Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia marchese – scuola di Ancona -- filosofia italiana –
il vincolo mi fa libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Ancona, Marche. Grice: “I love
Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational self-love and
the principle of conversational benevolence is what all his philosophy is
about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an individualism,
i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or ‘inter-subjective,’
inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it ‘ordine spontaneo.’ He
doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical – but descriptive;
similarly I speak of conversational maxims as different from ‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che
siamo governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria
aristotelica, perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo
siamo. Vive a Torino, Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene associato
ad un modello liberale e anti-statalista della società. All'interno della
filosofia, si inserisce nella tradizione
del liberalismo classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure assistente
volontario, e collega di Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fa
parte di A Force, un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare
prigionieri e salvare soldati. Insegna filosofia e ricoprendo l'incarico
di preside della facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze tragiche,
ucciso. Un collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione tipografo
ma che svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato truffe e
sottrazioni di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo, Quero lo
assassina colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un
garage, inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli
anni della ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si
affermavano politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente
sostenendo il liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L.
critica la logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore
razionalità e legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del
concorso delle volontà dei singoli individui. Fondatore di Il Politico, svolge
ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per
Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi
presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi
Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e
Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche
appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che
della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali
all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo
contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della
società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere
quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore
conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della
rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel
tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche. Con i suoi saggi,
inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta
pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano
la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine
interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non
già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca
capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso. E stato quasi
dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di
lezioni ). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la
cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è
pervaso da quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa
frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo
intellettuale. Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i
protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche
se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi
e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso,
bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente
senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di
entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima
dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha
rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano
interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi
in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie
alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i
suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La
situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione
de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere
sulle pagine del torinese, dando vita ad
una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla
quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori
filosofi del liberalismo. Oggi. non è
più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore
delle sue tesi. In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi
lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il
carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del
diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del
normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale
all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è
stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al
potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro
modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è
oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa
ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al
normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L.,
per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più
di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della
tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che
restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro
potenzialità. Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato
fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri,
Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico,
i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della
filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana. Altri
saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli, Rubbettino);
“La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza politica e teoria del
diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le radici individuali del
diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La sovranità del consumatore”
(Roma, Ideazione); “La libertà del
lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”, Treviglio Mannelli, Facco
Rubbettino, “Il diritto come pretesa, A.
Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico moderno e contemporaneo, Masala,
Bassani, Macerata, Liberi libri, Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni
nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di
O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato
a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu,
che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana. E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek,
rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e
del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente
con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il
liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri,
“Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri,
Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce
il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già
ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L..
Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della
Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e
politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo.
Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità
dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno
Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice
e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione
liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale
fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo
italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Leoni: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – filosofia umbra – scuola di Spoleto – filosofia perugiana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Spoleto).
Filosofo italiano.
Spoleto, Perugia, Umbria. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but
there’s a peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) –
when he died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning),
strangled to death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales, Leoni.” Di
famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa. E qui che ha modo di entrare in contatto con
la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha
contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato uno
dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come
il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo
VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello
stesso Lorenzo de Medici. All'indomani
della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato
il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in
un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca sostengono che il mandante dell'uccisione di
L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli, Dizionario Biografico
degl’Italiani, riferimenti in. Dagli
Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. Pirri (Estratto dall'Archivio per la
Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era adpresso del dicto Lorenzo uno
excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in FILOSOFIA,
nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare
valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. E questo uomo in tanto prezzo
adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva
stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille ducatj de provisione per anno:
poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj
ad legere e similemente ad Padova. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz.
D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria.
Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda a Firenze. E questo mastro L. de tanta
scientia, che predisse la morte sua essere infra IV misi. E anda mal voluntierj
ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze trova Lorenzo stare male: sono lì
clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de
Milano: et predice mastro L. la morte de Lorenzo. Ipso non presta mai et non se
mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che L,
non s'ingerì affatto in ciò che riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo,
limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI della malattia ed a consultazioni
astrologiche. E con ciò vuole, forse, velatamente intendere che niente ha a che
vedere L. con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate
somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni
viscerali che tormentano il paziente, servirono forse ad accelerarne il
tracollo -- ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte
Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato
homo bestiale e senza prudentia, ordina che el dicto mastro L. fosse morto.
Lorenzo e in villa ad uno suo casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto
Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro L., volendo tornare luj allu
solito loco, e menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale,
et lì e strangulato dicto mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e
portato in Firenze, e retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai.
Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la
bona memoria de Lorenzo ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li
secretj soj sapiva, savio, sapientissimo e pieno de verità, bontà et
integrità." Nella sua "Storia
della Letteratura Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti
dell'epoca, fra cui Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se
medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due
famigliari di Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il
quale non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei
parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese
contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a
Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si
conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico
della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki,
Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della
Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie
fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria
della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste
sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti,
Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova, Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta
alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di Studi
sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di Ammirato
il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e opere di
un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune di
Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori. Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier
Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library. Leoni.
Grice e Leonzi: l’arte
dell’implicatura – filosofia siciliana – la scuola di Leonzio – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo
siciliano. Filosofo italiano, Leonzio, Sicilia. Disambiguazione – Se stai
cercando altri significati, vedi Gorgia (disambigua). Busto di Gorgia ad opera dello scultore
lentinese Salvatore Caracciolo. Gorgia (in greco antico: Γοργίας?, Gorghías;
Leontini, 485 a.C. oppure 483 a.C. – Larissa, 375 a.C. circa) è stato un retore
e filosofo siceliota. Discepolo di
Empedocle, è considerato uno dei maggiori sofisti, teorizzatore di un
relativismo etico assoluto, fondato sulla morale della situazione contingente,
spinto fino al nichilismo. Biografia
Figlio di Carmantida, nacque intorno al 483 a.C. a Leontini (odierna Lentini,
nella provincia di Siracusa), città greca della Sicilia.[1] Fu discepolo del
filosofo Empedocle e dei retori siracusani Corace e Tisia[2], inventori della
retorica, ma subì anche l'influenza delle scuole pitagorica ed eleatica.[3] Nel
427 prese parte ad un'ambasceria ad Atene per richiedere aiuti militari nella
guerra contro Siracusa e riscosse un grande successo per la sua eloquenza (vedi
Prima spedizione ateniese in Sicilia)[4]. Viaggiò anche in Tessaglia, in
Beozia, ad Argo (dove fu fatto divieto di frequentare le sue lezioni)[5], a
Delfi e a Olimpia, dove gli furono erette statue[6]. Vendendo i propri
insegnamenti di città in città, pare guadagnasse ingenti ricchezze facendosi
pagare fino a 100 mine ad allievo, anche se in realtà alla sua morte lasciò una
somma piuttosto modesta.[7] Morì in
Tessaglia, dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere, intorno al 375
a.C., pare ultracentenario[8]; a chi gli chiedeva il motivo di tale longevità,
egli rispondeva: «il non aver mai compiuto nulla per far piacere ad un
altro»[9]. Di sicuro visse con sobrietà dominando le passioni, lontano da
simposi e incurante di tutto ciò che potesse turbarlo. Tra i suoi numerosi
discepoli si ricordano Polo di Agrigento, Crizia, Alcibiade, Tucidide,
Alcidamante, Isocrate e Antistene. Pare inoltre che intrattenesse ottimi
rapporti di amicizia con Pericle.[10]
Tipico dell'oratoria di Gorgia era l'ampio uso di complesse figure
retoriche, desunte dal linguaggio poetico ed epico. Si prendeva gioco, inoltre,
di quanti sostenevano di poter insegnare la virtù, e vantava di saper tenere un
discorso su qualsiasi argomento, come testimoniato anche da Platone. Insieme a
Protagora, Prodico e Ippia di Elide, viene tradizionalmente ricordato come uno
dei «grandi sofisti».[11] Contenuto
delle opere principali Opere conservate sono l'Encomio di Elena (415 a.C.) e In
difesa di Palamede[12]. Solo frammenti, invece, abbiamo del Sul non essere o
sulla natura di un Epitafio per i morti della guerra del Peloponneso, di un
Encomio degli Elei, di un Discorso Olimpico e Discorso Pitico. Encomio di Elena Lo stesso argomento in dettaglio: Encomio di
Elena. L'amore di Elena e Paride, olio
su tela di Jacques-Louis David, oggi esposto al Louvre (Parigi) Nell'Encomio
Gorgia difende Elena dall'accusa di essere stata causa della guerra di Troia,
con la sua decisione di tradire il marito Menelao e seguire Paride. Elena è
innocente, perché agì o mossa da un principio a lei superiore (che si tratti
degli dèi o dell'Ananke, la Necessità), o rapita con la forza, o persuasa da
discorsi (logoi), o vinta dall'amore. In ogni caso il movente rimane esterno
alla sua responsabilità. Schematizzando, l'argomentazione gorgiana è ricondotta
a quattro argomenti: Elena si era innamorata di Paride; era stata rapita da
Paride; fu persuasa da Paride; fu rapita per volontà divina. Nel primo caso Elena è una vittima, poiché
Afrodite promise a Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto
innamorare di lui la donna più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso
Elena viene rapita, quindi è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride.
Nel terzo caso se è stata la potenza della parola a convincerla anche in questo
caso non è colpa sua poiché la parola è una grande dominatrice. E se fu per
l'ultimo caso non fu per sua volontà ma per quella degli dei i cui progetti non
possono essere impediti con la nostra precauzione o provvidenza. Sul non essere o sulla natura Nell'opera Sul
non essere Gorgia dimostra, tramite la reductio ad absurdum, tre ipotesi,
volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo argomentare svolge il seguente
percorso logico: Nulla è; Se anche
qualcosa fosse, non sarebbe conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile,
non sarebbe comunicabile agli altri. Questi tre punti fondamentali della
filosofia di Gorgia, secondo la testimonianza di Sesto Empirico, vengono
delucidati attraverso una sequenza di ragionamenti che portano ad una
conclusione ultima. «Che niente esista
Gorgia dimostra in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l'essere o il
non-essere o l'essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c'è, ma
neppure l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno o
generato o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio
e, non avendo alcun principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun
luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere
l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall'essere o dal non-essere. Ma
non è nato dall'essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal
non-essere, perché il non-essere non può generare. Se le cose pensate non si può dire siano
esistenti, sarà vero anche l'inverso, che non si può dire che l'essere sia
pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato non esiste,
l'essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è chiaro: infatti,
se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono, comunque le si
pensino; ciò è contrario all'esperienza, perché non è vero che, se uno pensa un
uomo che voli o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo si mette a
volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero che il
pensato esista. Di più, se il pensato esiste, il non-esistente non potrà esser
pensato, perché ai contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo, perché
si pensa anche Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque l'essere
non è pensato. Posto che le cose
esistenti sono visibili e udibili e in genere sensibili e di esse le visibili
sono percepibili per mezzo della vista e le udibili per l'udito, e non
viceversa, come dunque si potranno esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con
cui ci esprimiamo è la parola, e la parola non è l'oggetto, la cosa, non è
realtà esistente ciò che esprimiamo al nostro vicino, ma solo parola, che è
altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque che il visibile non può diventare
audibile, e viceversa, così l'essere, in quanto è oggetto esterno a noi, non
può diventar parola, che è in noi. E non essendo parola non potrà esser
manifestato ad altri.» (Sesto Empirico,
Contro i matematici, VII, 65 ss)
Interpretazione dell'opera Lo
stesso argomento in dettaglio: Relativismo_etico_sofistico §
Il_nichilismo_di_Gorgia. «E' decoro allo Stato una baldanzosa gioventù, al
corpo la bellezza, all'animo la sapienza, alla parola la verità.» (Gorgia, Encomio di Elena, 1) Le interpretazioni di Gorgia si possono
dividere fondamentalmente in due tipi, a seconda che si considerino le sue
opere scritte con intento serio o ironico. Nel secondo caso, il trattato Sul
non essere sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e dello stile
argomentativo tipico di Parmenide e della sua scuola e non, piuttosto, una
presa di posizione convinta che invece farebbe di Gorgia, secondo alcuni, un
precursore del nichilismo. Nel Sul non
essere Gorgia giunge alla conclusione (secondo l'interpretazione dello
Pseudo-Aristotele) che solo il «nulla è». Di conseguenza, l'essere non esiste:
poiché se è infinito nessun luogo potrebbe contenerlo, e non può essere finito
poiché gli stessi eleati lo negano come tale.[13] Ancora, se anche esistesse,
non sarebbe conoscibile: chi è all'interno dell'Essere, dello Sfero parmenideo,
non può conoscerlo. Infine, se anche fosse conoscibile, non sarebbe dicibile né
comunicabile ad altri: mancherebbero le parole per esprimerlo, e anche se fosse
esprimibile non si potrebbe comunicare se non ciò che è oggetto d'esperienza,
sicché per Gorgia appare una conoscenza espressa in termini negativi: la verità
non esiste, ogni sapere è impossibile, tutto è falso perché tutto è
illusorio. Se la verità non è
raggiungibile né con i sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi
certi si reggerà la morale dell'uomo? Gorgia risponde che non esistono valori,
princìpi immutabili di comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la
situazione in cui si trova e semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale
della situazione» per cui il comportamento di ognuno varierà a seconda del
soggetto, della sua età, della sua cultura, delle circostanze[14]. Significativo è il fatto che, quando Gorgia
fu incaricato dal governo ateniese di celebrare i caduti della guerra del
Peloponneso, egli disse che questi non furono eroi, ma che erano da onorare
perché accettarono la situazione in cui si trovarono e seppero agire come le
circostanze richiedevano – seppero cioè rispondere all'occasione (kairós)
offerta dalla situazione[15]. Di fronte al dramma della vita, l'unica consolazione
è la parola (logos), che acquista valore proprio perché non esprime la verità
ma l'apparenza (doxa). La parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa
è «un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a
compiere le imprese più divine»[16]. La parola esprime al meglio le passioni
che guidano la vita dell'uomo, è in grado di evocarle e modificarle, e così di
sottomettere chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di
creare un mondo perfetto dove vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso
(tyche), il quale domina ogni vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in
grado di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli
offre: è per questo, in ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto
ha saputo sfruttare a proprio vantaggio ciò che le assegnava il
destino[17]. In conclusione,
un'interpretazione filosofica del pensiero di Gorgia tenta di tracciare un
percorso che, partendo dal naturalismo proprio di Empedocle, conduce alla
cosiddetta crisi eristica, di stampo nichilista, sino a uno sbocco in un più
sereno scetticismo del linguaggio. Resta tuttavia dubbio se Gorgia avesse
un'effettiva sfiducia nelle possibilità conoscitive dell'uomo o non, piuttosto,
un'enorme fiducia nelle possibilità del linguaggio, in grado di dimostrare
tutto e il contrario di tutto, svincolato da ogni criterio di verità. D'altra
parte, resta anche incerto quanto Gorgia fosse cosciente dell'onnipotenza della
parola o se essa non fosse piuttosto un ovvio corollario della sua attività
retorica. Infine Gorgia, a differenza di
alcuni filosofi di epoca successiva come Platone, ha una buona opinione
dell'arte: sostiene che se esistesse l'essere, l'arte sarebbe solo una sua
imitazione imperfetta, ma siccome l'essere non esiste, l'artista è un creatore
di mondi. Quindi il bravo artista è colui che riesce ad ingannare gli
spettatori facendoli partecipi delle proprie opere, mentre lo spettatore più
"saggio" è colui che sa farsi ingannare.[18] Note ^ Tommaso Fazello, Della Storia di
Sicilia, vol. I, pp. 198-200, Palermo, Giuseppe Assenzio, 1817. ^ Quintiliano,
III 1, 8 ss. ^ DK 82 A2. ^ Diodoro Siculo, XII 53, 1-3. ^ Olimpiodoro, commento
a Platone, Gorgia, 46, 11. ^ Pausania, VI 17, 7 per Olimpia; X 18, 7 per Delfi.
^ Probabilmente il prezzo di 100 mine d'oro, testimoniatoci da Isocrate
nell'Antidosis, si riferiva non a singole lezioni ma all'intero ciclo di
insegnamento. A riprova di ciò vi è il fatto che lo stesso Isocrate testimonia
che alla morte del maestro non si trovarono le ingenti ricchezze che tutti si
aspettavano, ma solo 1000 stateri. Cfr. Antidosis, 155-156. ^ Le fonti
riportano un'età variabile tra i 107 e i 109 anni. Cfr. Apollodoro di Atene,
FGrHist 244 F33. ^ DK 82 A11. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 9, 3. ^
Filostrato, Vite dei sofisti, I 1. ^ Forse provenienti da manuali di retorica
(frr. 12-14 D.-K.) contenenti numerose orazioni da memorizzare come esempi. ^
La scuola eleatica, a differenza del suo fondatore Parmenide, concepisce
l'essere come infinito, soprattutto a seguito delle considerazioni di Melisso.
^ M. Sacchetto, La morale della situazione, in L'esperienza del pensiero. Le
polis e l'età di Pericle, p. 72. ^ DK 82 B6. ^ DK 82B11 ^ J.C. Capriglione,
Elena tra Gorgia e Isocrate ovvero se l'amore diventa politica, in L.
Montoneri-F. Romano (a cura di), Gorgia e la sofistica, numero monografico di
«Siculorum Gymnasium» n. 38 (1985), pp. 429-443. ^ Cfr. DK82 B23. Bibliografia
Gorgia, Encomio di Elena, testo greco a fronte, a cura di Giuseppe Girgenti,
Milano, Alboversorio, 2014. Gorgia, Testimonianze e frammenti, a cura di
Roberta Ioli, Roma, Carocci, 2013. Gorgia di Leontini, Gorgia "Su ciò che
non è" , edizione critica, traduzione e commento a cura di Roberta Ioli,
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filosofia di Gorgia, Milano: CELUC, 1973. Mario Untersteiner (a cura di),
Sofisti: testimonianze e frammenti, Milano: Bompiani, 2009. Voci correlate
Gorgia (dialogo), il dialogo platonico di cui è protagonista Ippia di Elide
Prodico Protagora Relativismo etico sofistico Sofistica Altri progetti
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dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, GORGIA di
Leontini, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.
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dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Gòrgia (sofista e
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Encyclopedia of Philosophy. (EN) C.C.W. Taylor, Mi-Kyoung Lee, The Sophists, in
Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for
the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. V · D · M Presocratici V · D · M Sofisti Controllo di
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greci antichiMagna Grecia[altre]Gorgia di Leonzi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Leonzio”. Leonzio.
Grice e Leopardi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del favoloso – Leopardi
fascista – filosofia maceratese – la scuola di Recanati -- filosofia marchese –
scuola di Recanati -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo
italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical
semantics is negative; admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of
meaning, so he thinks, pretty much like the first Vitters, that language is a
prison. Man has a need for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming –
without conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest
poet, one would first think!” -- Grice:
“One could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My
favourite expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is
a philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by
non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t
one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement,
‘leopardismo.’ LEOPARDI Al dibattito sulle lingue universali
partecipò anche Giacomo Leopardi nello Zibaldone de' pensieri. Sostenne che a rendere internazionale una
lingua non è la potenza della nazione che la parla o la diffusione dei suoi
domini, e nemmeno il suo prestigio letterario: se così fosse la lingua
italiana, che per molto tempo fu intesa e letta nelle corti di tutta Europa e
oltre, sarebbe assurta a lingua
utilizzata da più nazioni, ma così non è stato.Leopardi spiega che
invece ciò che fa di una lingua universale è un aspetto ad essa intrinseco,
ovvero la sua capacità di essere geometrica e regolare e di possedere una
struttura semplice e ideale. Esattezza, precisione, chiarezza i suoi punti
costitutivi fondamentali: Quello poi che
ho detto che una lingua strettamente universale, dovrebbe di sua natura essere
anzi un'ombra di lingua, che lingua propria, maggiormente anzi esattamente
conviene a quella lingua caratteristica proposta fra gli altri dal nostro Soave
I...I, la qual lingua o maniera di segni non avrebbe a rappresentar le parole,
ma le idee, bensì alcune delle inflessioni d'esse parole (come quelle de'
verbi), ma piuttosto come inflessioni o modificazioni delle idee che delle
parole, e senza rapporto a niun suono pronunziato, né significazione e
dinotazione alcune di esso. Questa non sarebbe lingua perché la lingua non è
che la significazione delle idee fatta per mezzo delle parole.linguaggio (così
nominiamola) la quale giustamente si è riconosciuta per quella maniera di segni
ch'è meno dell'altre impossibile ad essere
strettamente universale. 63 Ella
sarebbe una scrittura, anzi nemmeno questo, perché la scrittura rappresenta le
parole e la lingua, e dove non è lingue né parole quivi non può essere
scrittura. Ella sarebbe un terzo genere, siccome i gesti non sono né lingua né
scrittura ma cosa diversa dall'una e dall'altra. Quest'algebra delLa proposta
leopardiana si avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di
lingua universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni
matematici, algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento
linguistico, a cui tutte le lingue sono soggette, Leopardi aggiunge: Resta dunque provato che la lingua
strettamente universale, per cagione di quelle stesse condizioni ond'ella
sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire universale, e senza cui
l'universalità sua non potrebbe durare se non momentaneamente, per causa, dico,
di queste medesime condizioni, subitamente corrompendosi, dividerebbesi ben
tosto, per causa di tal corruzione, e quindi per causa di quelle medesime
condizioni, che naturalmente e necessariamente l'occasionerebbero, in diverse
lingue, e perderebbe conseguentemente la sua universalità, la durata della
quale sarebbe fatta impossibile da quelle medesime condizioni che a tal durata indispensabilmente richieggonsi.oIn sostanza
quindi, dopo aver individuato il miglior tipo di linguaggio universale
auspicabile, cioè quello composto matematicamente da segni e caratteri,
Leopardi rimane scettico sulla possibilità, se non d'adozione di una tal
lingua, della sua resistenza al cambiamento. Di questo tratta anche Stefano Gensini quando spiega
che per Leopardi In termini teorici
l...] un'autentica universalità è impossibile, perché quand'anche i dotti
riuscissero a convenire su un sistema artificiale di comunicazione esso, una
volta calato nell'uso, inevitabilmente comincerebbe a mutare In questo modo,
spiega Gensini - (L.] anticipa a livello
teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante sianostrettamente
universale. books.google.it/ books?id=hnS1DwAAQBAJ&printsec=frontcover&hl=it&source=gbs_ge_summary_r&cad =0#v=onepage&q&f=false consultato in
data 06/05/2020. La proposta leopardiana
si avvicina alle idee di Soave e crede realizzabile un progetto di lingua
universale solamente qualora questa sia rappresentata da segni matematici,
algebrici. Conscio però della forza implacabile del mutamento linguistico, a
cui tutte le lingue sono soggette,
Leopardi aggiunge: Resta dunque
provato che la lingua strettamente universale, per cagione di quelle stesse
condizioni ond'ella sarebbe divenuta e con cui sole sarebbe potuta divenire
universale, e senza cui l'universalità sua non potrebbe durare se non
momentaneamente, per causa, dico, di queste medesime condizioni, subitamente
corrompendosi, dividerebbesi ben tosto, per causa di tal corruzione, e quindi
per causa di quelle medesime condizioni, che naturalmente e necessariamente
l'occasionerebbero, in diverse lingue, e perderebbe conseguentemente la sua
universalità, la durata della quale sarebbe fatta impossibile da quelle
medesime condizioni che a tal durata
indispensabilmente richieggonsi.otIn sostanza quindi, dopo aver individuato
il miglior tipo di linguaggio universale auspicabile, cioè quello composto
matematicamente da segni e caratteri, Leopardi rimane scettico sulla
possibilità, se non d'adozione di una tal lingua, della sua resistenza al
cambiamento. Di questo tratta anche
Stefano Gensini quando spiega che per Leopardi
In termini teorici (.../ un'autentica universalità è impossibile, perché
quand'anche i dotti riuscissero a convenire su un sistema artificiale di
comunicazione (...] esso, una volta calato nell'uso, inevitabilmente
comincerebbe a mutare In questo modo, spiega Gensini - (L. anticipa a livello
teorico l'idea saussuriana che tempo e massa parlante siano elementi 'interni'
dell'organismo linguistico, svuotando di senso, fra l'altro, ogni atteggiamento normativo di tipo
puristico.5STEFANO GENSINI, «Sul campo semantico del linguaggio nello
Zibaldone», in Lo «Zibaldone» di Leopardi come ipertesto. Atti del Convegno
internazionale, a cura di Marìa de las Nieves Muñiz Muñiz, Barcellona, 2012,
pp. 162-163.Il conte Giacomo Leopardi, al battesimo
Giacomo Taldegardo Francesco di Sales Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo.
