo discepolo, Herzen (Fisiol. e psicol., La condizione fisica della coscienza » « Della nat. dell’atti¬ vità psich. » «Il moto psich. e la coscienza) che nell’« Analisi fisiologica del libero arbitrio umano illustrò il doppio determinismo, organico e sociologico, delle azioni umane; e dell’antropologo Sergi, già prof, a Roma (« Elem. di psic. L’origine dei fenomeni psichici), studioso anche di problemi pedagogici (« Per l’educazione del carattere » Educazione e istruzione» 1892). Le vedute del Sergi furono impugnate da Regalia, sostenitore della tesi che il dolore è l’antecedente costante e immediato di ogni azione (saggi vari, cinque raccolti nel voi. « Dolore e azione » 1916). Un altro antropologo, Vignoli, coltivò la psicologia comparata (animale e etnografica) e genetica (« Peregri¬ nazioni psicologiche » 1895). L’esclusivismo psicologico nella spiegazione delle malattie men¬ tali e le ragioni filosofiche che sono poste a suo fondamento furono combattuti dal grande clinico Murri (Nosologia e psicologia. Non si staccò dall’indirizzo materialistico Gabriele Buccola, il quale a Reggio Emilia — dpve sotto la direzione di Augusto Tamburini, e più recentemente di Giuseppe Guiceiardi, ebbero grande impulso la psicopatologia e la freniatria — avviò ricerche psico¬ metriche che ebbero larga eco anche all’estero («La legge del tempo nei fenomeni del pensiero). Ma scarso è il contributo diret¬ tamente recato dai filosofi positivisti alla psicologia con ricerche sperimentali, alle quali attesero prevalentemente seguaci di altri indirizzi o studiosi estranei alla milizia filosofica. Allo studio spe¬ rimentale delle emozioni contribuì poderosamente Angelo Mosso, prof, di fisiologia a Torino (La paura, La fatica), studioso anche di problemi educativi, il quale aderì alla teoria Lange-James: a lui e alla sua scuoia (particolarmente al lombrosiano Mariano Luigi Patrizi, prof, di fisiologia a Modena) è dovuto il primo impulso alle ricerche di psicologia applicata ai problemi sociali e del lavoro (psicotecnica). Il nome del Patrizi è legato anche a tentativi d’interpretazione delle opere d’arte con il sussidio della psicologia positiva («Saggio psico antropol. su 0. Leopardi» 1895 «Il Caravaggio e la nuova crit. d’arte. Treves, scolaro del Mosso, contribuì alle stesse ricerche (per es. con studi sopra le relazioni fra emozioni e lavoro muscolare) e particolarmente coltivò le applicazioni della psicologia alla pedagogia e alia tecnica scolastica, portando modificazioni alla scala metrica del Binet. Al problema della valutazione della intelligenza, e inoltre agli studi di psicologia e pedagogia dei deficienti («Edu¬ cazione dei deficienti»1915)si dedicò Sanctis, prof, di psicol. a Roma), autore anche di apprezzate ricerche sopra i sogni. Benemerito della pedagogia correttiva è Ferrari, direttore dal 1905 della Rivista di Psicologia. Brofferio, prof, di st. della fil. a Milano («La filosofia delle Upanishadas », postumo), esercitò la propria attività nella sistemazione della psicologia e, sopra saldo fondamento psi¬ cologico, della gnoseologia positivistica : si propose il problema della classificazione delle specie della cognizione, come propedeutico rispetto al problema dell’origine, razionale o sperimentale, della cognizione, e ridusse le intuizioni, per le quali la esperienza è resa possibile, alla intuizione fondamentale del numero (unità e molte¬ plicità), la quale s’integra in quelle della quantità (intensità) e della qualità; ma di quella intuizione egli illustrò la natura sperimentale. Scarso è il contributo recato dai positivisti, alla estetica. Oltre a Mantegazza, professore a Firenze (Epicuro), autore anche di molto fortunati studi sulle emozioni, si può appena ricordare Pilo («Estetica Psicologia musicale» 1904) e Adelchi Baratono («Sociol. estetica» 1899): quest’ultimo, autore anche di lodati «Fondamenti di psicologia sperimentale» (1906) ha coltivato poi di preferenza la pedagogia, con indirizzo criticistico. il preteso a priori non è se non la esperienza accumulata della razza. Il positivismo affermando, in contrasto con il materialismo degli scienziati, la relatività della cognizione e precludendosi la via alla ricerca della realtà assoluta, lascia la possibilità di fondare sovra prove morali la credenza nella esistenza di Dio e di appagare la invincibile aspirazione alla immortalità. Il B. ravvisò poi nelle espe¬ rienze spiritiche la verificazione sperimentale di quelle ipotesi che aveva da prima accolte per volontà di credere («Le specie del¬ l’esperienza » Man. di psic. » 1889 « Per lo spiritismo). Anche Ettore Galli, lib. doc. a Padova, pone a fondamento della filosofia la psicologia, analitica e genetica: origine del conoscere è il sentire, che è fatto biologico. Le leggi della ragione sono le leggi dell’apprendere; e si apprende quando un fatto di sentire - secondo una legge dinamica universale - si fonde, in ciò che ha di comune, con virtualità di sensazioni anteriori: tale processo si ripete in tutte le operazioni del pensiero. La realtà è tutta relativa al conoscere, e quindi al sentire: dal sentire nascono così l’io come il nonio. E il sentire è anche base della morale. La vita, la quale per con¬ servarsi e integrarsi suggerisce agli uomini la collaborazione e la divisione del lavoro, ha nel dovere un mezzo che poi agli effetti pratici vien postulato come fine delle azioni. E al dovere s’informa anche la educazione, in quanto è mossa dall’esigenze della vita (Nel regno del conoscere e del ragionare» «Alle radici della morale» «Nel dominio dell’io, Alle soglie della metafisica. Dell’attività esplicata dall’Ardigò, dal Marchesini, dal Ta¬ rozzi come pedagogisti, già si è fatto cenno. L’indirizzo positivistico ebbe, in generale, grande influenza sopra la scienza della educazione: e si onora anzitutto del nome di Gabelli, che professò un positivismo agnostico, combattendo le degenerazioni materialistiche; ma più che ai problemi speculativi, volse la mente ai problemi della pratica: propugnò l’applicazione del metodo spe¬ rimentale alle scienze morali, e delineò un’etica utilitaria, fondata sopra l’amor di sè, distinto daH’amor proprio (« L’uomo e le scienze morali » 1869). Esplicò la sua missione socratica (Credaro) con la diagnosi severa — condotta da un punto di vista rigidamente con¬ servatore — dei mali morali del popolo italiano e con la indica¬ zione del rimedio, che doveva consistere in una educazione diretta a formare le teste, a bandire l’artifizio, il verbalismo, la retorica, ad assumere come elementi integranti del carattere idee chiare verificate al paragone della esperienza: il miglioramento morale è indissolu¬ bilmente legato al progresso intellettuale: non sussiste contraddizione tra il fine umanistico e l’indirizzo realistico della educazione («Il metodo d’insegnamento nelle scuole elementari d'Italia Riordinamento dell’istruzione elementare. Relazione, Istruzioni e programmi» L’istruzione in Italia). Angiulli, prof, di ped. a Napoli, reagisce contro l’imperante hegelismo con un sistema, ispirato alla fede nel valore teoretico e sociale della scienza positiva, .che è legata con la filo¬ sofia da un vincolo d’interdipendenza: ripudia l’Inconoscibile e am¬ mette la possibilità, per la virtualità dell’astrazione, di una metafi¬ sica critica e scientifica, evoluzionistica e relativistica. La dottrina della evoluzione cosmica informa di sè anche la morale scientifica progressiva (migliorismo), la quale s’integra con la cosmologia in una religione nuova: l’A., determinista, ammette negl’individui an¬ che il determinismo dell’ideale. Ma l’ideale non si realizza se non nella e per la educazione, intesa non come sempiice adattamento alle condizioni esistenti, ma come preparazione a nuove conquiste. Tutti i problemi sociali s’incontrano nel problema pedagogico, che dev’essere risolto teoricamente con la costituzione della pedagogia sopra fondamento scientifico e filosofico, praticamente con l’attua¬ zione sua negli ordini della scuola e della vita. Liberale in politica, l’A. rivendica allo Stato il diritto, che è dovere, d’impartire la edu¬ cazione nazionale e la istruzione obbligatoria e laica. L’incremento della cultura femminile deve render possibile che si armonizzino, nella scienza, la educazione domestica e la pubblica. La istruzione scientifica deve in tutti i suoi gradi essere animata da spirito filosofico («La Filosofia e la ricerca positiva » 1868 «La Ped., lo Stato e la Famiglia» 1876 «La Fil. e la Scuola). Siciliani, prof, di ped. a Bologna, aspirò a una sistemazione del positivismo italiano, sulla traccia di Galileo e del Vico e in armonia con l’evoluzionismo («Sul Rinnovamento della Fil. pos. in Italia). La sua pedagogia ha a fondamento la storia della educazione e ne ricava i due principii della dignità in¬ trinseca della «santa» personalità umana, e dell’autodidattica (La Scienza nell’Educ. Rivoluzione e Ped. moderna). Fornelli, prof, di ped. a Napoli, contribuì a diffondere in Italia la dottrina herbartiana (« Studi herbartiani » 1913), la quale tuttavia dovette la sua maggiore fortuna fra noi all’opera di Luigi Credaro (« La Ped. di G. F. Herbart): ebbe vivo il senso della importanza del problema pedagogico nello Stato liberale e propugnò la laicità della scuola che deve trovare nella scienza il proprio centro. La misura dell’esigenze che si pongono sopra il fanciullo dev’essere ricavata dalla considerazione non della sua costituzione psicologica, ma della finalità civile della educazione. La volontà è determinata, ma tra i fattori che la determi¬ nano è compresa anche la individualità: e in ciò la responsabilità trova il proprio fondamento. Fu sostenitore, nella istruzione secon¬ daria, di un temperato classicismo («Educazione moderna» 1884 «L’Insegnamento pubblico ai tempi nostri» 1881 «L'adattamento nell’educazione» 1891). Dominicis, già prof, dì ped. a Pavia, si è ispirato ai principii dell’evoluzionismo e del darwinismo («La dottrina dell’evoluzione); ha determinato, in base alla esperienza naturalistica e storica, i fattori, le leggi, i fini della educazione, il fondamento e i limiti della sua efficacia, acutamente analizzando la vita interna della scuola (« Scienza comparata della Educ.), e ha esercitato grande influenza («Linee di Ped. elem. » 1896) sopra la formazione dei maestri. Colozza, prof, di ped. a Palermo, concepisce non diversamente dal suo maestro Angiulli la scienza della educazione nel sistema della filosofia scientifica ed evoluzio¬ nistica («Saggio di Ped. comparata» La Ped. nei suoi rapporti con la Psic. e le Se. Soc.): ma ha temprato il forte e indipendente ingegno nell’analisi psicologica, nella ricerca del fon¬ damento psicologico della pedagogia, nello studio di problemi edu¬ cativi e didattici, nella revisione di concetti comunemente accolti senza discernimento critico: dal ripensamento originale della dottrina del Rousseau ha tratto conforto alla fede nella virtù del me¬ todo attivo; ha risposto negativamente al quesito se esista la edu¬ cazione dei sensi («Il giuoco nella psic. e nella ped.» 1895 «Del potere d’inibizione» 1898 «La meditazione» 1903 «Questioni di Ped.» 1911 «Il metodo attivo nell 'Emilio. Ripensando l ’Emilio » La matematica nell’opera educativa). Valle, prof, di ped. a Napoli, studiò la formazione dell’autocoscienza, nel riguardo della forma e del contenuto (« La Psicogenesi della coscienza): ma prevale nell’opera sua il gusto delle vaste costruzioni. La vita umana dà materia alla indagine sperimentale del lavoro mentale (che è sempre un mezzo), e alla indagine speculativa del Valore (che è sempre un fine,): donde due dottrine pure (Psicoenergetica, Axiologia) e due dottrine applicate (Psicotecnica, Teleologia). Il D. V. può dirsi positivista, quando ricava « Le Leggi del lavoro mentale » per induzione da espe¬ rienze, anche originali, e ravvisa nella pedagogia sperimentale un capitolo della psicotecnica (come la ped. fil. è un capitolo della teleologia). Ma la sua axiologia realistica lo allontana dal positivismo. I Valori (esistenziali, logici, estetici, morali, economici) sono rive¬ lati ma non contenuti dalla coscienza: sono il prodotto di una sin¬ tesi a priori ; possono esser creduti, ma non dimostrati; sono assoluti, trascendenti, cioè indipendenti da ogni singola mente e validi potenzialmente, anche se non intuiti empiricamente da alcuno. Si unificano oggettivamente nella Realtà assoluta trascendente (Dio), soggettivamente nella coscienza generica assoluta. L’educazione con¬ siste nella creazione e acquisizione delle varie classi di valore (« Teoria Gen. e Formale del Valore, come fondamento di una ped. fil.: Le premesse dell’Axiol. pura»).Montessori ha coltivato l’« Antropologia pedago¬ gica, ma il suo nome è soprattutto legato alle Case dei bam¬ bini, che hanno avuto ampia diffusione anche all’estero e nelle quali il principio di spontaneità è portato alle sue estreme applicazioni («Il met. della ped. scient. applicato all’educ. inf. nelle Case dei bambini» 1910 « L’autoeduc. nelle se. elem. » 1916 «Manuale di ped. scient.). Tauro, lib. doc. a Roma, autore di un lodato profilo del Pestalozzi, ha propugnato il metodo positivo ed evoluzionistico nella ped., scient. e filosofica, della quale ha delineato un piano sistematico (« Introd. alla ped. gen.): ha studiato « Il probi, delia coltura nelle sue attinenze con la scienza e con la scuola, ha affrontato questioni di ped. applicata, relative alla educaz. intellettuale (« L’unità mentale e la concentraz. della istruz.) e alla formazione del maestro (« La preparaz. degl’in¬ segnanti elem. e lo studio della ped.), ha, infine, assunto il silenzio a oggetto di analisi psicologiche e di ricerche storiche accurate, fermandosi a considerare il silenzio interiore come mezzo e processo dell’autoeducazione («Il Silenzio e l’Educazione dello Spirito). Per Resta, lib. doc. a Roma, realtà propria del vivere umanno è non l’errare a caso in balia delle contingenze (attualità,ed eterogenesi dei fini), ma la conformità dei risultati com¬ plessivi a un piano di svolgimenti progressivi (persistenza, e omo- genesi dei fini). Occorre perciò (ed è tendenza dell’uomo) una forma o norma di vita, per la progressiva riduzione dell’ordine naturale e attuale dello sviluppo umano, secondo l’ordine ideale o finale della vita. Una tale forma o legge delle realizzazioni umane è la educazione: e questa è, da un lato, inerente al vivere umano, ma si rivela anche, dall’altro lato, specifica cioè distinta e originale, in quanto si definisce come legge di maestria, cioè come il farsi mae¬ stro e far da maestro, mediante una progressiva azione di corri¬ spondenza delle potenzialità ed inclinazioni del soggetto (ordine attuale) alle finalità della vita (ordine finale). La educazione è dunque attività di sforzi perfettivi possibili (legge di convenienza progressiva) che si trasformano in abilità o autonomia (legge di maestria) del soggetto nei fini della vita: suo modello dev’essere la personalità più saldamente autarchica (l’autonomia) nella miglio¬ re realizzazione dell’ordine ideale (Peunomia) « L’anima del fanciullo e la ped. » 1908 «I probi, fond. della ped. » Trattato di Ped. 1 » L’educaz. del geografo. 11 carattere umanistico della morale dei positivisti è stato già rilevato. Troiano, prof, di fil. mor. a Torino, studioso benemerito dell’etica greca, defini come umanismo la sua filosofia : umanismo critico e integrale, distinto dall’uma¬ nismo pragmatistico, perchè tien separate le categorie gnoseologiche e quelle pratiche. L’uomo è il centro teoretico e appreziativo del mon¬ do: tutto da lui prende luce e si predica, tutto da lui prende senso e si avvalora. Fondamento di ogni valutazione è uno spirito individuale, che è l’unico reale: lo spirito assoluto è impensabile, lo spirito colletti¬ vo una metafora. Ma nell’individuo esistono pure tendenze collettive e storiche, e tendenze universali: individualismo e universalismo sono aspetti inseparabili deH’umanesimo concreto. Ogni etica metafisica è essenzialmente eteronoma e dogmatica: la concezione subbiettivi- stica dei valori porta a costruire la morale sopra fondamento psi¬ cologico. Centro della vita psichica, organo dei valori finali, rego¬ latore supremo della vita è il sentimento, che è il Iato subbiettivo e vissuto d’ogni fenomeno psichico, e però espressione immediata dello stato del soggetto: fondamento di una morale autonoma è il sentimento non come dolore (tendenza) o piacere (fruizione), bensì come sentimento di calma che rivela lo stato di tregua per la so- disfazione avvenuta e l’armonia di tutte le tendenze: all’edonismo va sostituito l’alipismo: il senso di tutto il mondo dello spirito umano è spirito, sospiro o conato di pace, di liberazione dal do¬ lore. L’umanismo pedagogico assume a fine della educazione la perfetta formazione degli organi individuali dei valori umani, infor¬ mandoli al sistema storico della coltura: la educazione deve tendere a sostituire i valori religiosi con valori spirituali più alti, vincendo la superstizione del divino con la celebrazione divina dell’umano (« Etilica. I » « Ricerche sistematiche per una fil. del costume. I » «La fi!, mor. e i suoi probi, fond. » 1902 « Le basi dell’uma¬ nismo » 1907 «L’umanismo ped. » 1908»). L’umanismo etico di Cesca, prof, di st. della fil. e di ped. a Messina, è fondato sul fenomenismo gnoseo¬ logico ed esclude da sè il trascendentalismo, ma culmina nella concezione di una religione morale e umanitaria (« La religione morale dell’umanità» La Fil. della vita» La Fil. del- l’az. » 1908). La religione identificata con la forza della idealità continuamente aspirante al meglio, viene anche a identificarsi con la educazione moderna che, distinguendosi dall’addestramento, deve rivolgersi all’Io profondo dell’educando («Religiosità e ped. mod.). Il C. costruisce la pedagogia generale sopra fonda¬ mento evoluzionistico: il suo pluralismo critico tende a superare « Le antinomie psicologiche e sociali della educazione» (1896) nella concezione della educazione stessa come processo unitario, realiz- zantesi nella concordia di discordi molteplici fattori. In Juvalta, prof, di fil. mor. a Torino, è particolarmente viva la consapevolezza della esigenza critica. Non ha scritto molto: ma gli scritti suoi (« Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica » 1901 « Su la possibilità e i limiti della morale come scienza» 1907 «II vecchio e il nuovo problema della morale »  I limiti del razionalismo etico) son tutti il frutto di meditazione severa, promossa da un irresistibile bisogno di chiarezza che lo trae a rivedere assiduamente non soltanto le soluzioni dei problemi etici che sono state proposte nel corso della storia, ma anche i ter¬ mini e la posizione dei problemi stessi. Le esigenze di ordine morale sono fondamentali e decisive nella posizione e nella soluzione dei problemi di ordine metafisico; e direttamente o indirettamente ne dipendono anche le questioni filosofiche, che a primo aspetto si presentano come d’interesse prevalentemente teoretico. È dunque, nonché opportuno, necessario affrontare i problemi morali indipen¬ dentemente da presupposti di qualsiasi indirizzo filosofico, implicanti una particolare soluzione dei problemi della realtà e della conoscenza. Nella scelta fra le diverse intuizioni religiose, o fra i diversi sistemi filosofici, prevale l’atteggiamento personale della coscienza morale. Lo J. crede alla possibilità di una scienza normativa etica, ma la fa consistere in un sistema di relazioni e di leggi, le quali non hanno valore di norme da seguire, se non nella ipotesi che sia as¬ sunto come fine quell’effetto o quell’ordine di effetti, del quale esse leggi esprimono le condizioni e i fattori. Una tale scienza differisce dalle altre scienze precettive soltanto perchè suppone che al fine suo sia riconosciuto un valore di universale preferibilità e prece¬ denza sopra ogni altro fine. Perchè la determinazione delle norme etiche possa dirsi scientifica, si richiede che il fine sia umana¬ mente possibile, cioè in relazione di dipendenza da una certa forma di condotta collettiva o individuale (e particolarmente per questa maniera d’intendere il carattere scientifico della morale, il punto di vista dello J. si differenzia da quello che ha prevalso tra i positi¬ visti). Perchè le norme sieno norme etiche, si richiede che sia am¬ messo come postulato che il riconoscere al fine assunto valore di universale preferibilità e precedenza rispetto a qualsiasi altro fine umanamente possibile, è una esigenza morale. L’esigenza caratteri¬ stica di una norma morale (esigenza giustificativa, diversa dalla esigenza esecutiva, che è relativa ai mezzi di assicurare la osservanza della norma stessa) è quella di una universale giustizia; e il fine che sodisfa a questa esigenza è una forma di società umana tale, che tutti i socii trovino nelle sue stesse condizioni di esistenza la medesima o equivalente possibilità esteriore di rivolgere la loro attività alla ricerca di qualsivoglia dei beni ai quali la convivenza e cooperazione sociale è mezzo. Allo studio del conflitto fra i criteri fondamentali di valutazione morale, lo J. ha recato, e ancora promette, notevoli contributi. Orestano, prof, di st. della fil. a Palermo, ha coltivato la storia della filosofia e della pedagogia («Der Tu- gendbegriff bei Kant» 1901 «Le idee fondam. di F. Nietzsche»  «L’originalità di Kant» Comenio » Angiulli » Rosmini» L. da Vinci) e la filosofia morale (« I Valori umani» 1907 «La scienza del bene e del male» Gravia Levia» Prolegomeni alla scienza del bene e del male » Pensieri’). Meglio che fra i positivisti, va anno¬ verato fra i seguaci dell’indirizzo critico. Egli ritiene che il positivismo coerente non possa uscire dalla descrizione della vita morale: ma la scienza si rivela insufficiente di fronte alle questioni più essen¬ ziali che la mente umana può proporsi di fronte alla realtà, e delle quali nell’operare umano è implicita una soluzione : la esperienza morale, forse tutta la esperienza umana, non rivela al pensiero la totalità delle condizioni sue: non tutta la realtà è nell’esperienza. 11 progresso dello spirito è segnato dall’accrescimento dei problemi. D’altra parte l’O. ha finora soprattutto inteso a costruire sul terreno della esperienza una scienza del bene e del male, che si limita alla descrizione più economica, cioè più semplice e più completa, dei rapporti funzionali elementari (espressi possibilmente nella forma del calcolo) dei fenomeni morali; e ha portato nn ricco geniale con¬ tributo al problema del valore e della valutazione, considerato cosi in generale come dal punto di vista etico. Ogni sistema di vita morale consiste infatti in un complesso di valutazioni, tendenti a obicttivarsi mediante azioni e a svilupparsi in un sistema di prin- cipii e di leggi. Ammessa la subbiettività del valore, non per questo se ne assume come sufficiente la spiegazione psicologica: la coscienza non è che una piccola sezione della personalità: e quest’ul- tima è coestensiva col sistema della vita, il quale presenta, nel¬ l’aspetto organico psicologico sociale, una composizione multipla e pluricentrica. L’unità trascendentale dell’io è un mito che non spiega nulla. La valutazione è una funzione dell’interesse (che è reazione totale dell'io): è la coscienza riflessa di uno stato d’interesse riferito al suo oggetto. Il concetto ontologico del valore non può essere fondamento della scienza morale, la quale deve adoperare il concetto del valore come un principio formale di sintesi del¬ l’esperienza morale senza obbedire ad alcuna intuizione concreta; caratteristico della reazione morale è pertanto il riferimento di un oggetto particolare d’interesse al concetto fondamentale che si ha della vita nella totalità de’ suoi scopi: questo concetto è il vero fondamento di tutt’i giudizi etici: fondamento relativo, ma che una volta fissato, agisce come principio assoluto. Tale definizione s’integra nella definizione del fatto morale come impiego effettivo, cosciente e volontario della vita in funzione di un tale concetto uni¬ tario, esplicito o implicito, di essa: è la vita che pensa e vuole se stessa, che sceglie da sè i suoi propri modi di essere: il mondo morale è una teleologia in azione. Ma la vita non può pensarsi nè volersi che socialmente: la personalità sociale è il soggetto della esperienza etica, la quale presenta cosi due aspetti, sociale e personale. L’O. riconduce tutte le valutazioni a un comune denominatore, la vita, che è la massima misura umana della realtà e del valore: il valore della vita, poi, è una funzione dipendente del valqre supremo idealmente concepito: per Valli, lib. doc. a Roma, Il Valore Supremo s’identifica con la vita stessa. La sua teoria generale del valore come simbolo di una corrente d’impulsi o di volontà concordi in una direzione, mette in luce la legge di proiezione dei valori, per la quale la coscienza crea ai valori stessi una meta fittizia, considerando come valore proprio l’ujtima parte consapevole di ogni processo vitale, e con ciò crea i falsi assoluti della morale, che devono via via decadere. Valore proprio, rispetto al quale tutti gli altri sono valori relativi, è soltanto la vita, unico valore vero e perciò supremo, nel quale e per il quale esistono gli altri valori, compresi i valori conoscitivi che sono anch’essi valori strumentali della vita. In questa stessa Rivista, il V. ha presentato modificata in senso antiintellettualistico, la teoria della religione sostenuta nel libro « Il fondamento psicol. della religione).  Zini, lib. doc. a Torino, aderisce, sul terreno della gnoseologia, al realismo critico: afferma l’intima unità o mutua compenetrazione dello spazio e del tempo, e svolge una teoria dinamica dello spazio, concepito come emanazione del tempo: la nostra sensibilità, cioè ia nostra vera vita spirituale in quanto è formata di rappresentazioni e di sentimenti, d’intuizione e di volontà, è soggetta alla legge fondamentale del tempo e delio spazio; ma le condizioni per cui nella realtà soggettiva sorgono queste forme fonda- mentali, esistono nella realtà oggettiva, nella natura (« La doppia maschera dell’universo). Nel campo della morale, Z. haprofessato sempre la insufficienza dell’empirismo e si è venuto sem¬ pre più accostando (« La morale al bivio» 1914) alla posizione cri- ticistica, in antitesi con il naturalismo etico e il determinismo: ma può essere annoverato qui per l’opera data alla costruzione di una morale logica, la quale sia l’applicazione alla condotta dei sistemi di cognizioni formulati dalla scienza. Lo Z. ha vigorosamente criticato la morale religiosa, emotiva ed eteronoma, tutta volta alla espia¬ zione del passato e alla redenzione dai peccato, e, svelandone il meccanismo psicologico, l’ha presentata come impedimento alla formazione della personalità libera e responsabile (« Il pentimento e la morale ascetica): egli ha ricostruito la storia psicologica del sentimento e della idea di « Giustizia » (1907), e studiato il pro¬ blema sociale come problema che è anche morale e che trova la sua soluzione non nella socializzazione della proprietà, ma nella partecipazione di tutti alle condizioni di una civiltà superiore (« Proprietà individuale o proprietà collettiva?). Scolaro dell’Ardigò e del Marchesini, L., prof, di fil. inor. a Firenze, ha sostenuto che un’etica indi- pendente dalla metafisica deve abbandonare ogni pretesa normativa o deontologica: il valore morale si specifica come rapporto formale fra la coscienza del dovere  la quale si spiega con la costituzione pluralistica della personalità e della società  e la condotta effettivamente praticata: misura del valore morale è lo sforzo, ed è però competente a giudicarne, in più eminente grado, lo stesso soggetto agente. Dalla valutazione morale strido sensu vanno distinte come « quasi morali » altre valutazioni, fra le quali caratteristiche son quelle dipendenti dalla relazione fra la condotta del soggetto e le aspettazioni dei socii (« I presupposti formali della indagine etica »  «La morale della simpatia «Moralità e normalità» «L’onore e la vita morale). Salvadori, lib. doc. a Roma, contribuì effica¬ cemente alla diffusione della dottrina evoluzionistica, con traduzioni di opere dello Spencer e monografie illustrative (« H. S. e l’opera sua»  «La scienza economica e la teoria dell’evoluzione. Sag¬ gio sulle teorie econ.-soc. di H. S.» «L’etica evoluzionista. Studio sulla fil. mor. di H. S.»); combattè gli errori del tra¬ sformismo meccanico («Natura, evoluzione e moralità) ed ebbe a guida l’evoluzionismo così nel sostituire una spiegazione razionale dei sentimenti morali alle spiegazioni metafisica e pura¬ mente empirica, rivelatesi insufficienti ( « Determinaz., classificaz. e spiegaz. dei sent. mor.), come nel fondare sopra la conci¬ liazione dell’antitesi essere-divenire, un concetto positivo del diritto naturale («Das Naturrecht und der Entwicklungsgedanke. Il positivismo italiano già nel suo fondatore, CATTANEO (vedasi), è, sulle orme del Vico, storicismo: Marselli, scolaro di Sanctis, dopo avere, ne’ primi suoi lavori di fil. della st. e di estetica, ormeggiato lo Hegel, provò poi il disgusto dello abuso che gli hegeliani avevano fatto della Idea astratta e della scienza a priori, e concepì la storia come la più alta tra le scienze di osservazione, che con lo stesso metodo adottato dalle scienze naturali, deve rivelarci le manifestazioni della natura umana e le sue leggi. Il positivismo del M. è una metafisica monistica, che non oppone lo spirito alla natura, nè risolve questa in quello, ma spiega con la legge di evoluzione il progresso da una all’altro («La scienza dellastoria» Le leggi storiche dell’incivilimento», postumo). P. R. Troiano diede opera alla costituzione de La storia come scienza sociale, combattendo il concetto dellastoria come opera d’arte. Da apprezzate ricerche d’etnologia preistorica e protostorica (L’origine degli Indoeuropei), condotte sulla traccia luminosa d’intuizioni del Cattaneo, Michelis procedette ad appro¬ fondire il problema della conoscenza storica. Le scienze di leggi dalla matematica alla sociologia  e la storia lato sensu, rispondono a due distinte esigenze del pensiero: le prime hanno per oggetto quei rapporti condizionalmente necessari delle cose e dei fenomeni che costituiscono la «Natura»: la seconda riesce invece alla costruzione e rappresentazione del reale a titolo di « mondo » o «universo». Hanno torto quei positivisti che vorrebbero sostituire la storia con le scienze di leggi, estendendo a quella il contenuto logico e il tipo epistematico di queste; ma è anche infondata (o fondata soltanto sopra un’analisi insufficiente delle categorie sotto le quali viene pensato il reale come natura, e sovra persistenti vedute astrattistiche e sostanzialistiche) la svalutazione del conoscere matematico-naturalistico. Se la costruzione della storia è il termine d’arrivo di tutto il conoscere, ogni progresso della conoscenza storica ha per condizione il progredire delle scienze di leggi; e se queste avessero un valore puramente convenzionale, neanche la storia potrebbe aspirare a un valore filosofico («II problema delle scienze storiche). Bertazzi, prof, di st. della fil. a Catania, fecondo studioso del pensiero antico, medievale e moderno, ha avviato ampie ricerche sovra «I presupposti fondamentali della storia della filosofia. Asturaro, prof, di fil. mor. a Genova, considerò i problemi morali dal punto di vista dell’evoluzionismo, che, meglio del semplice associazionismo, offre il modo di conciliare il naturale egoismo con l’ideale del disinteresse («Saggi di fil. mor.): si adoperò sopratutto a sistemare la sociologia me¬ diante la classificazione e seriazione dei fatti sociali : approfondì la dottrina del metodo delle scienze morali e la dottrina della classificazione delle scienze ( « La sociologia, i suoi metodi e le sue scoperte). Ma della vastissima letteratura sociologica che dilagò per l’Italia sul finire dello scorso secolo e nel primo decennio del presente, non è il caso di far parola: sopra quella emergono per l’austera serietà degli intendimenti e la rigorosa fe¬ deltà al metodo positivo gli « Elementi di scienza politica» di Mosca, prof, di diritto costituzionale a Roma, e il «Trattato di sociologia generale di Pareto: questi scrittori, se pure non fecero professione di filosofia, con il loro pensiero robusto e originale esercitarono grandissima influenza sopra la formazione delle giovani generazioni. Scolaro dell’Ardìgò, Loria, prof, di economia politica a Torino, sociologo ed economista dei più eminenti, ricercò un principio che lo guidasse alla spiegazione organica della vita sociale: non si propose la soluzione di problemi speculativi, ma intese il materialismo storico come un ferreo determinismo economico e ne trasse nel modo più intransigente estreme illazioni («Le basi economiche della costituzione sociale). Diffuse con parola lucida colorita efficace la conoscenza del movimento sociologico contemporaneo («La sociologia, il suo compito, le sue scuole, i suoi recenti progressi» «Verso la giustizia sociale). La concezione della storia come divenire automatico e fatale dei processi economici, e la interpretazione del materialismo storico come applicazione della filosofia materialistica alla storia, sono state vigorosamente combattute da Mondolfo, prof, di st. della fi!, a Bologna. Labriola, prof, di fil. mor. a Roma, aveva sostenuto che il materialismo storico deve fon¬ darsi sopra una dottrina di attività, sopra la marxista filosofia della praxis: l’uomo non è un essere passivo e inerte, docile all’azione delle condizioni esistenti: queste, mentre limitano e ostacolano la sua azione, lo stimolano a volgersi contro di esse per reagirvi e trasformarle: le condizioni stesse che l’uomo ha create sono da lui, nel processo della lotta fra le classi, superate e trasformate. Il mar- ximo del L., contro ogni teoria dei fattori storici, artificiosamente separati ed entificati, rivendica il principio della unità della vita e della storia («Saggi intorno alla concez. mater. della st. » ). Anche Mondolfo, autore di pregevoli saggi di psicologia (* Studi sui tipi rappresentativi» 1909) e di storia della filosofia (« E. B. de Condillac » 1902 « La morale di Hobbes » Le teorie mor. e poi. di Helvétius » 1904 «Il dubbio metodico e la st. della fil.» Il pensiero di Ardigò» «La fil. di Bruno nella interpretaz. di F. Tocco» Rousseau nella formaz. della cose, mod. » Acri e il suo pensiero» 1914) e studioso di pro¬ blemi pedagogici e culturali («Libertà della scuola), interpreta il materialismo storico come intuizione volontaristica della vita e concezione critico-pratica della storia (« 11 materialismo stor. di F. Engels» 1912 «Sulle orme di Marx). A fondamento della ricostruzione della dottrina sta lo stesso criterio, per cui la dialettica reale del Marx si opponeva alla dialettica hegeliana della idea, ossia il principio, derivato dall’umanismo del Feuerbach, che restituisce all’uomo la sua concreta realtà ed azione nella vita, affermando di fronte alla realtà dello spirito la realtà della natura. La conoscenza e la storia umana si sviluppano in un rapporto dia¬ lettico fra soggetto (bisogni, aspirazioni, volontà degli uomini) e oggetto (condizioni naturali e storiche): questo si pone come limite, ostacolo e perciò stimolo progressivo all’attività umana e alle conquiste e creazioni, ch’essa compie nella diuturna sua lotta, e che si convertono nelle condizioni nuove, alle quali nuovamente spetterà la funzione di limite e perciò d’impulso a nuovi sforzi di supera¬ mento. In questo volontarismo concreto, che riconosce fra i bisogni umani la preminente impellenza del bisogno economico, è l’essenza del processo storico e, insieme, la direttiva di ogni azione aspirante a inserirsi efficacemente nella storia. Alla conoscenza della dottrina e dell’attività politica degli estremi partiti rivoluzionari ha contribuito validamente ZOCCOLI (vedasi) (« L’anarchia - Gii agitatori - Le idee - I fatti), autore anche di saggi sopra la filosofia dello Schopenhauer e del Nietzsche e già prof, di fil. mor. a Catania. 11 - Largo contributo recarono i positivisti agli studi di filosofia giuridica, nei quali aveva già stampato un’orma profonda Roberto Ardigò con la sua Sociologia. Uno sforzo di conciliazione fra le dottrine positivistiche e il criticismo si ravvisa nei tre volumi delle Opere (1908) di Vanni, prof, di f. d. d.° a Roma, che assegnò alla fil. del dir. il triplice problema gnoseologico, fenomenologico, deonto¬ logico: mise in luce la esigenza gnoseologica implicita nello stesso positivismo conitiano e illustrò la dottrina etico-giuridica dello Spencer: segnò le linee fondamentali di un programma critico di sociologia, riconoscendo la caratteristica della vita sociale nella «storicità-. Le sue Lezioni ebbero grande efficacia sulla educazione mentale di parecchi giuristi. Piuttosto eclettica che propriamente positivistica è la dottrina di Carle, prof, di f. d. d.° a Torino (« La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita soc.»  «La F. d. d°. nello Stato mod.), ispirata ai principii dello storicismo. La necessità di una larga concezione sociologica e storicistica del diritto fu sostenuta da Biagio Brugi, prof, d’istituz. di d° civ. a Pisa ( Introduzione enciclopedica alle Se. giur. e soc. 4 , seguace e propugnatore dei principii della scuola storica, il quale accolse e illustrò la dottrina dell’Ardigò ; da Dallari (La esigenza del posit. crit. per lo studio fil. del dir. » Il pensiero fil. di Spencer, Il nuovo contrattualismo nella fil. soc. e giur.. F. d. d.° e scienza storica dell’inci¬ vilimento); e da Solari (La scuola del di¬ ritto naturale nelle dottrine etico-giuridiche, «La idea individ. e la idea soc. nel d°. privato» li probi, mor.), professori di f. d. d°. a Pavia e Torino. Rigoroso positivista fu Fragapane, prof, di f. d. d°. a Bologna, che sostenne contro il contrattualismo l’unità dell’individuo e del gruppo, dell’idea e del fatto, della coscienza e della società («Contrattualismo e sociol. contemp.), applicò al campo della filosofia giuridica il metodo genetico evolutivo (« Il probi, delle origini del dir.) e combattè l’eclettismo del Vanni, negando il compito deontologico della f. d. d.° (« Obbiettò e limiti della f. d. d.° ). Scolaro del Fragapane e illustratore dell’opera del Vanni è Falchi, prof, di f. d. d.° a Parma («L’opera di I. Vanni» Sulla differenziaz. del diritto dalla mor. » 1904 «Le mod. dottrine teocratiche» I fini dello Stato e la funz. del Potere 1914»), che negò la legittimità della esigenza metafisica nella f. d. d.° Particolare attenzione all’aspetto psicologico della fenomenologia giuridica prestò Vincenzo Miceli, prof, di f. d. d.° a Pisa, che sostenne la riduzione della f. d. d.° per la parte speculativa alla filosofia morale, e per la parte tecnica alla dottrina generale del diritto (« Le fonti del d.° dal p. d. v. psichico-soc. » Prin- cipii di F. d. d.° »). Considerarono la vita del diritto da un punto di vista evoluzio¬ nistico e antropologico Schiattarella, Aguanno e Papale, prof, di f. d. d.° rispettivamente a Palermo, Messina, Catania. Dalla scuola dell’Ardigò sono usciti Alessandro Grappali e Ales¬ sandro Levi: il primo (n. 1874), prof, di f. d. d.° a Modena, contri¬ buì alla critica della Sociologia del Maestro dal punto di vista del materialismo storico (« La genesi soc. del fenomeno scientifico» 1899), fece conoscere in Italia le principali correnti del pensiero sociologico straniero (« Saggi di sociologia » I fondamenti giu.el solidarismo) e assegnò alla sociologia la triplice funzione critica, sintetica e teleologica («Sociologia e psicologia). Levi, prof, di f. d. d.°a Catania, assegna alla filosofia il compito di discutere il problema gnoseologico, e conse¬ guentemente intende la f. d. d.°come logica o gnoseologia del di¬ ritto, differenziato dalla economia e dall’etica come una distinta forma logica o «guisa» dello spirito umano; assume come concetto fondamentale dell’ordinamento giuridico, quello di rapporto giuridico, individuazione della forma logica del diritto, che è l’apprezzamento delle attività nel loro profilo intersoggettivo: «ubi societas, ibi ius». («Contributi ad una teoria fil. dell’ordine giur.» F. d. d.°e tecnicismo giuridico» 1920 «Saggi di teoria del d.° »  « La Fil. poi. di Mazzini). Bartolomei, prof, di f. d. d.° a Napoli, in un saggio giovanile discusse, alla stregua di una metafisica monistica e apprezzò con equanimità e acume « I principii fondam. dell’etica di Ardigò e le dottrine della fi], scientifica, ma il suo ul¬ teriore pensiero si svolse in direzione piuttosto criticistica che non positivistica. Donati, prof, di f. d. d.° a Macerata, ha portato contributi allo studio del diritto come fenomeno, e si è poi rivolto specialmente alle ricerche storiche, rendendosi benemerito degli studi vichiani («Interesse e attività giuridica» 11 socialismo giur. e la riforma del d.° » Il rispetto della legge dinanzi al principio di autorità. Critica alla Fil. civ. di Hobbes »  «Autografi e documenti vichiani inediti o dispersi » Es¬ senza e finalità della scienza del d° » 1924). Roberto Vacca ha tracciato le linee di un programma di f. d. d.° sulla base del metodo sperimentale («Il d.° sperimentale. Il positivismo fu portato naturalmente a contribuire a quel movimento che può definirsi di filosofia della scienza. Positivistico è l'atteggiamento assunto nel suo libro «Scienza e opinioni» da Varisco, prof, di fil. a Roma, il quale non potrebbe esser annoverato oggi più tra i positivisti, dopo la revi¬ sione e le integrazioni alle quali è stato indotto dal suo indomito spirito di ricerca. Il V. distingue assolutamente pensiero e realtà. Questa si compone d’infiniti corpuscoli, estesi ma fisicamente in¬ divisibili, dotati di proprietà psico-fisiche. Fisicamente, i corpuscoli si muovono e all’occasione si urtano; e, quantunque duri, negli urti si comportano come se fossero elastici. La fisica del V. si riduce integralmente a una meccanica, sul genere di quella del P. Secchi: l’accadere fisico è quello che ha luogo tra i corpuscoli, mentre l’accadere psichico è provocato, In ogni corpuscolo, degli urli a cui va soggetto. Non esistono mentalità indipendenti dal fatto del nostro pensare (il V. mantiene anche oggi questo suo concetto, che per altro ha reso più coerente). L’esigenza del nostro pensiero non è se non l’esigenza causale dei fatti psichici che lo costituiscono, Ciascun fatto psichico (separatamente preso) è insieme una forza, e un conoscere affatto embrionale, ma certo assolutamente. Quello che è vero va distinto da quello che consta. P. es.: consta che C è conseguenza necessaria di P; consta che il remo nell’acqua si vede spezzato. Ma C non è vera che sotto condizione; e che il remo sia spezzato, non è punto- vero. Quello che consta non è dunque vero, in generale, che relativamente; peraltro è un vero noto e certo. Al di là di quello che consta c’è un vero assoluto (p. es., la dipendenza necessaria di C da P è assolutamente vera), che può essere in parte ignoto, o non conosciuto con certezza. Per giungere alla cognizione del vero assoluto, è necessario che ci fondiamo su quello che consta. E a ciò si riduce quello, che dal V. fu chiamato il suo positivismo: constano soltanto le conclusioni delle scienze positive (dimostrative, secondo Galileo, il quale riteneva opinabili tutte le altre dottrine). Fine della filosofia,secondoilV.,ilqualeinpropositononmutò molto le sue opinioni, è la discussione del problema, se oltre alla natura psico-fisica ci sia o non ci sia un soprannaturale, cioè se la religione sia o non sia giustificata. Ed egli rispondeva allora che alla riflessione il soprannaturale non può constare; il sentimento del soprannaturale, qualunque ne sia il valore oggettivo, non può essere tradotto in cognizione distinta, non può servire di fondamento alla costruzione del sapere. 1 nomi di Enriques e di Rignano si trovano associati nell’impresa di promuovere con la rivista Scientia (fondata e tuttora fiorente sotto la direzione del R.) la coordinazione del lavoro scientifico, la critica dei metodi e delle teo¬ rie, e di affermare un apprezzamento più largo dei problemi della scienza. «Problemi della scienza» s’intitola il saggio con il quale l’E. , matematico di fama già mondiale, si annunziò come rappresentante di un positivismo che può dirsi critico, domi¬ nato come tale, dalla consapevolezza della esigenza gnoseologica. La teoria della conoscenza, sostenuta dall’E., deriva dall’esame della scienza, non accettata dogmaticamente ma investigata nelle sue origini e nel suo significato: ed è ben giustificata la definizione della sua costruzione come positivismo critico: l’E. infatti elimina il dua¬ lismo di assoluto e relativo, sostanza e fenomeno rappresenta il lavoro scientifico come un progresso senza fine, perchè sono senza fine i rapporti che legano fra loro le cose, e il concatena¬ mento delle cause naturali: e questo progresso concepisce come procedimento di approssimazioni successive, dove dalle deduzioni parzialmente verificate e dalle contraddizioni eliminanti l’errore delle ipotesi implicite, sorgono nuove induzioni più precise, più probabili, più estese ricerca la origine empirica delle concezioni metafisiche, alle quali può attribuirsi soltanto il valore d’ipotesi, capaci talora di preparare scoperte e teorie scientifiche fa oggetto di studio il fondamento psicologico e il contenuto sperimentale delle supreme categorie logiche opera una revisione delle stesse dottrine posi¬ tivistiche, con il fine di escluderne i residui metafisici assume come criterio della verità la esperienza, la quale dimostra se sussista o meno l’accordo fra l’elemento subiettivo della previsione e l’elemento obbiettivo della realtà riconosce come dati immediati della realtà non le sensazioni pure, ma piuttosto i rapporti fra sensazioni e volizioni che condizionano le nostre aspettative, e ne esprimono gl’invarianti elementari riconosce pertanto che la nostra credenza a qualcosa di reale suppone un insieme di sensazioni che invaria¬ bilmente susseguono a certe condizioni volontariamente disposte riesce con la definizione del reale come invariante della corrispondenza fra volizioni e sensazioni a unificare, contro le teorie della scienza, nominalistiche e convenzionalistiche, la comprensione del «fatto bruto» e quella del «fatto scientifico». Tutta l’opera dell’E. è ispirata alla fede razionale nel valore della scienza e al principio della continuità e interdipendenza di scienza e filosofia. Nella valutazione del contrasto razionalismo-storicismo il pen¬ siero dell’E. va sempre più evolvendosi nel senso del razionalismo, ch’egli cerca tuttavia di comporre con l’empirismo da un lato e con lo storicismo dall’altro («Scienza è razionalismo»  «Per la storia della logica). Rignano, lib. doc. a Pavia, ha coltivato gli studi sociologici biologici psicologici: ha esposto criticamente la sociologia comtiana, soprattutto dal punto di vista metodologico («Là sociol. nel Corso di Fil. pos. di A. C. ): ha spiegato il meccanismo di trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti con una ipotesi ontogenetica, che rende conto dei fatti recati a favore così del preforniismo come della epigenesi. L’altra ipotesi sussidiaria suH’accutnulazione specifica, che sarebbe la proprietà fondamentale ed esclusiva della energia nervosa, base della vita, spiega i fenomeni mnemonici propriamente detti e la proprietà mnemonica della sostanza vivente in generale. Così la ipotesi centroepigenetica rientra fra le teorie delio sviluppo, ed è fornito un modello energetico, ca¬ pace di dare una idea della natura intima della vita (Sulla trasmissibilità dei caratteri acquisiti). Hanno origine e natura mnemonica anche le tendenze affettive (« Essais de synthèse scien- tifique). L’analisi del ragionamento, cioè del più complesso tra i fatti psichici, porta a studiare gli altri fatti, sempre meno complessi, che lo costituiscono, fino ai due più elementari, che dànno luogo a tutti gli altri: da un lato, cioè, sensazioni ed evocazioni sensoriali, dall’altro, tendenze affettive (« Psicologia del ragionamento). Così la sola proprietà mnemonica spiega e unifica tutte le manifestazioni finalistiche della vita, dalla ontogenesi e dal preadattamento anatomo-fisiologico ali’ambiente, fino agl’istinti più complessi e alle più alte manifestazioni del pensiero (« La memoria biologica). I nomi di Varisco, d’Enriques e di Rignano mostrano come il pensiero italiano abbia preso parte attiva a quel movimento di revisione critica della scienza, che è una delle caratteristiche più notevoli del pensiero contemporaneo. Ma non debbo dimenticare  pur vedendomi costretto, per non esorbitare dai limiti del mio tema, a un accenno sommario e pur troppo insufficiente  l’opera di Peano (Calcolo geometrico, 1 principii di Geometria logicamente esposti) e de’ suoi discepoli Pieri, Padoa, Forti, la quale tanto ha contri¬ buito a dare alla matematica una rigorosa sistemazione logico-deduttiva, con tendenza nominalistica, escludendo qualsiasi appello all'intuizione. E vuol essere anche ricordato il valore logico e filosofico che, partendo dagl’insegnamenti di Peano e di Garbasso (« Fisica d’oggi. Filosofia di domani), Pastore, prof, di fil. teor. a Torino, ha dato alla logica-matematica e alla teoria dei modelli meccanici (Sopra una teoria della scienza Logica formale dedotta dalla consideraz. di modelli meccanici »  «Del nuovo aspetto della scienza e della fil.»  «Sillogismo e proporzione»  «Il pensiero puro»  «Il problema della causalità). Il calcolo logico, secondo il P., non è che uno degl’infiniti modelli con cui si può rappresentare l’ordine dei fenomeni e prevederli; e tutti sono immagini o simboli equivalenti dell’infinita verità. Ma nelle sue ultime opere il P., superando la posizione di questo suo iniziale nominalismo, accenna ad orientarsi verso unaforma di panlogismo. Al positivismo anzi al positivismo più rigoroso ed estremo va pure ascritta la « filosofia scettica » di Rensi, prof, di fil. mor. a Genova, pensatore fervido, scritore suggestivo, polemista animoso. Egli muove in tutt’i suoi libri principali una vivace battaglia contro l’idealismo assoluto, negando radicalmente ogni assolutezza delle forme o attività spirituali, e sostenendo che nell’ambito della sfera della pura ragione (in quanto cioè la pura ragione, o lo spirito, costruisca cavando esclusivamente dal proprio fondo, a priori, e si concepisca non come determinata dal fatto, dal dato, ma come generante essa l’oggetto) impera sovrana e invincibile l’antinomica ossia lo scetticismo. Ma, quindi, certezza v’è solo nella constatazione sensibile del fenomeno come tale, e a questa certezza è parallelo l’accordo universale, in ciò, delle menti. Comincia il regno dell’incertezza, della mera opinione, e quindi della fantasia (e perciò in un certo senso dell’arte) quando si vuole salire oltre la constatazione del fenomeno per interpretarlo. Dunque, o la filosofia è la constatazione del fenomeno, ed è positivismo e scienza; o è l'interpretazione di esso, ed è mera espres¬ sione d'impressioni, cioè arte, e, dal punto di vista del sapere, scetticismo (« Lineamenti di Fil. scettica » ). Di conseguenza, anche nel campo pratico, morale e diritto non sono costruzioni razio¬ nali che lo spirito cavi con apodittica assolutezza dal proprio fondo, ma sono determinati, qua e là variamente, dalla «Autorità» del fatto esteriore, come il positivismo sofistico e quello hobbesiano avevano scorto («Il diritto», ib. «Filosofia dell’Autorità»  «Introduzione alla scepsi etica). Anche l’estetica è, come forma a priori dello spirito, nient’altro che scepsi estetica (« La scepsi estetica) e come «bello» non può valere se non la valutazione di fatto che pronuncia il gruppo sociale o la specie. Negli ultimi suoi scritti («L'irrazionale, il lavoro, l’amore»  « Interiora Rerum » « Realismo) il R. accentua i caratteri rea¬ listici e nello stesso tempo pessimistici del suo scetticismo. Non come positivista, ma come scettico, vuol essere qui ricordato Levi, prof, di st. d. fil. a Pavia e operoso cultore della st. d. fil. ant. (« Il concetto del tempo nei suoi rap¬ porti coi probi, dell’essere e del divenire nella fil. gr. sino a Platone»  « Id. nella fil. di Platone» «Sulle interpretaz. immanentistiche della fil. di PI.»), mod. («La fil. di Berkeley) e conteinp. (« L’indeterminismo nella fil. frane, contemp. »  ecc.). Il L. («Sceptiea) rappresenta un radicale scettici¬ smo che eliminando da sè ogni elemento dommatico, sfugge alla consueta accusa d’intima contraddizione. Tutte le metafisiche, com¬ preso l’idealismo assoluto, si fondano sopra una concezione realistica, che, in quanto voglia rispondere a esigenze non pratiche ma puramente teoretiche, è senza giustificazione, anzi in contrasto con il presupposto fondamentale del conoscere (costituito dal mio io pensante): tutte - dico — fuorché una, il solipsismo, che da que¬ sto presupposto direttamente deriva, e che, sebbene criticabile perchè includente innegabili irrazionalità, è fra tutte la più plausibile. Contro il positivismo, il solipsismo sostiene che il dato dell’esperienza esige una interpretazione del pensiero, e però non ha valore per sè. L’estetica del L. («La fantasia estetica) si riassume nella tesi che « l’opera d’arte nasce dal mistero, ha caratteri non determinabili completamente ed esaurientemente e suscita in chi la con¬ templa uno stato particolarissimo, irreducibile e non del tutto definibile ». In Sicilia il positivismo si presenta con aspetti caratteri¬ stici nella filosofia dell’identità di Corleo, prof, di fil. mor. a Palermo, e nel radicale empirismo di Guastella, prof, di fil. teor. a Palermo. Nel C., positivistico è il metodo, o il punto di partenza: ma egli con la pura osservazione dei fatti e senza nulla presupporre vuol giungere alla metafisica e a conclusioni eminentemente razionali¬ stiche. Non vi è qualità la quale non si riduca a quantità, e questa riduzione che è il compito della scienza, rende possibile la costruzione di una filosofia che adegui la esattezza della matematica. Il C. ha una concezione atomistica della vita psicologica: dalle percezioni che sono gli atti primordiali del pensiero, e, presentandosi come in parte identiche, in parte non identiche fra loro, sono tutte complessi, identici con la somma delle parti risultano l’analisi e la sintesi spontanee, che operano sopra le percezioni stesse, onde i punti simili di queste si presentano similmente, e i punti per cui si differenziano si separano naturalmente: così si spiegano le formazioni mentali superiori. Lo stesso fondamentale assioma della identità non è dunque che un dato della esperienza, emer¬ gente dalla osservazione del fatto del pensiero: ma è un tale dato che consente di trovare nell’empirico l’assoluto, perchè assoluto è che identicamente apparisca ciò che identicamente apparisce. La noologia del C. è per un verso psicologia empirica: ma per l’altro verso è, in quanto la sua psicologia è piuttosto una schematizza¬ zione matematica di esperienze psicologiche, anche logica e gnoseo¬ logia. La esperienza si eleva al grado di concetto per virtù della legge di priorizzazione, onde gli elementi costanti della rappresentazione di un oggetto «prendono il davanti», diventando tipo e norma de¬ gli altri, e quel che vieti dopo, o si assimila a ciò che precedette e riproduce quegli elementi costanti, o non si assimila e non li riproduce: qui è la fonte della universalità e della necessità: ma i giudizi si fondano tutti sull’analisi del fatto o del concetto e sul riconoscimento d’un’identità parziale o totale: non esistono giudizi sintetici a priori. Alla stregua del principio d’identità il C. esamina e critica le idee madri (categorie) e procede a rettificare e giustificare, contro i positivisti, le idee della metafisica, da quella di atomo a quella di Dio, mostrando che esse hanno pure fondamento positivo e valore obiettivo, perchè sono composte con elementi presi dalla esperienza mediante l’astrazione e la sintesi degli astratti (« Fil. univ. Il sistema della fil. univ. ovvero la fil. dell’identità). Guastella procede sulle orme del Mill, sforzandosi di ridurre il pensiero di lui a maggior coerenza, e professa un assoluto no¬ minalismo. Il suo sistema nell’aspetto ontologico, è un fenomenismo radicale (esse est percipi) e, nell’aspetto logico, psicologico e gnoseologico, un non meno radicale empirismo. Fenomenismo, perchè questa dottrina non afferma niente, nè come conosciuto nè come inconoscibile, ai di là del mondo empirico, intendendosi per mondo empirico l’insieme dei fatti di cui si ha esperienza o che s’inferiscono da questi in virtù della generalizzazione dei rapporti costanti osservati fra di essi, ed essendo esso null’altro che la stessa esperienza. Empirismo, cioè una dottrina sul criterio della verità, che tra i motivi delle nostre affermazioni di quelle che non sono semplici atti di memoria o comparazione non ammette come legittimo che la induzione, e respinge come illegittimi l’evidenza intrin¬ seca (non confermata dall’induzione) e l’influenza della passione e della volontà. Il pensiero ha natura sensibile, e non è costituito se non da imagini concrete e particolari: non esistono giudizi a priori : tutte le nostre proposizioni sono affermazione o negazione della esistenza di certi fatti particolari. Anche le nozioni di causa (notevole la critica dissolvente del concetto di causa efficiente) e di sostanza derivano daglielementi del senso. Non si può affermare altra esistenza che quella dei fenomeni: fenomeni interni o subbiettivi nei quali si risolve il Me, fenomeni della natura esteriore, che si risolvono in sensazioni reali o possibili: non vi è altra scienza pos¬ sibile che quella delle uniformità di successione, coesistenza, somiglianza tra i fenomeni. E il fenomeno è il fatto dell’esperienza, e non esiste se non in quanto se ne ha esperienza: ma questa conoscenza fenomenica è completa e assoluta. Anche la credenza nella esistenza degli altri soggetti ha fondamento nella esperienza, che dà cosi la via di sfuggire al solipsismo. Il postulato della corrispondenza tra spirito e realtà deve essere ammesso come obbiet¬ tivamente valido, senza uopo di prova, perchè esso è anzi impli¬ cito in ogni prova, e non si potrebbe contestarlo senza rinunziare all’uso del pensiero: rientra, in sostanza, nel postulato universale, che noi dobbiamo aver fiducia nelle nostre facoltà. La parte più originale della dottrina dei G. è la Filosofia della Metafisica, cioè la ricerca del fondamento psicologico delle costruzioni metafisiche e la dimostrazione del loro carattere illusorio. Quel fatto che è la metafisica, richiede di essere spiegato: come nasce la tendenza irresistibile a trascendere la esperienza, e come si determinano le varie forme sotto cui ci apparisce questo preteso al di là dei fenomeni? Tale tendenza è tutt’uno con quella che porta ad assimilare tutti i fenomeni e tutte le idee che ci formiamo su di essi ai fenomeni, e alle idee sui fenomeni, che ci sono più familiari: particolarmente ai fenomeni dell’azione della volontà sul nostro corpo donde la filosofia volizionale — e del movimento per urto — donde la filosofia meccanica o impulsionistica («Saggi sulla teoria della con. I. Sui limiti e l’ogg. della con. a priori. II. Fil. della Metafisica» «Le ragioni del fenomenism). Non e il compito di L. considerare le relazioni del positivismo italiano con le filosofie ch’esso trova già vigoreggianti al suo primo manifestarsi, e con le altre correnti che successivamente, in antitesi o in continuità con esso, hanno avuto o'ritrovato fortuna tra noi. La precedente rassegna analitica basta a dimostrare la profondità, l’ampiezza, la fecondità di un movimento che scaturisce da una necessità, immanente allo spirito umano. Fin dal suo ap¬ parire il positivismo fu accompagnato in Malia con i segni aperti di una ostilità che non ha disarmato mai : è leggenda tanto più insistentemente ripetuta quanto più esaurientemente sfatata ch’esso abbia mai ottenuto il predominio nell’insegnamento superiore o aspirato a esercitarvi una tirannica dittatura. Ha tenacemente resi¬ stito all’imperversare di polemiche, le quali hanno sovente trasceso i limiti segnati alla critica onesta e serena, mossa unicamente da zelo di verità. Seguendo la traccia di Ardigò, e trovando in sè la virtù di reagire contro la tendenza al semplicismo e al rozzo empirismo, è venuto progressivamente interiorizzandosi e affinando in sè il senso della esigenza storica e critica: inflessi- bile nel rivendicare alla filosofia la stffi autonomia e la sua distinta funzione, ha tenuto fede al patto di alleanza con la scienza, stretto sul fondamento della unità di metodo : e non è certamente questa la sua minore benemerenza verso la cultura nazionale. Firenze, R. Università.Ludovico Limentani. Luigi Speranza, “Grice e Limentani”. Limentani.

 

 

Grice e Limone: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della simbolica del potere – la scuola d’Atella -- filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Atella). Filosofo italiano. Atella, Potenza, Basilicata. Grice: “I like Limone; like me, he has explored the idea of value in terms of catastrophe – I didn’t. He has explored the poetics of philosophy – and he has investigated on a concept that Strawson and I always found fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel mondo umano, la persona?” “Tutto.” “Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e memoria, Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del personalismo comunitario. Si laurea a Napoli e il  Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry, sede dell'Association des amis de Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi, cui appartenevano Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi interessi di ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici, filosofico-pratici e simbolici. Al centro della sua attenzione teoretica è “la persona”. Fonda la rivista "Persona” e "Symbolicum" sulla simbolica. SIMBOLO. Sonda in profondità l’idea di persona. Là dove la persona non è né la semplice nobilitazione dell’essere umano in generale, né una singola unità seriale. Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché l’idea è aperta come la vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona, però, non è l’idea di un quid ma di un “QVIS” perché la persona è un “chi” (“Someone is hearing a noise”) non un “che” (“Something is hearing a noise”)– That’s why it’s very wrong to call “the chair is red” as third-PERSON seeing that the chair is hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata dalla concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto idea di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce la visione del gius-personalismo. Altri saggi: “Tempo della persona e sapienza del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi, Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli, Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice, “Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento (Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua (Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria). Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila: distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato (Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV. Melchiorre, Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto farina. Giuseppe Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione del simbolo,  ventennio, fascismo, simbolica del potere, mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica, simbolo, composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of a person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --.  Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e persona” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Lisi: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean. When the Pythagoreans were being persecuted in Italy, L. escapes and makes his way to Teba. There he becomes the tutor of Epaminonda, the city’s military leader. He writes a letter to Ipparco. Lisi

 

Grice e Lisiade: all’isola – la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia siciliana – scuola di Catania. filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Catania, Sicilia. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisibio: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese – scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Grice e Lisimaco: la ragione conversazionale al portico romano --  Roma – filosofia toscana – filosofia fiorentina – scuola di Firenze -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Firenze, Toscana. He belonged to The Porch. The tutor of Amelio Gentiliano. Since Amelio comes from Firenze, that may be taken as having been the home of L. as well.

 

Grice e Livi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del consenso sociale – la scuola di Prato -- filosofia toscana -- filosofia italiana – l’aporia: se cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato). Filosofo italiano. Prato, Toscana. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers who have taken Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson, collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso comune, rappresentata dalla Common-Sense Association, che ha come organo ufficiale la rivista "SENSVS COMMVNIS” – cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic Logic". Tra i suoi numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore di importanti saggi di Storia della Metafisica,  Bettetini, Arecchi, Spatola, Covino ed Arzillo.  Fondatore di Vinci, membro associato della Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense. Firma con Giovanni Paolo II alcune parti dell'enciclica Fides et ratio.  «Senso comune» è il termine utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in chiave anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e incontrovertibili possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a priori, ma di un sistema organico di certezze universali e necessarie che derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni ulteriore certezza. – cf. Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and Ordinary Language,” “Common Sense and Scepticism” --. Ha per primo precisato quali siano queste certezze e ha provato con il metodo della presupposizione che esse sono in effetti il fondamento della conoscenza umana. Il senso comune comprende dunque l'evidenza dell'esistenza del mondo come insieme di enti in movimento; l'evidenza dell'io, come soggetto che si coglie nell'atto di conoscere il mondo; l'evidenza di altri come propri simili; l'evidenza di una legge morale che regola i rapporti di libertà e responsabilità tra i soggetti; l'evidenza di Dio come fondamento razionale della realtà, prima causa e ultimo fine, conosciuto nella sua esistenza indubitabile grazie a una inferenza immediata e spontanea, la quale lascia però inattingibile il mistero della sua essenza, che è la Trascendenza in senso proprio. Queste certezze sono a fondamento di un sistema di logica aletica su base olistica.  Tra gli studi recenti sul sistema della logica aletica elaborato da lui vanno ricordati i saggi di AGAZZI, "Valori e limiti del senso comune" (Angeli, Milano), Ottonello ("L.", in "Profili", Marsilio, Venezia ), Vassallo ("La riabilitazione del SENSO COMUNE", in "Memoria e progresso", Fede et Cultura, Verona), di Arzillo, “Il fondamento del giudizio -- una proposta teoretica a partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci, Roma ); Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica -- analisi della proposta di L. (Vinci, Roma). Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia antica, Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson, Fabro ed Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della speculazione metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi (Platone, Aristotele, la Scesi, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e dell'età moderna (VICO, Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto assertore del metodo realistico di interpretazione dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni utilizzando sistematicamente gli strumenti dialettici offerti dai filosofi della scuola analitica. Suoi critici più intransigenti sono stati, da una parte, l’idealista Severino, e dall'altra il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri saggi: “Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila:  Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre del Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO COMUNE -- Logica della scienza (Milano: Ares); “IL SENSO COMUNE tra razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo); “Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO COMUNE e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano: Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica” (Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma: Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni ); “SENSO COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e perché se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia in eta antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale;  moderna;  contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma: Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei” (Roma: Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO COMUNE al vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica della scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa" (Roma: Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il sistema della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica” (Roma: Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa",  su Gli equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci);  “Aquino filosofo” in Piolanti, AQUINO nella storia della filosofia” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Gilson", in  Piolanti, Gilson, filosofo, Roma: Vaticana,  "L'unità dell'ESPERIENZA nella gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica, critica e metafisica in chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE e unità delle scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft]  in Martinez "Unità e autonomia del sapere: il dibattito", Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza Romana, antoniolivi.Vinci, su editriceleonardo  ISCA Commonsense Association ca-news; fidesetratio. Ilgiudiziocattolico. Antonio Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice develops a sceptical defence in his early “Common sense and scepticism,” “mainly motivated by what he sees as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by, of all people, Malcolm.” – Grice: “I’m not sure Livi would agree with my idea, but I think he would – certainly Vico took the sceptic challenge possibly most seriously than anyone and Livi is an expert on Vico. Vico’s line of defense lies on the connection, conceptual he thinks, between ‘common sense’ and ‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to reach a consensus that we are going to use ‘know’ for things like ‘I know that s is p,’ say, there is cheese on the table, there is a mermaid on the table. Etc. And that “if I’m not dreaming” may not always be a conversationally appropriate defeater!” – Livi. Keywords: consenso sociale, amoris laetitia, Letizia dell’amore --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livi” – The Swimming-Pool Library.