È ritenuto il maggior poeta
dell'Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura
mondiale, nonché una delle principali del romanticismo letterario; la
profondità della sua riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi
ispirazione sensista e materialistane fa anche un filosofo di spessore. La
straordinaria qualità lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista
centrale nel panorama letterario e culturale europeo e internazionale, con
ricadute che vanno molto oltre la sua epoca. Leopardi, intellettuale
dalla vastissima cultura, inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato
alle opere dell'antichità greco-romana, ammirata tramite le letture e le
traduzioni di Mosco, Lucrezio, Epitteto, Luciano ed altri, approdò al
Romanticismo dopo la scoperta dei poeti romantici europei, quali Byron,
Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un esponente principale, pur non
volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni materialistederivate
principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla lettura di FILOSOFI come
il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli unisce però il proprio
pessimismo, originariamente probabile effetto di una grave patologia che lo
affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un compiuto sistema filosofico. Muore
di edema polmonare o scompenso cardiaco, durante la grande epidemia di colera
di Napoli. Il dibattito sull'opera leopardiana, specialmente in relazione
al pensiero esistenzialista fra gli anni trenta e cinquanta, ha portato gli
esegeti ad approfondire l'analisi filosofica dei contenuti e significati dei
suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle opere in prosa, essi trovano
precise corrispondenze a livello lirico in una linea unitaria di atteggiamento
esistenziale. Riflessione filosofica ed empito poetico fanno sì che Leopardi,
al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche e più tardi di Kafka, possa
essere visto come un esistenzialista o almeno un precursore
dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato pontificio (oggi
in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più nobili famiglie del
paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età adulta furono, oltre
a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I genitori erano cugini fra
di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte Giacomo e della marchesa
Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi e d'idee reazionarie; la
madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna energica, molto religiosa
fino alla superstizione, legata alle convenzioni sociali e ad un concetto
profondo di dignità della famiglia, motivo di sofferenza per il giovane Giacomo
che non ricevette tutto l'affetto di cui sentiva il bisogno. In
conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte dal marito, la marchesa
prese in mano un patrimonio familiare fortemente indebitato, riuscendo a
rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia domestica. La rigidità
della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i sacrifici economici e i
pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane Giacomo. Fino al termine
dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro, giocando volentieri con i suoi
fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che erano più vicini a lui d'età e
che amava intrattenere con racconti ricchi di fervida fantasia. La
formazione giovanile La casa natale Ricevette la prima educazione, come
da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini che influirono
sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola gesuitica. Tali
metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della teologia e
della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon livello
contenutistico e metodologico. Nel Museo leopardiano a Recanati è conservato,
infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto insieme al
fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di studio, che si
svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare nei saggi
finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione delle feste
natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche composizione
di carattere religioso da recitare in occasione della riunione della
Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto dai precettori non impedì,
comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di
studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila
volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei
Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla
Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale
della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui
stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione.
Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati
puerili. La produzione dei puerili Puerili e abbozzi vari Il corpus delle
opere cosiddette puerili dimostra come il giovane Leopardi sapesse scrivere in
latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di
versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di
Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore
e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi
della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che
riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e
sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità,
eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con
la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad
esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il
periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco
ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si
immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione
da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni
alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse
sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e,
senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche
altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco
(nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il
sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale
ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di
lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune
traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la
sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta
incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia L.
si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la Storia
dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco Milizia, a
partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain Bailly.
L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel. Invece
il lavoro di Leopardi presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio la
scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del suo
testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande (presente
nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri
Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel Wolff. Inoltre
Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della letteratura
italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e varie raccolte
biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i francescani, Quétif e
Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi testi dimostra
l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia dell'astronomia
Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per la matematica.
Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali invece il
Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e sull'argomento si
limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la invenzione de’ logaritmi
fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo. Probabilmente infatti
Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò alla geometria
cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo anche le prime
pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando
sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli
anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi
introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal
greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di
Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli
di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo
dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di
Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria:
dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte cambiamento,
frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare
l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici
non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a
modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come
Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua
sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di
Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo
L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi
conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per liberarsi
dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune poesie
significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno a
Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della
Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in
risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de
Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal
padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di
intraprendere questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo
reumatico e disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la
presunta scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni
scomode delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia
esordì con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione
della spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e
conseguenti problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite
ulcerosa o malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita
stentata, problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo
intenso), alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua.
Era convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di
Loreto scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo
dopo cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di
veramente orribile.» Egli stesso si ispira a questi seri problemi di
salute, di cui parlerà anche a Giordani, per la lunga cantica L'appressamento
della morte e, anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e
definisce la sua malattia come un "cieco malor", cioè un male di non
chiara origine, che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente:
«Mi sedetti colà su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme
e il dolor mio. Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi
la bella giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi
più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da
Citati) è che Leopardi soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano
la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una
normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite
tubercolare, oppure dalla spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una
sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei
legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi
disturbi infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi
gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno
predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei
genitori. Tutti i fratelli L. furono deboli di salute, con l'eccezione di
Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera
asimmetria del viso. Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di
probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui
poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto
difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei
disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a
parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache
numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine
psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive
che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come
lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.
«Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di
viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel
mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta,
mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.» (Lettera
dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla,
propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non
mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito
sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie
comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come
ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e
lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della
vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico
Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo". Dopo
il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione
di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso
non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di
immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì
l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per Leopardi, che
giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua
intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava,
un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole
ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui,
fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di
uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti
incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo
determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della "teoria
del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi nel corso
della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale concezione è
contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in modo organico la
sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del pensiero
leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Giordani che
aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo
compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così
una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In
una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il
suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi
ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di
filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di
confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi
si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in
Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il
resto è noia» Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e
dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla
quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa
le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il
nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la
prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di
scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo
presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare
al dibattito culturale tra classicisti e romantici. L. difende la cultura
classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona
che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei
travaglia!» (Il primo amore, v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i
figli, illustrazione di Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia a
compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note
filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il
sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della
gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro,
nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di
Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale
provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del
primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei
"Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di
Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti
polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e
se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due
saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in
risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un
italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni
di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano
più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane
fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che
professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai
risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece,
perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto
le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di
Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel
tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo
materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico
predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni
speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità
nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del
passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella
lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (L., L'infinito. Si
riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga
e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di
famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga
fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L. elaborò le prime basi
della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e
l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso.
Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati
con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla
luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno
festivo e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno.
Sono i cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui
confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza
dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di
recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo,
ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida e modesta al
confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata studiando i
classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di prostitute
che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come scrive in una
lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato
Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso il Tasso,
che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore a livello
stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi componimenti, come
Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente culturale romano Leopardi
visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi
Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore dell'Istituto
di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per farlo entrare
nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò. Ritorna a
Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello
sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico
o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da Recanati:
Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore Antonio
Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione
completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e
italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era
dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti,
gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà degli anni '30, da alcuni indicato
come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in
eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la
tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata
secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga
esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove
visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi
con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente
bolognese Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al
quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia
dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una
"Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al
Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A
Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si
innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un
anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del
fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi
si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di
lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la casa
del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta,
patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la
famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in
un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri
al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del
ritratto di L. sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte
da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto
tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il
quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più
fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la
fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e
l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però
argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli
non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei
ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze,
dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i
quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a
Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per
rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico
particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e
Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece
conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente
avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte
avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se
riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare L.
per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private rivolte
ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi
risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che
nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a
Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata
del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica
rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e
Leopardi tornò alla poesia, che tace (con l'eccezione della poco riuscita
epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch
contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette
morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il
canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su
appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del
cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il periodo
creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche
"grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone
libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi, dalla
cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi» (Le ricordanze) Il periodo di
benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e
dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto
con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di
riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici:
Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a
Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle
conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn
o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima
tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora
progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute
non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati,
dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente
alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le
ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco
prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta,
Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e
il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo
denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi
idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti
pisano-recanatesi". In questo
periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio
borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i
recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto
che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in
sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un
canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei.» (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il
Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie
ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di
tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per
mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato
quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della
burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei
"Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse
infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro
senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di
personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio
di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati,
ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli
austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine di
concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere;
Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a
Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny
Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi
Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti
e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il
cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene:
Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora
positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa
raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di
quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione
che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo). Aspasia, seppur
piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia d'amore
(seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli frequentò
realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e intellettiva (per
parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la morte come una
persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna illusione);
tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e caratteriale della
Targioni, presentata come una "donna fatale", si nota anche una
tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce ripetutamente il
fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione della donna
con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi, dalle
affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere tra lui
e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni polemici e
misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno liberato della
dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un servilismo
morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a Fanny dei
primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte del
periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e con
Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle
che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se
l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né
degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove:
gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny.
Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come
si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad
ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.» (Lettera
da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida
/ in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»
(Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo,
avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di
Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per
circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla
padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi
famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene amico anche
della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla
grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne
allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente
come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare
a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle
"Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere
epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più
fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una
fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri
vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe
trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso
nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo
al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio
Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai,
né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi
desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma
qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno
per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia.
Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà
eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì
per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse
giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò: «Quivi
Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera
non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava
quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana
allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua
cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da
ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse
cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare
infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti
di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci
faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse.
«Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag
zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei
näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen
Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. L. è piccolo e
gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce
una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo
più da vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo
fare dispongon l'animo in suo favore. Busto del poeta presente a Villa
Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte
delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti
dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni
"dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia
filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un
nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante
gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse
probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese
i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto.
A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di
vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo
pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già Leopardi aveva tradotta in
gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di
Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò
sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del Leopardi.
Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi morente poco dopo aver
terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere,
se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli
pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando a Napoli
scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la sorella di
questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase
dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il
fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo
affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni
fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore
fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in
peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni
dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla
salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta
sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati),
talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve
moltissimi caffè. La morte Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita
di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto
realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o
il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili
passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo
cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque
decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di
Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando
più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue
condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far
sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. L. si sentì
male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario
delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti
cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio
e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita
fredda) verso sera. Fu colpito da malore
poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato
programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore
dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si
spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio,
Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello
stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero
registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della
parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto
"alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri
pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata
analizzata da studiosi di medicina. Molte sono state le ipotesi, dalla più
accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, oppure scompenso
cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare e cardiomiopatia, seguite a
problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle più fantasiose[146], fino al
colera stesso.Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire
il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare
("idropisia di cuore" o idropericardio), il che è comunque
verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della
colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze
dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse un
problema cardiaco, forse accelerata da una forma fulminante di colera che
avrebbe ucciso il debilitato Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi
cronici all'apparato gastrointestinale, i quali potevano mascherare la
gastroenterite colerosa) in poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39
anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie
ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di
Polizia, le sue spogliequesta la versione accettata dalla maggioranza dei
biografinon furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche
richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una
breve riesumazione alla presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio
della chiesa di San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di
Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata
da Pietro Giordani: «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo
ammirato fuori d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da
paragonare solamente coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue
malattie miserissima fece Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto
all'amico adorato.” Il ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo
dopo che un chirurgo, non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta
di sommaria autopsia per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera.
In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di
contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva
dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a seconda
dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse finito
nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o
nell'attiguo cimitero delle 366 Fosse), destinati in quel periodo ai morti per
colera o per altre cause, come attesta il registro delle sepolture della chiesa
della SS. Annunziata a Fonseca di Napoli (riportante la dicitura "cimitero
dei colerosi" e "sepolto id.") o addirittura occultate nella
casa di vico Pero, e che Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un
funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e
di un parroco compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi.
La lapide originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri
continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e
che il certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta
del ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di
epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore
Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima,
un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità,
frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse
gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti
con altre ossa. La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco
della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del
comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del
recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino
dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con
doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui
delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro
intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore
a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare
il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna
traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si
arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi
lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione
venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era
plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla
esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe
deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero
comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo
dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari
incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata
dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di
Recanati. Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a
Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del
passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta dell'Accademia
d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che ne stabiliva
l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco Vergiliano a
Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere
Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora sorge appunto
il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei pressi venne
traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento venne portata a
Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal Centro Nazionale
Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello studioso
leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della riesumazione e
identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della Mirandola e Monna
Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi resti fossero
davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con quello
degli attuali eredi dei conti L. (Vanni Leopardi e la figlia Olimpia,
discendenti diretti del fratello minore del poeta Pierfrancesco) e dei marchesi
Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla
famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del Pero-Leopardi, vedova del conte
Pierfrancesco "Franco" Leopardi e madre di Vanni). La posizione
ufficiale della famiglia L. (esplicitata dal 1898 in poi) e della Fondazione
Casa Leopardi da loro presieduta (presidente fino al conte Vanni L.) è invece che i resti nel
parco Vergiliano non siano comunque del poeta e Ranieri abbia mentito, che il
corpo si trovi alle Fontanelle e che quindi la riesumazione sia inutile,
occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio lì situata. Un altro membro
della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco, si è invece detto
disponibile. Tale esame non è stato finora autorizzato. «Cantare il dolore
fu per lui rimedio al dolore, cantare la disperazione salvezza dalla
disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e non per gioco di parole,
l'unica felicità. n quei canti veramente divini il Leopardi trasformò
l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica soave, il rimpianto
dei giorni morti in visioni di splendore.» (Papini, Felicità di Giacomo
Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato, attraverso le fasi del suo
pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto lirico-ascetico della sua poetica,
che lo spinge a credere nelle «illusioni» e lusinghe della natura, e la
razionalità speculativo-teorica presente nelle sue riflessioni filosofiche, che
invece considera vane quelle illusioni, negando ad esse qualunque contenuto
ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e disillusione, tra
sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no, era del resto ben presente allo stesso
Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per
ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera
filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la
poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo
fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È
scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste
per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a
nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani
A Recanati Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo L.: è
la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai discendenti e aperto
al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali dall'architetto Carlo
Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo. L'ambiente più suggestivo è
senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre 20.000 volumi, tra cui
incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del poeta, Monaldo Leopardi.
Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia Palazzo Leopardi.
Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in Montemorello, nel
cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi nel 1798. Colle
dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un panorama
vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta dal poeta a
soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale della Poesia e
della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e manifestazioni
culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai aperto a tutti. Palazzo Antici-Mattei: casa della madre di
Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee semplici ed eleganti con
iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel cortile del chiostro di
Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un fulmine e resa celebre
dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San Leopardo): venne fatta
edificare dalla famiglia Leopardi insieme e nei pressi della villa affidando la
progettazione all'architetto Gaetano Koch. La cripta, a cui si accede
esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia Leopardi. Chiesa di Santa
Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i Minori Osservanti insieme
al Convento annesso, cacciati i frati e abbattuti due lati del convento, l'orto
divenne quello che ancora è il civico cimitero di Recanati. Vi si conserva
ancora il pozzo di San Giacomo della Marca ed affreschi nelle lunette del
portico. All'interno è la tomba di famiglia dei Leopardi ove sono sepolti
Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della Posta (corso Garibaldi), Palazzo Antici Mattei (Roma, via Michelangelo
Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso in Sant'Onofrio al Gianicolo,
"uno dei posti più belli della terra, in mezzo agli aranci e ai
lecci". Bologna ("ospitalissima"), convento di San Francesco
(piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa dell'editore Anton Fortunato
Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano ("veramente insociale")
(Casa Badini, vicino al teatro del Corso (oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna
("tutto è bello, e niente magnifico"). Locanda della Pace, via del
Corso, a Bologna, Ravenna (qui si vive quietissimi), ospite del marchese
Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima e fetidissima città", Locanda
della Fonte, nei pressi del mercato del grano e di Palazzo Vecchio Targa
sull'ultimo domicilio di Leopardi a Napoli Casa delle sorelle Busdraghi, via
del Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo Buondelmonti, abitazione di Giovan
Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una beatitudine"), via Fagiuoli
(casa Soderini). Il Lungarno pisano ("spettacolo così ampio, così
magnifico, così gaio, così ridente, che innamora"). "Una certa strada
deliziosa" da lui battezzata "Via delle Rimembranze", dove va a
passeggiare a Pisa (lettera a Paolina L.). Levane, Camucia e Perugia, di
passaggio. Roma (città oziosa, dissipata, senza metodo), via dei Condotti 81
(spendo qui un abisso), con Ranieri. Napoli, piazza Ferdinando; poi Strada
nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota); poi vico Pero (tre appartamenti
affittati con Ranieri e la sorella di lui Paolina). Villa Ferrigni, detta villa
delle Ginestre, a Torre del Greco, alle pendici dello "sterminator
Vesevo". Opere di Giacomo L.. Copertina della prima edizione dello
Zibaldone di pensieri. Epistolario Di L. ci sono rimaste oltre novecento
lettere, composte nell'arco di una vita e indirizzate a circa cento
destinatari, tra amici e familiari (soprattutto al padre e al fratello Carlo).
L'intero corpus epistolare di Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che malgrado
le origini si può leggere come un'opera autonoma: questa raccolta di prose
private, infatti, costituisce un fondamentale documento non solo per seguire le
vicende biografiche del poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo
pensiero, dei suoi stati d'animo e delle sue riflessioni culturali. L. prese
parte all'acceso dibattito culturale innescato dalla pubblicazione del saggio
Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica
vide schierarsi da una parte i difensori del classicismo, quali Pietro
Giordani, e dall'altra i sostenitori della nuova poetica romantica.
Leopardi, amico del Giordani, si allineò alle tesi classiciste, mettendo per
iscritto il proprio pensiero nella Lettera ai compositori della Biblioteca
italiana e nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, rimasti
entrambi inediti sino al 1906. Nella prima L., pur riconoscendo la bontà
dell'intervento dell'autrice ginevrina, assume una posizione contraria alle
istanze della lettera, nella quale si invitava il popolo italiano ad aprirsi
alle nuove letterature europee. Secondo il poeta di Recanati, infatti, si
tratta di un «vanissimo consiglio», essendo la letteratura italiana quella più
vicina alle uniche letterature universalmente valide, ovvero quella greca e
quella latina. Nel Discorso, invece, Leopardi approfondì la sua riflessione
poetica in merito al dibattito, introducendo temi che poi diverranno centrali
della poesia leopardiana, come l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione.
Zibaldone Lo Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle
quali Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari.
Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario,
essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi
iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi
agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso
scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve
trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che contraddistinguono
la società italiana, e le compara con il carattere, la mentalità e la moralità
delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera Leopardi giunge all'amara
conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato individualismo, è troppo
poco civile per godere dei benefici del progresso (come in Francia, Germania ed
Inghilterra), ma troppo civile per godere dei benefici dello «stato di natura»,
come accadeva nelle nazioni meno sviluppate, quali Portogallo, Spagna e Russia.
Secondo manoscritto autografo dell'Infinito Le Operette morali, per usare le
parole dello stesso poeta, sono un «libro di sogni poetici, d’invenzioni e di
capricci malinconici»: è ancora Leopardi a descrivere la propria opera in una
lettera indirizzata all'editore Stella, sottolineando «quel tuono ironico che
regna in esse» e specificando che Timandro ed Eleandro sono una specie di
prefazione, ed un’apologia dell’opera contro i filosofi moderni». Le Operette,
oggi considerate la più alta espressione del pensiero leopardiano, racchiudono
l'essenza del pessimismo del poeta, trattando argomenti quali la condizione
esistenziale dell'uomo, la tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza
della Natura. I Canti, considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono
trentasei liriche composte da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei
Canti ricordiamo Sopra il monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il
passero solitario, La sera del dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra
e infine L'infinito, uno dei testi più rappresentativi della poetica
leopardiana. Le ultime opere Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse
due opere, i Paralipomeni della Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è
un poemetto in ottave con protagonisti animali: «Paralipomeni», infatti, significa
«continuazione» mentre Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane,
ovvero un'opera pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro
la finzione comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari
napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari,
mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i
granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi credenti, invece, sono un capitolo
satirico in terza rima dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli
esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di
facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono
numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio
colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida",
"improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa
di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento
purista che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici,
di neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un
caso, un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò
accuse postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della
lingua italiana. Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di L.,
musica di Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G.
Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Operette morali),
musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre liriche di Goffredo
Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi, Foscolo e Montale. Epistolario
di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario collettivo Il fatto che l'opera
di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di
studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere
siano divenute d'uso corrente. Fra le principali: studio matto e
disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani e Zibaldone di pensieri); passata è la
tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio
borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna...