 

 

 

 

Grice e Livio: la ragione conversazionale e la storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Padova, Veneto. Although famous as one of the great Roman historians, he is also a philosopher, who popularises the genre of the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o  vi  mando  un  presente, il quale se non corrisponde agl’obblighi clic io ho con voi,  è tale senza dubbio, quale ha potuto Machiavelli mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso quanto io so, quanto io ho imparato per una lunga pratica e continova lezione delle cose del mondo. E non  porlendo    voi    altri  disiderare  da  me più,  non  vi  potete  dolere  se  io  non  vi ho  donato  più.  Bene  vi  può  incrcsccre della  povertà  dello  ingegno  mio,  quando siano  queste  mie  narrazioni  povere ; e della fallacia del  giudizio, quando  io in  molte  parli, discorrendo, m'inganni. Il che  essendo, won  so  quale  di  noi  si abbia  ad  esser  meno  obbligato  all’altro; o io  a voi, che  mi  avete  forzalo  a scrivere quello  ch’io  mai  per  me  medesimo non  arci  scritto;  o voi  a me,  quando scrivendo  non  abbi  soddisfatto. Pigliate, adunque,  questo  in  quello  modo  che  si pigliano  tulle  le  cose  degli  amici:  dove si considera  più  sempre  la  intenzione di chi  manda,  che  le  qualità  della  cosa che  è mandata.  E crediate  che  in  questo io  ho  una  salis fazione, quando  io penso  che,  sebbene  io  mi  fussi  ingannato in  molle  sue  circostanze,  in  questa sola  so  eh io  non  ho  preso  errore,  di avere  delti  voi,  ai  quali  sopra  tutti  gli altri  questi  miei  Discorsi  indirizzi : sì perché,  facendo  questo,  ini  pnre  aver mostro  qualche  gratitudine  de  benefizii ricevuti : si  perchè  e  mi  pare  esser uscito  fuora  dell’uso  comune  di  coloro che  scrivono, i quali  sogliono  sempre le  loro  opere  a qualche  principe  indirizzare ; e,  accecati  dall’ambizione  c dall’avarizia,  laudano  quello  di  tutte le  virtuose  qualitadi,  quando  di  ogni vituperevole  parte  doverrebbono  biasimarlo. Onde  io,  per  non  incorrere  in questo  errore,  ho  eletti  non  quelli  che sono  Principi,  ma  quelli  che  per  le  infinite buone  parti  loro  meriterebbono  di essere ; nè  quelli  che  polrebbono  di  gradi, di  onori  e di ricchezze riempiermi, ma  quelli  che,  non  polendo,  vorrebbono farlo.  Perchè  gli  uomini,  volendo  giudicare dirittamente,  hanno  a stimare quelli  che  sono, non  quelli  che  possono esser  liberali;  e così  quelli  che  sanno, non  quelli  che, senza  sapere,  possono governare  un  regno.  E gli  scrittori  laudano più  Icronc  Siracusano  quando  egli era  privato,  che  Perse Macedone quando egli  era  re:  perchè  a Icronc  a esser principe  non  mancava  altro  che il principato; quell’altro  non  avera  parte alcuna  di  re,  altro  che  il  regno.  Godetevi, pertanto  quel  bene  o quel  male  che voi  medesimi  avete  voluto  : e se  voi  starete in  questo  errore,  che  queste  mie oppinioni  vi  siano  grate, non  mancherò di  seguire  il  resto della  istoria,  secondo che  nel  principio  vi  promisi. Valete Ancouaciiè,  per  la invida  natura  degli uomini,  sia  sempre  stato  pericoloso il  ritrovare  modi  ed  ordini  nuovi,  quanto il  cercare  acque  e terre  incognite,  per essere  quelli  più  pronti  a biasimare  che a laudare  le  azioni  d’ altri  ; nondimeno, spinto  da  quel  naturale  desiderio  che fu  sempre  in  me  di  operare,  senza  alcun rispetto,  quelle  cose  che  io  creda rechino  comune  benefìzio  a ciascuno,  ho deliberato  entrare  per  una  via,  la  quale, non  essendo  stata  per  ancora  da  alcuno pesta,  se la mi arrecherà fastidio e diffìcultù,  mi potrebbe  ancora  arrecare  premio,  mediante  quelli  che  umanamente di  queste  mie  fatiche  conside-rassero. E se  T ingegno  povero,  la  pocoesperienza  delle  cose  presenti,  la  de-bole notizia  delle  antiche,  faranno  que-sto mio  conato  difettivo  e di  non  moltautilità  ; daranno  almeno  la  via  ad  al-cuno, che  con  più  virtù,  più  discorso  egiudizio,  potrà  a questa  mia  intenzionesatisfare:  il  che  se  non  mi  arrecheràlaude,  non  mi  dovrebbe  partorire  bia-simo. E quando io  considero quantoonore si attribuisca all’antichità,  c comemolte  volte,  lasciando andare  moltialtri  esempi,  un  frammento  d’ una  antica statua  sia  stato  comperato  granprezzo,  per  averlo  appresso  di  sè,  onorarne la  sua  casa,  poterlo  fare  imitareda  coloro  che  di  quella  arte  si  diletta-no; e come  quelli  poi  con  ogni  indu-stria si  sforzano  in  tutte  le  loro opererappresentarlo:  e vcggendo,  dall’altrocanto,  le  virtuosissime  operazioni  che  leistorie  ci  mostrano,  che  sono  state  operate  da  regni  cda  repubbliche  auliche,dai  re,  capitani,  cittadini,  datori  di  leggi,ed  ultri  che  si  sono  per  la  loroatfaticati,  esser  più  presto  ammirate  cheimitate;  au/i  in  tanto  da  ciascuno  inogni  parte  fuggite,  che  di  quella  anticavirtù  non  ci  è rimaso  alcun  seguo:posso  fare  che  insieme  non  me  nelavigli  e dolga;  e tanto  più,  quantoveggio  nelle  differenze  che  intra  iladini  civilmente  nascono,  o nelle  inalattie  nelle  quali  gli  uomini  incorrono,essersi  sempre  ricorso  a quelli  giudiciio a quelli rimedi che dagli antichi sonostati giudicati  o ordinati.  Perchè  le  leggicivili  non  sono  altro  che  sentenzio  datedagli  antichi  iurcconsulti,  le  quali,  ridotte in  ordine,  a’ presenti  nostri  iure-consulti  giudicare  insegnano;    ancorala  medicina  è altro  che  cspcrienzia  fattadagli  antichi  medici,  sopra  la  quale  fon-dano i medici  presenti  li  loro  giudicii. Nondimeno,  nello  ordinare  le  repubbli-che, nel  mantenere  gli  Stati,  nel  govcr-nai  e i regni,  nell’  ordinare  la  milizia  edamministrar  la  guerra,  nel  giudicare  isudditi,  nello  accrescere  lo  imperio,  nonsi  trova    principi,    repubbliche,  nècapitani,    cittadini  che  agli  esempidegli  antichi  ricorra.  Il  che  mi  persuadoche  nasca  non  tanto  dalla  debolezzanella  quale  la  presente  educazione  hacondotto  il  mondo,  o da  quel  male  cheuno  ambizioso  ozio  ha  fatto  a molteprovincie  c città  cristiane,  quanto  dalnou  avere  vera  cognizione  delle  istorie,per  non  trarne,  leggendole,  quel  senso,nè  gustare  di  loro  quel  sapore  che  lehanno  in  sè.  Donde  nasce  che  infinitiche  leggono,  pigliano  piacere  di  udirequella  varietà  delli  accidenti  che  in  essesi  contengono,  senza  pensare  altrimeuted’ imitarle,  giudicando  la  imitazione  nonsolo  difficile  ma  impossibile:  come  se  ilcielo,  il  sole,  gli  elementi,  gli  uominifossero  variati  di  moto,  d’ordine  e dipotenza,  da  quello  eli’ egli  erano  antica-mente. Volendo,  pertanto,  trarre  gli  uo-mini  di  questo  errore,  ho  giudicalo  ne-cessario scrivere  sopra  tutti  quelli  libri di  L. che  dalla  malignità  deitempi  non  ci  sono  stati  interrotti,  quelloche  io,  secondo  le  antiche  e modern cose,  giudicherò  esser  necessario  permaggiore  intelligenzia  d'essi;  acciocchécoloro  che  questi  miei  discorsi  legge-ranno, possino  trarne  quella  utilità  perla  quale  si  debbe  ricercare  la  cogni-zione della  istoria.  G benché questa impresa sia  difficile,  nondimeno,  aiutato  dacoloro  che  mi  hanno  ad  entrare,  sotto  aquesto  peso  confortato,  credo  portarloin  modo,  che  ad  un  altro  resterà  brevecammino  a condurlo  al  luogo  destinato. I.  Quali  siano  stati  universalmente i pr  incipit’  di  qualunque  città,c quale  fosse  quello  di  ROMA. Coloro  che  leggeranno  qual  principio fosse  quello  della  città  di  ROMA,  e da quali  legislatori  e come  ordinato,  non si  maraviglieranno  che  tanta  virtù  sisia  per  più  secoli  mantenuta  in  quella città;  e che  dipoi  ne  sia  nato  quello  im-perio, al  quale  quella  repubblica  ag-giunse. E volendo  discorrere  prima  il nascimento  suo,  dico  che  tutte  le  cittàsono  edificate  o dagli  uomini  natii  delluogo  dove  le  si  edificano,  o dai  forestieri. Il primo  caso  occorre  quandoagli  abitatori  dispersi  in  molte  e piccole parli  non  par  vivere  sicuri,  nonpotendo  ciascuna  per  sè,  e per  il  sitoe per  il  piccol  numero,  resistere  all’impeto di  chi  le  assaltasse;  e ad  unirsi  perloro  difensione,  venendo  il  nemico,  nonsono  a tempo;  o quando  fossero,  converrebbe loro  lnsciare  abbandonati  molti de’ loro  ridotti,  e cosi  verrebbero  ad  esser sùbita  preda  dei  loro  nemici:  talmente che,  per  fuggire  questi  pericoli, mossi  o da  loro  medesimi,  o da  alcunoche  sia  infra  di  loro  di  maggior  autorità, si  ristringono  ad  abitar  insieme  in luogo  eletto  da  loro,  più comodo a vivere  e più  facile  a difendere.  Di  queste,infra  molle  altre,  sono  state  Atene  e Vincaia. La  prima,  sotto  l’autorità  di  Teseo, fu  per simili  cagioni  dalli  abitatoridispersi  edificata;  l’altra,  sendosi  moltipopoli  ridotti  in  certe  isolette  che  eranonella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle  guerre  che  ogni  dì,  per  loavvenimento  di  nuovi  barbari,  dopo  ladeclinazione  dello  imperio  romano,  na-scevano in  ITALIA,  cominciarono  infra loro,  senza  altro  principe  particolareclic  gli  ordinassi,  a vivere  sotto  quelleleggi  che  parvono  loro  più  atte  a mantenerli. Il  che  successe  loro  felicemente per  il  lungo  ozio  che  il  sito  dette  loro, non  avendo  quel  mare  uscita,  e nonavendo  quelli  popoli  che  affliggevano ITALIA,  navigi  da  poterli  infestare:  talché ogni  picciolo  principio  li  potò  fare  ve-nire a quella  grandezza  nella  quale  sono. Il  secondo  caso,  quando  da  genti  forestiere è edificata  una  città,  nasce  o dauomini  liberi,  oche  dipendano  da  altri come  sono  le  colonie  mandate  o da  unarepubblica  o da  un  principe,  per  Sgra-vare le  . loro  terre  d’abitatori,  o per  di-fesa di  quel  paese  che,  di  nuovo  acqui-stato, vogliono  sicuramente  e senzaspesa  mantenersi;  delle  quali  città  IL POPOLO ROMANO ne  edificò  assai,  e pertutto  l’imperio  suo:  ovvero  le  sono  edi-ficate da  un  principe,  non  per  abitarvi,nia  per  sua  gloria;  come  la  città  di Alessandria  da  Alessandro.  E per  nonavere  queste  cittadl  la  loro  origine  libera,rade  volte  occorre  che  le  facciano  pro-gressi grandi,  e possinsi  intrai  capi  deiregni  numerare.  Simile  a queste  fu  V edificazione di  FIRENZE,  perchè  (fi  edificatada’ soldati  di  SILLA,  o,  a caso,  dagli  abitatori dei  monti  di  Fiesole,  i quali,  confi-datisi in  quella  lunga  pace  che  sotto  OTTAVIANO nacque  nel  mondo,  si  ridusseroad  abitare  nel  piano  sopra  Arno)  si  edi-ficò sotto  l’imperio  romano;    potette,ne’  principii  suoi,  fare  altri  augumentiche  quelli  che  per  cortesia  del  principe li  erano  concessi.  Sono  liberi  li  edificatori delle  cittadi,  quando  alcuni  popoli,o sotto  un  principe  o da  per  sé,  sonocostretti,  o per  morbo  o per  fame  o perguerra,  od  abbandonare  il  paese  potrio,e cercarsi  nuova  sede  : questi  tali,  oegli  abitano  le  cittadi  elle  e’ trovano  neipaesi  eli’ egli  acquistano,  come  fece  Moisè;  o ne  edificano  di  nuovo,  come  fe ENEA.  In  questo  caso  è dove  si  conosce la  virtù  dello  edificatore,  e la  fortunadello  edificato:  la  quale  è più  o menomeravigliosa,  secondo  che  più  o menoè virtuoso  colui  che  ne  è stato  principio.La  virtù  del  quale  si  conosce  in  duoimodi:  il  primo  è nella  elezione  del  sito;F altro  nella  ordinazione  delle  leggi.  Eperchè  gli  uomini  operano  o per  necessità o per  elezione;  e perchè  si  vede quivi  esser  maggiore  virtù  dove  la  elezione ha  meno  autorità;  è da  considerare se  sarebbe  meglio  eleggere,  per  laedificazione  delle  cittadi,  luoghi  sterili,acciocché  gli  uomini,  costretti  ad  indùstriarsi,  meno  occupati  dall’ozio,  vives-sino  più  uniti,  avendo,  per  la  povertàdel  sito,  minore  cagione  di  discordie;come  intervenne  in  Raugia,  e in  moltealtre  cittadi  in  simili  luoghi  edificate:la  quale  elezione  sarebbe  senza  dubbiopiù  savia  e più  utile,  quando  gli  uo-  .mini  fossero  contenti  a vivere  delloro,e non  volcssino  cercare  di  comandarealtrui.  Pertanto,  non  potendo  gli  uominiassicurarsi  se  non  con  la  potenza,  ènecessario  fuggire  questa  sterilità  del pnese,  e porsi  in  luoghi  fertilissimi  ;dove,  potendo  per  la  ubertà  del  sito  ampliare, possa  e difendersi  da  chi  l’ assaltasse, e opprimere  qualunque  alla  grandezza sua  si  opponesse.  G quanto  a quell’ozio  che  le  arrecasse  il  sito,  si debbe  ordinare  che  a quelle  necessitadi le  leggi  la  costringhino  che  ’l  sito  non la  costringesse;  ed  imitare  quelli  che sono  stati  savi,  ed  hanno  abitato  in  paesiamenissimi  e fertilissimi,  c alti  a pròdurre  uomini  oziosi  ed  inabili  ad  ogni virtuoso  esercizio:  chè,  per  ovviare  aquelli  danni  i quali  l’amenità  del  paese,mediante  l’ozio,  arebbero  causati,  hannoposto  una  necessità  di  esercizio  a quelliche  avevano  a essere  soldati:  di  qualitàche,  per  tale  ordine,  vi  sono  diventatimigliori  soldati  che  in  quelli  paesi  i qualinaturalmente  sono  stati  aspri  e steriliIntra  i quali  fu  il  regno  degli  Egizi,  chenon  ostante  che  il  paese  sia  amenissi-mo, tanto  potette  quella  necessità  ordi-nata dalle  leggi,  che  vi  nacquero  uo-mini eccellentissimi;  e se  li  nomi  loronon  fussino  dalla  antichità  spenti,  sivedrebbe  come  meriterebbero  più  laudeche  Alessandro  Magno,  c molti  altri  deiquali  ancora*  è la  memoria  fresca.  E chiavesse  considerato  il  regno  del  Soldano,e l’ordine  de’Mammaluchi.  e di  quellaloro  milizia,  avanti  che  da  Sali,  GranTurco,  fusse  stata  spenta  ; arebbe  ve-duto ili  quello  molti  esercizi  circa  i sol-dati, ed  arebbe  in  fatto  conosciutoquanto  essi  temevano  quell’ozio  a che la  benignità  del  paese  gli  poteva  con-durre, se  non  vi  avessino  con  leggi  for-tissime ovviato.  Dico,  adunque,  esserepiù  prudente  elezione  porsi  in  luogofertile,  quando  quella  fertilità  con  leleggi  infra*  debili  termini  si  restringe.Ad  Alessandro  Magno,  volendo  edificareuna  città  per  sua  gloria,  venne  Dino-erate  architetto,  e gli  mostrò  come  eila  poteva  fare  sopra  il  monte  Albo;  ilquale  luogo,  oltre  allo  esser  forte,  po-trebbe ridursi  in  modo  che  a quellacittà  si  darebbe  forma  umana;  il  chesarebbe  cosa  meravigliosa  e raro,  e de-gna della  sua  grandezza:  e domandan-dolo Alessandro  di  quello  che  quelli  abi-tatori viverebbono,  rispose,  non  ci  averepensato:  di  che  quello  si  rise,  e lasciatostare  quel  monte,  edificò  Alessandria,dove  gli  abitatori  avessero  a stare  vo-lentieri per  la  grassezza  del  paese,  e perla  comodità  del  mare  e del  Nilo.  Chi  esa-minerò, adunque,  la  edificazione  di  Ro-ma, se  si  prenderà  Enea  per  suo  primoprogenitore,  sarà  di  quelle  citladi  edifi-cate da’  forestieri  ; se  Romolo,  di  quelleedificate  dagli  uomini  natii  del  luogo;ed  in  qualunciic  modo,  la  Vedrà  avereprincipio  libero,  senza  depcndere  da  al-cuno: vedrà  ancora,  come  di  sotto  sidirà,  a quante  necessitadi  le  leggi  fatteda  Romolo,  Numa,  e gli  altri,  la  costrin-gessino  ; talmente  clic  la  fertilità  del  sito,la  comodità  del  mare,  le  spesse  vittorie,la  grandezza  dello  imperio,  non  la  po-terono per  molti  secoli  corrompere,  e Ir»    **mantennero  piena  di  tante  virtù,  djp^quante  mai  fusse  alcun’ altra  repubblicaornata.  E perchè  le  cose  operate  da  lejj,  ^e che  sono  da  Tito  Livio  celebrate,  sonoseguite  o per  pubblico  o per  privatoconsiglio,  o dentro  o fuori  della  cittade,io  comincerò  a discorrere  sopra  quellecose  occorse  dentro,  e per  consiglio  pub-blico, le  quali  degne  di  maggiore  an-notazione giudicherò,  aggiungendovi  tut-to quello  che  da  loro  dependessi  : coni quali  Discorsi  questo primo libro, ovvero  Questa  prima  parte,  si  terminerà. Di  quante  spezie  sono  le  *epnbbtiche, e di  quale  fu  la  Repubblica Romana. Io  voglio  porre  da  parte  il  ragionare di  quelle  cittadi  clic  hanno  avuto  il  loro principio  sottoposto  ad  altri;  e parlerò di  quelle  che  hanno  avuto  il  principio 'ontano  do  ogni  servitù  esterna,  nia  si ; j sono  subito  governate  per  loro  arbitrio, o come  repubbliche  o come  principato: U quali  hanno  avuto,  come  diversi  principi, diverse  leggi  ed  ordini.  Perchè  ad alcune,  o nel  principio  d’esse,  o dopo non  molto  tempo,  sono  state  date  da  un solo  le  leggi,  e ad  un  tratto  ; come  quelle che  furono  date  da  Licurgo  agli  Spartani: alcune  le  hanno  avute  a caso,  ed in  più  volte,  e secondo  li  accidenti,  come Roma.  Talché,  felice  si  può  chiamare quella  repubblica,  la  quale  sortisce  uno uomo    prudente,  che  le  dia  leggi  ordinate in  modo,  che  senza  avere  bisogno di  correggerle,  possa  vivere  sicuramente sotto  quelle.  E si  vede  che  Sparta  le osservò  più  che  ottocento  anni  senza corromperle,  o senza  alcuno  tumulto  pericoloso: e,  pel  contrario,  tiene  qualche grado  d’  infelicità  quella  città,  che,  non si  sendo  abbattuta  ad  uno  ordinatore prudente,  è necessitata  da    medesima riordinarsi:  e di  queste  ancora  è più infelice  quella  che  è più  discosto  dall’ordine; e quella  è più  discosto, con  suoi  ordini  è al  tutto  fuori  del  dritto cammino,  che  la  possi  condurre  al  perfetto e vero  fine:  perchè  quelle  clic  sonoiu  questo  grado,  è quasi  impossibile  che per  qualche  accidente  si  rassettino. Quel le altre  che,  se  le  non  hanno  V ordine perfetto,  hanno  preso  il  principio  buono,e atto  a diventare  migliori,  possono  perla  occorrenza  delli  accidenti  diventareperfette.  Ma  fia  ben  vero  questo, mai  non  si  ordineranno  senza  pericolo perchè  li  assai  uomini  non  si  accordano mai  ad  una  legge  nuova  che  riguardi uno  nuovo  ordine  nella  cit tà,  se  non  è mostro  loro  da  una  necessità  che  bisogni farlo  ; e non  potendo  venire  questa necessità  senza  pericolo,  è facil  cosa  che quella  repubblica  rovini,  avanti  che  la si  sia  condotta  a una  perfezione  d’ordine. Di  che  ne  fa  fede  appieno  la  re-pubblica di  Firenze,  la  quale  fu  dalloaccidente  d’  Arezzo,  nel  11,  riordinata,  eda  quel  di  Prato,  nel  XII,  disordinata.Volendo,  adunque,  discorrere  quali  fu-rono li  ordini  della  città  di  Roma,  equali  accidenti  alla  sua  perfezione  lacondussero)  dico,  come  alcuui  che  hannoscritto  delle  repubbliche,  dicono  essere in  quelle  uno  de' tre stati,  chiamati daloro  Principato,  d’Ottimati  e Popolare; e come  coloro  che  ordinano  una  città, debbono  volgersi  ad  uno  di  questi,  secondo pare  loro  più  a proposito.  Alcuni altri,  e secondo  la  oppinione  di  molti più  savi,  hanno  oppinione  che  siano  di sei  ragioni  governi;  delti  quali  tre  ne siano  pessimi;  tre  altri  siano  buoni  in loro  medesimi,  ma    focili  a corrompersi, che  vengono  ancora  essi  ad  essere perniziosi.  Quelli  che  sono  buoni, sono  i soprascritti  tre:  quelli  clic  sono rei,  sono  tre  altri,  i quali  da  questi  tre dependono;  c ciascuno  d’  essi  è in  modo simile  a quello  che  gli  è propinquo,  che facilmente  saltano  dall’  uno  all’  altro: perchè  il  Principato  facilmente  diventa tirannico;  li  Ottimati  con  facilità  diventano stato  di  pochi  ; il  Popolare  senza diflìcultà  in  licenzioso  si  converte.  Talmente che,  se  uno  ordinatore  di  repubblica ordina in una città uno  di  quelli tre  stati,  ve  lo  ordina  per  poco  tempo; perchè  nessuno  rimedio  può  farvi,  a far che  non  sdruccioli  nel  suo  contrario, per  la  similitudine  che  ha  in  questo caso  la  virtù  ed  il  vizio.  Nacquono  queste variazioni  di  governi  a caso  intra li  uomini:  perchè  nel  principio  del  mondo, sendo  li  abitatori  rari,  vissono  un tempo  dispersi,  a similitudine  delle  bestie; dipoi,  multiplicando  la  generazione, si  ragunorno  insieme,  e,  per  potersi meglio  difendere,  cominciorno  a riguardare fra  loro  quello  che  fusse  più  robusto c di  maggiore  cuore,  c fecionlo come  capo,  e lo  obedivano.  Da  questo nacque  la  cognizione  delle  cose  oneste e buone, differenti dalle perniziose  e ree:  perchè,  veggendo  che  se  uno  noceva  al  suo  benefattore,  ne  veniva  odio e compassione  intra  gli  uomini,  biasimando li  ingrati  ed  onorando  quelli  che fusscro  grati,  e pensando  ancora  che quelle  medesime  ingiurie  potevano  esser fatte  a loro;  per  fuggire  simile  male,  si riducevano  a fare  leggi,  ordinare  punizioni a chi  contea  facesse:  donde  venne la  cognizione  della  giustizia.  La  qual cosa  faceva  che  avendo  dipoi  ad  eleggere un  principe,  non  andavano  dietro al  più  gagliardo,  ma  a quello  che  fussi più  prudente  c più  giusto.  Ala  come  di poi si  cominciò  a fare  il  principe  per successione,  e non  pei*  elezione,  subito cominciorno  li  eredi  a degenerare  dai loro  antichi  ; e lasciando  1’  opere  virtuose, pensavano  che  i principi  non avessero  a fare  altro  clic  superare  li  altri di  sontuosità  e di  lascivia  c d’  ogni  altra' qualità  deliziosa:  in  modo  che,  cominciando il  principe  ad  essere  odialo,  e per  tale  odio  a temere,  e passando  tosto dal  timore  all’  offese,  ne  nasceva presto  una  tirannide.  Da  questo  nacquero appresso  i principi»  delle  rovine,  c delle conspirazioni  e congiure  contea  i principi; non  fatte  da  coloro  clic  fussero  o timidi  o deboli,  ma  da  coloro  che  per genei'osità,  grandezza  d’  animo,  ricchezza e nobiltà,  avanzavano  gli  altri;  i quali non  potevano  sopportare  la  inonesta  vita di  quel  principe.  La  moltitudine,  adunque, seguendo  l’ autorità  di  questi  potenti, si  armava  contra  al  principe,  c quello  spento,  ubbidiva  loro  come  a suoi liberatori.  E quelli,  avendo  in  odio  il nome  d’  uno  solo  capo,  constituivano  di loro  medesimi  un  governo;  e nel  piincipio,  avendo  rispetto  alla  passata  tiratinide,  si  governavano  secondo  le  leggi ordinate  da  loro,  posponendo  ogni  loro comodo  alla  comune  utilità  ; e le  cose private  e le  pubbliche  con  somma  diligenzia  governavano  c conservavano.  Venuta  dipoi  questa  amministrazione  ai loro  figliuoli,  i quali,  non  conoscendo  la variazione  della  fortuna,  non  avendo mai  provato  il  male,  e non  volendo  stare contenti  alla  civile  equalità,  ma  rivoltisi alla  avarizia,  alla  ambizione,  alla  usurpazione delle  donne,  feciono  clic  d’  uno governo  d’  Ottimati  diventassi  un  governo di  pochi,  senza  avere rispetto ad alcuna  civiltà  : tal  che  in  breve  tempo intervenne  loro  come  al  tiranno;  perchè infastidita  da’  loro  governi  la  moltitudine, si  fe  ministra  di  qualunque  disegnassi in  alcun  modo  offendere  quelli governatori;  e cosi  si  levò  presto  alcuno che,  con  I’  aiuto  della  moltitudine, li  spense.  Ed  essendo  ancora  fresca  la memoria  del  principe  e delle  ingiurie ricevute  da  quello,  avendo  disfatto  lo Stato  de’  pochi  e non  volendo  rifare  quell del  principe,  si  volsero  allo  Stato  popolare; c quello  ordinarono  in  modo,  che nè  i pochi  potenti,    uno  principe  vi avesse  alcuna  autorità.  E perchè  tutti gli  Stali  nel  principio  hanno  qualche  reverenza, si  mantenne  questo  Stato  popolare un  poco,  ma  non  molto,  massime spenta  che  fu  quella  generazione  che l’aveva  ordinato;  perchè  subito  si  venne alla  licenzia,  dove  non  si  temevano nè  li  uomini  privati    i pubblici;  di qualità  che,  vivendo  ciascuno  a suo  modo, si  facevano  ogni  di  mille  ingiurie:  talché, costretti  per  necessità,  o per  suggestione  d’ alcuno  buono  uomo,  o per fuggire  tale  licenzia,  si  ritorna  di  nuovo al  principato;  e da  quello,  di  grado  in grado,  si  riviene  verso  la  licenzia,  nei modi  e per  le  cagioni  dette.  E questo  è il  cerchio  nel  quale  girando  tutte  le  repubbliche si  sono  governate,  e si  governano:  ina  rade  volte  ritornano  nei governi  medesimi;  perchè  quasi  nessuna repubblica  può  essere  di  tanta  vita, che  possa  passare  molle  volte  per  queste mutazioni,  c rimanere  in  piede.  Ma bene  interviene  che,  nel  travagliare,  una repubblica,  mancandoli  sempre  consiglio e forze,  diventa  suddita  d'uno  Stato  propinquo, clic  sia  meglio  ordinato  di  lei  : ina  dato  che  questo  non  fusse,  sarebbe atta  una  repubblica  a rigirarsi  infinito tempo  in  questi  governi.  Dico,  adunque, che  lutti  i detti  modi  sono  pestiferi,  per la  brevità  della  vita  che  è ne’  tre  buoni, e per  la  malignità  che  è ne*  tre  rei.  Talché, avendo  quelli  che  prudentemente ordinano  leggi  conosciuto  questo  difetto, fuggendo  ciascuno  di  questi  modi  per se  stesso,  n’  elessero  uno  che  partieipasse  di  lutti,  giudicandolo  più  fermo  e più  stabile  ; perchè  l’uno  guarda  l’altro, scudo  in  una  medesima  città  il  Principato, li  Ottimati  ed  il  Governo  Popolare. Infra  quelli  che  hanno  per  simili constituzioni  meritato  più  laude,  è Licurgo; il  quale  ordinò  in  modo  le  sue leggi  in  Sparta,  che  dando  le  parti  sue ai  He,  agli  Ottimali  e al  Popolo,  fece uno  Stato  che  durò  più  che  ottocento anni,  con  somma  laude  sua,  e quiete  di quella  città.  Al  contrario  intervenne  a Solone,  il  quale  ordinò  le  leggi  in  Atene che  per  ordinarvi  solo  lo Stato  popolare lo  fece  di    breve  vita,  che  avanti  morisse vi  vide  nata  la  tirannide  di  Pisistrato:  e benché  dipoi  anni  quaranta ne  fusscro  cacciati  gli  suoi  eredi,  c ritornasse Atene  in  libertà,  perchè  la  riprese lo  Stato  popolare,  secondo  gli  ordini di  Solone;  non  lo  tenne  più  cliccento  anni,  ancora  che  per  mantenerlo facesse  molte  constituzioni,  per le  quali  si  reprimeva  la  iusolenzia grandi  c la  licenzia  dell’  universale,  le quali  non  furou  da  Solonc  considerate nientedimeno,  perchè  la  non  le  mescolò con  la  potenzia  del  Principato  e con quella  dclli  Ottimali,  visse  Atene, spetto  di  Sparla,  brevissimo  tempo.  Ria vegniamo  a ROMA  ; la  quale  nonostante che  non  avesse  uno  Licurgo  che  la  ordinasse in  modo,  ilei  principio,  che  la  potesse vivere  lungo  tempo  libera,  nondimeno furon  tanti  gli  accidenti  che  in quella  nacquero,  per  la  disunione  che era  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che quello  che  non  aveva  fatto  uno  ordinatore, lo  fece  il  caso.  Perchè,  se  ROMA non  sortì  la  prima  fortuna,  sortì  la  seconda; perchè  i primi  ordini  se  furono defettivi,  nondimeno  non  deviarono  dalla diritta  via  che  li  potesse  condurre  alla perfezione.  Perchè  ROMOLO  e tutti  gli  altri Re  fecero  molte  e buone  leggi,  conformi ancora  al  vivere  libero:  ma  perchè il  fine  loro  fu  fondare  un  regno  e non una  repubblica,  quando quella  città  rimase libera,  vi  mancavano  molte  cose che  era  necessario  ordinare  in  favore della  libertà,  le  quali  non  erano  state da  quelli  Re  ordinate.  E avvengachè quelli  suoi  Re  perdessero  V imperio  per le  cagioni  e modi  discorsi;  nondimeno quelli  clic  li  cacciarono,  ordinandovi  subito duoi  Consoli,  che  stessino  nel  luogo del  Re,  vennero  a cacciare  di  Roma  il nome,  e non  la  potestà  regia:  talché, essendo  in  quella  Repubblica  i Consoli ed  il  Senato,  veniva  solo  ad  esser  mista di  due  qualità  delle  tre  soprascritte: cioè  di  Principato  e di  Ottimali.  Restavali  solo  a dare  luogo  al  Governo  Popolare: onde,  essendo  diventatala  Nobiltà romana  insolente  per  le  cagioni  che  di sotto  si  diranno,  si  levò  il  Popolo  contro di  quella  ; talché,  per  non  perdere il  tutto,  fu  costretta  concedere  al  Popolo la  sua  parte;  e,  dall’altra  parte,  il  Senato e i Consoli  restassino  con  tantaautorità,  che  potcssino  tenere  in  quella Repubblica  il  grado  loro.  E cosi  nacque la  creazione  de’  Tribuni  della  plebe  ; dopo la  quale  creazione  venne  a essere  più stabilito  lo  stato  di  quella  Repubblica, avendovi  tutte  le  tre  qualità  di  governo la  parte  sua.  E tanto  li  fu  favorevole  la fortuna,  che  benché  si  passasse  dal  governo de’ Re  e delli  Ottimati  al  Popolo, per  quelli  medesimi  gradi  e per  quelle medesime  cagioni  che  di  sopra  si  sono discorse  : nondimeno  non  si  tolse  mai, per  dare  autorità  alli  Ottimati,  tutta l’autorità  alle  qualità  regie;    si  diminuì l’autorità  in  tutto  alli  Ottimati,  per darla  al  Popolo;  ina  rimanendo  mista, fece  una  repubblica  perfetta  : alla  quale perfezione  venne  per  la  disunione  della Plebe  e del  Senato,  come  nei  duoi  prossimi seguenti  capitoli  largamente  si  dimostrerà. III. Quali  accidenti  facessino creare  in  Roma  i Tribuni  della  plebe ; il  che  fece  la  Repubblica  più  perfetta. Come  dimostrano  lutti  coloro  che  ragionano del  vivere  civile,  e come  ne  è piena  di  esempi  ogni  istoria,  è necessario a chi  dispone  una  repubblica,  ed ordina  leggi  in quella,  presupporre  tuttigli  uomini  essere  cattivi,  e clic  li  abbinosempre  od  usure  la  malignità  dello  animo loro,  qualunchc  volta  ne  abbino  libera occasione:  e quando  alcuna  malignità sta  occulta  un  tempo,  procede  da una  occulta  cagione,  ebe,  per  non  si  essere veduta  esperienza  del contrario, non  si  conosce;  ma  la  fa  poi  scoprire il  tempo,  il  quale  dicono  essere  padre d’ogni  verità.  Pareva  clic  fusse  in  Roma intra  la  Plebe  cd  il  Senato,  cacciati  I Tarquiili,  una  unione  grandissima;  e che  i Nobili,  avessino  deposta  quella  loro superbia,  c russino  diventati  d'animo popolare,  c sopportabili  da  qualuncbc, ancora  ebe  infimo. Stette  nascoso  questo inganno,    se  ne  vide  la  cagione, infino  ebe  i Tarquini  vissono;  de’ quali temendo  la  Nobiltà,  ed  avendo  paura che  la  Plebe  mal  trattata  non  si  accostasse loro,  si  portava  umanamente  con quella:  ma  come  prima  furono  morti  I Tarquini,  e die  a’ Nobili  fu  la  paura fuggita,  cominciarono  a sputare  contro Olla  Plebe  quel  veleno  che  si  avevàno tenuto  nel  petto,  ed  in  tutti  i modi  che potevano  la  offendevano:  la  qual  cosa  fa testimonianza  a quello  che  di  sopra  ho detto,  che  gli  uomini  non  operano  mai nulla  bene,  se  non  per  necessità;  ma dove  la  elezione  abbonda,  e che  vi  si può  usare  licenzia,  si  riempie  subito  ogni cosa  di  confusione  e di  disordine.  Però  si dice  che  la  fame  e la  povertà  fu  gli  uomini industriosi,  e le  leggi  gli  fanno buoni.  E dove  una  cosa  per    medesima senza  la  legge  opera  bene,  non  è necessaria la  legge;  ma  quando  quella  buona consuetudine  manca,  è subito  la  legge necessaria.  Però,  mancati  i Tarqnini, che  con  la  paura  di  loro  tenevano  laNobiltà  a freno,  convenne  pensare  a unonuovo  ordine  ehe  facessi  quel  medesimoeffetto  che  facevano  i Tarquini  quandoerano  vivi.  E però,  dopo  molte  confu-sioni, romori  e pericoli  di  scandali,  chenacquero  intra  la  Plebe  c la  Nobiltà,  sivenne  per  sicurtà  della  Plebe  alla  creazionc  ile* Tribuni  ; e quelli  ordinaronocon  laute  preminenze  e tanta  riputa-zione, che  potcssino  essere  sempre  dipoi  mezzi  intra  la  Plebe  e il  Senato,  eovviare  alla  insolenzia  de’ Nobili. IV.  Che  la  disunione  della  Plebe c del  Senato  romano  fece  libera  e polente  quella  Repubblica. H0U njt  fil  ùi  òVvil  tf,  ; il  "iit* lo  non  voglio  mancare  di  discorrere sopra  questi  tumulti  che  furono  in  Roma dalla  morte  de’ Tarquini  alla  creazione de’  Tribuni;  e di  poi  alcune  cose contro  la  oppinionc  di  molti  clic  dicono. Roma  esser  stata  una  repubblica  tumultuaria, e piena  di  tanta  confusione,  clicse  la  buona  fortuna  c la  virtù  militare non  avesse  supplito  a’  loro  difetti,  sarebbe stata  inferiore  ad  ogni  altra  repubblica. Io  non  posso  negare  che  la fortuna  e la  milizia  non  fussero  cagioni dell’imperio  romano;  ma  e’ mi  pare bene,  che  costoro  non  si  avvegghino, clic  dove  è buona  milizia,  conviene  clic sia  buono  ordine,  e rade  volte  anco  occorre clic  non  vi  sia  buona  fortuna.  Ma vegniamo  all i altri  particolari  di  quella città.  Io  dico  clic  coloro  clic  dannano  I tumulti  intra  i Nobili  c la  Plebe,  mi pare  clic  biasimino  quelle  cose  che  furono prima  cagione  di  tenere  libera  Roma ; c clic  considerino  più  a’  romori  ed alle  grida  clic  di  tali  tumulti  nascevano, che  a’ buoni  effetti  clic  quelli  partorivano: e che  non  considerino  come  ei sono  in  ogni  repubblica  duoi  umori  diversi, quello  del  popolo,  c quello  dei grandi  ; c come  tutte  le  leggi  che  si  fanno in  favore  delia  libertà,  nascono  dalla disunione  loro,  come  facilmente  si  può vedere  essere  seguito  in  Roma:  perchè da’ Tarquini  ai  Gracchi,  che  furono  più di  trecento  anni,  i tumulti  di  Roma  rade volte  partorivano  esilio,  radissime  sangue. Nè  si  possono,  per  tanto,  giudicare questi  tumulti  nocivi,    una  repubblica divisa,  che  in  tanto  tempo  per  le  sue differenze  non  mondò  in  esilio  più  che otto  o dieci  cittadini,  e ne  ammazzò  pochissimi, e non  molti  ancora  condennò in  danari.    si  può  chiamare  in  alcun modo,  con  ragione,  una  repubblica  inordinata, dove  siano  tanti  esempi  di  virtù; perchè  li  buoni  esempi  nascono  dalla buona  educazione;  la  buona  educazione dalle  buone  leggi  ; e le  buone  leggi  da quelli  tumulti  che  molti  inconsideratamente dannano:  perchè  chi  esaminerò bene  il  fine  d’essi,  non  troverà ch’egliabbino  partorito  alcuno  esilio  o violenza in  disfavore  del  comune  bene,  ma  leggi ed  ordini  in  benefizio  della  pubblica  libertà. E se  alcuno  dicesse  : i modi  erano straordinari,  e quasi  efferati,  vedere  il Popolo  insieme  gridare  contro  il  Senato, il  Senato  contra  il  Popolo,  correre  tumultuariamente per  le  strade,  serrare  le botteghe, partirsi tutta la  Plebe  di  Roma. le  quali  tutte  cose  spaventano,  nonclic  altro,  chi  legge;  dico  come  ogni città  debbe  avere  i suoi  modi,  con  i  quali  il  popolo  possa  sfogare  l’ambizione sua,  e massime  quelle  ciltadi  che uelle  cose  importanti  si  vogliono  valere del  popolo:  intra  le  quali  la  città di  Roma  aveva  questo  modo,  che  quando quel  Popolo  voleva  ottenere  una  legge, o e’  faceva  alcuna  delle  predette  cose, o e’  non  voleva  dare  il  nome  per andare  alla  guerra,  tanto  che  a placarlo bisognava  in  qualche  parte  satisfargli.  E i desiderò  de’  popoli  liberi,  rade  volle sono  perniziosi  alla  libertà,  perchè  e’na- seono  o da  essere  oppressi,  o da  suspizionc  di  avere  a essere  oppressi.  E quando queste  oppinioni  fussero  false,  e’  vi  è il rimedio  delle  concioni,  che  sorga  qualche uomo  da  bene,  che,  orando,  dimostri loro  come  c’  s’  ingannano:  e li  popoli, come  dice  Tullio CICERONE,  benché  siano  ignoranti, sono  capaci  della  verità,  e facilmente cedono,  quando  da  uomo  degno di  fede  è detto  loro  il  vero.  Debbesi, adunque,  più  parcamente  biasimare  il governo  romano,  e considerare  che  tanti buoni  effetti  quanti  uscivano  di  quella repubblica,  non  erano  causati  se  non  da ottime  cagioni.  E se  i tumulti  furono  cagione della  creazione  dei  Tribuni,  meritano somma  laude;  perchè,  oltre  al  dare la  parte  sua  all’ amministrazione  popolare, furono  constituiti  per  guardia  della libertà  romana,  come  nel  seguente  capitolo si  mostrerà. V.  Dove  più  sccurnmentc  si  ponga la  guardia  della  libertà, o nel Popolo  o ne * Grandi  ; c c/uali  hanno maggior  cagione  di  tumultuare, o chi vuole  acquistare  o chi  vuole  mantenere. Quelli  clic  prudentemente  hanno  constituita  una  repubblica,  intra  le  più necessarie  cose  ordinate  da  loro,  è stato constituire  una  guardia  alla  liberta:  e secondo  che  questa  è bene  collocala,dura  più  o meno  quel  vivere  libero.  Eperché  in  ogni  repubblica  sono  uomingrandi  e popolari,  si  è dubitato  nellemani  di  quali  sia  meglio  collocata  dettaguardia.  Ed  appresso  i Lacedemoni,  c,ne’  nostri  tempi,  appresso  de’  Viniziani,la  è stata  messa  nelle  mani  de’  Nobili  ;ma  appresso  de’ Romani  fu  messa  nellemani  della  Plebe.  Per  tanto,  è necessa-rio esaminare,  quale  di  queste  repub-bliche avesse  migliore  elezione.  E se  siandassi  dietro  alle  ragioni,  ci  è chedire  da  ogni  pajte:  ma  se  si  esaminassiil  fine  loro,  si  piglierebbe  la  partede’  Nobili,  per  aver  avuta  la  libertà  diSparla  c di  Vinegia  più  lunga  vita  chequella  di  Roma.  E venendo  alle  ragio-ni, dico,  pigliando  prima  la  parte  de’  Ro-mani, come  e’  si  debbe  mettere  in  guar-dia coloro  d’  una  cosa,  che  hanno  menoappetito  di  usurparla.  E senza  dubbio,se  si  considera  il  fine  de’  nobili  e deiliignobili,  si  vedrà  in  quelli  desideriogrande  di  dominare,  cd  in  questi  solodesiderio  di  non  essere  dominati;  e, perconseguente,  maggiore  volontà  di  vivereliberi,  potendo  meno  sperare  d’ usurparla  che  non  possono  li  granili:  tal-ché, essendo  i popolani  preposti  a guar-dia d’ una  libertà,  ò ragionevole  neabbino più  cura  : e non  la  putendo  occu-pare loro,  non  permettino  clic  altri  laoccupi.  Dall’  altra  parte,  chi  difendel’ordine  sparlano  e veneto,  dice  cliccoloro  che  mettono  la  guardia  in  inanode’  potenti,  fanno  due  opere  buone:I’  una,  che  satisfanno  più  all’  ambizionedi  coloro  che  avendo  più  parte  nellarepubblica,  per  avere  questo  bastone  inmano,  hanno  cagione  di  contentarsi  più;I’  altra,  clic  bevano  una  qualità  di  au-torità dagli  animi  inquieti  della  plebe,che  è cagione  d’ infinite  dissensioni  escandali  in  una  repubblica,  e alta  a ri-durre la  nobiltà  a qualche  disperazio-ne, che  col  tempo  faccia  cattivi  eliciti.E ne  danno  per  esempio  la  medesimaRoma,  che  per  avere  i Tribuni  dellaplebe  questa  autorità  nelle  mani,  nonbastò  loro  aver  un  Consolo  plcbeio,  chegli  vollono  avere  ambedue.  Da questo, c*  voltano  la  Censura,  il  Pretore,  e tuttili  altri  gradi  dell’imperio  della  città:nè  bastò  loro  questo,  chè,  menati  dalmedesimo  furore,  cominciorno  poi,  coltempo,  a adorare  quelli  uomini  che  ve-devano atti  a battere  la  Nobiltà  ; dondenacque  la  potenza  di  Alarlo,  e la  rovinadi  Roma.  E veramente,  chi  discorressebene  I’  una  cosa  c l’ altra,  potrebbestare  dubbio,  quale  da  lui  fusse  elettoper  guardia  tale  di  libertà,  non  sapen-do quale  qualità  d’uomini sia  più  no-civa in una  repubblica,  o quella  ohedesidera  acquistare  quello  che  non  ha,‘ o quella  che  desidera  mantenere  V ono-re già  acquistato.  Ed  in  fine,  chi  sot-tilmente esaminerà  tutto,  ne  farà  que-sta conclusione:  o tu  ragioni  d’  unarepubblica  che  vogli  fare  uno  imperio,come  Roma  ; o d’  una  che  li  basti  man-tenersi. Nel  primo  caso,  gli  è necessa-rio fare  ogni  cosa  come  Roma;  nel  se-condo, può  imitare  Yinegia  e Spartaper  quelle  cagioni,  e come  nel  seguente capitolo  si  dirà.  .Ma,  per  tornare  a di-scorrere quali  uomini  siano  in  una  re-pubblica piu  nocivi,  o quelli  clic  desi-derano d’acquistare,  o quelli  clic  te-mono di  perdere  lo  acquistato;  dicodie,  scudo  fatto  Marco  Meiiennio  ditta-tore, e Marco  Fulvio  maestro  de’ caval-li, tutti  duoi  plebei,  per  ricercare  certecongiure  clic  si  erano  falle  in  Capovaconlro  a Roma,  fu  dato  ancora  loro  au-torità dal  Popolo  di  poter  ricercare  chiin  Roma  per  ambizione  e modi  straor-dinari s’ingegnasse  di  venire  al  con-solato, ed  agli  altri  onori  della  città.  Eparendo  alla  Nobiltà,  che  tale  autoritàfusse  data  al  Dittatore  contro  a lei,sparsero  per  Roma,  clic  non  i nobilierano  quelli  che  cercavano  gli  onoriper  ambizione  e modi  straordinari,  magl’  ignobili,  i quali,  non  confidatisi  nelsangue  e nella  virtù  loro,  cercavano  pervie  straordinarie  venire  a quelli  gradi;e particolarmente  accusavano  il  Ditta-tore. E tanto  fu  potente  questa  accusa, che  Mencnnio,  fatta  una  conclone  c do-lutosi deite  calunnie  dategli  da*  Nobilidepose  la  dittatura,  e sottomessesi  aigiudizio  che  di  lui  fussi  fatto  dal  Po*polo;  c dipoi,  agitala  la  causa  sua,  nefu  assoluto:  dove  si  disputò  assai,  qualesia  più  ambizioso,  o quel  che  vuolemantenere  o quel  che  vuole  acquistare;perchè  facilmente  1*  uno  e V altro  ap-petito può  essere  cagione  di  tumultigrandissimi.  Pur  nondimeno,  il  più  dellevolte  sono  causali  da  chi  possiede,  per-chè la  paura  del  perdere  genera  in  lorole  medesime  voglie  che  sono  in  quelliche  desiderano  acquistare;  perchè  nonpare  agli  uomini  possedere  sicuramente quello  clic l’uomo  ha,  se  non  si  acqui-sta di  nuovo  dell’  altro.  E di  più  vi  è,che  possedendo  molto,  possono  con  mag-gior potenzia  c maggiore  moto  fare  alterazione. Ed  ancora  vi  è di  più,  che li  loro  scorretti  e ambiziosi  portamenti accendono  ne’  petti  di  chi  non  possiede voglia  di  possedere,  o per  vendicarsi  contro  di  loro  spogliandoli,  o per  potere ancora  loro  entrare  in  quella  ricchezza c in  quelli  onori  clic  veggono essere  male  usati  dagli  altri. Se  in  1 ionia  si  poteva  ordinare uno  stalo  che  togliesse  via  le inimicizie  intra il  Popolo  ed  il  Senato. Noi  abbiamo  discorsi  di  sopra  gli  effetti che  facevano  le  controversie  intra il  Popolo  ed  il  Senato.  Ora,  sendo  quelle seguitate  in  fino  al  tempo  de’ Gracchi, dove  furono  cagione  della  rovina  del  vivere libero,  potrebbe  alcuno  desiderare che  Roma  avesse  fatti  gli  effetti  grandi  che la  fece,  senza  che  in  quella  fussino  tali inimicizie.  Però  mi  è parso  cosa  degna  di considerazione,  vedere  se  in  Roma  si  poteva ordinare  uno  stato  che  togliesse  via dette  controversie.  Ed  a volere  esaminare questo,  è necessario  ricorrere  a quelle repubbliche  le  quali  senza  tante  inimicizie c tumulti  sono  state  lungamente  libere,  e vedere  quale  stato  era  il  loro,  e se  si  poteva  introdurre  in  Roma.  In esempio  tra    antichi  ci  è Sparta,  tra i moderni  Yinegia,  state  da  me  di  sopra uominate.  Sparla  fece  uno  Re,  con  unpicciolo  Senato,  che  la  governasse.  Vinegia  non  ha  diviso  il  governo  con  i nomi  ; ma,  sotto  una  appellazione,  lutti quelli  che  possono  avere  amministrazione si  chiamano  Gentiluomini.  Il  quale modo  lo  dette  il  caso,  più  che  la  prudenza di  elùdette  loro  le  leggi:  perchè, sendosi  ridotti  in  su  quegli  scogli  dove è ora  quella  città,  per  le  cagioni  dette di  sopra,  molti  abitatori;  come  furon cresciuti  in  tanto  numero,  che  a volere vivere  insieme  bisognasse  loro  far  leggi, ordinorono  una  forma  di  governo;  c convenendo  spesso  insieme  ne’  consigli  a deliberare  della  città,  quando  parve  loro essere  tanti  che  fussero  a sufficienza  ad un  vivere  politico,  chiusono  la  via  a tutti quelli  altri  che  vi  venissino  ad  abitare di  nuovo,  di  potere  convenire  ne’ loro governi:  e,  col  tempo,  trovandosi  in quel  luogo  assai  abitatori  fuori  del  governo, per  dare  riputazione  a quelli  clic governavano,  gli  chiamarono  Gentiluomini, e gli  altri  Popolani.  Potette  questo modo  nascere  e mantenersi  senza  tumulto, perchè  quando  e’  nacque,  qualunque allora  abitava  in  Vinegia  fu  fatto del  governo,  di  modo  che  nessuno  si  poteva dolere;  quelli  che.  dipoi  vi  vennero ad  abitare,  trovando  lo  Stato  fermo  c terminato,  non  avevano  cagione    comodità di  fare  tumulto.  La  cagione  non y*  era,  perchè  non  era  stato  loro  tolto cosa  alcuna:  la  comodità  non  v’era, perché  chi  reggeva  gli  teneva  in  freno, c non  gli  adoperava  in  cose  dove  e’ potessino  pigliare  autorità.  Oltre  di  questo, quelli  che  dipoi  vennono  ad  abitare Vinegia,  non  sono  stali  molli,  c di  tanto numero,  che  vi  sia  disproporzione  da chi  gli  governa  a loro  che  sono  governati; perchè  il  numero  de’ Gentiluomini o egli  è eguale  a loro,  o egli  è superiore:  sicché,  per  queste  cagioni,  Vinegia  potette  ordinare  quello  Stalo,  e mantenerlo unito.  Sparta,  come  ho  detto,  essendo governata  da  un  Re  c da  una stretto  Senato,  potette  mantenersi  così lungo  tempo,  perchè  essendo  in  Sparta pochi  abitatori,  ed  avendo  tolta  la  via n chi  vi  venisse  ad  abitare,  ed  avendo prese  le  leggi  di  Licurgo  con  reputazione, le  quali  osservando,  levavano via  tutte  le  cagioni  de’  tumulti,  poterono vivere  uniti  lungo  tempo:  perchè Licurgo con le sue leggi fece in  Sparta più  cqualità  di  sustanze,  e meno  equalità  di  grado;  perchè  quivi  era  una eguale  povertà,  ed  i plebei  erano  manco ambiziosi,  perchè  i gradi  della  città  si distendevano  in  pochi  cittadini,  ed  erano tenuti  discosto  dalla  plebe,    gli  nobili col  trattargli  male  dettero  mai  loro  desiderio di  avergli.  Questo  nacque  dai  Re spartani,  i quali  essendo  collocati  in quel  principato  e posti  in  mezzo  diquella  nobiltà,  non  avevano  maggiore  ri-medio  a tenere  fermo  la  loro  degnità,ehc  tenere  la  plebe  difesa  da  ogni  in-giuria : il  che  faceva  che  la  plebe  nontemeva,  c non  desiderava  imperio  ; e nonavendo  imperio    temendo,  era  levatavia  la  gara  che  la  potessi  avere  con  !unobiltà,  c la  cagione  de’ tumulti;  e po-terono vivere  uniti  lungo  tempo.  Ma  duecose  principali  causarono  questa  unione:T una  esser  pochi  gli  abitatori  di  Sparta,e per  questo  poterono  esser  governatida  pochi;  l’altra,  che  non  accettandoforestieri  nella  loro  repubblica,  non  ave-vano occasione    di  corrompersi,    dicrescere  in  tanto  che  la  fusse  insoppor-tabile a quelli  pochi  che  la  governavano.Considerando,  adunque,  tutte  queste  cose,si  vede  come  a’ legislatori  di  Roma  eranecessario  fare  una  delle  due  cose,  a volere che  Roma  stessi  quieta  come  le  so-praddette repubbliche:  o non  adoperarela  plebe  in  guerra,  corne  i Viniziani;onon  aprire  la  via  a’ forestieri,  come  gliSpartani.  E loro  feceno  1’una  e l’altra; il  che  dette  alla  plebe  forza  ed  augu-mento,  ed  infinite  occasioni  di  tumul-tuare. E se  lo  stato  romano  veniva  adessere  più  quieto,  ne  seguiva  questo  in-conveniente, ch’egli  era  anco  più  debile,perchè  gli  si  troncava  la  via  di  poterevenire  a quella  grandezza  dove  ei  per-venne: in  modo  che  volendo  Roma  le-vare le  cagioni  de’  tumulti,  levava  ancole  cagioni  dello  ampliare.  Ed  in  tutte  lecose  umane  si  vede  questo,  chi  le  esa-minerà bene:  che  non  si  può  mai  can-cellare uno  inconveniente,  che  non  nesurga  un  altro.  Per  tanto,  se  tu  vuoifare  un  popolo  numeroso  ed  armato  perpotere  fare  un  grande  imperio,  lo  faidi  qualità  che  tu  non  lo  puoi  poi  ma-neggiare a tuo  modo:  se  tu  lo  mantienio piccolo  o disarmato  per  potere  ma-neggiarlo, se  egli  acquista  dominio,  nonlo  puoi  tenere,  o diventa    vile,  che  tusei  preda  di  quaiunche  ti  assalta.  E però,in  ogni  nostra  deliberazione  si  debbeconsiderare  dove  sono  meno  inconve-nienti,  c pigliare  quello  per  migliorepartito:  perchè  tutto  netto,  tutto  senzasospetto  non  si  trova  mai.  Poteva,  adun-que, Roma  a similitudine  di  Sparta  fareun  Principe  a vita,  fare  un  Senato  pic-colo; ma  non  poteva,  come  quella,  noncrescere  il  numero  de’  cittadini  suoi,  vo-lendo fare  un  grande  imperio;  il  chefaceva  che  il-  Re  a vita  ed  il  picciol  numero del  Senato,  quanto  alla  unione,  glisarebbe  giovato  poco.  Se  alcuno  volesse,per  tanto,  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  arebbe  a esaminare  se  volessech’ella  ampliasse,  come  Roma,  di  domi-nio e di  potenza,  ovvero  ch’ella  stessedentro  a brevi  termini.  Nel  primo  caso,è necessario  ordinarla  come  Roma,  edare  luogo  a’ tumulti  e alle  dissensioniuniversali,  il  meglio  che  si  può;  perchèsenza  gran  numero  di  uomini,  e benearmati,  non  mai  una  repubblica  potràcrescere,  o se  la  crescerà,  mantenersi.Nel  secondo  caso,  la  puoi  ordinare  comeSparta  c come  Yinegia:  ma  perchè  l’anipitale  è il  veleno  di  simili  repubbliche, tlebbc,  in  tutti  quelli  modi  che  si  può,citi  le  ordina  proibire  loro  lo  acquistare;  perchè  tali  acquisti  fondati  sopra una  repubblica  debole,  sono  al  tutto  la rovina  sua.  Come  intervenne  a Sparta ed  a Yinegia  : delle  quali  la  prima  avendosi sottomessa  quasi  tutta  la  Grecia, mostrò  in  su  uno  minimo  accidente  il debole  fondamento  suo  ; perchè,  seguita la  ribellione  di  Tebe,  causata  da  Pelopitia,  ribellandosi  V altre  cittadi,  rovinò al  tutto  quella  repubblica.  Similmente Yinegia,  avendo  occupato  gran  parte d’Italia,  e la  maggior  parte  non  con guerra  ma  con  danari  e con  astuzia, come  la  ebbe  a fare  prova  delle  forze sue,  perdette  in  una  giornata  ogni  cosa. Crederei  bene,  che  a fare  una  repubblica che  durasse  lungo  tempo,  fussi  il miglior  modo  ordinarla  dentro  come Sparla  o come  Yinegia  ; porla  in  luogo forte,  e di  tale  potenza,  che  nessuno  cre-desse poterla  subito  opprimere;  e dal-l’altra  parte,  non  fussi  si  grande,  che la  fussi  formidabile  a’  vicini  : c così  potrebbe  lungamente  godersi  il  suo  stato. Perchè,  per  due  cagioni  si  fa  guerra ad  una  repubblica:  Cuna  per  diventarne signore,  l’altra  per  paura  ch’ella non  ti  occupi.  Queste  due  cagioni  il  sopraddetto modo  quasi  in  tutto  toglie  via; perchè,  se  la  è difficile  ad  espugnarsi, come  io  la  presuppongo,  sendo  bene  ordinata alla  difesa,  rade  volte  accadere, o non  mai,  che  uno  possa  fare  disegno d’ acquistarla.  Se  la  si  starà  intra  i termini suoi,  e veggasi  per  esperienza,  che in  lei  non  sia  ambizione,  non  occorrerà mai  che  uno  per  paura  di    gli  faccia guerra  : e tanto  più  sarebbe  questo,  se e’  fusse  in  lei  constituzione  o legge  che le  proibisse  l’ampliare.  E senza  dubbio credo,  clic  polendosi  tenere  la  cosa  bilanciata in  questo  modo,  che  e’ sarebbe il  vero  vivere  politico,  e la  vera  quiete di  una  città.  Ma  scudo  tutte  le  cose  degli uomini  in  moto,  c non  potendo  stare salde,  conviene  che  le  saglino  o clic  le scendino  ; e a molte  cose  che  la  ragione non  t' induce,  t’  induce  lo  necessità:  talmente che,  avendo  ordinata  una  repubblica atta  a mantenersi  non  ampliando, e la  necessità  la  conducesse  ad  ampliare, si  verrebbe  a torre  via  i fondamenti suoi,  ed  a farla  rovinare  più  presto. Così,  dall’altra  parte,  quando  il  Cielo  le fusse  si  benigno,  che  la  non  avesse  a fare  guerra,  ne  nascerebbe  che  l’olio  la farebbe  o effeminata  o divisa;  le  quali due  cose  insieme,  o ciascuna  per  sè, sorebbono  cagione  della  sua  rovina.  Pertanto, non  si  potendo,  come  io  credo, bilanciare  questa  cosa,    mantenere questa  via  del  mezzo  a punto  ; bisogna, nello  ordinare  la  repubblica,  pensare alla  parte  più  onorevole;  ed  ordinaria in  modo,  che  quando  pure  la  necessità la  inducesse  ad  ampliare,  ella  potesse quello  ch’ella  avesse  occupato,  conservare. E,  per  tornare  al  primo  ragionamento, credo  che  sia  necessario  seguire l'ordine  romano,  e non  quello  dell’altre repubbliche;  perchè  trovare  un  modo, mezzo  infra  l’uno  e l’altro,  non  credosi  possa:  e quelle  inimicizie  che  intra  il popolo  ed  il  senato  nascessino,  tollerarle, pigliandole  per  uno  inconveniente necessario  a pervenire  alla  romana  grandezza. Perchè,  oltre  all’ altre  ragioni  allegate dove  si  dimostra  Y autorità  tribun zia  essere  stata  necessaria  per  la  guardia della  libertà,  si  può  facilmente  considerare il  benefizio  che  fa  nelle  repubbliche l’autorità  dello  accusare,  la  quale era  intra  gli  altri  commessa  a’  Tribuni  ; come  nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. VII. Quanto siano necessarie in una  repubblica  le  accuse  per  mante-nere la  libertà.A coloro  che  in  una  città  sono  preposti per  guardia  della  sua  libertà,  non si  può  dare  autorità  più  utile  e necessaria, quanto  è quella  di  potere  accasare  i cittadini  ai  popolo,  o a qualunque magistrato  o consiglio,  quando  che pcccassino  in  alcuna  cosa  contea  allo stato  libero.  Questo  ordine  fa  duoi  effetti utilissimi  ad  una  repubblica.  Il primo  è che  i cittadini,  per  paura  di non  essere  accusati,  non  tentano  cose contro  allo  Stato:  e tentandole,  sono  incontinente e senza  rispetto  oppressi. 1/  altro  è che  si    via  onde  sfogare  a quelli  umori  che  crescono  nelle  citladi, in  qualunque  modo,  contea  a qualunque cittadino:  e quando  questi  umori non  hanno  onde  sfogarsi  ordinariamente, ricorrono  a’  modi  straordinari,  che fanno  rovinare  in  tutto  una  repubblica. G non  è cosa  che  faccia  tanto  stabile  e ferma  una  repubblica,  quanto  ordinare quella  in  modo,  che  l’ alterazione  di questi  umori  che  la  agitano,  abbia  una via  da  sfogarsi  ordinata  dalie  leggi.  Il che  si  può  per  molti  esempi  dimostrare, e massime  per  quello  che  adduce Livio  di CORIOLANO,  dove  ei  dice, che  essendo  irritala  contro  alla  Plebe la  Nobiltà  romana,  per  parerle  che  l Plebe  avesse  troppa  autorità  mediante la  creazione  de’  Tribuni  che  la  difendevano; ed  essendo  Roma,  come  avviene, venuta  in  penuria  grande  di  vettovaglie, ed  avendo  il  Senato  mandato  per grani  in  Sicilia;  Coriolano,  nimico  alla fazione  popolare,  consigliò  come  egli era  venuto  il  tempo  da  potere  gastigare  la  Plebe,  e torte  quella  autorità die  ella  si  aveva  acquistata  c in  pregiudizio della  nobiltà  presa,  tenendola affamata,  c non  li  distribuendo  il  frumento; la  qual  sentenza  sendo  venuta alii  orecchi  del  Popolo,  venne  in  tanta indegnazione  contro  a Coriolano,  che allo  uscire  del  Senato  lo  arebbero  tumultuariamente morto,  se  gli  Tribuni non  1’  avessero  citato  a comparire  a difendere la  causa  sua.  Sopra  il  quale accidente,  si  nota  quello  che  di  sopra si  è detto, #quanto  sia  utile  e necessario che  le  repubbliche,  con  le  leggi  loro, diano  onde  sfogarsi  oli’  ira  clic  concepc la  universalità  contra  a uno  cittadino; perchè  quando  questi  modi  ordinari  non vi  siano,  si  ricorre  agli  estraordinari; c senza  dubbio  questi  fanno  molto  peggiori effetti  che  non  fanno  quelli.  Perchè, se  ordinariamente  uno  cittadino  è oppresso,  ancora  che  li  fusse  fatto  torto, ne  seguita  o poco  o nessuno  disordine in  la  repubblica:  perchè  la  esecuzione si  fa  senza  forze  private,  e senza forze  forestiere,  che  sono  quelle  che rovinano  il  vivere  libero;  ma  si  fa  con forze  ed  ordini  pubblici,  che  hanno  i termini  loro  particolari,    trascendono a cosa  che  rovini  la  repubblica.  E quanto a corroborare  questa  oppinione  con gli  esempi,  voglio  che  degli  antichi  mi basti  questo  di  Coriolano;  sopra  il  quale ciascuno  consideri,  quanto  male  saria resultato  alla  repubblica  romana,  se tumultuariamente  ci  fussi  stato  morto; perchè  ne  nasceva  offesa  ila  privati  a privati,  la  quale  offesa  genera  paura; la  paura  cerca  difesa;  per  la  difesa  si procacciano  i partigiani;  dai  partigiani nascono  le  parti  nelle  cittadi;  dalle parti  la  rovina  di  quelle.  Ma  sendosi governata  la  cosa  mediante  chi  ne  aveva autorità,  si  vennero  a tór  via  tutti quelli  mali  che  ne  potevano  nascere  governandola con  autorità  privata.  Noi avemo  visto  ne’  nostri  tempi,  quale  novità ha  fatto  alla  repubblica  di  Firenze non  potere  la  moltitudine  sfogare  l’ nniino  suo  ordinariamente  contra  a un  suo cittadino;  come  accadde  nel  tempo  di VALORI,  clic  era  come  principe della  città  : il  quale  essendo  giudicalo ambizioso  da  molti,  e uomo  che volesse  con  la  sua  audacia  e animosità trascendere  il  vivere  civile;  e non  essendo nella  repubblica  via  a poterli  resistere se  non  con  una  setta  contraria alla  sua  ; ne  nacque  che  non  avendo paura  quello,  se  non  di  modi  straordinari, si  cominciò  a fare  fautori  che  lo difendessino;  dall’  altra  parte,  quelli  clic lo  oppugnavano  non  avendo  via  ordinaria a reprimerlo,  pensarono  alle  vie straordinarie  : intanto  che  si  venne  alle armi.  E dove,  quando  per  l’ordinario si  fusse  potuto  opporseli,  sarebbe  la  sua autorità  spenta  con  suo  danno  solo; avendosi  a spegnere  per  lo  straordinario, seguì  con  danno  non  solamente suo,  ma  di  molti  altri  nobili  cittadini. Potrebbesi  ancora  allegare,  a fortificazione della  soprascritta  conclusione, l’ accidente  seguito  pur  in  Firenze  sopra SODERINI;  il  quale  al  tutto segui  per  non  essere  in  quella  Repubblica alcuno  modo  di  accuse  contra  alla ambizione  de’ potenti  cittadini:  perchè lo  accusare  un  potente  a otto  giudici in  una  repubblica,  non  basta  : bisogna che  i giudici  siano  assai,  perchè  pochi sempre  fanno  a modo  de’  pochi.  Tanfo che,  se  tali  modi  vi  fussono  stati,  o icittadini  lo  arebbono  accusato,  vivendo egli  male;  e per  tal  mezzo,  senza  far venire  l’ esercito  spagnuolo,  arebbono sfogato  l’animo  loro:  o non  vivendo male,  non  arebbono  avuto  ardire  operarli contra,  per  paura  di  non  essere accusati  essi  : e cosi  sarebbe  da  ogni parte  cessato  quello  appetito  che  fu  cagione di  scandalo.  Tanto  che  si  può concludere  questo,  che  qualunque  volta si  vede  che  le  forze  esterne  siano  chiamate da  una  parte  d’ uomini  che  vivono in  una  città,  si  può  credere  nasca da’  cattivi  ordini  di  quella,  per  non esser  dentro  a quello  cerchio,  ordine da  potere  senza  modi  islraordinari  sfogare i maligni  umori  che  nascono  nelli uomini:  a che  si  provvede  al  tutto  con ordinarvi  le  accuse  alii  assai  giudici,  e dare  riputazione  a quelle.  Li  quali  modi furono  in  Roma    bene  ordinati,  che in  tante  dissensioni  della  Plebe  e del Senato,  mai  o il  Senato  o la  Plebe  o alcuno  particolare  cittadino  non  disegnò valersi  di  forze  esterne;  perche avendo  il  rimedio  in  casa,  non  erano necessitati  andare  per  quello  fuori.  E benché  gli  esempi  soprascritti  siano  assai sufficienti  a provarlo,  nondimeno ne  voglio  addurre  un  altro,  recitato  da L.  nella  sua  istoria:  il  quale riferisce  come,  scudo  stato  in  Chiusi, città  in  quelli  tempi  nobilissima  in  TOSCANA, da  uno  Lucumone  violata  una sorella  di  Aruntc,  c non  potendo  Arunte vendicarsi  per  la  potenia  del  violatore, se  n'andò  a trovare  i Franciosi,  che  allora regnavano  in  quello  luogo  che  oggi si  chiama  Lombardia;  e quelli  confortò a venire  con  annata  mano  a Chiusi, mostrando  loro  come  con  loro  utile  lo potevano  vendicare  della  ingiuria  ricevuta : che  se  Arunte  avesse  veduto  potersi vendicare  con  i modi  della  città, non  arebbe  cerco  le  forre  barbare.  Ma come  queste  accuse  sono  utili  in  una repubblica,  così  sono  inutili  e dannose le  calunnie  ; come  nel  capitolo  seguente discorreremo. Vili.  — Quanto  le  accuse  sono utili  alle  repubbliche,  tanto  sono  perniziose  le  calunnie.Non  ostante  che  la  virtù  di Cnmmillo,  poi  ch’egli  ebbe  libera  Roma dalla  oppressione  de’ Franciosi,  avesse fatto  che  tutti  i cittadini  romani, parer  loro  tòrsi  reputazione  o cedevano  a quello;  nondimeno  MAULIO Capitolino  non  poteva  sopportare  chegli  fusse  attribuito  tanto  onore  e tanta gloria;  parendogli,  quanto  alla  salute di  Roma,  per  avere  salvato  il  Campidoglio, aver  meritato  quanto  CAMMILLO; c quanto  all’  altre  belliche  laudi,  non essere  inferiore  a lui.  Di  modo  che,  carico d’  invidia,  non  potendo  quietarsi per  la  gloria  di  quello,  c veggendo  non potere  seminare  discordia  infra  i Padri, si  volse  alla  Plebe,  seminando  varie oppinioni  sinistre  intra  quelfb.  E intra V altre  cose  che  diceva,  era  come  il  tesoro  il  quale  si  era  adunato  insieme per  dare  ai  Franciosi,  e poi  non  dato loro,  era  stato  usurpalo  da  privati cittadini  ; e quando  si  riavesse,  si  poteva convertirlo  in  pubblica  utilità,  alleggerendo la  Plebe  da’  tributi,  o da qualche  privato  debito.  Queste  parole poterono  assai  nella  Plebe;  talché  cominciò avere  concorso,  ed  a fare  u sua  posta  tumulti  assai  nella  città:  la qual  cosa  dispiacendo  al  Senato,  e parendogli di  momento  e pericolosa,  creò uno  Dittatore,  perchè  ei  riconoscesse questo  caso,  e frenasse  lo  impeto  di MANLIO.  Onde  che  subito  il  Dittatore  lo fece  citare,  e eondussonsi  in  pubblico all’incontro  l’uno  dell’altro;  il  Dittatore in  mezzo  de’  Nobili,  e MANLIO  in mezzo  della  Plebe.  Fu  domandato  Manlio che  dovesse  dire,  appresso  a chi  fusse questo  tesoro  che  ei  diceva,  perchè  ne era  cosi  desideroso  il  Senato  d’ intenderlo come  la  Plebe:  a che  MANLIO  non rispondeva  particularmenfe;  ma,  andando  fuggendo,  diceva  come  non  era necessario  dire  loro  quello  die  e’  si  sapevano: tanto  che  il  Dittatore  lo  fece mettere  in  carcere.  È da  notare  per questo  testo,  quanto  siano  nelle  città libere,  ed  in  ogni  altro  modo  di  vivere, detestabili  le  calunnie;  e come  per  reprimerle, si  debbe  non  perdonare  a ordine alcuno  che  vi  faccia  a proposito. Nè  può  essere  migliore  ordine  a torle via,  che  aprire  assai  luoghi  alle  accuse; perchè  quanto  le  accuse  giovano alle  repubbliche,  tanto  le  calunnie  nuocono:  e dall’ altra  parte  è questa  differenza, che  le  calunnie  non  hanno  bisogno di  testimone,    di  alcuno  altro particulare  riscontro  a provarle,  in  modo che  ciascuno  da  ciascuno  può  essere calunniato;  ma  non  può  già  essere  accusato, avendo  le  accuse  bisogno  di  riscontri veri,  e di  circostanze,  che  mostrino la  verità  dell’  accusa.  Accusatisi gli  uomini  a’  magistrati,  a’ popoli,  a’ consigli ; calunniatisi  per  le  piazze  è per  le logge.  Usasi  più  questa  calunnia  dove si  usa  meno  1’  accusa,  c dove  le  città sono  meno  ordinate  a riceverle*  Però, uno  ordinatore  d’  una  repubblica  debbe ordinare  che  si  possa  in  quella  accusare ogni  cittadino,  senza  alcuna  paura o senza  alcuno  sospetto;  e fatto  questo e bene  osservato,  debbe  punire  aeremente  i calunniatori:  i quali  non  si possono  dolere  quando  siano  puniti, avendo  i luoghi  aperti  a udire  le  accuse di  colui  che  gli  avesse  per  le  logge calunniato.  E dove  non  è bene  ordinata questa  parte,  seguitano  sempre  disordini grandi  : perchè  le  calunnie  irritano, c non  castigano  i cittadini;  e gli irritali  pensano  di  valersi,  odiando  più presto,  che  temendo  le  cose  che  si  dicono contea  a loro.  Questa  parte,  come è detto,  era  bene  ordinata  in  Roma  ; ed  è stata  sempre  male  ordinala  nella nostra  città  di  FIRENZE.  E come  a Roma questo  ordine  fece  molto  bene,  a FIRENZE questo  disordine  fece  molto  male. E chi  legge  le  istorie  di  questa  città, vedrà  quante  calunnie  sono  state  in ogni  tempo  date  a’  suoi  cittadini  che  si sono  adoperati  nelle  cose  importanti  di quella.  Dell’  uno  dicevano,  ch’egli  aveva rubati  danari  al  comune;  dell’  altro,  che non  aveva  vinto  una  impresa  per  essere stato  corrotto;  e che  quell’  altro per  sua  ambizione  aveva  fatto  il  tale  e tale  inconveniente.  Del  che  ne  nasceva che  da  ogni  parte  ne  surgeva  odio  : donde  si  veniva  alla  divisione;  dalla  di- visione alle  sètte;  dalle  sètte  alla  rovina. Che  se  fusse  stato  in  Firenze  ordine d’  accusare  i cittadini,  c punire  i calunniatori,  non  seguivano  infiniti  scandali che  sono  seguiti:  perchè  quelli  cittadini, o condennati  o assoluti  che  russino, non  arebbono  potuto  nuocere  alla città;  e sarebbono  stati  accusati  meno assai  clic  non  ne  erano  calunniali,  non si  potendo,  come  ho  detto,  accusare come  calunniare  ciascuno.  Ed  intra  l’ altre cose  di  clic  si  è valuto  alcuno  citadino  per  ventre  alla  grandezza  sua, sono  state  queste  calunnie:  le  quali  venendo conira  a’  cittadini  potenti  che allo  appetito  suo  si  opponevano,  facevano assai  per  quello;  perchè,  pigliando la  parte  del  Popolo,  e confirmandolo nella  mala  oppiatone  eh’  egli  aveva  di loro,  se  lo  fece  amico.  E benché  se  ne potesse  addurre  assai  esempi,  voglio essere  contento  solo  d’  uno.  Era  lo  esercito fiorentino  a campo  a Lucca,  coman- dato da  GUICCIARDINI (si veda), commissario  di  quello.  Vollono  o i cattivi suoi  governi,  o la  cattiva  sua  fortuna, che  Ja  espugnazione  di  quella città  non  seguisse.  Pur,  comunque  il caso  stesse,  ne  fu  incolpato  inesser  Giovanni, dicendo  com’  egli  era  stato  corrotto da’  Lucchesi:  la  quale  calunnia sendo  favorita  da’  nimici  suoi,  condusse messer  Giovanni  quasi  in  ultima  disperazione. E benché,  per  giustificarsi,  ei si  volessi  mettere  nelle  mani  del  Capitano; nondimeno  non  si  potette  mai giustificare,  per  non  essere  modi  in quella  repubblica  da  poterlo  fare.  Di che  ne  nacque  assai  sdegno  intra  li amici  di  messer  Giovanni,  che  erano  la maggior  parte  delli  uomini  Grandi,  ed infra  coloro  che  desideravano  fare  novità in  Firenze.  La  qual  cosa,  e per queste  e per  altre  simili  cagioni,  tanto crebbe,  che  ne  seguì  la  rovina  di  quella repubblica.  Era  dunque  MANLIO  Capitolino calunniatore,  e non  accusatore*,  ed i Romani  mostrarono  in  questo  caso appunto,  come  i calunniatori  si  debbono punire.  Perchè  si  debbe  fargli  diventare accusatori;  e quando  1’  accusa  si  riscon- tri vera,  o premiarli,  o non  punirli  : ma  quando  la  non  si  riscontri  vera Uf»5  IX. Come  egli  è necessario  esser solo  a volere  ordinare  una  repubblica di  nuovo, o al  lutto  fuori  delti  antichi suoi  ordini  riformarla.  E’ porrà  forse  ad  alcuno,-  che  io  sia troppo  trascorso  dentro  nella  istoria  romana, non  avendo  fatto  alcuna  menzione ancora  degli  ordinatori  di  quella  Repubblica, nè  di  quelli  ordini  che  o alla  religione o alla  milizia  riguardassero.  E però,  non  volendo  tenere  più  sospesi  gli animi  di  coloro  che  sopra  questu  parte volessino  intendere  alcune  cose;  dico, come  molti  per  avventura  giudicheranno di  cattivo  esempio,  che  uno  fondatore d’  un  vivere  civile,  quale  è  ROMOLO,  abbia prima  morto  un  suo  fratello,  dipoi consentito  alla  morte  di  Tito  TAZIO Sabino, eletto  da  lui  compagno  nel  regno; giudicando  per  questo,  che  gli  suoi  cittadini potessero  con  T autorità  del  loro principe,  per  ambizione  e desiderio  di comandare,  offendere  quelli  che  alla  loro autorità  si  opponessino.  La  quale  oppinionc  sarebbe  vera,  quando  non  si  considerasse che  line  l’avesse  indotto  a fare lai  OMICIDIO. E debbesi  pigliare  questo per  una  regola  generale:  clic  non  mai  o di  rado  occorre  che  alcuna  repubblica o regno  sia  da  principio  ordinato  bene,  o al  tutto  di  nuovo  fuori  delti  ordini  vecchi riformato,  se  non  è ordinato  da  uno;  anzi è necessario  che  uno  solo  sia  quello  clic dia  il  modo,  e dalla  cui  mente  dependa qualunque  simile  ordinazione.  Però,  uno prudente  ordinatore  d’ una  repubblica,  e che  abbia  questo  animo  di  volere  giovare non  a sé  ma  al  BENE COMUNE,  non alla  sua  propria  successione  ma  alla  comune patria,  debbe  ingegnarsi  di  avere l’autorità  solo;    mai  uno  ingegno  savio riprenderà  alcuno  di  alcuna  azione istraordinaria,  che  per  ordinare  un  regno o constituire  una  repubblica  usasse. Conviene  bene,  che,  accusandolo  il  fallo, lo  effetto  lo  scusi  ; e quando  sia  buono, come  quello  di  ROMOLO,  sempre  lo  scuserà: perchè  colui  che  è violento  per guastare,  non  quello  che  è per  racconciare, si  debbe  riprendere.  Debbe  bene in  tanto  esser  prudente  e virtuoso,  che quella  autorità  che  si  ha  presa,  non  la lasci  ereditaria  ad  un  altro  : perchè,  essendo gli  uomini  più  proni  al  male  che al  bene,  potrebbe  il  suo  successore  usare ambiziosamente  quello  che  da  lui  virtuosamente fusse  stato  usato.  Oltre  di questo,  se  uno  è atto  ad  ordinare,  uoti è la  cosa  ordinata  per  durare  molto, quando  la  rimanga  sopra  le  spalle  d’  uno; ma  si  bene,  quando  la  rimane  alla  cura di  molti,  e che  a molti  stia  il  mantenerla. Perchè,  cosi  come  molti  non  sono atti  ad  ordinare  una  cosa,  per  non  conoscere il  bene  di  quella,  causato  dalle diverse  oppinioni  che  sono  fra  loro; cosi  conosciuto  che  lo  hanno,  non  si accordano  a lasciarlo.  E che  ROMOLO fusse  di  quelli  che  NELLA MORTE DEL FRATELLO e del  compagno  meritasse  scusa; e che  quello  che  fece,  fusse  per  IL BENE COMUNE,  e non  per  ambizione  propria  ; lo  dimostra  lo  avere  quello  subito  ordinato uno  Senato,  con  il  quale  si  consigliasse, e secondo  l’oppinione  del  quale deliberasse.  E chi  considera  bene  P autorità che  ROMOLO  si  riserbò,  vedrà  non se  ne  essere  riserbata  alcun’  altra  che comandare  alli  eserciti  quando  si  era deliberata  la  guerra,  e di  ragunare  il Senato.  Il  che  si  vide  poi,  quando  Roma divenne  libera  per  la  cacciata  de’  Tarquini;  dove  da’  Romani  non  fu  innovato alcun  ordine  dello  antico,  se  non che  in  luogo  d’  uno  Re  perpetuo,  fussero  duoi  Consoli  annuali;  il  che  testifica, tutti  gli  ordini  primi  di  quella città  essere  stati  più  conformi  ad  uno vivere  civile  e libero,  che  ad  uno  assoluto e tirannico.  Polrebbesi  dare  in corroborazione  delle  cose  sopraddette infiniti  esempi;  come  Licurgo, Solonc,  ed  nitri  fondatori  di  regni  e di repubbliche,  i quali  poterono,  per  aversi attribuito  un’  autorità,  formare  leggi  a proposito  del  bene  comune;  ma  gli  voglio lasciare  indietro,  come  cosa  nota. Addurronne  solamente  • uno,  non  si  celebre,  ma  da  considerarsi  per  coloro che  desiderassero  essere  di  buone  leggi ordinatori:  il  quale  è,  che  desiderando Agide  re  di  Sparta  ridurre  gli  Spartani intra  quelli  termini  che  le  leggi  di Mcurgo  gli  avessero  rinchiusi,  parendoli che  per  esserne  in  parte  deviati, la  sua  città  avesse  perduto  assai  di quella  antica  virtù,  e,  per  conseguente, di  forze  e d’ imperio  ; fu  ne'  suoi  primi principii  ammazzato  dalli  Efori  spartani, come  uomo  che  volesse  occupare  la tirannide.  .Ma  succedendo  dopo  lui  . nel regno  Cleomene  c nascendogli  il  medesimo desiderio  per  gli  ricordi  e scritti eh’  egli  aveva  trovati  di  Agide,  dove  si vedeva  quale  era  la  mente  ed  intenzione sua,  conobbe  non  potere  fare  questo bene  alla  sua  patria  se  non  diventava solo  di  autorità;  parendogli,  per  1*  arabizione  degli  uomini,  non  potere  fare utile  a molti  contra  alla  voglia  di  pochi:  e presa  occasione  conveniente,  fece ammazzare  tutti  gli  Efori,  e qualunque altro  gli  potesse  contrastare  ; dipoi  rinnovò in  tutto  le  leggi  di  Licurgo.  La quale  deliberazione  era  atta  a fare  risuscitare Sparta,  e dare  a Clcomcne quella  reputazione  che  ebbe  Licurgo, se  non  fussc  stato  la  potenza  de’  Macedoni e la  debolezza  delle  altre  repubbliche greche.  Perchè,  essendo  dopo tale  ordine  assaltato  da’  Macedoni,  e trovandosi per    stesso  inferiore  di  forze, c non  avendo  a chi  rifuggire,  fu vinto;  e restò  quel  suo  disegno,  quantunque giusto  e laudabile,  imperfetto. Considerato  adunque  tutte  queste  cose, conchiudo,  come  a ordinare  una  repubblica è necessario  essere  solo;  c ROMOLO per  LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa,  e non  biasmo. Quanto  sono  laudabili  * fondatori d*  una  repubblica  o dJ  uno  regno, tanto  quelli  dJ  una  tirannide sono  vituperabili. Intra  tutti  gli  uomini  laudati,  sono  i laudatissimi  quelli  die  sono  stati  capi e ordinatori  delle  religioni.  Appresso dipoi,  quelli  che  hanno  fondato  o repubbliche o regni.  Dopo  costoro,  sono celebri  quelli  che,  preposti  alti  esercìti,  hanno  ampliato  o il  regno  loro,  o quello  della  patria.  A questi  si  aggiungono gli  uomini  iilterati;  e perchè  questi  sono  di  più  ragioni,  sono  celebrati ciascuno  d’ essi  secondo  il  grado  suo. A qualunque  altro  uomo,  il  numero de’  quali  è infinito,  si  attribuisce  quut* che  parte  di  laude,  la  quale  gli  arreca l’ arte  e V esercizio  suo.  Sono,  per  lo contrario,  infumi  e detestabili  gli  uomini destruttori  delle  religioni,  dissipatori de’  regni  e delie  repubbliche,  inimici  delle  virtù,  delle  lettere,  e d'ogni altra  arte  che  arrechi  utilità  ed  onore alla  umana  generazione;  come  sono  gli empii  e violenti,  gl*  ignoranti,  gli  oziosi, i vili,  e i dappochi.  E nessuno  sarà mai    pazzo  o si  savio,  si  tristo  o si buono,  che,  propostogli  la  elezione  delle due  qualità  d’  uomini,  non  laudi  quella che  è da  laudare,  e Biasini  quella  che  è da  biasmare:  nientedimeno,  dipoi,  quasi tutti,  ingannati  da  un  falso  bene  e da una  falsa  gloria,  si  lasciano  andare, o voluntariamente  o ignorantemente, ne’ gradi  di  coloro  che  meritano  più  biasimo che  laude;  c potendo  fare,  con perpetuo  loro  onore,  o una  repubblica o un  regno,  si  volgono  alla  tirannide: nè  si  avveggono  per  questo  partito quanta  fama,  quanta  gloria,  quanto  onore, sicurtà,  quiete,  con  satisfazione  d’animo, e’fuggono;  e in  quanta  infamia, vituperio,  biasimo,  pericolo  e inquietudine incorrono.  Ed  è impossibile  che quelli  che  in  stato  privato  vivono  in  una repubblica,  o che  per  fortuna  o virtù ne  diventano  principi,  se  leggcssino l’ istorie,  e delle  memorie  delle  antiche cose  facessino  capitale,  che  non  volessero  quelli  tali  privati,  vivere  nella loro  patria  piuttosto  Soipioni  che  Cesari; e quelli  che  sono  principi,  piuttosto Agesilai,  Timolconi  e Dioni,  clic Nabidi,  Falari  e Dionisi  : perchè  vedrebbono  questi  essere  sommamente  vituperati, e quelli  eccessivamente  laudati. Vedrebbono  ancora  come  Timoleone  e gli  altri  non  ebbero  nella  patria  loro meno  autorità  che  si  avessiuo  Dionisio e Falari;  ma  vedrebbono  di  lungo  avervi avuto  più  sicurtà.    sia  alcuno  che  si inganni  per  la  gloria  di  Cesare,  sentendolo, massime,  celebrare  dagli  scrittori: perchè  questi  che  lo  laudano,  sono  corrotti dalla  fortuna  sua,  e spauriti  dalla lunghezza  dello  imperio,  il  quale  reggendosi sotto  quel  nome,  non  permetteva che  gli  scrittori  parlassero  liberamente  di  lui.  Ma  chi  vuole  conoscere quello  che  gli  scrittori  liberi  ne  direbbono,  vegga  quello  che  dicono  di  CATILINA. E tanto  è più  detestabile  GIULIO (si veda) CESARE, quanto  più  è da  biasimare  quello  che ha  fatto,  che  quello  che  ha  voluto  fare un  inule.  Vegga  ancora  con  quante  laudi celebrano  BRUTO (si veda);  talché,  non  potendo  biasimare  quello  per  la  sua  potenza,  e’ celebrano il  nemico  suo.  Consideri  ancora quello  eh’  è diventato  principe  in  una repubblica,  quante  laudi,  poiché  ROMA fu  diventata  imperio,  meritarono  più quelli  imperadori  che  vissero  sotto  le leggi  e come  principi  buoni,  che  quelli che  vissero  al  contrario:  e vedrà  come a Tito,  Nerva,  Traiano,  ADRIANO,  Antonino e Marco,  non  erano  necessari  i soldati pretoriani    la  moltitudine  delle legioni  a difenderli,  perchè  i costumi L loro,  la  benivolenza  del  Popolo,  lo  amore i del  Senato  gli  difendeva.  Vedrà  ancora come  a Caligola,  Nerone,  Vitellio,  ed  a tanti  altri  scellerati  imperadori,  non  bastarono gli  eserciti  orientali  ed  occidenItili  a salvarli  conira  a quelli  nemici,  che li  loro  rei  costumi,  la  loro  malvagia  vita aveva  loro  generati.  E se  la  istoria  di costoro  fusse  ben  considerata,  sarebbe assai  ammaestramento  a qualunque  priucipe,  a mostrargli  la  via  della  gloria  o del  biasmo,  e della  sicurtà  o del  timore suo.  Perchè,  di  ventisei  imperadori  che furono  da  Cesare  a Massimiuo,  sedici  ne furono  ammazzati,  dicci  morirono  ordinariamente; c se  di  quelli  che  furono morti  ve  ne  fu  alcuno  buono,  come Galba  e Pertinace,  fu  morto  da  quella corruzione  che  lo  antecessore  suo  aveva lasciata  nc’ soldati.  E se  tra  quelli  che morirono  ordinariamente  ve  ne  fu  alcuno scellerato, nome  Severo,  nacque  da una  sua  grandissima  fortuna  e virtù  ; le quali  due  cose  pochi  uomini  accompagnano. Vedrà  ancora,  per  la  lezione  di questa  istoria,  come  si  può  ordinare  un regno  buono:  perchè  tutti  gl' imperadori che  succederono  all*  imperio  per  eredità, eccetto  Tito,  furono  cattivi  ; quelli  che  per adozione, furono  tutti  buoni,  come  furono quei  cinque  da  Nervo  a Marco:  e come P imperio  cadde  negli  eredi,  ei  ritornò nella  sua  rovina.  Pongasi,  adunque,  innanzi un  principe  i tempi  da  Nerva  a Marco,  e conferiscagli  con  quelli  che erano  stati  prima  e che  furono  poi;  edipoi  elegga  in  quali  volesse  essere  nato,o a quali  volesse  essere  preposto.  Per-chè in  quelli  governali  da’ buoni,  vedràun  principe  sicuro  in  mezzo  de’ suoi  si-curi cittadini,  ripieno  di  pace  e di  giu-stizia il  mondo:  vedrà  il  Senato  con  lasua  autorità,  i magistrati  con  i suoi  ono-ri ; godersi  i cittadini  ricchi  le  loro  ric-chezze ; la  nobiltà  c la  virtù  esaltata  :vedrà  ogni  quiete  ed  ogni  bene;  e,  dal-l’altra parte,  ogni  rancore,  ogni  licenza,corruzione  e ambizione  spenta:  vedrà  itempi  aurei,  dove  ciascuno  può  tenere  edifendere  quella  oppinione  che  vuole.  Ve-drà, in  fine,  trionfare  il  mondo;  pienodi  riverenza  e di  gloria  il  principe,d’  amore  e di  sveurilà  i popoli.  Se  con-sidererà,  dipoi,  tritamente  i tempi  deglialtri  imperadori,  gli  vedrà  atroci  per  leguerre,  discordi  per  le  sedizioni,  nellapace  e nella  guerra  crudeli:  tanti  prin-cipi morti  col  ferro,  tante  guerre  civili,tante  esterne  ; P Italia  afflitta,  e piena  dinuovi  infortunii  ; rovinate  e saccheggiatele  città  di  quella.  Vedrà  Roma  arsa,  ilCampidoglio  da’ suoi  cittadini  disfatto,desolati  gli  antichi  templi,  corrotte  lecerimonie,  ripiene  le  città  di  adulterii:vedrà  il  mare  pieno  di  esilii,  gli  scoglipieni  di  sangue.  Vedrà  in  Roma  seguireinnumerabili  crudeltadi  ; e la  nobiltà,  le ricchezze,  gli  onori,  e sopra  tutto  ia  virtùessere  imputata  a peccato  capitale.  Ve-drà premiare  li  accusatori,  essere  corrotti i sèrvi  contro  al  signore,  i liberi contro  al  padrone;  e quelli  a chi  fusscro  mancati  i nemici,  essere  oppressi dagli  amici.  E conoscerà  allora  benissimo quanti  obblighi  Roma,  Italia,  e il mondo  abbia  con  Cesare.  E senza,  dubbio, se  e*  sarà  nato  d’uomo,  si  sbigottirà I da  ogni  imitazione  dei  tempi  cattivi,  c accenderassi  d’uno  immenso  desiderio  di seguire  i buoni.  E veramente,  cercando un  principe  la  gloria  del  mondo,  doverrebbe  desiderare  di  possedere  una  città corrotta,  non  per  guastarla  in  tutto  come Cesare,  ma  per  riordinarla  come  lloinolo.  E veramente  i cieli  non  possono dare  all i uomini  maggiore  occasione  di gloria,    li  uomini  la  possono  maggiore desiderare.  E se,  a volere  ordinare  bene una  città,  si  avesse  di  necessità  n dcporrc  il  principato,  meriterebbe  quello clic  non  la  ordinasse,  per  non  cadere di  quel  grado,  qualche  scusa:  ma  potendosi tenere  il  principato  ed  ordinarla, non  si  merita  scusa  alcuna.  E in  somma, considerino  quelli  a chi  i cieli  danno tale  occasione,  come  sono  loro  proposte due  vie:  1’  una  che  gli  fa  vivere sicuri,  e dopo  la  morte  gli  rende  gloriosi ; I’  altra  gli  fa  vivere  in  continove angustie,  e dopo  la  morte  lasciare  di  sè una  sempiterna  infamia. Delta  religione  de*  Romani. Ancora  che  Roma  avesse  il  primo  suo ordinatore  ROMOLO,  e che  da  quello  abbia riconoscere  come  figliuola  il  nascimento e la  educazione  sua;  nondimeno, giudicando  i cieli  che  gli  ordini  di  ROMOLO non  bastavano  a tanto  imperio, niessono  nel  petto  del  Senato  romano  di eleggere  NUMA (si veda)  Pompilio  per  SUCCESSORE A ROMOLO,  acciocché  quelle  cose  che  da lui  fossero  state  lasciate  indietro,  fossero da  Numa  ordinate.  II  quale  trovando  un popolo  ferocissimo,  e volendolo  ridurre nelle  ubbidienze  civili  con  le  arti  della pace,  si  volse  alla  religione,  come  oosa al  tutto  necessaria  a volere  mantenere una  civiltà  ; e la  costituì  in  modo,  che per  più  secoli  non  fu  mai  tanto  timore di  Dio  quanto  in  quella  Repubblica  : ilche  facilitò  qualunque  impresa  che  ilSenato  o quelli  grandi  uomini  romanidisegnassero  fare.  E ehi  discorrerà  in-finite  azioni,  e del  popolo  di  Roma  lutto insieme,  e di  molli  de’ Romani  di  per  sé, vedrà  come  quelli  cittadini  temevano  più assai  rompere  il  giuramento  che  le  leggi  ; come  coloro  clic  stimavano  più  la  potenza di  Dio,  che  quella  degli  uomini: come  si  vede  manifestamente  per  gli esempi  di  SCIPIONE  e di  MANLIO TORQUATO. Perchè,  dopo  la  rotta  che  Annibale  aveva dato  a’ Romani  a Canne,  molti  cittadini si  erano  adunati  insieme,  c sbigottiti  e paurosi  si  erano  convenuti  abbandonare l’ITALIA,  e girsene  in  Sicilia:  il  che  sentendo SCIPIONE,  gli  andò  a trovare,  e col  ferro  ignudo  in  mano  gli  costrinse a giurare  di  non  abbandonare  la  patria. LUCIO MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu  dipoi  chiamato  Torquato,  era  stato accusato  da  MARCO POMPONIO,  Tribuno della  plebe  ; ed  innanzi  che  venissi  il di  del  giudizio,  Tito  andò  a trovare Marco,  e minacciando  d’ ammazzarlo  se non  giurava  di  levare  l’accusa  al  padre, lo  costrinse  al  giuramento  ; e quello, per  timore  avendo  giurato,  gli  levò  t'accusa. E cosi  quelli  cittadini  i quali l'amore  della  patria  e le  leggi  di  quella non  ritenevano  in  ITALIA,  vi  furon  ritenuti da  un  giuramento  che  furono  forzati a pigliare;  e quel  Tribuno  pose  da parte  l'odio  che  egli  aveva  col  padre, la  ingiuria  che  gli  aveva  fatta  il  figliuolo, c i’  onore  suo,  per  ubbidire  al  giuramento preso:  il  che  non  nacque  da  altro, che  da  quella  religione  che  Numa aveva  introdotta  in  quella  città.  E vedesi,  chi  considera  bene  le  istorie  romane, quanto  serviva  la  religione  a comandare agli  eserciti,  a riunire  la  plebe, a mantenere  gli  uomini  buoni,  a fare vergognare  li  tristi.  Talché,  se  si  avesse a disputare  a quale  principe  Roma  fusse più  obbligata,  o a ROMOLO  o a Numa, credo  più  tosto  Numa  otterrebbe  il  primo grado:  perchè  dove  è religione,  facilmente si  possono  introdurre  l’armi; e dove  sono  l’armi  e non  religione,  con diflìcultà  si  può  introdurre  quella.  E si vede  che  a ROMOLO  per  ordinare  il  Senato, e per  fare  altri  ordini  civili  e militari, non  gli  fu  necessario  dell’ autorità di  Dio;  ma  fu  bene  necessario  a Numa, il  quale  simulò  di  avere  congresso  con una  Ninfa,  la  quale  lo  consigliava  di quello  ch’egli  avesse  a consigliare  il popolo  : e tutto  nasceva  perchè  voleva mettere  ordini  nuovi  ed  inusitati  in quella  città,  e dubitava  che  la  sua  autorità non  bastasse.  G veramente,  mai  non fu  alcuno  ordinatore  di  leggi  straordinarie in  uno  popolo,  che  non  ricorresse a Dio  ; perchè  altrimenlc  non  sarebbero accettate:  perchè  sono  molli  beni  conosciuti da  uno  prudente,  i quali  non hanno  in    ragioni  evidenti  da  potergli persuadere  ad  altri.  Però  gli  uomini savi,  che  vogliono  torre  questa  diflìcultà, ricorrono  a Dio.  Cosi  fece  Licurgo,  cosi Solone,  cosi  molti  altri  che  hanno  avuto il  medesimo  fine  di  loro.  Ammirando, adunque,  il  popolo  romano  la  bontà  e la prudenza  sua,  cedeva  ad  ogni  sua  deliIterazione,  Ben  è vero  che  l’essere  quelli tempi  pieni  di  religione,  e quelli  uomini, con  i quali  egli  aveva  a travagliare, grossi,  gli  detlono  facilità  grande  a conseguire i disegni  suoi,  potendo  imprimere in  loro  facilmente  qualunche  nuova forma.  E senza  dubbio,  ehi  volesse  ne’presenti  tempi  fare  una  repubblica,  più  facilità troverebbe  negli  uomini  montanari, dove  non  è alcuna  civilità,  che  in quelli  che  sono  usi  a vivere  nelle  città, dove  la  civilità  è corrotta:  ed  uno  scultore trarrà  più  facilmente  una  bella  statua d’  uno  marmo  rozzo,  che  d’ uno  male abbozzato  d’altrui.  Considerato  adunque tutto,  conchiudo  che  la  religione introdotta  da  Piuma  fu  intra  le  primecagioni  della  felicità  di  quella  città:  perchè quella  causò  buoni  ordini;  i buoni ordini  fanno  buona  fortuna  ; e dalla buona  fortuna  nacquero  i felici  successi delle  imprese.  E come  la  osservanza  del culto  divino  è cagione  delia  grandezza delle  repubbliche,  cosi  il  dispregio  di quella  è cagione  della  rovina  d’esse.  Perchè, dove  manca  il  timore  di  Dio,  conviene che  o quel  regno  rovini,  o che sia  sostenuto  dal  timore  d’  un  principe che  supplisca  a’ difetti  della  religione.  E perchè  i principi  sono  di  corta  vita, conviene  che  quel  regno  manchi  presto, secondo  che  manca  la  virtù  d’  esso.  Donde nasce  che  i regni  i quali  dependono solo  dalla  virtù  d’ uno  uomo,  sono  poco durabili,  perchè  quella  virtù  manca  con la  vita  di  quello  ; e rade  volte  accade che  la  sia  rinfrescata  con  la  successione, come  prudentemente  ALIGHIERI (si veda) dice: tt  Rade  volte  risurge  per  li  ramiL'umana  probitade:  e questo  vuoloQuel  che  la  dà,  perchè  da  lui  si  chiami.  „Non  è,  adunque,  la  salute  di  una  repubblica o d’uno  regno  avere  uno  principe che  prudentemente  governi  mentre  vive  ; ma  uno  che  l’ordini  in  modo,  clic,  morendo ancora,  la  si  mantenga.  E benché agli  uomini  rozzi  più  facilmente  si  persuade uno  ordine  o una  oppinione  nuova,  non  è per  questo  impossibile  persuaderla ancora  agli  uomini  civili,  e che si  presumono  non  essere  rozzi.  Al  popolo di  Firenze  non  pare  essere    ignorante nè  rozzo:  nondimeno  da  frate  Girolamo Savonarola  fu  persuaso  che  parlava con  Dio.  lo  non  voglio  giudicare s’egli  era  vero  o no,  perchè  d’ un  tanto uomo  se  ne  debbe  parlare  con  reverenza : ma  io  dico  bene,  che  infiniti  lo credevano,  senza  avere  visto  cosa  nessuna istraordinaria  da  farlo  loro  credere; perchè  la  vita  sua,  la  dottrina,  il soggetto  che  prese,  erano  sufhzienti  a fargli  prestare  fede.  Non  sia,  pertanto, nessuno  che  si  sbigottisca  di  non  potere conseguire  quello  che  è stato  conseguito da  altri  ; perchè  gli  uomini,  come  nella Prefazione  nostra  si  disse,  nacquero, vissero  e morirono  sempre  con  un  medesimo ordine. Di  quanta  importanza  sia tenere  conto  della  religione j e come la  Italia  per  esserne  mancata  mediante la  Chiesa  romana y è rovinata. Quelli  principi,  o quelle  repubbliche, le  quali  si  vogliono  manienere  incorrotte, hanno  sopra  ogni  altra  cosa  a mantenere incorrotte  le  cerimonie  della  religione, e tenerle  sempre  nella  loro venerazione;  perchè  nissuno  maggiore indizio  si  puote  avere  della  rovina  d’una provincia,  che  vedere  dispregiato  il  culto divino.  Questo  è facile  a intendere,  conosciuto che  si  è in  su  che  sia  fondata la  religione  dove  V uomo  è nato;  perchè ogni  religione  ha  il  fondamento  della vita  sua  in  su  qualche  principale  ordine suo.  La  vita  della  religione  gentile  era fondata  sopra  i responsi  delti  oracoli e sopra  la  setta  delli  aridi  e delli aruspici:  tutte  le  altre  loro  cerimonie, sacrifìcii,  riti,  dependevano  da  questi; perchè  loro  facilmente  credevano  che quello  Dio  che  ti  poteva  predire  il  tuo futuro  bene  o il  tuo  futuro  male,  te lo  potessi  ancora  concedere.  Di  qui nascevano  i tempii,  di  qui  i sacrifici!, di  qui  le  supplicazioni,  ed  ogni  altra cerimonia  in  venerarli:  perchè  l’oracolo di  Deio,  il  tempio  di  GIOVE  Aminone,  ed altri  celebri  oracoli,  tenevano  il  mondo in  ammirazione,  e devoto.  Come  costoro cominciarono  dipoi  a parlare  n modo de’  potenti,  e questa  falsità  si  fu  scoperta ne’  popoli,  divennero  gli  uomini increduli,  ed  atti  a perturbare  ogni  ordine  buono.  Debbono,  adunque,  i Principi d’uria  repubblica  o d’un  regno,  i fondamenti  della  religione  che  loro  tengono, mantenerli;  e fatto  questo,  sarà loro  facil  cosa  a mantenere  la  loro  repubblica religiosa,  e,  per  conseguente, buona  ed  unita.  C debbono,  tutte  le cose  che  nascono  in  favore  di  quella, come  che  le  giudicassino  false,  favorirle ed  accrescerle;  e tanto  più  Io  debbonofare,  quanto  più  prudenti  sono,  e quanto più  conoscitori  delle  cose  naturali.  E perchè  questo  modo  c stato  osservato dagli  uomini  savi,  ne  è nata  l’oppinione dei  miracoli,  che  si  celebrano  nelle  religioni eziandio  false:  perchè  i prudenti gli  aumentano,  da  qualunche  principio e’ si  nascano;  e l’autorità  loro    poi a quelli  fede  appresso  a qualunque.  Di questi  miracoli  ne  fu  a Roma  assai;  e intra  gli  altri  fu,  che  saccheggiando  i soldati  romani  la  città  de’ Veienti,  alcuni di  loro  entrarono  nel  tempio  di  Giunone, ed  accostandosi  alla  immagine  di quella,  e dicendole  vis  venire  Romani,parve  od  alcuno  vedere  che  la  accennasse; ad  alcun  altro,  che  ella  dicesse di  si.  Perchè,  sendo  quelli  uomini  ripieni di  religione  (il  che  dimostra  L.  perchè  nell’entrare  nel  tempio, vi  entrarono  senza  tumulto,  tutti  devoti e pieni  di  reverenza),  parve  loro  udire quella  risposta  che  alla  domanda  loro per  avventura  si  avevano  presupposta  : la  quale  oppiuione  e credulità,  da  Cammillo  e dagli  altri  principi  della  città  fu ni  tutto  favorita  ed  accresciuta.  La  quale religione  se  ne’ Principi  della  repubblica cristiana  si  fusse  mantenuta,  secondo  che dal  datore  d’ essa  ne  fu  ordinato,  sarebbero gli  stati  e le  repubbliche  cristiane più  unite  e più  felici  assai  ch’elle non  sono.    si  può  fare  altra  maggiore conieltura  della  declinazione  d’essa, quanto  è vedere  come  quelli  popoli  che sono  più  propinqui  alla  Chiesa  romana, capo  della  religione  nostra,  hanno  meno religione.  E chi  considerasse  i fondamenti suoi,  e vedesse  l’ uso  presente quanto  è diverso  da  quelli,  giudicherebbe esser  propinquo,  senza  dubbio,  o la  rovina  o il  flagello.  E perchè  sono alcuni  d’oppinione,  che  ’l  ben  essere delle  cose  d’ Italia  dipende  dalla  Chiesa di  Roma,  voglio  contro  ad  essa  discorrere quelle  ragioni  che  mi  occorrono  :e ne  allegherò  due  potentissime,  le  quali, secondo  me,  non  hanno  repugnanza.  La, prima  è,  che  per  gli  esempi  rei  di  quella i corte,  questa  provincia  ha  perduto  oguI divozione  ed  ogni  religione:  il  clic  si i lira  dietro  infiniti  inconvenienti  e infi-niti disordini;  perchè,  così  come religione  si  presuppone  ogni  bene, dove  ella  manca  si  presuppone  il  contrario. Abbiamo,  adunque,  con  la  Chiesa e con  i preti  noi  Italiani  questo  primo obbligo,  d’essere  diventati  senza  religione c cattivi:  ma  ne  abbiamo  ancora un  maggiore,  il  quale  è cagione  della rovina  nostra.  Questo  è die  la  Chiesa ha  tenuto  e tiene  questa  nostra  provincia divisa. E veramente,  alcuna  provincia non  fu  mai  unita  o felice,  se  la  non viene  tutta  alla  obedienza  d’  una  repubblica o d’uno  principe,  come  è avvenuto alla  Francia.  E la  cagione che  la  Italia  non  sia  in  quel  medesimo termine,    abbia  aneli’  ella  o una  repubblica  o uno  principe  che  la governi,  è solamente  la  Chiesa  ; perchè, avendovi  abitalo  e tenuto  imperio  temponile,  non  è stata    potente      tal virtù,  che  l'abbia  potuto  occupare  il  restante d’Italia,  e farsene  principe;  e non  è stata,  dall’altra  parte,  si  debile, che,  per  paura  di  non  perder  il  dominio delie  cose  temporali,  la  non  abbi potuto  convocare  uno  potente  che  la  difenda contra  a quello  che  in  Italia  fusse diventato  troppo  potente:  come  si  è veduto anticamente  per  assai  esperienze, quando  mediante  Carlo  Magno  la  ne  cacciò i Lombardi,  eh’ era  no  già  quasi  re di  tutta  Italia;  e quando  ne’ tempi  nostri ella  tolse  la  potenza  a’  Veneziani  con l’aiuto  di  Francia;  dipoi  ne  cacciò  i Franciosi  eoa  l’aiuto  de’ Svizzeri.  Non essendo,  dunque,  stata  la  Chiesa  potente da  potere  occupare  l’ Italia,    avendo permesso  che  un  altro  la  occupi,  è stata cagione  che  la  non  è potuta  venire  sotto un  capo;  ma  è stata  sotto  più  principi e signori,  da’ quali  è nata  tanta  disunione e tanta  debolezza,  che  la  si  è condotta ad  essere  stata  preda,  non  solamelile  di  barbari  polenti,  ma  di  qualunque I*  assalta.  Di  clic  noi  altri  Italiani abbiamo  obbligo  con  la  Chiesa,  c non con  altri.  E chi  ne  volesse  per  esperienza certa  vedere  più  pronta  la  verità,  bisognerebbe che  fusse  di  tanta  potenza,  che mandasse  ad  abitare  la  corte  romana,  con l’autorità  che  l’ha  in  Italia,  in  le  terre de’ Svizzeri;  i quali  oggi  sono  quelli  soli popoli  che  vivono,  e quanto  alla  religione e quanto  agli  ordini  militari,  secondo  gli antichi  : e vedrebbe  che  in  poco  tempo furebbero  più  disordine  in  quella  provincia i costumi  tristi  di  quella  corte, che  qualunchc  altro  accidente  clic  in qualunche  tempo  vi  potessi  surgere.  Come  t Romani  si  servirono della  religione  per  ordinare  la città,  e per  seguire  le  loro  imprese  e fermare  i tumulti.Ei  non  mi  pare  fuor  di  proposito  ad-durre alcuno  esempio  dove  i Romani  si servirono  della  religione  per  riordinare la  cillà,  e per  seguire  l’imprese  loro;  e quantunque  in  L.  ne  siano  molti, nondimeno  voglio  essere  contento  a questi. Avendo  creato  il  Popolo  romano  i Tribuni,  di  potestà  consolare,  e,  fuorché uno,  tutti  plebei;  ed  essendo  occorso quello  anno  peste  c fame,  e venuti  certi prodigii  ; usorono  questa  occasione  i Nobili nella  nuova  creazione  de’  Tribuni, dicendo  che  li  Dii  erano  adirati  per  aver Roma  male  usata  la  maestà  del  suo  imperio, e che  non  era  altro  rimedio  a placare  gli  Dii,  che  ridurre  la  elezione de’ Tribuni  nel  luogo  suo:  di  che  nacque che  la  Plebe,  sbigottita  da  questa  religione, creò  i Tribuni  tutti  nobili.  Vedesi ancora  nella  espugnazione  della  città de’  Ycienti,  come  i capitani  degli  eserciti si  valevano  della  religione  per  tenergli disposti  ad  una  impresa  : ehè  essendo  il lago  Albano,  quello  anno,  cresciuto  mirabilmente, ed  essendo  i soldati  romani  in fastiditi per  la  lunga  ossidione,  e volendo tornarsene  a Roma,  trovarono  i Romani, come  Apollo  e certi  altri  responsi  dicevano che  quell*  anno  si  espugnerebbe  la  città de’ Veienti,  che  si  derivasse  il  Ingo  Albano  : la  qual  cosa  fece  ai  soldati  sopportare  i fastidi  della  guerra  e della  ossidione, presi  da  questa  speranza  di  espugnare la  terra  ; e stettono  contenti  a seguire  la impresa,  tanto  che  Cammillo  fatto  Dittatore espugnò  detta  città,  dopo  dieci  anni che  l’era  stala  assediata.  E cosi  la  religione, usata  bene,  giovò  e per  la  espugnazione di  quella  città,  e per  la  restituzione dei  Tribuni  nella  Nobiltà:  chè senza  detto  mezzo  difficilmente  si  sarebbe condotto  e l’uno  e l’altro.  Non voglio  mancare  di  addurre  a questo proposito  un  altro  esempio.  Erano  nati in  Roma  assai  tumulti  per  cagione  di Terentillo  Tribuno,  volendo  lui  promulgare certa  legge,  per  le  cagioni  che  di sotto  nel  suo  luogo  si  diranno  ; e tra  i primi  rimedi  che  vi  usò  la  Nobiltà,  fu la  religione:  della  quale  si  servirono  i duo  modi.  Nel  primo  fecero  vedere  i li- bri Sibillini,  e rispondere,  come  alla città,  mediante  la  civile  sedizione,  soprastavano quello  anno  pericoli  di  non  perdere la  libertà  : la  qual  cosa,  ancora  che fusse  scoperta  da’ Tribuni,  nondimeno messe  tanto  terrore  ne*  petti  della  plebe, che  la  raffreddò  nel  seguirli.  L’altro modo  fu,  che  avendo  uno  APPIO ERDONIO,  con  una  moltitudine  di  sbanditi  e di  servi,  in  numero  di  quattromila  uomini, occupato  di  notte  il  Campidoglio, in  tanto  che  si  poteva  temere,  che  se gli  Equi  ed  i Volsci,  perpetui  nemici  al nome  romano,  ne  fossero  venuti  a Roma, la  arebbono  espugnata  ; e non  cessando i Tribuni  per  questo  di  insistere nella  pertinacia  loro  di  promulgare  la legge  Terentilla,  dicendo  che  quello  in- sulto era  fittizio  c non  vero:  uscì  fuori del  Senato  uno  Publio  Rubezio,  cittadino grave  e di  autorità,  con  parole  parte amorevoli,  parte  minacciatiti,  mostrandoli i pericoli  della  città,  e la  intempestiva  domanda  loro;  tanto  che  e’ constrinse la  Plebe  a giurare  di  non  si  partire dalla  voglia  del  Consolo:  onde  che la  Plebe  obediente,  per  forza  ricuperò il  Campidoglio.  Ma  essendo  in  tale  espu-gnazione morto  Publio  Valerio  consolo, subito  fu  rifatto  consolo  Tito  Quinzio;  il quale  per  non  lasciare  riposare  la  Plebe, nè  darle  spazio  a ripensare  alla  legge  Terentilla,  le  comandò  s’  uscissi  di  Roma per  andare  contra  a’  Volsci,  dicendo  che per  quel  giuramento  aveva  fatto  di  non abbandonare  il  Consolo,  era  obbligata  a seguirlo:  a che  i Tribuni  si  opponevano, dicendo  come  quel  giuramento s’era  dato  al  Consolo  morto,  e non  a lui.  Nondimeno  L.  mostra,  come la  Plebe  per  paura  della  religione  volle più  presto  obedire  al  Consolo,  che  credere a’ Tribuni;  dicendo  in  favore  della antica  religione  queste  parole:  Nondum htiDPj  quce  nunc  tenet  sceculum,  negligcntict  Dcùm  venerai, nec  interpretando sibi  quisque  jasjurandum  et  legcs  aplas a La  *faciebal.  Per  la  qual  cosa  dubitando  i Tribuni  di  non  perdere  allora  tutta  la lor  degnila,  si  accordarono  col  Consolo di  stare  alla  obedienza  di  quello;  e che per  uno  anno  non  si  ragionasse  della legge  Terentilla,  ed  i Consoli  per  uno anno  non  potessero  trarre  fuori  la  Plebe alla  guerra.  E cosi  la  religione  fece  al Senato  vincere  quella  diffìcultà,  che  senza essa  mai  non  arebbe  vinto.  I Romani  interpretavano gli  auspicii  secondo  la  necessità, con  la  prudenza  mostravano  di  osservare la  religione j quando  forzali  non V osservavano  ; c se  alcuno  (emwariamente  la  dispregiava, lo  punivano. Non  solamente  gli  auguri!,  come  di  sopra si  è discorso,  erano  il  fondamento in  buona  parte  dell'antica  religione de’ Gentili,  ma  ancora  erano  quelli  che erano  cagione  del  bene  essere  della  Repubblica romana.  Donde  i Romani  ne uvevano  più  cura  che  di  alcuno  altro  ordine di  quella;  ed  usavangli  ne’ comizi consolari,  nel  principiare  le  imprese, nel  trai*  fuori  gli  eserciti,  nel  fare  le giornate,  ed  in  ogni  azione  loro  importante, o civile  o militare;    maisarebbono  iti  ad  una  espedizionc,  che  non avessino  persuaso  ai  soldati  che  gli  Dei promettevano  loro  la  vittoria.  Ed  infra gli  altri  nuspicii,  avevano  negli  eserciti certi  ordini  di  aruspici,  che  e’ chiamavano Pollarii:  e qualunque  volta  eglino ordinavano  di  fare  la  giornata  col  nemico, volevano  che  i Pollarii  fucessino i loro  auspicii;  e beccando  i polli,  combattevano con  buono  augurio:  non  beccando, si  astenevano  dalla  zuffa.  Nondimeno, quando  la  ragione  mostrava  loro una  cosa  doversi  fare,  non  ostante  che gli  auspicii  fossero  avversi,  la  facevano in  ogni  modo;  ma  rivoltavanla  con termini  e modi  tanto  attamente,  che non  paresse  che  la  fucessino  con  dispregio dello  religione  : il  quale  termine  fu  usato  da  Papirio  consolo  in una  zuffa  clic  fece  importantissima  coi Sanniti,  dopo  la  quale  restorno  in  lutto deboli  ed  afflitti.  Perchè  sendo  Papirio in  su’  campi  rincontro  ai  Sanniti,  e parendogli avere  nella  zuffa  la  vittoria certa,  e volendo  per  questo  fare  la  giornata, comandò  ai  Pollarii  che  fucessino i loro  auspicii;  ma  non  beccando  i polli, e veggendo  il  principe  de’ Pollarii  la gran  disposizione  dello  esercito  di -combattere, e la  oppinione  che  era  nei  capitano cd  in  tutti  i soldati  di  vincere, per  non  torre  occasione  di  bene  operare a quello  esercito,  riferi  al  Consolo  come gli  auspicii  procedevano  bene:  talché Papirio  ordinando  le  squadre,  ed  essendo da  alcuni  de' Pollarii  detto  a certi soldati,  i polli  non  aver  beccato,  quelli lo  dissono  a Spurio  Papirio  nipote  del Consolo;  e quello  riferendolo  al  Consolo, rispose  subito,  eh’  egli  attendesse a fare  l’oflìzto  suo  bene,  e che  quanto a lui  ed  allo  esercito  gli  auspicii  erano rolli;  e se  il  Pollarlo  aveva  detto  le  bugie, ritornerebbono  in  pregiudicio  suo. E perchè  lo  effetto  corrispondesse  al pronostico,  comandò  ni  legati  clic  constituìssino  i Pollarii  nella  primo  fronte della  zuffa.  Onde  nacque  che,  andando contra  ai  nemici,  sendo  da  un  soldato romano  tratto  uno  dardo,  a caso  ammazzò il  principe  de’ Pollarii;  la  qual cosa  udita  il  Console,  disse  come  ogni cosa  procedeva  bene,  e col  favore  degli Dii;  perchè  lo  esercito  con  la  morte  di quel  bugiardo  si  era  purgato  da  ogni colpa,  e da  ogni  ira  che  quelli  avessino preso  contra  di  lui.  E cosi,  col  sapere bene  accomodare  t disegni  suoi agli  auspicii,  prese  partito  di  azzuffarsi, senza  clic  quello  esercito  si  avvedesse che  in  alcuna  parte  quello  avesse  negletti gli  ordini  della  loro  religione.  Al contrario  fece APPIO Pillerò  in  Sicilia, nella  prima  guerra  punica:  che  volendo azzuffarsi  con  P esercito  cartaginese,  fece fare  gli  auspicii  a’ Pollarii;  e referendogli  quelli,  come  i polli  non  beccavano, disse  : veggiamo  se  volessero  bere  ; e gli  fece  giUare  in  mare.  Donde  che,  azzuffandosi, perdette  la  giornata  : di  che egli  ne  fu  a Roma  condennato,  e Papirio onorato;  non  tanto  per  aver  V uno  vinto e P altro  perduto,  quanto  per  aver  1’  uno fatto  contra  agli  auspicii  prudentemente e l’altro  temerariamente.    ad  altro line  tendeva  questo  modo  dello  aruspicare, che  di  fare  i soldati  confidentemente ire  alla  zuffa  ; dalla  quale  confidenza quasi  sempre  uasce  la  vittoria.  La qual  cosa  fu  non  solamente  usala  dai Romani,  ma  dalli  esterni  : di  che  mi  pare di  addurre  uno  esempio  nel  seguente capitolo. XV. Come  i Sanniti,  per  estremo rimedio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsono  alla  religione. Avendo  i Sanniti  avute  più  rotte  dai Romani,  ed  essendo  stati  per  ultimo  distrutti  in  Toscana,  e morti  i loro  eserciti e gli  loro  capitani  ; ed  essendo  stali  vinti  i loro  compagni,  come  Toscani,  Franciosi ed  Umbri  ; ncc  suis,  nec  extcrnis  viribus  jam  slare  polcrant  : t amen  bello  non abstinebantj  adeo  ne  infeliciler  quidem defensae  libcrtatis  tcedcbalj  et  vinci > quarti  non  tentare  victorianij  malebant. Onde  deliberarono  far  ultima  prova:  e perché  ei  sapevano  che  a voler  vincere era  necessario  indurre  ostinazione  negli animi  de’ soldati,  c che  a indurla  non v’ era  miglior  mezzo  che  la  religione; pensarono  di  ripetere  uno  antico  loro  sacrifìcio, mediante  Ovio  Faccio,  loro  sacerdote. Il  quale  ordinarono  in  questa forma  : che,  fatto  il  sacrificio  solenne,  e fatto  intra  le  vittime  morte  e gli  altari accesi  giurare  lutti  i capi  dello  esercito, di  non  abbandonare  mai  la  zuffa,  citarono i soldati  ad  uno  ad  uno  ; ed  intra quelli  altari,  nel  mezzo  di  più  centurionicon  le  spade  nude  in  mano,  gli  face-vano prima  giurare  che  non  ridirebbono cosa  che  vedessino  o sentissino;  dipoi,con  parole  esecrabili  e versi  pieni  di  spa-vento, gli  facevano  giurare  e promettereagli  Dii,  d’essere  presti  dove  gli  impe-radori  gli  comandassino,  c di  non  si  fug-gire mai  dalla  zuffa,  e d’ ammazzarequalunque  vedessino  che  si  fuggisse:  laqual  cosa  non  osservata,  tornasse  soprail  capo  della  sua  famiglia  e della  sustirpe.  Ed  essendo  sbigottiti  alcuni  diloro,  non  volendo  giurare,  subito  da’ lorocenturioni  erano  morti;  talché  gli  altriche  succedevano  poi,  impauriti  dalla  fe-rocità dello  spettacolo,  giurarono  tutti.E per  fare  questo  loro  assembramentopiù  magnifico,  sendo  quarantamila  uo-mini, ne  vestirono  la  metà  di  pannibianchi,  con  creste  e pennacchi  sopra  lecelate  ; e così  ordinati  si  posero  pressoad  Aquilonia.  Contra  a costoro  vennePapirio;  il  quale,  nel  confortare  i suoisoldati,  disse:  Non  enim  crislas  vulnerafacere,  et  pietà  alque  aurata  scuta  tran-sirc  ttomanum  pileum.  E per  debilitarela  oppinione  clic  avevano  i suoi  soldatide’ nemici  per  i)  giuramento. preso,  disseche  quello  era  per  essere  loro  a timore,non  a fortezza;  perchè  in  quel  medesi-mo tempo  avevano  uvere  paura  de’ cit-tadini, degli  Dii,  c de*  nemici.  E venutial  conflitto,  furono  superati  i Sanniti;perchè  la  virtù  romana,  ed  il  timoreconccputo  per  le  passate  rotte,  superòqualunque  ostinazione  ei  potessino  averepresa  per  virtù  della  religione  e per  ilgiuramento  preso.  Nondimeno  si  vedecome  a lóro  non  parve  potere  avere  al-tro rifugio,    tentare  altro  rimedio  apoter  pigliare  speranza  di  ricuperare  laperduta  virtù.  Il  che  testifica  appieno,quanta  confidcnzia  si  possa  avere  me-diante la  religione  bene  usata.  E benchéquesta  parte  piuttosto,  per  avventura,  sirichiederebbe  esser  posta  intra  le  coseestrinseche  ; nondimeno,  dependendo  dauno  ordine  de’  più  importanti  dellaRepubblica  di  Roma,  mi  è parso  dacommetterlo  in  questo  luogo,  per  nondividere  questa  materia,  cd  averci  aritornare  più  volte. Un  popolo  uso  a vìveresotto  un  principe,  se  per  qualche  ac-cidente diventa  libero,  con  difficultàmantiene  la  libertà.Quanta  difficultà  sia  ad  uno  popolouso  a vivere  sotto  un  principe,  preser-vare dipoi  la  libertà,  se  per  alcuno  ac-cidente l’acquista,  come  l’acquistò  Ro-ma dopo  la  cacciala  de’Tarquini;  iodimostrano  infiniti  esempi  che  si  leggononelle  memorie  delle  antiche  istorie.  Etale  difficultà  è ragionevole;  perchè  quelpopolo  è non  altrimenti  che  uno  ani-male bruto,  il  quale,  ancora  che  di  fe-roce natura  e silvestre,  sia  stato  nu-drito  sempre  in  carcere  ed  in  servitù,che  dipoi  lasciato  a sorte  in  una  cam-pagna libero,  non  essendo  uso  a pa-scersi, nè  sappiendo  le  latebre  dove  siabbia  a rifuggire,  diventa  preda  delprimo  che  cerca  rincatenarlo.  Questo  me-desimo interviene  ad  uno  popolo,  il  qualesetido  uso  a vivere  sotto  i governi  d’al-tri, non  snppiendo  ragionare    delledifese  o offese  pubbliche,  non  cogno-scendo  i principi    essendo  conosciutoila  loro,  ritorna  presto  sotto  un  giogo,il  quale  il  più  delle  volte  è più  graveche  quello  che  per  poco  innanzi  si  avevalevato  d’ in  su  ’1  collo  : e trovasi  in  que-ste difficullà,  ancora  che  la  materia  nonsia  in  tutto  corrotta;  perchè  in  unopopolo  dove  in  lutto  è entrata  la  corru-zione, non  può,  non  che  picciol  tempo,ma  punto  vivere  libero,  come  di  sotto  sidiscorrerà:  e però  i ragionamenti  no-stri sono  di  quelli  popoli  dove  la  corru-zione non  sia  ampliata  assai,  c dove  siapiù  del  buono  che  del  guasto.  Aggiun-gesi  alla  soprascritta,  un’  altra  difficultò;la  quale  è,  che  lo  Stato  che  diventa  li-bero, si  fa  partigiani  nemici,  e nonpartigiani  amici.  Partigiani  nemici  glidiventano  tutti  coloro  che  dello  Stalo  ti-nodei  dìscorsi Tannico  si  prevalevano,  pascendosi  dellericchezze  del  principe;  a’ quali  sendotolta  la  facoltà  del  valersi,  non  possovivere  contenti,  e sono  forzati  ciascunodi  tentare  di  riassumere  la  tirannide,per  ritornare  nell’ autorità  loro.  Non  siacquista,  come  ho  detto,  partigiani  ami-ci ; perchè  il  vivere  libero  propone  onorie premii,  mediami  alcune  oneste  e de-. terminate  cagioni,  e fuori  di  quelle  nonpremia    onora  alcuno;  e quando  unoha  quelli  onori  e quelli  utili  che  gli  paremeritare,  non  confessa  avere  obbligo  concoloro  che  lo  rimunerano.  Oltre  a que-sto, quella  comune  utilità  che  del  viverelibero  si  trae,  non  è da  alcuno,  mentreche  ella  si  possiede,  conosciuta:  la  qualeè di  potere  godere  liberamente  le  cosesue  senza  alcuno  sospetto,  non  dubitaredell’onore  delle  donne,  di  quel  de’ fi-gliuoli, non  temere  di  sè;  perchè  nis-suno  confesserà  mai  aver  obbligo  conuno  che  non  1’  offenda.  Però,  come  disopra  si  dice,  viene  ad  avere  lo  Statolibero  c che  «li  nuovo  surge,  partigianinon  partigiani  amici.  E vonemicilendo  rimediare  a questi  inconvenienti,c a quegli  disordini  che  le  soprascrittediflìculta  si  arrecherebbono  seco,  non  ciè più  potente  rimedio,    più  valido,  nèpiù  sano,    più  necessario,  che  am-mazzare i figliuoli  di  Bruto:  i quali,come  l’istoria  mostra,  non  furono  in-dotti, insieme  con  altri  gioveni  romani,n congiurare  contra  alla  patria  per  al-tro, se  non  perchè  non  si  potevano  va-lere straordinariamente  sotto  i Consoli,come  sotto  i Re;  in  modo  che  la  libertàdi  quel  popolo  pareva  che  fusse  diven-tata la  loro  servitù.  E chi  prende  a go-vernare una  moltitudine,  o per  via„dilibertà  o per  via  di  principato,  e non si  assicura  di  coloro  che  a quell’ ordine nuovo  sono  nemici,  fa  uno  Stato  di  poca vita.  Vero  è ch’io  giudico  infelici  quelli principi,  che  per  assicurare  lo  Stato  loro hanno  a tenere  vie  straordinarie,  avendo per.  nemici  la  moltitudine:  perchè  quello che  ha  per  nemici  i pochi,  facilmente e senza  molti  scandali,  si  assicura;  ma chi  ha  per  nemico  1’  universale,  non  si assicura  mai;  e quanta  più  crudeltà  usa, tanto  diventa  più  debole  il  suo  principalo.  Talché  il  maggior  rimedio  che  si abbia,  è cercare  di  farsi  il  popolo  amico. E benché  questo  discorso  sia  disformo dal  soprascritto,  parlando  qui  d’  un principe  e quivi  d’ una  repubblica  ; nondimeno, per  non  avere  a tornare  più  in su  questa  materia,  ne  voglio  parlare  bre-vemente. Volendo,  pertanto,  un  principe guadagnarsi  un  popolo  che  gli  fusse  nemico, parlando  di  quelli  principi  che sono  diventati  della  loro  patria  tiranni  ; dico  eh’ ci  debbe  esaminare  prima  quello che  il  popolo  desidera,  e troverà  sempre ch’ei  desidera  due  cose;  Y una  vendicarsi contro  a coloro  che  sono  cagione che  sia  servo;  l’altra  di  riavere  la  sua libertà.  Al  primo  desiderio  il  principe può  satisfare  in  tutto,  al  secondo  in parte.  Quanto  al  primo,  ce  n’  è lo  csempio  appunto.  Clearco,  tiranno  di  Eraelea,  scudo  in  esilio,  occorse  che,  per controversia  venuta  intra  il  popolo  e gli ottimati  di  Eraclea,  veggendosi  gli  ottimati inferiori,  si  volsono  a favorire Clearco,  c congiuratisi  seco  lo  missono, contea  alla  disposizione  popolare,  in Eraclea,  c toisono  la  libertà  al  popolo. In  modo  che,  trovandosi  Clearco  intra la  insolenzia  degli  ottimati,  i quali  non poteva  in  alcun  modo    contentare  nè correggere,  c la  rabbia  de’  popolari,  che non  potevano  sopportare  lo  avere  perduta la  libertà,  deliberò  ad  un  tratto liberarsi  dal  fastidio  de’ grondi,  c guadagnarsi il  popolo.  E presa  sopra  questo conveniente  occasione,  tagliò  a pezzi tutti  gli  ottimali,  con  una  estrema  satisfazione  de’ popolari.  E così  egli  per  questa via  satisfece  ad  una  delle  voglie  che hanno  i popoli,  cioè  di  vendicarsi.  Ma quanto  all’altro  popolare  desiderio  di riavere  la  sua  libertà,  non  potendo  il principe  satisfargli,  debbe  esaminare quali  cagioni  sono  quelle  che  gli  fanno desiderare  d’essere  liberi;  e troverà  che una  piccola  parte  di  loro  desidera  d’essere libera  per  comandare;  ma  tutti  gli altri,  che  sono  infiniti,  desiderano  la  libertà per  vivere  securi.  Perchè  in  tutte le  repubbliche,  in  qualunque  modo  ordinate, ai  gradi  del  comandare  non  aggiungono mai  quaranta  o cinquanta  cittadini: e perchè  questo  è piccolo  numero, è facil  cosa  assicurarsene,  o con levargli  via*  o con  far  lor  parte  di  tanti onori,  che  secondo  le  condizioni  loro  essi abbino  in  buona  parte  a contentarsi. Quelli  altri,  ai  quali  basta  vivere  securi, si  satisfanno  facilmente,  facendo  ordini e leggi,  dove  insieme  con  la  potenza  sua si  comprenda  la  sicurtà  universale.  E quando  uno  principe  faccia  questo,  e che  il  popolo  vegga  che  per  accidente nessuno  ei  non  rompa  tali  leggi,  comincerà  in  breve  tempo  a vivere  sccuro  e contento.  In  esempio  ci  è il  regno  di Francia,  il  quale  non  vive  securo  per altro,  che  per  essersi  quelli  Re  obbligati ad  infinite  leggi,  nelle  quali  si  comprende la  securtn  di  tutti  i suoi  popoli. E chi  ordinò  quello  Stato,  volle  che  quelli Re,  dell’  arme  e del  danaio  facessino  a loro  modo,  ma  che  d’ogni  altra  cosa non  ne  potessino  altrimenti  disporre  che le  leggi  si  ordinassino.  Quello  principe, adunque,  o quella  repubblica  che  non si  assicura  nel  principio  dello  stato  suo, conviene  che  si  assicuri  nella  prima  occasione, come  fecero  i Romani.  Chi  lascia passare  quella,  si  pente  tardi  di  non aver  fatto  quello  che  doveva  fare.  Sendo, pertanto,  il  popolo  romano  ancora  non corrotto  quando  ci  recuperò  la  libertà, potette  mantenerla,  morti  i figliuoli  di BRUTO e spenti  i Tarquini,  con  tutti quelli  rimedi  ed  ordini  che  altra  volta si  sono  discorsi.  Ma  se  fussc  stato  quel popolo  corrotto,    in  Roma    altrove si  trovano  rimedi  validi  a mantenerla; come  nel  seguente  capitolo  mostreremo. Uno  popolo  coitoIIo, venuto in  libertà,  si  può  con  difficullà ( grandissima  mantenere  libera. lo  giudico  che  gli  era  necessario,  o die  i Re  si  estinguessino  in  Roma,  o che Roma  in  brevissimo  tempo  divenissi  debole, e di  nessuno  valore:  perchè,  considerando a quanta  corruzione  erano venuti  quelli  Re,  se  l'ussero  seguitati così  due  o tre  successioni,  e che  quella corruzione  che  era  in  loro,  si  fossi  cominciata a distendere  per  le  membra; come  le  membra  fussino  state  corrotte, era  impossibile  mai  più  riformarla.  Ma perdendo  il  capo  quando  il  busto  era intero,  poterono  facilmente  ridursi  a vivere liberi  cd  ordinati.  E debbesi  presupporre per  cosa  verissima,  che  una città  corrotta  che  vive  sotto  un  principe, ancora  che  quel  principe  con  tutta la  sua  stirpe  si  spenga,  inai  non  si  può ridurre  libera;  anzi  conviene  che  Putì principe  spenga  l’ allro;  e senza  creazione d’un  nuovo  signore  non  si  posa mai,  se  già  la  bontà  d’  uno,  insieme  con la  virtù,  non  la  tenessi  libera  ; ma  durerà tanto  quella  libertà,  quanto  durerà la  vita  di  quello:  come  intervenne  a Siracusa di  Dione  e di  Timoleone,  la  virtù de’  quali  in  diversi  tempi,  mentre  vissero, tenne  libera  quella  città;  morti  clic furono,  si  ritornò  nell'antica  tirannide. Ma  non  si  vede  il  più  forte  esempio  che quello  di  Roma;  la  quale  cacciati  i Tarquini,  potette  subito  prendere  e mantenere quella  libertà:  ma  morto  Cesare, morto  Caligula,  morto  Nerone,  spenta tutta  la  stirpe  cesarea,  non  potette  inai, non  solamente  mantenere,  ma  pure  dare principio  alla  libertà.    tanta  diversità di  evento  in  una  medesima  città  nacqueda  altro,  se  non  da  non  essere  ne’ tempi de’Tarquini  il  popolo  romano  ancora corrotto;  ed  in  questi  ultimi  tempi  essere corrottissimo.  Perchè  allora,  a mantenerlo saldo  e disposto  a fuggire  i Re, bastò  solo  furio  giurare  che  non  eon sentirebbe  mai  che  a Roma  alcuno  regnasse; e negli  altri  tempi,  non  bastò T autorità  e severità  di  BRUTO,  con  tutte le  legioni  orientali,  a tenerlo  disposto  a volere  mantenersi  quella  libertà  che  esso, a similitudine  del  primo  BRUTO,  gli aveva  rendutu.  Il  che  nacque  da  quella corruzione  che  le  parli  mariane  avevano messa  nel  popolo;  delle  quali  essendo capo  Cesare  potette  accecare  quella  moltitudine, eh* ella  non  conobbe  il  giogo che  da    medesima  si  metteva  in  sul collo.  E benché  questo  esempio  di  Roma sia  da  preporre  a qualunque  altro  esempio, nondimeno  voglio  a questo  proposito addurre  innanzi  popoli  conosciuti  ne*  nostri tempi.  Pertanto  dico,  che  nessuno  accidente, benché  grave  e violento,  potrebbe redurre  mai  Milano  o Napoli  libere,  per essere  quelle  membra  tutte  corrotte.  H che  si  vide  dopo  la  morte  di VISCONTI; che  volendosi  ridurre  Milano  alia libertà,  non  potette  e non  seppe  mantenerla.  Però,  fu  felicità  grande  quella di  Koma,  che  questi  Re  diventassero corrotti  presto,  acciò  ne  fussino  cacciati, cd  innanzi  che  la  loro  corruzione  fosse passata  nelle  viscere  di  quella  città:  la quale  incorruzione  fu  cagione  che  gl’ infiniti tumulti  che  furono  in  Roma,  avendo gli  uomini  il  fine  buono,  non  nocerouo, anzi  giovarono  alla  Repubblica.  E si  può fare  questa  conclusione,  che  dove  la materia  non  è corrotta,  i tumulti  cd altri  scandali  non  nuòcono:  dove  la  è corrotta,  le  leggi  bene  ordinate  non  giovano, se  già  le  non  son  mosse  da  uno che  con  una  estrema  forza  le  facci  osservare, tanto  che  la  materia  diventi buona.  Il  che  non  so  se  sie  mai  intervenuto, o se  fusse  possibile  ch’egli  intervenisse: perchè  c’  si  vede,  come  poco di  sopra  dissi,  che  una  città  venuta  in declinazione  per  corruzione  di  materia, se  mai  occorre  che  la  si  levi,  occorre per  la  virtù  d’ uno  uomo  eh’  è vivo  allora, non  per  la  virtù  dello  universale clic  sostengo  gli  ordini  buoni  ; c subito che  quei  tale  è morto,  la  si  ritorna  nei suo  pristino  abito;  come  intervenne  a Tebe,  la  quale  per  la  virtù  di  Epaminonda, mentre  lui  visse,  potette  tenere forma  di  repubblica  e di  imperio  ; ma morto  quello,  la  si  ritornò  ne’  primi  disordini suoi.  La  cagione  è,  che  non  può essere  un  uomo  di  tanta  vita,  che  ’l tempo  basti  ad  avvezzare  bene  una  città lungo  tempo  male  avvezza.  E se  unod’  una  lunghissima  vita,  o due  successioni virtuose  conlinove  non  la  dispongono; come  una  manca  di  loro,  come di  sopra  è detto,  subito  rovina,  se  già con  molti  pericoli  c molto  sangue  c’  non la  facesse  rinascere.  Perchè  tale  corruzione e poca  attitudine  olla  vita  libera, nasce  da  una  inequulità  che  è in  quella città:  e volendola  ridurre  equale,  è necessario usare  grandissimi  estraordinari; i quali  pochi  sanno  o vogliono usare,  come  in  altro  luogo  più  particolarmente si  dirà. XVIII.  — In  che  modo  «ci.c;  mi corrotte  si  potesse  mantenere  tino  stalo liòerOj  essendovi;  o non  essendovi, ordinartelo. Io  credo  clic  non  sia  fuori  di  proposito, nè  disformo  dal  soprascritto  discorso, considerare  se  in  una  città  corrotta si  può  mantenere  lo  stato  libero, scndovi  ; o quando  e’  non  vi  fosse,  se vi  si  può  ordinare.  Sopra  la  qual  cosa dico,  come  gli  è mollo  difficile  fare  o l’uno  o l' altro:  e benché  sia  quasi  impossibile darne  regola,  perchè  sarebbe necessario  procedere  secondo  i gradi della  corruzione;  nondimnneo,  essendo bene  ragionare  d’ogni  cosa,  non  voglio lasciare  questa  indietro.  E presuppongo una  città  corrottissima,  donde  verrò  ad accrescere  più  tale  difficoltà;  perché  non si  trovano    leggi    ordini  che  bastino a frenare  una  universale  corruzione. Perchè,  così  come  gli  buoni  costumf,  per  mantenersi,  hanno  bisogno delle  leggi;  cosi  le  leggi,  per  osservarsi, hanno  bisogno  de’  buoni  costumi.  Oltre di  questo,  gli  ordini  e le  leggi  fatte  in una  repubblica  nel  nascimento  suo, quando  erano  gli  uomini  buoni,  non  sono dipoi  più  a proposito,  divenuti  che  sono tristi.  E se  le  leggi  secondo  gli  accidenti in  una  città  variano,  non  variano  mai, 0 rade  volte,  gli  ordini  suoi:  il  che  fa che  le  nuove  leggi  non  bastano,  perchè gli  ordini,  che  stanno  saldi,  le  corrompono. E per  dare  ad  intendere  meglio questa  parte,  dico  come  in  Roma  era l’ordine  del  governo,  o vero  dello  Stato; c le  leggi  dipoi,  che  con  i magistrati frenavano  i cittadini.  L’ordine  dello Stato  era  l’ autorità  del  Popolo,  del  Senato, dei  Tribuni,  dei  Consoli,  il  modo di  chiedere  e del  creare  i magistrati, ed  il  modo  di  fare  le  leggi.  Questi  ordini poco  o nulla  variarono  nelii  accidenti. Variarono  le  leggi  che  frenavano 1 cittadini;  come  fu  la  legge  degli  adulferi!,  la  suntuaria,  quella  della  ambizione, e molte  altre  ; secondo  clic  di mano  in  mano  i cittadini  diventavano corrotti.  Ma  lenendo  fermi  gli  ordini dello  Stato,  che  nella  corruzione  non erano  più  buoni,  quelle  leggi  che  si  rinnovavano, non  bastavano  a mantenere gli  uomini  buoni;  ma  sarebbonn  bene giovate,  se  con  la  innovazione  delle  leggi si  fussero  rimutati  gli  ordini.  