(in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il
sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito).
Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12
pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie
città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la
Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva
anche altre opere di Trubbiani dedicate a Leopardi: 10 disegni originali
realizzati sul tema "L. figurativo", 8 incisioni a colori, una
scultura in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in osservazione di un
gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione scultorea
sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane") ispirata
ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione prodotta in
Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel breve documentario
"Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione Marche.
Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella Canzone per Piero
di Guccini e in Stai bene lì di Renato
Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno (di un
pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo),
entrambe di Roberto Vecchioni. Giorgio Gaber, nella canzone
"Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del
1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i
poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi.
Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato
da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato
da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma
televisivo"Leopardi, il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica
"Il tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve
documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche.
Video in rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo
Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con
Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo
Leopardi nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore
Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita
solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]:
Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva
per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che
gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot
turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman
che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari;
"A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa
Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un
Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella
puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado
Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la
vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro
e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose
letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più
importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman:
L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la
tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra
(o Il fiore del deserto) Alla luna, La
sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di
un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito,
Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il
fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio
Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia:
L'infinito, Lavia dice Leopardi; Alberto
Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la
prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima
parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La
Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese
per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria
offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso
un video, per la regia di Solari, trasmesso sui principali canali televisivi
italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore statunitense Dustin
Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver interpretato ad Ascoli
Piceno il film di Germi "Alfredo, Alfredo", assieme ad una giovane
Sandrelli. Questa la descrizione della sceneggiatura dello spot per la
promozione della stagione turistica: «Un uomo legge una delle poesie più
note della letteratura italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui
emozionalità è strettamente legata alle visioni, alle luci, ai colori della
terra marchigiana. L’uomo legge la poesia camminando, cerca di capire e
pronunciare bene la lingua non stando fermo, dietro una scrivania, ma
immergendosi nella terra che ha visto nascere questo capolavoro; legge,
riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare la lingua, il sentimento di
questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e riprova. Nel sottofondo le
note sublimi del Tancredi di Rossini, che accompagnano il silenzio di questa
meditazione nuova che l’uomo cerca per sé: l’uomo cerca emozioni, vuole fare
un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito nelle Marche che l’hanno generato è
un’esperienza nuova, formidabile, ma difficile e faticosa. Ma ne vale la pena.
Provare e alla fine sorridere, la poesia è mia, le Marche sono la mia meta
faticosamente conosciuta, capita e raggiunta.» (dal comunicato stampa
della Regione Marche) Nello spot Hoffman tenta di recitare i versi
dell'Infinito in un italiano "condito" dal suo marcato accento
californiano. Un accento tanto forte e straniante da suscitare numerose
critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di Mina[239], che nella
sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a scrivere:
«Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche Oliver Hardy. Al
quale, paradossalmente, in questa demoralizzante «performance», mi sembra che
assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non peggio, credo... Sentire la
nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal pur bravo divo americano mi
ha rigettato giù nella nostra condizione di sempiterna colonia... il mondo
della pubblicità è un mondo di matti. A volte geniale, ma più spesso volgare e
irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los Angeles, sarà pure un nome che tira, ma
non li avevamo noi degli attori al suo livello? E che parlano l’italiano? E che
conoscono la musica dell’andamento di un’esposizione poetica?» (Mina
Mazzini) Al contrario, l'operazione promozionale fu elogiata da Rienzo,
linguista e critico letterario, da Francesco Sabatini e Francesco Erspamer,
rispettivamente presidente onorario e presidente emerito dell’Accademia della
Crusca; quest'ultimo commentò lo spot con queste parole: «Sprovincializza la
lingua italiana» Comunque sia, lo scopo perseguito fu raggiunto: anche grazie
alle polemiche, la versione non definitiva del video della Regione Marche,
inserito su YouTube, totalizzò quasi 21.200 visualizzazioni in tutto il mondo
solo nella prima settimana. Visto il successo del, Dustin Hoffman fu
confermato per la campagna promozionale della stagione turistica. Niente più
lettura dei versi leopardiani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere
della Sera", nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più
importante dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams,
si snoda un racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman
dichiarano infinito amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a
offrire: la gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna
promozionale del Dustin Hoffman fu
sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque
l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del
successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario
Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie
di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del
territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un
"movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti
del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un
breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro
Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il
riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta
recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di
Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che,
rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del
Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione
(Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani,
Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti
marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci
paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi
Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza et f.i,Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920;
poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia
(Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi,
Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia,
le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano:
Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna:
Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi,
Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il
mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati,
Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel
primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di
Studi Leopardiani. Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi
su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico,
artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente
il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli
stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di
cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a
Monaldo, finché fu in vita. Uno
sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo
Leopardi, su emsf.rai). Forse la
malattia di Pott o la spondilite anchilosante. Erik Pietro Sganzerla,
Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione
diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia
a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non
felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro
decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei
problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e
ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la
diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che
Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria
cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno
scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e
possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che
dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è
male» (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città,
gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta
(Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de'
maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti. Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia
della letteratura italiana. Milano L'Ottocento Zibaldone «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si
spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti
vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le
Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e
editi», Milano, Bompiani 1972
Citati20-25. Cecchi, Sapegno, oGiuseppe
BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano,
Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da
lui tradotte e lettere di Giordani e Pietro Colletta all'Autore, raccolto e
ordinato da Prospero Viani, I, Napoli, Lettera
all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in Epistolario di L. con le
iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con sorpresa, in questa
lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato dallo storico Lucio
Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di Massimo Bernardini
(puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre,
RaiTre-RaiStoria) Sarà la lingua
utilizzata nelle lettere allo Jacopssen
Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale. regione. marche.
Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e
l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale, Recanati a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di
Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche, 5-8. Aimé-Henri
Paulian su data.bnf.fr. Un episodio
della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero
della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso
nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una
coperta di lana. C 33 esegg. Giuseppe Bortone, Il "morire
giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri maligne,
catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo leopardi, le
malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico,
Paolo Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su
Rotari Club Fermo, «Di contenti,
d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà
su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio.
Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella giovanezza,
e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore
tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna poetando,
/ Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me stesso /
In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su torreomnia.
Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la malattia,
"diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e considerata
probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di Leopardi
anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici pediatri
recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece. Es. sindrome della cauda equina Alcuni propongono altre diagnosi: diabete
giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di
Scheuermann alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo
cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o
malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni
napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì
vergine (cosa dibattuta), Sette anni di sodalizio con L.i che avesse contratto
la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre. cfr. R. Di Ferdinando,
L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo Leopardi, Cappelli, Bologna, Con
un'analisi postuma molto contestata poiché basata sulle teorie
pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della frenologia, Cesare
Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi affermarono che Leopardi
aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come tutta la sua famiglia.
Cfr.: M_ L_Patrizi. Prof. M. L. Patrizi,
Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia, Torino, Fratelli Bocca
Editori, Patrizi. G. Chiarini, Vita di G. Leopardi453. E. Galavotti, Letterati italiani Lettera di
Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad Adelaide Maestri, Lettera
ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone, autografo, Scritti vari
inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi critica del
Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla Batracomiomachia si trova in:
Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una battaglia, Nino Aragno Ed.,
Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della letteratura
italiana, 3, tomo 1, Paravia, Cfr. pag.
118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove privato dell'uso della vista, e
della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la
mia infelicità in un modo assai più tenebroso. Cecchi, Sapegno Lasciando
da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra volta (avendo già
conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò solamente alle donne, e
alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città
grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in
Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Trattando,
è così difficile il fermare una donna in Roma come a Recanati, anzi molto più,
a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine,
che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia,
non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non (omissis)
(credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri
paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le quali trovo ora che sono
molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono così pericolose come
sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione dell'epistolario venne censurato
alla prima edizione ed è stato ripristinato solo in edizioni recenti, come
quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito ("non la danno"); cfr.
Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi Panza, La casa di Silvia
(amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere della Sera L'eliografia,
metodo di riproduzione messo a punto da Joseph Nicéphore Niépce fu da questi
usato per la prima fotografia (precedente di 13 anni il dagherrotipo). Bonghi, Biografia di Leopardi, su
classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su casatea.com. Paolo
Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti Citati 226 e segg. Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri
per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e
Pensiero, Fotografia della maschera
(JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro
nazionale di studi leopardiani Centro mondiale della poesia e della cultura
"G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre
Palinodia al marchese Gino Capponi
Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani
delle Ultime lettere di Jacopo Ortis
«Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo
di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura per L. Archiviato in.; mentre fu più meditato e indulgente il
giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su L.
stesso. Introduzione alla Palinodia L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani.
Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo
Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di
G. Leopardi (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito
venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese. Lettera aColletta dcome citato in Marco
Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni
dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani,
La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30. Gente che m'odia e fugge, per invidia non
già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in
cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo
Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in
Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti,
edizione Garzanti Donne fatali 2: L. e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto
di vivere quanto amando...", su sulromanzo. "Tu vivi / bella non solo ancor, ma bella
tanto, / al parer mio, che tutte l'altre avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario
Biografico degli Italiani, riferimenti e link in. Giovanni Mèstica, Gli amori di G. Leopardi,
in Fanfulla della domenica, (Fonte DBI).
Altri ritengono che il canto alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni
Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio nel commento ai Canti, edizione
Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del poeta non fu ricambiata ma evitata,
su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio
con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo Abbate, La vita erotica di L.,
C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu, pubblicato in
"Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's who in gay and
lesbian history, 1, ad vocem Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca. repubblica.
Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario, BrioschiLandi,
Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti, Milano. D'Orta12.
Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi in L.
Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle abitudini
del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari irregolari, va a
letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser longeva per i
complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni di
sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece,
appresso a poco, della notte giorno, e viceversa." Traduzione in Michele Scherillo, Vita di
Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le
donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina),
su treccani. 2 D'Orta25. L. Il poeta
della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte
del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro
(cfr. Sfrondando gli allori della poesia)
Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta
anche Citati, L., Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di morte di L.,
su dl.antenati.san.beniculturali. Il
Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia
Plautina, cfr. anche Notizia della morte
del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato,
congestione, coma diabetico o indigestione
Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su
spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che
uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere.
in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di
A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G.
Cugnoni, I, Halle, Max Niemeyer Editore,
Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G.
Piergili, Firenze, Le Monnier, in.;
"Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di
petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani, su treccani. are
LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia
Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano,
McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui,
su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la
Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro
Giordani, Scritti editi e postumi di Giordani,
pubblicati da Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione,
che presenta lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di
Giacomo Leopardi, edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo
intendimento dell'autore, da Antonio Ranieri,
Firenze, Successori Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10
ottobre in.. Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba
vuota a Fuorigrotta, su pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale
stanzione. Ingrandimento (JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su
Leopardi? Occorre cautela in. da Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni,
Vinceti Delitti e misteri del passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio
Cesare all'omicidio di Pier Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO
DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA, MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO? Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La
seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi, Leopardi, strane ipotesi su morte e
sepoltura, “Il Mattino di Napoli”, recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a
Napoli. La seconda morte di Giacomo Leopardi, Guida, Picchi, Storie di casa L.
Si riporta anche il verbale ufficiale delle persone presenti. E' vuota la
tomba di Leopardi. Guerra sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La
Vita L., sito gestito dal CNSL Si torna a parlare dei resti di L., nato
comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati.
Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia,
Milano, Mondadori, Cfr. in proposito
anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare:
Manzoni e L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi
(Firenze, Sansoni). Paolo Emilio
Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia
del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al
Novecento, Roma, Ed. di Storia e
Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica
del mondo Peter Lang, In Saggi critici, Russo,
Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per L., su pergiacomo leopardi.altervista.org.
Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In
viaggio con L., Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi, tratte
da sue lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare, da
Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà,
Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali,
su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a
Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (),
Istituto dell'Enciclopedia italiana.
Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di
Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro
culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara
Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro
permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima
nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia
di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea,
su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".
"Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro
Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg ascolta la canzone nel sito della Fondazione
Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo
Archiviato il 6 settembre in. vedi il testo dell'Operetta morale in Operette
_morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il
corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno
del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia"
con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/ articoli/l.- il-rivoluzionario/default.aspx
"Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della
rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio
Villari://raistoria.rai/ articoli/ leopardi -il-rivoluzionario/ default.aspx in. Rai Storia, "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx
Archiviato l'8 settembre in. Nel sito web de "La Stampa",
Guzzini del Centro Studi Leopardiani
mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione
al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/
multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7
fEJyVoUSrazy1H/ pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman
con la regia di Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo L.",
intervista di Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del
Palazzo Leopardi di Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E "Un Leopardi inedito" raccontato da
Novella Bellucci e Franco D'Intino nella puntata di "Visionari" del
15 giugno, programma televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch?
v=KwFnKv0T BaI Intervista allo scrittore
Alessandro D'Avenia sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere
fragilicome Leopardi può salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv ():
youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM Gassman interpreta L'infinito, su youtube.com.
Gassman interpreta A Silvia: youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ
Archiviato il 29 marzo in. Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di
festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube
Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U
Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene interpreta L'infinito: youtube.co Bene interpreta Passero solitario: youtube. com/
watch?v=IZz Qbnzpaok Bene interpreta La
ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com /watch?v=ZqzVXF3Fx4Y Bene interpreta Alla luna:
youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk Bene interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/ watch?v= qydGUiV1wwI Bene
interpreta Il sabato del villaggio: youtube.
com/watch?v=vI9PJfCtWw4 Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM Bene interpreta Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane:
youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE vedi su
Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista
Archiviato in. leggi il testo di Inno ad Arimane
init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(Leopardi) /Ad_Arimane Archiviato il 15
settembre in. Bene interpreta Amore e Morte:
youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw Foà
interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario:
youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg Foà interpreta
A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE Foà interpreta La sera del dì di festa:
youtube. com/watch?v=a WOJfMZeCVo Foà
interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà
interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La
ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della
luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com
/watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v= BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A
Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima
della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo
interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ Germano, nel film Il giovane favoloso di
Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4 Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Germano,
nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e
Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone,
interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/
Portals/1/Leopardi/ Leopardi%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot
promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero
Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM
La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato
in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su
"La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati,
"Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna
meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il
Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila
visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle
Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre (archiviato il 6 settembre ). vedi la serie di spot "Le Marche non ti
abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la
regia di Rovero Impiglia e Cagnelli: youtube Minnucci, La regione Marche
rispedisce Hoffman in America e pone fine allo stupro di L., su qelsi, su Giacomo Leopardi. Edizioni delle opere
Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario Epistolario di
Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere, Solmi e Solmi,
Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi «Classici Ricciardi» Il Monarca
delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo L., Graziella Pulce,
introduzione di Giorgio Manganelli, Milano: Adelphi «Biblioteca» Brioschi e Landi,
Torino: Bollati Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I
Meridiani», Zibaldone Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura,
Giosuè Carducci e altri, Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia,
Ferdinando Santoro, Lanciano: Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino:
Pomba scelto e annotato con introduzione
e indice analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento
letterario, pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda»,
Roma: La Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere:
Zibaldone scelto, Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano: Mondadori, in
Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed
Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e
Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi,
«Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter
Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni,
saggi introduttivi di Solmi e Robertis, Milano: Mondadori «Oscar» (con uno
scritto di Ungaretti) e edizione fotografica dell'autografo con gli indici e lo
schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola normale superiore, Il testamento
letterario, pensieri dello Zibaldone scelti annotati e ordinati da Vincenzo
Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli, Torino: Fogoli, Pensieri
anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli: Procaccini, edizione critica e
annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I Libri della Spiga», Damiani,
Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del piacere, scelta di pensieri con
note, introduzione e postfazione di Vincenzo Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione
tematica stabilita sugli indici leopardiani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di
Antonio Prete, Roma: Donzelli Editore, Lucio Felici, premessa di Trevi, indici
filologici di Marco Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e Marra,
Roma: Newton Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni,
Milano: Rizzoli «BUR», edizione critica Ceragioli e Ballerini, Bologna:
Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo,
Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino:
Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I
Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton
Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con
C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze:
Accademia della Crusca, Giacomo Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette
Morali L. Operette morali; edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna:
Cappelli, 1929 introduzione cura di Prete, Milano: Feltrinelli «Universale
economica classici», Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose, Rolando Damiani,
Milano: Mondadori «Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le prose, Emanuele
Trevi, Roma: Newton Compton, «Mammut», poi da sole nella collana «GTE», Giacomo
Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri Giacomo L., Pensieri, Bari,
G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione cura di Antonio Prete, Milano:
Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana Giulio Bollati e G. Savoca,
Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie del primo amore Galimberti,
Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo L. Leopardi (famiglia) Opere Pensiero e
poetica di L. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Giacomo Leopardi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giacomo Leopardi,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. L., su The
Encyclopedia of Science Fiction. L., Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. accademicidellacrusca.org,
Accademia della Crusca. L., su BeWeb,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di
Giacomo Leopardi, su Liber Liber. Opere
di L., su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di L.,
su LibriVox. L., su Goodreads. italiana
di L., su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.
Spartiti o libretti di Giacomo Leopardi, su International Music Score Library
Project, Project Petrucci LLC. Centro
nazionale di studi leopardiani Recanati, su centro studileopardiani. Classici
Italiani e opere complete interbooks.eu
Lo Zibaldone, su rodoni.ch. I canti di L. dai manoscritti autografi della
Biblioteca Nazionale di Napoli, su bnnonline. Il Pessimismo in Leopardi e
Schopenhauer [collegamento interrotto], su gheminga. Opere integrali in più
volumi dalla collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere
di Giacomo Leopardi, testi con concordanze, lista delle parole e lista di
frequenza Leopardi: Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Arte di prolungare
la vita o arte della felicità?, su giornaledifilosofia.net. Concordanze delle
Lettere su classicistranieri.com. Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo
Leopardi, la satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e
Leopardi a confronto, su agenziaimpronta.net. Leopardi ottimista: un mito del
Novecento, su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Angelini, "Sereno in L.",
su cesareangelini. Buonofiglio, "L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito",
su academia.edu. Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica
della letteratura italiana d’Ancona,. Il secondo nella Critica. Il
terzo nella stessa Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti
di Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’
Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi *. E una
dissertazione di laurea, e reca infatti l’impronta comune a tutti i
lavori giovanili. L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro,
un po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro, che
non vuol essere propriamente un’esposizione fatta dall’autore del sistema
filosofico del Leopardi; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore
con le stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte
sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo. Metodo anche questo
alquanto ingenuo e da scrittore che non vede ancora la necessità, chi
voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue
parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo pensiero, entrarvi
dentro, mettendosi allo stesso punto di vista del filosofo, e quindi in
grado di rielaborare il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze
storiche a cui è legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui
logicamente è suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la
inconsistenza: in modo che l’esposizione riesca una vita nuova del
sistema filosofico nella mente dell’espositore. GATTI, Esposizione del
sistema filosofico di L., saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro
difficile, certo, e che non riesce felicemente se non agli scrittori
provetti; ma che nessuno ordinaria¬ mente crede di potere schivare, se
non limiti il proprio ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne
escono alla meglio, esponendo i vari sistemi come ciascuno li ha
intesi. L’autore di questo libro, invece, ha voluto mettere
insieme i passi dello Zibaldone leopardiano, mostrando come fil filo un
pensiero si svolgesse dall’altro; e dove la connessione non appariva
evidente nelle parole del testo, ha supplito di suo i legamenti
opportuni, ma continuando a parlare, in prima persona, a nome del Leopardi:
proprio come se questi avesse riordinata e organizzata quella copiosa congerie
di riflessioni già via via segnate sulla carta a schiarimento del proprio
pensiero e a sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il
rischio, e stavo per dire la responsabilità, a cui andava incontro,
facendo parlare per la sua bocca lui, il Leopardi. Ha creduto che nello
Zibaldone stesse, pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo
resistere al seducente disegno d’innalzare, con la semplice composizione
degli stessi materiali leopardiani, la statua del filosofo sul
piedestallo finora vuoto. Laddove è chiaro che, se anche nei pensieri
inediti del L. fosse implicito un sistema perfetto di filosofia, la via di
ritro- varvelo e dimostrarvelo non poteva essere questa scelta
dall’autore. Ma veniamo all’argomento. L’autore, come già
altri, ha creduto che, se le opere edite ci avevan dato il Leopardi
poeta, questi inediti Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
venuti ultimamente in luce, ci scopris¬ sero il Leopardi filosofo. Questa
era anche la tesi dello Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone,
da cui il nuovo studioso manifestamente prende le mosse, distinguendo due
fasi principali della filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima
delle quali il dolore sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda,
della stessa natura; donde prima una concezione storica del pessi-
niismo, e poi una concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul
valore sistematico di questa filosofia leopardiana; e, d’altra parte, nel
secondo volume dei suoi Studi su L., esaminando le Operette morali,
veniva in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni
dello Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi
aveva fatto seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle
Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello
Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze cronologiche, che
lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è
noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli
pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema logico. Ora, lo
Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si
formavano giorno per giorno nella mente del Leopardi attraverso ben
(juindici anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella
del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78.
Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse la vita morale del
poeta, e offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i
sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui
stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi sette volumi abbiamo,
per dir così, i segreti documenti di tutto il lavorìo intimo di quello
spirito, non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo
dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le
proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel
lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri
slegati si possa fare un tutto coerente, manca. Gentile, ifa»
2 ont e Leopardi. Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca
accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che
qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente molto lontani fra loro ». E
la sua ragione sarebbe questa : Tali salti, mentre da un lato ci
forniscono ancora una prova evidentissima e incontrastabile della
profonda ripugnanza.... provata da L. per una concezione cosmica del
dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore di
rifare spesso a ritroso coll’ immaginazione la via già percorsa dal pensiero
allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa strada,
e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino, allorché quella
linea immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata altra via da
battere per giungere alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito bene; a
dilucidazione di pensieri anteriori Gatti stima di poter addurre pensieri
di un tempo più avanzato, anche quando occorra ammettere avvenuto nell’
intervallo un cambiamento sostanziale di pensiero, iierché L. rifà
talvolta con l’immaginazione la via già percorsa col pensiero, e
già superata. Ci sarebbero certi « pensieri di ritorno », o « ritorni
immaginari », per cui, secondo il Gatti, non bisogna credere che il L.
contraddica al suo pensiero posteriormente acquisito, anzi lo lasci intatto,
ma, per certa ripugnanza sentimentale alle più accoranti verità, per un
bisogno del cuore ili certi temperamenti, torni per un momento agli ameni
inganni, o alla mezza filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia,
un ritorno siffatto nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter
fissare questa nella coerenza di certi pen¬ sieri definitivi, è evidente
che non può essere altro che una contraddizione. Di che, qua e là, il
Gatti è costretto, quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una
sanatoria. Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a pretendere dal
Leopardi, nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non
era nella natura di tali confessioni. E non era neppure nella
natura dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta,
ma non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia tante
volte protestato di possedere una sua filosofia ? Allo stesso modo del
Leopardi, più o meno, chiunque si ritiene in grado di giudicare dei
sistemi dei filosofi, ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di
sopra di costoro, e insomma di affermare una filosofia propria che
possa aver ragione di quei sistemi. E dal proprio punto di vista
chiunque, così facendo, ha ragione; e aveva ragione il Leopardi ; perché
in fondo a ogni mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi
poeti, è incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare
così di una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬ sofia del Manzoni,
dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa filosofia dei poeti non
è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla e
non distruggerla, con molta delicatezza. Una delle differenze più
notabili tra la filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta
può averne una, se è capace di averla, in ogni singola poesia;
laddove il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina,
non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno diritto, come poeta, di
affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con nuovo animo, con
considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla
virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve
stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa di L. è infatti una
situazione d’animo nuova; quindi una nuova vista dello stesso dolore che
domina l’anima del poeta; un nuovo concetto, una filosofia nuova,
che solo trascurando le differenze essenziali, che in una poesia e
in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può rappresentare
come sempre identica. Egli è che il poeta, checché si
proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente una filosofia:
ma esprime soltanto un suo stato d animo, occupato, deter¬ minato e
quasi colorito da certi pensieri dominanti. Abbozza in se medesimo (e
quindi in un diario intimo) una filosofia provvisoriamente sufficiente ad
appagare i bisogni della propria ragione (che non sono poi grandi
in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in quanto
profondamente sentita, in quanto vita della propria anima, diventa
materia di poesia. Di poesia anche in prosa; perché, in sostanza la prosa
leopardiana è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi
stati d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per
lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il Leopardi fa di
costringere il sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica,
satirica, che gli fece appunto pre- f0rire la prosa al verso. Ma in
realtà, nelle Operette come nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia
tetra e col suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo
grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni, che altri ha
studiosamente cercate in lui, e che sono il vero segno caratteristico del
suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver
niente dell’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una liberazione
assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della soggettività; è una
contemplazione, diciamo così, d’una verità eterna, in cui il filosofo,
come persona particolare, si dimentica di se stesso, e dei suoi dolori, e
di tutte le tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di Spinoza,
la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di somiglianza con quelli
del Leopardi non presenta nes- Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza, nella
Rivista d’ Italia, asuna traccia, non offre nessuno indizio di
sentimenti personali. K veramente una visione del mondo sub specie
aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del filosofo
scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire, scompare nell’animo
dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia.
Onde una volta noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in
tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬ stema di
concetti, in sé. Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio
netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬
diano è, come è stato tante volte osservato, così imprgnato di elementi
ottimistici, così logicamente frammen¬ tario e contradittorio, e d’altra
parte così poeticamente coerente e vivo, che lo scambio non è possibile.
Noi pos¬ siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita del
suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto, molto delicato;
perché in esso non bisogna mai lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a
cui bisogna aver l’occhio, non è questa filosofia in se medesima,
astratta materia della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella
filosofia è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace
di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬ dere la
poesia, e valutata in quanto poesia, per quella vita poetica che riuscì a
vivere nello spirito del Poeta. La pubblicaizione dello Zibaldone
ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è
trovata innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella
tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso, e che, per
quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva pregato nessuno di mettere in
pubblico: quella filosofia, che egli destinava a far materia di
espressione più per¬ fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne
in parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma
merita di essere particolarmente studiato). E dimenticando che pel L.
tutti questi materiali non avevano valore per sé, ma l’avrebbero
acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno
s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del L.! No, questi
sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non
avvivò, non tra¬ sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e
trasfigu¬ randolo nel suo canto e nella sua satira. E produce
davvero una strana impressione il procedimento seguito dal dott. Gatti, che
riferisce nel testo certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a
sussidio di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,
in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il perfetto fatto
servire all’imperfetto; la poesia ridotta a documento d’un suo
documento! Ecco un esempio di filosofia documentata con
poesia. In un pensiero L. S’era domandato. Che vale per noi questa
«miracolosa e stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente
che artificiosa macchina e mole dei mondi? A che serve, dunque, questo infinito
e misterioso spettacolo dell’esistenza e della vita delle cose », se « né
resistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giova
veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo
per noi l’esistenza, così nostra come universale, scompagnata dalla
felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica
utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e
tutta la Idosofia del Leopardi. Ma che significano queste sue
interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo, che,
non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana [ Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del
Leopardi sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi
leggermente il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e
non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto,
egli, Giacomo Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale
possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa
costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima
finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata
la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente
espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza che questo suo
ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il
dubbio suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo
suo perpetuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento
filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà
ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a
confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno
Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello che nelle note
fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del canto.
E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra me
pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria infinita,
e quel profondo Infinito seren ? che vuol dir questa Solitudine
immensa? ed io che sono? Cosi meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba, E dell' innumerabile famiglia; Poi di
tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni terrena cosa. Girando
senza posa. Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun
frutto Indovinar non so. Qui veramente c’ è l’anima
tormentata dal dubbio che non ci sia un fine nel mondo; e non è il dubbio
astratto di un filosofo, ma il dubbio che irrompe neH’anima di un
poeta, che mira in cielo arder le stelle, quasi tante faci accese a
illuminare il mondo; e sente l’infinità dell’aria, il sereno profondo infinito
(elementi di grande commozione, com’ è noto, per L.), e l’immensità
della solitudine attorno alla propria persona non dimen¬ ticata {ed io
che sono P) né dimenticabUe perché palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe
d’una filosofia, ma l’uomo L., intero, con l’ansia e il terrore che
gh desta lo spettacolo dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui
che vi si sente dentro smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio
filosofico : semphce dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse
s’avess’ io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio
pensiero, Forse in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma
come elemento o momento della lirica grande. La pubblicazione
dello Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale
indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo L., e che
non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio deUe
sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno che
scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo il
fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta
non beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.
Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo
schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa
sua perso¬ nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene
appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse
storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio,
mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua anima,
bastano a giu¬ stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come
degb epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più
gelosi segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce
col credere che appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa
giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta,
sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo
sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni
modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore
che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬ tano la conclusione
definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si potrebbe
osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto. Bisogna
vedere al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi di Gatti, ci
apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei rispondere con un altro
discorso astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso genio
possa essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia
un’attività, che la filosofia necessariamente combatte e mortifica.
Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi
costantemente mirabilissimo esempio dell’energia, onde è capace lo
spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel
sentimento di un’anima singolarmente potente il sistema più
intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della
filosofia ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre
perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico di fantasmi che
son pure astratti concetti: unità, che non si finisce e non si finirà mai
di studiare nella Divina Commedia ». E preferisco perciò una risposta
particolare e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso
generale io r ho fatto appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla
quale per questo rispetto non credo si possa paragonare, ma a distanza
grandissima, altro che il Faust: dove l’unità dell’opera, come arte e
come filosofia, rimase lungi dall’esser raggiunta. aver letto
attentamente il saggio di Gatti. Libro, che non ò certo inutile, perché
molti schiarimenti particolari a concetti del Leopardi da uno studio così
attento e minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti,
oltre quelli già fatti dal Losacco e dal Giani, vi sono opportunamente
istituiti tra pensieri del Leopardi e luoghi di Helvétius, di Rousseau,
di Maupertuis e degli altri autori del Poeta; ma insufficiente a
dimostrarci la tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del
Leopardi si fosse organizzato un sistema filosofico; atto anzi a
dimostrare il contrario, per lo stesso esame accurato che ci dà dei
Pensieri leopardiani con l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è.
C’ è la travagliosa meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le
accorate riflessioni, che gli suggerirono quei jiroblemi che furono
il tormento e la musa perpetua del suo spirito: ma non più di questo. Il
Leopardi lo ritroveremo sempre nel disperato lamento de’ suoi canti e nel
sorriso amaris¬ simo e pur soave delle prose. 11 materialismo della
sua metafisica, il sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale
della sua epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono
nei pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi
costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici,
anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito
addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le
sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osservazione
empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedev^a le cose Giacomo
Leopardi. In lui non trovi né anche una critica della
ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi
somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e
accettarle come verità assiomatiche e principii di deduzioni
pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai.
Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e
stu¬ dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬
siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬ sofia antica
ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio
Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce
neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come
Voltaire, non so¬ spettando in alcun modo la profondità del suo
pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano
allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera
indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica,
convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore
filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della
esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica
edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in rilievo di
contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha
niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la rac¬ costa, per dimostrare così la modernità del
pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello
scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita
alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa.
Salvataggio operato ora con la na¬ tura, ora col sentimento, ora con la
volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come
tale, che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo
fondamentale. Leopardi ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso
dell’animo, che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e
bastano a confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è
sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese
un precursore del James e degli altri pram- matisti d’oggi, i quali non
sono scettici, benché in realtà abbiano una dottrina negativa del
conoscere; non vedono nell’attività pratica un surrogato dell’attività
teoretica: ma unificano le due attività, e immedesimano la verità
con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia esso stesso il vero;
laddove quel che gioverebbe credere, secondo L., sarebbe né più né meno
che un’ illu¬ sione. La differenza tra Leopardi e James è la
differenza profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo
prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente dommatica e
positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno
degl’ ingegni più fini tra gh studiosi di letteratura italiana, e dei più
valenti e competenti interpreti del pensiero leopardiano; ma con
altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leg¬ gere al
principio del suo libro le seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale
Gatti, e parzialmente dal Cantella, di ordinare e comporre in un sistema
filosofico i pensieri dello Zibaldone leopardiano; con esito che non
poteva essere altro che infelice; quando si pensi che sono riflessioni
scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito, per lo spazio di
circa quindici anni, da quando prima il poeta adolescente cominciò a
voler pensare col suo cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno
degli argomenti principali che a suo tempo io opposi al tentativo di
GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli
ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può
esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del poeta,
la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei prodotti più maturi,
dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei
Canti e nelle Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del
saggio del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul va¬ lore
e sull’ interesse dello Zibaldone. Questa idea bensì nel libro del
Levi non apparisce netta e ferma quanto si potrebbe desiderare,
costretta com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin-
cipii direttivi, che oscurano, a mio avviso, la visione esatta di taluni
momenti dello sviluppo del pensiero leopardiano e turbano il giudizio sulla sua
forma ultima. Cosi, quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a
priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo, per la qualità stessa
dell’autore; il quale sarebbe bensì un osservatore acuto, ma troppo
essenzialmente poeta, dominato interamente dal sentimento, e perciò di
pensiero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli, da una
parte, esagera e àltera il mio giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su
tutta l’opera del L.; e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca
subito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli può
consentire una ricostruzione storica non arbitra¬ riamente soggettiva, ma
razionalmente giustificabile del pensiero leopardiano. In primo
luogo, non è esatto che io abbia negato o voglia negare ogni interesse
speculativo allo Zibaldone e tanto meno alle poesie e alle Operette
morali', anzi sono disposto a riconoscere che tutta la poesia di L.
non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi,
che il problema speculativo, nei termini, s’intende, in cui egli poteva e
doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che nello Zibaldone ci sia
del pensiero del Leopardi qualche cosa di più che non fosse negli
scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal punto di vista del L.,
fosse già pervenuto a quel punto di maturità spirituale, di verità, in
cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere con cui egli stesso volle
entrare nella nostra letteratura; qualche cosa che possa nello Zibaldone
farci vedere nulla di diverso {si parva licei componere magnis) da quelle
note, onde ognuno di noi si prepara ai suoi lavori, e che, compiuti
questi, quando ci pare d'averne spremuto bene tutto il succo, si
buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando dalle note alla stesura
dei nostri scritti le idee nostre si siano venute correggendo e
integrando in più logica compattezza ' ; 2) che si possa adeguatamente valutare
la grandezza di L., facendogli il conto del tanto di verità speculativa che è
nella sua poesia: poiché, a prescindere da ogni dottrina sulla natura della
poesia, basta considerare le critiche profonde e ineluttabili, onde
quella verità fu superata da uno spirito, che ebbe inizialmente una
profonda simpatia congeniale col L., il Gioberti (specialmente nella Teorica
del sovrannaturale. Levi scrive: « Fii detto che la pubblicazione del
Diario sia stata un'indelicatezza, quando il Leopardi medesimo di
questa pubblicazione non aveva pregato nessuno. Oh si, sarebbe un
indeli¬ catezza esporre quelle cose agli occhi bene aperti d’un pubblico
di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo gli errori del
grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato ad amarlo e a
venerarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante le sue reliquie.
Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel che scrissi io nella
Rass. bibl. tett. U., mi rincresce
di dovergli rispondere che egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬
mazione. La quale mirava soltanto a chiarire che dello Zibaldone non ci
si può servire se non come di documento della formazione del pensiero del L.,
la cui forma ultima dobbiamo per altro cercare sempre nelle opere che da
<iuegli abbozzi trasse l'autore, e pubblicò egli stesso come sole
degne di sé. nel Gesuita e nella Protologia), in pagine che il Levi
non anteporrebbe di certo né pur a quelle dello Zibaldone. L vero
che « nei sistemi filosofici le parti più caduche sono spesso quelle
dovute alle esigenze di sistema ». Ma ciò non dimostra che la filosofia
non è sistema, anzi dimostra che è: perché gli errori di questo genere non
si scoiarono dal critico se non come errori della costruzione del
sistema, ossia come divergenze dalla costruzione che, secondo lui,
sarebbe più conforme alle verità fondamen¬ tali intuite d<al filosofo.
E se U critico non rifacesse per suo conto la costruzione del sistema,
non avrebbe modo di discernere nel sistema criticato il vero dal falso,
nato dunque non dal sistema, ma dal falso sistema. Giacché un
giudizio che affermasse immediatamente : questo è vero, e questo è falso,
senza dimostrazione di sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio
per davvero. E vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero
non è privilegio dei filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi
s’intende i filosofi storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc.,
e per poeti quelli che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante,
Shakespeare, ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos
intra muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie rotte nel sistema,
ce n’ è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e dall’altra. Ma noi non
possiamo parlare di Omero poeta e di Platone filosofo senza un
concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia:
le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la storia, che è la
concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla
filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono assegnare
caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto
tale non sarà della filosofia, e per converso. Nella storia tutte
le funzioni concorrono in un’unità concreta, in cui il poeta, essendo
anche filosofo, partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e
il filosofo, essendo pure poeta, partecipa del carattere dello
spirito che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle
funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della
storia, che fa essa stessa la divisione dei grandi spiriti nelle due
schiere dei poeti e dei filosofi, secondo che negli uni prevale il
momento poetico e negli altri il momento filosofico; onde la distinzione
e però la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni
volta, funzioni di giudizio storico, concreto. Perché il Leopardi
va considerato come poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il
Leopardi storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci
vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa,
compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha
della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che
egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo
occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per
lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo, la verità è
per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma
nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica. Beninteso
che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure un
concetto, che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente
alla logicità dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci
sono principii astratti ed estrastorici che possano segnare a priori i limiti
della filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non
toglie che la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e
che non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a volta,
il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es- senziaU ed
assolute. Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme è in
fondo una sola, grandezza morale ed umana; e se è suprema esigenza etica
che la nostra vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo
nei poeti, di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di
più che la passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare
e cercare un’attività etica con un suo senso determinato e costante ».
Ond’egli si propone di cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie
egli giunse alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬
giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬ verso Ebbene,
tutto questo è molto vago perché possa servire di criterio alla storia
del pensiero di un poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una
sola soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le
differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è
in fondo venga su, e si manifesti, e assuma così una forma storica
determinata. E se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia
azione, posto, com’ è necessario, che le suddette forme della I
grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più d’una, oltre la
suprema esigenza etica, ci saranno (dato pure c non concesso che questa
sia la radice di tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita
sia poesia, e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci
riflette bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la
sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento
dell’uomo di fronte all’universo : poiché; quest’atteggiamento o è un pensiero,
o l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una filosofia, non
può non essere anche una poesia. In realtà, quel che cerca il Levi nel
poeta, non è la ! soddisfazione di una esigenza etica, bensì una
metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o del
regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa
mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del
valore poetico e del valore del contenuto filosofico della poesia, egli
non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro, il problema dei
rapporti tra arte e filosofia, e non mira quasi mai al giudizio estetico
dell’arte leopardiana; ma si restringe a tracciare la linea di
svolgimento del pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia assunto
la sua forma finale in una specie di individualismo romantico
corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò bensì che la
distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire nel pensiero
dell’autore appunto pel concetto meramente estetico, più che etico, di
questa filosofia romantica a cui egli aderisce: quantunque pur in questo
concetto la differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza,
qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa sistematicità, che è
necessaria anche a una filosofia individualistica. Il risultato
degli studi del Levi, in breve, è questo. Nel pensiero del Leopardi
si devono distinguere due periodi; uno come di distruzione e dissoluzione
dell’uomo, l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo
stesso; il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !
mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo periodo, e si
aderge in tutta la sua grandezza, che è la j sua stessa infeUcità, o piuttosto
la coscienza della sua p infelicità. 11 primo periodo terminerebbe verso
la fine | del 1823, e sarebbe rappresentato, sostanzialmente, dallo
1 Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a poco, nel J gennaio
1824, quando il Leopardi pose mano alle Operette morali', a proposito delle
quali il Levi scrive giusta- # mente ; « Fa onore al buon gusto e al
senso critico del 1 Leopardi l’aver lasciato da parte tutto quello ch’egU
l sentiva estremamente ipotetico nelle sue teorie inrorno jS alla
storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa natura, ?. e l’aver
esposto definitivamente per il pubblico solo il nocciolo essenziale dei suoi
pensieri intorno alla virtù e alla felicità umana. Insomma, anche pel
Levi, lo Zibaldone è il periodo jelle indagini e dei tentativi (de’ suoi
sette volumi i primi sei giungono al 23 aprile 1824): il periodo, in
cui il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora non si ritrova qual
era nella sua giovinezza e all’ inizio del suo speculare: «pieno d’ardore
per la virtù, e assetato di felicità, di bellezza e di grandezza ». La
riflessione, in questo periodo, che comincia intorno al ’20, si
stringe addosso a quest’ ideali, che erano la vita dello spirito
leopardiano; e non riesce a giustificarli, anzi h corrode e distrugge.
Che cosa è il bello ? e il bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal
sensismo, che negava lo spirito e non vedeva altro che la natura, tutti i
valori dello spirito si dileguano facilmente dagli occhi del
giovane pensatore, poiché perdono tutti la loro assolutezza, la
loro apriorità. Ma da ultimo la vita stessa, che prende in lui il dolore
di questo dileguo di tutti gl’ ideah, si desta nell'esser suo di
coscienza, e prorompe in una espressione ingenua della verità
disconosciuta: espressione, che ferma giustamente l’attenzione del Levi;
e giustamente gli fa segnare questo momento come principio d’un nuovo
periodo dello svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere
interpretata alla stregua del difettoso concetto che egli ha delle
attinenze della poesia con la filosofia, e a far deviare quindi tutta la
sua interpretazione del secondo periodo. 11 Leopardi, il 27
novembre 1823, scriveva nel suo Diario : « Bisogna accuratamente
distinguere la forza dciranima dalla forza del corpo. L’amor proprio
risiede neH’animo. L’uomo è tanto più infelice generalmente quanto
è più forte e viva in lui quella parte che si chiama Storia,
anima. Che la parte detta corporale sia più forte, ciò per se medesimo
non fa ch’egli sia più infelice, né accresce il suo amor proprio. Nel totale e
sotto il più dei rispetti [l’infelicità e l’amor proprio] sono in
ragione inversa della forza propriamente corporale.... La vita è il
sentimento dell’esistenza. La materia (cioè quella parte delle cose e
dell’uomo che noi più pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il
materiale non può esser vivo e non ha che far colla vita, ma
solamente coll’esistenza, la quale, considerata senza vita, non è
capace di amor proprio, né d’ infelicità. Quello che in questo luogo il
Leopardi chiama sen¬ timento vitale, o vita», avverte esattamente il
T.evi, « è manifestamente la coscienza ». Ma continua : Di
qui innanzi egli negherà ancora in astratto la nozione metafisica dello spirito
(al che egli ha avuto cura di tenersi aperta la strada colle
circonlocuzioni quella parte dell’uomo che noi chiamiamo spirituale ’
e ' quella parte delle cose e dell’uomo che noi più peculiarmente
chiamiamo materia'). A questo lo movevano il suo bisogno di concretezza,
e l’avversione a tutto 1 accattato e il falso ch’ei sentiva negli
entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma, praticamente, rispetto a sé
e rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con suffi¬ ciente
sicurezza la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della
sua dignità». Ora qui è il piincipio del maggiore equivoco, in cui si
dibatte poi il Levi in tutta la sua interpretazione del Leopardi. Nel
luogo citato del Diario c’ è la coscienza della vita, ma non c è la
coscienza (il concetto) di questa coscienza; il Leopardi sente la
pro¬ pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli esseri inferiori,
e la propria grandezza come Leopardi sugli uomini comuni, come potenza di
essere infehce. ma non pone mente che egli è grande, non perché infelice,
ma perché conscio della sua infelicità ; cioè non vede 1 esser cuo
nella coscienza che si eleva al di sopra del dolore, e lo impietra,
nell’arte; e però non si può a niun patto asserire che possegga la
nozione della propria natura spirituale e della propria dignità di contro alla
natura. Infatti il possederla praticamente (e soltanto praticamente)
come vuole il Levi, che significa se non che non la pos¬ siede come
nozione, bensì con quella immediatezza onde 10 spirito ha,
qualunque sistema si professi, coscienza di sé ? Che se egli ne
raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto della sua poesia
(attualità reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché sarebbe
risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od oggetto dello
spirito consapevole della propria vittoria sulla natura, come opposizione
e limite dello spirito, e quindi sorgente dell’ infelicità.
Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col con¬ cetto del
valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬ fonda ripugnanza che
prova il L., pur quando intravvede nella vivacità stessa della sua
spiritualità l’essenza propria del reale, che è sentimento,
com’egli s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà che
non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui si chiude e
fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni « quella parte
dell’uomo che noi chiamiamo spirituale » ecc. ; circonlocuzioni, che sono la
patente documentazione del fatto, che il Leopardi non si solleva al
concetto dell’essenza dello spirito. Che se questo concetto si fosse
rivelato comunque alla sua mente, con tutta la sua « avversione
all’accattato e al falso che ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici
dei romantici », con tutto « il suo bisogno di concretezza », come
avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e non vedere che 11
sentimento dell’esistenza, non essendo materia..., non è materia, e che
la presunta concretezza della materia come tale non è altro che
un’astrazione, dal momento che essa non ci può esser nota altrimenti che
pel sentimento che ne ha il vivente? Orbene questa contraddizione
intrinseca tra il sentimento, non elevato a concetto, dell’umana grandezza,
e il concetto (contenuto della poesia leopardiana) della nullità
dell’uomo di fronte alla natura e quindi della fatalità assoluta del dolore,
questa è la grande situazione poetica di L. rappresentata così
splendidamente dal De Sanctis nel saggio su Schopenhauer: L. produce l’effetto contrario a quello che
si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non
crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la
gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non
puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che
non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non abbi ad arrossire
al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede
possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno
un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso
concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la onora e la
nobilita ». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo concetto
e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua poesia: ma non
perviene mai a distinta coscienza degli opposti motivi che vi concorrono
senza scoppiare dentro il contenuto (astrattamente considerato come
filosofia) in manifesta contraddizione logica, come avviene nella
Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so. Certo, la forma
leopardiana si regge sull’equilibrio di questi opposti motivi, che sono
la personalità del poeta e il suo mondo pessimistico: equilibrio che si
mantiene perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto di Saffo, Saggi
critici, à nel canto A Silvia, nel Canto notturno e, in modo
tipico, nei versi All' infinito, dove la personalità si dimentica
nel suo mondo, lo pervade e ne è la forma poetica : laddove, appena vi si
contrapponga, come parte di contenuto (che qui coscienza che il poeta ha
di se medesimo) accanto all'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a
spezzare l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero
poetico. Di tale contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per
interpretare il Leopardi, non vedo abbia chiara coscienza; e però scambia
la forma col contenuto dell’arte leopardiana, e vede una filosofìa (quella con
cui piace a lui d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto
l’anima, e cioè la poesia del Leopardi. Tralascio i bei
capitoli, che il Levi consacra alla storia della concezione storica del
pessimismo, quale si disegna già nella critica dello Stato e della
civiltà, della scienza e della filosofia e nella teoria delle illusioni
attraverso 10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua
espressione nei primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A
un vincitore nel pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo, Alla
primavera e Inno ai Patriarchi. ’E vengo al secondo periodo. 11 Levi
studia gl’ indizi della coscienza che il Leopardi comincia ad acquistare
della propria grandezza dopo la dimora che fa in Roma: coscienza
culminante da ultimo, in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggiormente
dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, che il poter
l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua
piccolezza.... E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale
sopra tutti gli esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più capaci della
conoscenza, e del sentimento della propria piccolezza » ». Quindi
s’inizia il secondo periodo, il cui Zibald.] pensiero il Levi vede
maturarsi tutto nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della
Natura e di un'Anima, Dialogo della Natura e di un Islandese, Frammento
apocrifo di Stratone) e nelle note sincrone dello Zibaldone. In questo
secondo periodo dall’uomo L. ritrae la causa del dolore universale
nella natura; alla concezione storica del pessimismo sottentra quella cosmica;
ma di fronte alla natura ineso¬ rabile artefice del nostro doloroso
destino e imperscrutabile prosecutricc di fini divergenti dai fini
dell’uomo s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:
dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo, e pur creatore
del suo valore nel virile disdegno d’ogni illusione, nella magnanima
sfida al Potere ascoso: nel¬ l’affermazione, insomma, di sé come
coscienza del dolore. Onde il Leopardi acquista una serenità, una
sicurezza ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima
sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo. Questo mi
pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione del Levi, il suo modo
d’intendere questa forma suprema dello spirito leopardiano.
Ma contro questa interpretazione vedo due princijiali difficoltà,
la prima delle quali confesso di proporre con qualche esitazione, perché
non sono sicuro di cogliere interamente il pensiero del Levi. Ed è che
non vedo i documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che
riguarda l’individualità dell’uomo, che in questo secondo periodo
starebbe di contro alla natura. Nell’allegoria dell’Amore, alla fine
della Storia del genere umano, la designazione dei « cuori più teneri e più
gentiU, delle persone più generose e magnanime », che vengono a provare «
piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine », comprende bensì il
L., anzi rappresenta soltanto il L.: ma non come individuo che crea se
stesso, col suo valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo.
che può nello spirito vincere l’avversa natura e toccare (juindi
la beatitudine da questa contesagli ; ma è l’im- niediata condizione
spirituale del Poeta, la cui serenità estetica si diffonde per tutta la
Storia e ne placa il dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle
illusioni, e di ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla
natura dell’universo, e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della
beatitudine che spira intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non
v’ è giustificazione, né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a
quello si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già
segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per
questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere
vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è
l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come
concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si
diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il
contenuto, la filosofia, del pensiero leopardiano. Altrettanto,
mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella individualità che il
Levi vede nelle varie prose al di sopra del pessimismo cosmico, fino a
Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il
capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri
uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto negazione: E ardisco
desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e
con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata
al mondo se non da pochissimi. In altri tempi ho invidiato....
quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e volentieri mi
sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio più né stolti né
savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi cambierei. In secondo
luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti si manifesti la
vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà farsi una
caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta, per
esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che
guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato indegno;
e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge magnanimo
contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della propria grandezza al di
sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del cieco dispensator
dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo periodo,
cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e suggestivo studio del
Levi, la poesia leopardiana sia più d’una volta tormentata affinché
risponda docilmente ai preconcetti filosofici costruttivi dell'autore.
Nel Risorgi¬ mento sarebbe celebrata « con gioconda sicurezza la
superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su tutto, e la forza
invitta con cui l’io profondo si afferma, non ostante la contraddizione
di tutto l’universo ». Ma, se il Leopardi canta: Proprii mi
diede i palpiti Natura, e i dolci inganni; Sopire in me gli
affanni L’ingenita virtù. Non l’annullàr, non vinsela
Il fato e la sventura; Non con la vista impura L'infausta
verità. Pur sento in me rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E
de’ suoi proprii moti Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione
della poesia è in questo mera- vigharsi dell’animo di fronte al
risorgimento dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto
perché tale. j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità
della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza, perché
meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia, questo stupore innanzi
al subito rianimarsi del mondo al risorgere del vecchio cuore, la poesia
è svanita. Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se stesso,
secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,
disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬ soluta solitudine
della sua grandezza » ; e cita i versi; Non vai cosa nessuna I moti
tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e noia La vita,
altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma dov’ è qui la solitudine
della grandezza, se il Leo¬ pardi vi nega ogni finalità ai moti stessi
del cuore, se cioè non crede che il cuore possa aspirare a nulla, e
tutti i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco sotto r
immane fatalità ? Infine : « La Ginestra », dice il Levi, « è da
taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo conte¬
nuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me sembra una
cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura, onde il
poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’ interrompere
la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti in
versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’
immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la
straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬ viane. La bellezza di
questa nasce da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva :
e questa è l’in¬ tensità tragica del pensiero universale simboleggiato,
e la potenza di una personalità, che si colloca di fronte alla
natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene
opprimere ». Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa grande per la
cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la poesia con pagine di
ragionamenti. Se vi sono ragiona¬ menti che interrompono davvero la
poesia, il Leopardi, mi pare, sarebbe stato più grande non interrompendo
la sua poesia; dato che la grandezza della poesia non possa essere
altro die il carattere eccellente di una poesia, tanto più poetica, di
certo, quanto più ò fusa e una, e tutta poetica. Vero è che soltanto la
retorica può persua¬ dere ad esaltare la Ginestra per il suo contenuto
morale; poiché questa parte appunto (oltre che la polemica contro
la filosofia e contro Mamiani ROVERE (si veda)) è quella in cui è
compromesso l’equilibrio lirico della poesia; ma mi pare anche un errore
staccare la bellezza delle meditazioni sul contrasto tra la grandezza
sterminata dell’universo e la piccolezza deU’uomo, o ciucila della
descrizione dell’eruzione, dall’organismo, dalla vita di tutta la
])oesia, dove é la vera e sola bellezza, da cui le altre particolari sono
irradiate: e che è, credo, la bellezza della ginestra, del fior gentile,
immagine del Leo¬ pardi, che, mentre tutto intorno una mina
involve, al cielo Di dolcis.simo odor manda un
profumo. Che il deserto consola: l'espressione più
delicata della divina poesia leojìardiana. E dove il Levi afferma con
intenzione, che la bellezza non so se della descrizione delle eruzioni
vesuviane o se di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta
che non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina
estetica, che dice altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra
di non aver forse compreso che s’intende in questa dottrina per
espressione : perché l’intensità tragica che egli vi contrappone non è niente
di diverso dalla espressione, se di questa intensità tragica
intende parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché
l’espres¬ sione va cercata nell’atteggiamento individuale che lo
spirito assume di fronte a una certa materia, e questa, quindi, in
lui. Ma c’ è poi quella personalità, che si colloca di fronte
alla natura senza lasciarsene opprimere? Qui sarebbe il proprio della
interpretazione del Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma
la ginestra non supplica semplicemente perché, più saggia
dell’uomo, non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph-
cherebbe indarno al futuro oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui,
l’individuo che si contrappone alla crudel possanza, ma la serenità
pacata della coscienza della sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio
antico, più che affermazione romantica dell’umana personalità.
In conchiusione, anche al nuovo schema filosofico la poesia
leopardiana si sottrae e repugna, per richiudersi sempre ostinata nella
naturai veste del suo pathos lirico. ^l//o scritto precedente il
prof. Levi rispose con alcune osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato
con la seguente lettera: Egregio Professore, Mi par difficile
discutere delle interpretazioni parti¬ colari di questa o quella poesia o
altro documento del pensiero leopardiano senza rimettere in discussione
il concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro. Perché
le mie osservazioni singole non miravano a con¬ futare singole opinioni e
determinati giudizi, né a mostrare piccole infedeltà ed inesattezze, sì bene a
far vedere in atto r illegittimità del criterio fondamentale con cui
aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito leo- [Si possono leggere
nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta che Ella dà a talune
delle mie critiche particolari, mi pare si sia lasciato sfuggire r
intento generale e il significato complessivo del mio articolo. Per
esempio, perché, pur consentendo che nel luogo citato dello Zibaldone con
vita o sentimento dell’esistenza H L. intenda la coscienza,
10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il concetto, della
coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale, in quanto parte di
una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella aveva bisogno per
cominciare a vedere nel Leopardi la filosofia individualistica, in cui
Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia leopardiana. Con ciò
io non dovevo attribuire al L. soltanto 11 possesso immediato della
coscienza (com’Ella mi fa dire), che sarebbe stato invero troppo poco: ma
solo un senso vago o, se vuole, una nozione imperfetta, o magari un
concetto, che però non era un vero concetto, della coscienza. Il Leoparch
insomma vede lì la coscienza, ma non la pensa; sicché per lui pensatore
questa coscienza è come se non fosse ; e non può dirsi perciò, che «
praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con sufficiente sicurezza la nozione di ciò che in esso è di
natura spirituale e della sua dignità ». Il senso della spiritualità e
della dignità spirituale di sé e dell’uomo in generale sì; e questo
appunto io dicevo essere non il contenuto (la filosofia, il concetto)
della poesia leopardiana, ma la forma (la poesia, la lirica,
l’espressione della personalità del poeta, superiore alla sua
filosofia). Così, sarà verissimo che il Leopardi si creda
infelice perché grande, piuttosto che grande jierché infelice. Ma
questo non ha che vedere con la mia osservazione che, se egli avesse
avuto il concetto della coscienza, avrebbe veduto la propria grandezza in
un grado spirituale che è al di sopra del dolore e della infelicità.
La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la coscienza
vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia del
dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e visione sub specie
aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il soggetto. Nel
Dialogo della Natura e di un Anima il Leopardi, phi che far dipendere
l’infe¬ licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra.
L’Anima domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬ naria
sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le
potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle
anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i
generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi
il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione
della loro vita; la qual cosa im¬ porta maggior sentimento dell’
infelicità propria ; che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove
è chiaro che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè
eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale in quanto è
sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui intensione consiste
l’eccellenza dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare
la propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non
avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la
nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma
quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i «
mag¬ giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi
annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori,
e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella
al mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è
quel dolore impietrato, di cui io parlavo come dell’unica forma possibile
del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza,
e quindi di quella vita del dolore che non è più dolore nella vita
dello spirito il Leopardi non ha coscienza. E però il contrasto
interiore che io vedo nella poesia del Leopardi è identico a quello che
ci vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me, rappresentato
da un solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della
personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni
sostanzialità spirituale, propria del con¬ tenuto della sua poesia.
Del Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto che il primo
periodo citato da me sia; E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole
precedenti erano state pur da me riferite immediatamente prima fino
a Tristano che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il
capo al destino, né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini » Ma
queste parole non potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui
confluisce il pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il
Dia¬ logo, una negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non
soltanto, come Ella dice, della propria per¬ sona empirica; perché la
morte, pel Leopardi, non di¬ strugge soltanto la persona empirica, ma
tutto l’essere dell’ mdividuo. Mi piace ricordare la felice
osservazione di Sanctis {Studio sul Leopardi). Leopardi ha la forza di
sottoporrei il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e
generalizzarlo, e fab¬ bricarvi su uno stato conforme del genere umano.
Ed aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini
e melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il
.suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e
immaginare] Bruto e Saffo, non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se
ci sono stati momenti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più
felice del poeta o del filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima,
attirata nella contemplazione, esaltata dalla ispirazione, ride negli
occhi, illumina la faccia. Quanto alla differenza di disposizione
spirituale tra ;j pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino
e Porfirio o VAmore e morte, dove si anela alla morte, ma la si
attende serenamente, deposto ogni disperato pen¬ siero di suicidio, non
occorre negarla per non vedere né anche nei componimenti più tardi quella
coscienza jel valore della propria individualità, che Ella ci vede.
^'el detto Dialogo non si cela, almeno io non riesco a scorgere, « quella
robusta fede nella grandezza umana, riconosciuta possibile sempre, perché
bastevole a se stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si
dice che «la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in
quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di
lasciarla. E, se non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è nelle
ragioni della tollerabilità della vita, per misera che sia: le quali
ragioni sono bensì la critica del pessimismo materialistico del
Leopardi, ma restano nella forma di sentimento, bastevole a conferire al
dialogo quell’ intonazione affettuosa che gli è propria, e sono veramente
l’opposto di quella affermazione dell’ individualità dello spirito, di
cui si va in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione e
della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; 0 non essere
atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di
barbaro. Non far ninna stima di addolorare colla uccisione propria gli
amici e i do¬ mestici; è di non curante d’altrui, e di troppo
curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso
non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità
propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e
tutto il genere umano; tanto che in questa azione del privarsi di vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e
men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo. Se
prendessimo atto di questa critica del suicidio — che. risolvendosi in
una serie di asserzioni, vale certo come effusione di stati immediati
deU’animo, ma non come filosofìa che filosofia diverrebbe questa del
Poeta che ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo
sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo all’uomo non si
rappresenti se non nella breve sfera del piacere e del dolore suo
individuale ? Ma, d’altra parte, senza questa contraddizione interna tra
la filosofia dominante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta è
avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr. la Ginestra) e
che pervade tutta la conversazione intima di Plotino con Porfirio, dove
se n’andrebbe la poesia del commovente dialogo ? Nell’
intendere come ho inteso il Risorgimento posso sbagliarmi; e la sicurezza
con cui Ella crede si debba intendere altrimenti, mi fa dubitare forte
del mio giu¬ dizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto
persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle domande: «Chi
dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta ? Che virtù nova è questa ? Chi
mi ridona il piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ; Da te,
mio cor, quest’ultimo Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto
mio Solo da te mi vien; ed è vero che nella quartina
precedente l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa
risposta è la soluzione del problema, in cui consiste la poesia :
l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vecchio cuore. E quindi il
sentimento che regge tutta la poesia mi pare la meraviglia. Ragione,
invece. Ella ha certamente nel correggere il significato da me attribuito
In un periodo ora non più ristampato dello scritto precedente. agli ultimi
versi del canto A se siesso; ma pur dopo la correzione, il significato
del canto non è punto favorevole alla tesi dell’affermazione della propria
grandezza, gi a quella del grido della disperazione, comune a quasi
tutta la poesia leopardiana. E nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei
richia- luato, della personahtà del Poeta che non si lascia opprimere
dalla crudel possanza della natura ? Ma bisogna vedere quanto questo
motivo sia attenuato qui dall’umile coscienza delle proprie sorti («che
con franca hngua. Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso
stato e frale...; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le
stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito e sciolto
nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli uomini fra sé confederati,
e nella poesia consolatrice che, commiserando i danni altrui, manda al
cielo, come la ginestra, un profumo di dolcissimo amore, che
consola il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo
innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno
codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla
alla gentilezza del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati
amante, né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente
cantata da L. Certamente, tutte queste cose meriterebbero di essere
chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬ diani; e io
voglio sperare che questa discussione possa invogliar Lei, che ha
studiato tutte le cose del nostro grande Poeta con tanto acume e con
tanto amore, a non staccarsene senza prima avervi gittate su la luce
di nuove ricerche. Maestro di vita L.? Bertacchi > si è
proposto appunto di « raccogliere dagli scritti di Giacomo Leopardi e di
comporre in multiforme unità gli elementi dell’opera sua nei quali
parlino più alto le feconde ragioni della vita»: «quanto di sereno o di
mcn ; triste ricorre neUe pagine del Nostro; quanto di attivo e di
energico, pur nello stesso dolore, risulta dal senti- j mento, e
dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar, ^ se pos’sibUe, la figura
del grande Scrittore ». Per dire la ' cosa più semplicemente e chiaramente,
egli intende illu- | j strare tutti gli elementi ottimistici propri della
poesia .‘1 leopardiana. 1; Elementi che non mancano certamente
nella detta 'i poesia; e costituiscono la singolare caratteristica del
suo j pessimismo, come già osservava sessant’anm fa il De San- '
ctis nel suo dialogo sullo Schopenhauer (dopo che allo stesso concetto
aveva accennato un ventennio prima Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta
inedita);, e conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de-
I solato pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. E molti studi
diligentissimi furono fatti in questo senso i da Negri, nelle sue
Divagazioni, che pare siano t rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è
ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J
direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il, carattere
dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l timismo edonistico od
estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un
rft vita-. Sag^o leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna,
/a nichelli, igi?- stratto e superficiale può vedere in alcuni
aspetti della sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi
è la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della
lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama,
a cui non trova posto nel mondo, guardato come cieco crudele meccanismo
naturale; ma che non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più
vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo
purificato e rasserenato in questa intuizione schiettamente
spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il suo proprio
particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica della vita
dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il contenuto.
In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito buono
che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la
radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender
la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due
elementi contradittorii. 11 Bertacchi invece crede di poter quasi
cogliere in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬
lezze naturali (poiché in questa prima parte egli studia il Poeta in
rapporto con la natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti una sensazione
di letizia; per modo che, contro r intenzione del Poeta, la sua poesia
tratto tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata
dal¬ l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia una
fonte di dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe attingere.
Poiché, per lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il sereno di
natura; vita ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa », e poi
« l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impre¬
gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o contrasti essa con
noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti e di modi,
circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso sensibile le
conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi » ecc., e il Poeta
studiato « ne’ suoi fedeli commerci con la natura esteriore »
apparirebbe maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a fecondarsi
d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia e ingrandisce e
abbellisce con la sua fantasia. Insomma la vita di cui sarebbe maestro il
Leopardi è una vita di piacere | del piacere procurato dalla intuizione
estetica della natura. Tesi in parte ingenua e oziosa, in parte
falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il Leopardi insegna a
guardare esteticamente la natura e in generale a dar vita estetica al
mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma così del Leopardi come, più
o meno, di ogni grande poeta; e non c’ è nessun bisogno di dimostrare
questa tautologia, che un’opera d’arte, qualunque essa sia, è
rappresenta¬ zione estetica; e quel che può avere un interesse e un
significato, è dimostrare nel caso particolare in che modo un artista
rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in più la pretesa
d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico della bella natura
una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta: quasi che
questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1 altra
squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne accorgesse,
fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa s’effondesse
sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e giustificabile soltanto
col criterio dal Bertacchi candidamente esposto fin dalla prima pagina
del suo libro, come norma fondamentale del suo metodo critico.
Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza che l’opera d’uno
scrittore non valga solo per sé, ma anche per il modo diverso ond’essa,
quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché « spesso dalla parola d’un
autore, acco- r stata alle anime nostre, si svolgono sensi
ulteriori che l’autore non previde, ma che le affinità degli spiriti e
le somiglianze dei casi vi sanno naturalmente ritrovare. Il creatore è
creato a sua volta, è rinnovato via via di significazioni e di uffici ».
Sicché L. maestro di vita è il L. dei sensi ulteriori e non il L.
storico; L. creato più che il creatore: creato, s’intende, in questo
caso, dal Bertacchi. 11 quale, una volta sul punto di creare, non è più
legato da nessuno dei vincoli onde ogni critico e storico è legato alle
opere che intende interpretare; e può scegliere tra gli scritti
leopardiani quelli soli o di alcuni di essi quelle parti soltanto, in cui
meglio può vedere adombrata l’imma- I gine del maestro di vita che
desidera raffigurare. Così comincerà con lo scartare le prose ;
perché « nella voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore
sinistro svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio di
aggiungervi nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ; «egh non
suscita in noi altro moto che non sia d’atten¬ zione a quella sua logica
amara ». E il Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del Leopardi, e
non c’ è la na¬ tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il
che non è poi vero, se si considerano almeno la Storia del genere
umano, il Dialogo della Natura e di un Islandese, La Scommessa di
Prometeo e V Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette morali sono
filosofia e non poesia. Da scartare poi le poesie in cui il Poeta
«trasferisce nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior
seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar musicale, dalle pur
rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con questi caratteri
il Bertacchi non si perita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli, la
Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.
Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella donna ;
definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » !
Scartate, almeno questa volta, le poesie in cui il Leopardi parla bensì
diretto al nostro cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma cantando
se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna ogni elemento esteriore :
giacché « chi legge, anche in tal caso, è legato alla parola del poeta, e
solo la rielabora in sé in quanto essa gli desti nel cuore un moto di
passioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso ». Da
escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento di ALIGHIERI, Ad
.-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vinci¬ tore nel pallone) ; sempre
per lo stesso motivo, che « si resta, sebbene con ampiezza maggiore nell’ordine voluto dal poeta ». Restano
le altre poesie, dove il Leopardi « canta all’aperto » ed effonde il canto
dell’anima al cospetto della natura: «vive con la natura, o almeno,
nella natura. E questa natura, poi, è quasi sempre serena ». Qui il
])oeta Bertacchi, creatore del creatore, può spaziare a suo agio nel
vasto cielo dei sensi ulteriori. Ecco; 1 paesaggi campestri, le scene
umili o grandi in cui si veniva a comporre l’anima del dolente
poeta, sono sempre evocati nei loro aspetti più belli ; soleggiati sono i
suoi giorni; le sue notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che
appar malinconica in un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un
altro, riappare in Vita solitaria con fresca dolcezza mattutina,
attraversata dal sole che entro vi trema sorgendo». E questa presenza
della natura « non è senza effetto per noi ». Creare qui si può. « Egli,
il poeta, potrà bene, contro ogni serena bellezza, accampar le sue tristi
fortune, o le innate sventure di tutto il genere umano, o l’arcano
terribile dell’esistenza; noi potremmo bene, com’ei vuole, seguirlo nei
suoi tristi argomenti, veder quella bella natura velarsi del dolore di
lui, sentir vivo il contrasto che si agita tra quel poeta e quel mondo:
ma, poi, non possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel
sereno che egli evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi
quasi a sé, quasi distinto dai sensi che il poeta vi associa,
congiungendosi, anzi, dentro di noi con quante visioni di giorni dorati e
di pure notti profonde vi si raccolsero negli anni ». Che sarà anche,
come si sarà avver- t^ito, neh’ onda del verso — una poesia
bertacchiana, un senso ulteriore, che L. non ci mise (come ALIGHIERI
(vedasi) della novella sacchettiana), ma non ha più niente che vedere
colla poesia del L. E dove pare si accenni a un giudizio critico, non può
essere altro che una vaga e soggettiva impressione priva d’ogni
valore. Così il Bertacchi ci dirà che nel Sabato del
villaggio e nella Quiete dopo la tempesta « il poeta ha compromesso
il filosofo versandoci con troppa pienezza nel cuore tutta la poesia
soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle ore descritteci. Che, come
giudizio, è un errore, perché tutta quella poesia traboccante è l’incarnazione
deU’ idea stessa del filosofo, che nel Sabato non si esibisce già nella
sentenza finale (« Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme
e di gioia; Diman tristezza e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta
la rappresentazione precedente: dove tutta la gioia è la gioia
d’una speranza guardata coi mesti occhi della provata delusione: è la soavità
della fanciullezza ma non quale la sente il fanciullo, bensì come la
rimpiange l’uomo già esperto della vita, in cui ad una ad una si son dileguate
le speranze lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere questa
pietosa malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già dalla
malinconica donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar del
sole, cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un
dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano al
filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1
altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza,
la¬ sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a
queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una sospensione fluttuante, nella
quale diresti che il poeta sia perplesso sul proprio stato » >. Ora,
il breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma esprime nettissimamente
il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare l’età del proprio
dolore; il grato «rimembrar delle passate cose, ancor che triste, e che
l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua soltanto agli occhi di chi
non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema (neU’anima, s’intende, del
poeta, e quindi in ogni parte della sua poesia) tra la fresca c
solenne beUezza della natura e il sospirante solingo muto, che non trova
in essa pietà (« E tu pur volgi Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le
sciagure e gh affanni, alla reina FeUcità servi, o natura »).
Ma in tutto il volumetto non si trova una pagina in cui
propriamente il Bertacchi affisi la poesia del L. invece di vagare nei suoi
cari sensi ulteriori. Dei quali a volte sente come il bisogno di
scusarsi, dicendo per esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito
col poeta, «poi è naturale, è umano che noi, da parte nostra, riviviamo
tutti quei sensi di vita che, sia pure a cagione di rimpianto, quivi il
poeta rievoca; che essi nell’anima nostra, non afflitta da quelle
cagioni, lascino pure qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le
stelle dell Orsa e le lucciole del giardino e il canto della rana remota
e j viah odorati e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come
sorte da noi, alle sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»».
Umano, troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà
poesia sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità,
non so vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del
Ber- tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed a noi, godendo
e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della
complessa sua opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa
di vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne siano gli
aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui,
che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle
mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi
la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura
d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e
aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la
giovinezza dei popoli ». «Momenti e motivi reali, più che di pura idea,
sono que’ tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi di
canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad avvolgere in aura
di poesia i temi son temi e temi che, comunque, ci attestano come la
stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio
indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri »
». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama
troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori
gli soccorrono più lenti alla fantasia. Ecco, per un esempio, la chiusa d’un
capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi
liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle notti
medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di noi certamente, in
qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi
in cuore un’eco di quei canti stellati, e ripensando al poeta
congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli
è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di oratoria
ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui non
direi che sia ricreato i] L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio
che quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze
ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture
leopardiane che il Comitato della Dante Alighieri di Macerata istituì nel
1927 presso quella Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne
pronunaiato; quindi pubblicato nella Nuova Antologia. A inaugurare oggi in
Italia un corso perpetuo di letture leopardiane c’ è da essere assaliti
da un certo sgomento, per la responsabilità che si assume. E ciò
per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si rajjpresenta
generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una cattedra a
illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere perciò
tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire a
vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬ cismo e di
allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie forze
e ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere. Oggi
sopra tutto, che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di
grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare
nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione
della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del
carattere nazionale. E sarebbe questo il momento di diffondere nei
giovani e nel popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui
poesia non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di
questa vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?
Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non
turba tanto l’animo mio quanto l’altro che vi si aggiunge a far temere un
pericolo nella istitu¬ zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia
anche una elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene
che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e
lungi dallo spegnere, ha infiam¬ mato nei cuori la fede nella vita, nella
virtù e negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl
individui e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già
altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬ mento di letture pel pubbhco,
diventi anche lui materia di quel malfamato genere letterario che troppo
è stato coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi
delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto il suo tempo, e
potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬ tudini dell’anteguerra.
Giacché bisogna che gl’ Italiani si persuadano che, se si vuol far
davvero, e stare tra le grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio,
temibile, realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla
testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e morale, bisogna
romperla col passato. Dico col jiassato dell’accademia e della «letteratura»,
dei sonetti e delle cicalate, degli eleganti ozi e trattenimenti per dame
e colti signori in cerca di onesti passatempi, più o meno noiosi;
in cui ogni argomento era buono purché leggermente, discretamente,
spiritosamente trattato, o agitato con oratoria adatta a mover gli
affetti e guadagnare gli applausi: ma in cui né dicitore mai, né
ascoltatori debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto di parlare o
di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con tutta l’anima, e a
pensare, a trarre da quel che si dice o si apiilaudisce, conseguenze che
siano norme di condotta e quasi cambiali che prima o poi scadranno e si
dovranno scontare. La conferenza, si sa, non è un discorso da comizio, in cui
oratore e pubblico, in buona fede, e anche in mala fede, compiono
un’azione e si pre¬ parano a compierne altre; e non vuol essere una
predica, che debba edificare un uditorio di fedeli. L’ ideale è che
nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi tropjio, nessuno vi si
riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno Si ge ne
torni a casa con lo stesso animo — vuoto con è venuto alla
conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani. Sorse e si
sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista venne fuori
il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapidamente per tutto il suolo
del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi strani e burleschi che
attestavano es«i stessi la frivolezza dei propositi e la
spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i si riunivano;
accademie, che pullularono in tutte le città e borghi d’ Italia
dalla nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora resistono al
sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti nioderni e alla storia,
e vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci dello Stato nelle
provincie e anche nelle maggiori città ricche di tradizioni letterarie, a
danno delie istituzioni più utili e più serie. All’ombra delle ac¬
cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana, esanime e priva d’un
profondo contenuto e interesse religioso, morale, filosofico, umano;
poesia senza ispirazione, filo¬ sofia alla moda, erudizione per l’erudizione,
scienza per la scienza, nessuna fiassione, né anche nella
letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona e la
persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui
l’uomo non era cittadino della sua patria, né padre della sua
famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito innamorato di
astratte forme, senza attinenza con la pratica della vita e con la realtà
degl’ interessi personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari
pieni zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e
raffinatezze di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né
amori. Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,
cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini proni alla
frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad ogni alto e generoso
sentimento e ad ogni idea la cui attuazione richiedesse fatica e
sforzo. Gentile, MaiXrZoni e L.. Chi non conosce queste debolezze
dello spirito italiana nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’
Italia ^ risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella
cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri ha cominciato a
sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo e che poesia, come ogni altra
forma d’ingegno, vuoi dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa
che j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra le
genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe stata una
creazione effimera ed insignificante senza gl; Italiani ? Cioè senza
Italiani che cominciassero a unire e a fondere insieme quel che avevan
sempre diviso, l’in. teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la
scienza e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola
finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica e con tutta la
vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il dire e altro è il fare »,
per cominciare a prender sul serio tutto, a lavorare tenacemente, a
sentire come proprio r interesse comune, a stringere la propria sorte a
quella della patria, a sentirla perciò questa patria come intima a
sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei si muoia ? Chi
non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori si doveva pur rifare di
dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma venuto meno
lo slancio morale di quell’età eroica, tale aspirazione si attenuò e fu
meno sentita; e nei riposati tempi di pace e di raccoglimento succeduti
al periodo agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,
certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla; nel rifiorire
della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del
secolo scorso, in cui r Italia parve godersi le prospere condizioni
acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c
arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed elegante;
e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le
conferenze prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu
imitato jn tutte le principali città, e i conferenzieri più
brillanti f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando
j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro pagine
patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva, del lor^^ pubblico
di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a certe conferenze, con
certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare pochi hanno il
coraggio. L. non può esser materia di conferenze. Vi si
ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i
luoghi solinghi e i silenzi della notte dove il suo canto possa spandersi
in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito;
dove il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a fronte
della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi segreti del suo
cuore. Vi si ribella la religiosa austerità del suo spirito tormentato
dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e
orgoglioso della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e
far suonare la sua voce esile e tremante di commozione in mezzo a
un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a cure di
frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il
Poeta, non tollereranno che anche L. venga alle mani dei pedanti, dei
letterati, dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto
di vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi che
fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla sua vita con vigilante
coscienza morale. E io inizio questo corso formulando il voto e, per
cyuanto è da me, fermando il programma, che qui sia sempre vivo e
presente L. poeta, che è il L. degli
uomini, e non Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei
pettegoli e dei perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap.
passionatissimo ; anzi, ricorderete, si rovinò la comples. sione e si
precluse la via a ogni godimento della vita per la furia con cui nella
età più giovanile si gettò sugli studi per puro amore di sapere. Per
molti anni aspirò, finché la perduta salute e la vista indebohta non gli
ebbero create difficoltà insormontabili, ad essere un filologo
consumato. Delle questioni letterarie, un tempo delizia degli accademici,
fu anche lui studiosissimo, ancorché ironicamente guardasse dall’alto,
per la coscienza che ebbe del suo più squisito gusto e della sua più
perfetta dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma la
sua anima non si chiuse né nella filologia, né nella letteratura. Se ne
servì come di strumenti a vedere e sentire più addentro nel proprio
animo, e di grado in grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la
prova più manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse
sempre raccolto e concentrato in se stesso: osservando la vita, studiando
gli uomini, speculando sulla natura e sull’anima umana, indagando i
destini dei mortali e le forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel
suo iiensiero la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il
suo pensiero è una continua, commossa meditazione su se stesso, in
forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge
agli interni occhi trepidanti. Leopardi, con diversa temperie
spirituale e cultura diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio
di quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e ne
sente il valore e la serietà; profondamente differente da quella
anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti italiani cominciarono ad
accorgersi che nella stessa poesia c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo;
l’uomo, che è legaio da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti
della sua vita a una divina realtà, governata da leggi che domano
e annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una realtà, in
cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo da cui si diparte morendo,
ma in cui deve inserire e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni
sua azione, ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o
sentimento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello jella
morte. Anche Leopardi, razionalista e irrisore di superstizioni e di
dommi, è uno spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia del
destino: incapace di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo, e
di prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è
sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato
accoramento dell’uomo che non riesce a distrarsi in vani divertimenti,
neppure nel mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto preso
dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed egli in
particolare, si sforza di vincere il dolore. Per questa sua
costituzionale religiosità Leopardi non fu soltanto un poeta, ma fu anche
un filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna
intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai
filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi
risponderanno che Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le
idee speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti
più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta
personale, perché non furono fecon¬ date da una sua speciale ispirazione.
Accettò, riecheggiò, Ria senza elaborare quel che accettò, senza svilupparlo,
ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità. In una storia
della filosofia ei perciò non può trovar posto; quantunque di lui non si
possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura filosofica
della prima metà del secolo passato. In questo senso, d’accordo, Leopardi
non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in cui si deve parlare
della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa filosofia dei
filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può interessare tutti gli
uomini, e non essere una malinconica fantasti¬ cheria di gente che viva
fuori del mondo. Ed è quello per cui c’ è la filosofia di quelli che
inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è anche la filosofia di quelh
che, senza inventarne, li cercano questi sistemi nei libri dove
sono esposti, e leggono questi libri, li studiano, ne fanno prò, li
gustano, han bisogno di farsene nutrimento e forza dello spirito, in
cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal fondo della loro
anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non saprebbero
reprimere e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori sentono il
pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa intorno a
costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza tregua
assillati. Giacché, insomma, la filo¬ sofia, come la poesia, non è
privilegio né monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in
fondo allo spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,
c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi
esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto nelle esteriorità
da non portare in tutto l’accento, per quanto leggiero, della sua
personalità; e c’ è chi si ripiega e raccoglie in sé, e dentro di sé cerca,
trova e coltiva il germe della sua vita e del suo mondo. In
questo senso più largo e fondamentale il Leopardi fu squisitamente
filosofo: e stette sempre anche lui con gli occhi intenti, ansiosi, sopra
il mistero della vita, quale ad ogni uomo che sente e che pensa esso si
presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso
agitarsi passioni svariate che gli tumultuano incessantemente pel
cuore. Giacché ogni uomo che sente, non può vivere così spensierato e
abbandonato all’ istinto da non avvertire che la sua vita non scorre tranquilla
com’acqua sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli
da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora appagati e
ondeggianti tra la speranza e il timore; e la gioia offuscata sempre dal
dolore, che, vinto, risorge in mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna
vicenda di vittorie e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e
disinganni, giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire
totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della sorgente
stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue labbra assetate; il
nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di colpirci, toghendoci per
sempre e annientando intorno a noi tante delle nostre persone care, con
cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro ci pare la morte di
una parte di noi. E che è questa morte ? e che questa vita che precipita
fatalmente nella morte ? Che è questo bisogno di cui viviamo, di
non arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad una tutte le
nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie, ci priva di tutti i
nostri beni, ci chiude dentro mille ostacoli. ci combatte, c’ insegue, ci
sbarra la via, e non ci concede tregua finché non ci abbatta per sempre ?
Nascere è entrare in una lotta, che di giorno in giorno richiede
sempre nuove e maggiori forze, e una volontà sempre più agguerrita, per
vincere una battaglia sempre più aspra. Svegliarsi ogni mattina è, presto
o tardi, pronti 0 lenti, rispondere all’appello delle cose, della natura,
del destino, che ci attende, e ci spinge a nuove fatiche per
soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno tutta la nostra giornata. Per gli
uni la vita sarà più facile, o men difficile: ma per tutti è una scala,
che bisogna salire; salire sempre; da un gradino all’altro: sempre
più senza fermarsi mai. Ma, appena l’uomo che ha un cuore,
sente quest affanno e scorge, anche da lungi, la tragedia e la
catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere se a questa lotta
ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia forz.
sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi confida a
volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per conquistarsela la
sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la vagheggia, filiera
dai mali la cui minaccia mette in moto la sua attività; e se egli non
debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima del giuoco
inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel turbine,
o ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato movimento
non s’arresterà né devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo di volontà
non può essere, esso mede¬ simo, al pari delle idee e dei sentimenti che
lo solleci¬ tano, se non un necessario effetto di una causa
necessaria predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in cui
si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa neUa sua
natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso, tutt’uno
con tutte le altre cose, anche noi mossi dalla forza irresistibile del
destino ? 0 siamo noi veramente capaci di metterci di fronte a
ciuesto mondo, modificarlo con la nostra opera, con la nostra
volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo naturale col
nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬ stro innamorato dell’ ideale,
instaurare una legge che sia la norma del bene e di un mondo spirituale
dotato di un valore assoluto ? E se non fosse possibile questo
mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male, e c è una verità
che si oppone all’errore, come si potrebbe pensare lo stesso mondo
inferiore e quella natura spietata tutta chiusa nel suo meccanismo, la cui
affermazione implica che si ritenga vera? E se a questo mondo superiore,
alla cui esistenza occorre l’attività libera dello spirito che sceglie il
bene e si apprende alla verità resping^n*^ contrario, se ne contrappone un
altro che è la nepzione della hbertà, come si farà ad ammettere che
sia libera la natura umana, circondata e condizionata da una natura che è
l’opposto della hbertà ? Pensieri, che il filosofo più esperto
mette in formule stringenti, e scruta a fondo; ma che confusamente,
e non perciò meno tormentosamente, affiorano in ogni umana
coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la fede di cui ogni
uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere. Giacché 1 uomo non dà un passo
senza credere di poterlo dare; senza pensare che c’è una mèta
innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona per giungervi.
E quando questa convinzione gli manchi, e gli manchi del tutto, allora
non gli resta che rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera Saffo. O la
fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che pensano e
sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno invece sentì mai cosi
acutamente come il nostro Leo¬ pardi. nessuno vi pensò mai con tanta
insistenza, e ne trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il
Leopardi se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un
poeta in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni
filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero al cuore, e \'i
si abbarbicarono, e furono la sua persona, lui stesso, la sua anima, 1
immediato sentimento, in cui \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La
sua concezione della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche
idee, ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma
della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in accenti e fantasmi di
poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e
del sapere speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e
si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e
far sua, e viverne anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da
sé, e mediandosi, cioè svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo
vivente della sua individualità, in guisa da parere che non senta
più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta nella
contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da
sé il soggetto, lo stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente
così come esso è, dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente
nel brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel
suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e
disindividuato. Lo scienziato cerca e trova la verità che è di tutti,
astrattamente obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di
occhi umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il
poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso: l'amore o
qual’altra passione gli detta dentro le parole in cui egli si
esjirime. In questa immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello
spirito poetico è il segreto della miracolosa potenza della poesia,
raffigurata dagli antichi nella virtù incantatrice della lira di Orfeo,
che traeva a sé e trascinava non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere
che solo sentono. Perciò la poesia, quantunque richieda anch’essa
cultura e finezza spirituale, risultato di studio e di educazione,
s’appiglia al cuore dei semplici e delle moltitudini, invade gli animi,
conquide e trae seco non per virtù di persuasivi e irresistibili
raziocinii, ma, appunto, d’un tratto, immediatamente, quasi per divino
miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù diffusiva dell’arte è senza
paragone superiore a quella della filosofia. Perciò quella
filosofia, che fu nel Leopardi sentimento e diventò sublime poesia, ha
una potenza infinitamente maggiore di qualunque più sistematica
filosofia; e se si chiudesse nel gretto circolo di una concezione
pessimistica della vita, non sarebbe, a dir vero, prudente accorgimento di
educatori del popolo italiano erigere qui una cattedra a commento ed
esaltazione di essa. I filosofi, per raggiungere la loro verità, devono
salire l’erta faticosa del monte; e giunti alla cima, vi restano per
solito in una solitudine magnanima, anche a malgrado della
moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I poeti si traggono
dietro il popolo, toccandone il cuore anche lievemente, con quella loro
arte che « tutto fa, nulla si scopre ». Leopardi è tra essi; ma materia
del suo canto è la sua filosofia. E qual è dunque il contenuto di
questa sua filosofia ? Quello che abbiamo già detto dei problemi
filosofici, che spontaneamente sorgono dal fondo del pensiero
umano, ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita intellettuale
e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei problemi martellò il
suo pensiero; e di quei problemi vagheggiò soluzioni, che scossero
profondamente il suo animo. E sono i problemi fondamentah o massimi
della filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno di
assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile per vivere: la fede
nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere, di
esercitare un suo giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi
un suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi ideali e
non dibattersi vanamente in una rete di illusioni e di sforzi infecondi.
Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬ sofia materiahstica, evidentemente,
è una filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si
risolvesse da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad
abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al
suicidio. Ora Giacomo L., ogni volta che si trovò a fare di
proposito una professione di fede, fu esplicito nel manifestare la sua
adesione alla filosofia sensualistica e materialistica; e il Frammento
apocrifo di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è
una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per altro, si
ripercuote in una buona metà de’ suoi scritti in prosa e in verso. Poiché
da per tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata
nel Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa e non
si cura dei desiderii né delle sofferenze umane; natura grande, enorme,
infinita, la quale racchiude in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che
pretende di contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla
alle proprie tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita
bella ideale, che egli si finge e pretende di far valere in concorrenza
della dura, quadrata realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che
sia, spezza ogni umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio
universale delle leggi di natura: dove non c’è bene né male, ma
tutto è necessario, tutto accade perché, data la causa che lo determina,
non può non accadere; e la stessa necessità ha ogni umano pensiero o volere,
che non deriva da un principio autonomo, che si faccia centro di
una vita superiore e indipendente, avente in sé la propria misura,
ma è effetto del generale meccanismo, che si abbatte sulla così detta
anima umana attraverso le sensazioni e gh appetiti che queste
producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è questa, in
conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a riflettere che c’ è
due modi di giungere a conclusioni ma¬ terialistiche : uno proprio degh
spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle conclusioni, vi si
rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un dovere, il cui
adempimento non costa a loro grande fatica, di accettarle senza reazione
di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che se non trovano la
via di affrancarsene, e scoprirne l’errore e la manchevolezza, ne
soffrono, e vi reagiscono contro, e vi si ribellano con tutta la forza
del loro sentimento, che ò come dire della loro stessa personalità. I
secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di quella
natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da restarvi come
assorbiti, dimenticandosi af¬ fatto di queste esigenze, e cioè della lor propria
natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce appunto da questo
stridente contrasto, di cui essi infine vengono a fare l’esperienza, e a
vivere. La realtà finale, al cui cospetto vengono a trovarsi, non è una
sola, ma duplice: da una parte, la natura disumana, in cui tutte le luci
onde s’il¬ lumina la via dello spirito si spengono; e dall’altra,
questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde dentro di loro, e alla
cui luce, infine, essi comunque guardano e vedono la prima. Giacché anche
questa è oggetto di una affermazione, in cui lo spirito umano manifesta
la fede che ha nelle proprie forze e nella propria capacità di
distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al primo in quanto esso è
opposto al secondo. La realtà che è lì di fronte allo spirito, è sì
quella realtà naturale, materiale, meccanica, chiusa e impervia ad ogni
idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di libertà; ma il contrapporsi
di essa allo spirito importa pure l’opporsi dello spirito ad essa: dello
spirito, che è una realtà dotata di attributi contrari a quelli con cui
vien pensata l’altra. E per ammettere questa, bisogna ammettere prima
quella ; senza la quale mancherebbe lo stesso pensiero, a cui si
chiede tale ammissione. E chi dice pensiero, dice libertà. Dunque ? Siamo
liberi ? Possiamo cioè col nostro pensiero, con la nostra volontà,
crearci il mondo che ci sorride alle menti innamorate; il mondo della
verità, delle cose belle e buone, a cui il nostro cuore tende con
irresistibile slancio ? E come spiegar l’ali, onde noi vorremmo
innalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se esse urtano sul muro di
bronzo di questa materiale natura, che ci attornia e stringe da tutte le parti,
dalla nascita alla morte ? Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la
sua lìlosofìa, che è molto ]ùù complessa del semjjlicismo
materialistico; ed essa è il reale contenuto della poesia
leopardiana: quella filosofia fatta sentimento e persona, che ho
detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11 quale non si
rassegna alla pura affermazione materialistica, perché la ricca e
sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la negazione del
materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni poeta crede nel
suo mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la ])rova più
luminosa della sua capacità creatrice e della sua libertà. Si consideri
che questo è uno dei caratteri principali dell’arte : che laddove l’uomo
pratico, lo scienziato, l’uomo religioso, lo stesso filosofo può sentirsi
legato a una realtà che prcesiste alla sua azione, alla sua ricerca
scientifica, alla sua preghiera o alla sua speculazione, che è in
sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo deve arren¬ dersi e
subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e, prescindendo nella sua fantasia dalla
realtà preesistente, celebra la sua assoluta libertà, arbitro della nuova
realtà che egli si finge, e in cui vive, e si aliena dal mondo naturale
dell’uomo comune e della sua stessa vita ordinaria: sì che il suo sogno
diventa a lui cosa salda, e si slarga a orizzonti infiniti, e gli fa
sentire il gusto deH’cterno e del divino. La poesia del Leopardi ribocca
e freme di tre¬ pidante tenerezza per le vaghe immagini figlie
dell’arte sua: per quelle dolci parvenze che un po’ gli sorridono e
poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla corrente di quella disumana
realtà, che ignora il dolore che essa cagiona ai cuori teneri e gentili.
E insieme con le immagini belle, gli arridono tutte quelle che una
volta egli dice le « beate larve », familiari agli uomini non ancora
giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non ancora spinti dalla
malsana riflessione alla disperazione (ji quella mezza filosofia, che è
il materialismo: le beate lar\e, che allietano e confortano la vita agli
uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della fanciullezza e
della gioventù quando non ancora si sono appressate le labbra all’amaro
calice della vita; e nelle prime ore del mattino, (juando incomincia il
giorno e Tuomo non ha riassaporato per anco la realtà, e se ne foggia con
1’ immaginazione una che lo anima e alletta alla nuova fatica. Le beate
larve delle illusioni naturali e necessarie : di tutte, cioè, le idee che
formano il pregio della vita, e che quella filosofia materialistica non
potrà giustificare come dotate di un legittimo fondamento, e pur non
potrà sradicare dallo spirito umano. Perche illusione la
virtù ? Perché illusione ogni idea onde ebbe pregio il mondo ? Perché la
vita che noi conosciamo, risponde il Leopardi, ne è la negazione.
Ricordate il dialoghetto di un venditore d’almanacchi e di un passeggere?
L’almanacco promette per l’anno nuovo tante cose belle; ma il passeggere
è scettico; «quella vita eh’ è una cosa bella non è la vita che si
conosce, ma (jueUa che non si conosce; non la vita passata, ma la vita
futura ». La quale però un giorno sarà passata, e allora si conoscerà, e
apparirà quale sarà aneli'essa, una volta sperimentata; brutta, come tutta la
vita passata. 11 futuro è il mondo che vi finge lo spirito; il mondo,
dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la virtù che vince il male e
trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per l’uomo; lì è l’amore; lì è la
fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma quello non è il mondo reale.
Infatti il futuro bisogna che avvenga, e diventi passato. La realtà
realizzata, quale noi possiamo averla innanzi a noi, ed effettivamente
conoscerla, quella ci disillude, e ci dimostra che la virtù è un nome
vano. e che tutte le più vaghe speranze e gl’ ideali più cari finiscono
nel nulla. Tant’ è che Tuomo conchiuda o per condannare come
semplici ombre fallaci tutte le illusioni, e dire che la vita non si può
governare se non in rapporto al reale all’esistente, al mondo qual è (che
è poi il passato); o per risolversi animosamente a dir no a questo
mondo reale (che è il passato senza futuro) e a governarsi con
l’occhio all’avvenire, dove lo trae la sua natura di essere pensante, e perciò
creatore di ideali e vagheggiatore di una vita superiore a quella
puramente naturale. E L. dice questo no con tutta la forza del suo animo,
con tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto proteso verso
il futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla
legge fatale che incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata
necessità di morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il brutto poter
che ascoso a comun danno impera e V infinita vanità del tutto. Per
lui Nobil natura è quella Ch’a sollevar s’ardisce Gli
occhi mortali incontra Al comun fato. E quanto a sé non cederà certo
; e alla morte può dire: Erta la fronte, armato, E
renitente al fato. I.a man che flagellando si colora Nel mio
sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir. Solo aspettar
sereno Quel dì eh’ io pieghi addormentato il volto Nel tuo
virgineo seno. Egli è conscio dell’ invitta potenza dell’anima umana
pur nell’estrema miseria. Vivi, dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi
dialoghi; vivi, e sii grande e infelice. Infelice perché grande; perché
sentire la infehcità è solo jelle anime grandi, che con la loro gagharda
natura si jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e regnano
sovrane in quella superiore realtà che è propria dello spirito. Leopardi
sa che la grandezza del suo dolore si commisura alla grandezza del suo
pensiero che lo sente e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto;
e che un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto il
dolore del Poeta, che il volgo infatti non intende e irride. Leopardi sa
che la coscienza dell’umana miseria è già segno di grandezza. Sa che
ancor che tristo, ha suoi diletti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo,
dà un amaro gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e
stanca della vita che non mantiene mai le sue promesse, si ri¬ duca
infatti all’estremo della infelicità, che non è la disperazione, ma la noia
>, la morte ncUa vita, non dolore né piacere, ma il sentimento della
nullità, questo terribile privilegio degli uomini, a cui la natura non ha
provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi potesse cadere;
quella noia che, a simiglianza dell’aria «la quale riempie tutti
gl’intervalli degh altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi
si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e
immediatamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi de’
viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche allora l’anima non
cade, non è vinta. Giacché, secondo Leopardi, « la noia è in qualche modo
il più sublime dei sentimenti umani. Il non potere essere soddisfatto
da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della noia.
La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali possibili, anche
i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha misto del bene, a
tutti fuorché alla noia» (Zibald.). Zibald., Giuntile, Manzoni e
Leopardi. alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra
intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la
mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla
capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e
1 universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro
sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accu-
sg^re le cose d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬ mento e vóto,
e pero noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si
vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di
nes¬ sun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le
delusioni, su tutti i dolori, su tutte le miserie, al di sopra della mole
sterminata di quest’uni¬ verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e
si spen¬ gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la
hbertà, quindi la possibilità di crearsi una vita superiore degna delle
più nobili aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel Leopardi,
poca scienza pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e
ringaghardisce la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa
natura, che la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in
voley mutyignu, è pur quella natura che mette nell’animo nostro le illusioni; e
se non sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo
non più contento delle condizioni naturali della vita che egli
dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore, con la pietà,
con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di dolci
consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura
che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi, nei tempi
oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età
di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬ ginare la
speranza nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore
torna sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità
piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,
quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuotato il calice amaro,
torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La natura del
materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11
savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è
alla presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto
travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del pensiero,
dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici
della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il
filosofo al suicidio, Plotino può rispondere : <iPorgiamo orecchio
piuttosto alla natura che alla ragione»'. alla natura primitiva « madre
nostra e dell’universo », la quale ci ha infuso un certo senso
dell’animo, che è amore degli altri e che ferma la mano al suicida
ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero della sua
morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe togliersi la vita, il
filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e
soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa
fatica della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo :
e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci
conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti,
cosi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò
Sanctis paragonando Schopenhauer a Leopardi, notava questo grande divario
tra n filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più
mette in luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto
più ce la fa amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce
ne accende vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura
del Leopardi non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi
saprà leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso
per metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più
sani e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita
operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬
nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni
fatica, e della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la
stessa morte al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il
suo animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua
verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore,
che è pel L., come s’ è veduto, ciò che dà verità più che rassomiglianza
di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e Morte
Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle Altre il
mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una bellissima
fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore: E
sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d’ogni saggio core.
Non vedo che abbia attirata l'attenzione della critica, come
merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi, Ottimismo leopardiano,
Treviso, bongo e Zoppelli, Il Poeta
sente che Quando noveUamente Nasce nel cor profondo Un
amoroso affetto. Languido e stanco insiem con esso in petto
Un desiderio di morir si sente: Come, non so: ma tale
D’amor vero e possente è il primo effetto. Il Poeta vuol
rendersi ragione di questa coincidenza, e non vi riesce. Ma ben sente che
quando si ama, non ha più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso
nei suoi limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che
fiacca ogni umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore scopre che la
sua vera vita è di là da questi hmiti; e che bisogna ch’egli perciò muoia
a se medesimo, e spezzi r involucro della sua individuahtà naturale,
centro di ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte
opti gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte è liberatrice,
affrancando lo spirito umano dai vincoli onde ogni uomo è da natura
incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e
forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi,
en¬ trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.
Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia
del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste
letture, che inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più
chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane
(Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali di G.
L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette
morali come una raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso,
sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non
sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite con perentoria
precisione dallo stesso autore innanzi alla terza edizione iniziata a
Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate
la prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del
Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere, e di quello di
Tristano e di un Amico; tornano ora alla luce ricorrette
notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Intanto, non tutte le Operette furono
pub¬ blicate la prima volta a Milano; giacché tre di esse, come «
primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’
Antologia e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo
Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle
che nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore furori
composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane
della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed.
Mestica, li, fa sicura testimonianza con
le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al
13 dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo
in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o
ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬ ratore nell’animo del Leopardi.
Giacché con qual fondamento si toglierebbe l’una o l’altra delle Operette a
docu¬ mento di quel periodo spirituale che si suole infatti atribuire
agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di Simonide
(apparte¬ nenti probabilmente a quello stesso tempo), e l’epistola
Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono caratteristici
delle Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già osservato j
che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che sono fra le carte
napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati senza indicazione di
tempo » 3, è segnato un Ecco le singole date, già in parte pubblicate dal
Chiarini, Vita di G. Leopardi, Firenze, Barbèra, e da me
riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva tra le Carte
della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere umano); Dialogo d'
Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte; Proposta di premi;
Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio; Dialogo di un Folletto e di
uno Gnomo ; Dialogo di Malamhruno e di Farfarello; Dialogo della Natura e
di un’.dnima; Dialogo della Terra e della Luna; La scommessa di Prometeo;
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico; Dialogo della Natura e di
un Islandese; Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare (i-io giugno);
Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini, ovvero della gloria; Dialogo
di Ruysck e delle sue Mummie; Detti
me¬ morabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e di Gutierrez); Elogio degli Uccelli; Cantico
del Gallo silvestre; Note, Da N. Serban,
L. et la France, Paris, Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined.
di G. L. dalle carte napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della
natura e dell’uomo, sul proposito di quella parlata della natura,
all’uomo, che Volney le mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero
nel Catéchisme » dialogo, che si trova nelle Operette col titolo di
Dialogo della Natura e di un'Anima) il quale, dunque, al tempo di
quell’appunto non era scritto. Pure nello stesso foglietto, segue un «
TrattateUo degli errori popolari degli antichi Greci e Romani » (che non
può essere la stessa cosa del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e
riflessioni sopra diversi luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle
ch’io fo in un capitolo del F. Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo
dei Detti memorabili, che è delle ultime operette del '24. Ora, se questi
appunti sono pertanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in
qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di un’Anima
l’autore parlasse come di opera da com¬ porre ? O egli non aveva neppur
composti i Detti memorabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe
messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?
Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come par probabile,
a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto,
s’incontrano, tra gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade)
Egesia pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬ tuomo e
mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo della
Natura e di un’Anima, ma accanto a un altro dialogo. Galantuomo e mondo, che
l’autore abbozza, per tornarvi sopra nel '24, senza condurlo tuttavia a
termine e la sua prima idea pertanto deve risalire. E secondo lo stesso
docu¬ mento, contemporanei sono i disegni primitivi di altre [Vedi
abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto relativo, riscontrato per me
dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle Carte leo¬ pardiane della Bibl.
Nazionale di Napoli, nel pacchetto X, fase. 12. quattro operette, due del '24 e
due del '27. Giacché, oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il
Copernico, qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato
la prima idea del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel Salto di
Leucade quella del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e
in Misénore e Filénore quella del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il
documento certamente dimostra che del Plotino e del Copernico,
scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il concetto, ma
anche la forma in cui il concetto si ])re- sentò alla mente del Leopardi,
non è posteriore alle Operette. E c’ è altro. Stando alla
cronologia dataci dai docu¬ menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo mese
d’estate del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli Detti,
riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella lette¬ ratura, ha
dimostrato, in modo incontestabile, che in questo scritto « liberamente
il Leopardi raccolse dal suo Zibaldone gh appunti più singolari e umoristici;
certo intendendo a una vaga e libera somiglianza e rispecchiamento delle
proprie opinioni, ma più col fine di pubblicare qualche parte del
materiale accumulato giorno per giorno». Sicché s’è creduto poter
conchiudere che nell’ Ottonieri al Leopardi « venne fatto un centone, non
un’operetta come le altre organicamente intessuta » 4. Scegliamo infatti
un paio d’esempi, tra i tanti che si potrebbero riferire. Nel cap.
Ili dell’ Ottonieri si legge : > Egesia infatti è ricordato nel
Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto il Colombo e Pensieri. Questo dialogo infatti originariamente recava
il titolo di Dialogo di Filénore e di Misénore. Luiso, Sui Pensieri
di L., nella Rassegna Nazionale. Dice che la negligenza e
l’inconsideratezza sono causa di commettere infinite cose crudeli o
malvage; e spessissimo hanno apparenza di malvagità o crudeltà; come, a
cagione di esempio, in uno che trattenendosi fuori di casa in qualche suo
passatempo, lascia i servi in luogo scoperto infracidare alla pioggia;
non per animo duro e spietato, ma non pensandovi, o non misurando
colla mente il loro disagio. E stimava che negli uomini l’incon¬
sideratezza sia molto più comune della malvagità, della inu¬ manità e
simili; e da quella abbia origine un numero assai maggiore di cattive opere; e
che una grandissima parte delle azioni e dei portamenti degli uomini che
si attribuiscono a qualche pessima qualità morale, non sieno veramente
altro che incon¬ siderati. Idee che fin dall’ ii settembre
1820 L. aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri,
scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha
l’apparenza e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di
esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia
degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai
filosofo c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so
bastone, passando, sbadatamente e come per giuoco, menò un buon
colpo a un povero cane che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir
nessuno. E parve segno all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A
me parve segno di brutale irriflessione. Questa molte volte c’induce a
far cose dannosissime e penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo
(parlo anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone
che per trascuraggine lasci pe¬ nare il suo servitore alla pioggia ecc.),
e avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di
sopra, sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo
e lo facciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo.
Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo stessis¬ simo
effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu
rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto,
e che la malvagità e crudeltà non abbia che fare col tuo
carattere Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, no
Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a leggere;
Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo
inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene di
conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi veri,
o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra
virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un
abito grande di meditare, e molta memoria, per considerare esse virtù ed essi
pregi, e tenerli poi sempre a mente: eziandio che in rispetto ad ogni altra
cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non confessiamo
tra noi di scoprirvele. E anche questo pensiero, quantunque
in forma compendiata a mo’ di appunto, era già nello Zibaldone; Noi
supponiamo sempre negli altri una grande e straordi¬ naria penetrazione
per rilevare i nostri pregi, veri o immaginari che sieno, e profondità di
riflessione per considerarli, quando anche ricusiamo di riconoscere in
loro queste qualità rispetto a qualunque altra cosa. E il
numero di simili riscontri è tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri
di cui non si trovi la prima prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non
sarà dunque da dire che nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma
defini¬ tiva a questa operetta, facendone, come ad altri è sem¬
brato, un centone di sue osservazioni di tre e quattro anni prima ?
Né la domanda vale unicamente per l’ Ottonieri. Anche del Parini è
stato notato che la sostanza è già nei Pensieri [ b Caratteristico
questo luogo del cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come
città piccole mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga
all’eccellenza nelle lettere e nelle dottrine; e V. tra gli altri
B. Zumbini, Studi sul L., Firenze, Barbèra, - 04, II, 42; e Losacco, in
Giorn. stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si
aduna nelle città grandi; perciò le piccole sogliono tenere tanto basso
conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa
fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e
l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per
caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e
di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non
tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte,
quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli uomini,
la più negletta e oscura persona del luogo. E tanto egli è lungi da potere
essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi è riputato
maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo
che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio;
conosciutosi per la terra eh’ io soleva attendere agli studi, e mi
esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta,
filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito di tutte
le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una menoma
differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o fa¬ vella
intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per questa loro
opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore assai di tutti
gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava venire in
dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata che essi non
pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e all’ultimo
si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente più che la
loro. Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae origine
da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal Leopardi segnate
sulla carta fin dall’ottobre 1820; Spessissimo quelli che sono
incapaci di giudicare di un pregio, se ne formeranno un concetto molto
più grande che non dovrebbero, lo crederanno maggiore assolutamente, e
contuttociò la stima che ne faranno sarà infinitamente minor del giusto,
sicché relativamente considereranno quel tal pregio come molto
minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero dedito agli
studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e
m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e
per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che
avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A
voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che
le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro
stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno
del loro grado Né soltanto la cronologia diventa un problema
di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.
I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento
del pensiero del L. astratto dalla forma che esso ha nelle Of erette. Che
se si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la superficialità
del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri non sarebbe
nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si badi, d’altra parte,
a non prendere né anche questa forma in astratto, quasi la forma speciale
del tale passo delle Operette, il quale abbia un antecedente più o
meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur così intesa, essa sia
sempre nei due casi profondamente diversa). Anche questa è una forma
astratta; perché la vera forma assunta in concreto da ciascuna parte
di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione con tutta
l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di quel certo
atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò componendola. Sicché
un centone si può certamente trovare anche in un’opera che abbia una
salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si pre¬ scinda
da questa unità, e si cominci a indagarne il contenuto, decomposto
meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui somma a chi se ne
lasci sfuggire lo spirito pare che l’opera risulti. Che è quello che è
stato fatto per le prose leopardiane da tutti i critici che se ne sono oc¬
cupati, ora considerando e giudicando le singole operette ad una ad una,
ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse in una serie di frammenti
facilmente rintracciabili in altri scritti, in verso e in prosa, dello
stesso L. (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta inutilmente se
stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi del secolo XVIII (in
confronto dei quali poi tutta l’originalità dello scrittore svanirebbe). Il
maggior critico che il L. abbia avuto, il De Sanctis; se ha
sdegnato ogni ricerca analitica e mortificante di fonti e
confronti, fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’
inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò
della necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera
nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni vero artista
trasfigura la sua materia; non s’è guardato tuttavia né pur lui, di
cercare la vita nelle parti, la cui serie forma il contenuto del libro,
anzi che nel tutto, nell unità, dove soltanto può essere l’anima e
l’origina¬ lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per
così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa a sé, invece di
cercare il Leopardi di tutte le operette, che sono un’opera sola.
In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di
almanacchi e del Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a
suggellare il pensiero delle Ope¬ rette, tutte le altre pullularono
dall’animo del Leopardi nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e
di sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il Copernico e
il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il suo Tasso,
il Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli stessi
pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah
infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano
accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da
potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere
aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il
suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.
Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro piacere:
solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la
copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma
avvertiva subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e
tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite
abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle
Operette morali, al quale erano destinate»*. Quanto al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente
posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad ogni tentativo fatto
dall’autore per pubblicare le Operette. Alle quali, nelle edizioni parziali e
totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore non
potesse pensare ad includerlo a causa del crudo materialismo che vi è
professato, c che le Censure non avrebbero lasciato passare. Ma,
lasciando per ora da parte queste cinque ope¬ rette [Stratone, Copernico,
Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano) che vennero successivamente
ad aggiungersi alle prime venti, è certo che queste venti, composte
tutte di seguito in un anno di lavoro felice, furono dall’autore
scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E quando ebbe in ordine
il suo manoscritto completo, escluse che le singole operette potessero
venire in luce alla spic¬ ciolata. Nel novembre del ’25 sperò poterle
pubblicare Epistolario, Firenze, Le Monnier, * Epistolario, nella
raccolta delle sue Opere, che un editore amico voleva fare allora in Bologna;
e, andato a monte quel di¬ segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci
del Giordani, al quale consegnò il manoscritto affinché gli trovasse
un editore: con tanto desiderio di vedere stampata la sua opera,
che scrive impaziente a Papadopoli : « I miei Dialoghi si stamperanno
presto, perché se Giordani, che ha il manoscritto a Firenze, non ci
pensa punto, come credo, io me lo farò rendere, e lo manderò a Milano »
>. Ma da Firenze scrivevagh il Vieus- seux il 1° marzo : « Giordani,
usando della facoltà lasciatagli, mi passò il bel manoscritto che gli avevate
confidato, dal quale abbiamo estratto alcuni dialoghi, che
troverete riferiti nel n. 61 dell’Antologia, ora pubbhcato, eh’ io
ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno del mio fervido
desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato del vostro nome; e
più del nome ancora, dei vostri eccel¬ lenti scritti. Sento che queste
Operette morali verranno probabilmente pubbhcate costà, e ne godo assai
pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio fatte per
comparire riunite in una raccolta, che spartite in un giornale » ».