G che  sia il  vero  che  tali  ordini  nella-  città  corrotta non  fossero  buoni,  e’ si  vede espresso  in  due  capi  principali.  Quanto al  creare  i magistrati  e le  leggi,  non dava  il  Popolo  romano  il  consolato,  e gli altri  primi  gradi  della  città,  se  non  a quelli  che  lo  dimandavano.  Questo  ordine fu  nel  principio  buono,  perchè e’ non  gli  domandavano  se  non  quelli cittadini  che  se  ne  giudicavano  degni, ed  averne  la  repulsa  era  ignominioso; si  che,  per  esserne  giudicati  degni,  ciascuno operava  bene.  Diventò  questo modo,  poi,  nella  città  corrotta  perniziosissiiuo  ; perchè  non  quelli  che  avevano più  virtù,  ma  quelli  che  avevano  più potenza,  domandavano  i magistrali;  e gl’ impotenti,  comecché  virtuosi,  se  ne astenevano  di  domandargli  per  paura. Vcnnesi  a questo  inconveniente,  non  ad un  tratto,  ma  per  i mezzi,  come  si  cade in  tutti  gli  altri  iuconveiiienti  : perchè avendo  i Romani  domata  l’Affrica  e l’Asia, e ridotta  quasi  tutta  la  Grecia  a sua  ohidienza,  erano  divenuti  sicuri  della  libertà loro,    pareva  loro  avere  più nimici  che  dovessero  fare  loro  paura. Questa  securtà  e questa  debolezza  de’  nemici fece  che  il  Popolo  romano,  nel  dare il  consolato,  non  riguardava  più  la  virtù, ma  la  grazia  ; tirando  a quel  grado quelli  che  meglio  sapevano  iutrattenere gli  uomini,  non  quelli  che  sapevano  meglio vincere  i nemici:  di  poi,  da  quelli che  avevano  più  grazia,  discesero  a dargli a quelli  che  avevano  più  potenza;talché  i buoni,  per  difetto  di  tale  ordine, ne  rimasero  al  tutto  esclusi.  Poteva uno  Tribuno,  e qualunque  altro  cittadino, proporre  al  Popolo  una  legge;  sopra la  quale  ogni  cittadino  poteva  parlare, o in  favore  o incontro,  innanzi  che la  si  deliberasse.  Era  questo  ordine  buono, quando  i cittadini  erano  buoni  ; perche sempre  fu  bene,  che  ciascuno  clic intende  uno  bene  per  il  pubblico,  lo possa  proporre;  ed  è bene  che  ciascuno sopra  quello  possa  dire  l’oppinione  sua, acciocché  il  Popolo,  inteso  ciascuno, possa  poi  eleggere  il  meglio.  Ma  diventati i cittadini  cattivi,  diventò  tale  ordine pessimo,  perchè  solo  i potenti  proponevano leggi,  non  per  la  comune  libertà, ina  perla  potenza  loro;ccontra a quelle  non  poteva  parlare  alcuno  per paura  di  quelli  : talché  il  Popolo  veniva o ingannato  o sforzato  a deliberare  la sua  rovina.  Ero  necessario,  pertanto,  a volere  che  Roma  nella  corruzione  si mantenesse  libera,  che,  cosi  come  aveva nel  processo  del  vivere  suo  fatte  nuove leggi,  l’avesse  fatti  nuovi  ordini:  per-«thè  altri  ordini  e modi  di  vivere  si debbe  ordinare  in  un  soggetto  cattivo, che  in  un  buono  ; nè  può  essere  la  forma simile  in  una  materia  al  tutto  contraria. Ma  perchè  questi  ordini,  o e’ si hanno  a rinnovare  tutti  ad  un  tratto, scoperti  che  sono  non  esser  più  buoni, o a poco  a poco,  in  prima  che  si  conoschiuo  per  ciascuno  ; dico  che  1*  una e l’altra  di  queste  due  cose  è quasi  impossibile. Perchè,  a volergli  rinnovare a poco  a poco,  conviene  che  ne  sia  cagione uno  prudente,  che  veggio  questo inconveniente  assai  discosto,  e quando e’ nasce.  Di  questi  tali  è facilissima  cosa che  in  una  città  non  ne  surga  mai  nessuno : e quando  pure  ve  ne  surgesse, non  potrebbe  persuadere  mai  ad  altrui quello  che  egli  proprio  intendesse;  perchè gli  uomini  usi  a vivere  in  un  modo, non  lo  vogliono  variare;  e tanto  più non  veggiendo  il  male  in  viso,  ma  avendo ad  essere  loro  mostro  per  con  letture. Quando  ad  innovare  questi  ordini  ad  un (ratio,  quando  ciascuno  conosce  clic  non sono  buoni,  dico  che  questa  inutilità, clic  facilmente  si  conosce,  è diffìcile  a ricorreggerla:  perchè  a fare  questo,  non basta  usare  termini  ordinari,  essendo  i modi  ordinari  cattivi;  ma  è necessario venire  allo  istraordinario,  come  è alla violenza  ed  all’ armi,  e diventare  innanzi  ad  ogni  cosa  principe  di  quella città,  e poterne  disporre  a suo  modo.  E perchè  il  riordinare  una  città  al  vivere politico  presuppone  uno  uomo  buono, ed  il  diventare  per  violenza  principe  di una  repubblica  presuppone  un  uomo cattivo;  per  questo  si  troverà  che  radis- sime volte  accaggia,  che  uno  uomo  buono voglia  diventare  principe  per  vie  cattive, ancoraché  il  fine  suo  fusse  buono;  e che uno  reo  divenuto  principe,  voglia  operare bene,  e che  gli  caggia  mai  nell’animo usare  quella  autorità  bene,  che  egli ha  male  acquistata.  Da  tutte  le  soprascritte  cose  nasce  la  diffìcultà,  o impossibilità, che  è nelle  città  corrotte,  a mantenervi  una  repubblica,  o a crearvela  di  nuovo.  E quando  pure  la  vi  si avesse  a creare  o a mantenere,  sarebbe necessario  ridurla  più  verso  lo  stato  regio, che  verso  lo  stato  popolare;  acciocché quelli  uomini  i quali  dalle  leggi,  per la  loro  insolenzia,  non  possono  essere corretti,  lusserò  da  una  podestà  quasi regia  in  qualche  modo  frenati.  Ed  a volergli fare  per  altra  via  diventare  buoni, sarebbe  o crudelissima  impresa,  o al  tutto  impossibile;  come  io  dissi  di  sopra che  fece  Cleomene;  il  quale  se,  per essere  solo,  ammazzò  gli  Efori;  e se  ROMOLO, per  le  medesime  cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono  bene  quella  loro  autorità  ; nondimeno si  debbe  avvertire  che  V uno  e T altro  di  costoro  non  avevano  il  soggetto di  quella  corruzione  macchiato della  quale  in  questo  capitolo  ragioniamo, e però  poterono  volere  e,  volendo, colorire  il  disegno  loro. XIX. Dopo  uno  eccellente  principio si  può  mantenere  un  principe debole ; ma  dopo  un  debole,  non  si può  con  un  (diro  debole  mantenere alcun  regno. Considerato  la  virtù  ed  il  modo  del procedere  di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI,  si  vede  come Roma  sortì  una  FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E BELLICOSO, 1’altro  quieto  e religioso,  il  terzo simile  di  ferocia  a Romolo,  e più  amatore della  guerra  che  della  pace.  Perchè in  Roma  era  necessario  che  surgesse ne’  primi  principii  suoi  un  ordinatore «lei  vivere  civile,  ina  era  bene  poi necessario  che  gli  altri  Re  ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO;  ALTRIMENTI QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda  de’  suoi  vicini.  Donde  si  può notare,  che  uno  successore  non  di  tanta virtù  quanto  il  primo,  può  mantenere uno  Stato  per  la  virtù  di  colui  che  PImretto  innanzi,  e si  può  godere  te  sue fatiche:  ma  s’ egli  avviene  o che  sia  di lunga  vita,  o che  dopo  lui  non  surga un  altro  che  ripigli  la  virtù  di  quel  primo, è necessitato  quel  regno  a rovinare. Cosi,  per  il  contrario,  se  due,  1*  uno  dopo P altro,  sono  di  gran  virtù,  si  vede  spess che  fanno  cose  grandissime,  e che  ne vanno  con  la  fama  in  fino  al  cielo.  Davit,  senza  dubbio,  fu  un  uomo  per  arme, per  dottrina,  per  giudizio  eccellentissimo; e fu  tanta  la  sua  virtù,  che,  avendo vinti  ed  abbattuti  tutti  i suoi  vicini,  lasciò a Salomone  suo  figliuolo  un  regno pacifico:  quale  egli  si  potette  con  le  arti «Iella  pace,  e non  della  guerra,  conservare; e si  potette  godere  felicemente  la virtù  di  suo  padre.  Ma  non  potette  già lasciarlo  a Roboan  suo  figliuolo;  il  quale non  essendo  per  virtù  simile  allo  avolo, nè  per  fortuna  simile  al  padre,  rimase con  fatica  erede  della  sesta  parte  del rt'guo.  Baisit,  sultan  de’ Turchi,  ancora die  fusse  più  amatore  della  pace  che della  guerra,  potette  godersi  le  fatiche di  Maumelto  suo  padre;  il  quale  avendo, come  Davit,  battuti  i suoi  vicini,  gli  lasciò un  regno  fermo,  e da  poterlo  con F arte  della  pace  facilmente  conservare. Ma  se  il  figliuolo  suo  Salì,  presente  signore, fusse  stalo  simile  al  padre,  c non all’avolo,  quel  regno  rovinava  : ma  e’ si vede  costui  essere  per  superare  la  gloria dell'avolo.  Dico  pertanto  con  questi esempi,  clic  dopo  uno  eccellente  principe si  può  mantenere  un  principe  debole; ma  dopo  un  debole  non  si  può  con  un altro  debole  mantenere  alcun  regno,  se già  e’  non  fusse  come  quello  di  Francia, che  gli  ordini  suoi  antichi  lo  mantenessero: e quelli  principi  sono  deboli,  che non  stanno  in  su  la  guerra.  Couchiudo pertanto  con  questo  discorso,  clic  LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che  la  potette dare  spazio  a Numa  Pompilio  di potere  molti  anni  con  1’  arte  della  pace reggere  Roma  : ma  dopo  lui  successe Tulio,  il  quale  pei*  la  sua  ferocia  riprese la  reputazione  di  ROMOLO:  dopo il  quale  venne  Anco,  in  modo  dalla  natura dotato,  che  poteva  usare  la  pace, e sopportare  la  guerra.  E prima  si  dirizzò a volere  tenere  la  via  della  pace: ma  subito  conobbe  come  i vicini,  giudicandolo effeminato,  lo  stimavano  poco: talmente  che  pensò  che,  a voler  mantenere Roma,  bisognava  volgersi  alla  guerra, e somigliare  Romolo,  e non  Numa. Da  questo  piglino  esempio  tutti  i principi che  tengono  stato,  che  chi  somiglierà Numa,  lo  terrà  o non  terrà,  secondo ehe  i tempi  o la  fortuna  gli  girerà sotto:  ma  chi  somiglierà  Romolo,  e lui come  esso  armato  di  prudenza  e d’armi, lo  terrà  in  ogni  modo,  se  da  una  ostinata ed  eccessiva  forza  non  gli  è tolto. K certamente  si  può  stimare,  che  se Roma  sortiva  per  terzo  suo  Re  un  uomo che  non  sapesse  con  le  armi  renderle la  sua  reputazione,  non  arebbe  mai  poi, o con  grandissima  dilTìcultà,  potuto  pigliare  piede,    fare  quelli  effetti  ch’ella fece.  E così,  in  mentre  eh’ ella  visse  sotto i Re,  la  portò  questi  pericoli  di  rovinare sotto  un  Re  o debole  o tristo.  Due  continove  successioni  di principi  virtuosi  fanno  grandi  effetti: c come  le  repubbliche  bene  ordinate hanno  di  necessità  virtuose  successioni: c però  gli  acquisti  ctl  auQumcnli loro  sono  grandi. Poi  che  Roma  ebbe  cacciati  i Re,  mancò di  quelli  pericoli  i quali  di  sopradetti  che  la  portava,  succedendo  in  lei uno  Re  o debole  o tristo.  Perchè  la somma  dello  imperio  si  ridusse  nc’  Consoli, i quali  non  per  eredità  o per  inganni o per  ambizione  violenta,  ma  per suffragi  liberi  venivano  a quello  imperio, ed  erano  sempre  uomini  eccellentissimi: de’quali  godendosi  Roma  la  virtù e la  fortuna  di  tempo  in  tempo,  potette venire  a quella  sua  ultima  grandezza  in altrettanti  unni,  che  la  era  stata  sotto  i Re.  Perchè  si  vede,  come  due  coutinove successioni  di  principi  virtuosi  sono  suffìzienti  ad  acquistare  il  mondo:  come  furono Filippo  di  Macedonia  ed  Alessandro Magno,  il  clic  tanto  più  debbe  fare  una repubblica,  avendo  il  modo  dello  eleggere non  solamente  due  successioni,  ma infiniti  principi  virtuosissimi,  che  sono l’uno  dell'altro  successori:  la  quale  virtuosa successione  fia  sempre  in  ogni  repubblica bene  ordinata. Quanto  biasimo  meriti  quel principe  e quella  repubblica  che  manca d'armi  proprie. Debbono  i presenti  principi  c le  moderne repubbliche,  le  quali  circa  le  difese ed  offese  mancano  di  soldati  propri, vergognarsi  di  loro  medesime  j e pensare,  con  lo  esempio  di  Tulio,  tale difetto  essere  non  per  mancamento  d’uomini alti  alla  milizia,  ma  per  colpa  loro, che  non  hanno  saputo  fare  i loro  uomini militari.  Perchè  Tulio,  scudo  stata Roma  in  pace  quaranta  anni,  non  trovò, succedendo  lui  nel  regno,  uomo  che  fussc stato  mai  alla  guerra  : nondimeno,  disegnando lui  fare  guerra,  non  pensò  di valersi    di  Sanniti,    di  Toscani,  nè di  altri  che  fussero  consueti  stare  nell'armi;  ma  deliberò,  come  uomo  prudentissimo, di  valersi  de’ suoi.  E fu  tanta la  sua  virtù,  che  in  un  tratto  il  suo  governo gli  potè  fare  soldati  eccellentissimi. Ed  è più  vero  che  alcuna  altra  verità, che  se  dove  sono  uomini  non  sono soldati,  nasce  per  difetto  del  principe, e non  per  altro  difetto  o di  sito  o di natura  : di  che  ce  n’*è  uno  esempio  freschissimo. Perchè  ognuno  sa,  come ne’ prossimi  tempi  il  re  d’Inghilterra  assaltò il  regno  di  Francia,    prese  altri soldati  clic  i popoli  suoi  ; e per  essere stato  quel  regno  più  clic  trenta  anni senza  far  guerra,  non  aveva    soldato nè  capitano  che  avesse  mai  militato: nondimeno,  ei  non  dubitò  con  quelli  assaltare uno  regno  pieno  di  capitani  e di  buoni  eserciti,  i quali  erano  stati continovamcnte  sotto  l'armi  nelle  guerre d’Italia.  Tutto  nacque  da  essere  quel  re prudente  uomo,  e quel  regno  bene  ordinato; il  quale  nel  tempo  della  pace  non intermette  gli  ordini  della  guerra.  Pelopida  ed  Epaminonda  tebani,  poiché  gli ebbero  libera  Tebe,  e trattola  dalla  servitù dello  imperio  spartano;  trovandosi in  una  città  usa  a servire,  ed  in  mezzo di  popoli  effeminati  ; non  dubitarono, tanta  era  la  virtù  loro  ! di  ridurgli  sotto Parrai,  e con  quelli  andare  a trovare alla  campagna  gli  eserciti  spartani,  e vincergli  : e chi  he  scrive,  dice  come questi  due  in  breve  tempo  mostrarono, che  non  solamente  in  bacedemonia  nascevano gli  uomini  di  guerra,  ma  in  ogni altra  parte  dove  nascessino  uomini, pur  che  si  trovasse  chi  li  sapesse  indirizzare alla  milizia,  come  si  vede  che Tulio  seppe  indirizzare  i Romani.  E VIRGILIO non  potrebbe  meglio  esprimere questa  oppinione,    con  altre  parole mostrare  di  aderirsi  a quella,  dove  dice: u ...  . Desidesque  movebit Tullus  in  arma  viros. Quello  che  sia  da  notare nel  caso  dei  tre  Orazi  romani, e dei Tulio,  re  di  Roma,  e Mezio,  re  di  Alba, convennero  che  quel  popolo  fusse  signore dell’ altro,  di  cui  i soprascritti  tre uomini  vincessero.  Furono  MORTI TUTTI I CURIAZI albani,  restò  vivo  uno  degli Orazi  romani;  e per  questo,  restò  Mezio, re  albaiio,  con  il  suo  popolo,  suggello ai  Romani.  E tornando  quello ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando  una sua  sorella,  che  era  ad  uno  de’ tre  Curiazi morti  maritata,  clic  PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello  Orazio  per  questo  fallo  fu  messo' in  giudizio,  e dopo  molte  dispute  fu  libero,  più  per  li  prìeglii  del  padre,  clic per  li  suoi  meriti.  Dove  sono  da  notare Ire  cose:  una,  che  mai  non  si  debbe con  parte  delle  sue  forze  arrischiare tutta  la  sua  fortuna  ; l’ altra,  che  non mai  in  una  città  bene  ordinata  li  devmeriti  con  li  ineriti  si  ricompensano;  la terza,  che  non  mai  sono  i partiti  savi, dove  si  debba  o possa  dubitare  della inosservanza.  Perchè,  gl’  importa  tanto a una  città  lo  essere  serva,  che  mai  non si  doveva  credere  che  alcuno  di  quelli Re  o di  quelli  Popoli  stessero  contenti che  tre  loro  cittadini  gli  avessino  sotto* messi  ; come  si  vide  che  volle  fare  Mezio:  il  quale,  benché  subito  dopo  la  vittoria de’ Romani  si  confessassi  vinto,  e promettessi  la  obedienza  a Tulio;  nondimeno nella  prima  espedizione  che  egli ebbono  a convenire  contra  i Veienli,  si vide  come  ci  cercò  d’ ingannarlo  ; come quello  che  tardi  s’era  avveduto  della temerità  del  partito  preso  da  lui.  E perchè di  questo  terzo  notabile  se  n’’è  pnr luto  assai,  parleremo  solo  degli  altri  due ne’ seguenti  duoi  capitoli. Che  non  si  debbe  mettere a pericolo  tutta  la  fortuna  e non tutte  le  forze  ; c per  questo j spesso  il guardare  i passi  è dannoso. Non  fu  mai  giudicato  partito  savio mettere  a pericolo  tutta  la  fortuna  tua, e non  tutte  le  forze.  Questo  si  fu  in  più modi.  L’uno  è facendo  come  Tulio  e Mezio,  quando  e’  commissouo  la  fortuna tutta  della  patria  loro,  e la  virtù  di tanti  uomini  quanti  avea  l’uno  e l’altro di  costoro  negli  eserciti  suoi,  alla  virtù  e fortuna  di  tre  de’loro  cittadini,  clic  veniva ad  essere  una  minima  parte  delle  forze di  ciascuno  di  loro.    si  avvidono,  come per  questo  partito  tutta  la  fatica  che avevano  durata  i loro  antecessori  nell’ ordinare  la  repubblica,  per  farla  vivere lungamente  libera  e per  fare  i suoi  cittadini difensori  della  loro  libertà,  era quasi  che  suta  vana,  stando  nella  potenza di    pochi  a perderla.  La  qual  cosa da  quelli  Re  non  potè  esser  peggio  considerata. Cadesi  ancora  in  questo  inconveniente quasi  sempre  per  coloro,  che, venendo  il  nemico,  disegnano  di  tenere i luoghi  diffìcili,  e guardare  i passi:  perchè quasi  sempre  questa  deliberazione sarà  dannosa,  se  giù  in  quello  luogo diffìcile  comodamente  tu  non  potessi  tenere tutte  le  forze  tue.  In  questo  casotuie  partito  è da  prendere;  ma  scndo  il luogo  aspro,  e non  vi  potendo  tenere tutte  le  forze  tue,  il  partito  è dannoso. Questo  mi  fa  giudicare  cosi  lo  esempio di  coloro  che,  essendo  assaltati  da  un nemico  potente,  ed  essendo  il  paese  loro circondato  da’  monti  e luoghi  alpestri, noti  hanno  mai  tentato  di  combattere  il nemico  in  su’  passi  e in  su’  monti,  ma sono  iti  ad  incontrarlo  di    da  essi:  o, quando  non  hanno  voluto  far  questo,  lo hanno  aspettato  dentro  a essi  monti,  in luoghi  benigni  e non  alpestri.  E la  cugioite  ne  è suta  la  preallegata  : perchè, non  si  polendo  condurre  alla  guardia de’ luoghi  alpestri  molli  uomini,    per non  vi  potere  vivere  lungo  tempo,  si per  essere  i luoghi  stretti  e capaci  di pochi;  non  è possibile  sostenere  un  nemico clic  venga  grosso  ad  urtarti:  ed  al nemico  è facile  il  venire  grosso,  perchè la  intenzione  sua  è passare,  e non  fermarsi; ed  a chi  l’ aspetta  è impossibile aspettarlo  grosso,  avendo  ad  alloggiarsi per  più  tempo,  non  sapendo  quando  il nemico  voglia  passare  in  luoghi,  com’  io ho  detto,  stretti  e sterili.  Perdendo, adunque,  quel  passo  che  tu  ti  avevi presupposto  tenere,  e nel  quale  i tuoi popoli  e lo  esercito  tuo  confidava,  entra il  più  delle  volte  ne’ popoli  e nel  residuo delle  genti  tue  tanto  terrore,  che  senza potere  esperimentare  la  virtù  di  esse, rimani  perdente;  c così  vieni  ad  avere perduta  tutta  la  tua  fortuna  con  parte delle  tue  forze.  Ciascuno  sa  con  quanta diftìcultà  Annibaie  passasse  r Alpi  che dividono  la  Lombardia  dalia  Francia,  e con  quanta  difficoltà  passasse  quelle  che dividono  la  Lombardia  dalla  Toscana  : nondimeno  i Romani  l’aspettarono  prima in  sul  Tesino,  e dipoi  uel  piano  d’Arezzo;  e vollon  più  tosto,  che  il  loro  esercito fusse  consumato  dal  nemico  nelli luoghi  dove  poteva  vincere,  che  condurlo su  per  l’Alpi  ad  esser  destrutto dalla  malignità  del  sito.  E chi  leggerà sensatamente  tutte  le  istorie,  troverà  pochissimi virtuosi  capitani  over  tentato di  tenere  simili  passi,  e per  le  ragioni dette,  e perchè  e'  non  si  possono  chiudere tutti;  sendo  i monti  come  campagne, ed  avendo  non  solamente  le  vie consuete  e frequentate,  ma  molte  altre, le  quali  se  non  sono  note  a’ forestieri, sono  note  a’ paesani  ; con  l’aiuto  de’quali sempre  sarai  condotto  in  qualunque  luogo, contra  alla  voglia  di  citi  ti  si  oppone. Di  che  se  ne  può  addurre  uno freschissimo  esempio,  nel  T 51 5 . Quando Francesco  re  di  Francia  disegnava  passare  in  Italia  per  lu  recuperatone  dello Stalo  di  Lombardia,  il  maggiore  fondamento clic  facevano  coloro  eli’ erano  alla sua  impresa  contrari,  era  che  gli  Svizzeri lo  terrebbono  a’ passi  in  su’ monti.  E, come  per  esperienza  poi  si  vide,  quel  loro fondamento  restò  vano:  perché,  lasciato quel  re  da  parte  due  o tre  luoghi  guardati da  loro,  se  ne  venne  per  un’  altra  via incognita  ; e fu  prima  in  Italia,  e loro  appresso, che  lo  avessino  presentilo.  Talché loro  isbigottiti  si  ritirarono  in  Milano,  e tutti  i popoli  di  Lombardia  si  aderiron alle  genti  franciose;  sendo  mancali  di quella  oppinione  avevano,  che  i Franciosi dovessino  essere  tenuti  su’ monti. Le  repubbliche  bene  ordinate costituiscono  premii  c pene aJ  loro  cittadini;  ne  compensano  mai r uno  con  l*  altro. Erano  stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI, avendo  con  la  sua  virtù  VINTI I CURIAZIl. Era  stato  il  fallo  suo  atroce, avendo  MORTO LA SORELLA: nondimeno  dispiacque tanto  tale  omicidio  ai  Romani, che  io  condussero  a disputare  della  vita, non  ostante  che  gli  meriti  suoi  fossero tanto  grandi  c sì  freschi.  La  qual  cosa a chi  superficialmente  la  considerasse, parrebbe  uno  esempio  d’ ingratitudine popolare:  nondimeno  chi  la  esaminerà meglio,  e con  migliore  considerazione ricercherà  quali  debbono  essere  gli  ordini delle  repubbliche,  biasimerà  quel popolo  più  tosto  per  averlo  assoluto, che  per  averlo  voluto  condeunare.  E la ragione  è questa,  che  nessuna  repubblica bene  ordinata,  non  mai  cancellò  i demeriti  con  gli  meriti  de’ suoi  cittadini; ma  avendo  ordinati  i preraii  ad una  buona  opera  e le  pene  ad  una  cattiva,  ed  avendo  premiato  uno  per  aver bene  operato,  se  quel  medesimo  opera dipoi  male,  lo  gastica,  senza  avere  riguardo alcuno  alle  sue  buone  opere.  E quando  questi  ordini  sono  bene  osservati,  una  città  vive  libera  molto  tempo; altrimenti,  sempre  rovinerà  presto.  Perchè, se  ad  un  cittadino  che  abbia  fatto qualche  egregia  opera  per  la  città,  si aggiugne,  oltre  alla  riputazione  che quella  cosa  gli  arreca,  una  audacia  e confidenza  di  potere,  senza  temer  pena, fare  qualche  opera  non  buona  ; diventerà in  brievc  tempo  tanto  insolente,  che si  risolverà  ogni  civilità.  È ben  necessario, volendo  clic  sia  temuta  la  pena per  le  triste  opere,  osservare  i premii per  le  buone;  come  si  vede  che  fece Roma.  C benché  una  repubblica  sia  povera, e possa  dare  poco,  debbe  di  quel poco  non  astenersi;  perchè  sempre  ogni piccolo  dono,  dato  ad  alcuno  per  ricompenso di  bene  ancora  che  grande,  sarà stimato,  da  chi  lo  riceve,  onorevole  e grandissimo.  È notissima  la  istoria  di ORAZIO CODE e quella  di  MUZIO SCEVOLA: come  V uno  sostenne  i nemici  sopra  un ponte,  tanto  che  si  tagliasse:  l’altro  si arse  la  mano,  avendo  errato,  volendo ammazzare  Porscna,  re  delli  Toscani.  A costoro  per  queste  due  opere  tanto  egregie, fu  donato  dal  pubblico  due  staiora di  terra  per  ciascuno.  È nota  ancora  la istoria  di  MANLIO  Capitolino.  A costui, per  aver  salvato  il  Campidoglio  da' Galli che  vi  erano  a campo,  fu  dato  da  quelli che  insieme  eon  lui  vi  erano  assediati dentro,  una  piccola  misura  di  farina,  il quale  premio,  secondo  la  fortuna  che  allora correva  in  Roma,  fu  grande;  e di qualità  che,  mosso  poi  Manlio,  o da  invidia o dalla  sua  cattiva  natura,  a far nascere  sedizione  in  Roma,  e cercando guadagnarsi  il  popolo,  fu,  senza  rispetto alcuno  de’ suoi  meriti,  gittato  precipite da  quello  Campidoglio  ch’egli  prima,  cou tanta  sua  gloria,  aveva  salvo. Chi  vuole  riformare  uno stalo  antico  in  una  città  libera,  ritenga almeno  l’ombra  desmodi  antichi. Colui  che  desidera  o clic  vuole  riformare uno  stato  d’una  città,  a volere  elle sia  accetto,  e poterlo  con  satisfazione  di ciascuno  mantenere,  è necessitato  a ritenere l’ombra  almanco  de’ modi  antichi, acciò  che  a’ popoli  non  paia  avere mutato  ordine,  ancora  che  in  fatto  gli ordini  nuovi  fussero  al  tutto  alieni  dai passati;  perchè  lo  universale  degli  uomini si  pasce  così  di  quel  che  pare,  come di  quello  che  è;  anzi  molte  volte  si muovono  più  per  le  cose  che  paiono, che  per  quelle  clic  sono.  Per  questa  cagione i Romani,  conoscendo  nel  principio del  loro  vivere  libero  questa  necessità, avendo  in  cambio  d’ un  Re  creali duoi  Consoli,  non  vollono  ch’egli  avessino più  clic  dodici  littori,  per  non  passare  il  numero  di  quelli  che  ministravano ai  Re.  Olirà  di  questo,  facendosi in  Roma  uno  sacrifizio  anniversario,  il quale  non  poteva  esser  fatto  se  non dalla  persona  del  Re;  e volendo  i Romani che  quel  popolo  non  avesse  a desiderare per  la  assenzia  degli  Re  alcuna cosa  dell’  antiche j,  creorono  un  capo  di detto  sacrifìcio,  il  quale  loro  chiamorono  Re  Sacrifìcolo,  e lo  sottomessono  al sommo  Sacerdote  : talmentechè  quel  popolo per  questa  via  venne  a satisfarsi di  quel  sacrifizio,  e non  avere  mai  cagione, per  mancamento  di  esso,  di  desiderare la  tornata  dei  Re.  E questo  si debbe  osservare  da  tutti  coloro  che  vogliono scancellare  uno  antico  vivere  in una  città,  e ridurla  ad  uno  vivere  nuovo c libero.  Perchè  alterando  le  cose  nuove le  menti  degli  uomini,  ti  debbi  ingegnare che  quelle  alterazioni  ritenghino  più  del-r antico  sia  possibile;  e se  i magistrati variano  e di  numero  e d'autorità  e di tempo  dagli  antichi,  che  almeno  ritengliino  il  nome.  E questo,  come  ho  detto, debbe  osservare  colui  che  vuole  ordinare  una  potenza  assoluta,  o per  via  di repubblica  o di  regno:  ma  quello  che  vuol fare  una  potestà  assoluta,  quale  dagli autori  è chiamala  tirannide,  debbe  rinnovare ogni  cosa,  come  nel  seguente  capitolo si  dirò. Un  principe  nuovo, in i ima  città  o provincia  presa  da  lui, 1 debbe  fare  ogni  cosa  nuova. Qualunque  diventa  principe  o d’  unacittà  o d’uno  Stato,  e tanto  più  quando i fondamenti  suoi  lussino  deboli,  c non si  volga  o per  via  di  regno  o di  repubblica alla  vita  civile;  il  mcgliore  rimedio che  egli  abbia  a tenere  quel  principato, è,  sendo  egli  nuovo  principe, fare  ogni  cosa  di  nuovo  in  quello  Stalo: come  è,  nelle  città  fare  nuovi  governi con  nuovi  nomi,  con  nuove  autorità,  con nuovi  uomini;  fare  i poveri  ricchi, fece  Davil  quando  ei  diventò  Re:  qui csuricnles  implevil  bonis,  et  divites  dimirti  inanes  ; edificare  oltra  di  questo nuove  città,  disfare  delie  fatte,  cambiare gli  abitatori  da  un  luogo  ad  un  altro; ed  in  somma,  non  lasciare  cosa  niuna intatta  in  quella  provincia,  e che  non vi  sia    grado,    ordine,    stato,  uè ricchezza,  che  chi  la  tiene  non  la  riconosca da  te;  c pigliare  per  sua  mira Filippo  di  Macedonia,  padre  di  Alessandro, il  quale  con  questi  modi,  di  piccolo Re,  diventò  principe  di  Grecia.  E chi  scrive  di  lui,  dice  che  tramutava  gl uomini  di  provincia  in  provincia,  come i mandriani  tramutano  le  mandrie  loro. Sono  questi  modi  crudelissimi,  e nemici d’ogni  vivere,  non  solamente  cristiano, ma  umano;  e debbegli  qualunche  uomo fuggire,  c volere  piuttosto  vivere  privato, che  Re  con  tanta  rovina  degli  uomini : nondimeno,  colui  che  non  vuole pigliare  quella  prima  via  del  bene, quando  si  voglia  mantenere,  convien die  entri  in  questo  male.  >la  gli  uomini pigliano  certe  vie  del  mezzo,  clic  sono dannosissime;  perchè  non  sanno  essere nè  tutti  buoni    tutti  cattivi:  come  ne seguente  capitolo,  per  esempio,  si  mostrerà. Sanno  rarissime  volle gli  uomini  essere  al  lutto  tristi  o al fulto  buoni. Papa  Giulio  secondo,  andando  na Bologna  per  cacciare  di  quello  Stato la  casa  de’Bentivogli,  la  quale  aveva  tenuto il  principato  di  quella  città  cento anni,  voleva  ancora  trarre  Giovampagoto  Buglioni  di  Perugia,  della  quale  era tiranno,  come  quello  che  aveva  congiurato contro  a tutti  gli  tiranni  che  occupavano le  terre  della  Chiesa.  E pervenuto presso  a Perugia  con  questo  animo e deliberazione  nota  a ciascuno,  non aspettò  di  entrare  in  quella  città  con  lo esercito  suo  che  lo  guardasse,  mn  % entrò  disarmato,  non  ostante  vi  fusse dentro  Giovampagolo  con  genti  assai, quali  per  difesa  di    aveva  ragunate. Sicché,  portato  da  quel  furore  con  il quale  governava  tutte  le  cose,  con  la semplice  sua  guardia  si  rimesse  nelle mani  del  nemico  ; il  quale  dipoi  ne  menò seco,  lasciando  un  governadore  in  quella citta,  che  rendesse  ragione  per  la  Chiesa. Fu  notala  dagli  uomini  prudenti  che col  papa  erano,  la  temerità  del  papa  e la  viltà  di  Giovampagolo  ; uè  potevano stimare  donde  si  venisse  che  quello  noti avesse,  con  sua  perpetua  fama,  oppresso ad  un  tratto  il  nemico  suo,  e sè  arricchito di  preda,  sendo  col  papa  tutti  li cardinali,  con  tutte  le  lor  delizie.    si poteva  credere  si  fusse  astenuto  o per bontà,  o per  conscienza  che  lo  ritenesse; perchè  in  un  petto  d’ un  uomo  facinoroso, che  si  teneva  la  sorella,  che  aveva  morti i cugini  cd  i nepoti  per  regnare,  non poteva  scendere  alcuno  pietoso  rispetto: ina  si  conchiuse,  che  gli  uomini  no sanno  essere  onorevolmente  tristi,  o perfettamente buoni;  e come  una  tristizia ha  in    grandezza,  o è in  alcuna  parte generosa,  eglino  non  vi  sanno  entrare. Cosi  Giovampagolo,  il  quale  non  stimava essere  incesto  e pubblico  parricida,  non seppe,  o,  a dir  meglio,  non  ardì,  avendon giusta  occasione,  fare  una  impresa, dove  ciascuno  avesse  ammirato  l’animo suo,  e avesse  di    lasciato  memoria eterna;  sendo  il  primo  che  avesse  dimostro ai  prelati,  quanto  sia  da  stimar poco  chi  vive  c regna  come  loro;  ed avesse  fatto  una  cosa,  la  cui  grandezza avesse  superato  ogni  infamia,  ogni  pericolo, clic  da  quella  potesse  depeudere. Per  qual  cagione  i Romani furono  meno  ingrati  agli  loro cittadini  che  gli  Ateniesi. Qualunque  legge  le  cose  fatte  dalle repubbliche,  troverà  in  tutte  qualche spezie  di  ingratitudine  contro  a’  suoi  citladini;  ma  ne  troverà  meno  in  Roma che  in  Atene>  e per  avventura  in  qualunque altra  repubblica.  E ricercando  la cagione  di  questo,  parlando  di  Roma  c di  Atene,  credo  accadesse  perchè  i Romani avevano  meno  cagione  di  sospettare de’ suoi  cittadini,  che  gli  Ateniesi. Perchè  a Roma,  ragionando  di  lei  dalla cacciata  dei  Re  intino  a Siila  e Mario, non  fu  mai  tolta  la  libertà  da  alcuno .suo  cittadino:  in  modo  che  in  lei  non era  grande  cagione  di  sospettare  di  loro, e,  per  conseguente,  di  offendergli  inconsideratamente. intervenne  bene  ad  Atene il  contrario:  perché,  sendole  tolta  la  libertà da  Pisistrato  nel  suo  più  florido tempo,  e sotto  uno  inganno  di  bontà  ; come  prima  la  diventò  poi  libera,  ricordandosi delle  ingiurie  ricevute  e della passata  servitù,  diventò  acerrima  vendicatrice non  solamente  degli  errori,  ma delP  ombra  degli  errori  de' suoi  cittadini. Di  qui  nacque  l’esilio  e la  morte di  tanti  eccellenti  uomini;  di  qui  Pordine  dello  ostracismo,  ed  ogni  altra  violenza che  contra  i suoi  ottimati  in  vari tempi  da  quella  città  fu  fatta.  Ed  è verissimo quello  che  dicono  questi  scrittori della  civiltà:  che  i popoli  mordono più  fieramente  poi  ch’egli  hanno  recuperala la  libertà,  che  poi  che  l’hanno conservala.  Chi  considerrà  adunque, quanto  è detto,  non  biasimerà  in  questo Atene,    lauderà  Roma;  ma  ne  accuserà solo  la  necessità,  per  la  diversità degli  accidenti  che  in  queste  città  nacquero. Perchè  si  vedrà,  chi  considererà  le cose  sottilmente,  che  se  a Roma  fusse siila  tolta  la  libertà  come  a Atene,  non sarebbe  stata  Roma  più  pia  verso  i suoi cittadini,  che  si  fusse  quella.  Di  che  si può  fare  verissima  conieltura  per  quello che  occorse,  dopo  la  cacciata  dei  Re, contra  a Collatino  ed  a Publio  Valerio: de’ quali  il  primo,  ancora  elicsi  trovasse a liberare  Roma,  E MANDATO IN ESILIO NON PER ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro,  avendo  sol «lato  di    sospetto  per  edificare  una casa  in  sul  monte  Celio,  fu  ancora  per essere  fatto  esule.  Talché  si  può  stimare, veduto  quanto  Roma  fu  in  questi due  sospettosa  e severa,  che  Farebbe usata  la  ingratitudine  come  Atene,  se da’suoi  cittadini,  come  quella  ne’ primi tempi  ed  innanzi  allo  augumento  suo, fosse  stata  ingiuriata.  G per  non  avere a tornare  più  sopra  questa  materia  della ingratitudine,  ne  dirò  quello  ne  occorrerà nel  seguente  capitolo. Quale  sia  più  ingrato, o un  popolo j o un  principe. Egli  mi  pare,  a proposito  della  soprascritta materia,  da  discorrere  quale usi  con  maggiori  esempi  questa  ingratitudine, 0 un  popolo,  o un  principe.  E per  disputare  meglio  questa  parte,  dico, come  questo  vizio  della  ingratitudine nasce  o dalla  avarizia,  o dal  sospetto. Perchè,  quando  o un  popolo  o un  priacipe  ha  mandato  fuori  un  suo  capitano in  una  cspedizione  importante,  dove quel  capitano,  vincendola,  ne  abbia acquistata  assai  gloria  ; quel  principe  o quel  popolo  è tenuto  allo  incontro  a premiarlo: e se,  in  cambio  di  premio,  o ei lo  disonora  o ei  T offende,  mosso  dalla avarizia,  non  volendo,  ritenuto  da  questa cupidità,  satisfarli;  fa  uno  errore che  non  ha  scusa,  anzi  si  tira  dietro una  infamia  eterna.  Pure  si  trovano  molti principi  che  ci  peccano.  E Cornelio TACITO  dice,  con  questa  sentenzia,  la  cagione: Proclivius  est  inj ur ite,  quarti  beneficio vicem  cxsolvcre,  quia  grafia  oneri, ultio  in  questu  fiabe  tur.  Ma  quando ei  non  lo  premia,  o,  a dir  meglio,  l’offende, non  mosso  da  avarizia,  ma  da  sospetto; allora  merita,  e il  popolo  e il principe,  qualche  scusa.  E di  queste  ingratitudini usate  per  tal  cagione,  se  ne legge  assai  : perchè  quello  capitano  il quale  virtuosamente  ha  acquistato  uno imperio  al  suo  signore,  superando  i ne-mici,  e riempiendo    di  gloria  e gli suoi  soldati  di  ricchezze;  di  necessità,  e con  i soldati  suoi,  e con  i nemici,  e coi sudditi  propri  di  quel  principe  acquista tanta  reputazione,  che  quella  vittoria non  può  sapere  di  buono  a quel  signore che  lo  ha  mandato.  G perchè  la  natura degli  uomini  è ambiziosa  e sospettosa, e non  sa  porre  modo  a ntssuna  sua  fortuna, è impossibile  che  quel  sospetto  che subito  nasce  nel  principe  dopo  la  vittoria di  quel  suo  capitano,  non  sia  da quel  medesimo  accresciuto  per  qualche suo  modo  o termine  usato  insolentemente.  Talché  il  principe  non  può  peusare  ad  altro  che  assicurarsene;  e per fare  questo,  pensa  o di  farlo  morire,  o di  torgli  la  reputazione  che  egli  si  ha guadagnala  nel  suo  esercito  e ne’ suoi popoli:  e con  ogni  industria  mostrare che  quella  vittoria  è nata  non  per  la virtù  di  quello,  ma  per  fortuna,  o per viltà  dei  nemici,  o per  prudenza  degli altri  capitani  clic  sono  stati  seco  in  tale l’azione.  Poiché  Vespasiano,  sendo  in  Giudea fu  dichiarato  dal  suo  esercito  imperadore  ; Antonio  Primo,  che  si  trovava con  un  altro  esercito  in  llliria,  prese  le parti  sue,  e ne  venne  in  Italia  contea  a Vitellio  il  quale  regnava  a Roma,  e virluosissimamente  ruppe  due  eserciti  Vitelliani,  c occupò  Roma  ; talché  Muziano, mandato  da  Vespasiano,  trovò  per  la virtù  d’Antonio  acquistato  • il  tutto,  e vinta  ogni  di ffìcultà.  11  premio  che  Autonio  ne  riportò,  fu  che  Muziano  gli tolse  subito  la  ubidienza  dello  esercito, e a poco  a poco  io  ridusse  in  Roma senza  alcuna  autorità:  talché  Antonio  ne andò  a trovare  Vespasiano,  il  quale  era ancora  in  Asia;  dal  quale  fu  in  modo ricevuto,  che,  in  breve  tempo,  ridotto  in nessun  grado,  quasi  disperato  morì.  E di  questi  esempi  ne  sono  piene  le  istorie.  Ne’  nostri  tempi,  ciascuno  che  al presente  vive,  sa  con  quanta  industria e virtù  Consalvo  Ferrante,  militando  nel regno  di  Napoli  contra  a’ Franciosi  per Ferrando  Re  di  Ragona,  conquistasse  e vincesse  quel  regno;  e come,  per  premio di  vittoria,  ne  riportò  che  Ferrando si  parti  da  Ragona,  e,  venuto  a Napoli, in  prima  gli  levò  la  obedienza  delle genti  d’ arme,  c dipoi  gli  tolse  le  fortezze, ed  appresso  lo  menò  seco  in  Spagna; dove  poco  tempo  poi,  inonorato,  mori. È tanto,  dunque,  naturale  questo  sospetto ne’ principi,  che  non  se  ne  possono difendere;  ed  è impossibile  ch’egli usino  gratitudine  a quelli  che  con  vittoria hanno  fatto  sotto  le  insegne  loro grandi  acquisti.  E da  quello  che  non  si difende  un  principe,  non  è miracolo,  nè cosa  degna  di  maggior  considerazione, s.e  un  popolo  non  se  ne  difende.  Perchè, avendo  una  città  che  vive  libera,  duoi fini,  V uno  lo  acquistare,  l’altro  il  mantenersi libera  ; conviene  che  nell’  una cosa  e nell’  altra  per  troppo  amore  erri. Quanto  agli  errori  nello  acquistare,  se ne  dirà  nel  luogo  suo.  Quanto  agli  errori per  mantenersi  libera,  sono,  intra gli  altri,  questi:  di  offendere  quei  cittadini elicla  doverrebbe  premiare;  aver sospetto  di  quelli  in  cui  si  doverrebbe confidare.  E benché  questi  modi  in  una repubblica  venuta  alla  corruzione  siano cagione  di  grandi  mali,  c che  molle volte  piuttosto  la  viene  alla  tirannide, come  intervenne  a Roma  di  Cesare,  che per  forza  si  tolse  quello  che  la  ingratitudine gli  negava;  nondimeno  in  una repubblica  non  corrotta  sono  cagione  di gran  beni,  e fanno  che  la  ne  vi\e  libera più,  mantenendosi  per  paura  ili punizione  gli  uomini  migliori,  e meno ambiziosi.  Vero  è che  infra  tutti  i popoli che  mai  ebbero  imperio,  per  le  cagioni di  sopra  discorse,  Roma  fu  la  meno ingrata  : perchè  della  sua  ingratitudine si  può  dire  che  non  ci  sia  altro  esempio che  quello  di  Scipione;  perchè  Coriolano  c Cammillo  fumo  fatti  esuli per  ingiuria  che  l’uno  e l’altro  aveva fatto  alla  Plebe.  Ma  all’  uno  non  fu  perdonato,  per  aversi  sempre  riserbato contea  al  Popolo  l’animo  nemico;  Paiteo  non  solamente  fu  richiamato,  ma per  tutto  il  tempo  della  sua  vita  adorato  come  principe.  Ma  la  ingratitudine usata  a Scipione,  nacque  da  un  sospetto che  i cittadini  cominciorno  avere  di  lui, che  degli  altri  non  s’era  avuto:  il  quale nacque  dalla  grandezza  del  nemico  che Scipione  aveva  vinto;  dalla  reputazione che  gli  aveva  data  la  vittoria  di    lunga e pericolosa  guerra;  dalla  celerità  di essa  ; dai  favori  che  la  gioventù,  la  prudenza,  e le  altre  sue  memorabili  virtuti gli  acquistavano.  Le  quali  cose  furono tante,  che,  non  che  altro,  i magistrati  di Roma  temevano  della  sua  autorità:  la qual  cosa  spiaceva  agli  uomini  savi, come  cosa  inconsueta  in  Roma.  E parve tanto  straordinario  il  vivere  suo,  che CATONE PRISCO, riputato  santo,  fu  IL PRIMO a fargli  contra  ; e a dire  che  una  città non  si  poteva  chiamare  libera,  dove  era un  cittadino  che  fusse  temuto  dai  magistrati. Talché,  se  il  popolo  di  Roma 1 seguì  in  questo  caso  L’OPINIONE DI CATONE, merita  quella  scusa  che  di  sopra ho  detto  meritare  quelli  popoli  e quelli principi  che  per  sospetto  sono  ingrati. Conchiudendo  adunque  questo  discorso, dico,  che  usandosi  questo  vizio  della  ingratitudine o per  avarizia  o per  sospetto, si  vedrà  come  i popoli  non  mai  per T avarizia  la  usorno,  e per  sospetto  assai i manco  che  i principi,  avendo  meno  cagione di  sospettare:  come  di  sotto  si dirà. Quali  modi  debbo  usare un  principe  o una  repubblica  per  fuggire questo  vizio  della  ingratitudine  : c quali  quel  capitano  o quel  cittadino per  non  essere  oppresso  da  quella. Un  principe,  per  fuggire  questa  necessità di  avere  a vivere  con  sospetto, o esser  ingrato,  debbe  personalmente andare  nelle  espedizioni;  come  facevano nel  principio  quelli  imperadori  romani, come  fu  ne’ tempi  nostri  il  Turco,  c come hanno  fatto  e fanno  quelli  che  sono virtuosi.  Perchè,  vincendo,  la  gloria  e lo acquisto  è tutto  loro;  e quando  non  vi sono,  sendo  la  gloria  d’altrui,  non  pare loro  potere  usare  quello  acquisto,  s’ ei non  spengono  in  altrui  quella  gloria  che loro  non  hanno  saputo  guadagnarsi,  e diventare  ingrati  ed  ingiusti  : e senza dubbio,  è maggiore  la  loro  perdita,  che il  guadagno.  Ma  quando,  o per  negligenza o per  poca  prudenza,  e’ si  rimangono a casa  oziosi,  c mandano  un  capitano; io  non  ho  che  precetto  dar  loro altro,  che  quello  che  per  lor  medesimi si  sanno.  .Ma  dico  bene  a quel  capitano, giudicando  io  che  non  possa  fuggire  i morsi  della  ingratitudine,  che  faccia  una delle  due  cose:  o subito  dopo  la  vittoria lasci  lo  esercito  c rimettasi  nelle  mani del  suo  principe,  guardandosi  da  ogni atto  insolente  o ambizioso;  acciocché quello,  spogliato  d’ogni  sospetto,  abbia cagione  o di  premiarlo  o di  non  lo  offendere  : o,  quando  questo  non  gli  paia di  fare,  prenda  animosamente  la  parte contraria,  e tenga  tutti  quelli  modi  per li  quali  creda  che  quello  acquisto  sia suo  proprio  e non  del  principe  suo,  facendosi benivoli  i soldati  ed  i sudditi; e faccia  nuove  amicizie  coi  vicini,  occupi con  li  suoi  uomini  le  fortezze,  corrompa i principi  del  suo  esercito,  e di quelli  che  non  può  corrompere  si.  assicuri; e per  questi  modi  cerchi  di  punire il  suo  signore  di  quella  ingratitudine che  esso  gli  userebbe.  Altre  vie non  ci  sono:  ma,  come  di  sopra  si  disse, gli  uomini  non  sanno  essere    al  tutto tristi,    al  tutto  buoni:  e sempre  interviene che,  subito  dopo  la  vittoria, lasciare  lo  esercito  non  vogliono,  portarsi modestamente  non  possono,  usare termini  violenti  e che  abbino  in    Tonorevole,  non  sanno;  talché,  stando  ambigui, intra  quella  loro  dimora  ed  ambiguità, sono  oppressi.  Quanto  ad  una repubblica,  volendo  fuggire  questo  vizi dello  ingrato,  non  si  può  dare  il  medesimo rimedio  che  al  principe;  cioè  che vadia,  e non  mandi,  nelle  cspedizioni sue,  sendo  necessitate  a mandare  un  suo cittadino.  Conviene,  pertanto,  che  pei*rimedio  io  le  dia,  che  la  tenga  i medesimi modi  che  tenne  la  repubblica  romana, ad  esser  meno  ingrata  che  l’altre: il  che  nacque  dai  modi  del  suo  governo. Perchè,  adoperandosi  tutta  la  città,  e gli nobili  e gli  ignobili,  nella  guerra,  surgeva sempre  in  Roma  in  ogni  età  tanti uomini  virtuosi,  ed  ornati  di  varie  vittorie, che  il  popolo  non  avea  cagione  di dubitare  di  alcuno  di  loro,  sendo  assai, c guardando  P uuo  Patirò.  E in  tanto si  mantenevano  interi,  e respettivi  di non  dare,  ombra  di  alcuna  ambizione, uè  cagione  al  popolo,  come  ambiziosi, d*  offendergli  ; che  venendo  alla  dittatura, quello  maggior  gloria  ne  riportava, che  più  tosto  la  deponeva.  E cosi,  non potendo  simili  modi  generare  sospetto, non  generavano  ingratitudine.  In  modo che,  una  repubblica  che  nott  voglia avere  cagione  d’essere  ingrata,  si  debbo governare  come  Roma  ; c uno  cittadino che  voglia  fuggire  quelli  suoi  morsi, debbc  osservare  i termini  osservati  dai cittadini  romani. Che  » capitani  romani per  errore  commesso  ?io«  furono  mai istraordinariamcnlc  puniti;    furono mai  ancora  puniti  quando,  per  la ignoranza  loro  o tristi  partiti  presi da  loro,  ne  fissino  seguiti  danni  alla repubblica. 1 Romani,  non  solamente,  come  di  sopra avemo  discorso,  furono  manco  ingrati die  V altre  repubbliche,  ma  furono ancora  più  pii  e più  respctlivi  nella  punizione de’ loro  capitani  degli  eserciti, che  alcune  altre.  Perchè,  se  il  loro  errore fussc  stato  per  malizia,  e’  lo  gastigavano  umanamente;  se  gli  era  per ignoranza,  non  che  lo  punissino,  e’ lo premiavano  ed  onoravauo.  Questo  modo del  procedere  era  bene  considerato  da -loro:  perchè  e' giudicavano  che  fusse  di tanta  importanza  a quelli  che  governavano  gli  eserciti  loro,  lo  avere  l’animo libero  ed  espedito,  e senza  altri  estrinsechi rispetti  nel  pigliare  i parliti,  che non  volevano  aggiugnere  ad  una  cosa per    stessa  difficile  e pericolosa,  nuove difficultà  c pericoli  ; pensando  che  aggiugttendovcli,  nessuno  potesse  essere che  operasse  mai  virtuosamente.  Verbigrazia,  e’ mandavano  uno  esercito  in Grecia  contra  a Filippo  di  Macedonia,  o in  Italia  contra  ad  Annibale,  o contro  a quelli  popoli  che  vinsono  prima.  Era questo  cupitano  clic  era  preposto  a tale espedizione,  angustiato  da  tutte  quelle cure  che  si  arrecavano  dietro  quelle faccende,  le  quali  sono  gravi  e importantissime. Ora,  se  a tali  cure  si  fus»sino  aggiunti  più  esempi  di  Romani ch’eglino  avessino  crucifissi  o altrimenti morti  quelli  che  avessino  perdute  le giornale,  egli  era  impossibile  che  quello capitano  intra  tanti  sospetti  potesse  deliberare strenuamente.  Però,  giudicando essi  che  a questi  tali  fusse  assai  pena la  ignominia  dello  avere  perduto,  non gli  vollono  con  altra  maggior  pena  sbigottire. Uno  esempio  ci  è,  quanto  allo errore  commesso  non  per  ignoranza. Erono  Sergio  e Virginio  a campo  a Veio, ciascuno  preposti  ad  una  parte  dello esercito;  de’ quali  Sergio  era  all’incontro donde  potevano  venire  i Toscani,  c Virginio  dall’  altra  parte.  Occorse  che sendo  assaltato  Sergio  dai  Falisci  e da altri  popoli,  sopportò  d’  essere  rotto  c fugato  prima  che  mandare  per  aiuto  a Virginio.  E dall’altra  parte,  Virginio aspettando  che  si  umiliasse,  volle  piuttosto vedere,  il  disonore  della  patria  sua, e la  rovina  di  quello  esercito,  clic  soccorrerlo. Caso  veramente  esemplare  e tristo,  c da  fare  non  buona  coniettura della  Repubblica  romana,  se  1’  uno  c l’altro non  fusscro  stati  gasligali.  Vero  è che,  dove  un’altra  repubblica  gli  a r ebbe puniti  di  pena  capitale,  quella  gli  punì in  danari.  II  che  nacque  non  perchè  i peccali  loro  non  meritassino  maggior punizione,  ma  perchè  -gli  Romani  voiiono  in  questo  caso,  per  le  ragioni  già dette,  mantenere  gli  antichi  costumi  loro. E quanto  agii  errori  per  ignoranza,  non ci  è il  più  bello  esempio  che  quello  di VARRRONE (si veda):  per  la  temerità  del  quale  sendo rotti  i Romani  a Canne  da  Annibaie, dove  quella  Repubblica  portò  pericolo della  sua  libertà;  nondimeno,  perchè  vi fu  ignoranza  e non  malizia,  non  solamente  non  lo  gastigorno  ma  lo  onororno,  e gli  andò  incontro  nella  tornata sua  in  Roma  tutto  l’Ordine  senatorio; e non  lo  potendo  ringraziare  della  zuffa, Io  ringraziarono  eh’  egli  era  tornato  in Roma,  c non  si  era  disperato  delle  cose romane.  Quando  Papirio  Cursore  volevu fare  morire  Fabio,  per  avere  contea  al suo  comandamento  combattuto  coi  Sanniti; intra  le  altre  ragioni  che  dal  patire  di  Fabio  erano  assegnale  conira  alla ostinazione  del  Dittatore,  era  che  il  Popolo romano  in  alcuna  perdita  de’ suoi Capitani  non  aveva  fatto  mai  quello  che Papirio  nella  vittoria  voleva  fare. Una  repubblica  o uno principe  non   e sia  conira ad  una  consuetudine  antica  della  città, è scandalosissimo. Egli  è sentenza  degli  antichi  scrittori, come  gli  uomini  sogliono  affliggersi  nel male  c stuccarsi  nel  benej  e come  dul1’  una  e dall*  altra  di  queste  due  passioni nascono  i medesimi  effetti.  Perchè,  qualunque volta  è tolto  agli  uomini  il  combattere per  necessità,  combattono  per ambizione:  la  quale  è tanto  potente  ne’ petti  umani,  che  mai,  a qualunque  grado si  salgano,  gli  abbandona.  La  cagione  è, perchè  la  natura  ha  creati  gli  uomini in  modo,  che  possono  desiderare  ogni cosa,  e non  possono  conseguire  ogni cosa  : talché,  essendo  sempre  maggiore il  desiderio  che  la  potenza  dello  acquistare, ne  risulta  la  mala  contentezza  di quello  che  si  possiede,  e la  poca  satisfazionc  di  esso.  Da  questo  nasce  il  variare della  fortuna  loro:  perchè  desiderando gli  uomini,  parte  di  avere  più, parte  temendo  di  non  perdere  lo  acquistato, si  viene  alle  inimicizie  ed  alla guerra  ; dalla  quale  nasce  la  rovina  di quella  provincia,  e la  esaltazione  di  quel1’  altra.  Questo  discorso  ho  fatto  perchè alla  Plebe  romana  non  bastò  assicurarsi de’  Nobili  per  la  creazione  de’  Tribuni, al  quale  desiderio  fu  constretta  per  necessità ; che  lei  subito,  ottenuto  quello, cominciò  a combattere  per  ambizione, e volere  con  la  Nobiltà  dividere  gli  onori e le  sustanze,  come  cosa  stimata  più dagli  uomini.  Da  questo  nacque  il  morbo che  partorì  la  contenzione  della  legge agraria,  ed  in  (ine  fu  causa  della  distruzione della  Repubblica  romana.  E perchè le  repubbliche  bene  ordinate  hanno a tenere  ricco  il  pubblico,  e li  loro  cittadini poveri  ; convenne  che  fusse  nella città  di  Roma  difetto  in  questa  legge: la  quale  o non  fusse  fatta  nel  principio in  modo  che  la  non  si  avesse  ogni  di  a ritrattare;  o che  la  si  differisse  tanto in  farla,  che  fusse  scandotoso  il  riguardarsi indietro;  o sendo  ordinata  bene da  prima,  era  stata  poi  dall’  uso  corrotta; talché,  in  qualunque  modo  si  fusse, mai  non  si  parlò  di  questa  legge  in Roma,  che  quella  città  non  andasse  sottosopra. Aveva  questa  legge  duoi  capi principali.  Ter  l’ uno  si  disponeva  clic non  si  potesse  possedere  per  alcun  cittadino più  che  tanti  iugeri  di  terra; per  V altro,  che  i campi  di  che  si  privavano i nimici,  si  dividessino  intra  il popolo  romano.  Veniva  pertanto  a fare di  duoi  sorte  offese  ai  Nobili:  perchè quelli  che  possedevano  più  beni  non permetteva  la  legge  (quali  erano  la  maggior  parte  de’  Nobili),  ne  avevano  ad  esser privi  ; e dividendosi  intra  la  Plebe i beni  de’  nimici,  si  toglieva  a quelli  la via  dello  arricchire.  Sicché,  venendo  ad essere  queste  offese  contra  ad  uomini potenti,  e che  pareva  loro,  contrastandola, difendere  il  pubblico;  qualunque volta,  com’ è detto,  si  ricordava,  andava sottosopra  quella  città  : ed  i Nobili  con pazienza  ed  industria  la  temporeggiavano, o con  trac  fuora  un  esercito,  o che a quel  Tribuno  che  la  proponeva  si  opponesse uno  altro  Tribuno;  o talvolta cederne  parte;  ovvero  mandare  una  colonia in  quel  luogo  che  si  avesse  a distribuire:  come  intervenne  del  contado di  Anzio,  per  il  quale  surgendo  questa disputa  della  legge,  si  mandò  in  quel luogo  una  colonia  traila  di  Roma,  alla quale  si  consegnasse  detto  contado.  Dove L.  usa  un  termine  notabile, dicendo  clic  con  ditTìcultà  si  trovò  in Roma  eli i desse  il  nome  per  ire  in  detta colonia:  tanto  era  quella  Plebe  più  pronta a volere  desiderare  le  cose  in  Homa, che  a possederle  in  Anzio  ! Andò  questo umore  di  questa  legge  così  travagliandosi un  tempo,  tanto  che  i Romani  cominciarono a condurre  le  loro  armi  nelle estreme  parti  di  Italia,  o fuori  di  Italia; dopo  al  qual  tempo  parve  che  la  restasse. Il  che  nacque  perchè  i campi  che  possedevano i nimici  di  Roma  essendo  discosti dagli  occhi  della  Plebe,  cd  in  luogo dove  non  gli  era  facile  il  coltivargli, veniva  meno  ad  esserne  desiderosa:  ed ancora  i Romani  erano  meno  punitori tic’ loro  nemici  in  siinil  modo;  e quando pure  spogliavano  alcuna  terra  del  suo contado,  vi  distribuivano  colonia.  Tanto che  per  tali  cagioni  questa  legge  stette come  addormentata  inOno  a’  Gracchi: da’  quali  essendo  poi  svegliata,  rovinò al  tutto  la  libertà  romana;  perchè  la trovò  raddoppiata  la  potenza  de’  suoi avversari,  e si  accese  per  questo  tante odio  intra  la  Plebe  ed  il  Senato,  che  si venne  all’  armi  ed  al  sangue,  fuor  d’ogni modo  e costume  civile.  Talché,  non  potendo i pubblici  magistrati  rimediarvi, nè  sperando  più  alcuna  delle  fazioni  in quelli,  si  ricorse  a’ rimedi  privati,  e ciascuna delle  parti  pensò  di  farsi  uno  capo che  la  difendesse.  Pervenne  in  questo scandalo  e disordine  la  Plebe,  e volse  la sua  riputazione  a Mario,  tanto  che  la  lo fece  quattro  volte  Consolo;  ed  in  tanto continuò  con  pochi  intervalli  il  suo  consolato, che  si  potette  per    stesso  far Consolo  tre  altre  volte.  Contra  alla  qual peste  non  avendo  la  Nobiltà  alcuno  rimedio, si  volse  a favorir  Siila;  e fatto quello  capo  della  parte  sua,  vennero  alle guerre  civili  * e dopo  molto  sangue  e variar  di  fortuna,  rimase  superiore  la Nobiltà.  Risuscitorono  poi  questi  umori a tempo  di  Cesare  c di  Pompeo;  perchè, fattosi  Cesare  capo  della  parte  di  Mario, c Pompeo  di  quella  di  Siila,  venendo alle  mani  rimase  supcriore  GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale,  adunque, principio  e fine  ebbe  la  legge  agraria. E benché  noi  mostrassimo  altrove, come  le  inimicizie  di  Roma  intra  il  Senato c la  Plebe  mantenessero  libera  Roma, per  nascerne  da  quelle  leggi  in  favore della  libertà  ; e per  questo  paia disforme  a tale  conclusione  il  fine  di questa  legge  agraria  ; dico  come,  per questo,  io  non  mi  rimuovo  da  tale  oppinionc:  perchè  egli  è tanta  P ambizione de’  grandi,  che  se  per  varie  vie  ed in  vari  modi  la  non  ò in  una  città  sbattuta, tosto  riduce  quella  città  alla  rovina sua.  In  modo  che,  se  la  contenzione  della legge  agraria  penò  trecento  anni  a fare Roma  serva,  si  sarebbe  condotta,  per avventura,  molto  più  tosto  iti  servitù, quando  la  Plebe,  e con  questa  legge  c con  altri  suoi  appetiti,  non  avesse  sempre frenato  la  ambizione  de’  Nobili.  Vedasi per  questo  ancora,  quanto  gli  uomini stimano  più  la  roba  che  gli  onori. Perchè  la  Nobiltà  romana  sempre  negli onori  eedè  senza  scandali  istraordinari alla  Plebe;  ma  come  si  venne  alla  roba, fu  tanta  la  ostinazione  sua  nel  difenderla, che  la  Plebe  ricorse,  per  Sfo-gare 1’  appetito  suo,  a quelli  istraordinari che  di  sopra  si  discorrono.  Del  quale disordine  furono  motori  i Gracchi; de’  quali  si  dcbbe  laudare  più  la  intenzione che  la  prudenza.  Perchè,  a voler levar  via  uno  disordine  cresciuto  in  una repubblica,  e per  questo  fare  una  legge che  riguardi  assai  indietro,  è partito male  considerato;  e,  come  di  sopra  largamente si  discorse,  non  si  fa  altro  che accelerare  quel  male  a che  quel  disordine ti  conduce  : ma  temporeggiandolo, o il  male  viene  più  tardo,  o per    medesimo col  tempo,  avanti  che  venga  al fine  suo,  si  spegne. XXXVIII.  — Le  repubbliche  deboli sono  male  risolute, e non  si  sanno deliberare  ; c se  le  pigliano  mai  alcuno partito j nasce  più  da  necessità che  da  elezione. Essendo  in  Roma  una  gravissima  pestilenza, e parendo  per  questo  agli  Volaci ed  agli  Equi  che  fusse  venuto  il tempo  di  potere  oppressar  Roma;  fatti questi  due  popoli  uno  grossissimo  esercito, assalirono  gli  Latini  e gli  Ernici, e guastando  il  loro  paese,  furono  constretti gli  Latini  c gli  Ernici  farlo  intendere a Roma,  c pregare  che  fussero difesi  da' Romani:  ai  quali,  sendo  i Romani gravati  dal  morbo,  risposero  che pigliassero  partito  di  difendersi  da  loro medesimi  e con  le  loro  armi,  perchè essi  non  li  potevano  difendere.  Dove  si conosce  la  generosità  e prudenza  di quel  Senato,  e come  sempre  in  ogni  fortuna volle  essere  quello  che  fusse  principe delle  deliberazioni  che  avessero  a pigliare  i suoi;    si  vergognò  mai  deliberare una  cosa  che  fusse  contraria al  suo  modo  di  vivere  o ad  altre  deliberazioni fatte  da  lui,  quando  la  necessità gliene  comandava.  Questo  dico  perchè altre  volte  il  medesimo  Senato  aveva vietato  ai  detti  popoli  l’armarsi  e difendersi ; talché  ad  uno  Senato  meno prudente  di  questo,  sarebbe  parso  cadere del  grado  suo  a concedere  loro tale  difensione.  Ma  quello  sempre  giudicò le  cose  come  si  debbono  giudicare, e sempre  prese  il  meno  reo  partilo  per migliore;  perchè  male  gli  sapeva  non potere  difendere  i suoi  sudditi;  male gli  sapeva  che  si  armassino  senza  loro, per  le  ragioni  dette,  e per  molte  altre che  si  intendono:  nondimeno,  conoscendo che  si  sarebbono  armati,  per  necessità, a ogni  modo,  avendo  il  nimico  addosso;  prese  la  parte  onorevole,  e volle che  quello  clic  gli  avevano  a fare,  lo facessino  con  licenzia  sua,  acciocché avendo  disubbidito  per  necessità,  non si  avvezzassino  a disubbidire  per  elezione. E benché  questo  paia  partito  che da  ciascuna  repubblica  dovesse  esser preso;  nientedimeno  le  repubbliche  deboli e male  consigliate  non  gli  sanno pigliare,    si  sanno  onorare  di  simili necessità.  Aveva  il  duca  Valentino  presa Faenza,  e fatto  calare  Bologna  agli  accordi suoi.  Dipoi,  volendosene  tornare  a Roma  per  la  Toscana,  mandò  in  Firenze uno  suo  uomo  a domandare  il passo  per    e per  il  suo  esercito.  Consultossi  in  Firenze  come  si  avesse  a governare questa  cosa,    fu  mai  consigliato per  alcuno  di  concedergliene.  In che  non  si  seguì  il  modo  romano:  perchè, sendo  il  Duca  armatissimo,  ed  i Fiorentini  in  modo  disarmati  che  non gli  potevano  vietare  il  passare,  era  molto piu  onore  loro,  che  paresse  che  passasse con  permissione  di  quelli,  che  a forza; perchè,  dove  vi  fu  al  tutto  il  loro  vituperio, sarebbe  stato  in  parie  minore quando  I*  avessero  governata  altrimenti. Ma  la  più  cattiva  parte  che  abbino  le repubbliche  deboli,  è essere  irresolute; in  modo  che  lutti  i partili  che  le  pigliano, gli  pigliano  per  forza;  e se  vieti loro  fatto  alcuno  bene,  lo  fanno  forzato, c non  per  prudenza  loro.  Io  voglio  dare di  questo  duoi  altri  esempi,  occorsi ne*  tempi  nostri  nello  stato  della  nostra città,  nel  mille  cinquecento.  Ripreso  che il  re  Luigi  XII  di  Francia  ebbe  Milauo, desideroso  di  rendergli  Pisa,  per  aver cinquanta  mila  ducati  che  gli  erano  stati promessi  da’  Fiorentini  dopo  tale  restituzione, mandò  gli  suoi  eserciti  verso Pisa,  capitanati  da  monsignor  Beaumonte;  benché  francese,  nondiraanco uomo  in  cui  i Fiorentini  assai  confidavano. Condussesi  questo  esercito  e questo capitano  intra  Cascina  e Pisa,  per andare  a combattere  le  mura;  dove  dimorando  alcuno  giorno  per  ordinarsi alla  espugnazione,  vennero  oratori  Pisani a Beaumonte,  e gli  offerirono  di dare  la  città  allo  esercito  francese  con questi  patti:  che,  sotto  la  fede  del  re, promettesse  non  la  mettere  in  mano de’  Fiorentini,  prima  che  dopo  quattro mesi.  Il  qual  partito  fu  dai  Fiorentini al  tutto  rifiutato,  in  modo  che  si  seguì nello  andarvi  a campo,  e partissene  con vergogna.    fu  rifiutato  il  partito  per altra  cagione,  che  per  diffidare  dellafede  del  re;  come  quelli  che  per  debolezza di  consiglio  si  erano  per  forza messi  nelle  mani  sue:  e dall’altra  parte, non  se  ne  fidavano,    vedevano quanto  era  meglio  che  il  re  potesse  rendere loro  Pisa  sendovi  dentro,  e non  la rendendo  scoprire  P animo  suo,  che  non la  avendo,  poterla  loro  promettere,  e loro  essere  forzati  comperare  quelle promesse.  Talché  molto  più  utilmente arebbono  fatto  a consentire  che  Beaumonlc  V avesse,  sotto  qualunque  pròmessa,  presa:  come  se  ne  vide  la  espcrienza  dipoi,  die  essendosi ribellato  Arezzo,  venne  a’  soccorsi  de*  Fiorentini mandato  dal  re  di  Francia  monsignor Imbalt  con  gente  francese;  il qual  giunto  propinquo  ad  Arezzo,  dopo poco  tempo  cominciò  a praticare  accordo con  gli  Aretini,  i quali  sotto  certa fede  volevano  dare  la  terra,  a similitudine de’ Pisani.  Fu  rifiutato  in  Firenze tale  partito  ; il  che  veggendo  monsignor Imbalt,  e parendogli  come  i Fiorentini se  ne  inlendessino  poco,  cominciò  a tenere le  pratiche  dello  accordo  da  se, senza  participazione  de’  Commessaci  : tanto  che  e’  io  conchiuse  a suo  modo,  e sotto  quello  con  le  sue  genti  se  ne  entrò in  Arezzo,  facendo  intendere  a’  Fiorentini come  egli  erano  matti,  e non  si intendevano  delle  cose  del  mondo:  che se  volevano  Arezzo,  lo  fucessino  intendere al  re,  il  quale  lo  poteva  dar  loro molto  meglio,  avendo  le  sue  genti  in quella  città,  che  fuori.  Non  si  restava  in  Firenze  di  lacerare  e biasimare  detto Imbalt;    si  restò  mai,  infino  a tanto che  si  conobbe  che  se  Beaumonte  fusse stato  simile  a Imbalt,  si  sarebbe  avuto Pisa  come  Arezzo.  E cosi,  per  tornare a proposito,  le  repubbliche  irresolute non  pigliano  mai  partiti  buoni,  se  non per  forza,  perchè  la  debolezza  loro  non le  lascia  mai  deliberare  dove  è alcuno dubbio;  e se  quel  dubbio  non  è cancellalo da  una  violenza,  che  le  sospinga, stanno  sempre  mai  sospese. XXXIX.  — In  diversi  popoli si  veggono  spesso  i medesimi  accidenti. E’  si  conosce  facilmente  per  chi  considera le  cose  presenti  e le  antiche,  come in  tutte  le  città  ed  in  tutti  i popoli sono  quelli  medesimi  desiderii  e quelli medesimi  umori,  e come  vi  furono  sempre : in  modo  che  gli  è facil  cosa  a chi esamina  con  diligenza  le  cose  passate, prevedere  in  ogni  repubblica  le  future, c farvi  quelli  rimedi  che  dagli  antichi sono  stati  usati  ; o non  ne  trovando  degli usati,  pensarne  de’ nuovi,  per  la  similitudine degli  accidenti.  Ma  perchè queste  considerazioni  sono  neglette,  o non  intese  da  chi  legge  ; o se  le  sono intese,  non  sono  conosciute  da  chi  governa ; ne  seguita  che  sempre  sono  i medesimi  scandali  in  ogni  tempo.  Avendo la  città  di  Firenze perduto parte  dello  imperio  suo,  come  Pisa  ed altre  terre,  fu  necessitata  a fare  guerra* a coloro  che  le  occupavano.  E perchè chi  le  occupava  era  potente,  ne  seguiva che  si  spendeva  assai  nella  guerra,  senza alcun  frutto  ; dallo  spendere  assai  ne risultava  assai  gravezze  ; dalle  gravezze, infinite  querele  del  popolo  ; e perchè questa  guerra  era  amministrata  da  uno magistrato  di  dieci  cittadini  che  si  chiamavano i Dieci  della  guerra,  1*  universale cominciò  a recarselo  in  dispetto, come  quello  che  fusse  cagione  della guerra  e delle  spese  di  essa;  e corniliciò  a persuadersi  che  tolto  via  detto magistrato,  fusse  tolto  via  la  guerra  : tanto  che  avendosi  a rifare,  non  se  gli fecero  gli  scambi  ; e lasciatosi  spirare, si  commisero  le  azioni  sue  alla  Signoria. La  qual  deliberazione  fu  tanto  perniziosa,  che  non  solamente  non  levò  la  guerra, come  lo  universale  si  persuadeva  ; ma  tolto  via  quelli  uomini  che  con  prudenza la  amministravano,  ne  seguì  tanto disordine,  die,  oltre  a Pisa,  si  perde Arezzo  e molti  altri  luoghi:  in  modo che,  ravvedutosi  il  popolo  dello  errore suo,  e come  la  cagione  del  male  era  la febbre  e non  il  medico,  rifece  il  magistrato de’  Dieci.  Questo  medesimo  umore si  levò  in  Roma  conira  al  nome  de’ Consoli : perchè,  veggendo  quello  Popolo  nascere 1’  una  guerra  dall'  altra,  e non  poter mai  riposarsi  ; dove  e'  dovevano pensare  che  la  nascesse  dalla  ambizione de’ vicini  che  gli  volevano  opprimere; pensavano  nascesse  dall’  ambizione  dei Nobili,  che  non  potendo  dentro  in  Roma gastigar  la  Plebe  difesa  dalla  potestà  tribunizia, la  volevano  condurre  fuori  di Roma  sotto  i Consoli,  per  opprimerla dove  non  aveva  aiuto  alcuno.  E pensarono per  questo,  che  fusse  necessario  o levar  via  i Consoli,  o regolare  in  modo la  loro  potestà,  che  e*  non  avessino  autorità sopra  il  popolo,    fuori    in casa.  11  primo  che  tentò  questa  legge,  fu uno  Terentillo  tribuno  ; il  quale  proponeva che  si  dovessero  creare  cinque uomini  che  dovessino  considerare  la  potenza de*  Consoli,  e limitarla.  II  che  alterò assai  la  Nobiltà,  parendoli  che  la maiestà  dell’  imperio  fusse  al  tutto  declinata, talché  alla  Nobiltà  non  restasse più  alcuno  grado  in  quella  Repubblica. Fu  nondimeno  tanta  la  ostinazione  dei Tribuni,  che  il  nome  consolare  si  spense ; e furono  in  fine  contenti,  dopo qualche  altro  ordine,  piuttosto  creare Tribuni  con  potestà  consolare,  che  i Consoli : tanto  avevano  più  in  odio  il  nome che  le  autorità  loro.  E cosi  seguitorno lungo  tempo,  infino  che  conosciuto  io errore  loro,  còme  i Fiorentini  ritornorno ai  Dieci,  così  loro  ricreorno  i Consoli.  La  creazione  del DECEMVIRATO in  Roma,  e quello  che  in  essa  è da notare:  dove  si  considera, intra  molte altre  cose,  come  si  può  salvare  per simile  accidente,  o oppressore  una  repubblica. Volendo  discorrere  particolarmente sopra  gli  accidenti  che  nacquero  in  Roma per  la  creazione  del  decemvirato, non  mi  pare  soperchio  narrare  prima tutto  quello  che  segui  per  simile  creazione, e dipoi  disputare  quelle  porti  che sono  in  esse  azioni  notabili  : le  quali  sono molte,  e di  grande  considerazione,  cosi per  coloro  che  vogliono  mantenere  una repubblica  libera,  come  per  quelli  che disegnassino  sommetterla.  Perchè  in  tale discorso  si  vedranno  molti  errori  fatti dal  Senato  e dalla  Plebe  in  disfavore della  libertà;  e molli  errori  fatti  da  APPIO,  capo  del  decemvirato;  in  disfavore di  quella  tirannide  che  egli  si  aveva  pre-supposto stabilire  in  Roma.  Dopo  molte deputazioni  c contenzioni  seguite  intra il  Popolo  e la  Nobiltà  per  fermare  nuove leggi  in  Roma,  per  le  quali  e’  si  stabilisse più  la  libertà  di  quello  stato;  mandarono, d’  accordo,  Spurio  Postumio  con duoi  altri  cittadini  ad  Atene  per  gli  essenti di  quelle  leggi  che  Solone  dette  a quella  città,  acciocché  sopra  quelle  potessero fondare  le  leggi  romane.  Andati e tornati  costoro,  si  venne  alla  creazione degli  uomini  eh’  avessino  ad  esaminare e fermare  de.tte  leggi;  e ercorno  dieci cittadini  per  un  anno,  tra  i quali  fu creato  APPIO CLAUDIO,  il primo filosofo romano, uomo  sagace  ed inquieto.  E perchè  e'  potessimo  senza  alcuno rispetto  creare  tali  leggi,  si  levarono di  Roma  tutti  gli  altri  magistrati, ed  in  particolare  i Tribuni  e i Consoli, e levossi  lo  appello  al  Popolo  ; in  modo che  tale  magistrato  veniva  ad  essere  al tulio  principe  di  Roma.  Appresso  ad APPIO  si  ridusse  tutta  1’  autorità  degli altri  suoi  compagni,  per  gli  favori  clic gli  faceva  la  Plebe  : perché  egli  s’ era fatto  in  modo  popolare  con  le  dimostrazioni, che  pareva  meraviglia  eh’  egli  avesse preso    presto  una  nuova  natura  c uno  nuovo  ingegno,  essendo  stato  tenuto innanzi  a questo  tempo  un  crudele persecutore  della  Plebe.  Governaronsi  questi  Dieci  assai  civilmente,  non tenendo  più  che  dodici  littori,  i quali andavano  davanti  a quello  ch’era  infra loro  preposto.  E bench’egli  avessino 1’ autorità  assoluta,  nondimeno  avendosi a punire  un  cittadino  romano  per  omicidio, lo  citorno  nel  conspelto  del  Popolo, e da  quello  lo  fecero  giudicare. Scrissero  le  loro  leggi  in  dicci  tavole, ed  avanti  che  le  confirmassero,  le  messono  in  pubblico,  acciocché  ciascuno  le potesse  leggere  c disputarle;  acciocché si  conoscesse  se  vi  era  alcuno  difetto, per  poterle  binanti  alla  confirmazionc loro  emendare.  Fece,  in  su  questo,  Appio nascere  un  rornorc  per  Bomn,  che se  a queste  dieci  tavole  se  n’  aggiungcssiuo  due  altre,  si  darebbe  a quelle  la loro  perfezione  ; talché  questa  oppinionc dette  occasione  al  Popolo  di  rifare  i Dieci per  uno  altro  anno:  a che  il  Popolo  si  accordò volentieri;  si  perchè i Consoli  non  si rifacessino;    perchè  speravano  loro  potere stare  senza  Tribuni,  sendo  loro  giudici delle  cause,  come  di  sopra  si  disse. Preso,  adunque,  partito  di  rifargli,  tutta la  Nobiltà  si  mosse  a cercare  questi  onori, ed  intra  i primi  era  Appio;  ed  usava tanta  umanità  verso  la  Plebe  nel  domandarla, che  la  cominciò  ad  essere  sospetta a suoi  compagni  : credebant  cnim  liaud gratuitam  in  lanla  superbia  comilatcmfore.  E dubitando  di  opporsegli  apertamente, diliberarono  farlo  con  arte;  e benché  e’  fusse  minore  di  tempo  di  tutti, dettono  a lui  autorità  di  proporre  i futuri Dieci  al  popolo,  credendo  eh*  egli osservasse  i termini  degli  altri  di  non proporre    medesimo,  sendo  cosa  inusitata e ignominiosa  in  Roma,  Me  vero imprdimentum  prò  occasione  arripuit ; e nominò    intra  i primi,  con meraviglia  e dispiacere  di  tutti  i Nobili: nominò  poi  nove  altri  al  suo  proposito. La  qual  nuova  creazione  fatta  per  uu altro  anno,  cominciò  a mostrare  al  Popolo cd  alla  Nobiltà  lo  error  suo.  Perchè subito  Appio:  finem  fedi  ferenda aliena  persona  ; e cominciò  a mostrare la  innata  sua  superbia,  ed  in  pochi  dì riempiè  di  suoi  costumi  i suoi  compagni. E per  Sbigottire  il  Popolo  ed  il  Senato, in  scambio  di  dodici  littori,  ne  feciono  cento  venti.  Stette  la  paura  eguale qualche  giorno  ; ma  cominciarono  poi ad  intrattenere  il  Senato,  e battere  la Plebe:  e s’ alcuno  battuto  dall*  uno,  appellava ali’  altro,  era  peggio  trattalo  nelP appeltagione  che  nella  prima  causa.  In modo  che  la  Plebe,  conosciuto  lo  errore suo,  cominciò  piena  di  afflizione  a riguardare in  viso  i Nobili;  et  inde  libcrtatis captare  a urani, linde  servitutem  tiinendoj in  cum  s taluni  rempublicam  adduxerant. E alla  Nobiltà  era  grata  questa  loro  afflizione, ut  ipsij  teedio  prcesenliunij  Consules  desiderar ent.  Vennero  i di  clic terminavano  l’anno:  le  due  tavole  delle leggi  erano  fatte,  ma  non  pubblicate.  Da questo  i Dicci  presono  occasione  di  continovare  nel  magistrato,  c cominciorono a tenere  con  violenza  lo  Stato,  e farsi satelliti  della  gioventù  nobile,  alla  quale davano  i beni  di  quelli  che  loro  condannavano. Quibus  donis  Juventus  coirumpebatur, et  malebat  liccnliam  suoni, i quatn  omnium  liberlatcm.  Nacque  in  questo tempo,  che  i Sabini  ed  i Volsci  mossero guerra  a’ Romani:  in  su  la  qual paura  cominciarono  i Dieci  a vedere  la debolezza  dello  Stato  loro;  perchè  senza il  Senato  non  potevano  ordinare  la  guerra, e ragunando  il  Senato  pareva  loro perdere  lo  Stato.  Pure,  necessitati,  presono questo  ultimo  partito:  e ragunali i Senatori  insieme,  molti  de’ Senatori parlorono  contro  alla  superbia  de’Dieci, ed  in  particolare  Valerio  ed  Orazio  : e la  autorità  loro  si  sarebbe  al  tutto  spenta, se  non  che  il  Senato,  per  invidia della  Plebe,  non  volle  mostrare  l’autorità sua,  pensando  che  se  i Dieci  deponevano  il  magistrato  voluntarii,  che  potesse essere  che  i Tribuni  della  plebe non  si  rifacessero.  Dcliberossi  adunque la  guerra;  uscissi  fuori  con  due  eserciti guidati  da  parte  di  detti  Dieci;  APPIO rimase  a governare  la  città.  Donde nacque  che  si  innamorò  di  Virginia,  e che  volendola  torre  per  forza,  il  padre VIRGINIO, PER LIBERARLA, L’AMMAZZO:  donde seguirono  i tumulti  di  Roma  e degli eserciti  ; i quali  ridottisi  insieme  con  il rimanente  della  Plebe  romana,  se  ne  andarono nel  Monte  Sacro,  dove  stettero tanto  clic  i Dieci  deposono  il  magistrato, e che  furono  creali  i Tribuni  ed  i Consolide ridotta  Roma  nella  forma  della antica  sua  libertà.  Notasi,  adunque,  per questo  testo,  in  prima  esser  nato  in  Roma  questo  inconveniente  di  creare  questa tirannide,  per  quelle  medesime  cagioni che  nascono  la  maggiore  parte delie  tirannidi  nelle  città:  e questo  è da  troppo  desiderio  del  popolo  d* esser libero,  e da  troppo  desiderio  de’  nobili di  comandare.  E quando  c’  non  convengono a fare  una  legge  in  favore  della libertà,  ma  gettasi  qualcuna  delle  parti a favorire  uno,  allora  è che  subito  la tirannide  surge.  Convennono  il  Popolo ed  i Nobili  di  Poma  a creare  i Dieci,  e crearli  con  tanta  autorità,  per  desiderio che  ciascuna  delle  parti  aveva,  1’  una  di spegnere  il  nome  consolare,  l’altra  il tribunizio.  Creati  che  furono,  parendo alla  Plebe  che  Appio  fusse  diventato popolare  c battesse  la  Nobiltà,  si  volse il  Popolo  a favorirlo.  E quando  un  popolo si  conduce  a far  questo  errore  di dare  riputazione  ad  uno  perchè  balta quelli  che  egli  ha  in  odio,  e che  quello uno  sia  savio,  sempre  interverrà  che  diventerà tiranno  di  quella  città.  Perchè egli  attenderà,  insieme  con  il  favore  del popolo,  a spegnere  la  nobiltà  ; e non  si volterà  inai  alla  oppressione  del  popolo, se  non  quando  ei  V arà  spenta;  nel  qual tempo  conosciutosi  il  popolo  essere  servo, non  abbi  dove  rifuggire.  Questo  modo hanno  tenuto  tutti  coloro  che  hanno  fondato tirannidi  in  le  repubbliche:  c se questo  modo  avesse  tenuto  APPIO,  quella sua  tironnide  arebbe  preso  più  vita,  e non  sarebbe  mancata  si  presto.  Ma  ei fece  tutto  il  contrario,    si  potette  governare più  imprudentemente;  cliè  per tenere  la  tirannide,  c’si  fece  inimico  di coloro  che  glie  T avevano  data  c che gliene  potevano  mantenere,  ed  amico  di quelli  che  non  erano  concorsi  a dargliene e che  non  gliene  arebbono  potuta mantenere;  e perdèssi  coloro  che  gli erano  amici,  e cercò  di  avere  amici  quelli che  non  gli  potevano  essere  amici.  Perchè, ancora  che  i nobili  desiderino  tiranneggiare, quella  parte  della  nobiltà che  si  truova  fuori  della  tirannide,  è sempre  inimica  al  tiranno;    quello  se la  può  mai  guadagnare  tutta,  per  l’ambizione grande  e grande  avarizia  che  .è in  lei,  non  polendo  il  tiranno  avere  nè tante  ricchezze    tanti  onori,  che  a tutta satisfaccia.  E così  Appio,  lasciando  il Popolo  ed  accostandosi  a’ Nobili,  fece  uno errore  evidentissimo,  e per  le  ragioni dette  di  sopra,  e perchè  a volere  con violenza  tenere  una  cosa,  bisogna  che sia  più  potente  chi  sforza,  che  chi  è sforzato.  Donde  nasce  che  quelli  tiranni che  hanno  amico  lo  universale  ed  mimici i grandi,  sono  più  sicuri;  per  essere la  loro  violenza  sostenuta  da  maggior forze,  che  quella  di  coloro  che  hanno per  inimico  il  popolo  ed  amica  la  nobiltà. Perchè  con  quello  favore  bastano a conservarsi  le  forze  intrinseche;  come bastorno  a Nabide  tiranno  di  Sparta, quando  tutta  Grecia  ed  il  popolo  romano lo  assaltò  : il  quale  assicuratosi  di  pochi nobili,  avendo  amico  il  popolo,  con  quello si  difese;  il  che  non  arebbe  potuto  fare avendolo  inimico.  In  quello  nitro  grado per  aver  pochi  amici  dentro,  non  bastano le  forze  intrinseche,  ma  gli  conviene  cercare di  fuora.  Ed  hanno  ad  essere  di tre  sorti:  1’ una  satelliti  forestieri,  die li  guardino  la  persona;  l’altra  armare il  contado,  che  faccia  quell’  oflìzio  che arebbe  a fare  la  plebe;  la  terza  aderirsi co’  vicini  potenti,  che  li  difendino*  Chi tiene  questi  modi  e gli  osserva  bene, ancora  ch’egli  avesse  per  inimico  il  popolo, potrebbe  in  qualche  modo  salvarsi. Ma  APPIO non  poteva  far  questo  di  guadagnarsi il  contado,  scudo  una  medesima cosa  il  contado  e Roma;  c quel  che  poteva fare,  non  seppe:  talmente  che  rovinò nc’  primi  principii  suoi.  Fecero  il Senato  ed  il  Popolo  in  questa  creazione del  decemvirato  errori  grandissimi  : perchè ancora  che  di  sopra  si  dica,  in  quel discorso  che  si  fa  del  Dittatore,  che quelli  magistrati  che  si  fanno  da  per loro,  non  quelli  che  fa  il  popolo,  sono nocivi  alla  libertà;  nondimeno  il  popolo debbe,  quando  egli  ordina  i magistrali, fargli  in  modo  che  gli  abbino  avere  qualche rispetto  a diventare  tristi.  E dove e’ si  debbe  proporre  loro  guardia  per mantenergli  buoni,  i Romani  lalevorono, facendolo  solo  magistrato  in  Roma,  ed annullando  tutti  gli  altri,  per  la  eccessiva voglia  (come  di  sopra  dicemmo)  che il  Senato  aveva  di  spegnere  i Tribuni, e la  Plebe  di  spegnere  i Consoli;  la  quale gli  accecò  in  modo,  che  concorsono  in tale  disordine.  Perchè  gli  uomini,  come diceva  il  re  Ferrando,  spesso  fanno  come certi  minori  uccelli  di  rapina  ; ne’ quali  è tanto  desiderio  di  conseguire la  loro  preda,  a che  la  natura  gli  incita, che  non  sentono  un  altro  maggior  uccello che  sia  loro  sopra,  per  ammazzargli. Conoscesi,  adunque,  per  questo  discorso, come  nel  principio  proposi,  lo errore  del  Popolo  romano,  volendo  salvare la  libertà  ; e gli  errori  di  APPIO, volendo  occupare  la  tirannide.  Sahare  dalla  Umilila  alla superbia j dalla  pietà  alta  crudeltà senza  debiti  mezzij  è cosa  imprudente ed  inutile. Oltre  agli  altri  termini  male  usati  da APPIO  per  mantenere  la  tirannide,  non fu  di  poco  momento  saltare  troppo  presto da  una  qualità  ad  un’altra.  Perchè la  astuzia  sua  nello  ingannare  la  Plebe, simulando  d’essere  uomo  popolare,  fu bene  usata;  furono  ancora  bene  usati  i termini  che  tenue  perchè  i Dieci  si avessino  a rifare;  fu  ancora  bene  usata quella  audacia  di  creare    stesso  contra  alla  oppinione  della  Nobiltà;  fu bene  usato  creare  colleghi  a suo  proposito: ma  non  fu  già  bene  usato,  come egli  ebbe  fatto  questo,  secondo  che  di sopra  dico,  mutare  in  un  subito  natura; e di  amico,  mostrarsi  nimico  alla Plebe;  di  umano,  superbo;  di  facile, difficile;  e farlo  tanto  presto,  che  senza scusa  veruna  ogni  uomo  avesse  a conoscer  la  fallacia  dello  animo  suo.  Perchè chi  è paruto  buono  un  tempo,  e vuole a suo  proposito  diventar  tristo,  io  debbe  fare  per  gli  debiti  mezzi  ; ed  in  modo condurvisi  con  le  occasioni,  che  innanzi che  la  diversa  natura  ti  tolga  de’ favori vecchi,  la  te  ne  ubbia  dati  tanti  degli nuovi,  che  tu  non  venga  a diminuire  la tua  autorità:  altrimenti,  trovandoti  scoperto e senza  amici,  rovini. Quanto  gli  uomini facilmente  si  possono  corrompere. Notasi  ancora  in  questa  materia  del decemvirato,  quanto  facilmente  gli  uomini si  corrompono,  e fatinosi  diventare di  contraria  natura,  ancora  che  buoni e bene  educati;  considerando  quanto quella  gioventù  che  Appio  si  aveva eletta  intorno,  cominciò  ad  essere  amica della  tirannide  per  uno  poco  d’utilità che  gliene  conseguiva  ; e come Quinto  Fabio,  uno  del  numero  de’ secondi Dieci,  sendo  uomo  oliimo,  accecalo da  un  poco  di  ambizione,  e persuas dulia  malignità  di  APPIO,  mutò  i suoi  buoni  costumi  in  pessimi,  e diventò simile  a lui.  Il  che  esaminato  bene, farà  tanto  più  pronti  i legislatori  delle repubbliche  o de’ regni  a frenare  gli appetiti  umani,  c torre  loro  ogni  speranza di  potere  impune  errare. Quelli  che  combattono  per la  gloria  propria,  sono  buoni  e fedeli soldati. Considerasi  ancora  per  il  soprascritto trattato,  quanta  differenza  è da  uno esercito  contento  e che  combatte  per  la gloria  sua,  a quello  che  è male  disposto e che  combatte  per  la  ambizione  d’  altri. Perchè,  dove  gli  eserciti  romani  solevano sempre  essere  vittoriosi  sotto  i Consoli, sotto  i Decemviri  sempre  perderono.  Da questo  essempio  si  può  conoscere  parte delle  cagioni  della  inutilità  de’ soldati mercenurii;  i quali  non  hanno  altra  cagione clic  li  tenga  fermi,  che  un  poco di  stipendio  che  tu  dai  loro.  La  qual cagione  non  è nè  può  essere  bastante  a fargli  fedeli,    tanto  tuoi  amici,  che voglino  morire  per  le.  Perchè  in  quelli eserciti  che  non  è una  affezione  verso di  quello  per  chi  e’  combattono,  che  gli facci  diventare  suoi  partigiani,  non  mai vi  potrà  essere  tanta  virtù  che  basti  a resistere  ad  uno  nimico  un  poco  virtuoso. G perchè  questo  amore  non  può nascere,    questa  gara,  da  altro  che da’ sudditi  tuoi;  è necessario  a volere tenere  uno  stato,  a volere  mantenere una  repubblica  o uno  regno,  armarsi de’  sudditi  suoi  : come  si  vede  che  hanno fatto  tutti  quelli  che  con  gli  eserciti hanno  fatti  grandi  progressi.  Avevano gli  eserciti  romani  sotto  i Dieci  quella medesima  virtù;  ma  perchè  in  loro  non era  quella  medesima  disposizione,  non facevano  gli  usilati  loro  effetti.  Ma  com prima  il  magistrato  de’  Dieci  fu  spento, e che  loro  come  liberi  cominciorno  amilitare,  ritornò  in  loro  il  medesimo animo;  e per  conscguente,  le  loro  imprese avevano  il  loro  fine  felice,  secondo la  antica  consuetudine  loro. Una  moltitudine  senza capo,  è inutile:  e non  si  debbo  minacciare prima,  c poi  chiedere  l'autorità. Era  la  Plebe  romana  per  lo  accidente di  Virginia  ridotta  armata  nel  Monte Sacro.  Mandò  il  Senato  suoi  ambasciadori  a dimandare  con  quale  autorità egli  avevano  abbandonati  i loro  capitani, e ridottisi  nel  Monte.  E tanta  era stimata  l’autorità  del  Senato,  che  non avendo  la  Plebe  intra  loro  capi,  ninno si  ardiva  a rispondere.  E L. dice,  ohe  e’  non  mancava  loro  materia a rispondere,  ma  mancava  loro  chi  facesse la  risposta.  La  qual  cosa  dimonstra  appunto  la  inutilità  d’  una  moltitudine  senza  capo.  Il  qual  disordinefu conosciuto  da  Virginio,  e per  suo  ordine si  creò  venti  Tribuni  militari,  che fussero  loro  capo  a rispondere  e convenire col  Senato.  Ed  avendo  chiesto  che si  mandasse  loro  Valerio  ed  Orazio,  ai quali  loro  direbbono  la  voglia  loro,  non vi  volsono  andare  se  prima  i Dieci  non deponevano  il  magistrato:  ed  arrivati sopra  il  Monte  dove  era  la  Plebe,  fu domandato  loro  da  quella,  che  volevano che  si  creassero  i Tribuni  della  plebe, e che  si  avesse  ad  appellare  al  Popolo da  ogni  magistrato,  e che  si  dessino loro  tutti  i Dieci,  chè  gli  volevano  ardere vivi.  Laudarono  Valerio  cd  Orazio le  prime  loro  domande;  biasimorono P ultima  come  impia,  dicendo  : Crude - litatcm  dannatisj  in  crudclitaiem  ruitis ; e consigliamogli  che  dovessino  lasciare il  fare  menzione  de’ Dieci,  e ch’egli  attendessino  a pigliare  V autorità  e potestà loro:  dipoi  non  mancherebbe  loro modo  a satisfarsi.  Dove  apertamente  si conosce  quanta  stultizia  c poca  prudenza è domandare  una  cosa,  e dire prima:  io  voglio  far  male  con  essa; perchè  non  si  debbo  mostrare  l’animo suo,  ma  vuoisi  cercare  d’ottenere  quel suo  desiderio  in  ogni  modo.  Perchè e’  basta  a dimandare  a uno  le  armi, senza  dire:  io  ti  voglio  ammazzare  con esse;  potendo  poi  che  tu  bai  l’arme  in mano,  satisfare  allo  appetito  tuo. E cosa  di  malo  esempio | non  osservare  una  legge  falla, c massime  dallo  autore  d'essa:  e rinfre- scare  ogni  di  nuove  ingiurie  in  una t città,  è a chi  la  governa  dannosis-i simo. Seguito  lo  accordo,  e ridotta  Roma  in la  antica  sua  forma,  Virginio  citò  Appio innanzi  al  Popolo  a difendere  la  sua causa.  Quello  comparse  accompagnato da  molti  Nobili.  Virginio  comandò  che fussc  messo  in  prigione.  Cominciò  Appio a gridare,  ed  appellare  al  Popolo.  Virginio diceva  che  non  era  degno  di  avere quella  nppellagionc  che  egli  aveva distrutta,  ed  avere  per  difensore  quel Popolo  che  egli  aveva  offeso.  Appio  replicava, come  e’  non  aveano  a violare quella  appellagionc  ch'egli  avevano  con tanto  desiderio  ordinata.  Pertanto  egli fu  INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E benché  la scellerata  vita  di  Appio  meritasse  ogni supplicio,  nondimeno  fu  cosa  poco  civile violare  le  leggi,  e tanto  più  quella  che era  fatta  allora.  Perchè  io  non  credo che  sia  cosa  di  più  cattivo  esempio  in una  repubblica,  che  fare  una  legge  e non  la  osservare;  e tanto  più,  quanto la  non  è osservata  da  chi  l’ ha  falla. Essendo  Firenze stala riordinala  nel  suo  stato  con  l'aiuto  di frate  Girolamo  Savonarola,  gli  scritti del  quale  mostrano  la  dottrina,  la  prudenza, la  virtù  dello  animo  suo  ; ed avendo  intra  P altre  conslituzioni  per assicurare  i cittadini,  fatto  fare  una legge,  che  si  potesse  appellare  al  popolo dalle  sentenze  che,  per  caso  di  Stato, gli  Otto  c la  Signoria  dessino;  la  qual legge  persuase  più  tempo,  e con  difficoltà grandissima  ottenne:  occorse  che, poco  dopo  la  confirmazicne  d’essa,  furono condcunati  a morte  dalla  Signoria per  conto  di  Stato  cinque  cittadini;  e volendo  quelli  appellare,  non  furono lasciati,  e non  fu  osservata  la  legge.  Il che  tolse  più  riputazione  a quel  frate, che  nessun  altro  accidente:  perchè,  se quella  appellagione  era  utile,  ei  doveva farla  osservare;  s’ ella  non  era  utile, non  doveva  farla  vincere.  E tanto  più fu  notato  questo  accidente,  quanto  che il  frate  in  tante  predicazioni  che  fece poi  clic  fu  rotta  questa  legge,  non  mai o dannò  chi  P aveva  rotta,  o lo  scusò  ; come  quello  che  dannare  non  voleva, come  cosa  che  gli  tornava  a proposito  ; e scusare  non  la  poteva.  Il  che  avendo scoperto  l’animo  suo  ambizioso  e paitigiano,  gii  tolse  riputazione,  e dettegli assai  carico.  Offende  ancora  uno  Stato assai,  rinfrescare  ogni    nello  animo de’  tuoi  cittadini  nuovi  umori,  per  nuove ingiurie  ebe  a questo  e quello  si fucciano  : come  intervenne  a Roma  dopo il  decemvirato.  Perché  tutti  i Dieci,  ed altri  cittadini,  in  diversi  tempi  furono accusati  e condannati:  in  modo  che  gli era  uno  spavento  grandissimo  in  tutta la  Nobiltà,  giudicando  che  e’ non  si  avesse mai  a porre  fine  a simili  condennagioni,  fino  a tanto  che  tutta  la  Nobiltà non  fusse  distrutta.  Ed  arebbe  generato in  quella  città  grande  inconveniente,  se da  Marco  Duellio  tribuno  non  vi  fusse stato  provveduto;  il  qual  fece  uno  edit-to, che  per  uno  anno  non  fusse  lecito ad  alcuno  citare  o accusare  alcuno  cittadino contano  : il  che  rassicurò  tutta la  Nobiltà.  Dove  si  vede  quanto  sia  dannoso ad  una  repubblica  o ad  un  principe, tenere  con  le  continove  pene  ed offese  sospesi  e paurosi  gli  animi  dei sudditi.  E senza  dubbio,  non  si  può  tenere il  più  pernicioso  ordine:  perchè  gli uomini  che  cominciano  a dubitare  di avere  a capitar  male,  in  ogni  modo  si assicurano  ne’ pericoli,  e diventano  più audaci,  e meno  rispettivi  a tentare  cose nuove.  Però  è necessario,  o non  offendere mai  alcuno,  o fare  le  offese  ad  un tratto;  e dipoi  rassicurare  gli  uomini, e dare  loro  cagione  di  quietare  e fermare l’animo. Gli  uomini  salgono  da una  ambizione  ad  unJ  altra  ; c prima si  cerca  non  essere  offeso t dipoi  di offendere  altrui. Avendo  il  Popolo  romano  ricuperala la  libertà,  ritornato  nel  suo  primo  grado, ed  in  tanto  maggiore,  quanto  si erano  fatte  dimolte  leggi  nuove  In  corroborazione della  sua  potenza  ; pareva ragionevole  che  Roma  qualche  volta  quictasse.  Nondimeno,  per  esperienza  si  vide il  contrario;  perchè  ogni  di  vi  surgeva nuovi  tumulti  e nuove  discordie.  E perchè Tito  Livio  prudentissimamente  rende la  ragione  donde  questo  nasceva,  non mi  pare  se  non  a proposito  riferire  appunto le  sue  parole,  dove  dice  che  sempre o il  Popolo  o la  Nobiltà  insuperbiva, quanto  V altro  si  umiliava  ; e stando la  Plebe  quieta  intra  i termini  suoi,  cominciarono i giovani  nobili  ad  ingiuriarla ; ed  i Tribuni  vi  potevano  farepochi  rimedi,  perchè  ancora  loro  erano violati.  La  Nobiltà,  dalP  altra  parte,  ancora che  gli  paresse  che  la  sua  gioventù fusse  troppo  feroce,  nondimeno  aveva  a caro  che  avendosi  a trapassare  il  modo, lo  trapassassino  i suoi,  e non  la  Plebe. E cosi  il  desiderio  di  difendere  la  libertà faceva  che  ciascuno  tanto  si  prevaleva, eh’  egli  oppressava  l’ altro.  E V ordine di  questi  accidenti  è,  che  mentre clic  gli  uomini  cercano  di  non  temere, cominciano  a far  temere  altrui;  e quell ingiuria  ch’egli  scacciano  da  loro,  la pongono  sopra  un  altro:  come  se  fussc necessario  offendere,  o essere  offeso.  Vedesi,  per  questo,  in  quale  modo,  fra  gli altri,  le  repubbliche  si  risolvono;  e in che  modo  gli  uomini  salgono  da  una ambizione  ad  un’  altra  ; e come  quella sentenza  salustiaua  posta  in  bocca  di Cesare,  è verissima  : quod  omnia  mala exempla  bonis  mitiis  orla  sunt.  Cercano, come  di  sopra  è detto,  quelli  cittadini clie  ambiziosamente  vivono  in  una repubblica,  la  prima  cosa  di  non  potere essere  offesi,  non  solamente  dai  privati, ma  eziam  da’  magistrali  : cercano,  per potere  fare  questo,  amicizie  ; e quelle acquistano  per  vie  in  apparenza  oneste, o con  sovvenire  di  danari,  o con  difendergli da’  potenti  : e perchè  questo  pare virtuoso,  s’ inganna  facilmente  ciascuno, c per  questo  non  vi  si  pone  rimedio  ; intanto  che  egli  senza  ostacolo  perseverando, diventa  di  qualità,  che  i privati cittadini  ne  hanno  paura,  ed  i magistrati gli  hanno  rispetto.  E quando  egli  è saJito  a questo  grado,  c non  si  sia  prima ovvialo  alla  sua  grandezza,  viene  od  essere in  termine,  che  volerlo  urtare  è pericolosissimo,  per  le  ragioni  che  io dissi  di  sopra  del  pericolo  che  è nello urtare  uno  inconveniente  che  abbi  di  già fatto  augumento  in  una  città:  tanto  che la  cosa  si  riduce  in  termine,  che  bisogna  o cercare  di  spegnerlo  con  pericolo  di  una subita  rovina  j o lasciandolo  fare,  entrare in  una  servitù  manifesta,  se  morte  o qualche accidente  non  te  ne  libera.  Perchè, venuto  a’soprascrilti  termini,  che  i cittadini ed  i magistrati  abbino  paura  ad  offender lui  e gli  amici  suoi,  non  dura  dipoi molta  fatica  a fare  che  giudichino  ed  offendino  a suo  modo.  Donde  una  repubblica intra  gli  ordini  suoi  debbe  avere  questo, di  vegghiarc  che  i suoi  cittadini  sotto ombra  di  bene  non  possino  far  male  ; e di’  egli  abbino  quella  riputazione  che giovi,  e non  nuoca,  alla  libertà:  come nel  suo  luogo  da  noi  sarà  disputato.  Gli  nomini j ancora  clic si  ingannino  ncJ  generali j nei  particolari non  si  ingannano. Essendosi  il  Popolo  romano,  come  di sopra  si  dice,  recato  a noia  il  nome consolare,  e volendo  che  potessiao  esser fatti  Consoli  uomini  plebei,  o che  fusse limitata  la  loro  autorità  ; la  Nobiltà,  per non  deonestare  l’ autorità  consolare  nè con  Tuna    con  1’  altra  cosa,  prese  una via  di  mezzo,  e fu  contenta  che  si  creassino  quattro  Tribuni  con  potestà  consolare,  i quali  potcssino  essere  cosi  plebei come  nobili.  Fu  contenta  a questo  la Plebe,  parendogli  spegnere  il  consolato, ed  avere  in  questo  sommo  grado  la  parte sua.  Nacquene  di  questo  un  caso  notabile  : che  venendosi  alla  creazione  di questi  Tribuni,  e potendosi  creare  tutti plebei,  furono  dal  Popolo  romano  creati tutti  fiobiii.  Onde  L.  dice  queste parole:  Quorum  comitiorum  eoenlus  docuit,  alias  animo s in  contcntione  l ib erta ti  s et  honoris,  alios  secundum  deposita certamina  in  incorrupto  judicio esse.  Ed  esaminando  donde  possa  procedere questo,  credo  proceda  che  gii  uomini nelle  cose  generali  s’ ingannano assai,  nelle  particolari  non  tanto.  Pareva generalmente  alla  Plebe  romana  di  meritare il  consolato,  per  avere  più  parte in  la  città,  per  portare  più  pericolo  nelle guerre,  per  esser  quella  che  con  le  braccia sue  manteneva  Roma  libera,  e la  faceva potente.  E parendogli,  come  è detto, questo  suo  desiderio  ragionevole,  volse ottenere  questa  autorità  in  ogni  modo. Ma  come  la  ebbe  a fare  giudizio  degli uomini  suoi  particolarmente,  conobbe  la debolezza  di  quelli,  e giudicò  che  nessuno di  loro  meritasse  quello  che  tutta  insieme gli  pareva  meritare.  Talché  vergognatasi di  loro,  ricorse  a quelli  che  Io meritavano.  Della  quale  deliberazione meravigliandosi  meritamente  L., dice  queste  parole  : /lane  modestiam, aquila IcmquCj  et  allitudinem  animi,  ubi moie  in  uno  inveneris, qua:  lune  populi universi  fuit  ? In  corroborazione  di  questo, se  ne  può  addurre  un  altro  notabile essempio,  seguito  in  Capova  da  poi  che Annibaie  ebbe  rotti  i Romania  Canne; per  la  qual  rotta  sendo  tutta  sollevata Italia,  Capova  stava  ancora  per  tumultuare, per  P odio  eli’  era  intra  il  Popolo ed  il  Senato;  e trovandosi  in  quel  tempo nel  supremo  magistrato  Pacuvio  Calano, e conoscendo  il  pericolo  che  portava quella  città  di  tumultuare,  disegnò  con suo  grado  riconciliare  la  Plebe  con  la Nobiltà  ; e fatto  questo  pensiero,  fece ragunare  il  Senato,  c narrò  loro  Podio che  M popolo  aveva  contra  di  loro,  ed  i pericoli  che  portavano  di  essere  ammazzati da  quello,  e data  la  città  ad  Annibaie, sendo  le  cose  de’  Romani  afflitte  : dipoi  soggiunse,  che  se  volevano  lasciaregovernare  questa  cosa  a lui,  farebbe  in modo  che  si  unirebbono  insieme  ; ma  gli voleva  serrare  dentro  al  palazzo,  e co fare  potestà  al  popolo  di  potergli  gastigare,  salvargli.  Cederono  a questa  sua oppinione  i Senatori,  e quello  chiamò  il Popolo  a coocione,  avendo  rinchiuso  in palazzo  il  Senato  ; e disse  com’  egli  era venuto  il  tempo  di  potere  domare  la  superbia  della  Nobiltà,  e vendicarsi  delle ingiurie  ricevute  da  quella,  avendogli rinchiusi  tutti  sotto  la  sua  custodia  : ma perchè  credeva  che  loro  non  volessino che  la  loro  città  rimanesse  senza  governo, era  necessario,  volendo  ammazzare i Senatori  vecchi,  crearne  de*  nuovi. E per  tanto  aveva  messo  tutti  gli  nomi degli  Senatori  in  una  borsa,  e comincierebbe a trargli  in  loro  presenza  j ed egli  farebbe  i tratti  di  mano  in  mano morire,  come  prima  loro  avessino  trovato il  successore.  E cominciato  a trarne uno,  fu  al  nome  di  quello  levato  un  rumore grandissimo,  chiamandolo  uomo superbo,  crudele  ed  arrogante  : e chiedendo Paeuvio  che  facessino  lo  scambio, si  racchetò  tutta  la  conclone  ; c dopo alquanto  spazio,  fu  nominato  uno  della plebe  ; al  nome  del  quale  chi  cominciò a fischiare,  chi  a ridere,  chi  a dirne male  in  uno  modo,  e chi  in  un  altro: o così  seguitando  di  mano  in  mano,  tutti quelli  che  furono  nominati,  gli  giudicavano indegni  del  grado  senatorio.  In modo  che  Pacuvio,  presa  sopra  questo occasione,  disse:  Poiché  voi  giudicate  che qucslu  città  stia  male  senza  Senato,  ed a fare  gii  scambi  a’  Senatori  vecchi  non vi  accordate,  io  penso  che  sia  bene  che voi  vi  riconciliate  insieme  ; perchè  questa paura  in  la  quale  i Senatori  sono stati,  gli  arà  fatti  in  modo  raumiliare, che  quella  umanità  che  voi  cercavate  altrove, troverete  in  loro.  Ed  accordatisi a questo,  ne  segui  la  unione  di  questo ordine  ; e quello  inganno  in  che  egli erano  si  scoperse,  come  e’  furono  constretti venire  a’  particolari.  Ingannansi, olirà  di  questo,  i popoli  generalmente nel  giudicare  le  cose  e gli  accidenti  di esse  j le  quali  dipoi  si  conoscono  particolamento,  si  avveggono  di  tale  inganno. Sendo  stati  i principi della  città  cacciati  da  Firenze,  e non  vi essendo  alcuno  governo  ordinato,  ma piuttosto  una  certa  licenza  ambiziosa,  ed andando  le  cose  pubbliche  di  inale  in peggio  ; molti  popolari  veggiendo  la  rovina della  città,  e non  ne  intendendo  altra cagione,  ne  accusavano  la  ambizione di  qualche  potente  che  nutrisse  i disordini, per  poter  fare  uno  Stato  a suo  proposito, c torre  loro  la  libertà  : c stavano questi  tali  per  le  logge  c per  le  piazze, dicendo  male  di  molti  cittadini,  e minacciandoli che  se  mai  si  trovassero  de’ Signori, scoprirebbono  questo  loro  inganno, e gli  gastigarebbono.  Occorreva spesso  che  de’  simili  ne  ascendeva  al supremo  magistrato;  e come  egli  era salilo  in  quel  luogo,  e che  e*  vedeva  le  i cose  più  dappresso,  conosceva  i disordini donde  nascevano,  ed  i pericoli  che soprastavano,  e la  difficoltà  del  rimecitarvi.  C veduto  come  i tempi,  e no gli  uomini,  causavano  il  disordine,  diventava subito  d’ un  altro  animo,  c di un’  altra  fatta  ; perché  la  cognizione  delle cose  particolari  gli  toglieva  via  quello inganno  che  nel  considerare  generalmente si  aveva  presupposto.  Dimodoché,  quelli che  lo  avevano  prima,  quando  era  privato, sentito  parlare,  e vedutolo  poi  nel supremo  magistrato  stare  quieto,  credevano che  nascesse,  non  per  più  vera  cognizione delle  cose,  ma  perchè  fusse  stalo aggirato  e corrotto  dai  grandi.  Ed  accadendo questo  a molti  uomini  c molte volte,  ne  nacque  tra  loro  un  proverbio, che  diceva  : Costoro  hanno  uno  animo in  piazza,  cd  uno  in  palazzo.  Considerando, dunque,  tutto  quello  si  è discorso, si  vede  come  e’  si  può  fare  tosto aprire  gli  occhi  a’  popoli,  trovando  modo, veggendo  che  uno  generale  gl’  inganna, ch’egli  abbino  a descenderc  ai particolari  ; come  fece  Pacuvio  in  Capova,  ed  il  --Senato  in  Roma.  Credo  ancora, che  si  possa  conchiudere,  che  mai  un uomo  prudente  non  debbe  fuggire  il giudizio  popolare  nelle  eo9e  particolari, circa  le  distribuzioni  de' gradi  e delle dignità  : perchè  solo  in  questo  il  popolo non  si  inganna  ; e se  si  inganna  qualche volta,  Ha    raro,  che  s’ inganneranno più  volte  i pochi  uomini  che  avessino  a fare  simili  distribuzioni.    mi  pare  superfluo mostrare  nel  seguente  capitolo, P ordine  che  teneva  il  Senato  per  isgannare  il  popolo  nelle  distribuzioni  sue. Chi  vuole  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad un  tristo j lo  facci  domandare  o ad un  troppo  vile  e troppo  tristo, o ad uno  troppo  nobile  c troppo  buono. Quando  il  Senato  dubitava  che  i Tribuni con  potestà  consolare  non  fussino fatti  d’  uomini  plebei,  teneva  uno  de’duoi modi:  o egli  faceva  domandare  ai  più riputati  uomini  di  Roma;o  veramente, per  i debiti  mezzi,  corrompeva  qualche plebcio  sordido  ed  ignobilissimo,  che  mescolati con  i plebei  che,  di  miglior  qualità, per  T ordinario  lo  domandavano, anche  loro  lo  domandassino.  Questo  ultimo modo  faceva  che  la  Plebe  si  vergognava a darlo  ; quel  primo  faceva  che la  si  vergognava  a torlo,  li  che  tutto  torna a proposito  del  precedente  discorso, dove  si  mostra  che  il  popolo  se  s’ inganna de’  generali,  de’particolari  non  s’inganna. Se  quelle  città  che  hanno avuto  il  principio  libcrOj  come  Romaj hanno  diffìcultà  a trovare  leggi  che le  mantenghino ; quelle  che  lo  hanno immediate  servo, ne  hanno  quasi  una impossibilità. Quanto  sia  difficile,  nello  ordinare  una  repubblica,  provvedere  a tutte  quelle leggi  che  la  mantenghino  libera,  lo  dimostra assai  bene  il  processo  della  Repubblica romana:  dove  non  ostante  che fussino  ordinate  di  molte  leggi  da  ROMOLO  prima,  dipoi  da  Nuraa,  da  Tulio Ostilio  e Servio,  ed  ultimamente  dai dieci  cittadini  creali  a simile  opera  ; nondimeno sempre  nel  maneggiare  quella città  si  scoprivano  nuove  necessità,  ed era  necessario  creare  nuovi  ordini:  come intervenne  quando  crearono  i Censori, i quali  furono  uno  di  quelli  provvedimenti che  aiutarono  tenere  Roma libera,  quel  tempo  che  la  visse  in  libertà. Perchè,  diventati  arbitri  de’ costumi  di Roma,  furono  cagione  potissima  che  i Romani  diflerissino  più  a corrompersi. Feciono  bene  nel  principio  della  creazione di  tal  magistrato  uno  errore,  creando quello  per  cinque  anni;  ma,  dipoi non  molto  tempo,  fu  corretto  dalla  prudenza di  Mamereo  dittatore,  il  qual  per nuova  legge  ridusse  detto  magistrato  a diciolto  mesi.  Il  che  i Censori  che  vegghiavano,  ebbono  tanto  per  male,  che privorno  Mamcrco  del  senato:  la  qual cosa  e dalla  Plebe  c dai  Padri  fu  assai biasimata.   perchè  la  istoria  non  ino*stra  che  Mamerco  se  ne  potesse  difen-dere, conviene  o che  lo  istorico  sia  difettivo, o gli  ordini  di  Roma  in  questa parte  non  buoni  : perchè  non  è bene  che una  repubblica  sia  in  modo  ordinata, ebe  un  cittadino  per  promulgare  una legge  conforme  al  vivere  libero,  ne  possa essere  senza  alcuno  rimedio  offeso.  Ma tornando  al  principio  di  questo  discorso, dico  che  si  dehbe,  per  la  creazione  di questo  nuovo  magistrato,  considerare, che  se  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  libero,  e che  per  se  medesimo si  è retto,  come  Roma,  hanno difHcultà  grande  a trovar  leggi  buone per  mantenerle  libere  ; non  è meraviglia che  quelle  città  che  hanno  avuto  il principio  loro  immediate  servo,  abbino, non  che  dilfìcultà,  ma  impossibilità  ad. ordinarsi  mai  in  modo  che  le  possino vivere  civilmente  e quietamente.  Come si  vede  che  è intervenuto  alla  città  di Firenze;  la  quale,  per  avere  avuto  il principio  suo  sottoposto  allo  imperio  romano,  ed  essendo  vivuta  sempre  sotto governo  d* altri,  stette  un  tempo  soggetta, e senza  pensare  a sè  medesima: dipoi,  venuta  la  occasione  di  respirare, cominciò  a fare  suoi  ordini;  i quali  sendo mescolati  con  gli  antichi,  che  erano  tristi, non  poterono  essere  buoni:  e così è ita  maneggiandosi  per  dugento  anni che  si  lia  di  vera  memoria,  senza  avere mai  avuto  stato  per  il  quale  ella  possa veramente  essere  chiamata  repubblica. E queste  diflicultà  che  sono  state  in  lei, sono  state  sempre  in  tutte  quelle  città che  hanno  avuto  i principii  simili  a lei. E benché  molte  volte,  per  suffragi  pubblici e liberi,  si  sia  dato  ampia  autorità a pochi  cittadini  di  potere  riformarla; non  pertanto  mai  l’ hanno  ordinata  a comune  utilità,  ma  sempre  a proposito della  parte  loro  : il  che  ha  fatto  non ordine,  ma  maggiore  disordine  in  quella città.  E per  venire  a qualche  essempio particolare,  dico  come  intra  le  altre  cose che  si  hanno  a considerare  da  uno  ordinatore  d’  una  repubblica,  è esaminare nelle  mani  di  quali  uomini  ci  ponga 1’  autorità  del  sangue  coutra  de’  suoi cittadini.  Questo  era  bene  ordinato  in Roma,  perchè  e’  si  poteva  appellare  al Popolo  ordinariamente  : e se  pure  fussc occorsa  cosa  importante,  dove  il  differire la  esecuzione  mediante  la  appellagione fusse  pericoloso,  avevano  il  refugio  del Dittatore,  il  quale  eseguiva  immediate; al  qual  rimedio  non  rifuggivano  mai,  se non  per  necessità.  Ma  Firenze,  c Y altre città  nate  nel  modo  di  lei,  sendo  serve, avevano  questa  autorità  collocata  in  un forestiero,  il  quale  mandato  dal  principe faceva  tale  uffizio.  Quando  dipoi  vennono  in  libertà,  mantennero  questa  autorità in  un  forestiero,  il  quale  chiamavano Capitano:  il  che,  per  potere  essere facilmente  corrotto  da’  cittadini  potenti, era  cosa  perniciosissima.  Ma  dipoi,  murandosi per  la  mutazione  degli  Stati  questo ordine,  creorno  otto  cittadini  che  facessino  V uffizio  di  quel  Capitano.  Il  quale ordine,  di  cattivo,  diventò  pessimo,  per le  cagioni  che  altre  volte  sono  dette: che  i pochi  furono  sempre  ministri  dc’po-ehi,  e de*  più  potenti.  Da  che  si  è guardata la  città  di  Vinegia;  la  quale  ha dieci  cittadini,  che  senza  appello  possono punire  ogni  cittadino.  E perchè  e*  non basterebbono  a punire  i potenti,  ancora die  ne  nvessino  autorità,  vi  hanno  constituito  le  Quarnntie:  c di  più,  hanno voluto  che  il  Consiglio  de’ Pregai,  elicè il  Consiglio  maggiore,  possa  gastigargli; In  modo  che  non  vi  mancando  lo  accusatore, non  vi  manca  il  giudice  a tener gli  uomini  potenti  a freno.  Non  è dunque meraviglia,  reggendo  come  in  Roma, ordinata  da    medesima  e da  tanti uomini  prudenti,  surgevano  ogni  di nuove  cagioni  per  le  quali  si  aveva  a fare  nuovi  ordini  in  favore  del  viver  libero j se  nelle  altre  città  che  hanno più  disordinalo  principio,  vi  surgono tuli  difficoltà,  che  le  non  si  possino  riordinar mai. L.  — iVon  dcbbc  uno  consiglio  o uno  magistrato  potere  fermare  le  azioni della  città. tirano  consoli  in  Roma  Tito  Quinzio Cincinnato  c Gneo  Giulio  Mento,  i quali sendo  disuniti,  avevano  ferme  tutte  le azioni  di  quella  Repubblica.  11  che  veggcndo  il  Senato,  gli  confortava  a creare il  Dittatore,  per  fare  quello  che  per  le discordie  loro  non  poteva  fare.  Ma  i Consoli discordando  in  ogni  altra  cosa,  solo in  questo  erano  d’accordo,  di  non  voler creare  il  Dittatore.  Tanto  che  il  Senato, non  avendo  altro  rimedio,  ricorse  allo aiuto  de’ Tribuni;  i quali,  con  l’autorità del  Senato,  sforzarono  i Consoli  ad  ubbidire. Dove  si  ba  a notare,  in  prima, la  utilità  del  tribunato;  il  quale  non  era solo  utile  a frenare  l’ ambizione  che  i potenti  usavano  contra  alla  Plebe,  ma quella  ancora  ch’egli  usavano  infra  loro: 1’  altra,  che  mai  si  debba  ordinare  in una  città,  che  i pochi  possino  tenere  alcuna deliberazione  di  quelle  che  ordinariamente sono  necessarie  a mantenere la  repubblica.  Yerbigrazia,  se  tu  dai  una autorità  nd  uno  consiglio  di  fare  una distribuzione  di  onori  c di  utile,  o ad uno  magistrato  di  amministrare  una  faccenda; conviene  o imporgli  una  necessità perchè  ei  l’ abbia  a fare  in  ogni modo;  o ordinare,  quando  non  la  voglia fare  egli,  che  la  possa  e debba  fare  un altro:  altrimenti,  questo  ordine  sarebbe difettivo  e pericoloso;  come  si  vedeva che  era  in  Roma,  se  alla  ostinazione  di quelli  Consoli  non  si  poteva  opporre P autorità  de’ Tribuni.  Nella  Repubblica veneziana  il  Consiglio  grande  distribuisce gli  onori  e gli  utili.  Occorreva  alle volte  che  P universalità,  per  isdegno  o per  qualche  falsa  suggestione,  non  creava i successori  ai  magistrati  della  città, ed  a quelli  che  fuori  amministravano  lo imperio  loro.  Il  che  era  disordine  grandissimo: perchè  in  un  tratto,  e le  terre suddite  e la  città  propria  mancavano de’ suoi  legittimi  giudici;    si  poteva ottenere  cosa  alcuna,  se  quella  universalità  di  quel  Consiglio  non  si  satisfaceva, o non  s’ingannava.  Ed  avrebbe ridotta  questo  inconveniente  quella  città a mal  termine,  se  dagli  cittadini  prudenti non  vi  si  fusse  provveduto:  i quali, presa  occasione  conveniente,  fecero  una legge,  che  tutti  i magistrati  che  sono  o fussino  dentro  e fuori  della  città,  mai vacassero,  se  non  quando  fussino  fatti gli  scambi  e i successori  loro.  E cosi  si tolse  la  comodità  a quel  Consiglio  di  potere, con  pericolo  della  repubblica,  fermare le  azioni  pubbliche. LI.  Una  repubblica  o uno  principe debbe  mostrare  di  fare  per  liberalità quello  a che  la  necessità  lo  consiringe. Gli  uomini  prudenti  si  fanno  grado sempre  delle  cose,  in  ogni  loro  azione, ancora  che  la  necessità  gli  constringesse a farle  in  ogni  modo.  Questa  prudenza fu  usata  bene  dal  Senato  romano,  quando ei  deliberò  che  si  desse  lo  stipendio del  pubblico  agli  uomini  che  militavano, essendo  consueti  militare  del  loro  proprio. Ma  veggendo  il  Senato  come  in quel  modo  non  si  poteva  fare  lungamente guerra,  e per  questo  non  potendo nè  assediare  terre,    condurre  gli  eserciti discosto;  e giudicando  essere  necessario potere  fare  1*  uno  e 1’  altro  ; deliberò che  si  dessino  detti  stipendi;  ina lo  feciono  in  modo,  che  si  fecero  grado di  quello  a che  la  necessità  gli  constringeva; e fu  tanto  accetto  alla  Plebe  questo presente,  che  Roma  andò  «sottosopra per  la  allegrezza,  parendole  uno  benefizio grande,  quale  mai  speravano  di avere,  e quale  mai  per  loro  medesimi arebbono  cerco.  E benché  i Tribuni  s*  ingegnassero di  cancellare  questo  grado, mostrando  come  ella  era  cosa  che  aggravava, non  alleggeriva,  la  Plebe,  scodo necessario  porre  i tributi  per  pagare questo  stipendio  ; nientedimeno  non  potevano fare  tanto  che  la  Plebe  non  lo avesse  accetto:  il  che  fu  ancora  augumentalo  dal  Senato  per  il  modo  che  distribuivano i tributi;  perchè  i più  gravi ed  i maggiori  furono  quelli  chVposono alla  Nobiltà,  e gli  primi  che  furono  pagati.  LII.  — A reprimere  la  insolenza  di uno  che  surga  in  una  repubblica  potente, non  vi  c più  securo  e meno  scandaloso modo, che  preoccuparli  quelle vie  per  le  quali  e*  viene  a quella  potenza. Yedesi  per  il  soprascritto  discorso, quanto  credito  acquistasse  la  Nobiltà  con la  Plebe  per  le  dimostrazioni  fatte  in benefizio  suo,    del  stipendio  ordinato, si  ancora  del  modo  del  porre  i tributi. Nel  quale  ordine  se  la  Nobiltà  si  fosse mantenuta,  si  sarebbe  levato  via  ogni tumulto  in  quella  città,  e sarebbesi  tolto ai  Tribuni  quel  credito  che  egli  avevano con  la  Plebe,  e,  per  conseguente,  quella autorità.  E veramente,  non  si  può  in una  repubblica,  e massime  in  quelle  che sono  corrotte,  con  miglior  modo,  meno scandaloso  e più  facile,  opporsi  alla  ambizione di  alcuno  cittadino,  che  preoccuparli quelle  vie,  per  le  quali  si  vede che  esso  cammina  per  arrivare  al  grado che  disegna,  li  qual  modo  se  fusse  stalo usato  contra  Cosimo  de’ Medici,  sarebbe stato  miglior  partito  assai  per  gli  suoi avversari,  che  cacciarlo  da  Firenze:  perchè, se  quelli  cittadini  che  gareggiavano seco,  avessino  preso  lo  stile  suo  di  favorire il  popolo,  gli  venivano  senza  tumulto e senza  violenza  a trarre  di  mano quelle  arme  di  che  egli  si  valeva  più. SODERINI si  aveva  fatto  riputazione nella  città  di  Firenze  con  questo  solo,  di favorire  l’universale:  il  che  nello  universale gli  dava  riputazione,  come  amatore della  libertà  della  città.  E veramente, a quelli  cittadini  che  portavano  invidia alla  grandezza  sua,  era  molto  più  facile ed  era  cosa  molto  più  onesta,  meno  pericolosa, e meno  dannosa  per  la  repubblica, preoccupargli  quelle  vie  con  le quali  si  faceva  grande,  che  volere  contrapporsegli,  acciocché  con  la  rovina  sua rovinasse  tutto  il  resto  della  repubblica: perchè,  se  gli  avessero  levate  di  mano quelle  armi  con  le  quali  si  faceva  gagliardo (il  che  potevano  fare  facilmente), arebbono  potuto  in  lutti  i consigli,  e in tutte  le  deliberazioni  pubbliche,  opporsegli  senza  sospetto,  e senza  rispetto  alcuno. E se  alcuno  replicasse,  che  se  i cittadini  che  odiavano  Piero,  feciono  errore a non  gli  preoccupare  le  vie  con le  quali  ei  si  guadagnava  riputazione nel  popolo,  Piero  ancora  venne  a fare errore,  a non  preoccupare  quelle  vie  per le  quali  quelli  suoi  avversari  lo  facevano temere;  di’ che  Piero  merita  scusa,  si perchè  gli  era  difficile  il  farlo,    perchè le  non  erano  oneste  a lui  : imperocché le  vie  con  le  quali  era  offeso, ciano  il  favorire  i Medici;  con  li  quali favori  essi  io  battevano,  e alla  fine  !o rovinorno.  Non  poteva,  pertanto,  Piero onestamente  pigliare  questa  parte,  per non  potere  distruggere  con  buona  fama quella  libertà  alla  quale  egli  era  stato preposto  a guardia  : dipoi,  non  potendo questi  favori  farsi  segreti  e ad  uno  tratto, erano  per  Piero  pericolosissimi;  perchè comunelle  ei  si  fusse  scoperto  amico de’ Medici,  sarebbe  diventato  sospetto  ed odioso  al  popolo;  donde  ai  nimici  suoi nasceva  molto  più  comodità  di  opprimerlo, che  non  avevano  prima.  Debbono, pertanto,  gli  uomini  in  ogni  partito  considerare i difetti  ed  i pericoli  di  quello, e non  gli  prendere,  quando  vi  sia  più del  pericoloso  che  dell’  utile  ; nonostante che  ne  fusse  stata  data  sentenza  conforme alla  deliberazion  loro.  Perchè,  facendo altrimenti,  in  questo  caso  interverrebbe a quelli  come  intervenne  a Tullio;  il  quale  volendo  torre  i favori  a Marc’  Antonio,  gliene  accrebbe.  Perchè, sondo  Marc’ Antonio  stato  giudicalo  inimico del  Senato,  ed  avendo  quello  grande esercito  insieme  adunato,  in  buona  parte, dei  soldati  che  avevano  seguitato  la  parte di  Cesare;  Tullio,  per  torgli  questi  soldati, confortò  il  Senato  a dare  riputazione ad  Ottaviano,  e mandarlo  con  lo esercito  e con  i Consoli  contra  a Marc' Antonio: allegando,  che  subito  che  i soldati che  seguitavano  Marc’  Antonio,  scntissino  il  nome  di  Ottaviano  nipote  di Cesare,  e che  si  faceva  chiamar  Cesare, lascerebbono  quello,  c si  aceosterebbono a costui  ; e così  restato  Marc’  Antouio ignudo  di  favori,  sarebbe  facile  lo  opprimerlo. La  qual  cosa  riuscì  tutta  al  contrario; perchè  Marc’ Antonio  si  guadagnò Ottaviano;  e lasciato  Tullio  ed  il  Senato, si  accostò  a lui.  La  qual  cosa  fu  al  tutto la  destruzione  della  parte  degli  Ottimati. 11  che  era  facile  a conietturare:    si doveva  credere  quel  che  si  persuase  Tullio, ma  tener  sempre  conto  di  quel  nome che  con  tanto  gloria  aveva  spenti  i nimici  suoi,  ed  acquistatosi  il  principato in  Roma;    si  dovea  credere  mai  potere, o da  suoi  eredi  o da  suoi  fautori,  avere cosa  che  fusse  conforme  al  nome  libero. LUI.  — Il  popolo  molte  volte  desidera la  rovina  sua j ingannato  da  una falsa  spezie  di  bene  : e come  le  grandi speranze  e gagliarde  promesse  facilmente lo  muovono. Espugnata  che  fu  la  città  de’  Veienti, entrò  nel  Popolo  romano  una  oppinione, che  fusse  cosa  utile  per  la  città  di  Roma,  che  la  metà  de’  Romani  andasse  ad abitare  a Veio  ; argomentando  che,  per essere  quella  città  ricca  di  contado, piena  di  edifizii  e propinqua  a Roma,  si poteva  arricchire  la  metà  de’  cittadini romani,  e non  turbare  per  la  propinquità del  sito  nessuna  azione  civile.  La qual  cosa  parve  al  Senato  ed  a’  più  savi Romani  tanto  inutile  e tanto  dannosa, che  liberamente  dicevano,  essere  piuttosto  per  patire  la  morte,  che  consentire ad  una  tale  deliberazione.  In  modo che,  venendo  questa  cosa  in  disputa,  si accese  tanto  la  Plebe  contra  al  Senato, che  si  sarebbe  venuto  alle  armi  cd  al sangue,  se  il  Senato  non  si  fusse  fatto scudo  di  alcuni  vecchi  e stimati  cittadini ; la  riverenza  dc’quali  frenò  la  Plebe, che  la  non  procede  più  avanti  con la  sua  insolenza.  Qui  si  hanno  a notare due  cose.  La  prima,  che  ’l  popolo  molte volte,  ingannato  da  una  falsa  immagine di  bene,  desidera  la  rovina  sua  ; e se non  gli  è fatto  capace,  come  quello  sia male,  e quale  sia  il  bene,  da  alcuno  in chi  esso  abbia  fede,  si  pone  in  le  repubbliche infiniti  pericoli  c danni.  E quando  la  sorte  fu  che  il  popolo  non abbi  fede  in  alcuno,  come  qualche  volta occorre,  sendo  stato  ingannato  per  lo addietro  o dalle  cose  o dagli  uomini; si  viene  alla  rovina  di  necessità.  Ed ALIGHIERI (si veda) dice  a questo  proposito,  nel  discorso  suo che  fa  De  Monarchia > che  il  popolo  molte  volte  grida  viva  la  sua  morie j C muoia la  sua  vita.  Da  questa  incredulità  nasce, che  qualche  volta  in  le  repubbliche  i buoni  partiti  non  si  pigliano  : come  di sopra  si  disse  de’  Veneziani,  quando  assaltati da  tanti  inimici  non  poterono prendere  partito  di  guadagnarsene  alcuno con  la  restituzione  delle  cose  tolte ad  altri  (per  le  quali  era  mosso  loro  la 'guerra,  e fatta  la  congiura  de’  principi loro  contro),  avanti  che  la  rovina  venisse. Pertanto,  considerando  quello  che è facile  o quello  che  è diffìcile  persuadere ad  un  popolo,  si  può  fare  questa distinzione:  o quel  che  tu  hai  a persuadere rappresenta  in  prima  fronte guadagno,  o perdita  ; o veramente  pare partito  animoso,  o vile:  e quando  nelle cose  che  si  mettono  innanzi  ai  popolo, si  vede  guadagno,  ancora  che  vi  sia  nascosto sotto  perdila;  e quando  e* paia animoso,  ancora  che  vi  sia  nascosto  sotto la  rovina  della  repubblica,  sempre  sarà facile  persuaderlo  alla  moltitudine:  e così  fia  sempre  difficile  persuadere  quelli partiti  dove  apparisce  o viltà  o perdita, ancoraché  vi  fusse  nascosto  sotto  salute e guadagno.  Questo  che  io  ho  detto,  si conferma  con  infiniti  esempi,  romani  e forestieri,  moderni  ed  antichi.  Perchè  da questo  nacque  la  malvagia  opinione  che surse  in  Roma  di  Fabio  Massimo,  il  quale non  poteva  persuadere  al  Popolo  romano, che  fusse  utile  a quella  Repubblica procedere  lentamente  in  quella  guerra, e sostenere  senza  azzuffarsi  V impeto  di Annibaie;  perchè  quel  Popolo  giudicava questo  partito  vile,  c non  vi  vedeva  dentro quella  utilità  vi  era  ; nè  Fabio  aveva ragioni  bastanti  a dimostrarla  loro:  c tanto  sono  i popoli  accecati  in  queste oppinioni  gagliarde,  che  benché  il  Popolo romano  avesse  fatto  quello  errore di  dare  autorità  al  Maestro  de’ cavalli  di Fabio  di  potersi  azzuffare,  ancora  che Fabio  non  volesse;  e che  per  tale  autorità il  campo  romano  fusse  per  esser rotto,  se  Fabio  con  la  sua  prudenza  non vi  rimediava;  non  gli  bastò  questa  esperienza, che  fece  dipoi  consolo  VARRONE (si veda), non  per  altri  suoi  meriti  che  per  avere, per  tutte  le  piazze  e tutti  i luoghi  pubblici di  Roma,  promesso  di  rompere  Annibaie, qualunque  volta  gliene  fusse  data autorità.  Di  che  ne  nacque  la  zuffa  e rotta  di  Canne,  e presso  che  la  rovina di  Roma.  Io  voglio  addurre  a questo proposito  ancora  uno  altro  essempio  romano. Era  stato  Annibaie  in  Italia  otto o dieci  anni,  aveva  ripieno  di  occhione de’  Romani  tutta  questa  provincia, quando  venne  in  Senato  Marco  Centenio Penula,  uomo  vilissimo  (nondimanco aveva  avuto  qualche  grado  nella  milizia), ed  offersegli,  che  se  gli  davano  autorità di  potere  fare  esercito  di  uomini  volutitari  in  qualunque  luogo  volesse  in  Italia, ei  darebbe  loro,  in  brevissimo  tempo, preso  o morto  Annibaie.  Al  Senato  parve la  domanda  di  costui  temeraria;  nondimeno ei  pensando  che  s’ ella  se  gli negasse,  e nel  popolo  si  fusse  dipoi  sapula  la  sua  chiesta,  che  non  ne  nascesse qualche  tumulto,  invidia  e mal  grado  contro all’ordine  senatorio,  gliene  concessono  : volendo  più  tosto  mettere  a pericolo tutti  coloro  che  lo  seguitassino,  che  fare surgere  nuovi  sdegni  nel  Popolo;  sappiendo  quanto  simile  partito  fusse  per essere  accetto,  e quanto  fusse  difficile il  dissuaderlo.  Andò,  adunque,  costui con  una  moltitudine  inordinata  ed  incomposita  a trovare  Annibaie;  e non gli  fu  prima  giunto  all*  incontro,  che  fu con  tutti  quelli  che  lo  seguitavano  rotto e morto.  In  Grecia,  nella  città  di  Atene, non  potette  mai  Nicia,  uomo  gravissimo e prudentissimo,  persuadere  a quel  popolo, che  non  fusse  bene  andare  ad  assaltare Sicilia:  talché,  presa  quella  deliberazione contra  alla  voglia  de’  savi, ne  seguì  al  tutto  la  rovina  di  Atene.  Scipione quando  fu  fatto  consolo,  e che desiderava  la  provincia  di  Affrica,  promettendo al  tutto  la  rovina  di  Cartagine; a che  non  si  accordando  il  Senato per  la  sentenza  di  Fabio  Massimo,  minacciò di  proporla  nel  Popolo,  come quello  clic  conosceva  benissimo  quanto simili  deliberazioni  piaccino  a’  popoli. Potrebbesi  a questo  proposito  dare  esempi della  nostra  città  : come  fu  quando messere  Ercole  Bentivogli,  governadore delle  genti  fiorentine,  insieme  con  Antonio Giacomini,  poiché  ebbono  rotto llartolommeo  d’  Alviano  a San  Vincenti, andarono  a campo  a Pisa  ; la  qual  impresa fu  deliberata  dal  popolo  in  su  le promesse  gagliarde  di  messcr  Ercole, ancora  che  molti  savi  cittadini  la  biasimassero: nondimeno  non  vi  ebbero rimedio,  spinti  da  quella  universale  volutila, la  qual  era  fondata  in  su  le  promesse gagliarde  del  governadore.  Dico, adunque,  come  non  è la  più  facile  via a fare  rovinare  una  repubblica  dove  il popolo  abbia  autorità,  che  metterla' in imprese  gagliarde  : perchè,  dove  il  popolo sia  di  alcuno  momento,  sempre  fieno accettale;    vi  arà,  chi  sarà  d’  altra oppinione,  alcuno  rimedio.  Ma  se  di  questo nasce  la  rovina  della  città,  ne  nasce ancora,  e più  spesso,  la  rovina  particolare de*  cittadini  che  sono  preposti  a simili  imprese  : perchè,  avendosi  il  popolo presupposto  la  vittoria,  eomee’vienc la  perdita,  non  ne  accusa    la  fortuna, nè  la  impotenza  di  chi  ha  governato, ma  la  tristizia  e la  ignoranza  sua;  e quello  il  più  delle  volte  o ammazza,  o imprigiona,  o confina:  come  intervenne  a infiniti  capitani  Cartaginesi,  ed  a molti Ateniesi.    giova  loro  alcuna  vittoria che  per  lo  addietro  avessino  avuta,  perchè tutto  la  presente  perdita  cancella  : come  intervenne  ad  Antonio  Giacomini nostro,  il  quale  non  avendo  espugnata Pisa,  come  il  popolo  aveva  presupposto ed  egli  promesso,  venne  in  tanta  disgrazia popolare,  che  non  ostante  infinite sue  buone  opere  passate,  visse  più  per umanità  di  coloro  che  ne  avevano  autorità, che  per  alcun’  altra  cagione  che nel  popolo  lo  difendesse. liv#  — Quanta  autorità  abbia  uno uomo  grande  a frenare  una  moltitudine  concitata. Il  secondo  notabile  sopra  il  testo  nel superiore  capitolo  allegato,  è,  che  veruna cosa  è tanto  atta  a frenare  una moltitudine  concitata,  quanto  è la  riverenza di  qualche  uomo  grave  e di  autorità, che  se  le  faccia  incontro  j nè  senza cagione  dice  VIRGILIO (si veda): “Tutn  vietate  graverà  ac  meritis  si  forte  virum Conspexere, sileni, arrectisque  aur^®n^ci* Per  tanto,  quello  che  è proposto  a uno esercito,  o quello  che  si  trova  in  una città,  dove  nascesse  tumulto,  debbe  rappresentarsi in  su  quello  con  maggior grazia  e piu  onorevolmente  che  può,  mettendosi intorno  le  insegne  di  quel  grado che  tiene,  per  farsi  più  reverendo.  Era, pochi  anni  sono,  Firenze  diviso  in  due fazioni,  Fratesche  ed  Arrabbiate,  che  cosi si  chiamavano;  e venendo  ali’ arme,  ed essendo  superati  i Frateschi,  intra  i quali era  Pagolantonio  Soderini,  assai  in  quelli tempi  riputato  cittadino;  cd  andandogli in  quelli  tumulti  il  popolo  armato  a casa per  saccheggiarla;  messer  Francesco  suo fratello,  allora  vescovo  di  Volterra,  ed oggi  cardinale,  si  trovava  a sorte  in  casa  : il  quale,  subito  sentito  il  romore  e veduta la  turba,  messosi  i più  onorevoli panni  indosso,  e di  sopra  il  rocchetto episcopale,  si  fece  incontro  a quelli  armati, e con  la  persona  e con  le  parole gli  fermò  ; la  qual  cosa  fu  per  tutta  la città  per  molti  giorni  notata  e celebrata. Conchiudo,  adunque,  come  e’ non  è il più  fermo    il  più  necessario  rimedio a frenare  una  moltitudine  concitata,  che la  presenza  d’  uno  uomo  che  per  presenza paia  e sia  reverendo.  Vedesi,  adunque, per  tornare  al  preallegato  testo, con  quanta  ostinazione  la  Plebe  romana accettava  quel  partito  d’  andare  a Yeio, perchè  Io  giudicava  utile,    vi  conosceva  sotto  il  danno  vi  era  ? e come  nascendone assai  tumulti,  ne  sarebbero nati  scandali,  se  il  Senato  con  uomini gravi  e pieni  di  riverenza  non  avesse frenato  il  loro  furore. lv.  — Quanto  facilmente  si  conduellino  le  cose  in  quella  città  dove la  moltitudine  non  è corrotta:  e che dove  è e qualità, non  si  può  fare principato  / e dove  la  non  èj  non  si può  far  repubblica. Ancora  clie  di  sopra  si  sia  discorso assai  quello  sia  da  temere  o sperare delle  città  corrotte;  nondimeno  non  mi pare  fuori  di  proposito  considerare  una deliberazione  del  Senato  circa  il  voto ehe  Cammillo  aveva  fatto  di  dare  la decima  parte  ad  Apolline  della  preda de’  Veienti  : la  qual  preda  sendo  venuta nelle  mani  della  Plebe  romana,    se  ne potendo  altrimenti  riveder  conto,  fece il  Senato  uno  editto,  che  ciascuno  dovesse  rappresentare  al  pubblico  la  decima parte  di  quello  gli  aveva  predalo. E benché  tale  deliberazione  non  avesse luogo,  avendo  dipoi  il  Senato  preso  altro modo,  c per  altra  via  satisfatto  ad Àpolliue  in  satisfazione  della  Plebe;  nondimeno si  vede  per  tali  deliberazioni quanto  quel  Senato  confidasse  nella  bontà di  quella,  e come  e’  giudicava  che  nessuno fusse  per  non  rappresentare  appunto tutto  quello  che  per  tale  editto gli  era  comandato.  E dall’  altra  parte  si vede,  come  la  Plebe  non  pensò  di  fraudare in  alcuna  parte  lo  editto  con  il dare  meno  che  non  doveva,  ma  di  liberarsi da  quello  con  il  mostrarne  aperte indignazioni.  Questo  essempio,  con  molti altri  che  di  sopra  si  sono  addotti,  mostrano quanta  bontà  e quanta  religione fusse  in  quel  Popolo,  e quanto  bene fusse  da  sperare  di  lui.  E veramente, dove  non  è questa  bontà,  non  si  può sperare  nulla  di  bene;  come  non  si  può sperare  nelle  provincic  che  in  questitempi  si  veggono  corrotte:  come  è la Italia  sopra  tutte  le  altre;  ed  ancora  la Francia  di  tale  corruzione ritengono  parte.  E se  in  quelle  provincie  non  si  vede  tanti  disordini  quanti nascono  in  Italia  ogni  di,  deriva  non tanto  dalla  bontà  de'  popoli,  la  quale  ìh buona  parte  è mancata;  quanto  dallo avere  uno  re  che  gli  mantiene  uniti, non  solamente  per  la  virtù  sua,  ma  per l’ordine  di  quelli  regni,  che  ancora  non sono  guasti.  Vedesi  bene  nella  provincia della  Magna,  questa  bontà  e questa religione  ancora  in  quelli  popoli  esser grande;  la  qual  fa  che  molte  repubbliche vi  vivono  libere,  ed  in  modo  osservano le  loro  leggi,  che  nessuno  di  fuori nè  di  dentro  ardisce  occuparle.  E che sia  vero  che  in  loro  regni  buona  parte di  quella  antica  bontà,  io  nc  voglio  dare uno  essempio  simile  a questo  detto di  sopra  del  Senato  e della  Plebe  romana. Usano  quelle  repubbliche,  quando gli  occorre  loro  bisogno  di  avere  a spendere  alcuna  quantità  di  danari  per  conto pubblico,  che  quelli  magistrati  o consigli che  ne  hanno  autorità,  ponghino  a tutti  gli  abitanti  della  città  uno  per  cento, o dua,  di  quello  che  ciascuno  ha  di valsente.  E fatta  tale  deliberazione  secondo 1’  ordine  della  terra,  si  rappresenta ciascuno  dinanzi  agli  esecutori  di tale  imposta;  e,  preso  prima  il  giuramento di  pagare  la  conveniente  somma, getta  in  una  cassa  a ciò  deputata  quello clic  secondo  la  conscienza  sua  gli  pare dover  pagare:  del  qual  pagamento  non è testimonio  alcuno,  se  non  quello  che paga.  Donde  si  può  conictturare,  quanta bontà  e quanta  religione  sia  ancora  in quelli  uomini.  E debbesi  stimare  che ciascuno  paghi  la  vera  somma:  perchè, quando  la  non  si  pagasse,  non  pitterebbe la  imposizione  quella  quantità che  loro  disegnassero  secondo  le  antiche che  fussino  usitate  riscuotersi;  e non  gitlando,  si  conoscerebbe  la  fraude; e conoscendosi,  arebbon  preso  altro  modo che  questo.  La  quale  bontà  è tanto  più da  ammirare  in  questi  tempi,  quanto ella  è più  rara  : anzi  si  vede  essere  rimasa  sola  in  quella  provincia.  Il  che nasce  da  due  cose  : Y una,  non  avere avuti  commerzi  grandi  co’ vicini;  perchè nè  quelli  sono  ili  a casa  loro,  nè essi  sono  iti  a casa  altrui;  perchè  sono stati  eontenli  di  quelli  beni,  e vivere  di quelli  cibi,  vestire  di  quelle  lane  che  dà il  paese:  d’onde  è stata  tolta  via  la cagione  d’ogni  conversazione,  ed  il  principio di  ogni  corruttela;  perchè  non hanno  possuto  pigliare  i costumi  nè franciosi    spagnuoli    italiani,  le quali  nazioni  tutte  insieme  sono  la  corruttela del  mondo.  L’ altra  cagione  è, che  quelle  repubbliche  dove  si  è mantenuto il  vivere  politico  ed  incorrotto, non  sopportano  che  alcuno  loro  cittadino nè  sia    viva  ad  uso  di  gentiluomo: anzi  mantengono  infra  loro  una pari  equalità,  ed  a quelli  signori  e gentiluomini che  sono  in  quella  provincia, sono  inimicissimi  ; c se  per  caso  alcuni pervengono  loro  nelle  mani,  come  priacipi  di  corruttela  e cagione  di  ogni  scandalo, gli  ammazzano.  E'  per  chiarire questo  nome  di  gentiluomini  quale  e’  sia. dico  che  gentiluomini  sono  chiamali quelli  che  ociosi  vivono  de’  proventi delle  loro  possessioni  abbondantemente, senza  avere  alcuna  cura  o di  coltivare, o di  alcuna  altra  necessaria  fatica  a vivere.  Questi  tali  sono  perniciosi  in ogni  repubblica  ed  in  ogni  provincia; ma  più  perniciosi  sono  quelli  che,  oltre alle  predette  fortune,  comandano  a ca- stella, ed  hanno  sudditi  che  ubbidiscono a loro.  Di  queste  due  sorti  di  uomini ne  sono  pieni  il  regno  di  Napoli,  terra di  Roma,  la  Romagna  e la  Lombardia. Di  qui  nasce  che  in  quelle  provincie non  è mai  stata  alcuna  repubblica,  nè alcuno  vivere  politico;  perchè  tali  generazioni di  uomini  sono  al  tutto  nemici di  ogni  civiltà.  Ed  a volere  in  provincie fatte  in  simil  modo  introdurre una  repubblica,  non  sarebbe  possibile: ma  a volerle  riordinare,  se  alcuno  ne fusse  arbitro,  non  arebbe  altra  via  che farvi  un  regno.  La  ragione  è questa, che  dove  è tanto  la  materia  corrotta che  le  leggi  non  bastino  a frenarla,  vi bisogna  ordinare  insieme  con  quelle maggior  forza  ; la  quale  è una  mano regia,  che  con  la  potenza  assoluta  ed eccessiva  ponga  freno  alla  eccessiva  ambizione e corruttela  de’  potenti.  Verificasi questa  ragione  cou  lo  esempio  di Toscana  : dove  si  vede  in  poco  spazio di  terreno  stale  longamente  tre  repubbliche, Firenze,  Siena  e Lucca  ; e le  altre città  di  quella  provincia  essere  in modo  serve,  che,  con  l’ animo  e con T ordine,  si  vede  o che  le  mantengono, o che  le  vorrebbono  mantenere  la  loro libertà.  Tutto  è nato  per  non  essere  in quella  provincia  alcun  signore  di  castella, c nessuno  o pochissimi  gentiluomini ; ma  esservi  tanta  equalità,  che facilmente  da  uno  uomo  prudente,  e che delle  antiche  civilità  avesse  cognizione, vi  si  introdurrebbe  un  viver  civile.  Ma lo  infortunio  suo  è stato  tanto  grande, che  infino  a questi  tempi  non  ha  sortito alcuno  uomo  che  lo  abbia  potuto o saputo  fare.  Trassi  adunque  di  questo discorso  questa  conclusione:  che  colui che  vuole  fare  dove  sono  assai  gentiluomini una  repubblica,  non  la  può fare  se  prima  non  gli  spegne  tutti:  e che  colui  che  dove  è assai  equalità  vuole fare  uno  regno  o uno  principato,  non lo  potrà  mai  fare  se  non  trae  di  quella «qualità  molti  di  animo  ambizioso  ed inquieto,  e quelli  fa  gentiluomini  in  fatto, e non  in  nome,,  donando  loro  castella e possessioni,  c dando  loro  favore di  sustanze  e d’uomini  ; acciocché, posto  in  mezzo  di  loro,  mediante  quelli mantenga  la  sua  potenza  ; cd  essi, mediante  quello,  la  loro  ambizione;  e gli  altri  siano  constretti  n sopportare quel  giogo  che  la  forza,  e non  altro mai,  può  far  sopportare  loro.  Ed  essendo  per  questa  via  proporzione  da  chi sforza  a chi  è sforzato,  stanno  fermi gli  uomini  ciascuno  nello  ordine  loro. E perchè  il  fare  d’una  provincia  atta ad  essere  regno  una  repubblica,  c d’ una atta  ad  essere  repubblica  farne  un  regno, è materia  da  uno  uomo  che  per cervello  e per  autorità  sia  raro;  sono stati  molti  che  Io  hanno  voluto  fare,  e pochi  che  lo  abbino  saputo  condurre. Perchè  la  grandezza  della  cosa  parte sbigottisce  gli  uomini,  parte  in  modo gli  ’mpedisce,  che  ne’ primi  principii mancano. Credo  che  a questa  mia  oppiatone, che  dove  sono  gentiluomini  non si  possa  ordinare  repubblica,  parrà  contraria la  esperienza  della  Repubblica veneziana,  nella  quale  non  usano  avere alcuno  grado  se  non  coloro  che  sono gentiluomini.  A che  si  risponde,  come questo  essempio  non  ci  fa  alcuna  oppugnazione, perchè  i gentiluomini  in quella  Repubblica  sono  piu  in  nome  che in  fatto;  perchè  loro  non  hanno  grandi entrate  di  possessioni,  sendo  le  loro ricchezze  grandi  fondate  in  sulla  mercanzia e cose  mobili;  e di  più,  nessuno di  loro  tiene  castella,  o ha  alcuna  iurisdizione  sopra  gli  uomini:  ma  quel  nome di  gentiluomo  in  loro  è nome  di degnila  e di  riputazione,  senza  essere fondato  sopra  alcuna  di  quelle  cose  che fa  che  nell’  altre  città  si  chiamano  i gentiluomini.  E come  le  altre  repubbliche hanno  tutte  le  loro  divisioni  sotto vari  nomi,  così  Vinegia  si  divide  in gentiluomini  e popolari  ; e vogliono  che quelli  abbino,  ovvero  possino  avere,  tutti gli  onori;  quelli  altri  ne  sieno  al  tutto esclusi.  Il  che  non  fa  disordine  in  quella terra,  per  le  ragioni  altra  volta  dette. Gonstituisca,  adunque,  una  repubblica colui  dove  è,  o è fatta  una  grande  egualità; ed  alP  incontro  ordini  un  principato dove  è grande  inequalità  : altrimenti farà  cosa  senza  propprzione,  e poco  durabile. Innanzi  che  segnino  i grandi  accidenti  in  una  città  o in  una provincia, vengono  segni  che  gli  pròìioslicanOj  o uomini  che  gli  predicono. Donde  e*  si  nasca  io  non  so,  ina  si vede  pei*  gli  antichi  e per  gli  moderni essempi,  che  mai  non  venne  alcuno  grave accidente  in  una  città  o in  una  provincia, che  non  sia  stato,  o da  indovini  o da  revelazioni  o da  prodigi,  o da  altri segni  celesti,  predetto.  E per  non  mi  discostare da  casa  nei  provare  questo,  saciascuno  quanto  da  frate  Girolamo  Savonarola fusse  predetta  innanzi  la  venuta del  re  Carlo  Vili  di  Francia  in  Italia; e come,  olirà  di  questo,  per  tutta  Toscana si  disse  esser  sentite  in  aria  e vedute genti  d’ arme,  sopra  Arezzo,  che  si azzuffavano  insieme.  Sa  ciascuno  olirà di  questo,  come  avanti  la  morte  di  Lorenzo de’  Medici  vecchio  fu  percosso  il duomo  nella  sua  più  alta  parte  con  una saetta  celeste,  con  l'ovina  grandissima di  quello  edilìzio.  Sa  ciascuno  ancora,, come  poco  innanzi  che  Soderini, quale  era  stato  fatto  gonfaloniere  a vita dal  popolo  fiorentino,  fosse  cacciato  e privo  del  suo  grado,  fu  il  palazzo  medesimamente da  un  fulgore  percosso.  Potrcbbesi,  olirà  di  questo,  addurre  più essempi,  i quali  per  fuggire  il  tedio  lascerò.  Narrerò  solo  quello  che  L.,  innanzi  alla  venuta  de’  Franciosi in  Roma  : cioè,  come  uno  Marco Cedizio  plebeio,  riferì  al  Senato  avere udito  di  mezza  notte,  passando  per  la Via  Nuova,  una  voce  maggiore  che  umana, la  quale  lo  ammoniva  che  riferisse ai  magistrati,  come  i Franciosi  venivano a Roma.  La  cagione  di  questo  credo  sia da  essere  discorsa  ed  interpretata  da uomo  che  abbia  notizia  delle  cose  naturali e soprannaturali:  il  che  non  abbiamo noi.  Pure,  potrebbe  essere  che,  sendo questo  aere,  come  vuole  alcuno  filosofo, pieno  d’ intelligenze  ; le  quali  per  naturale  virtù  prevedendo  le  cose  future, ed  avendo  compassione  agli  uomini,  acciò si  possino  preparare  alle  difese,  gli avvertiscono  con  simili  segni.  Pure,  comunelle si  sia,  si  vede  cosi  essere  la verità;  e che  sempre  dopo  tali  accidenti sopravvengono  cose  istraordinarie  e nuove alle  provincie.  La  plebe  insieme  è gagliarda; di  per  se  è debole. Erano  molti  Romani,  scudo  seguita per  la  passata  de*  Franciosi  la  rovina della  lor  patria,  andati  ad  abitare  a Yeio, contea  alla  constituzione  ed  ordine  del Senato:  il  quale,  per  rimediare  a questo disordine,  comandò  per  i suoi  editti pubblici  che  ciascuno,  infra  certo  tempo e sotto  certe  pene,  tornasse  ad  abitare a Roma.  De’quali  editti,  da  prima  per coloro  contea  a chi  e*  venivano,  si  fu fatto  beffe;  dipoi,  quando  si  appressò  il tempo  dello  ubbidire,  tutti  ubbidirono. E Tito  Livio  dice  queste  parole  : Ex  fcrocibus  universtSj  singtili  metti  suo  obedienfes  fuere.  E veramente,  non  si  può mostrare  meglio  la  natura  d’ una  moltitudine in  questa  parte,  che  si  dimostri in  questo  testo.  Perchè  la  moltitudine  è audace  nel  parlare  molte  volte  contra alle  deliberazioni  del  loro  principe;  dipoi, come  veggono  la  pena  in  viso,  non si  fidando  Y uno  dell’  altro,  corrono  ad ubbidire.  Talché  si  vede  certo,  che  di quel  che  si  dica  uno  popolo  circa  la mala  o buona  disposizion  sua,  si  debbe tenere  non  gran  conto,  quando  tu  sia ordinato  in  modo  da  poterlo  mantenere, s’ egli  è ben  disposto;  s’ egli  è mal  disposto, da  poter  provvedere  che  non  ti offenda.  Questo  s’intende  per  quelle  male disposizioni  che  hanno  i popoli,  nate  da qualunque  altra  cagione,  che  o per  avere perduto  la  libertà,  o il  loro  principe stato  amato  da  loro,  e che  ancora  sia vivo;  perchè  le  male  disposizioni  che nascono  da  queste  cagioni,  sono  sopra ogni  cosa  formidabili,  e che  hanno  bisogno di  grandi  rimedi  a frenarle  : 1'  altre sue  indisposizioni  fieno  facili,  quando ci  non  abbia  capi  a chi  rifuggire.  Perchè non  ci  è cosa,  dall’  un  canto,  più formidabile  che  una  moltitudine  sciolta e senza  capo;  e,  dall’  altra  parte,  non  è cosa  più  debole  : perchè,  quantunque  ella abbi  1’  armi  in  mano,  fia  facile  ridurla, purché  tu  abbi  ridotto  da  potere  fuggire il  primo  impeto;  perchè  quando  gli animi  sono  un  poco  raffreddi,  e che  ciascuno vede  di  aversi  a tornare  a casa sua,  cominciano  a dubitare  di  loro  medesimi, e pensare  alla  salute  loro,  o con fuggirsi  o con  l’accordarsi.  Però  una moltitudine  così  concitata,  volendo  fuggire questi  pericoli,  ha  subito  a fare  infra sè  medesima  un  capo  che  la  corregga, tenghila  unita  e pensi  alla  sua  difesa ; come  fece  la  Plebe  romana,  quando dopo  la  morte  di  Virginia  si  partì  da Roma,  e per  salvarsi  feciono  infra  loro venti  Tribuni:  e non  facendo  questo,  interviene  loro  scmj)re  quel  che  dice  L.  nelle  soprascritte  parole,  che  tutti insieme  sono  gagliardi;  e quando  ciascuno poi  comincia  a pensare  al  proprio pericolo,  diventa  vile  e debole. La  moltitudine  è più  savia e più  costante  che  un  principe. Nessuna  cosa  essere  più  vana  e più inconstante  che  la  moltitudine:  cosi  L.  nostro,  come  tutti  gli  altri  istorici affermano.  Perchè  spesso  occorre, nel  narrare  le  azioni  degli  uomini,  vedere la  moltitudine  avere  condannato alcuno  a morte,  e quel  medesimo  di  poi pianto  e sommamente  desiderato:  come si  vede  avere  fatto  il  Popolo  romano  di Manlio  Capitolino,  il  quale  avendo  CONDENNATO A MORTE,  sommamente  dipoi  desiderava. E le  parole  dell*  autore  son queste:  Populum  brevi,  posteaquam  ab co  periculum  nullum  eral, dcsidcrium rjus  tenuit.  Ed  altrove,  quando  mostra gli  accidenti  che  nacquero  in  Siracusa dopo  la  morte  di  Girolamo  nipote  di  Ierone,  dice:  Hcec  natura  mulliludinis  est : aut  umiliter  servii, aut  superbe  domi • natur.  Io  non  so  se  io  mi  prenderò  una provincia  dura,  e piena  di  tanta  difficoltà, che  mi  convenga  o abbandonarla con  vergogna,  o seguirla  con  carico; volendo  difendere  una  cosa,  la  quale, come  ho  detto,  da  tutti  gli  scrittori  è accusata.  Ma,  comunehc  si  sia,  io  non giudico    giudicherò  mai  essere  difetto difendere  alcune  oppinioni  con  le  ragioni, senza  volervi  usare  o la  autorità  o la forza.  Dico  adunque,  come  di  quello  difetto di  che  accusano  gli  scrittori  la moltitudine,  se  ne  possono  accusare  tutti gli  uomini  particolarmente,  e massime i principi;  perchè  ciascuno  che  non  sia regolato  dalle  leggi,  farebbe  quelli  medesimi errori  che  la  moltitudine  sciolta. E questo  si  può  conoscere  facilmente, perchè  e’  sono  c sono  stati  assai  principi, e de’ buoni  e de’ savi  ne  sono  stati pochi;  io  dico  de’ principi  che  hanno potuto  rompere  quel  freno  che  gli  può correggere;  intra  i quali  non  sono  quegli re  che  nascevano  in  Egitto,  quando in  quella  antichissima  antichità  si  governava quella  provincia  con  le  leggi; nè  quelli  che  nascevano  in  Sparta;  nè quelli  che  a’  nostri  tempi  nascono  in Francia:  il  quale  regno  è moderato  più dalle  leggi,  che  alcuno  altro  regno  di che  ne’ nostri  tempi  si  abbi  notizia.  E questi  re  che  nascono  sotto  tali  constituzioni,  non  sono  da  mettere  in  quel numero,  donde  si  abbia  a considerare la  natura  di  ciascuno  uomo  per  sè,  e vedere  se  egli  è simile  alla  moltitudine: perchè  a rincontro  loro  si  debbe  porre una  moltitudine  medesimamente  regolata dalle  leggi  come  sono  loro;  e si  troverà in  lei  essere  quella  medesima  bontà  che noi  veggiamo  essere  in  quelli,  e vedrassi quella    superbamente  dominare  nè umilmente  servire:  come  era  il  Popolo romano,  il  quale  mentre  durò  la  Repubblica  incorrotta,  non  servì  mai  umilmente nè  mai  dominò  superbamente; anzi  con  li  suoi  ordini  e magistrati  tenne il  grado  suo  onorevolmente.  E quando era  necessario  insurgerc  contra  a uno potente,  lo  faceva;  come  si  vede  in  Manlio, ne’  Dieci,  ed  in  altri  che  cercorno opprimerla  : e quando  era  necessario ubbidire  a’  Dittatori  ed  a’ Consoli  per  la salute  pubblica,  lo  faceva.  E se  il  Popolo romano  desiderava  Manlio  Capitolino morto,  non  è meraviglia;  perchè e*  desiderava  le  sue  virtù,  le  quali  erano state  tali,  che  la  memoria  di  esse  recava compassione  a ciascuno;  cd  arebbono avuto  forza  di  fare  quel  medesimo  effetto in  un  principe,  perchè  1*  è sentenza di  tutti  li  scrittori,  come  la  virtù  si lauda  e si  ammira  ancora  negli  inimici suoi:  e se  Manlio,  infra  tanto  desiderio, fusse  risuscitato,  il  Popolo  di  Roma  arebbe dato  di  lui  il  medesimo  giudizio,  come ei  fece,  tratto  che  lo  ebbe  di  prigione, che  poco  di  poi  lo  condennò  a morte; nonostante  die  si  vegga  di  principi  tenuti savi,  i quali  hanno  fatto  morire qualche  persona,  e poi  sommamente  desideratala : come  Alessandro,  Clito  ed altri  suoi  amici  ; ed  Erode,  Marianne.  Ma quello  che  lo  istorico  nostro  dice  della natura  della  moltitudine,  non  dice  di quella  che  è regolata  dalle  leggi,  come era  la  romana;  ma  della  sciolta,  come era  la  siracusana:  la  quale  fece  quelli errori  che  fanno  gli  uomini  infuriati  e sciolti,  come  fece  Alessandro  magno,  ed Erode,  ne’ casi  detti.  Però  non  è più  da incolpare  la  natura  della  moltitudine  che de’ principi,  perchè  tutti  egualmente  errano, quando  tutti  senza  rispetto  possono errare.  Di  che,  oltre  a quello  che ho  detto,  ci  sono  assai  essempi,  ed  intra gli  imperadori  romani,  ed  intra  gli altri  tiranni  e, principi;  dove  si  vede tanta  incostanza  e tanta  variazione  di vita,  quanta  mai  non  si  trovasse  in  alcuna moltitudine.  Conchiudo,  adunque, contea  olla  comune  oppimene,  la  qual dice  come  i popoli,  quando  sono  principi,  sono  vari,  mutabili,  ingrati;  affermando che  in  loro  non  sono  altrimente questi  peccati  che  si  siano  ne’  principi particolari.  Ed  accusando  alcuni  i popoli ed  i principi  insieme,  potrebbe  dire  il vero;  ma  traendone  i principi,  s’inganna; perchè  un  popolo  che  comanda  e sia bene  ordinato,  sarà  stabile,  prudente  e grato  non  altrimenti  che  un  principe,  o meglio  che  un  principe,  eziandio  stimato savio:  e dall’altra  parte,  un  priucipe sciolto  dalle  leggi,  sarà  ingrato,  vario ed  imprudente  più  che  uno  popolo.  E che la  variazione  del  procedere  loro  nasce non  dalla  natura  diversa,  perchè  in  tutti è ad  un  modo:  e se  vi  è vantaggio  di bene,  è nei  popolo;  ma  dallo  avere  più o meno  rispetto  alle  leggi,  dentro  alle quali  l’uno  e l’altro  vive.  E chi  considerrà  il  Popolo  romano,  lo  vedrà  essere stato  per  quattrocento  anni  iuimico  del nome  regio,  ed  amatore  della  gloria  e del  bene  comune  della  sua  patria:  vedrà tanti  essempi  usati  da  lui,  clic  testiiuoniauo  1’  una  cosa  e V altra.  £ se  alcuno mi  allegasse  la  ingratitudine  eh7  egli  usò centra  a Scipione,  rispondo  quello  die di  sopra  lungamente  si  discorse  in  questa  materia,  dove  si  mostrò  i popoli  essere  meno  iugraii  de’ principi.  Ma  quanto alla  prudenza  ed  alla  stabilità,  dico,  come uno  popolo  è più  prudente,  più  stabile e di  miglior  giudicio  che  un  principe. E uon  senza  cagione  si  assomiglia la  voce  d7  un  popolo  a quella  di  Dio; perchè  si  vede  una  oppinioue  universale fare  effetti  meravigliosi  ne’ pronostichi suoi:  talché  pare  che  per  occulta virtù  e’ prevegga  il  suo  male  ed  il  suo bene.  Quanto  al  giudicare  le  cose,  si vede  rarissime  volte,  quando  egli  ode due  concionanti  che  tendino  in  diverse parti,  quando  e’ sono  di  egual  virtù,  che non  pigli  *ia  oppinione  migliore,  e che non  sia  capace  di  quella  verità  ch’egli  ode. £ se  nelle  cose  gagliarde,  o che  paiano utili,  come  di  sopra  si  dice, egli  erra  ; molte  volte  erra  ancora  uri  principe  nelle  sue proprie  passioni,  le  quali  sono  molle  più che  quelle  de’  popoli.  Yedesi  ancora,  nelle sue  elezioni  ai  magistrati,  fare  di lunga  migliore  elezione  che  uno  principe; nè  mai  si  persuaderà  ad  un  popolo, che  sia  bene  tirare  alla  degnila uno  uomo  infame  e di  corrotti  costumi: il  che  facilmente  e per  mille  vie  si  persuade ad  un  principe.  Yedesi  un  popolo cominciare  ad  avere  in  orrore  una  cosa, e molti  secoli  stare  in  quella  oppinione: il  che  non  si  vede  in  uno  principe.  E dell’  una  e dell’  altra  di  queste  due  cose voglio  mi  basti  per  testimone  il  Popolo romano:  il  quale,  in  tante  centinaia d’anni,  in  tante  elezioni  di  Consoli  e di Tribuni,  non  fece  quattro  elezioni  di  che quello  si  avesse  a pentire.  Ed  ebbe,  come ho  detto,  tanto  in  odio  il  nome  regio, che  nessuno  obbligo  di  alcuno  suo  cittadino, che  tentasse  quel  nome,  potette fargli  fuggire  le  debite  pene.  Yedesi, oltra  di  questo,  le  città  dove  i popoli sono  principi,  fare  in  brevissimo  tempo augumenti  eccessivi,  e molto  maggiori che  quelle  che  sempre  sono  state  sotto un  principe  ! come  fece  Roma  dopo  la cacciata  de’  re,  ed  Atene  da  poi  che  la si  liberò  da  Pisistrato.  11  che  non  può nascere  da  altro,  se  non  che  sono  migliori governi  quelli  de*  popoli  che  quelli de*  principi.    voglio  che  si  opponga  a questa  mia  oppinione  tutto  quello  che lo  istorico  nostro  ne  dice  nel  preallcgato testo,  ed  in  qualunque  altro;  perchè,  se si  discorreranno  tutti  i disordini  de’popoli,  tutti  i disordini  de*  principi,  tutte le  glorie  de*  popoli,  tutte  quelle  de’ principi, si  vedrà  il  popolo  di  bontà  e di gloria  essere  di  lunga  supcriore.  E se  i principi  sono  superiori  a*  popoli  nello ordinare  leggi,  formare  vite  civili, ordinare  statuti  ed  ordini  nuovi  ; i popoli  sono  tanto  superiori  nel  mantenere le  cose  ordinate,  eh’  egli  aggiungono senza  dubbio  alla  gloria  di  coloro che  l’ordinano.  Ed  in  somma,  per  epilegare  questa  materia,  dico  come  hanno durato  assai  gli  stati  de’ principi,  hanno durato  assai  gli  stati  delle  repubbliche, e l’uno  e l’  altro  ha  avuto  bisogno  d’essere regolato  dalle  leggi  : perchè  un  principe che  può  fare  ciò  che  vuole,  è pazzo; un  popolo  che  può  fare  ciò  che  vuole, non  è savio.  Se,  adunque,  si  ragionerà d' un  principe  obbligato  alle  leggi,  ed’  un  popolo  incatenalo  da  quelle,  si  vedrà più  virtù  nel  popolo  che  nel  principe: se  si  ragionerà  dell’ uno  e dell’altro sciolto,  si  vedrà  • meno  errori  nel popolo  che  nei  principe;  e quelli  minori, ed  aranno  maggiori  rimedi.  Perchè  ad un  popolo  licenzioso  e tumultuario,  gli può  da  un  uomo  buono  esser  parlato, e facilmente  può  essere  ridotto  nella  via buona  : ad  un  principe  cattivo  non  è alcuno che  possa  parlare,    vi  è altro rimedio  che  il  ferro.  Da  che  si  può  far coniettura  della  importanza  della  malattia dell’uno  e dell’altro:  chè  se  a curare la  malattia  del  popolo  bastano  le parole,  ed  a quella  del  principe  bisogna il  ferro,  non  sarà  mai  alcuno  che  non giudichi,  che  dove  bisogna  maggior  cura, siano  maggiori  errori.  Quando  un  popolo è bene  sciolto,  non  si  temono  le  pazzie che  quello  fa,    si  ha  paura  del  mal presente,  ma  di  quello  che  ne  può  nascere, potendo  nascere  infra  tanta  confusione un  tiranno.  Ma  ne’ principi  tristi interviene  il  contrario:  che  si  teme il  male  presente,  e nel  futuro  si  spera; persuadendosi  gli  uomini  che  la  sua  cattiva vita  possa  far  surgere  una  libertà. Sì  che  vedete  la  differenza  dell’  uno  e dell’  altro,  la  quale  è quanto  dalle  cose che  sono,  a quelle  che  hanno  ad  essere. Le  crudeltà  della  moltitudine  sono  contra  a chi  ei  temono  clic  occupi  il  ben comune  : quelle  d’  un  principe  sono  contro a chi  ci  temono  che  occupi  il  bene proprio.  Ma  la  oppiti  ione  contro  ai  popoli nasce  perchè  de’  popoli  ciascuno dice  male  senza  paura  e liberamente, ancora  mentre  che  regnano:  de’  principi si  parla  sempre  con  mille  paure  e mille rispetti.    mi  pare  fuor  di  proposito, poiché  questa  materia  mi  vi  tira,  disputare nel  seguente  capitolo  di  quali  confederazioni altri  si  possa  più  fidare,  o di  quelle  falle  con  una  repubblica,  o di quelle  fatte  con  ui>  principe. Di  quali  confederazioni, o lega,  altri  si  può  più  fidare  ; o di quella  fatta  con  una  repubblica, o di quella  fatta  con  uno  principe. Perchè  ciascuno    occorre  che  P uno principe  con  l’altro,  o V una  repubblica con  l’altra,  fanno  lega  ed  amicizia  insieme ; ed  ancora  similmente  si  contrae confederazione  ed  accordo  intra  una  repubblica  ed  uno  principe  mi  pare  di esaminare  qual  fede  è più  stabile,  e di quale  si  debba  tenere  più  conto,  o di quella  d’  una  repubblica,  o di  quella d’ uno  principe,  lo,  esaminando  tutto, credo  che  in  molti  casi  e’ siano  simili. ed  in  alcuni  vi  sia  qualche  disformità. Credo  per  tanto,  che  gli  accordi  fatti  per forza  non  ti  saranno    da  un  principe nè  da  una  repubblica  osservali;  credo che  quando  la  paura  dello  stato  venga, l'uno  e l'altro,  per  non  lo  perdere,  ti romperà  la  fede,  e ti  userà  ingratiludine.  Demetrio,  quel  che  fu  chiamato espugnatore  delle  cittadi,  aveva  fatto  agli Ateniesi  infiniti  benefici!  : occorse  dipoi, che  sendo  rotto  da’ suoi  inimici,  e rifuggendosi in  Atene,  come  in  città  amica ed  a lui  obbligata,  non  fu  ricevuto  da quella  : il  che  gli  dolse  assai  più  che non  aveva  fatto  la  perdita  delle  genti  e dello  esercito  suo.  Pompeio,  rotto  che fu  da  Cesare  in  Tessaglia,  si  rifuggì  in Egitto  a Tolomeo,  il  quale  era  per  lo addietro  da  lui  stato  rimesso  nel  regno; e fu  da  lui  morto.  Le  quali  cose  si  vede che  ebbero  le  medesime  cagioni;  nondimeno  fu  più  umanità  usata  e meno  •ingiuria  dalla  repubblica,  che  dal  principe. Dove  è,  pertanto,  la  paura,  si  troverà  in  fallo  la  medesima  fede.  E se  si troverà  o una  repubblica  o uno  principe, che  per  osservarti  la  fede  aspetti di  rovinare,  può  nascere  questo  ancora da  simili  cagioni.  E quanto  al  principe, può  molto  bene  occorrere  che  egli  sia amico  d’  un  principe  potente,  che  se bene  non  ha  occasione  allora  di  difenderlo, ei  può  sperare  che  col  tempo  e*  lo restituisca  nel  principato  suo;  o veramente che,  avendolo  seguito  come  partigiano, ei  non  creda  trovare    fede nè  accordi  con  il  nimico  di  quello.  Di questa  sorte  sono  stati  quelli  principi del  reame  di  Napoli  che  hanno  seguite le  parti  franciose.  E quanto  alle  repubbliche, fu  di  questa  sorte  Sagunto  in Ispagna,  che  aspettò  la  rovina  per  seguire le  parti  romane;  e di  questa  Firenze, per  seguire  nel  4512  le  parti franciose.  E credo,  computata  ogni  cosa, che  in  questi  casi,  dove  è il  pericolo urgente,  si  troverà  qualche  stabilità  più nelle  repubbliche,  che  ne’  principi.  Perche,  sebbene  le  repubbliche  avessino quel  medesimo  animo  e quella  medesima voglia  che  un  principe,  lo  avere  il  moto loro  tardo,  farà  che  le  porranno  sempre  più  a risolversi  che  il  principe,  e per  questo  porranno  più  a rompere  la fede  di  lui.  Romponsi  le  confederazioni per  lo  utile.  In  questo  le  repubbliche sono  di  lunga  più  osservanti  degli  accordi, che  i principi.  E potrebbesi  addurre essempi,  dove  uno  miuinio  utile ha  fatto  rompere  la  fede  ad  uno  principe, e dove  una  grande  utilità  non  ha fatto  rompere  la  fede  ad  una  repubblica  : come  fu  quello  partito  che  propose  Temistocle agli  Ateniesi,  a’ quali  nella  conclone disse  che  aveva  uno  consiglio  da fare  alla  loro  patria  grande  utilità  ; ma non  lo  poteva  dire  per  non  lo  scoprire, perchè  scoprendolo  si  toglieva  la  occasione del  farlo.  Onde  il  popolo  di  Atene elesse  Aristide,  al  quale  si  comunicasse la  cosa,  e secondo  dipoi  che  paresse  a lui  se  ne  deliberasse:  al  quale  Temistode  mostrò  come  I*  armata  di  tutta  Grecia, ancora  che  stesse  sotto  la  fede  loro, era  in  lato  che  facilmente  si  poteva  guadagnare o distruggere;  il  che  faceva  gli Ateniesi  al  tutto  arbitri  di  quella  provincia. Donde  Aristide  riferì  ai  popolo, il  partito  di  Temistocle  essere  utilissimo, ma  disonestissimo  : per  la  qual  cosa il  popolo  al  tutto  lo  ricusò.  II  che  non arebbe  fatto  Filippo  Macedone,  e gli  altri principi  che  più  utile  hanno  cerco e più  guadagnato  con  il  rompere  la  fede, che  con  verun  altro  modo.  Quanto  a rompere  i patti  per  qualche  cagione  di inosservanza,  di  questo  io  non  parlo come  di  cosa  ordinaria;  ma  parlo  dì quelli  che  si  rompono  per  cagioni  istrasordinarie:  dove  io  credo,  per  le  cose (lette,  che  il  popolo  facci  minori  errori che  il  principe,  e per  questo  si  possa Fidar  più  di  lui  che  del  principe. LX.  — Come  il  consolato  e qualungue  altro  magistrato  in  Roma  si  (lava senza  rispetto  di  età. E’  si  vede  per  V ordine  della  istoria, come  la  Repubblica  romana,  poiché  ’i consolato  venne  nella  Plebe,  concesse quello  ai  suoi  cittadini  senza  rispetto  di età  o di  sangue;  ancora  cbe  il  rispetto della  età  mai  non  fusse  in  Roma,  ma sempre  si  andò  a trovare  la  virtù,  o in giovane  o in  vecchio  cbe  la  fusse.  Il  che si  vede  per  il  testimone  di  Valerio  Corvino, che  fu  fatto  Consolo  nell!  Ventitré anni:  e Valerio  detto,  parlando  ai  suoi soldati,  disse  come  il  consolato  crai  prcetnium  virfulisj,  non  sanguinis.  La  qual cosa  se  fu  bene  considerata,  o no,  sarebbe da  disputare  assai.  E quanto  al  sangue,  fu concesso  questo  per  necessità  ; e quella  necessità che  fu  in  Roma,  sarebbe  in  ogni città  che  volesse  fare  gli  effetti  che  fece Roma,  come  altra  volta  si  è detto:  per-  i! chè  e’  non  si  può  dare  agli  uomini  disagio senza  premio,    si  può  torre  la SPERANZA di  conseguire  il  premio  senza pericolo.  E però  a buona  ora  convenne che  la  Plebe  avesse  speranza  di  avere il  consolato  ; e di  questa  SPERANZA  si nutrì  un  tempo  senza  averlo.  Dipoi  non bastò  la  speranza,  che  e’ convenne  che si  venisse  allo  effetto.  Ma  la  città  che non  adopera  la  sua  plebe  ad  alcuna  cosa gloriosa,  la  può  trattare  a suo  modo, come  altrove  si  disputò:  ma  quella  elle vuole  fare  quel  che  fe  Roma,  non  ha  a fare  questa  distinzione.  E dato  che  così sia,  quella  del  tempo  non  ha  replica  ; anzi  è necessaria  : perchè  nello  eleggere uno  giovane  in  uno  grado  che  abbi  bisogno d’ una  prudenza  di  vecchio,  conviene, avendovelo  ad  eleggere  la  moltitudine, che  a quel  grado  lo  facci  pervenire qualche  sua  nobilissima  azione. E quando  un  giovane  è di  tanta  virtù, che  si  sia  fatto  in  qualche  cosa  notabile conoscere  ; sarebbe  cosa  dannosissima che  la  città  non  se  «e  potesse  valere  allora, e che  la  avesse  ad  aspettare  che fusse  invecchiato  con  lui  quel  vigore deir  animo,  quella  prontezza,  della  quale in  quella  età  la  patria  sua  si  poteva  valere : come  si  valse  Roma  di  Valerio  Corvino, di  Scipione,  di  Pompeio  e di  molti altri  che  trionfarono  giovanissimi. Laudano  sempre  gli  uomini,  ma  noti sempre  ragionevolmente,  gli  antichi  tempi, e gli  presenti  accusano:  ed  in  modo sono  delle  cose  passate  partigiani,  che non  solamente  celebrano  quelle  etadi che  da  loro  sono  state,  per  la  memoria che  ne  hanno  lasciata  gli  scrittori,  conosciute ; ma  quelle  ancora  che,  sendo già  vecchi,  si  ricordano  nella  loro  giovanezza avere  vedute.  E quando  questa loro  oppinionc  sia  falsa,  come  il  più delle  volte  è,  mi  persuado  varie  essere le  cagioni  che  a questo  inganno  gli  conducono. E la  prima  credo  sia,  che  delle cose  antiche  non  s’intenda  al  tutto  lu verità;  e che  di  quelle  il  più  delle  vollesi  nasconda  quelle  cose  che  recherebbono  a quelli  tempi  infamia;  e quelle altre  che  possono  partorire  loro  gloria, si  remlino  magnifiche  ed  amplissime. Però  che  i più  degli  scrittori  in  modo  * alla  fortuna  de’  vincitori  ubbidiscono, che  per  fare  le  loro  vittorie  gloriose, non  solamente  accrescono  quello  che  da loro  è virtuosamente  operato,  ma  ancora le  azioni  de’  nimici  in  modo  illustrano, che  qualunque  nasce  dipoi  in qualunque  delle  due  provincie,  o nella vittoriosa  o nella  vinta,  ha  cagione  di maravigliarsi  di  quelli  uomini  e di  quelli tempi,  ed  è forzato  sommamente  laudargli ed  amargli.  Olirà  di  questo, odiando  gli  uomini  le  cose  o per  timore o per  invidia,  vengono  ad  essere spente  due  potentissime  cagioni  delP odio  nelle  cose  passate,  non  ti  potendo quelle  offendere,  e non  ti  dando cagione  d’  invidiarle.  Ma  al  contrario interviene  di  quelle  cose  che  si  maneggiano e veggono  ; le  quali,  pei*  la  intera cognizione  di  esse,  non  ti  essendo  in alcuna  parte  nascoste*  e conoscendo  in quelle  insieme  con  il  bene  molte  altre cose  che  ti  dispiacciono,  sei  forzato  giudicarle alle  antiche  molto  inferiori,  ancora  che  in  verità  le  presenti  molto  più di  quelle  di  gloria  e di  fama  meritassero: ragionando  non  delie  cose  pertinenti alle  arti,  le  quali  hanno  tanta chiarezza  in  sè,  che  i tempi  possono torre  o dar  loro  poco  più  gloria  che per  loro  medesime  si  meritino  ; ma  parlando di  quelle  pertinenti  alla  vita  e costumi  degli  uomini,  delle  quali  non se  ne  veggono    chiari  testimoni.  Replico, pertanto,  essere  vera  quella  consuetudine del  laudare  e biasimare  soprascritta ; ma  non  essere  già  sempre vero  che  si  erri  nel  farlo.  Perchè  qualche volta  è necessario  che  giudichino la  verità  ; perchè  essendo  le  cose  umane sempre  in  molo,  o le  salgono,  o lescendono.  E vedesi  una  città  o una  provincia essere  ordinata  al  vivere  politico da  qualche  uomo  eccellente;  ed,  un  tempo, per  la  virtù  di  quello  ordinatore, andare  sempre  in  augumento  verso  il meglio.  Chi  nasce  allora  in  tale  stato, ed  ei  laudi  più  li  antichi  tempi  che  i moderni,  s’ inganna  ; ed  è causato  il  suo inganno  da  quelle  cose  che  di  sopra  si sono  dette.  Ma  coloro  che  nascono  dipoi, in  quella  città  o provincia,  che  gli  è venuto  il  tempo  che  la  scende  verso  la parte  più  rea,  allora  non  s’  ingannano. E pensando  io  come  queste  cose  procedino,  giudico  il  mondo  sempre  essere stalo  ad  un  medesimo  modo,  ed  in  quello esser  stato  tanto  di  buono  quanto  di tristo  ; ma  variare  questo  tristo  e questo buono  di  provincia  in  provincia: come  si  vede  per  quello  si  ha  notizia  di quelli  regni  antichi  che  variavano  dall’uno all’altro  per  la  variazione  de’ costumi; ma  il  mondo  restava  quel  medesimo. Solo  vi  era  questa  differenza, che  dove  quello  aveva  prima  collocata la  sua  virtù  in  Assiria,  la  collocò  in Media,  dipoi  in  Persia,  tanto  che  la  ne venne  in  Italia  ed  a Roma:  e se  dopo 10  imperio  romano  non  è seguito  imperio che  sia  durato,    dove  il  mondo abbia  ritenuta  la  sua  virtù  insieme;  si vede  nondimeno  essere  sparsa  in  di molte  nazioni  dove  si  viveva  virtuosamente; come  era  il  regno  de’  Franchi, 11  regno  de’ Turchi,  quel  del  Soldano; ed  oggi  i popoli  della  Magna  ; e prima quella  setta  Saracina  che  fece  tante  gran cose,  ed  occupò  tanto  mondo,  poiché  la distrusse  lo  imperio  romano  orientale. In  tutte  queste  provincie,  adunque,  poiché i Romani  rovinorono,  ed  in  tutte queste  sètte  è stata  quella  virtù,  ed  è ancora  in  alcuna  parte  di  esse,  che  si desidera,  e che  con  vera  laude  si  lauda. E chi  nasce  in  quelle,  e lauda  i tempi passati  più  che  i presenti,  si  potrebbe ingannare;  ma  chi  nasce  in  Italia  ed  in Grecia,  e non  sia  divenuto  o in  Italia oltramontano  o in  Grecia  turco,  ha  ragione di  biasimare  i tempi  suoi,  e laudare gli  altri  : perchè  in  quelli  vi  sono assai  cose,  che  gli  fanno  meravigliosi  ; in  questi  non  è cosa  alcuna  che  gli  ricomperi da  ogni  estrema  miseria,  infamia e vituperio:  dove  non  è osservanza di  religione,  non  di  leggi,  non  di  milizia; ma  sono  maculati  d’ ogni  ragione bruttura.  E tanto  sono  questi  vizi  più detestabili,  quanto  ei  sono  più  in  coloro che  seggono  prò  tribunali,  comandano a ciascuno,  e vogliono  essere  adorati. .Ha  tornando  al  ragionamento  nostro, dico  che  se  il  giudicio  degli  uomini  è corrotto  in  giudicare  quale  sia  migliore, o il  secolo  presente  o l’antico,  in  quelle cose  dove  per  l’antichità  ei  non  ha  possuto  avere  perfetta  cognizione  come  egli ha  de’  suoi  tempi  ; non  doverrebbe  corrompersi ne’  vecchi  nel  giudicare  i lempi  della  gioventù  e vecchiezza  loro,  avendo quelli  e questi  egualmente  conosciuti e visti.  La  qual  cosa  sarebbe  vera,  se gli  uomini  per  tutti  i tempi  della  lor vita  l'ussero  del  medesimo  giudizio,  ed avessero  quelli  medesimi  appetiti  : ma variando  quelli,  ancora  che  i tempi  nou variino,  non  possono  parere  agli  uomini quelli  medesimi,  avendo  altri  appetiti, altri  diletti,  altre  considerazioni  nella vecchiezza,  che  nella  gioventù.  Perchè, mancando  gli  uomini  quando  li  invecchiano di  forze,  e crescendo  di  giudizio e di  prudenza;  è necessario  che  quelle cose  che  in  gioventù  parevano  loro  sopportabili e buone,  ineschino  poi  invecchiando insopportabili  e cattive  ; e dove quelli  ne  doverrebbono  accusare  il  giudicio  loro,  ne  accusano  i tempi. Sendo. ultra  di  questo,  gli  appetiti  umani  insaziabili, perchè  hanno  dalla  natura  di potere  e voler  desiderare ogni  cosa,  e dalla  fortuna  di  potere  conseguirne  poche; ne  risulta  continuamente  una  mala contentezza  nelle  menti  umane,  ed  un fastidio  delle  cose  che  si  posseggono:  il che  fa  biasimare  i presenti tempi,  laudare  i passati,  e desiderare  i futuri  ; ancora  che  a fare  questo  non  fussino mossi  da  alcuna  ragionevole  cagione.  Non so,  adunque,  se  io  meriterò  d’ essere numerato  tra  quelli  che  si  ingannano, se  in  questi  mia  discorsi  io  lauderò troppo  i tempi  degli  antichi  Romani,  e biasimerò  i nostri.  E veramente,  se  la virtù  che  allora  regnava,  ed  il  vizio  che ora  regna,  non  fussino  più  chiari  che il  sole,  andrei  col  parlare  più  rattenuto, dubitando  non  incorrere  in  quello inganno  di  che  io  accuso  alcuni.  Ma  essendo la  cosa  si  manifesta  che  ciascuno la  vede,  sarò  animoso  in  dire  manifestamente quello  che  intenderò  di  quelli e di  questi  tempi;  acciocché  gli  animi de’  giovani  che  questi  mia  scritti  leggeranno, possino  fuggire  questi,  e prepararsi ad  imitar  quegli,  qualunque  volta la  fortuna  ne  dessi  loro  occasione.  Perchè gli  è offizio  di  uomo  buono,  quel bene  che  per  la  malignità  de’  tempi  e della  fortuna  tu  non  hai  potuto  operare. insegnarlo  nd  altri,  acciocché  sendone molti  capaci,  alcuno  di  quelli,  più  amato dal  Cielo,  possa  operarlo.  Ed  avendo ne’  discorsi  del  superior  libro  parlato delle  deliberazioni  fatte  da*  Romani  pertinenti al  di  dentro  della  città,  in  questo parleremo  di  quelle,  che  ’\  Popolo romano  fece  pertinenti  allo  augumento dello  imperio  suo. Quale  fu  più  cagione  dello imperio  che  acquistarono  i Romani, o la  virtùj  o la  fortuna. Molti  hanno  avuta  oppinione,  intra  i quali  è Plutarco,  gravissimo  scrittore, che  ’1  Popolo  romano  nello  acquistare lo  imperio  fusse  più  favorito  dalla  fortuna che  dalla  virtù.  Ed  intra  le  altre ragioni  che  ne  adduce,  dice  che  per  confessione di  quel  popolo  si  dimostra, quello  avere  riconosciute  dalla  fortuna tutte  le  sue  vittorie,  avendo  quello  edificati più  templi  alla  Fortuna,  che  ad alcun  altro  Dio.  E pare  che  a questa oppinione  si  accosti  Livio;  perchè  rade volte  è che  facci  parlare  ad  alcuno  Romano, dove  ei  racconti  della  virtù,  che non  vi  aggiunga  la  fortuna.  La  qual cosa  io  non  voglio  confessare  in  alcun modo,    credo  ancora  si  possa  sostenere. Perchè,  se  non  si  è trovato  mai repubblica  che  abbi  fatti  i progressi  che Roma,  è nato  che  non  si  è trovata  mai repubblica  che  sia  stata  ordinata  a potere acquistare  come  Roma.  Perchè  la virtù  degli  eserciti  gli  feciono  acquistare Io  imperio;  e l’ordine  del  procedere, ed  il  modo  suo  proprio,  e trovato dal  suo  primo  legislatore,  gli  fece mantenere  lo  acquistato:  come  di  sotto largamente  in  più  discorsi  si  narrerà. Dicono  costoro,  che  non  avere  mai  accozzate  due  potentissime  guerre  in  uno medesimo  tempo,  fu  fortuna  e non  virtù del  Popolo  romano  ; perchè  e’  non ebbero  guerra  con  i Latini,  se  non quando  egli  ebbero  non  tanto  battuti i Sanniti,  quanto  che  la  guerra  fu  da*  Romani fatta  in  difensione  di  quelli  ; non combatterono  con  i Toscani,  se  prima non  ebbero  soggiogati  i Latini,  ed  enervati con  le  spesse  rotte  quasi  in  tutto i Sanniti:  che  se  due  di  queste  potenze intere  si  fussero,  quando  erano  fresche, accozzate  insieme,  senza  dubbio  si  può facilmente  conietturare  che  ne  sarebbe seguito  la  rovina  della  romana  Repubblica. Ma,  comunelle  questa  cosa  nascesse, mai  non  intervenne  che  eglino  avessino due  potentissime  guerre  in  un medesimo  tempo:  anzi  parve  sempre, o nel  nascere  dell’ una,  l’altra  si  spegnesse; o nel  spegnersi  dell’ una,  l’altra nascesse.  11  che  si  può  facilmente  vedere per  T ordine  delle  guerre  fatte  da loro:  perchè,  lasciando  stare  quelle  che feciono  prima  che  Roma  fusse  presa dai  Franciosi,  si  vede  che,  mentre  che combatterno  con  gli  Equi  e con  i Volsci,  mai,  mentre  questi  popoli  furono potenti,  non  si  levarono  contro  di  lor uitre  genti.  Domi  costoro,  nacque  la guerra  contea  ai  Sanniti;  e benché  innanzi che  finisse  tal  guerra  i popoli latini  si  ribellassero  da’  Romani,  nondimeno quando  tale  ribellione  segui,  i Sanniti  erano  in  lega  con  Roma,  e con il  loro  esercito  aiutorono  i Romani  domare la  insolenza  latina.  I quali  domi, risurse  la  guerra  di  Sannio.  Battute  per molte  rotte  date  a’  Sanniti  le  loro  forze, nacque  la  guerra  de’ Toscani;  la  qual composta,  si  rilevarono  di  nuovo  i Sanniti per  la  passata  di  Pirro  in  ITALIA. Il  quale  come  fu  ribattuto,  e rimandato in  Grecia,  appiccarono  la  prima  guerra con  i Cartaginesi:    {ìrima  fu  tal  guerra finita,  che  tutti  i Franciosi,  e di  là e di  qua  dall’ Alpi,  congiurarono  conti  a i Romani;  tanto  che  intra  Popolonia  e Pisa,  dove  è oggi  la  torre  a San  Vincenti, furono  con  massima  strage  superati. Finita  questa  guerra,  per  ispazio di  venti  anni  ebbero  guerra  di  non molta  importanza;  perchè  non  eombatterono  con  altri  che  con  i Liguri,  c con quel  rimanente  de’  Franciosi  che  era  in Lombardia.  E così  stettero  tanto  che nacque  la  seconda  guerra  cartaginese, la  qual  per  sedici  anni  tenne  occupata Italia.  Finita  questa  con  massima  gloria, nacque  la  guerra  macedonica  ; la  quale tìnita,  venne  quella  d’ Antioco  e d’ Asia. Dopo  la  qual  vittoria,  non  restò  in  tutto il  mondo    principe    repubblica  che, di  per  sè,  o tutti  insieme,  si  potessero opporre  alle  forze  romane.  Ma  innanzi a quella  ultima  vittoria,  chi  considerrà l’ ordine  di  queste  guerre,  ed  il  modo del  . procedere  loro,  vedrà  dentro  mescolate con  la  fortuna  una  virtù  e prudenza  grandissima.  Talché,  chi  esaminasse la  cagione  di  tale  fortuna,  la  ritroverebbe facilmente:  perchè  gli  è cosa certissima,  che  come  un  principe  e un popolo  viene  in  tanta  riputazione,  che ciascuno  principe  e popolo  vicino  abbia di  per    paura  ad  assaltarlo,  e ne  tema, sempre  interverrà  che  ciascuno  d essi  mai  lo  assalterà,  se  non  necessitato ; in  modo  che  e’  sarà  quasi  come nella  elezione  di  quel  polente,  far  guerra con  quale  di  quelli  suoi  vicini  gli parrà,  e gii  altri  con  la  sua  industria quietare.  I quali,  parte  rispetto  alla  potenza suo,  parte  ingannati  da  quei  modi che  egli  terrà  per  nddormentargli,  si quietano  facilmente;  e gli  altri  potenti che  sono  discosto,  e che  non  hanno coinmerzio  seco,  curano  la  cosa  come cosa  longinqua,  e che  non  appartenga loro.  Nel  quale  errore  stanno  tanto  che questo  incendio  venga  loro  presso  : il quale  venuto,  non  hanno  rimedio  a spegnerlo se  non  con  le  forze  proprie;  le quali  dipoi  non  bastano,  sendo  colui diventato  potentissimo.  Io  voglio  lasciare andare,  come  i Sanniti  stettero  a vedere vincere  dal  Popolo  romano  i Yolsci  e gli  Equi;  e per  non  essere  troppo  prolisso, mi  farò  da’  Cartaginesi  : i quali erano  di  gran  potenza  c di  grande  estimazione quando  i Romani  combattevano con  i Sanniti  e con  i Toscani  ; perchè tii  già  tenevano  tutta  1’  Affrica,  tenevano ia  Stintigna  e la  Sicilia,  avevano  dominio in  parte  della  Spagna.  La  quale  polenza  loro,  insieme  con  V esser  discosto ne’ confini  dal  Popolo  romano,  fece  che non  pensarono  mai  di  assaltare  quello, nè  di  soccorrere  i Sanniti  e Toscani: anzi  fecero  come  si  fa  nelle  cose  che crescono,  più  tosto  in  lor  favore  collegandosi con  quelli,  e cercando  l’amicizia loro.    si  avviddono  prima  del1’  errore  fatto,  che  i Romani,  domi  tutti i popoli  mezzi  infra  loro  ed  i Cartaginesi, cominciarono  a combattere  insieme dello  imperio  di  Sicilia  e di  Spagna. Intervenne  questo  medesimo  a’  Franciosi che  a’ Cartaginesi,  e cosi  a Filippo  re de’ Macedoni,  e ad  Antioco;  e ciascuno di  loro  credea,  mentre  che  il  Popolo  romano era  occupato  con  l’altro,  che quell’  altro  lo  superasse,  ed  essere  a tempo,  o con  pace  o con  guerra,  difendersi da  lui.  In  modo  che  io  credo  che la  fortuna  che  ebbono  in  questa  parte i Romani,  1’  arebbono  tutti  quelli  principl  che  procedessero  come  i Romani,  c fussero  di  quella  medesima  virtù  che loro.  Sarebbeci  da  mostrare  a questo proposito  il  modo  tenuto  dal  Popolo romano  nello  entrare  nelle  provincie d’  altri,  se  nei  nostro  trattato  de’  principati  non  ne  avessimo  parlato  a lungo  ; perchè  in  quello  questa  materia  è diffusamente disputata.  Dirò  solo  questo  brevemente, come  sempre  s’ingegnarono avere  nelle  provincie  nuove  qualche  amico che  fusse  scala  o porta  a salirvi  o entrarvi,  o mezzo  a tenerla  : come  si vede  che  per.  il  mezzo  de’ Capovani  entrarono in  Sannio,  de’ Camertini  in  Toscana, de’  Mamertini  in  Sicilia,  de’  Saguntini  in  Spagna,  di  Massinissa  iti Affrica,  degli  Eloli  in  Grecia,  di  Eumene ed  altri  principi  in  Asia,  de’ Massiliensi e deili  Edui  in  Francia.  E così  non  mancarono mai  di  simili  appoggi,  per  potere facilitare  le  imprese  loro,  e nello acquistare  le  provincie  e nel  tenerle.  Il che  quelli  popoli  che  osserveranno,  vedranno avere  meno  bisogno  della  fortuna, che  quelli  che  ne  saranno  non buoni  osservatori.  E perchè  ciascuno possa  meglio  conoscere,  quanto  potè  più la  virtù  che  la  fortuna  loro  ad  acquistare quello  imperio  ; noi  discorreremo nel  seguente  capitolo  di  che  qualità  furono quelli  popoli  con  i quali  egli  ebbero a combattere,  e quanto  erano  ostinati a difendere  la  loro  libertà. 11.  — Con  quali  popoli  i Romani  ebbero a combattere, e come  ostinatamente quelli  difendevano  la  loro  libertà. Nessuna  cosa  fece  più  faticoso  a*  Romani superare  i popoli  d*  intorno,  c parte  delle  provincie  discosto,  quanto  lo amore  che  in  quelli  tempi  molti  popoli avevano  alla  libertà;  la  quale  tanto  ostinatamente difendevano,  che  mai  se  non da  una  eccessiva  virtù  sarebbono  stati * soggiogati.  Perchè,  per  molti  essempi  si conosce  a quali  pericoli  si  mettessino per  mantenere  o ricuperare  quella  ; quali  vendette  e’  facessino  contra  a coloro che  V avessino  loro  occupata.  Conoscesi  ancora  nelle  lezioni  delle  istorie, quali  danni  i popoli  e le  città  riccvino per  la  servitù.  E dove  in  questi  tempi ci  è solo  una  provincia  la  quale  si  possa dire  che  abbia  in    città  libere,  ne*  tempi antichi  in  tutte  le  provincie  erano  assai popoli  liberissimi.  Vedesi  come  in  quelli tempi  de’  quali  noi  parliamo  al  presente, in  Italia,  dall’  Alpi  che  dividono  ora  la Toscana  dalla  Lombardia,  insino  alla punta  d’Italia,  erano  molti  popoli  liberi; com’erano  i Toscani,  i Romani,  i Sanniti, e molti  altri  popoli  che  in  quel  resto d’ Italia  abitavano.    si  ragiona  mai che  vi  fusse  alcuno  re,  fuora  di  quelli che  regnarono  in  Roma,  e Porsena  re di  Toscaua;  la  stirpe  del  quale  come  si estinguesse,  non  ne  parla  la  istoria.  Ma si  vede  bene,  come  in  quelli  tempi  che  i . Romani  andarono  a campo  a Veio,  la Toscana  era  libera  : e tanto  si  godea della  sua  libertà,  e tanto  odiava  il  nome del  principe,  che  avendo  fatto  i Veienti per  loro  difensione  un  re  in  Veio,  e domandando  aiuto  a' Toscani  contra  ai Romani  ; quelli,  dopo  molte  consulte  fatte, deliberarono  di  non  dare  aiuto  a’Veienti, infino  a tanto  che  vivessino  sotto  ’1  re; giudicando  non  esser  bene  difendere  la patria  di  coloro  che  V avevano  di  già sottomessa  ad  altrui.  E facil  cosa  è conoscere donde  nasca  ne’  popoli  questa affezione  del  vivere  libero;  perchè  si  vede per  esperienza,  le  cittadi  non  avere  mai ampliato    di  domiuio    di  ricchezza, se  non  mentre  sono  state  in  libertà.  E veramente  meravigliosa  cosa  è a considerare, a quanta  grandezza  venne  Atene per  ispazio  di  cento  anni,  poiché  la  si liberò  dalla  tirannide  di  Pisistrato.  Ma sopra  tutto  meravigliosissima  cosa  è a considerare,  a quanta  grandezza  venne Roma,  poiché  la  si  liberò  da’  suoi  Re. La  cagione  è facile  ad  intendere;  perchè  non  il  bene  particolare,  ma  il  bene comune  è quello  che  fa  grandi  le  città. E senza  dubbio,  questo  bene  comune  non è osservato  se  non  nelle  repubbliche; perchè  lutto  quello  che  fa  a proposito suo,  si  eseguisce;  e quantunque  e’ torni in  danno  di  questo  o di  quello  privato, e’  sono  tanti  quelli  per  chi  detto  bene fa,  che  lo  possono  tirare  innanzi  contra alla  disposizione  di  quelli  pochi  che  ne fussino  oppressi.  Al  contrario  interviene quando  vi  è uno  principe;  dove  il  più delle  volte  quello  che  fa  per  lui,  offende la  città;  e quello  che  fa  per  la  città, offende  lui.  Dimodoché,  subito  che  nasce una  tirannide  sopra  un  viver  libero,  il manco  male  che  ne  resulti  a quelle  città, è non  andare  più  innanzi,    crescere più  in  potenza  o in  ricchezze  ; ma  il  più delle  volte,  anzi  sempre,  interviene  loro, che  le  tornano  indietro.  E se  la  sorte facesse  che  vi  surgesse  un  tiranno  virtuoso, il  quale, per  animo  e per  virtù d’  arme  ampliasse  il  dominio  suo,  non ne  risulterebbe  alcuna  utilità  a quella repubblica,  ma  a lui  proprio:  perchè e’  non  può  onorare  nessuno  di  quelli cittadini  che  siano  valenti  c buoni,  che egli  tiranneggia,  non  volendo  avere  ad avere  sospetto  di  loro.  Non  può  ancora le  città  che  egli  acquista,  sottometterle o farle  tributarie  a quella  città  di  che egli  è tiranno:  perchè  il  farla  potente non  fa  per  lui;  ma  per  lui  fa  tenere  lo Stato  disgiunto,  e che  ciascuna  terra  e ciascuna  provincia  riconosca  lui.  Talché di  suoi  acquisti,  solo  egli  ne  profitta,  e non  la  sua  patria.  E chi  volesse  confermare questa  oppinione  con  infinite  altre ragioni,  legga  Senofonte  nel  suo  trattato che  fa  De  Tirannide.  Non  è meraviglia adunque,  che  gli  antichi  popoli con  tanto  odio  perseguitassino  i tiranni, ed  nmassiiio  il  vivere  libero,  e che  il nome  della  libertà  fusse  tanto  stimato da  loro:  come  intervenne  quando  Girolamo nipote  di  lerone  siracusano  fu morto  in  Siracusa,  che  venendo  le  novelle della  sua  morte  in  nel  suo  esercito, che  non  era  molto  lontano  da  Siracusa,  cominciò  prima  a tumultuare,  e pigliare  1’  armi  contro  agli  ucciditori  di quello;  ma  come  ei  sentì  che  in  Siracusa si  gridava  libertà,  allettato  da  quel nome,  si  quietò  tutto,  pose  giti  V ira contra  a’  tirannicidi,  e pensò  come  iti quella  città  si  potesse  ordinare  un  viver libero.  Non  è meraviglia  ancora,  che  i popoli  faccino  vendette  istraordinaric contra  a quelli  che  gli  hanno  occupata la  libertà.  Di  che  ci  sono  stali  assai esempi,  de’ quali  ne  intendo  referire  solo uno,  seguilo  in  Coreica,  città  di  Grecia, ne’ tempi  della  guerra  peloponnesiaca; «love  sendo  divisa  quella  provincia  in due  fazioni,  delle  quali  1’  una  seguitava gli  Ateniesi,  V altra  gli  Spartani,  ne  nasceva che  di  molte  città,  che  erano  infra loro  divise,  T una  parte  seguiva  F amicizia di  Sparta,  l’altra  di  Atene:  ed  essendo occorso  clic  nella  detta  città  prcvalessino  i nobili,  e togliessino  la  libertà al  popolo,  i popolari  per  mezzo  degli Ateniesi  ripresero  le  forze,  e posto  le mani  addosso  a tutta  la  nobiltà,  gli  rinchiusero in  una  prigione  capace  di  tutti loro;  donde  gli  traevano  ad  otto  o dieci per  volta,  sotto  titolo  di  mandargli  in esilio  iti  diverse  parli,  e quelli  con  molti crudeli  essempi  facevauo  morire.  Di  che sendosi  quelli  che  restavano  accorti,  deliberarono, in  quanto  era  a loro  possibile, fuggire  quella  morte  ignominiosa  ; ed  armatisi  di  quello  potevano,  combattendo con  quelli  vi  volevano  entrare,  la entrata  della  prigione  difendevano;  di modo  che  il  popolo,  a questo  romore fatto  concorso,  scoperse  la  parte  superiore di  quel  luogo,  e quelli  con  quelle rovine  sufìbeorno.  Seguirono  ancora  in delta  provincia  molti  altri  simili  casi orrendi  e notabili  : talché  si  vede  esser vero,  che  con  maggiore  impeto  si  vendica una  libertà  che  ti  è suta  tolta,  che quella  che  li  è voluta  torre.  Pensando dunque  donde  possa  nascere,  che  in  quelli tempi  antichi,  i popoli  fussero  più  amatori della  libertà  che  in  questi;  credo nasca  da  quella  medesima  cagione  che fa  ora  gli  uomini  manco  forti  : la  quale credo  sia  la  diversità  della  educazione nostra  dalla  antica,  fondata  nella  diversità della  religione  nostra  dalla  antica. Perchè  avendoci  la  nostra  religione mostra  la  verità  e la  vera  via, ci  fa  stimare  meno  l’onore  del  mondo: onde  i Gentili  stimandolo  assai, ed  avendo  posto  in  quello  il  sommo  bene, erano  nelle  azioni  loro  più  feroci. Il  che  si  può  considerare  da  molte  loro constituzioni,  cominciandosi  dalla  magnificenza de’  sacrificii  loro,  alla  umilila de’  nostri  ; dove  è qualche  pompa  più dilicata  che  magnifica,  ma  nessuna  azione feroce  o gagliarda.  Quivi  non  mancava la  pompa    la  magnificenza  delle  cerimonie, ma  vi  si  aggiungeva  1*  azione del  sacrificio  pieno  di  sangue  e di  ferocia, ammazzandovisi  moltitudine  di  animali  : il  quale  aspetto  sendo  terribile,  rendeva gli  uomini  simili  a lui.  La  religione  antica, oltre  di  questo,  non  beatificava  se non  gli  uomini  pieni  di  mondana  gloria: come  erano  capitani  di  eserciti,  e principi di  repubbliche.  La  nostra  religione ha  glorificato  più  gli  uomini  umili  e contemplativi,  che  gli  attivi.  Ha  dipoi posto  il  sommo  bene  nella  umilila,  abiezione, nello  dispregio  delle  cose  umane: quell’  altra  lo  poneva  nella  grandezza dello  animo,  nella  fortezza  del  corpo,  ed in  tutte  le  altre  cose  atte  a fare  gli  uomini fortissimi.  E se  la  religione  nostra richiede  che  abbi  in  te  fortezza,  vuole che  tu  sia  atto  a patire  più  che  a fare una  cosa  forte.  Questo  modo  di  vivere, adunque,  pare  che  abbi  rendutoil  mondo debole,  e datolo  in  preda  agli  uomini scellerati;  i quali  sicuramente  lo  possono maneggiare,  veggendo  come  la  università degli  uomini,  per  andare  in  paradiso, pensa  più  a sopportare  le  sue battiture,  che  a vendicarle.  E benché  paia che  si  sia  effeminato  il  mondo,  e disarmato il  cielo,  nasce  più  senza  dubbio dalla  viltà  degli  uomini,  che  hanno  interpretato la  nostra  religione  secondo l’  ozio,  e non  secondo  la  virtù.  Perchè, se  considerassino  come  la  permette  la esultazione  e la  difesa  della  patria,  vedrebbono  come  la  vuole  che  noi  l’amiaino  ed  onoriamo,  e prepariamoci  ad  esser tali  che  noi  la  possiamo  difendere. Fanno  adunque  queste  educazioni,  e si false  interpretazioni,  che  nel  mondo  non si  vede  tante  repubbliche  quante  si  vedeva aulicamente;  nè,  per  conscguente, si  vede  ne’  popoli  tanto  amore  alla  libertà quanto  allora  : ancora  che  io  creda  piuttosto essere  cagione  di  questo,  che  lo imperio  romano  con  le  sue  arme  e sua grandezza  spense  tutte  le  repubbliche  e lutti  i viveri  civili  E benché  poi  tal  imperio si  sia  risoluto,  non  si  sono  potute le  città  ancora  rimettere  insieme    riordinare alla  vita  civile,  se  non  in  pochissimi luoghi  di  quello  imperio.  Pure, comunelle  si  fusse,  i Romani  in  ogni minima  parte  del  mondo  trovarono  una congiura  di  repubbliche  armatissime,  ed ostinatissime  atia  difesa  della  libertà  loro. Il  che  mostra  che  '1  Popolo  romano  senza una  rara  ed  estrema  virtù  mai  non  le arebbe  potute  superare.  E per  darne esseinpio  di  qualche  membro,  voglio  mi basti  lo  essempio  de’  Sanniti  : i quali pare  cosa  mirabile,  e Tito  Livio  lo  confessa, che  fussero    potenti,  e 1’  arme loro  si  valide,  che  potessero  infino  al tempo  di  Papirio  Cursore  consolo,  figliuolo del  primo  Papirio,  resistere  a’  Romani (che  fu  uno  spazio  di  XLVI  anni),  dopo tante  rotte,  rovine  di  terre,  e tante  stragi ricevute  nel  paese  loro;  massime  veduto ora  quel  paese  dove  erano  tante  cittadi e tanti  uomini,  esser  quasi  che  disabitato : ed  allora  vi  era  tanto  ordine,  e tanta  forza,  eh’  egli  era  insuperabile, se  da  una-  virtù  romana  non  fusse  stato assaltato.  E facil  cosa  è considerare  donde nasceva  quello  ordine,  c donde  proceda questo  disordine;  perchè  tutto  viene  dal viver  libero  allora,  ed  ora  dal  viver  servo. Perchè  tutte  le  terre  e le  provincie  che vivono  libere  in  ogni  parte,  come  di  sopra dissi,  fanno  i progressi  grandissimi. Perchè  quivi  si  vede  maggiori  popoli, per  essere  i matrimoni  più  liberi,  e più desiderabili  dagli  uomini  : perchè  ciascuno procrea  volentieri  quelli  figliuoli che  crede  potere  nutrire,  non  dubitando che  il  patrimonio  gli  sia  tolto;  thè  eT conosce non  solamente  che  nascono  liberi e non  schiavi,  ma  che  possono  mediante la  virtù  loro  diventare  principi.  Veggonvisi  le  ricchezze  multiplicare  in  maggiore numero,  e quelle  che  vengono  dalla cultura,  e quelle  che  vengono  dalle  arti. Perchè  ciascuno  volentieri  multiplica  in quella  cosa,  e cerca  di  acquistare  quei beni,  che  crede  acquistati  potersi  godere. Onde  ne  nasce  che  gli  uomini  a gara  pensano ai  privati  ed  a’ pubblici  comodi;  e l’ uno  e l’altro  viene  meravigliosamente  a crescere.  II  contrario  di  tutte  queste  cosesegue  in  quelli  paesi  che  vivono  scivi; c tanto  più  mancano  del  consueto  bene, quanto  è più  dura  la  servitù.  E di  tutte" le  servitù  dure,  quella  è durissima  che li  sottomette  ad  una  repubblica  : E una, perchè  la  è più  durabile,  e manco  si  può sperare  d’  uscirne;  Y altra,  perchè  il  fine della  repubblica  è enervare  ed  indebolire. per  accrescere  il  corpo  suo,  tutti gli  altri  corpi.  11  che  non  la  un  principe che  ti  sottometta,  quando  quel principe  non  sia  qualche  principe  barbaro, destruttore  de’  paesi,  e dissipatore di  tutte  le  civilità  degli  uomini,  come sono  i principi  orientali.  Ma  s’ egli  ha in    ordini  umani  ed  ordinari,  il  più delle  volte  ama  le  città  sue  soggette egualmente,  ed  a loro  lascia  T arti  tutte, e quasi  lutti  gli  ordini  antichi.  Talché, se  le  non  possono  crescere  come  libere, elle  non  rovinano  anche  come  serve;  intendendosi della  servitù  in  quale  vengono le  città  servendo  ad  un  forestiero, perchè  di  quella  d’ uno  loro  cittadino ne  parlai  di  sopra.  Chi  considerrù,  adunque, tutto  quello  che  si  è detto,  non  si meraviglierà  della  potenza  che  i Sanniti avevano  sendo  liberi,  e della  debolezza in  che  e’ vennero  poi  servendo:  e L.  ne  fa  fede  in  più  luoghi,  e massime nella  guerra  d’ Annibaie,  dove  ei mostra  che  essendo  i Sanniti  oppressi da  una  legione  d’  uomini  che  era  in  Nola, mandorono  oratori  ad  Annibale,  a pregarlo che  gli  soccorresse;  i quali  nel parlar  loro  dissono,  che  avevano  per cento  anni  combattuto  con  i Romani  con i propri  loro  soldati  e propri  loro  capitani, e molte  volte  avevano  sostenuto duoi  eserciti  consolari  e duoi  consoli;  e che  allora  a tanta  bassezza  erano  venuti, che  non  si  potevano  a pena  difendere da  una  piccola  legione  romana  che  era. Roma  divenne  grande  città  rovinando le  città  circonvicine, e ricevendo i forestieri  facilmente  aJ  suoi  onori. Crescit  inlerea  Roma  Albce  ruinis. Quelli  che  disegnano  che  una  città  faccia grande  imperio,  si  debbono  con  ogni industria  ingegnare  di  farla  piena  di abitatori  ; perchè  senza  questa  abbondanza di  uomini,  mai  non  riuscirà  di fare  grande  una  città.  Questo  si  fa  in duoi  modi;  per  amore,  e per  forza. Per  amore,  tenendo  le  vie  aperte  e secure  a’  forestieri  che  disegnassero  venire ad  abitare  in  quella,  acciocché  ciascuno vi  abiti  volentieri  : per  forza,  disfacendo le  città  vicine,  e mandando  gli abitatori  di  quelle  ad  abitare  nella  tua città.  Il  che  fu  tanto  osservato  in  Roma, che  nel  tempo  del  sesto  Re  in  Roma abitavano  ottantamila  uomini  da  portare armi.  Perchè  i Romani  vollono  fare  ad uso  del  buono  cultivatore;  il  quale,  perche  una  pianta  ingrossi,  e possa  pròdurre  e maturare  i fruiti  suoi,  gli  taglia i primi  rami  che  la  mette,  acciocché, rimasa  quella  virtù  nel  piede  di  quella pianta,  possino  col  tempo  nascervi  più verdi  e più  fruttiferi.  E che  questo  modo tenuto  per  ampliare  e fare  imperio, fusse  necessario  e buono,  lo  dimostra Io  essempio  di  Sparta  e di  Atene  : le quali  essendo  due  repubbliche  armatissime, ed  ordinate  di  ottime  leggi,  nondimeno non  si  condussono  alla  grandezza dello  imperio  romano;  e Roma pareva  più  tumultuaria,  e non  tanto bene  ordinata  quanto  quelle.  Di  che non  se  ne  può  addurre  altra  cagione, che  la  preallegata:  perchè  Roma,  per avere  ingrossato  per  quelle  due  vie  il corpo  della  sua  città,  potette  di  già mettere  in  arme  dugentottantamila  uomini; e Sparta  ed  Atene  non  passarono mai  ventimila  per  ciascuna.  Il  che  nacque, non  da  essere  il  sito  di  Roma  più benigno  che  quello  di  coloro,  ma  solamente  da  diverso  modo  di  procedere. Perché  Licurgo,  fondatore  della  repubblica spartana, considerando  nessuna cosa  potere  più  facilmente  risolvere  le sue  leggi  che  la  commistione  di  nuovi abitatori,  fece  ogni  cosa  perchè  i forestieri non  avessino  a conversarvi:  ed, oltre  al  non  gli  ricevere  ne’ matrimoni, alla  civiltà,  ed  alle  altre  conversazioni che  fanno  convenire  gli  uomini  insieme, ordinò  che  in  quella  sua  repubblica  si spendesse  monete  di  cuoio,  per  tor  via a ciascuno  il  desiderio  di  venirvi  per portarvi  mercanzie,  o portarvi  alcuna arte;  di  qualità  che  quella  città  non potette  mai  ingrossare  di  abitatori.  E perchè  tutte  le  azioni  nostre  imitano  la natura,  non  è possibile    naturale  che uno  pedale  sottile  sostenga  un  ramo grosso.  Però  una  repubblica  piccola  non può  occupare  città    regni  che  siano più  validi    più  grossi  di  lei;  e se  pure gli  occupa,  gP  interviene  come  a quello albero  che  avesse  più. grosso  il  ramo che  ’l  piede,"  che  sostenendolo  con  fatica, ogni  piccolo  vento  lo  fiacca:  come si  vede  che  intervenne  a Sparla,  la  quale avendo  occupate  tutte  le  città  di  Grecia, non  prima  se  gli  ribellò  Tebe,  che  tutte P altre  cittadi  se  gli  ribellarono,  e rimase i!  pedale  solo  senza  rami.  Il  che non  potette  intervenire  a Roma,  avendo il  piè  si  grosso,  che  qualunque  ramo poteva  facilmente  sostenere.  Questo  modo adunque  di  procedere,  insieme  con gli  altri  che  di  sotto  si  diranno,  fece Roma  grande  e potentissima.  Il  che  dimostra L.  in  due  parole,  quando disse:  Crcscit  intcrea  Roma  Albce  ruinis. Le  repubbliche  hanno  tentili tre  modi  circa  lo  ampliare. Chi  ha  osservato  le  antiche  istorie, Iruova  come  le  repubbliche  hanno  tre modi  circa  lo  ampliare.  L*  uno  è stato quello  che  osservorono  i Toscani  antichi, di  essere  una  lega  di  più  repubbliche  insieme,  dove  non  sia  alcuna  che avanzi  l’ altra    di  autorità    di  grado; e nello  acquistare,  farsi  1’ altre  città compagne,  in  simil  modo  come  in  questo tempo  fanno  i Svizzeri,  e come  nei tempi  antichi  feciono  in  Grecia  gli  Achei e gli  Etoli.  E perchè  gli  Romani  feciono assai  guerra  con  i Toscani,  per  mostrar meglio  la  qualità  di  questo  primo  modo, ini  distenderò  in  dare  notizia  di  loro particolarmente.  In  Italia,  innanzi  allo imperio  romano,  furono  i Toscani  per mare  e per  terra  potentissimi:  e benché delle  cose  loro  non  ce  ne  sia  particolare istoria,  pure  c’è  qualche  poco di  memoria,  e qualche  segno  della  grandezza  loro;  e si  sa  come  e*  mandarono una  colonia  in  su  ’l  mare  di  sopra,  la quale  chiamarono  Adria,  che  fu  si  nobile, che  la  dette  nome  a quel  mare  che ancora  i Latini  chiamano  Adriatico.  Intendesi  ancora,  come  le  loro  arme  furono ubbidite  dal  Tevere  per  infìno  ai piè  dell’  Alpi,  che  ora  cingono  il  grosso di  Italia;  non  ostante  che  dugento  anni innanzi  che  i Romani  crescessino  in molte  forze,  detti  Toscani  perderono  lo imperio  di  quel  paese  che  oggi  si  chiama la  Lombardia;  la  quale  provincia  fu occupata  da’ Franciosi  : i quali  mossi  o da  necessità,  o dalla  dolcezza  dei  frutti, e massime  del  viuo,  vennono  in  Italia sotto  Bellovcso  loro  duce;  e rotti  e cacciati i provinciali,  si  posono  in  quel luogo,  dove  edificarono  di  molte  cittadi, e quella  provincia  chiamarono  Gallia, dal  nome  che  tenevano  allora  ; la  quale tennono  fino  che  da’  Romani  fussero domi.  Vivevano,  adunque,  i Toscani  con quella  equalità, e procedevano  nello ampliare  in  quel  primo  modo  che  di sopra  si  dice:  e furono  dodici  città,  tra le  quali  era  Chiusi,  Yeio,  Fiesole,  Arezzo, Volterra,  e simili:  i quali  per  via di  lega  governavano  lo  imperio  loro; nè  poterono  uscir  d’Italia  con  gli  acquisti ; e di  quella  ancora  rimase  intatta gran  parte,  per  le  cagioni  che  di  sotto si  diranno.  V altro  modo  è farsi  compagni j  non  tanto  però  che  non  ti  rimanga il  grado  del  comandare,  la  sedia dello  imperio  ed  il  titolo  delle  imprese  : il  quale  modo  fu  osservato  da’  Romani. 11  terzo  modo  è farsi  immediate  sudditi, e non  compagni;  come  fecero  gli Spartani  e gli  Ateniesi.  De'  quali  tre modi,  questo  ultimo  è al  tutto  inutile; come  c’  si  vide  che  fu  nelle  sopraddette due  repubbliche:  le  quali  non  rovinarono per  altro,  se  non  per  avere  acquistato quel  dominio  che  le  non  potevano tenere.  Perchè,  pigliar  cura  di  avere  a governare  città  con  violenza,  massime quelle  che  tassino  consuete  a viver  libere, è una  cosa  diffìcile  e faticosa.  E se  tu  non  sei  armato  e grosso  d’  armi, non  le  puoi    comandare    reggere. Ed  a voler  esser  così  fatto,  è necessario farsi  compagni  che  ti  aiutino  ingrossare la  tua  città  di  popolo.  E perchè queste  due  città  non  feciono  nè1’  uno    I’  altro,  il  modo  del  procedere loro  fu  inutile.  E perché  Roma,  la  quale è nello  esempio  del  secondo  modo,  fece l’uno  e T altro;  però  salse  a tanta  eccessiva potenza.  E perchè  la  è stata  sola a vivere  cosi,  è stata  ancora  sola  a diventar tanto  potente  : perchè,  avendosi ella  fatti  di  molti  compagni  per  tutta Italia,  i quali  in  di  molte  cose  con  eguali leggi  vivevano  seco;  e dall’ altro  canto» come  di  sopra  è detto,  sendosi  riservato sempre  la  sedia  dello  imperio  ed il  titolo  del  comandare;  questi  suoi  com-pagni venivano,  che  non  se  ne  avvedevano, con  le  fatiche  e con  il  sangue loro  a soggiogar    stessi.  Perchè,  come cominciorono  a uscire  con  gli  eserciti di  Italia,  e ridurre  i regni  in  provincie,  e farsi  soggetti  coloro  che  per esser  consueti  a vivere  sotto  i Re,  non si  curavano  d*  esser  soggetti;  ed  avendo governadori  romani,  ed  essendo  stati vinti  da  eserciti  con  ii  titolo  romano  ; non  riconoscevano  per  superiore  altro che  Roma.  Di  modo  che  quelli  compagni  di  Roma  che  erano  in  Italia,  si  trovarono in  un  tratto  cinti  da’  sudditi romani,  cd  oppressi  da  una  grossissima città  come  era  Roma  ; e quando  e’  si avviddono  dello  inganno  sotto  i!  quale erano  vissuti,  non  furono  a tempo  a rimediarvi:  tanta  autorità  aveva  presa Roma  con  le  provincie  esterne,  e tanta forza  si  trovava  in  seno,  avendo  la  sua città  grossissima  ed  armatissima.  E benché quelli  suoi  compagni,  per  vendicarsi delle  ingiurie,  gli  congiurassino  contea, furono  in  poco  tempo  perditori  della guerra,  peggiorando  le  loro  condizioni; perchè  di  compagni,  diventarono  ancora loro  sudditi.  Questo  modo  di  procedere, come  è detto,  è stato  solo  osservato da’  Romani:    può  tenere  altro modo  una  repubblica  che  voglia  ampliare; perchè  la  esperienza  non  te  ne ha  mostro  nessuno  più  certo  o più vero.  11  modo  preallegato  delle  leghe, come  viverono  i Toscani,  gii  Achei  e gli  Etoli,  e come  oggi  vivono  i Svizzeri,  è dopo  a quello  de’  Romani  il miglior  modo;  perchè  non  si  potendo con  quello  ampliare  assai,  ne  seguitano duoi  beni:  l’  uno,  che  facilmente  non  ti tiri  guerra  addosso;  l’altro,  che  quel tanto  che  tu  pigli,  lo  tieni  facilmente. La  cagione  del  non  potere  ampliare,  è lo  essere  una  repubblica  disgiunta,  e posta  in  varie  sedi:  il  che  fa  che  difficilmente possono  consultare  e deliberare. Fa  ancora  che  non  sono  desiderosi  di dominare:  perchè  essendo  molte  comunità a*  participarc  di  quel  dominio,  non istimano  tanto  tale  acquisto,  quanto  fa una  repubblica  sola,  che  spera  di  goderselo tutto.  Governansi,  oltra  di  questo, per  concilio,  c conviene  che  siano più  tardi  ad  ogni  deliberazione,  che quelli  che  abitano  dentro  ad  un  medesimo cerchio.  Vedesi  ancora  per  esperienza, che  simile  modo  di  procedere  ha un  termine  fisso,  il  quale  non  ci  è esempio che  mostri  che  si  sia  trapassato:  e questo  è di  aggiugnere  a dodici  o quattordici  comunità  ; dipoi  non  cercare di  andare  più  avanti  : percliè  sendo giunti  al  grado  che  par  loro  potersi  difendere da  ciascuno,  non  cercano  maggiore dominio  ; sì  perchè  la  necessità non  gli  stringe  di  avere  piò  potenza; si  per  non  conoscere  utile  negli  acquisti, per  le  cagioni  dette  di  sopra.  Perchè gli  arebbono  a fare  una  delle  due cose;  o seguitare  di  farsi  compagni,  e questa  moltitudine  farebbe  confusione; o gli  arebbono  a farsi  sudditi  : e perchè e’  veggono  in  questo  difficultà,  e non  molto  utile  nel  tenergli,  non  lo  stimano. Pertanto,  quando  e’  sono  venuti a tanto  numero  che  paia  loro  vivere sicuri,  si  voltano  a due  cose:  P una  a ricevere  raccomandati,  e pigliare  protezioni ; c per  questi  mezzi  trarre  da ogni  parte  danari,  i quali  facilmente intra  loro  si  possono  distribuire:  1*  altra è militare  per  altrui,  e pigliar  stipendio da  questo  e da  quello  principe che  per  sue  imprese  gli  soldo  ; come  si vede  che  fanno  oggi  i Svizzeri,  e come si  legge  che  facevano  i preallegati.  Di che  il*  è testimone  Tito  Livio,  dove  dice che,  venendo  a parlamento  Filippo  re di  Macedonia  con  Tito  Quinzio  Flamminio,  e ragionando  d'accordo  alla  presenza d’  un  pretore  degli  Etoli  ; in  venendo a parole  detto  pretore  con  Filippo, gli  fu  da  quello  rimproverato  la avarizia  e la  infidelità,  dicendo  che  gli Etoli  non  si  vergognavano  militare  con uno,  e poi  mandare  loro  uomini  ancora al  servigio  del  nimico  ; talché  molte volte  intra  dnoi  contrari  eserciti  si  vedevano le  insegne  di  Etolia.  Conoscesi, pertanto,  come  questo  modo  di  procedere per  leghe,  è stato  sempre  simile, ed  ha  fatto  simili  effetti.  Vedesi  ancora, che  quel  modo  di  fare  sudditi  è stato sempre  debole,  ed  avere  fatto  piccoli profitti;  e quando  pure  egli  hanno  passato il  modo,  essere  rovinati  tosto.  E se questo  modo  di  fare  sudditi  è inutile nelle  repubbliche  armate,  in  quelle  che sono  disarmate  è inutilissimo:  come  sono state  ne’  nostri  tempi  le  repubbliche  di Italia.  Conoseesi,  pertanto,  essere  vero modo  quello  che  tennono  i Romani  5 il quale  è tanto  più  mirabile,  quanto  e’  non ee  il’  era  innanzi  a Roma  essempio,  e dopo Roma  non  è stalo  alcuno  elio  gli abbi  imitati.  E quanto  alle  leghe,  si trovano  solo  i Svizzeri  e la  lega  di  Svevia  che  gli  imita.  E,  come  nel  fine  di questa  materia  si  dirà,  tanti  ordini  osservati da  Roma,  così  pertinenti  alle cose  di  dentro  come  a quelle  di  fuora, non  sono  ne*  presenti  nostri  tempi  non solamente  imitati,  ma  non  n’è  tenuto alcuno  conto  ; giudicandoli  alcuni  non veri,  alcuni  impossibili,  alcuni  non  a proposito  ed  inutili  : tanto  che  standoci con  questa  ignoranza,  siamo  preda  di qualunque  ha  voluto  correre  questa  provincia. E quando  la  imitazione  de’  Romani paresse  difficile,  non  doverrebhe parere  cosi  quella  degli  antichi  Toscani, massime  a’  presenti  Toscani. Perchè,  se quelli  non  poterono,  per  le  cagioni  dette, fare  uno  imperio  simile  a quel  di  Roma, poterono  acquistare  in  Italia  quella  potenza che  quel  modo  del  procedere  concesse loro.  11  che  fu  per  un  gran  tempo securo,  con  somma  gloria  d’ imperio  e d’arme,  e massima  laude  di  costumi  e di  religione.  La  qual  potenza  e gloria fu  prima  diminuita  da’  Franciosi,  dipoi spenta  da’ Romani;  e fu  tanto  spenta, che,  ancora  che  duemila  anni  fa  la  potenza de’  Toscani  fusse  grande,  al  presente non  ce  n’  è quasi  memoria.  La qual  cosa  mi  ha  fatto  pensare  donde nasca  questa  oblivione  delle  cose:  come nel  seguente  capitolo  si  discorrerà. V.  — Che  la  variazione  delle  sèlle e delle  lingue insieme  con  l'accidente de'  diluvi  o delle  pesti  j spegno  la  memoria  delle  cose. A quelli FILOSOFI che  hanno  voluto  che’l mondo  sia  stato  eterno,  credo  che  si potesse  reificare,  che  se  tanta  antichità fusse  vera,  e’ sarebbe  ragionevole  che ci  fusse  memoria  di  più  che  cinque mila  anni;  quando  e’  non  si  vedesse  come queste  memorie  de*  tempi  per  diverse cagioni  si  spengano:  delle  quali parte  vengono  dagli  nomini,  parte  dal cielo.  Quelle  che  vengono  dagli  uomini, sono  LE VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè  quando  surge  una  setta nuova,  cioè  una  religione  nuova,  il  primo studio  suo  è,  per  darsi  reputazione, estinguere  la  vecchia;  e quando  egli  occorre che  gli  ordinatori  delia  nuova setta  siano  di  lingua  diversa,  la  spengono facilmente.  La  qual  cosa  si  conosce considerando  i modi  che  ha  tenuti la  religione  cristiana  contra  alla  SETTA GENTILE;  la  quale  ha  cancellati  tutti  gli ordini,  tutte  le  ceremonie  di  quella,  e spenta  ogni  memoria  di  quella  antica teologia.  Vero  è che  non  gli  è riuscito spegnere  in  tutto  la  notizia  delle  cose fatte  dagli  uomini  eccellenti  di  quella: il  die  è nato  per  AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il  che  fecero forzatamente,  avendo  a scrivere  questa legge  nuova  con  essa.  Perchè,  se  V avessino potuta  scrivere  con  nuova  lingua, considerato  le  altre  persecuzioni  gli  feciono,  non  ci  sarebbe  ricordo  alcuno delle  cose  passate.  E chi  legge  i modi tenuti  da  san  Gregorio  e dagli  altri capi  della  religione  cristiana,  vedrà  con quanta  ostinazione  e’  perseguitarono tutte  le  memorie  antiche,  ardendo  P opere  de*  poeti  e delli  istorici,  minando le  immagini,  e guastando  ogni  altra  cosa che  rendesse  alcun  segno  della  antichità. Talché,  se  a questa  persecuzione  egli avessino  aggiunto  una  nuova  lingua,  si sarebbe  veduto  in  brevissimo  tempo ogni  cosa  dimenticare.  È da  credere, pertanto,  che  quello  che  ha  voluto  fare la  religione  cristiana  contra  alla  setta gentile,  la  gentile  abbi  fatto  contra  u quella  che  era  innanzi  a lei.  E perchè queste  sètte  in  cinque  o in  seimila  anni variarono  due  o tre  volle,  si  perdè  in memoria  delle  cose  fatte  innanzi  a quel tempo.  E se  pure  ne  resta  alcun  segno, si  considera  come  cosa  favolosa,  e non è prestato  loro  fede  : come  interviene alla  istoria  di  Diodoro  Siculo,  che  benché e’  renda  ragione  di  quaranta  o cinquanta mila  anni,  nondimeno  è riputata, come  io  credo  che  sia,  cosa  mendace. Quanto  alle  cause  che  vengono  dal  cielo, sono  quelle  che  spengono  la  umana generazione,  e riducono  a pochi  gli  abitatori di  parte  del  mondo.  E questo viene  o per  peste  o per  fame  o per  una inondazione  d*  acque: e la  più  importante è questa  ultima,    perchè  la  è più  universale,    perchè  quelli  che  si salvano  sono  uomini  tutti  montanari  e rozzi,  i quali  non  avendo  notizia  di  alcuna antichità,  non  la  possono  lasciare a’  posteri.  E se  infra  loro  si  salvasse alcuno  che  ne  avesse  notizia,  per  farsi riputazione  e nome,  la  nasconde,  e la perverte  a suo  modo  ; talché  ne  resta solo  a*  successori  quanto  ei  ne  ha  voluto scrivere,  e non  altro.  E che  queste inondazioni,  pesti  e fami  venghino,  non credo  sia  da  dubitarne;    perchè  ne sono  piene  tutte  le  istorie,    perchè  si vede  questo  effetto  della  oblivione  delle cose,    perchè  e’  pare  ragionevole  che sia:  perchè  la  natura,  come  ne’ corpi semplici,  quando  vi  è ragunato  assai materia  superflua,  muove  per    medesima molte  volte,  e fa  una  purgazione, la  quale  è salute  di  quel  corpo  ; così interviene  in  questo  corpo  misto  della umana  generazione,  che  quando  tutte  le provincie  sono  ripiene  di  abitatori,  in modo  che  non  possono  vivere,    possono andare  altrove,  per  esser  occupati e pieni  tutti  i luoghi;  e quando  la  astuzia e malignità  umana  è venuta  dove la  può  venire,  conviene  di  necessità  che il  mondo  si  purghi  per  uno  de’  tre  modi ; acciocché  gli  uomini  essendo  divenuti pochi  e battuti,  vivano  più  comodamente, e diventino  migliori.  Era adunque,  come  di  sopra  è detto,  già  tu Toscana  potente,  piena  di  religione  e di  virtù  ; aveva  i suoi  costumi  e la  sua LINGUA PATRIA:  il  che  tutto  è stato  spento dalla  potenza  romana.  Talché,  come  si è detto,  di  lei  ne  rimane  solo  la  memoria del  nome. Come  i Romani  procedevano nel  fare  la  guerra. Avendo  discorso  come  i Romani  procedevano nello  ampliare,  discorreremo ora  come  e’  procedevano  nel  fare  la guerra  ; ed  in  ogni  loro  azione  si  vedrà con  quanta  prudenza  ei  diviarono dal  modo  universale  degli  altri,  per  facilitarsi la  via  a venire  a una  suprema grandezza.  La  intenzione  di  chi  fa guerra  per  elezione,  o vero  per  ambizione, è acquistare  e mantenere  lo  acquistato; e procedere  in  modo  con  esso, che  I’  arricchisca  c non  impoverisca  il paese  e la  patria  sua.  È necessario  dunquc,  e nello  acquistare  e nel  mantenere,  pensare  di  non  spendere;  anzi  far ogni  cosa  con  utilità  del  pubblico  suo. Chi  vuol  fare  tutte  queste  cose,  conviene che  tenga  lo  stile  e modo  romano: il  quale  fu  in  prima  di  fare  le  guerre, come  dicono  i Franciosi,  corte  e grosse; perchè,  venendo  in  campagna  con eserciti  grossi,  tutte  le  guerre  eh’  egli ebbono  co’  Latini,  Sanniti  e Toscani  le espedirono  in  brevissimo  tempo.  E se si  noteranno  tutte  quelle  che  feciono  dal principio  di  Roma  infino  alla  ossidione de’  Yeienti,  tutte  si  vedranno  espedite, quale  in  sei,  quale  in  dieci,  quale  inventi  di.  Perchè  l’uso  loro  era  questo: subito  che  era  scoperta  la  guerra,  egli uscivano  fuori  con  gli  eserciti  all’incontro del  nimico,  e subito  facevano  la giornata.  La  quale  vinta,  i nimici,  perchè non  fussc  guasto  loro  il  contado affatto,  venivano  alle  condizioni;  ed  i Romani  gli  condennavano  in  terreni:  i quali  terreni  gli  convertivano  in  privati comodi,  o gli  consegnavano  ad  una  colonia; la  quale  posta  in  su  le  frontiere di  coloro,  veniva  ad  esser  guardia  de’  confini romani,  con  utile  di  essi  coloni,  che avevano  quelli  campi,  e con  utile  del pubblico  di  Roma,  che  senza  spesa  teneva quella  guardia.    poteva  questo modo  esser  più  seeuro,  o più  forte,  o piu  utile:  perchè  mentre  che  i nimici non  erano  in  su  i campi,  quella  guardia bastava  : come  e’ fussino  usciti  fuori grossi  per  opprimere  quella  colonia, ancora  i Romani  uscivano  fuori  grossi, e venivano  a giornata  con  quelli;  e fatta e vinta  la  giornata,  imponendo  loro  più gravi  condizioni,  si  tornavano  in  casa. Così  venivano  ad  acquistare  di  mano in  mano  riputazione  sopra  di  loro,  e forze  in    medesimi.  E questo  modo vennono  tenendo  infino  che  mutorno modo  di  procedere  in  guerra:  il  che  fu dopo  la  ossidione  de’  Veienti  ; dove,  pei*potere  fare  guerra  lungamente,  gli  ordinarono di  pagare  i soldati,  che  prima,  per  non  essere  necessario,  essendo le  guerre  brevi,  non  gli  pagavano.  E benché  i Rotflani  dessino  il  soldo,  e che per  virtù  di  questo  ei  potessino  fare  le guerre  più  lunghe,  e per  farle  più  discosto la  necessità  gli  tenesse  più  in su’  campi  ; nondimeno  non  variarono mai  dal  primo  ordine  di  finirle  presto, secondo  il  luogo  ed  il  tempo;    variarono mai  dal  mandare  le  colonie.  Perchè nel  primo  ordine  gli  tenne,  circa il  fare  le  guerre  brevi,  olirà  il  loro  naturale uso,  T ambizione  de’  Consoli  ; i quali  avendo  a stare  un  anno,  e di quello  anno  sei  mesi  alle  stanze,  volevano finire  la  guerra  per  trionfare.  Nel mandare  le  colonie,  gli  tenne  1’utile  e la  comodità  grande  che  ne  risultava. Variarono  bene  alquanto  circa  le  prede, delie  quali  non  erano  cosi  liberali  come erano  stati  prima ; sì  perchè  e  non  pareva loro  tanto  necessario,  avendo  i soldati lo  stipendio;    perchè  essendo  le prede  maggiori,  disegnavano  d*  ingrassaie  di  quelle  in  modo  il  pubblico,  che non  lussino  constretti  a fare  le  imprese con  tributi  della  città.  li quale  ordine in  poco  tempo  fece  il  loro  erario  ricchissimo. Questi  duoi  modi,  adunque,  e circa  il  distribuire  la  preda,  e circa  il mandar  le  colonie,  feciono  che  Roma  arricchiva della  guerra  j dove  gli  altri principi  e repubbliche  non  savie  ne impoveriscono.  E ridusse  la  cosa  in  termine, che  ad  un  Consolo  non  pareva poter  trionfare,  se  non  portava  col  suo trionfo  assai  oro  ed  argento,  e d’ ogni altra  sorte  preda,  nello  erario.  Cosi  i Romani  con  i soprascritti  termini,  e coti il  finire  le  guerre  presto,  sendo  contenti con  lunghezza  straccare  i nemici, e con  rotte  e con  le  scorrerie  e con accordi  a loro  avvantaggi,  diventarono sempre  più  ricchi  e più  potenti. Quanto  terreno  i Romani davano  per  colono. Quanto  terreno  i Romani  distribuiisino  per  colono,  credo  sia  molto  diffìcile trovarne  la  verità.  Perchè  io  credo  ne dessino  più  o manco,  secondo  i luoghi dove  e  mandavano  le  colonie.  E giudicasi che  ad  ogni  modo  ed  in  ogni  luogo la  distribuzione  fusse  parca  : prima,  per poter  mandare  più  uomini,  sendo  quelli diputati  per  guardia  di  quel  paese;  dipoi perchè  vivendo  loro  poveri  a caso, non  era  ragionevole  che  volessino  che  I loro  uomini  abbondassino  troppo  fuora.  E Tito  Livio  dice,  come  preso  Veio e’  vi  mandorno  una  colonia,  e distribuirono a ciascuno  tre  iugeri  e sette  once di  terra;  che  sono  al  modo  nostro. Perchè,  oltre  alle  cose soprascritte,  e giudicavano  che  non  lo assai  terreno,  ma  il  bene  coltivato  bastasse. È necessario  bene,  che  tutta  la colonia  abbi  campi  pubblici  dove  ciascuno possa  pascere  il  suo  bestiame,  e selve  dove  prendere  del  legname  per  ardere ; senza  le  quali  cose  non  può  una colonia  ordinarsi. La  cagione  perchè  i popoli si  partono  da * luoghi  patriij  cd inondano  il  paese  altrui. Poiché  di  sopra  si  è ragionato  del modo  nel  procedere  della  guerra  osservato da’  Romani,  c come  i Toscani  furono assaltati  da*  Franciosi  ; non  mi  pare alieno  dalla  materia  discorrere,  come  e’  si fanno  di  due  generazioni  guerre.  L’una è fatta  per  ambizione  de*  principi  o delle repubbliche,  che  cercano  di  propagare lo  imperio;  come  furono  le  guerre  che fece  Alessandro  Magno,  e quelle  che  feciono  i Romani,  e quelle  che  fanno  ciascuno di,  1*  una  potenza  con  F altra.  Le quali  guerre  sono  pericolose,  ma  non cacciano  al  tutto  gli  abitatori  d*  una  provincia  ; perchè  e’  basta  al  vincitore  solo la  ubbidienza  de’  popoli,  e il  più  delle volte  gli  lascia  vivere  con  le  loro  leggi, e sempre  con  le  loro  case,  e ne’  loro beni.  L’altra  generazione  di  guerra  è, quando  un  popolo  intero  con  tutte  le sue  famiglie  si  beva  d’  uno  luogo,  necessitato o dalla  fame  o dalla  guerra,  e va  a cercare  nuova  sede  e nuova  provincia; non  per  comandarla,  come  quelli di  sopra,  ma  per  possederla  tutta  particolarmente, e cacciarne  o ammazzare gli  abitatori  antichi  di  quella.  Questa guerra  è crudelissima  e paventosissima. E di  queste  guerre  ragiona  Salustio  nel fine  dell’  Iugurtiuo,  quando  dice  che  vinto lugurta,  si  senti  il  moto  de’  Franciosi  che venivano  in  Italia  : dove  e’  dice  che  ’l Popolo  romano  con  tutte  le  altre  genti combattè  solamente  per  chi  dovesse  comandare, ma  con  i Franciosi  si  combattè sempre  per  la  salute  di  ciascuno. Perchè  ad  un  principe  o una  repubblica spegnere  solo  coloro  che  comandano  ; ma a queste  popolazioni  conviene  spegnere ciascuno,  perchè  vogliono  vivere  di  quello che  altri  viveva.  I Romani  ebbero  tre di  queste  guerre  pericolosissime.  La  prima fu  quella  quando  Roma  fu  presa,  la  quale fu  occupata  da  quei  Franciosi  che  avevano tolto,  come  di  sopra  si  disse,  la Lombardia  a’ Toscani,  e fattone  loro  sedia; della  quale  L.  ne  allega  due cagioni:  la  prima,  come  di  sopra  si  disse, che  furono  allettati  dalla  dolcezza delle  frutte,  c del  vino  di  Italia,  delle quali  mancavano  in  Francia;  la  seconda che,  essendo  quel  regno  francioso moltiplicato  in  tanto  di  uomini,  che  non vi  si  potevano  più  nutrire,  giudicarono i principi  di  quelli  luoghi,  che  fusse  necessario che  una  parte  di  loro  andasse a cercare  nuova  terra;  e fatta  tale  deliberazione, elcssono  per  capitani  di quelli  che  si  avevano  a partire,  Belloveso  e Sicoveso,  duoi  re  de’  Franciosi  : de’  quali  Belloveso  venne  in  Italia,  e Si» coveso  passò  in  Ispagna.  Dalla  passata del  quale  Belloveso,  nacque  la  occupazione di  Lombardia,  c quindi  la  guerra che  prima  i Franciosi  fecero  a Roma. Dopo  questa,  fu  quella  che  fecero  dopo la  prima  guerra  cartaginese,  quando  tra Piombino  e Pisa  ammazzarono  più  che dugentomila  Franciosi. La  terza è quando i Todeschi  e Cimbri  vennero  in  Italia  : i quali  avendo  vinti  più  eserciti  romani, furono  vinti  da  Mario.  Vinsero  adunque i Romani queste  tre  guerre  pericolosissime. Ne  era  necessario  minore  virtù  a vincerle;  perchè  si  vede  poi,  come  la virtù  romana  mancò,  e che  quelle  arme perderono  il  loro  antico  valore,  fu  quello imperio  distrutto  da  simili  popoli  : i quali furono  Goti,  Vandali  c simili,  che  occuparono tutto  lo  imperio  occidentale. Escono  tali  popoli  de*  paesi  loro,  rome di  sopra  si  disse,  cacciati  dalla  necessitò: e la  necessitò  nasce  o dalla  fame, o da  una  guerra  ed  oppressione  clic ne’ paesi  propri  è loro  fatta;  talché  e’ sono  constretti  cercare  nuove  terre.  E questi  tali,  o e’  sono  grande  numero  ; ed  allora  con  violenza  entrano  ne'  paesi altrui,  ammazzano  gli  abitatori,  posseggono i loro  beni,  fanno  uno  nuovo  regno, mutano  il  nome  della  provincia: come  fece  Moisè,  e quelli  popoli  che  occuparono lo  imperio  romano.  Perchè  questi nomi  nuovi  che  sono  nella  Italia  e nelle altre  provincie,  non  nascono  da  altro  che da  essere  state  nomate  così  da’  nuovi occupatoci  : come  è la  Lombardia,  che si  chiamava  Gallia  Cisalpina:  la  Francia si  chiamava  Gallia Transalpina,  ed  ora è nominata  da’  Franchi,  chè  cosi  si  chiamavano quelli  popoli  che  la  occuparono: la  Schiavoniu  si  chiamava  Illiria,  l’Ungheria Pannonia;  l’Inghilterra  Britannia:  c molte  altre  provincie  che  hanno mutato  nome,  le  quali  sarebbe  tedioso raccontare.  Moisè  ancora  chiamò  Giudea quella  parte  di  Soria  occupata  da  lui. E perchè  io  ho  detto  di  sopra,  che  qualche volta  tali  popoli  sono  cacciati  della propria  sede  per  guerra,  donde  -sono constretti  cercare  nuove  terre;  ne  voglio addurre  lo  essempio  de’  Maurusii, popoli  anticamente  in  Soria  : i quali,  sentendo  venire  i popoli  ebraici,  e giudicando non  poter  loro  resistere,  pensarono essere  meglio  salvare  loro  medesimi,  t* lasciare  il  paese  proprio,  che  per  volere salvare  quello,  perdere  ancora  loro;  e levatisi  con  loro  famiglie,  se  ne  andarono in  Affrica,  dove  posero  la  loro  sedia, cacciando  via  quelli  abitatori  che  in quelli  luoghi  trovarono. G così  quelli  che non  avevano  potuto  difendere  il  loro paese,  poterono  occupare  quello  d’  altrui. E Procopio,  che  scrive  la  guerra  che fece  Bellisario  co’ Vandali  occupatori  della Affrica,  riferisce  aver  letto  lettere  scritte in  certe  colonne  ne’  luoghi  dove  questi Maurusii  abitavano,  le  quali  dicevano: S os  Maurusii, qui  fugimus  a facie  Jesu latronis  filii  flava.  Dove  apparisce  In cagione  della  partita  loro  di  Soria.  Sono, pertanto,  questi  popoli  formidolosissimi, sendo  cacciati  da  una  ultima  necessità  ; e s’  egli  non  riscontrano  buone  armi,  non saranno  mai  sostenuti.  Ula  quando  quelli che  sono  constretti  abbandonare  la  loro patria  non  sono  molti,  non  sono    pericolosi come  quelli  popoli  di  chi  si  è ragionato;  perchè  non  possono  usare tanta  violenza,  ma  conviene  loro  con arte  occupare  qualche  luogo,  e,  occupatolo, mantenervisi  per  via  di  amici  e di confederali  : come  si  vede  che  fece  ENEA, Didone,  i Massiliesi  e simili  ; i quali  lutti, per  consentimento  de’  vicini,  dove  e’ posorno,  poterono  mantenervisi.  Escono  i popoli  grossi,  e sono  usciti  quasi  tutti de’  paesi  di  Scizia  ; luoghi  freddi  e poveri: dove,  per  essere  assai  uomini,  cd il  paese  di  qualità  da  non  gli  potere  nutrire, sono  forzati  uscire,  avendo  molte cose  che  gli  cacciano,  e nessuna  che  gli ritenga.  E se  da  cinquecento  anni  in  qua, non  è occorso  che  alcuni  di  questi  popoli abbino  inondato  alcuno  paese,  è nato per  più  cagioni.  La  prima,  la  grande evacuazione  che  fece  quel  paese  nella declinazione  dello  imperio;  donde  uscirono più  di  trenta  popolazioni.  La  seconda è che  la  Magna  e 1’  Ungheria,  donde ancora  uscivano  di  queste  genti,  hanno ora  il  loro  paese  bonificato  in  modo,  che vi  possono  vivere  agiatamente;  talché non  sono  necessitati  di  mutare  luogo. Dall’  altra  parte,  sendo  loro  uomini  bellicosissimi, sono  come  uno  bastione  a tenere  che  gli  Sciti,  i quali  con  loro  confinano, non  presumino  di  potere  vincergli o passargli.  E spesse  volte  occorrono movimenti  grandissimi  da’ Tartari,  che sono  dipoi  dagli  Ungheri  e da  quelli  di Polonia  sostenuti;  e spesso  si  gloriano, che  se  non  fussino  1’  arme  loro,  la  Italia e la  Chiesa  arebbe  molle  volle  sentito  il peso  degli  eserciti  tartari.  E questo  voglio basti  quanto  a’  prefati  popoli. Quali  cagioni  comunemente faccino  nascere  le  guerre  intra  i polenti. La  cagione  che  fece  nascere  guerra intra  i Romani  ed  i Sanniti,  che  erano stati  in  lega  gran  tempo,  è una  cagione comune  che  nasce  infra  tutti  i principati potenti.  La  qual  cagione  o la  viene a caso,  o la  è fatta  nascere  da  colui  che desidera  muovere  la  guerra.  Quella  che nacque  intra  i Romani  ed  i Sanniti,  fu a caso;  perchè  la  intenzione  de’ Sanniti non  fu,  muovendo  guerra  a’Sidicini,  e dipoi  a’  Campani,  muoverla  ai  Romani. .\Ia  sendo  i Campani  oppressati,  e ricorrendo a Roma  fuora  della  oppinione de’  Romani  e de’  Sanniti,  furono  forzati, dandosi  i Campani  ai  Romani,  come  cosa loro  difendergli,  e pigliare  quella  guerra che  a loro  parve  non  potere  con  loro onore  fuggire.  Perchè  e’pareva  benea’Romani  ragionevole  non  potere  difendere i Campani  come  amici,  eontra  ai  Sanuiti  amici,  ma  pareva  ben  loro  vergogna non  gli  difendere  come  sudditi,  ovvero raccomandali;  giudicando,  quando e’  non  avessino  presa  tal  difesa,  torre la  via  a tutti  quelli  che  disegnassino  venire sotto  la  potestà  loro. Ed  avendo Roma  per  fine  lo  imperio  e la  gloria,  e non  la  quiete,  non  poteva  ricusare  questa impresa.  Questa  medesima  cagione dette  principio  alla  prima  guerra  conira a’  Cartaginesi,  per  la  difensione  che  i Romani  presono  de*  Messinesi  in  Sicilia: la  quale  fu  ancora  a caso. Ma  non  fu già  a caso di  poi  la  seconda  guerra  che nacque  infra  loro;  perchè  Annibaie  capitano Cartaginese  assaltò  i Saguntini amici  de’  Romani  in  Ispagna,  non  per offendere  quelli,  ma  per  muovere  l’arme romane,  ed  avere  occasione  di  combatterli, c passare  in  Italia.  Questo  modo nello  appiccare  nuove  guerre  è stato sempre  consueto  intra  i potenti,  e che si  hanno  e della  fede,  e d’altro,  qualche rispetto.  Perchè,  se  io  voglio  fare guerra  con  uno  principe,  ed  infra  noi siano  fermi  capitoli  per  un  gran  tempo oservati,  con  altra  giustificazione  e con altro  colore  assalterò  io  un  suo  amico che  lui  proprio  5 sappiendo  massime,  che nello  assaltare  lo  amico,  o ci  si  risentirà, ed  io  arò  V intento  mio  di  fargli guerra  ; o non  si  risentendo,  si  scuoprirà  la  debolezza  o la  infidelità  sua  di non  difendere  un  suo  raccomandato.  E l’ una  e I'altra  di  queste  due  cose  è per torgli  riputazione,  e per  fare  più  facili i disegni  miei.  Debbesi  notare,  adunque, e per  la  dedizione  de' Campani,  circa  il muovere  guerra,  quanto  di  sopra  si  è detto;  e di  più,  qual  rimedio  abbia  una città  che  non  si  possa  per    stessa  difendere, e voglisi  difendere  in  ogni  modo da  quel  clic  l'assalta:  il  quale  è darsi Uberamente  a quello  che  tu  disegni  che ti  difenda;  come  feciono  i Capovani  ai Romani,  ed  i Fiorentini  al    Roberto di  Napoli  : il  quale  non  gli  volendo  difendere come  amici,  gli  difese  poi  come sudditi  contra  alle  forze  di  Castruceio da  Lucca,  die  gli  opprimeva. X.  — I danari  non  sono  il  nervo della  guerra j secondo  che  è la  comune oppi  ninne. Perchè  ciascuno  può  cominciare  una guerra  a sua  posta,  ma  non  finirla,  debbe uno  principe,  avanti  che  prenda  una  impresa, misurare  le  forze  sue,  e secondo quelle  governarsi.  Ma  debbe  avere  tanta prudenza,  che  delle  sue  forze  ei  non s’inganni;  ed  ogni  volta  s’ingannerà, quando  le  misuri  o dai  danari,  o dal sito,  o dalla  benivoienza  degli  uomini, mancando  dall’  altra  parte  d’  arme  proprie. Perchè  le  cose  predette  ti  accrescono bene  le  forze,  ma  le  non  te  ne danno  ; e per    medesime  sono  nulla  ; e non  giovano  alcuna  cosa  senza  l’arme fedeli. Perchè  i danari  assai,  non  ti  bastano senza  quelle;  non  ti  giova  la  fortezza de!  paese;  e la  fede ‘e  benivoienza degli  uomini  non  dura,  perchè  questi non  ti  possono  essere  fedeli,  non gli  potendo difendere. Ogni  monte,  ogni  lago, ogni  luogo  inaccessibile  diventa  piano, dove  i forti  difensori  mancano.  I danari ancora  non  solo  non  ti  difendono,  ina ti  fanno  predare  più  presto.    può  essere più  falsa  quella  comune  oppinione che  dice  che  i danari  sono  il  nervo  della guerra.  La  quale  sentenza  è detta  da Quinto Curzio  nella  guerra  che  fu  intra A'ntipatro  macedone  c il  re  spartano: dove  narra,  che  per  difetto  di  danari  il re  di  Sparta  fu  necessitato  azzuffarsi, e fu  rotto;  che  se  ei  differiva  la  zuffa pochi  giorni,  veniva  la  nuova  in  Grecia della  morte  di  Alessandro,  donde  e  sarebbe rimaso  vincitore  senza  combattere. Ma  mancandogli  i danari,  e dubitando che  lo  esercito  suo  per  difetto  di  quelli non  Io  abbandonasse,  fu  constretto  tentare la  fortuna  della  zuffa:  talché  Quinto Curzio  per  questa  cagione  afferma,  i danari essere  il  nervo  della  guerra.  La qual  sentenza  è allegata  ogni  giorno,  v da’  principi  non  tanto  prudenti  che  basti, seguitata.  Perchè,  fondatisi  sopra quella,  credono  che  basti  loro  a difendersi avere  tesori  assai,  e non  pensano che  se’1  tesoro  bastasse  a vincere,  che Dario  arebbe  vinto  Alessandro, i Greci nrebbon  vinti  i Romani;  ne’ nostri  tempi il  duca  Carlo  arebbe  vinti  i Svizzeri; e pochi  giorni  sono,  il  Papa  ed  i Fiorentini insieme  non  arebbono  avuta  difficultà  in  vincere  Francesco  Maria,  nipote di  papa  Giulio  II,  nella  guerra  di Urbino.  Ma  tutti  i soprannominali  furono vinti  da  coloro  che  non  il  danaro, ma  i buoni  soldati  stimano  essere  il  nervo della  guerra.  Intra  le  altre  cose  che Creso  re  di  Lidia  mostrò  a Solone  ateniese, fu  un  tesoro  innumerabile  ; c domandando quel  che  gli  pareva  della  potenza sua,  gli  rispose  Solone,  che  per quello  non  lo  giudicava  più  potente;  perchè la  guerra  si  faceva  col  ferro  e non con  P oro,  e che  poteva  venire  uno  che avesse  piu  ferro  di  lui,  e torgliene.  Olir’ a questo,  quando,  dopo  la  morte  di Alessandro  Magno,  una  moltitudine  di Franciosi  passò  in  Grecia,  e poi  in  Asia; e mandando  i Franciosi  oratori  al  re  di Macedonia  per  trattare  certo  accordo  ; quel  re,  per  mostrare  la  potenza  sua  e per  {sbigottirli,  mostrò  loro  oro  ed  argento assai:  donde  quelli  Franciosi  che di  già  avevano  come  ferma  la  pace,  la j uppono  ; tanto  desiderio  in  loro  crebbe di  torgli  quell’oro:  e cosi  fu  quel  re spogliato  per  quella  cosa  che  egli  aveva per  sua  difesa  accumulata.  1 Yeniziani, pochi  anni  sono,  avendo  ancora  lo  erario loro  pieno  di  tesoro,  perderono  tutto lo  Stato,  senza  potere  essere  difesi  da quello.  Dico  pertanto,  non  l’ oro,  come grida  la  comune  oppinione,  essere  il nervo  della  guerra,  ma  i buoni  soldati : perchè  1’  oro  non  è suflìzienle  a trovare i buoni  soldati,  ma  i buoni  soldati  son ben  sutlìzienti  a trovare  l’ oro.  Ai  Romani, s’egli  avessero  voluto  fare  la  guerra più  con  i danari  che  con  ii  ferro,  non sarebbe  bastato  avere  tutto  il  tesoro  del  mondo,  considerato  le  grandi  imprese che  fcciono,  e le  difficoltà  che  vi  ebbono dentro.  Ma  facendo  le  loro  guerre  con il  ferro,  non  patirono  mai  carestia  dell' oro;  perchè  da  quelli  cheli  temevano era  portato  Toro  infino  ne’ campi.  E se quel  re  spartano  per  carestia  di  danari ebbe  a tentare  la  fortuna  della  /uffa, intervenne  a lui  quello,  per  conto  de’danari,  che  molte  volte  è intervenuto  per altre  cagioni;  perchè  si  è veduto  che, mancando  ad  uno  esercito  le  vettovaglie, ed  essendo  necessitati  o a morire  di fame  o azzuffarsi,  si  piglia  il  partito sempre  di  azzuffarsi,  per  essere  più  ono*revole,  e dove  la  fortuna  ti  può  in  qualche modo  favorire.  Ancora  è intervenuto molte  volte,  che  veggendo  uno capitano  al  suo  esercito  nimico  venire soccorso,  gli  conviene  o azzuffarsi  con quello  e tentare  la  fortuna  della  zuffa  ; o aspettando  eh’  egli  ingrossi,  avere  a combattere  in  ogni  modo,  con  mille  suoi disavvantaggi.  Ancora  si  è visto  (come intervenne  ad  Asdrubale  quando  nella Marca  fu  assaltato  da  Claudio Verone, insieme  con  l’altro consolo romano), che un  capitano  che  è necessitato  o a fuggirsi o a combattere,  come  sempre  elegge il  combattere  ; parendogli  in  questo  partito, ancora  che  dubbiosissimo,  potere vincere;  ed  in  quello  altro,  avere  a perdere in  ogni  modo.  Sono,  adunque,  molte necessitati  che  fanno  a uno  capitano  fuor della  sua  intenzione  pigliare  partito  di azzuffarsi;  intra  le  quali  qualche  volta può  essere  la  carestia  de’  danari  : nè  per questo  si  debbono  i danari  giudicare essere  il  nervo  della  guerra,  più  che  le altre  cose  che  inducono  gli  uomini  n simile  necessità.  Non  è,  adunque,  replicandolo di  nuovo.  1’  oro  il  nervo  della guerra;  ma  i buoni  soldati.  Son  bene necessari  i danari  in  secondo  luogo,  ina è una  necessità  che  i soldati  buoni  per sè  medesimi  la  vincono;  perchè  è inipossibile  che  a’  buoni  soldati  manchino i danari,  come  che  i denari  pei*  loro medesimi  truovino  i buoni  soldati.  Mostra questo  che  noi  diciamo  essere  vero, ogni  istoria  in  mille  luoghi;  non  ostante che  Pericle  consigliasse  gli  Ateniesi  a fare  guerra  con  tutto  il  Peloponneso, mostrando  che  e*  potevano  vincere  quella guerra  con  la  industria  e con  la  forza del  danaio.  E benché  in  tale  guerra  gli Ateniesi  prosperassino  qualche  volta,  in ultimo  la  perderono;  e valsoti  più  il  consiglio e gli  buoni  soldati  di  Sparta,  che la  industria  ed  il  danaio  di  Atene.  Ma L.  è di  questa  oppinione  più  vero testimone  che  alcuno  altro,  dove  discorrendo se  Alessandro  Magno  fusse  venuto in  Italia,  s’ egli  avesse  vinto  i Romani, mostra  esser  tre  cose  necessarie  nella guerra  ; assai  soldati  e buoni,  capitani prudenti,  e buona  fortuna: dove  esaminando quali  o i Romani  o Alessandro prevalessino  in  queste  cose,  fa  dipoi  la sua  conclusione  senza  ricordare  mai  i danari.  Doverono  i Capovani,  quando furono  ricfiiesti  da’  Sidicini  che  prendessino  l’arme  per  loro  contea  ai  Sanniti, misurare  la  potenza  loro  dai  danari,  c non  dai  soldati:  perchè,  preso  ch’egli ebbero  partito  di  aiutarli,  dopo  due  rotte furono  constretti  farsi  tributari  de’  Romani, se  si  vollono  salvare. Non  è partito  prudente  fare amicizia  con  un  principe  che  abbia più  oppinionc  che  forze. Volendo  L.  mostrare  lo  errore de’  Sidicini  a fidarsi  dello  aiuto de’  Campani,  e lo  errore  de’  Campani  a credere  potergli  difendere,  non  lo  potrebbe dire  con  più  vive  parole,  dicendo: Campani  magie  nomen  in  auxilium Sidicinorunij  quam  vires  ad  prcesidium atlulcrunl.  Dove  si  debbe  notare,  che  le leghe  si  fanno  co’ principi  che  non  abbino o comodità  di  aiutarti  per  la  distanzia del  sito,  o forze  di  farlo  per  suo disordine  o altra  sua  cagione,  arrecano più  fama  che  aiuto  a coloro  ehe  se  ne fidano:  come  intervenne  ne’ dì  nostri a*  Fiorentini,  quando il  papa ed  il  re  di  Napoli  gli  assaltarono;  che essendo  amici  del  re  di  Francia,  trassono di  quella  amicizia  magis  nomcn, r/nam  praesidium  : come  interverrebbe ancora  a quel  principe,  che  confidatosi di  Massimiliano  imperatore,  facesse  qualche impresa;  perchè  questa  è una  di quelle  amicizie  che  arrecherebbe  a chi la  facesse  magis  nomcn 9 quam  prassi -ditinij  come  si  dice  in  questo  testo,  che arrecò  quella  de’ Capovani  ai  Sidicini. Errarono,  adunque,  in  questa  parte  i Capovani,  per  parere  loro  avere  più forze  che  non  avevano.  E così  fa  la poca  prudenza  delti  uomini  qualche  volta, che  non  sappiendo    potendo  difendere sè  medesimi,  vogliono  prendere imprese  di  difendere  altrui  : come  fecero ancoro  i Tarentini, i quali,  sendo  gli eserciti  romani  allo  Incontro  dello  esercito  de’ Sanniti,  mandorono  ambasciadori al  Consolo  romano,  a fargli  intendere come  ci  volevano  pace  intra  quelli  duoi popoli,  e come  erano  per  fare  guerra centra  a quello  che  dalla  pace  si  discostasse*, talché  il  Consolo,  ridendosi di  questa  proposta,  alla  presenza  di detti  ambasciadori  fece  sonare  a battaglia, ed  al  suo  esercito  comandò  che andasse  a trovare  il  nimico,  mostrando ai  Tarentini  con  1’  opera,  e non  con  le parole,  di  che  risposta  essi  erano  degni. Ed  avendo  nel  presente  capitolo ragionato  dei  parliti  che  pigliano  i principi al  contrario  per  la  difesa  d’  altrui, voglio  nel  seguente  parlare  di  quelli  che si  pigliano  per  la  difesa  propria.  Scegli  è meglio, temendo di  essere  assaltalo > inferire, o aspettare la  guerra. lo  lio  sentito  da  uomini  assai  pratichi nelle  cose  della  guerra  qualche  volta disputare,  se  sono  duoi  principi  quasi di  eguali  forze,  se  quello  più  gagliardo abbi  bandito  la  guerra  contra  a quello altro,  quale  sia  miglior  partito  per  Poltro; o aspettare  il  nimico  dentro  ai  confini suoi,  o andarlo  a trovare  in  casa, ed  assaltare  lui:  e ne  fio  sentito  addurre ragioni  da  ogni  parte.  E chi  difende lo  andare  assaltare  altrui,  nc  allega il  consiglio  che  Creso  dette  a Ciro, quando  arrivato  in  su*  confini  de’  Massageli  per  fare  lor  guerra,  la  lor  regina Tarniri  gli  mandò  a dire, che  eleggesse quale  de'  duoi  partiti  volesse;  o entrare  nel  regno  suo,  dovè  essa  Ip aspetterebbe;  o volesse  che  ella  venisse a trovar  lui.  E venuta  la  cosa  in  disputazionc,  Creso,  contra  alla  oppinione degli  altri,  disse  che  si  andasse  a trovar lei  ; allegando  che  se  egli  la  vincesse discosto  al  suo  regno, che  non  gli torrebbe  il  regno,  perchè  ella  arebbe tempo  a rifarsi;  pia  se  la  vincesse  dentro a’ suoi  confini,  potrebbe  seguirla  in su  la  fuga,  e non  le  dando  spazio  a rifarsi,  torli  io  Stato.  Allegane  ancora  il consiglio  che  dette  Annibaie  ad  Antioco, quando  quel  re  disegnava  fare  guerra ai  Romani:  dove  ei  mostrò  come  i Romani non  si  potevano  vincere  se  non in  Italia,  perchè  quivi  altri  si  poteva valere  delle  arme  e delle  ricchezze  e degli  amici  loro  ; chi  gli  combatteva fuora  d’ Italia,  e lasciava  loro  la  Italia libera,  lasciava  loro  quella  fonte,  che mai  li  mancava  vita  a somministrare forze  dove  bisogna  ; e conchiuse  che  ai Romani  si  poteva  prima  torre  Roma che  lo  imperio;  prima  la  Italia  che  le altre  provincie.  Allega  ancora  Agatocle. che  non  potendo  sostenere  la  guerra  di casa,  assaltò  i Cartaginesi  clic  glieuc facevano,  e gli  ridusse  a domandare pace.  Allega  SCIPIONE,  che  per  levare  la guerra  d’  Italia,  assaltò  la  Affrica. Chi parla  al  contrario  dice,  che  chi  vuole fare  capitare  male  uno  nimico,  lo  discosti da  casa.  Allegane  gli  Ateniesi, che  mentre  che  feciono  la  guerra  comoda alla  casa  loro,  restarono  superiori; e come  si  discostarono,  ed  andarono con  gli  eserciti  in  Sicilia,  perderono la  libertà.  Allega  le  favole  poetiche,  dove si  mostra  che  Anteo,  re  di  Libia,  assaltato da  Ercole  Egizio,  fu  insuperabile mentre  che  Io  aspettò  dentro  a*  confini del  suo  regno;  ma  come  e’ se  ne  discosto per  astuzia  di  Ercole,  perdè  lo  Stalo e la  vita.  Onde  è dato  luogo  alla  favola di  Anteo,  che  sendo  in  terra  ripigliava le  forze  da  sua  madre,  che  era  la  Terra; e che  Ercole  avvedutosi  di  questo, lo  levò  in  alto,  e discostollo  dalla  terra. Allegane  ancora  i giudizi  moderni.  Ciascuno sa  come  Ferrando  re  di  .Napoli fu  ne’  suoi  tempi  tenuto  uno  savissimo principe:  e venendo  la  fama,  duoi  anni avanti  la  sua  morte,  come  il  re  di  Francia Carlo  Vili  voleva  venire  ad  assaltarlo, avendo  fatte  assai  preparazioni, ammalò;  e venendo  a morte,  intra  gli altri  ricordi  che  lasciò  ad  Alfonso  suo figliuolo,  fu  che  egli  aspettasse  il  nimico dentro  al  regno;  e per  cose  del mondo  non  traesse  forze  fuori  dello Stato  suo,  ma  lo  aspettasse  dentro  aisuoi  confini  tutto  intero;  il  che  non  fuosservato  da  quello;  ma  mandato  uno esercito  in  Romagna,  senza  combattere perdè  quello  c lo  Stato.  Le  ragioni  che, oltre  alle  cose  dette,  da  ogni  parte  si adducono,  sono  : che  chi  assalta  viene con  maggiore  animo  che  chi  aspetta,  il che  fa  più  confidente  lo  esercito;  toglie, oltra  di  questo,  molte  comodità  al  nimico di  potersi  valere  delle  sue  cose, non  si  potendo  valere  di  quei  sudditi che  sieno  saccheggiati;  e per  avere  il nimico  in  casa,  è constretto  il  signore avere  più  rispetto  a trarre  da  loro  danari ed  affaticargli  : sicché  e’  viene  a seccare  quella  fonte,  come  dice  Annibaie, che  fa  che  colui  può  sostenere  la guerra.  Oltre  di  questo,  i suoi  soldati, per  trovarsi  ne*  paesi  d’  altrui,  sono  più necessitati  a combattere;  e quella  nccessila  fa  virtù,  come  più  volte  abbiamo detto.  Dall’  altra  parte  si  dice  ; come aspettando  il  nimico,  si  aspetta  con  assai vantaggio,  perchè  senza  disagio alcuno  tu  puoi  dare  a quello  molti  disagi di  vettovaglia,  e d’  ogni  altra  cosa che  abbia  bisogno  uno  esercito  : puoi meglio  impedirli  i disegni  suoi,  per  la notizia  del  paese  cheta  hai  più  di  lui: puoi  con  più  forze  incontrarlo,  per  poterle facilmente  tutte  unire,  ma  non  potere già  tutte  discostarle  da  casa:  puoi sendo  rotto  rifarti  facilmente;    perchè del  tuo  esercito  se  ne  salverà  assai, per  avere  i rifugi  propinqui;  si  perchè il  supplemento  non  ha  a venire  discosto: tanto  che  tu  vieni  arrischiare  tutte le  forze,  e non  tutta  la  fortuna  ; e discostandoti, arrischi  tutta  la  fortuna,  e non  tutte  le  forze.  Ed  alcuni  sono  stati che  per  indebolire  meglio  il  suo  nimico, Io  lasciano  entrare  parecchie  giornate in  su  il  paese  loro,  e pigliare  assai terre;  acciò  che  lasciando  i presidii  in tutte,  indebolisca  il  suo  esercito,  e possiulo  dipoi  combattere  più  facilmente. Ma,  per  dire  ora  io  quello  che  io  ne intendo,  io  credo  che  si  abbia  a fare  questa distinzione:  o io  ho  il  mio  paese armato,  come  i Romani,  o come  hanno i Svizzeri;  o io  l’ho  disarmato,  come avevano  i Cartaginesi,  o come  Y hanno  i re  di  Francia  e gli  Italiani.  In  questo caso,  si  debbe  tenere  il  nimico  discosto a casa;  perchè  scudo  la  tua  virtù  nel danaio  e non  negli  uomini,  qualunque volta  ti  è impedita  la  via  di  quello,  tu sei  spacciato;    cosa  veruna  te  lo  impedisce quanto  la  guerra  di  casa.  In  essempi  ci  sono  i Cartaginesi;  i quali mentre  che  ebbero  la  casa  loro  libera, poterono  con  le  rendite  fare  guerra  con i Romani;  e quando  la  avevano  assaltata, non  potevano  resistere  ad  Agatoeie. I Fiorentini  non  avevano  rimedio ulcuuo  con Castruccio signore  di  Lucca, perchè  ci  faceva  loro  la  guerra  in  casa; tanto  che  gli  ebbero  a darsi,  per  essere difesi,  al  re  Roberto  di  Napoli.  Ma  morto Castruccio,  quelli  medesimi  Fiorentini ebbero  animo  di  assaltare  il  duca  di Milano  in  casa,  ed  operare  di  torgli  il regno:  tanta  virtù  monstrarono  nelle guerre  louginque,  e tanta  viltà  nelle propinque.  Ma  quando  i regni  sono  armati, come  era  armata  Roma  e come sono  i Svizzeri,  sono  più  difficili  a vincere quanto  più  ti  appressi  loro:  perchè questi  corpi  possono  unire  più  forze  a resistere  ad  uno  impeto,  che  non  possono ad  assaltare  altrui.    mi  muove in  questo  caso  I’  autorità  di  Annibaie, perchè  la  passione  e Y utile  suo  gli  faceva cosi  dire  ad  Antioco.  Perchè,  se  i Romani  avessino  avute  in  tanto  spazio di  tempo  quelle  tre  rotte  in  Francia* ch’egli  ebbero  in Italia  da  Annibaie, senza  dubbio  erano  spacciati:  perchè non  si  sarebbono  valuti  de’ .residui  degli eserciti,  come  si  valsono  in  Italia; non  arebbono  avuto  a rifarsi  quelle  comodità; nè  potevano  con  quelle  forze resistere  ai  nimico,  che  poterono.  Non si  trova  che,  per  assaltare  una  provincia, loro  mandassino  mai  fuora eserciti clic  passassino  cinquantamila  persone; ma  per  difendere  la  casa  ne  misono  in arme  conira  ai  Franciosi,  dopo  la  prima guerra  punica,  diciotto  centinaia  di  migliaia. Nè  arebbono  potuto  poi  romper quelli  in  Lombardia,  come  gli  ruppono in  Toscana;  perchè  contro  a tanto  numero  di  ninnici  non  arebbono  potuto condurre  tante  forze    discosto,    combattergli con  quella  comodità.  I Cimbri ruppono  uno  esercito  romano  in  la  Magna, nè  vi  ebbono  i Romani  rimedio. Ma  come  egli  arrivorono  in  Italia,  e che poterono  mettere  tutte  le  loro  forze  insieme, gli  spacciarono.  I Svizzeri  è facile vincergli  fuori  di  casa,  dove  e’ non possono  mandare  più  che  un  trenta  o quarantamila  uomini;  ma  vincergli  in casa,  dove  e’  ne  possono  raccozzare  centomila, è difficilissimo.  Conchiuggo  adunque di  nuovo,  che  quel  principe  che  ha i suoi  popoli  armati  ed  ordinali  alla guerra,  aspetti  sempre  in  casa  una guerra  potente  e pericolosa,  e non  la vadia  a rincontrare:  ma  quello  che  ha i suoi  sudditi  disarmati,  ed  il  paese inusitato  della  guerra,  se  la  discosti sempre  da  casa  il  più  che  può.  E così r uno  e l*  altro,  ciascuno  nel  suo  grado, si  difenderà  meglio. Che  si  viene  di  bassa  a gran  fortuna  più  con  la  fraude,  che con  la  forza. Io  stimo  essere  cosa  verissima,  che rado,  o non  mai,  intervenga  che  gli uomini  di  piccola  fortuna  venghino  a gradi  grandi,  senza  la  forza  e senza  la fraude;  purché  quel  grado  al  quale  altri è pervenuto,  non  ti  sia  o donalo,  o lasciato  per  eredità.    credo  si  truovi mai  che  la  forza  sola  basti,  ma  si  troverà bene  che  la  fraude  sola  basterà: còme  chiaro  vedrà  colui  che  leggerà  la vita  di  Filippo  di  Macedonia,  quella  di Agatocle  siciliano,  e di  molti  altri  simili, che  d’ infima  ovvero  di  bassa  fortuna, sono  pervenuti  o a regno  o ad  imperi grandissimi.  Mostra  Senofonte,  nella  sua vita  di  Ciro,  questa  necessità  delio  ingannare; consideralo  che  la  prima  ispedizione  che  fa  fare  a Ciro  contea  il  re di  Armenia,  è piena  di  fraude,  e come con  inganno,  e non  con  forza,  gli  fa  occupare il  suo  regno;  e non  conchiude altro  per  tale  azione,  se  non  che  ad  un principe  che  voglia  fare  gran  cose,  è necessario  imparare  a ingannare.  Fagli, olirà  di  questo,  ingannare  Ciassare,  re de’  .Medi,  suo  zio  materno,  in  più  modi; senza  la  quale  fraude  mostra  che  Ciro non  poteva  pervenire  a quella  grandezza che  venne.    credo  che  si  truovi mai  alcuno  constiluito  in  bassa  fortuna, pervenuto  a grande  imperio  solo  con la  forza  aperta  ed  ingenuamente,  ma  sì bene  solo  con  la  fraude  : come  fece  Giovanni Galeazzo  per  tor  lo  Stato  e lo imperio  di  Lombardia  a messer  Bernabò suo  zio.  E quei  che  sono  necessitati  fare i principi  ne’  principi!  degli  augumenti loro,  sono  ancora  necessitate  a fare  le repubbliche,  infimo  che  le  sieno  diventate potenti,  e che  basti  la  forza  sola. E perchè  Roma  tenne  in  ogni  parte,  o per  sorte  o per  elezione,  tutti  i modi necessari  a venire  a grandezza,  non mancò  ancora  di  questo.    potè  usare, nel  principio,  il  maggiore  inganno,  che pigliare  il  modo  di  sopra  discorso  da noi,  di  farsi  compagni  ; perchè  sotto questo  nome  se  li  fece  servi:  come  furono i Latini,  ed  altri  popoli  all’  intorno. Perchè  prima  si  valse  dell*  arme  loro in  domare  i popoli  convicini,  e pigliare la  riputazione  dello  Stato:  dipoi,  domatogli, venne  in  tanto  augumento,  che  la poteva  battere  ciascuno.  Ed  i Latini  non si  avviddono  mai  di  essere  al  tutto  servi, se  non  poi  che  viddono  dare  due  rotte ni  Sanniti,  e costrettigli  ad  accordo.  La (piale  vittoria,  come  ella  accrebbe  gran riputazione  ai  Romani  eoi  principi  longinqui,  clic  mediante  quella  sentirono  il nome  romano  e non  l’armi;  così  generò invidia  e sospetto  in  quelli  che vedevano  e sentivano  l’armi,  intra  i quali  furono  i Latini.  E tanto  potè  questa invidia  e questo  timore,  che  non solo  i Latini,  ma  le  colonie  che  essi  avevano in  Lazio,  insieme  con  i Campani, stati  poco  innanti  difesi,  congiurarono contra  al  nome  romano.  E mossono  questa guerra  i Latini  nel  modo  che  si  dice di  sopra,  che  si  muovono  la  maggior parte  delle  guerre,  assaltando  non  i Romani, ma  difendendo  i Sidicini  contra ai  Sanniti;  a’ quali  i Sanniti  facevano guerra  con  licenza  de’  Romani.  E che  sia vero  che  i Latini  si  movessino  per  avere conosciuto  questo  inganno,  lo  dimostra L.  nello  bocca  di  Annio  Setiuo pretore  latino,  il  quale  nel  consiglio  loro disse  queste  parole  : Nam,  si  ctìam  mine sub  umbra  feederis  cequi  servilutem  pati possumus  ctc. Yedesi  pertanto  i Romani ne’ primi  augumenti  loro  non  essere mancati  eziam  della  fraude;  la  quale fu  sempre  necessaria  ad  usare  a coloro che  di  piccoli  principii  vogliono  a sublimi gradi  salire  : la  quale  è meno  vituperabile quanto  è più  coperta,  come fu  questa  de’  Romani. Ingannatisi  molte  volle  gli uomini j credendo  con  la  umilila  vincere la  superbia. Vedesi  molle  volte  come  la  umilila  non solamente* non  giova,  ma  nuoce,  massimamente usandola  con  gli  uomini  insolenti, che,  o per  invidia  o per  altra cagione,  hanno  concetto  odio  teco.  Di che  ne  fa  fede  lo  istorico  nostro  in  questa cagione  di  guerra  intra  i Romani ed  i Latini.  Perchè,  dolendosi  i Sanniti con  i Romani,  che  i Latini  gli  avevano assaltati,  i Romani  non  vollono  proibire ai  Latini  tal  guerra,  desiderando  non gli  irritare:  il  che  non solamente  non gli  irritò,  ma  gli  fece  diventare  più  animosi contro  a loro,  e si  scopersono  più presto  inimici.  Di  che  ne  fanno  fede  le parole  usate  da!  prefato  Annio  pretore latino  nel  medesimo  concilio,  dove  dice: Tentaslis  patientiam  negando  mililem: (jais  dubitai  cxarsisse  eos ? Pcrtulerunt (amen  hunc  dolorem.  Excrcitus  nos  parare adversus  Snmnilcs  feederatos  suos audierunl,  ncc  mnverunt  se  ab  urbe. I Inde hcec  illis  tanta  modestia j,  ni  si  a eonscienlia  virium, et  n os trarum, et suarum?  Conoscesi,  pertanto,  chiarissimo per  questo  testo, quanto  la  pazienza de’ Romani  accrebbe l’arroganza de’  Latini.  E però,  mai  uno  principe debbe  volere  mancare  del  grado  suo,  e non  debbe  mai  lasciare  alcuna  cosa  d’accordo, volendola  lasciare  onorevolmente, se  non  quando  e’  la  può,  o e’  si  crede che  la  possa  tenere  : perchè  gli  è meglio quasi  sempre,  sendosi  condotta  la cosa  in  termine  che  tu  non  la  possa  lasciare nel  modo  detto,  lasciarsela  torre con  le  forze,  che  con  la  paura  delle forze.  Perchè  se  tu  la  lasci  con  In  paura, lo  fai  per  levarli  la  guerra,  ed  il  più delle  volte  non  te  la  lievi:  perche  colui a chi  tu  arai  con  una  viltà  scoperta concesso  quella,  non  starà  saldo,  rao  ti vorrà  torre  delle  altre  cose,  e si  accenderà più  contra  di  te,  stimandoti  meno; e dall'altra  parte,  in  tuo  favore  troverai i difensori  più  freddi,  parendo  loro che  tu  sia  o debole,  o vile:  ma  se  tu, subito  scoperta  la  voglia  dello  avversario, prepari  le  forze,  ancoraché  le  siano inferiori  a lui.  quello  ti  comincia  a stimare; stimanti  più  gli  altri  principi allo  intorno;  ed  a tale  viene  voglia  di aiutarti,  sendo  in  su  P arme,  che  abbandonandoti non  ti  aiuterebbe  mai. Questo  si  intende  quando  tu  abbia  uno inimico;  ma  quando  ne  avessi  più,  rendere delle  cose  che  tu  possedessi  ad  al  •euno  di  loro  per  riguadagnarselo,  ancoraché fusse  di  già  scoperta  la  guerra, e per  smembrarlo  dagli  altri  confederati  tuoi  inimici,  fia  sempre  partito  prudente. Gli  Stati  deboli  sempre fieno  ambigui  nel  risolversi : e sempre le  deliberazioni  lente  sono  nocive. in  questa  medesima  materia,  ed  in questi  medesimi  principi!  di  guerra  intra i Latini  ed  i Romani,  si  può  notare come  in  ogni  consulta  è bene  venire  allo individuo  di  quello  die  si  ha  a deliberare, e non  stare  sempre  in  ambiguo, nè  in  su  lo  incerto  della  cosa.  Il  che  si vede  manifesto  nella  consulta  che  feciono  i Latini,  quando  c’pensavano  alienarsi da’  Romani.  Perchè  avendo  presentito questo  cattivo  umore  che  ne’  popoli latini  era  entrato,  i Romani,  per  eertificarsi  della  cosa,  c per  vedere  se  potevano senza  mettere  mano  all’arme  riguadagnarsi quelli  popoli,  fecero  loro intendere,  come  e’  mandassero  a Roma otto  cittadini,  perchè  avevano  a consullare  con  loro.  I Latini,  inteso  questo  ed avendo  conscienza  di  molte  cose  fatte centra  alla  voglia  de’  Romani,  fcciono consiglio  per  ordinare  chi  dovesse  ire a Roma,  e dargli  commissione  di  quello ch’egli  avesse a dire.  E stando  nel  consiglio in  questa  disputa,  ANNIO  loro  pretore disse  queste  parole:  Ad  sumiuam veruni  nostrarum  pertinerc  arbitrar, ut vogilctis  magis, quid  agendum  nobis, quam  quid  loqucndum  sii.  Facile  crii, cxphcatis  consiliis j accommodarc  rebus nerba.  Sono,  senza  dubbio,  queste  parole verissime,  e debbono  essere  da  ogni principe  e da  ogni  repubblica  gustate  : perchè  nella  ambiguità  e nella  incertit udine  di  quello  che  altri  voglia  fare, non  si  sanno  accomodare  le  parole;  ma fermo  una  volta  1’  animo,  e deliberalo quello  sia  da  eseguire,  è facil  cosa  trovarvi le  parole,  lo  ho  notato  questa parte  più  volentieri,  quanto  io  ho  molte volte  conosciuto  tale  ambiguità  avere nociuto  alle  pubbliche  azioni,  con  danno i*  con  vergogna  della  repubblica  nostra. E sempre  mai  avverrà,  che  ne*  partiti ilubbii,  e dove  bisogni  animo  a deliberargli, sarà  questa  ambiguità,  quando abbino  ad  esser  consigliati  e deliberati da  uomini  deboli.  Non  sono  meno  nocive ancora  le  deliberazioni  lente  e tarde, che  ambigue  ; massime  quelle  che  si hanno  a deliberare  in  favore  di  alcuno amico  : perchè  con  la  lentezza  loro  non si  aiuta  persona,  e nuocesi  a sè  mede- simo. Queste  deliberazioni  così  fatte  procedono o da  debolezza  di  animo  e ili forze,  o da  malignità  di  coloro  che  hanno a deliberare;  i quali,  mossi  dalla  passimi propria  di  volere  rovinare  lo  Stato o adempire  qualche  suo  desiderio,  non lasciano  seguire  la  deliberazione,  ma  la impediscono  e la  attraversano.  Perchè  i buoni  cittadini,  ancora  che  vegghino  una foga  popolare  voltarsi  alla  parte  perniciosa, mai  impediranno  il  deliberare, massime  di  quelle  cose  che  non  aspettano tempo.  Morto  che  fu  Girolamo  liranno  in  Siracusa,  essendo  la  guerra grande  intra  i Cartaginesi  ed  i Romani, vennono  i Siracusani  in  disputa  se  dovevano seguire  V amicizia  romana  o la cartaginese.  E tanto  era  lo  ardore  delle parti,  che  la  cosa  stava  ambigua,    se ne  prendeva  alcuno  partito;  insino  a tanto  che  Apollonide,  uno  de’  primi  in Siracusa,  con  una  sua  orazione piena di  prudenza,  mostrò  come  non  era  da biasmare  chi  teneva  E oppinione  ili  aderirsi ai  Romani,    quelli  che  volevano seguire  la  parte  cartaginese;  ma  era bene  da  detestare  quella  ambiguità  e tardità  di  pigliare  il  partito,  perchè  vedeva al  tutto  in  tale  ambiguità  la  rovina della  repubblica;  ma  preso  che  si fusse  il  partito,  qualunque  e’  si  fosse,  si poteva  sperare  qualche  bene.    potrebbe mostrare  più  L.  che  si faccia  in  questa  parte,  il  danno  che  si tira  dietro  lo  stare  sospeso.  Dimostralo ancora  in  questo  caso  de’  Latini  : perchè, sendo  i Latini  ricerchi  da  loro gli  stessine  neutrali,  e che  il  re  venendo in  Italia  gli  avesse  a mantenere nello  Stato  e ricevere  in  proiezione:  e dette  tempo  un  mese  alla  città  a ratificarlo. Fu  differita  tale  ratificazione  da chi  per  poca  prudenza  favoriva  le  cose di  Lodovico:  intantoehè,  il  re  già  sendo in  su  la  vittoria,  e volendo  poi  i Fiorentini ratificare, non  fu  la  ratificazione accettata  ; come  quello  che  conobbe i Fiorentini  essere  venuti  forzati,  e non voluntari  nella  amicizia  sua.  Il  che  costò alla  città  di  Firenze  assai  danari,  e fu per  perdere  lo  Stato  : come  poi  altra volta  per  simile  causa  li  intervenne.  E tanto  più  fu  dannabile  quel  partito,  perchè non  si  servi  ancora  il  duca  Lodovico;  il  quale  se  avesse  vinto,  arebbe mostri  molti  più  segni  di  inimicizia  conira ai  Fiorentini,  che  non  fece  il  re.  E benché  del  male  che  nasce  alle  repubbliche di  questa  debolezza  se  ne  sia  di sopra  in  uno  altro  capitolo  discorso; nondimeno,  avendone  di  nuovo  occasione per  un  nuovo  accidente,  ho  voluto  replicarne', parendomi,  massime,  materia che  debba  esser  dalie  repubbliche  simili alla  nostra  notala. Quanto  i soldati  ne’  nostri tempi  si  disformino  dalli  anttcht  ordini. ha  più  importante  giornata  che  fu  mai fatta  in  alcuna  guerra  con  alcuna  nazione dal  Popolo  romano,  fu  questa  che ei  fece  con  i popoli  latini,  nel  consolato di  Torquato  e di  Decio.  Perchè  ogni  ragione vuole,  che  cosi  come  i Latini  per averla  perduta  diventarono  servi,  così sarebbono  stati  servi  i Romani,  quando non  la  avessino  vinta.  E di  questa  oppinone è L.;  perchè  in  ogni parte  fa  gli  eserciti  pari  di  ordine,  di virtù,  di  ostinazione  c di  numero  : solo vi  fa  differenza,  che  i capi  dello  esercito romano  furono  più  virtuosi  che  quelli dello  esercito  latino.  Yedesi  ancora  come nel  maneggio  di  questa  giornata  nacquero duoi  accidenti  non  prima  nati,  e che dipoi  hanno  rari  esempi:  che  de’ duoi Consoli,  per  tenere  fermi  gli  animi de’ soldati,  ed  ubbidienti  al  comandamento loro,  e diliberati  al  combattere, 1’  uno  ammazzò    stesso,  e I’  altro  il figliuolo.  La  parità,  che L.  dice essere  in  questi  eserciti,  era  che,  per avere  militato  gran  tempo  insieme,  erano pari  di  lingua,  d’  ordine  e d’arme:  perchè nello  ordinare  la  zuffa  tenevano  uno modo  medesimo  $ e gli  ordini  ed  i capi degli  ordini  avevano  medesimi  nomi. Era  dunque  necessario,  sondo  di  pari forze  e di  pari  virtù,  che  nascesse  qualche cosa  istraordinaria, che  fermasse  e facesse  più  ostinati  gli  animi  dell’  uno che  dell’altro:  nella  quale  ostinazione consiste,  come  altre  volte  si  è detto,  la vittoria;  perchè,  mentre  che  la  dura ne’  petti  di  quelli  che  combattono,  mai non  danno  volta  gli  eserciti.  E perchè la  durasse  più  ne’  petti  de’  Romani  che de’  Latini,  parte  la  sorte,  parte  la  virtù de’  Consoli  fece  nascere,  che  Torquato ebbe  ad  ammazzare  il  figliuolo,  e Decio sè  stesso.  Mostra  Tito  Livio,  nel  mostrare questa  purililà  di  forze,  tutto l’ ordine  che  tenevano  i Romani  nelli eserciti  e nelle  zuffe.  Il  quale  esplicando egli  largamente,  non  replicherò  altrimenti; ma  solo  discorrerò  quello  che  io vi  giudico  notabile,  e quello  che  per  essere negletto  da  tutti  i capitani  di  questi tempi,  ha  fatto  negli  eserciti  e nelle zuffe  di  molti  disordini.  Dico,  adunque, che  per  il  testo  di  Livio  si  raccoglie, come  lo  esercito  romano  aveva  tre  divisioni principali,  le  quali  toscanamente si  possono  chiamare  tre  schiere;  e nominavano la  prima  astati,  la  seconda principi,  la  terza  triarii:  e ciascuna  di queste  aveva  i suoi  cavalli.  Nello  ordinare una  zuffa,  ei  mettevano  gli  astatiinnanzi  ; nel  secondo  luogo,  per  diritto, dietro  alle  spalle  di  quelli,  ponevano  i principi; nel  terzo,  pure  nel  mede»imo filo,  collocavano  i triadi.  I cavalli  di tulli  questi  ordini  gli  ponevano  a destra ed  a sinistra  di  queste  tre  battaglie;  le schiere  de’  quali  cavalli,  dalla  forma  loro e dal  luogo,  si  chiamavano  alce, perchè parevano  come  due  alie  di  quel  corpo. Ordinavano  la  prima  schiera  delli  astati, che  era  nella  fronte,  serrata  in  modo insieme  che  la  potesse  spignere  e sostenere il  nimico. La  seconda  schiera de’  principi,  perchè  non  era  la  prima a combattere, ma  bene  le  conveniva  soccorrere alla  prima  quando  fusse  battuta o urtata,  non  la  facevano  stretta,  ma mantenevano  i suoi  ordini  radi,  e di qualità  che  la  potesse  ricevere  in  sè senza  disordinarsi  la  prima,  qualunque volta,  spinta  dal  nimico,  fusse  necessitata ritirarsi.  La  terza  schiera  de*  triadi aveva  ancora  gli  ordini  più  radi  che  la seconda,  per  potere  ricevere  in  sè,  bisognando, le  due  prime  schiere  de’  principi e degli  astati.  Collocate,  dunque, queste  schiere  in  questa  forma,  appiccavano  la  zuffa: e se  gli  astati  erano sforzati  o vinti, si  ritiravano  nella  ra-dila degli  ordini  de’  principi  ; e tuttiinsieme  uniti,  fatto  di  due  schiere  un J corpo,  rappiccavano  la  zuffa:  se  questi ancora  erano  ributtati  e sforzati,  si  ritiravano tutti  nella  radila  degli  ordini de*  trioni;  e tutte  tre  le  schiere  diventate un  corpo,  rinnovavano  la  zuffa  : dove  essendo  superati,  per  non  avere più  da  rifarsi,  perdevano  la  giornata. E perchè  ogni  volta  che  questa  ultima schiera  de’  triarii  si  adoperava,  lo  esercito era  in  pericolo,  ne  nacque  quel  proverbio: Res  redacta  est  ad  triarios  ; che ad  uso  toscano  vuol  dire:  Noi  abbiamo messo  I’  ultima  posta.  I capitani  dei  nostri tempi,  come  egli  hanno  abbandonato tutti  gli  altri  ordini,  e della  antica disciplina  ei  non  ne  osservano  parte  alcuna, cosi  hanno  abbandonata  questa parte,  la  quale  non  è di  poca  importanza: perchè  chi  si  ordina  da  potersi nelle  giornate  rifare  tre  volte,  ha  ad avere  tre  volte  inimica  la  fortuna  a volere perdere,  ed  ha  ad  avere  per  riscontro una  virtù  che  sia  atta  tre  volte  a vincerlo.  Ma  chi  non  sta  se  non  in  su  M primo  urto,  come  stanno  oggi  gli eserciti cristiani,  può  facilmente  perdere  ; perchè  ogni  disordine,  ogni  mezzana virtù  gli  può  torre  la  vittoria.  Quello che  fa  agli  eserciti  nostri  mancare  di potersi  rifare  tre  volte,  è lo  avere  perduto il  modo  di  ricevere  I*  una  schiera uelP  altra.  Il  che  nasce  perchè  al  presente sf  ordinano  le  giornate  con  uno di  questi  duoi  disordini:  o ei  mettono le  loro  schiere  a spalle  P una  delP  altra, e fanno  la  loro  battaglia  larga  per traverso,  e sottile  per  diritto;  il  che  la fa  più  debole,  per  aver  poco  dal  petto alle  schiene.  E quando  pure,  per  farla più  forte,  ei  riducono  le  schiere  per  il verso  de’ Romani,  se  la  prima  fronte  è rotta,  non  avendo  ordine  di  essere  ricevuta dalla  seconda,  s’ ingarbugliano insieme  tutte,  e rompono    medesime: perché  se  quella  dinanzi  è spinta,  ella urta  la  seconda;  se  la  seconda  si  vuol far  innanzi,  ella  è impedita  dalla  prima  : donde  che  urlando  la  prima  la  seconda, e la  seconda  la  terza,  ne  nasce  tanta confusione,  che  spesso  uno  minimo  accidente rovina  uno  esercito.  Gli  eserciti spagnuoli  e franciosi  nella  zuffa  di  Ravenna, dove  mori  monsignor  de  Pois, capitano  delle  genti  di  Prandi  (la  quale fu,  secondo  i nostri  tempi,  assai  bene combattuta  giornata)  s’  ordinarono  con uno  de’ soprascritti  modi;  cioè  clic  l’uno e 1’altro esercito  venne  con  tutte  le  sue genti  ordinate  a spalle: in  modo  che non  venivano’  avere    1’uno    1’altro se  non  una  fronte,  ed  erano  assai  più per  il  traverso  cìie  per  il  diritto.  E questo avviene  loro  sempre  dove  egli  hanno la  campagna  grande,  come  gli  avevano a Ravenna  : perché,  conoscendo  il  disordine che  fanno  nel  ritirarsi,  mettendosi per  un  filo,  lo  fuggouo  quando  e’  possono col  fare  la  fronte  larga,  coni’  t detto; ma  quando  il  paese  gli  ristringe, si  stanno  nel  disordine  soprascritto, senza  pensare  il  rimedio.  Con  questo medesimo  disordine  cavalcano  per  il paese  inimico,  o se  e’  predano,  o se e’  fanno  altro  maneggio  di  guerra. Ed a santo  Regolo  in  quel  di  Pisa,  ed  altrove, dove  i Fiorentini  furono  rotti da' Pisani  ne’ tempi  della  guerra  che  fu tra  i Fiorentini  e quella  città,  per  la  sua ribellione  dopo  la  passata  di  Carlo  re di  Francia  in  Italia,  non  nacque  tal  rovina d’ altronde,  clic  dalla  cavalleria amica;  la  quale  sendo  davanti  e ributtata da’  nimici,  percosse  nella  fanteria fiorentina,  e quella  ruppe  : donde  tutto il  restante  delle  genti  dierono  volta  : e messcr  Ciriaco  dal  Borgo,  capo  antico delle  fanterie  fiorentine,  ha  affermato alla  presenza  mia  molte  volle,  non  essere mai  stato  rotto  se  non  dalla  cavalleria degli  amici.  1 Svizzeri,  che  sono  i maestri  delle  moderne  guerre,  quando ei  militano  coi  Franciosi,  sopra  tulle  le cose  hanno  cura  di  mettersi  in  lato, che la  cavalleria  amica,  se  fusse  ributtata, non  gli  urti.  E benché  queste  cose paiano  facili  ad  intendere,  e facilissime a farsi;  nondimeno  non  si  è trovato  ancora alcuuo  de’  nostri  contemporanei  capitani, che  gli  antichi  ordini  imiti,  e gli  moderni  corregga.  E benché  gli  abbino ancora  loro  tripartito  lo  esercito, chiamando  1’una  parte  antiguardo,  l’altra battaglia  e l’altra  retroguardo;  non se  ne  servono  ad  altro  che  a comandargli nelli  alloggiamenti: ma  nello  adoperargli, rade  volte  è,  come  di  sopra  è detto,  che  a tutti  questi  corpi  non  faccino correre  una  medesima  fortuna.  E perchè  molti,  per  scusare  la  ignoranza loro,  allegano  che  la  violenza  delle  artiglierie non  patisce  che  in  questi  tempi si  usino  molti  ordini  degli  antichi,  voglio disputare  nel  seguente  capitolo  que-sta materia,  ed  esaminare  se  le  artiglierie impediscono  che  non  si  possa usare  l’ antica  virtù. Quanto  si  debbino  sii inave  dagli  eserciti  ne'  presenti  tempi le  artiglierie;  e se  quella  oppiatone che  se  ne  ha  in  universale j è vera. Considerando  io,  oltre  alle  cose  soprascritte, quante  zuffe  campali  (chiamate ne’ nostri  tempi,  con  vocabolo francioso,  giornate,  e dagl’  Italiani  fatti d’arme)  furono  fatte  dai  Romani  in  diversi tempi; mi  è venuto  in  considerazione la  oppinione  universale  di  molti,  che vuole  che  se  in  quelli  tempi  fussino state  le  artiglierie,  non  sarebbe  stato lecito  a’  Romani,      facile,  pigliare le  provincie;  farsi  tributari  i popoli, come  e’  feciono  ; nè  arebbono  in  alcuno modo  fatti  si  gagliardi  acquisti.  Dicono aiTcora,  che  mediante  questi  instrumenti de’  fuochi,  gli  uomini  non  possono  usare nè  mostrare  la  virtù  loro,  come  e’ potevano anticamente.  E soggiungono  una terza  cosa  : che  si  viene  con  piu  diflìeultà  alle  giornale  che  non  si  veniva allora,    vi  si  può  tenere  dentro  quegli ordini  di  quelli  tempi; talché  la guerra  si  ridurrà  col  tempo  in  su  le artiglierie.  E giudicando  non  fuora  di proposito  disputare  se  tali  oppiuioui sono  vere,  e quanto  le  artiglierie  abbino cresciuto  o diminuito  di  forze  agli eserciti,  e se  le  tolgano  o danno  occasione ai  buoni  capitani  di  operare  virtuosamente ; comiucerò  a parlare  quanto alla  prima  loro  oppinione: che  gli  eserciti antichi  romani  non  arebbono  fatto gli  acquisti  che  feciono,  se  le  artiglierie lussino  state.  Sopra  che,  rispondendo, dico:  come  e’si  fa  guerra  o per  difendersi, o per  offendere;  donde  si  ha  prima ad  esaminare  a quale  di  questi  duoi modi  di  guerra  le  faccino  più  utile,  o più  danno.  E benché  sia  che  dire  fla ogni  parte,  nondimeno  io  credo  che senza  comparazione  faccino  più  danno a chi  si  difende,  che  a chi  offende.  La ragione  che  io  ne  dico  è,  che  quel  che si  difende,  o egli  è dentro  a una  terra, o egli  è in  su’  campi  dentro  ad  uno  steccato. S*  egli  è dentro  ad  una  terra,  o questa  terra  è piccola,  come  sono  la maggior  parte  delle  fortezze,  o la  è grande:  nel  primo  caso,  chi  si  difende è al  tutto  perduto,  perchè  P impeto  delle artiglierie  è tale,  che  non  trova  muro, ancoraché  grossissimo,  che  in  pochi giorni  ei  non  abbatta;  e se  chi  è dentro non  ha  buoni  spazi  da  ritirarsi  c con fossi  e con  ripari,  si  perde;    può  sostenere 1*  impeto  del  nimico  che  volesse dipoi  entrare  per  la  rottura  del  muro, nè  a questo  gli  giova  artiglieria  che avesse:  perchè  questa  è una  massima, che  dove  gli  uomini  in  frotta  e con  impeto possono  andare,  le  artiglierie  non gli  sostengono.  Però  i furori  oltramontani nella  difesa  delle  terre  non  sono sostenuti: sou  bene  sostenuti  gli  assalti italiani,  i quali  non  in  frolla,  ma  spicciolati si  conducono  alle  battaglie,  le quali  loro,  per  nome  mollo  proprio, chiamano  scaramuccio. E qucsli  che vanno  con  questo  disordine  e questa freddezza  ad  una  rottura  d’  un  muro dove  sia  artiglierie,  vanno  ad  una  manifesta morte,  c conira  a loro  le  artiglierie vogliono:  ma  quelli  clic  in  frotta condensati,  e che  runo  spinge  l’altro, vengono  ad  una  rottura,  se  non  sono sostenuti  o da  fossi  o da  ripari,  entrano in  ogni  luogo,  c le  artiglierie  non gli  tengono;  e se  ne  muore  qualcuno, non  possono  essere  tanti  che  gl’  impedischino  la  vittoria.  Questo  esser  vero, si  è conosciuto  in  molte  espugnazioni fatte  dagli  oltramontani  in  Italia,  e massime in  quella  di  Brescia  : perchè,  sendosi  quella  terra  ribellata  da’  Franciosi, e tenendosi  ancora  per  il  re  di  Francia la  fortezza,  avevano  i Veneziani,  per  sostenere V impeto  che  ila  quella  potesse venire  nella  terra,  munita  tutta  la  strada di  artiglierie  che  dalla  fortezza  alla  città scendeva,  e postane  a fronte  e ne’  fianchi, ed  in  ogni  altro  luogo  opportuno. Delle  quali  monsignor  di  Fois  non  fece alcuno  conto  ; anzi  quello  con  il  suo squadrone,  disceso  a piede,  passando  per il  mezzo  di  quelle,  occupò  la  città,  nè per  quelle  si  sentì  eli’  egli  avesse  ricevuto alcuno  memorabile  danno. Talché, chi  si  difende  in  una  terra  piccola,  conte è detto,  c trovisi  le  mura  in  terra,  e non  abbia  spazio  di  ritirarsi  con  r ripari e con  fossi,  ed  abbiasi  a fidare  in su  le  artiglierie,  si  perde  subito.  Se  tu difendi  tuta  terra  gronde,  e che  tu  abbia comodità  di  ritirarti,  sono  nondiinanco  senza  comparazione  più  utili  le artiglierie  a chi  è di  fuori,  che  a chi  è dentro. Prima,  perchè  a volere  che  una artiglieria  nuoca  a quelli  che  sono  di fuora,  tu  sei  necessitato  levarti  con  essa dal  piano  della  terra;  perchè,  stando in  sul  piano,  ogni  poco  di  argine  e di riparo  che  il  nimico  faccia,  rimane  sicuro, e tu  non  gli  puoi  nuocere.  Tanto che  avendoti  ad  alzare,  e tirarti  sul  corridoio delle  mura,  o in  qualunque  modo levarti  da  terra,  tu  ti  tiri  dietro  due difficoltà:  la  prima,  che  non  puoi  condurvi artiglieria  della  grossezza  e della potenza  che  può  trarre  colui  di  fuora, non  si  potendo  ne’  piccoli  spazi  maneggiare le  cose  grandi ; I’  altra,  che  quando bene  tu  ve  la  potessi  condurre,  tu  non puoi  fare  quelli  ripari  fedeli  e sicuri, per  salvare  detta  artiglieria,  che  possono fare  quelli  di  fuora,  essendo  in  su  terreno,  ed  avendo  quelle  comodità  e quello  spazio  che  loro  medesimi  vogliono: talmentechè,  gli  è impossibile  a chi difende  una  terra,  tenere  le  artiglierie ne’  luoghi  alti,  quando  quelli  che  soli  di fuora  abbino  assai  artiglierie  e polenti; e se  egli  hanno  a venire  con  essa  ne’luoghi bassi,  ella  diventa  in  buona  parte inutile,  come  è detto.  Talché  la  difesa della  città  si  ha  a ridurre  a difenderla con  le  braccia,  come  anticamente  si  faceva, e con  la  artiglieria  minuta  : di che  se  si  trae  un  poco  di  utilità  rispetto a quella  artiglieria  minuta,  se  ne  cava incomodità  che  contrappesa  alia  comodità della  artiglieria  ; perchè,  rispetto a quella,. si  riducono  le  mura  delle  terre, basse  e quasi  sotterrate  ne’ fossi:  talché, com’e’  si  viene  alle  battaglie  di mano,  o per  essere  battute  le  mura  o per  essere  ripieni  i fossi,  ha  chi  è dentro molti  più  disavvantaggi  che  non aveva  allora,  E però,  come  di  sopra  si disse,  giovano  questi  instrumenti  molto più  a chi  campeggia  le  terre,  che  a chi è campeggiato.  Quanto  alla  terza  cosa, di  ridursi  in  uno  campo  dentro  ad  uno steccato  per  non  fare  giornata,  se  non a tua  comodità  o vantaggio;  dico  che in  questa  parte  tu  non  hai  più  rimedio ordinariamente  a difenderti  di  non  combattere, che  si  avessino  gli  antichi;  e qualche  volta,  per  conto  delle  artiglierie, hai  maggiore  disavvantaggio.  Per- chè, se  il  nimico  ti  giunge  addosso,  ed abbia  un  poco  di  vantaggio  del  paese, come  può  facilmente  intervenire;  e truovìsi  più  alto  di  te;  oche  nello  arrivare alio  tu  non  abbi  ancora  fatti  i gini,  e copertoli  bene  con  que luto,  e senza  che  tu  abbi  alcun ti  disalloggia,  e sei  forzato  usci fortezze  tue,  e venire  alla  zuffa intervenne  agli  Spagnuoli  nel nata  di  Ravenna  i quali  essent nili  tra  il  fiume  del  Ronco  ed gine,  per  non  lo  avere  tirato  U che  bastasse,  e per  avere  i Frai poco  il  vantaggio  del  terreno, constretti  dalle  artiglierie  usci fortezze  loro,  e venire  alla  zi dato,  come  il  più  delle  volte  de sere,  che  il  luogo  che  tu  avess con  il  campo  fusse  più  eminenti altri  all’incontro,  e che  gli  ar; sino  buoni  e sicuri,  tale  che,  r il  sito  e 1’  altre  tue  preparazio miro  non  ardisse  di  assaltarti; in  questo  caso  a quelli  modi  c cainente  si  veniva,  quando  uno il  suo  esercito  in  lato  da  non  pi sere  offeso:  i quali  sono,  co paese,  pigliare  o campeggiare  le  terre tue  amiche,  impedirti  le  vettovaglie; tanto  che  tu  sarai  forzato  da  qualche necessità  a disalloggiare,  e venire  a giornata ; dove  le  artiglierie,  come  di  sotto si  dirà,  non  operano  molto.  Considerato, adunque,  di  quali  ragioni  guerre  feciono i Romani,  e reggendo  come  ei  feciono quasi  tutte  le  lor  guerre  per  offendere altrui,  e non  per  difender  loro;  si  vedrà, quando  sieno  vere  le  cose  dette  di sopra,  come  quelli  arebbono  avuto  più vantaggio,  e piu  presto  arebbono  fatto i loro  acquisti,  se  le  fussino  state  in quelli  tempi.  Quanto  alla  seconda  cosa, che  gli  uomini  non  possono  mostrare la  virtù  loro,  come  ei  potevano  anticamente, mediante  la  artiglieria  ; dico eh’  egli  è vero,  che  dove  gli  uomini spicciolati  si  hanno  a mostrare,  eh’  e’ portano  più  pericoli  che  allora,  quandoavessino  a scalare  una  terra,  o fare  simili assalti,  dove  gli  uomini  non  ristretti insieme,  ma  di  per    1’  uno  dall’  altro avessiuo  a comparire.  E vero die  gli  capitoni  e capi  degli stanno  sottoposti  più  al  perii! morte  che  allora,  potendo  esser con  le  artiglierie  in  ogni  lu giova  loro  lo  essere  nelle  ultii «Ire,  e muniti  di  uomini  fortissi dimeno  si  vede  che  l’uno  c P questi  duoi  pericoli  fanno  ra danni  istraordinari: perchè munite  bene  non  si  scalano,  i con  assalti  deboli  ad  assaltarh volerle  espugnare,  si  riduce  la una  ossidionc,  come  anticamen ceva.  Ed  in  quelle  clic  pure  pe si  espugnano,  non  sono  molto i pericoli  che  allora:  perchè  n cavano  anche  in  quel  tempo  a fendeva  le  terre,  cose  da  trarre se  non  erano  si  furiose,  facevam all’ ammazzare  gli  uomini,  *il  s fello.  Quanto  alla  morte  de’ci de’  condottieri,  ce  ne  sono,  in  v tro  anni  che  sono  state  le  guerre simi  tempi  in  Italia,  meno  esempi,  che non  era  in  dieci  anni  di  tempo  appresso agii  antichi.  Perchè,  dal  conte  Lodovico della  Mirandola,  che  morì  a Ferrara quando i Veniziani  pochi  anni  sono  assaltarono quello  Stato,  ed  il  Duca  di Nemors,  che  muore  alla  Ciriguuola,  in fuori;  non  è occorso  che  d’artiglierie ne  sia  morto  alcuno;  percdiè  monsignor di  Pois  a Ravenna  mori  di  ferro,  e non di  fuoco.  Tanto  che,  se  gli  uomini  non dimostrano  particolarmente  la  loro  virtù, nasce  non  dalle  artiglierie,  ma  dai  cattivi ordini,  e dalla  debolezza  degli  eserciti; i quali,  mancando  di  virtù  nel tutto,  non  la  possono  dimostrare  nella parte.  Quanto  alla  terza  cosa  detta  da costoro,  che  non  si  possa  venire  alle mani,  fc  che  la  guerra  si  condurrà  tutta in  su  P artiglierie,  dico  questa  oppinione essere  al  tutto  falsa;  e così  ila  sempre tenuta  da  coloro  che  secondo  P antica virtù  vorranno  adoperare  gli  eserciti loro.  Perchè,  chi  vuole  fare  uno  esercito buono,  gli  conviene,  con  eserpiù  apertamente  questo  errore, mare  più  i cavalli  che  le  fantei uno  altro  essempio  romano.  E Romani  a campo  a Sora,  ed  i usciti  fuori  della  terra  una  tu cavalli  per  assaltare  il  campo, fece  all’  incontro  il  Maestro  de romano  con  la  sua  cavalleria,  e di  petto,  la  sorte  dette  che  nel scontro  i capi  dell’  uno  e dell’ alticito  morirono;  e restali  gli  alti*governo,  e durando  nondimeno  I i Romani  per  superare  più  fac lo  inimico,  scesono  a piede,  e cc sono  i cavalieri  nimici,  se  si  voi fendere,  a fare  il  simile:  e co questo,  i Romani  ne  riportarom toria.  Non  può  esser  questo  eì maggiore  in  dimostrare  quanto virtù  nelle  fantericche  ne’ cavag che  se  nelle  altre  fazioni  i Con cevano  discendere  i cavalieri  i era  per  soccorrere  alle  fanterie  i tivano,  e che  avevano  bisogno  ili  aiuto; ma  in  questo  luogo  e’  discesono,  non  per soccorrere  alle  fanterie    per  eombattere  con  uomini  a piè  de’  nimici,  ma combattendo  a cavallo  co’ cavalli,  giudicareno,  non  potendo  superargli  a cavallo, potere  scendendo  più  facilmente vincergli.  Io  voglio  adunque  conchiudere,  che  una  fanteria  ordinata  non  possa senza  grandissima  diffìcultà  esser  superata,  se  non  da  una  altra  fanteria. Crasso  e Marc’  Antonio  romani  corsone per  il  dominio  de’  Parti  molte  giornate con  pochissimi  cavalli  ed  assai  fanteria, ed  all’  incontro  avevano  innumerabili cavalli  de’  Parti.  Crasso  vi  rimase  con parte  dello  esercito  morto.  Marc’  Antonio virtuosamente  si  salvò.  Nondimanco, in  queste  afflizioni  romane  si  vede  quanto le  fanterie  prevalevano  ai  cavalli  : perchè essendo  in  un  paese  largo,  dove  i monti  son  radi,  ed  i fiumi  radissimi,  le marine  longinque,  e discosto  da  ogni  comodità; nondimanco  Marc’ Antonio,  al giudicio  de’  Parti  medesimi, mente  si  salvò;    mai  ebbe tutta  la  cavalleria  pnrtica  te ordini  dello  esercito  suo.  Se rimase,  chi  leggerà  bene  le  s vedrà  come  e’  vi  fu  piuttosto che  forzato:    mai,  in  tutti sordini,  i Parti  ardirono  di  uri sempre  andando  costeggiando pedendogli  le  vettovaglie,  prò gli  e non  gli  osservando,  lo  et od  una  estrema  miseria.  Io avere  a durare  più  fatica  in  p quanto  la  virtù  delle  fanterie lente  ebe  quella  de’ cavalli, fussino  assai  moderni  essenv rendono  testimonianza  pieniss è veduto  novemila  Svizzeri  i da  noi  di  sopra  allegata,  and frontale  diecimila  cavalli  ed fanti,  e vincergli:  perchè  i cf li  potevano  offendere:  i fanti,  ] gente  in  buona  parte  guascoi ordinata,  stimavano  poco.  Yi ventiseimila  Svizzeri  andare  a trovare sopra  Milano  Francesco  re  di  Francia, che  aveva  seco  ventimila  cavalli,  quarantamila  fanti  e cento  carra  d’artiglieria ; e se  non  vinsono  la  giornata come  a Novara,  combatterono  due  giorni virtuosamente;  e dipoi,  rotti  che  furono, la  metà  di  loro  si  salvarono.  Presunse Marco  Regolo  Attilio,  non  solo  con  la  fanteria sua  sostenere  i cavalli,  ma  gli  elefanti; e se  il  disegno  non  gli  riuscì, non  fu  però  che  la  virtù  della  sua  fanteria non  fusse  tanta,  che  ei  non  confidasse tanto  in  lei  che  credesse  superare quella  difficoltà.  Replico,  pertanto, che  a voler  superare  i fanti  ordinati,  è necessario  opporre  loro  fanti  meglio  ordinati di  quelli:  altrimenti,  si  va  ad  una perdita  manifesta.  Ne’ tempi  di  Filippo Visconti,  duca  di  Milano,  scesouo  ili Lombardia  circa  sedicimila  Svizzeri: donde  il  Duca  avendo  per  capitano  allora il  Carmignuola,  lo  manda  con  circa mille  cavalli  e pochi  fanti  allo  incontro loro.  Costui  non  sappiendo  1*  01 combatter  loro,  ne  anda  ad  inc nari  o di  amici  ei  non  può  tenere  lun-gamente tale  esercito,  è matto  al  tuttose  non  tenta  la  fortuna  innanzi  che  taleesercito  si  abbia  a risolvere:  perchèaspettando,  ei  perde  al  certo;  tentando, potrebbe  vincere.  Un’altra  cosa  ci  èancora  da  stimare  assai: la  quale  è,che  si  debbe,  eziandio  perdendo,  volereacquistar  gloria;  e più  gloria  si  ha  adesser  vinto  per  forza,  che  per  altro  in-conveniente che  t’abbia  fatto  perdere.Sì  che  Annibaie  doveva  essere  constretto«la  queste  necessità.  E dì Scipione,  quando  Anuibaferita  la  giornata,  e nonstalo  l’animo  andarlo  a tghi  forti,  non  pativa,  pevinto  Siface,  e acquistateAffrica,  che  vi  poteva  stacomodità  come  in  Italia,terveniva  ad  Annibaie,  qV incontro  di  Fabio  ; nèciosi,  che  erano  all’  inctzio.  Tanto  meno  ancoragiornata  colui  che  con  l’il  paese  altrui; perchè,trare  nel  paese  del  niiviene  quando  il  nimico  scontro,  azzuffarsi  seco;  er  la  più  corta,  e per  vin-cere ogni  di  (Tic  ulta    dar  tempo  al  mar-chese a diliberarsi,  ad  un  tratto  mossele  sue  genti  per  quella  via,  cd  al  marchese significa  gli  mandasse  le  chiavi  diquel  passo.  Talché  il  marchese,  occupato da  questa  subita  diliberazione,  glimandò  le  chiavi:  le quali  mai gli  arebbemandate  se  Pois  più  lepidamente  si  fusscgovernato,  essendo  quel  marchese  in  legaeoi  papa  e coi  Viniziani,  ed  avendo  uusuo  figliuolo  nelle  mani  del  papa;  lequali  cose  gli  davano  molte  oneste  scusea negarle.  Ma  assaltato  dal  subito  partito, per  le  cagioni  che  di  sopra  si  dicono, le  concesse.  Cosi  feciono  i Toscanieoi  Sanniti,  avendo  per  la  presenza  dell’esercito  di  Sannio  preso  quelle  armeche  gli  avevano  negato  per  altri  tempipigliare. Qual  sia  miglior  partitonelle  giornale, o sostenere  lf  impetode*  nimicij  c sostenuto  urtargli; ovvero dapprima con furia assaltargli. Erano  Decio  e Fabio,  consoli  romani,con  due  eserciti  all’  incontro  degli  eser-citi dei  Sanniti  e dei  Toscani;  e venendoalla  zuffa  ed  alla  giornata  insieme,  è danotare  in  tal  fazione,  quale  di  due  di-versi modi  di  procedere  tenuti  dai  dueConsoli  sia  migliore.  Perchè  Decio  conogni  impeto  e cor  ogni  suo  sforzo  assalta il  nimico;  Fabio  solamente  lo  sostenne, giudicando  V assalto  lento  es-sere più  utile,  riserbando  l' impeto  suonell’  ultimo,  quando  il  nimico  avesseperduto  il  primo  ardore  del  combat-tere, e come  noi  diciamo,  la  sua  foga. Dove  si  vede,  per  il  successo  della  eosa, che  a Fabio  riuscì  molto  meglio  il  disegno che  a Decio  : il  quale  si  straccònei  primi  impeti  ; in  modo  che,  veden-do  la  banda  sua  piuttosto  in  volta  diealtrimenti,  per  acquistare  con  la  mortequella  gloria  alla  quale  con  la  vittorianon  aveva  potuto  aggiungere,  ad  imita-zione del  padre  sacrificò    stesso  perle  romane  legioni.  La  qual  cosa  intesada  Fabio,  per  non  acquistare  manco  ono-re vivendo,  che  s’avesse  il  suo  collegaacquistato  morendo,  spinse  innanzi  tuttequelle  forze  che  s’  aveva  a tale  necessitàriservate  ; donde  ne  riportò  una  felicissima vittoria.  Di  qui  si  vede  che  ’l  mododel  procedere  di  Fubio  è più sicuro e più  imitabile. Donde  nasce  che  una  fa-mìglia iìi  una  città  tiene  un  tempo  imedesimi  costumi. E’  pare  clic  non  solamente  1’  una  cittàdall*  altra  abbi  certi  modi  ed  institutidiversi,  e procrei  uomini  o più  duri  opiù  effeminati;  ma  nella  medesima  cittàsi  vede  tal  differenza  esser  nelle  fumiglie  I’  una  dall’  altra.  H che  si  riscontraessere  vero  in  ogni  città,  e nella  cittàili  Roma  se  ne  leggono  assai  essempi  :perché  e’  si  vede  i Manlii  essere  statiduri  ed  ostinati,  i Pubi icoli  uomini  benigni ed  amatori  del  popolo,  gli  Appiiambiziosi  e ni  mici  della  Plebe:  e cosimolte  altre  famiglie  avere  avute  ciascunale  qualità  sue  spartite  dall’  altre.  La  qualcosa  non  può  nascere  solamente  dal  sangue, perchè  e’ conviene  eh’ ei  varii  mediante la  diversità  dei  matrimoni;  maè necessario venga  dalla  diversa  educa-zione che  ha  una  famiglia  dall’  altra.Perchè  gl’  importa  assai  che  un  giovanetto dai  teneri  anni  cominci  a sentirdire  bene  o male  di  una  cosa;  perchèconviene  che  di  necessità  ne  faccia  im-pressione, e da  quella  poi  regoli  il  mododel  procedere  in  tutti  i tempi  della  vitasua.  E se  questo  non  fosse,  sarebbe  im-possibile che  tutti  gli  Appii  avessinoavuta  la  medesima  voglia,  c Rissino  statiagitati  dalle  medesime  passioni,  comenota  Tilo  L.  in  molti  di  loro:  e perultimo,  essendo  uno  di  loro  fatto  Censore, ed  avendo  il  suo  collega  alla  finede*  diciotto  mesi,  come  ne  disponeva  lalegge,  deposto  il  magistrato,  Àppio  nonlo  volle  deporre,  dicendo  che  lo  potevatenere  cinque  anni  secondo  la  primalegge  ordinata  dai Censori. E benchésopra  questo  se  ne  facessero  assai  con-cioni, e se  ne  generassino  assai  tumulti,non  pertanto  ci'  fu  mai  rimedio  che  volesse deporlo,  conira  alla  volontà  delPopolo  e della  maggior  parte  del  Senato. E chi  leggerà  P orazione  che  gli  fececontro  Publio  Sempronio  tribuno  dellaplebe,  vi  noterà  tutte  l’ insolenze  oppiane,e tulle  le  bontà  ed  umanità  usale  da  in-finiti cittadini  per  ubbidire  alle  leggi  edagli  auspicii  della  loro  patria. Che  un  buon  cittadinoper amore della patria debbo dimenticare l’ingiurie’ private.Era  Manlio  consolo  con  l’esercito  con-ira ai  Sanniti*  ed  essendo  stato  in  unazuffa  ferito,  e per  questo  portando  legenti  sue  pericolo,  giudicò  il  Senato  es-ser necessario  mandarvi  Papirio  Cursore dittatore,  per  sopplire  ai  difetti  del Consolo.  Ed  essendo  necessario  che  ’lDittatore  fusse  nominato  da  Fabio,  ilquale  era  con  gli  eserciti  in  Toscana;  edubitando,  per  essergli nimico,  che  nonvolesse  nominarlo; gli  mandarono  i Senatori due  ambasciadori  a pregarlo,  che,posti  da  parte  gli  privati  odii,  dovesseper  benefìzio  pubblico  nominarlo.  Il  cheFabio  fece,  mosso  dalla  carità  della  pa-tria; ancora  che  col  tacere  e con  mol-ti altri  modi  facesse  segno  che  talenominazione  gli  premesse.  Dal  qualedebbono  pigliare  essempio  tutti  quelli,che  cercano  d*  essere  tenuti  buoni  cit-tadini.  Quando  si  vede  fareuno  errore  grande  ad  un  nimico,si  debbe  credere  che  vi  sia  sono  in-ganno.Essendo  rintaso  Fulvio  Legato  nelloesercito  che  i Romani  avevano  in  Toscana, per  esser  ito  il  Consolo  per  al-cune cerimonie  a Roma;  i Toscani,  pervedere  se  potevano  avere  quello  allatratta,  posono  un  aguato  propinquo  aicampi  romani,  e mandarono  alcuni  sol-dati con  veste  di  pastori  con  assai  ar-mento, e gli  feciono  venire  alla  vista dello  esercito  romano:  i quali  così  tra-vestiti si  accostarono  allo  steccato  delcampo;  onde  il  Legato  meravigliandosidi  questa  loro  presunzione,  non  gli  pa-tendo ragionevole,  tenne  modo  ch’egliscoperse  la  fraude;  e cosi restò il di*>igno de Toscani rotto. Qui si può comoramente  notare,  che  un  capitano  dieserciti  non  debbe  prestar  fede  ad  unoerrore  che  evidentemente  si  vegga  fareal  nimico:  perchè  sempre  vi  sarà  sottofronde,  non  sendo  ragionevole  che  gliuomini  siano  tanto  incauti.  Ma  spesso  ildisiderio  del  vincere  acceca  gli  animi degli  uomini,  che  non  veggono  altro  chequello  pare  facci  per  loro.  I Franciosi avendo  vinti  i Romani  ad  Allia,  e venendo a Roma,  e trovando  le  porte  aperte e senza  guardia,  stettero  tutto  quel  giorno e la  notte  senza  entrarvi,  temendo  di fraude,  e non  potendo  credere  clic  fusse tanta  viltà  c tanto  poco  consiglio  ne’ petti  romani,  che  gli  nbbandonassino  la patria.  Quando  nel  4508  s’andò  per  gli Fiorentini  a Risa  a campo,  Alfonso  del Mutolo,  cittadino  pisano,  si  trovava  prigione dei  Fiorentini,  e promise  che  s’egli era  libero,  darebbe  una  porta  di  Pisa all’esercito  fiorentino.  Fu  costui  libero. Di poi,  per  praticare  la  cosa,  venne  molte volte  a parlare  coi  mandati  dc’commissari;  e veniva  non  di  nascosto,  ma  scoperto, ed  accompagnato  da’ Pisani;  i quali  lasciava  da  parte,  quando  parlava eoi  Fiorentini. Talmentechè  si  poteva conietturare  il  suo  animo  doppio  ; perchè non  era  ragionevole,  se  la  pratica fussc  stata  fedele,  eh’  egli  1’  avesse  trattata sì  alla  scoperta.  .Ma  il  disiderio  che s*  aveva  d’  aver  Pisa,  accecò  in  modo  i Fiorentini,  che  condottisi  con  l’ ordine suo  alla  porta  a Lucca,  vi lasciarono più  loro capi  ed altre  genti  con  disonore loro,  per  il  tradimento  doppio  che fece  detto  Alfonso. Una  repubblica,  a volerla mantenere  libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti  ; e per guali  meriti  Quinto  Fabio  fu  chiamato Massimo.  E di  necessità,  come  altre  volte  s’  è letto,  che  ciascuno    in  una  città  grande 'taschino'  accidenti  che  abbino  bisogno elei  medico  ; e secondo  che  gli  importano più,  conviene  trovare  il  medico  più  savio. E se  in  alcune  città  nacquero  mai  simili accidenti,  nacquero  in  t\oma  e strani ed  insperati;  come  fu  quello  quando  e’parve  cha  tutte  le  donne  romane  avessino congiurato  contra  ai  loro  maritid’  ammazzargli  :  tante  se  ne  trovò  clicgli  avevano  avvelenati,  e tante eh’ ave-vano preparato il veleno per avvelenargli. Come  fu  ancora  quella  congiura  de’baccanali,  clic  si  scopri  nel  tempo  dellaguerra  macedonica,  dove  erano  già  in-viluppati molti  migliaia  d’  uomini  e didonne;  e se  la  non  si  scopriva,  sarebbestata  pericolosa  per  quella  città  ; o seppure i Romani  non  fussino  stati  con-sueti a gasligare  le  muititudiui  degli  uo-mini erranti:  perchè,  quando  e’  non  sivedesse  per  altri  infiniti  segni  la  gran-dezza di  quella  Repubblica,  e la potenza delle esecuzioni sue,  si vede per la qualità della pena che la impone  a chi erra.    dubita far morire per via di giustizia  una  legione  intera  per  volta, ed  una  città  tutta;  e di  confinare ottoo diecimila  uomini  con  condizioni  straordinarie, da  non  essere  osservate  da  unsolo,  non  che  da  tanti:  come  intervennea quelli  soldati  che infelicement combatteno  a Canne,  i quali  confina in  Sicilia,  e impose  loro che  non alkergassino  in  terre,  e che  mangiassino ritti.  Ma di tutte 1’altre esecuzioni era  terribile il decimare gl’eserciti, dove a scorte da tutto uno esercito è morto d’ogni dieci uno. Nè si poteva,  a gasligare una multitudine,  trovare più  spaventevole punizione di questa. Perchè quando una moltitudine erra,  dove  non sia 1’autore certo,  tutti non si possono gastigare, per esser troppi; punirne parte e parte lasciare impuniti,  si farebbe torto  a quelli che si punissino,  e gl’impuniti arebbono animo di errare un’altra volta. Ma ammazzare la decima parte a sorte, quando tutti la meritano, o, 1'è punito si duole della sorte;  ehi non  è punito, ha paura che un’altra volta non tocchi alui, e guardasi di errare. Sono punite, adunque, le venefiche e le baccanali secondo che meritano i peccali loro. K. benché questi morbi in una repubblica faccino cattivi effetti, non sono a morte, perchè sempre quasi s’ha tempo a correggerli: ma non s’ha già tempo in quelli che riguardano lo stato, i quali se non sono da un  pru-dente corretti,  rovinano  la  città.  Eranoin  Roma,  per  la  liberalità  che  i Romani usavano  di  donare  la  civilità  a’ forestieri, nate  tante  genti  nuove,  che  le  comincia avere  tanta  parte  ne’ suffragi, che’l  governo  comincia  a variare,  epartivasi  da  quelle  cose  e da  quelli  uomini dove  era  consueto  andare.  Di  che accorgendosi  Quinto  Fabio  che  è  Censore, messe  tutte  queste  genti  nuoveda  chi  dipendeva questo  disordine  sot-to quattro Tribù,  acciocché  non  potessino,  ridotte  in  si  piccioli  spazi,corrompere  tutta  Roma. È questa cosa ben conosciuta da Fabio,  e postovi  senza  alterazione  conveniente  rimedio;  il quale  è  tanto  accetto  a quella  civilità,  che  merita  d’esser  chiamato  Masssirno Machiavelli  a Zanobi  Buondel-monti  e Cosimo  Rucellai  salute. Quali siano stati universalmente  i principii di qualunque città,  e quale è  quello  di  Roma Di  quanto  spezie  sono  le  repubbliche,e di  quale  fu  la  Repubblica  Romana. Quali  accidenti  facessino  creare  inRoma  i Tribuni  della  plebe;  il  che fece la Repubblica più perfetta che la disunione della Plebe e del Senato  romano fece  libera  e potente quella  Repubblica. Dove  più  securamente  si  ponga  laguardia  della  libertà,  o nel  Popolo  one’ Grandi;  e quali hanno maggiore cagione di tumultuare,  o chi  vuole acquistare  o chi  vuole  mantenere. Se  in  Roma  si  poteva  ordinare  uno sstato  che  togliesse  via  le  inimicizie intra  il  popolo  ed  il senato Quanto  siano  necessarie  in  una  Repubblica le  accuse  per  mantenere  lalibertà Quanto  lo  accuse  sono  utili  allerepubbliche,  tanto  sono  perniziose  le calunnie. Come  egli  è necessario  esser  soloavolere  ordinare  una  repubblica  dinuovo,  oal  tutto  fuori  delli  antichi suoi  ordini  riformarla Quanto  sono  laudabili  i fondatori d’una  repubblica  o d’uno  regno,  tanto quelli  d’ una  tirannide  sono  vituperabili Della  religione  de’  Romani. Di  quanta  importanza  sia  teneroconto  della  religione,  e come  la  Italia per  esserne  mancata  mediante  la  Chiesa romana,  è rovinata Come i Romani  si  servirono  dellareligione  per  ordinare  la  città,  e per seguire  le  loro  imprese  e fermare  i tumulti. I Romani  interpretavano  gli  auspicii  secondo  la  necessità,  o con  la prudenza  mostravano  di  osservare  la religione,  quando  forzati  non  1’osser-vavano; e se  alcuno  temerariamentela  dispregiava,  lo  punivano 100dio  alle  cose  loro  afflitte,  ricorsonoalla  religione Un  popolo  USO  a vivere  sotto  unprincipe,  se  per  qualche  accidente  diventa libero,  con  difficultà  mantienela  libertà. Uno  popolo  corrotto,  venuto  in  libertà, si  può  con  dit'ticnltà  grandissima mantenere  libero   In  che  modo  nelle  città  corrotte si  potesse  mantenere  uno  Stato  libero, essendovi;  o non  essendovi,  ordinarvelo Dopo  uno  eccellente  principe  si  puòmantenere  un  principe  debole;  madopo  un  debole,  non  si  può  con  un altro debole mantenere alcun regno. Due continove successioni  di  principi virtuosi  fanno  grandi  effettivecome  le  repubbliche  bene  ordinatehanno  di  necessità  virtuose  successioni: e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi Quanto biasimo meriti quel principe e quella repubblica che manca d’armi proprie Quello che sia da notare nel caso dei tre Orazi romani,  e dei tre Curiazi albani che non si debbe mettere a pericolo tutta  la  fortuna  e non  tutte le  forze;  e per  questo,  spesso  il  guardare i passi  è dannoso  Le  repubbliche  bene  ordinatecostituiscono  premii  e pene  a’ loro cittadini,    compensano  mai  l’uno con  l’altro Chi  mole  riformare  nno  Stato antico  in  una  città  libera,  ritenga  almeno l’ombra  desmodi  antichi  Un  principe  nnoro,  in  nna  cittào provincia  presa  da  Ini,  debbo  faro ogni  cosa  nnova Sanno  rarissime  volte  gli  nomini essere  al  tutto  tristi  o al  tatto buoni.  IniPer  qual  cagione  i Romani  furono meno  ingrati  agli  loro  cittadini che  gl’ateniesi Quale  sia  più  ingrato,  o un  popolo, o un  principe Quali  modi  debbe  usare  un  prìncipe o nna  repubblica  per  fuggirò  questo vizio  della  ingratitudine;  e qnali quel  capitano  o quel  cittadino  per non essere  oppresso  da  quella Che i capitani romani per errore commesso non  furono  mai  istraordinariamente  puniti;    furono  inai  ancora puniti  quando,  per  la  ignoranza loro  o tristi partiti presi  da  loro  ne fussino  seguiti  danni  alla  repubblica,  lfil Una repubblica o nno  principe non  dobbe differire a beneficare  gli uomini  nelle  sue  necessitati.  Quando  uno  inconveniente  è cresciuto  o in  uno  Stato  o contra  ad uno  Stato,  è più  salutifero  partito  temporeggiarlo che  urtarlo. L'autorità  dittatoria  fece  tene, e non  danno,  alla  repubblica  romana: o come  lo  autorità  che  i cittadini  si  toPgono,  non  quelle  che  sono  loro  dai suffragi  liberi  date,  sono  alla  vita  civile  perniciose La  cagione  perchè  in  Roma  la creazione  del  decemvirato  fu  nociva alla  libertà  di  quella  repubblica,  non ostante  che  fosse  creato  per  suffragi pubblichi  e liberi Non  debbono  i cittadini  che hanno  avuti  i maggiori  onori,  sdegnarside'  minoriQuali  scandali  partorì  in  Roma la  legge  agraria:  e come  fare  una legge  in  una  repubblica  che  risguardi assai  indietro,  e sia  contra  ad  unaconsuetudine  antica  della  città,  èscandolosissimo Le  repubbliche  deboli  sonomale  risolute,  e non  si  sanno  delibe-rare; e se  le  pigliano  mai  alcuno  par-tito, nasce  più  da  necessità  che  daelezione  In  diversi  popoli  si  veggonospesso  i medesimi  accidenti. La  creazione  del  decemvirato  in Roma,  e quello  che  in  essa  è da  notare:  dove  si  considera,  intra  moltealtre  cose,  come  si  può  salvare  persimile  accidente,  o oppressare  una  repubblica  Saltare  dalla  urailità  alla  superbia, dalla  pietà  alla  crudeltà,  senza  debiti mezzi,  è cosa  imprudente  ed  inutile. Quanto  gli  uomini  facilmente  si possono  corrompere. Quelli che combattono per la gloria propria,  sono  buoni  e fedeli  soldati  Una  moltitudine  senza  capo  èinutile:  e non  si  debbe  minacciare prima,  e poi  chiedere  P autorità  È cosa  di  malo  esempio  non  osservare una  legge  fatta,  e massimedallo  autore  d'essa:  e rinfrescare  ogni dì  nuove  ingiurie  in  una  città,  è a chi  la  governa  dannosissimo Gli  uomini  salgono  da  un'  ambizione ad  un'altra;  e prima  si  cercanon  essere  offeso,  dipoi  di  offendere altrui Gli  uomini,  ancora  che  si  ingannino ne’ generali,  nei  particolari  non si  ingannano  Chi  vuolo  che  uno  magistrato non  sia  dato  ad  un  vile  o ad  un  tristo, lo  facci  domandare  o ad  un troppo  vile  e troppo  tristo,  o ad  uno troppo  nobile  e troppo  buono Se  quelle  città  che  hanno  avuto il  principio  libero,  come  Roma,  hanno difficoltà  a trovare  leggi  che  le  mantenghino;  quelle  che  lo  hanno  immediate servo,  ne  hanno  quasi  una impossibilita. Non  debbo  uno  consiglio  o uno  magistrato potere  fermare  le  azioni  della città.  Una  repubblica  o uno  principe  debbo mostrare  di  fare  per  liberalità  quello a che  la  necessità  lo  constringe  A reprimere  la  insolenza  di  uno che  sorga  in  una  repubblica  potente, non  vi  è piu  securo  e meno  scandoloso  modo,  che  preoccuparli  quelle  vie per  lo  quali  o’vieno  a quella  potenza.  Il  popolo  molte  volto  desidera  la rovina  sua,  ingannato da  una  falsa spezie  di  bene: e come  le  grandi  speranze e gagliardo  promesse  facilmente lo  muovono. Quanta  autorità  abbia  uno  uomo grande  a frenare  una  moltitudine Quanto  facilmente  si  conduchino  le cose  in  quella  città  dove  la  moltitu-dine non  è corrotta:  e che  dove  è eqnalità,  non  si  può  faro  principato;e dove  la  non  è,  non  si  può  far  repubblica. Innanzi  che  seguino  i grandi  accidenti in  una  città  o in  una  provincia,  vengono  segui  che  gli  pronosti-cano, o Domini  che  gli  predicono. La  plebe  insieme  è gagliarda;  diper  se  è debole La  moltitudine  è più  savia  e piùcostante  che  un  principe altri  si  può  più  fidare; o di  quellafatta  con  una  repubblica,  o di  quellafatta  con  nno  principe Come il consolato o qualunque  altro magistrato  in  Roma  si  dava  senzarispetto  di  età Quale  fu  più  cagione  dello  imperioche  acquistorono  i Romani,  o la  virtù,o la  fortuna Con  quali  popoli  i Romani ebbero acombattere,  e come  ostinatamente quelli  difendevano  la  loro  libertà. Roma  divenne  grande  città  rovinando le  città  circonvicine,  e ricevendo i forestieri  facilmente  a'  suoionori Le  repubbliche  hanno  tenuti  tre  modicirca  lo  ampliare lingue,  insieme  con  l’accidente  de1  diluvio delle  pesti,  spegno  la  memoria dello  cose. Come  i Romani  procedevano  nel  farela  guerra Quanto  terreno  i Romani  davanoper  colono La  cagione  perchè  i popoli  si  partono da’ luoghi  patrii,  ed  inondano  ilpaose  altrui Quali  cagioni  comunemente  faccino.  I danari non sono  il  nervo  dellaguerra,  secondo  elio  è la  comune  op-pinone Non  è partito  prudento  fare  amicizia con  un  principe  che  abbia  piùoppinione  che  forze assaltato,  inferire,  o aspettare  laguerra Che  si  viene  (li  bassa  a gran  fortuna più  con  la  fraude,  che  con  laforza t Ingannansi  molte  volto  gli  uomini,credendo  con  la  nmilità  vincere  la  superbia  Gli  stati  deboli  sempre  fieno  ambi-gui nel  risolversi:  e sempre  le  deli-berazioni lente  sono  nocive Quanto  i soldati  ne’  nostri  tempi si  disformino  dalli  antichi  ordini. Quanto  si  debbino  stimare  daglieserciti  ne’  presenti  tempi  le  artiglie-rie; e se  quella  oppinione  che  se  neha  in  universale,  è vera Come  per  I’  autorità  de*  Romani,e per  lo  essempio  della  antica  milizia, si  debbe  stimare  più  le  fanterieche  i cavagli . Che  gli  acquisti  nelle  repubbli-che non  bene  ordinate  e che  secondola  romana  virtù  non  procedono,  sonoa rovina,  non  a esaltazione  di  esse. Quale  pericolo  porti  quel  principeo quella  repubblica  che  si  vale  dellamilizia  ausiliare  a mercenaria Il primo  Pretore  che  i Romani mandarono  in  alcun  luogo,  fu  a Capo-va,  dopo  quattrocento  anni  che  cominciarono a far  guerra Quanto  siano  false  molte  volte  leoppinioni  degli  uomini  nel  giudicarele  cose  grandi Quanto  i Romani  nel  giudicarei sudditi  per  alcuno  accidente  che  necessitasse tal  giudizio,  fuggivano  lavia  del  mezzo Le  fortezze  generalmente  sonomolto  più  dannose  che  utili Che  Io  assaltare una città disunita,  per occuparla  mediante la  sua disunione,  è partito  contrario. Il vilipendio e l’improperio genera odio  contra  a coloro  che  l’usano, senza  alcuna  loro  utilità Ai  principi  e repubbliche  prudenti debbe  bastare  vincere; perchè  ilpiù  delle  volte,  quando  non  basti,  siperde  Quanto  sia  pericoloso  ad  una repubblica  o ad  uno  principe  non  vendicare una  ingiuria  fatta  contra  alpubblico  o contra  al  privato La  fortuna  accieca  gl’animi  degl’uomini,  quando  la  non  vuole  chequelli  si  opponghino  a’  disegni  suoi Le repubbliche e gli  principi  veramente potenti  non  comperano  l'amicizie con  danari,  ma  con  la  virtù  econ  la  riputazione  delle  forzo. Quanto  sia  pericoloso  credere  agli sbanditi In  quanti  modi  i Romani  occupano le  terre Come  i Romani  davano  agliloro  capitani  degli  eserciti  le  commissioni libere A volere  che  una  setta  o una  repubblica viva  lungamente,  è necessarioritirarla  spesso  verso  il  suo  principio.  Come  gli  è cosa  sapientissima  simulare in  tempo  la  pazzia. Come  egli  è necessario,  a volermantenere  una  libertà  acquistata  dinuovo,  ammazzare  i figliuoli  di  Bruto  Pag-Non  vive  sicuro  un  principe  in  un principato,  mentre  vivono  coloro chene  sono  stati  spogliati Quello  che  fa  perdere  uno  regno  aduno  re  che  sia  ereditario  di  quello. Delle congiure Donde  nasce  che  le  mutazioni  dallalibertà  alla  servitù,  e dalla servitùalla libertà,  alcuna  n1  è senza sangue, alcuna  n’è piena chi vuole alterare  una  repubblica, debbo  considerare  il  soggetto  diquella Come  conviene  variare  coi  tempi, volendo  sempre  aver  buona  fortuna  . Che  uu  capitano  non  può  fuggire  lagiornata, quando  1’avversario  la  vuolfare  in  ogni  modo Che  chi  ha  a fare  con  assai,  ancora che  sia  inferiore, purché possasostenere  i primi  impeti,  vince. Come  un  capitano  prudente  debboimporre  ogni  necessità  di  combattereai  suoi  soldati,  e a quelli  delli  minicitorla gol. Più  confidare,  o innuo  buono  capitano  che abbia  l’eser-cp°  debole,  o in  uno  buono  esercito che  abbia  il  capitano  debole. Le  invenzioni  nuove  che  appariscono nel  mezzo  della  zuffa,  e le  vocinuove  che  si  odono,  quali  effetti  faccino   Come  uno  e non  molti  siano  preposti ad  uno  esercito,  o come  i piùcomandatori  offendono Che  la  vera  virtù  si  va  ne' tempidifficili  a trovare;  e ne tempi  facilinon  gli  uomini  virtuosi,  ma  quelliche  per  ricchezze  o per  parentado  prevagliono,  hanno  più  graziaChe  non  si  offenda  uno,  e poiquel  medesimo  si  mandi  in  ammini-strazione e governo  d’ importanza. Nessuna  cosa  è più  degna  d' uncapitano, che presentire i partiti  delnimico.  Se  a reggere  una  moltitudine  èpiù  necessario  lo  ossequio  che  la  pena. Uno  essempio  d'umanità  appresso ai  Falisci  potette  più  d' ogni  forza romana Donde nasce che Annibale con diverso modo di procedere da Scipione,  fa quelli  medesimi  effetti  in Italia  che  quello in  Ispagna. Come  la  durezza  di  Manlio  Torquato e l’umanità  di Valerio  Corvino acquistò  a ciascuno la medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse cacciato di Roma. La prolungazione degl’imperi  fa  serva  Roma. Della  povertà di Cincinnato,  e dimolti  cittadini  romani. Come per cagione di femmine si rovina uno Stato. Come  e'  si  ha  a nnire  una  città divisa;  e come  quella  oppinione  non è vera,  che  a tenere le  città  bisogna tenerle  disunite. Che si debbe  por  mente  alle opere  de’  cittadini,  perchè  molte  volte sotto  un’opera  pia  si nasconde  un principio di  tirannide. Che gli peccati dei popoli nascono dai  principi. Ad  uno cittadino  che  voglia  nella sua  repubblica  far  di sua  autorità  alcuna opera  buona,  è necessario  prima spegnere l’invidia:  e come,  venendo il  nimico,  s’ha a ordinare  la  difesa d’una  città  Le  repubbliche  forti  o gli  uomini eccellenti  ritengono  in  ogni  fortuna il  medesimo  animo  e la  loro  medesima dignità. Quali  modi  hanno  tenuti  alcuni a turbare  una  paco. Egli  è necessario,  a voler  vincere una  giornata,  fare l’esercito  conattente  ed  infra  loro,  e con  il  capittano. Quale  fama o voce o oppinione fa  che il  popolo  comincia  a favorire un  cittadino:  e se  ei distribuisce  I magistrati  con  maggior  prudenza  che un principe. Quali  pericoli  si portino  nel  farsi capo a consigliare  una  cosa; e quanto ella ha più dello  straordinario,  maggiori pericoli  vi  si  corrono. La cagione  perchè  i Franciosi sono  stati  e sono  ancora  giudicati nelle zuffe da  principio  più  che  uomini, e dipoi  meno che  femmine. Se  le piccolo battaglie  innanzi alla  giornata  sono  necessarie,  e come si  debbo  fare  a conoscere  un  nimico nuovo,  volendo  fuggire  quelle. Come  debbe esser fatto un capitano nel  quale  1’esercito  suo  possa confidare Che  un  capitano  debbe  esser conoscitore  dei  siti  Come usare la fraudo nel  maneggiare la  guerra  è cosa  gloriosa. Che la patria si debbe difendere o con  ignominia  o con  gloria;  ed  in qualunque  modo  è ben  difesa Che  le  promesse  fatte  per  forza non  si  debbono  osservare Clie  gli  uomini  che  nascono  in una  provincia,  osservano  per  tutti  I tempi  quasi  quella  medesima  natura  E’ si  ottiene  con  l'impeto  e con 1’audacia  molte  volte  quello  che con modi  ordinari  non  si  otterrebbe  mai. Qual sia miglior partito nelle giornate, o sostenere l'impeto de'  nimici, e sostenuto  urtargli;  ovvero  dapprima con  furia  assaltargli  Donde  nasce  che  una  famiglia  in una  città  tiene  un  tempo  i medesimi costumi Che un buon cittadino per amore della patria debbe dimenticare l’ingiurie private. Quando  si vede fare uno errore, grande ad un nimico,  si debbe credere die  vi  sia  sotto  inganno. Una  repubblica,  a volerla  mantenere libera,  ha  ciascuno  di  bisogno di  nuovi  provvedimenti;  e per  quali meriti  Quinto  Fabio  è  chiamato  Massimo. Tito Livio. Keywords: filosofia romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livio” – The Swmming-Pool Library, Villa Speranza. For H. P. G. Grice’s Gruppo di Gioco.  Tito Livio.

 

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