Quella prima pubblicazione, dunque, non fu altro che un saggio. Del quale
L. scrive all’amico Puccinotti: «I miei Dialoghi stampati ntW Antologia
non avevano ad essere altro che un saggio, e però furono così pochi e
brevi. E soggiungeva 1 « La scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia
saputa mise l’ultimo per primo; affermando così che tra i dialoghi
c’era un ordine, e ciascuno doveva tenere il suo posto. Proponendo
pertanto la stampa dell’opera intera all’editore Stella di Milano, gli
scriveva: « Ha ella veduto [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in
Epist., II, 47. » Nell' Epist. del L. 3 Epist., II,
142-43. il numero 6i dell’ An tologia, gennaio 1826 ? E penetrato, ed ha
avuto corso in cotesti Stati ? Vi ha ella veduto il Saggio delle mie Operette
morali ? Le parlai già. in Milano di questo mio mano¬ scritto. Ne
abbiamo pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto
passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei ?...
Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve
ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto
consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io 1’ ho
più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di
quel mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella ha
ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto. 11 fascicolo
dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di
poterne tuttavia sperare altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe
provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il
Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi sento molto
lusingato e superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette
mie Operette morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma
del ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di
mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne
l’editore.... La prego a darmi una risposta concreta in questo proposito tosto
ch’ella potrà » i. Lo Stella, per saggiare le disposizioni della Censura
milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo Ri¬ coglitore i
dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali », scriveva all’autore il
1° aprile, « poi formerò un opuscolo a parte che mi farà strada a
pubblicar tutte queste, da 0 . c., Lei chiamate Operette, che lo saranno
per la mole, non pel pregio certamente » «. Perciò il 7 il L.
affret- tavasi a mandargli la nota dei molti errori incorsi nella
stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo Stella assumesse
Tedizione del libro intero ; che il 26 si disponeva a inviargli : « Debbo
però pregarla caldamente di una cosa. Mi dicono che costì la Censura non
restituisce i manoscritti che non passano. Mi contenterei assai più
di perder la testa che questo manoscritto, e però la supplico a non
avventurarlo formalmente alla Censura senza una assoluta certezza, o che
esso sia per passare, o che sarà restituito in ogni caso » ^ E il
prezioso manoscritto partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo
Stella j)oté informare l’autore
d’averlo ricevuto. poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che
mi restano, vo leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi
allettano.... altrettanto temo che trovar deb¬ bono degli ostacoli per la
Censura. Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore,
per poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di
tutte in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle care Operette ?
La proposta ferì al vivo l’animo del Leopardi, che, a volta di corriere,
il 31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è altro
mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente
la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬ scritto al più presto
possibile. O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre
inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite,
pubbli¬ cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume
l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,
conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬ rette, nate come
venti capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei
certamente mirò nell’ordina¬ mento definitivo che fece delle singole
parti, quando le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come
tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione avvenuta nei tre
dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli
avA^erte. Infatti era stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure
scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era
quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio
era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella
edizione milanese del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià
non poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che,
nell’atto di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,
nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che L.ebbe da ultimo
ragione di preferire, non soltanto il Timandro venne spostato. Infatti tra il
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il Dialogo della Natura e
di un Islandese, scritti successivamente, con un solo giorno di riposo
tra l’uno e l’altro, parve opportuno frammettere il Dialogo di Torquato
Tasso e del suo Genio familiare, a cui il Leopardi pose mano appena
finito quello della Natura e di tm Islandese. È ovvio che senza una
ragione né anche quest’ordine sarebbe mutato; ed è ovvio Mtresì che la
ragione non potrà consistere se non negli scambievoh rapporti da cui
questi dialoghi eran legati, agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi
che i vari scritti devono per lo più esser nati già con questi rap¬
porti, l’un dopo l’altro, secondo che il pensiero germoghava via via nella sua
spontaneità organica; ma dove Cfr. sopra, p. io6, n. i. una ripresa
di idee già non sufficientemente svolte, e il risorgere di un’
ispirazione che era parsa esaurita, traeva l’autore a tornéire su se
stesso, è pur naturale che l’ordine cronologico non corrispondesse più
allo svolgimento e alla coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto
appena levata la mano dall’ Islandese, nasce come un anello che
salda questo dialogo a quello del Fisico col Metafisico; e se l’autore
scrive il Timandro, bisogna pensare che, saldato così l’ Islandese agli
antecedenti dell’opera, egli dovè per un momento credere esaurito il suo
tema; credere perciò di potersi arrestare a quella fiera rappresentazione
finale AtW Islandese: e quindi volgersi indietro a giudicare e difendere
il libro. Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse
riattirato verso il suo lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni, e condotto
innanzi a sbalzi fino alla fine dell’anno, quando fu compiuto il Cantico
del Gallo silvestre ; altre sei operette in tutto, che s’ è condotti a
pensare formino un gruppo distinto, nato da questo risorgimento, seguito
al Timandro, del motivo ispiratore delle operette. Ma tutto ciò, si può
dire, non prova nulla per l’organismo e unità dell’opera leopardiana, se questa
unità non si trova effettivamente nel suo intimo. Ed è vero. Com’ è
pur vero che quando tale unità fosse messa bene in luce con lo studio
interno del hbro, potrebbe anche apparire inutile tutto questo preambolo,
indirizzato ad argomentare che l’unità ci doveva essere. Ma è
infine non meno vero che non si trova quel che non si cerca; e che
l’unità delle Operette leopardiane, ritenute generalmente una semplice
raccolta, aumentabile (con la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di
Teofrasto, come tutti fanno), o riducibile (come pure han
creduto gli autori delle varie scelte di prose leopardiane) non si è
mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati tutti questi indizi di
un disegno, che lo stesso autore ritenne essenziale. Intanto,
lo spostamento osservato del Timandro epilogo, in origine, delle
Operette, ci ha condotto a scorgere un gruppo, che non è forse il solo tra
questi singoli scritti, così come vennero quasi rampollando Tuno
dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro, destinato ad epilogo, la Storia del
genere umano, che, ])er il suo distacco formale dal resto dell’opera (è
la sola infatti che abbia la forma di un mito), e la sua
rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di tutto il destino del genere
umano a parte a parte ritratto poscia nelle varie prose, si può a
ragione considerare come un prologo; le diciotto operette intermedie, formanti
il corpo del libro, si distribuiscono naturalmente in tre gruppi, di sei
ciascuno, come tre ritmi attraverso i quali passa l’animo del
Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’ è veduto, da una ripresa
dell’ ispirazione originaria, si spiega il secondo, che comincia col Dialogo
della Natura e di un’Anima e si compie, (]uasi ritornando al suo
principio, con l’altro Dialogo della Natura e di un Islandese. Precede, e
inizia la tri¬ logia, un primo grujipo, aperto dal Dialogo d’Ercole
e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in cui all’eroe
classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬ tentra un eroe della
potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni moderne, un mago,
Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo. Farfarello.
Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo insistere troppo, ma
che non può apparire arbitraria o fortuita quando si osservino gl’ intimi
rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e connesse, in tale
ordinamento, le diverse operette. Ascoltiamo dalle parole stesse
del Leopardi la nota fondamentale di ciascuna operetta; e vediamo se le
varie note degli scritti appartenenti a ciascun gruppo non for¬
niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo dal primo gruppo.
Ercole va a trovare Atlante per addossarsi qualche Qja il peso
della Terra, come aveva fatto già parecchi secoli fa, tanto che Atlante
pigli fiato e si riposi un poco. j(a la Terra da allora è diventata
leggerissima; e quando Ercole se la reca sulla mano, scopre un’altra
novità più nieravigliosa. L’altra volta che l’aveva portata, gli «
bat¬ teva forte sul dosso, come fa il cuore degh animali; e metteva
un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si
rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla »; e quanto al ronzare,
Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo, dice Atlante, « che
il mondo finì di fare ogni moto o ogni romore sensibile; e io per
me stetti con grandissimo sospetto che fosse morto, aspettandomi di
giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e pensava come e in che
luogo lo potessi sep¬ pellire, e l’epitaffio che gli dovessi porre. È lo
stesso grido, come si vede, de La sera del dì di festa'. Kcco
è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar
succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’ è il
suono Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il grido De’ nostri avi
famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano ? Tutto è pace e silenzio, e
tutto posa li mondo, e più di lor non si ragiona. Perché
questo silenzio e questa morte ? Ecco che la Moda, sorella germana della
Morte, vien a dirlo essa questo perché alla Morte stessa: poiché i soh
frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi possono spiegare i «
lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non stringono soltanto «l’itale
menti»; i costumi «di questo secol morto, al quale incombe tanta nebbia
di tedio », e pgj. cui il Poeta domandava agli eroi già dimenticati e
ri¬ scoperti dai filologi, « se in tutto non siam periti » t La
Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per volta ma il più in questi
ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in disuso e in dimenticanza le
fatiche e gli esercizi che giovano al ben essere corporale, e
introdottone o recato in pregio innumerabih che abbattono il corpo
in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho messo nel
mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto
del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto che questo secolo
si può dire con verità che sia proprio il secolo della morte ».
Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi, infranto il vigore
degli animi. In compenso, si fabbricano macchine, e H secol morto può dirsi
«l’età delle macchine». L’Accademia dei SUlografi ne fa la satira nel suo
bizzarro bando di concorso per l’invenzione di tre macchine, che
restituiscano al mondo quel che agli occhi del Poeta costituisce il
pregio maggiore della vita, anzi la vita stessa, quale fu una volta:
ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e magnanime, e la donna: quella
donna, che fu r ideale degli spiriti gentili, e fu pur ora cantata
come la « sua donna » da esso il Leopardi : Forse tu
l’innocente Secol beasti che dall’oro ha nome. Or leve
intra la gente Anima voli ? o te la sorte avara Ch’a
noi t’asconde, agli avvenir prepara? Viva mirarti ornai Nulla spene
m’avanza 3 . Sopra il monumento di Dante (rSrS), vv. 3-4. »
Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna. fbbene, una macchina ne adempia gli
uffici, essendo «espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai
negozi jjeUa vita il più che si possa, e che a poco a poco diano
luogo, sottentrando le macchine in loro scambio. Questa I la morte
dell’uomo ; la morte dell’amicizia e dell’amore, la morte degh ideali che
già fecero virtuoso e magnanimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il
quale non può sopravvivere alla maledizione scaghata alla stolta
virtù, che ei respinge da sé nelle cave nebbie e nei campi dell’ inquiete
larve. Onde se un romano, e 5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio,
d’infiam¬ mare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo
delle ricchezze, ma dell’onore, della gloria, della libertà, della
patria, affidate alle loro destre, un moderno lettore d’uma¬ nità non può
senza peccato d’ipocrisia vedere nel testo di Sallustio quella gradazione
ascendente che il luogo, a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ?
Non si trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a
proferir questo nome. Di essa, dice il Leopardi, che ne sa anche lui
qualche cosa « non si ha da far conto ». La gloria ? Piacerebbe, se non
costasse incomodo e fatica. Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è
quella cosa «che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni
occasione la patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché il testo è
da restituire, per travestirlo alla moderna, fa¬ cendo dire a Catilina:
Et quum proelinm inibitis, memi- neritis, vos gloriam, decus, divitias,
fraeterea spectacula, epulas, scorta, animam denique vestram in dextris
vestris portare. Animam vestram, la vita: quella vita, che non hanno
! Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della vita [Ancona,
nel Fanfulla della domenica del 29 novembre *895: G. Carducci, Degli
spiriti e delle forme nella poesia di G. L., Bologna, Zanichelli, 1898,
pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche lui sia cessata da un
pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della terra uno spiritello,
uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi rito dell’aria, un Folletto, può
dirgli infatti che «gjj uomini sono tutti morti e la razza è perduta ».
Mancati tutti: «parte guerreggiando tra loro, parte navigando parte
mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi nori pochi di propria mano,
parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri,
parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; in fine, studiando
tutte le vie di far contro la propria natura » ; studiandole tutte
con queir « irrequieto ingegno, demenza maggiore » che « (juel- l’antico
error, di cui « grido antico ragiona », onde fu negletta la mano
dell’altrice natura, come il Leopardi aveva appreso dal Rousseau. Oh
contra il nostro Scellerato ardimento inermi regni Della saggia
natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose.... ancora durano e procedono
come prima ». E l’uomo che presumeva il mondo tutto fatto e mantenuto per
lui solo ! Il Folletto invece crede fosse fatto e mantenuto per i
folletti; come lo Gnomo per gli gnomi ! La vanità umana pareggia
essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono tutti spariti, la
terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non sono stanchi di
correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di
tramontare... ». La saggia, l’altrice natura non si commuove allo
sterminio di sé a cui l'uomo è tratto dal suo ardimento. Fu certo,
fu {né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama il grido
Pasce l’avida plebe) amica un tempo Inno ai Patriarchi. Al sangue
nostro e dilettosa e cara Questa misera piaggia, ed aurea corse
Nostra caduca età. Non che di latte Onda rigasse intemerata il
fianco Delle balze materne, o con le greggi Mista la tigre ai
consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al fonte Il pastorei;
ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota d'affanno Visse
l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento della vita spontanea e
irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura. Lo svegliarsi dell’
intelligenza (scellerato ardimento !) è il principio della perdizione. E
invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare la sua vita e
riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo sa*
*; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con piena
potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo riapprende
da Farfarello, impotente a farlo felice un momento di tempo. La felicità
è la vita che si V’iva sentendo che mette conto di viverla: è la vita
col suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un diletto
infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che ogni uomo ha di
se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché nessun diletto è
infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro desiderio naturale.
Onde il vivere sen¬ tendo la vita è infelicità; e questa non è interrotta
se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che sospenda l’uso
dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra vita ; e se vivere è
sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è meglio del
vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima conclu- [Malambruno
è Faust, non Manfredo, come mostra d' intendere il Losacco, Leopardiana,
in Giornale storico della letteratura italiana, sione di quella premessa,
che la felicità o valore della vita consista nel diletto; il quale non
può essere altro che limitato, e quindi mai mero diletto, senza
mistura di amarezza. Tale il concetto del primo gruppo delle
Operette, che pone l’animo del poeta in faccia alla morte e al
nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna d'esser vissuta:
poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita dell’uomo è senso,
coscienza. La vita nella felicità è la natura; e l’uomo se ne dilunga
ogni giorno più con la civiltà, con r irrequieto ingegno, che assottiglia
la vita, e la consuma. Ed ecco il problema e il tormento dell’anima di
L.: l’uomo in faccia alla natura. La natura, che è quella del dialogo
dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che è, non quella ciurmaglia già
spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro > che uno risuscitasse per sapere
quello che egli penserebbe della già sua vantata grandezza: è anzi
quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti gli uomini morti e la natura
viva, muta, indifferente. Problema affrontato nel Dialogo della Natura e di
un’Anima, il primo del nuovo gruppo, dove la natura dice all’anima,
dandole la vita: «Va’, figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e
chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice ».
Giacché, come poi le spiegherà, nelle anime degli uomini, e
proporzionatamente in quelle di tutti i generi di animali, si può dire
che l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza
delle I Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia
risuscitassero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se,
benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come
prima, dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per
loro soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna).
jjiinie importa maggior sentimento dell’ infelicità proria; che è come se
io dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo « ha maggior copia di vita, e
maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi
il niù perfetto; e però è il più infelice. E il meglio è per
l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle (loti che
possono nobilitarla, e farsi « conforme al più stupido e insensato
spirito umano » che la natura abbia jjjai prodotto in alcun tempo.
Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dialoghi del primo gruppo
poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino
dell’uomo : la cui storia non può avere altra conchiusione che la
rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro
sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna,
come immaginò l’Ariosto di tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La
Luna, a cui la Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne
domanda, non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è
semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra che il linguaggio
umano e relativo allo stato degli uomini, che la Terra usa, non ha
significato fuori di questa: e che insomma non ha base in natura quello
che gli uomini considerano pregio della loro ^^ta, e che, non
trovandolo fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione.
Ma il concetto più direttamente è trattato nella Scommessa di
Prometeo: scommessa perduta con Momo (che è lo stesso spirito satirico
pessimista con cui Leopardi guarda la \'ita
nella sua vanità).'Perduta, perché Prometeo deve confessare che alla
prova il suo genere umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto
genere dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali, gli era
fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro- pofagi a
quello più incivilito dei suicidi per tedio della vita, il più sciagurato
e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più oltre, quando
a Londra vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una porta ed
entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su! pino, che aveva nella
ritta una pistola; ferito nel petto e morto; e accanto a lui giacere due
fanciullini, mede¬ simamente morti»: sciagurato padre, che per
dispera- zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso: (juan-
tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore, e favorito
in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita, secondo che ha
lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si è fatta
andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema nel primo
dialogo di questo secondo gruppo. E i due seguenti dialoghi hanno questo
argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico dimostra la vita
non essere bene da se medesima, e non esser vero che ciascuno la desideri
e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama come « istrumento o subbietto
» della felicità, che è ciò che veramente vale. E questa, guardata più da
vicino, consistere nell’efficacia e copia delle sensazioni, nelle
affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non nel puro essere, ma
nella sensazione dell’essere e nel far essere (come ben si può dire)
l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota durata, ma la mobilità, la
vivacità, il gran numero e la gagliardia delle impressioni, e cioè il
tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri desiderii: e la vita
degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto
più fortemente agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né
disagio ». La vita vacua, che è la vita «piena d’ozio e di tedio», è
morte; anzi peggio della morte, che è senza senso. Infine, dice lo
stesso Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità sia
vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita, in fondo, è sì
nella vita ; ma la vita (il Leopardi così sente) non è vita; è la morte;
quella morte di cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del primo
gruppo; e che non è pura morte, ma la morte sentita; la morte nella
coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che l’eterna natura, di
là dall’opera sua, e non può sperare perciò di far nulla che abbia
valore. La morte è dolore perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere
il pieno; la morte al posto della vita. E questo tedio è la
malattia, il segreto tormento del Tasso, che ne ragiona col suo Genio:
del Tasso già dal ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai,
apparso al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui « miserando
esemplo di sciagura: O Torquato, o Torquato, a noi l'eccelsa Tua
niente allora, il pianto A te, non altro, preparava il cielo.
Oh misero Torquato ! il dolce canto Non valse a consolarti o a
sciorre il gelo Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda. Cinta
l’odio e l’immondo Livor privato e de’ tiranni. .Amore,
Amor, di nostra vita ultimo inganno. T’abbandonava. Ombra reale e
salda Ti parve il nulla, e il mondo Inabitata piaggia. Tasso medesimo,
che non trova nel mondo altro più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel
vago inunaginare, dal quale più duro bensì gli riesce il ritorno
alla realtà; questo Torquato parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio
', e non si lagna già del dolore, ma della noia, che sola lo affligge e
lo uccide. La quale gli pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie
tutti gli spazi interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani
contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro
non gh sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’
intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però. come nel mondo materiale, secondo i
Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà
vóto»; e poiché piacere non si trova, la vita è composta parte di
dolore parte di noia. E la vita tutta uguale monotona del povero
prigioniero immagine d’ogni uomo di fronte alla immutabile natura — si
viene via via votando cosi del piacere come del dolore, e riempiendo
tutta della tristezza soffocante del tedio. L’uomo
prigioniero della natura ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui
si presenta da capo la Natura a render conto di sé all’uomo: al povero
Islandese, che la vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se
la vede sempre innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha
innanzi, prima di morire, in effigie di donna, di forme smisurate, seduta
in terra, col busto ritto, ap¬ poggiato il dosso e il gomito a una
montagna; viva, di volto tra bello e terribile, occhi e capelli
nerissimi, con 10 sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero
errante, tu sei « carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi
figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere », e « per
niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto
o vi benedico, io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬
l’universo è un circolo perpetuo di produzione e distruzione. Ma, riprende 1’
Islandese, poiché chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà
distrutto, « dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a
chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con
danno e con morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la
risposta 1’ Islandese è mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri
dall’ inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel
giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo,
è la Natura che al principio ha detto aU’anima: Sii grande, e infelice.
La vita infatti È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché
vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa
Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza
valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si
contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto
nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire)
non ha posto nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la
vita è tedio. E qui potè parere al Leopardi, come osservammo, di
aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le facili critiche, che non
sarebbero mancate al piccolo e doloroso libro, ritenne opportuno
difenderlo col Timandro. Ma poi considerò che la sua dimostrazione
non era veramente perfetta. Il dolce canto non era valso a consolare
Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare Panimo addolorato ? Gino
Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre acerbo e ingiusto al
grande Recanatese b scrisse una volta. L.comincia uno de’ suoi
Dialoghi, inducendo la natura che scara¬ venta nel mondo un’anima con
queste parole: Vi\d e sii grande
ed infelice. Io per me credo proprio
il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se non in
quanto sono esse piccole £ cosa facile esser grandi uomini, se basti a
ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della infelicità; ma non
l’aveva imparata egh quando produsse quelle canzoni per cui
Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene sensazioni
profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel volume La
donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova Italia, Lanciano,
Carabba, Scritti ed. ed ined., Firenze,
Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il De Sanctis doveva osser\’are
più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e nei lini della vita, che lo
rendeva inetto al fare e al godere, era riem¬ piuto dalla colta e acuta
intelligenza e dalla ricca immaginazione, che gli procuravano uno svago e gli
fa, cevano materia di diletto quello stesso soffrire. Egli aveva la
forza di sottoporre il suo stato morale alla riflessione e analizzarlo e
generalizzarlo, e fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed
aveva anche la forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e
melodie, e fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino
il suicidio, e appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista
e immaginare Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi,
se ci sono stati mo¬ menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi
più felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? Ma né il
Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al Leopardi. È suo questo
pensiero vero e profondo ; L’uomo si disannoia per lo stesso sentimento
vivo della noia universale e necessaria ». E suo è ciuesto altro che lo
precede ; « Hanno questo di proprio le opere di genio, che, quando anche
rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino
evidentemente e facciano sentire 1 inevitabile infelicità della vita,
quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia ad
un animo grande, che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento,
disinganno, nullità, noia e sco¬ raggiamento della vita o nelle più
acerbe e mortifere disgrazie servono sempre di consolazione,
raccendono l’entusiasmo; e non trattando né rappresentando altro
che la morte, gh rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva
perduta » I Studio su L.. Napoli, Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo
ora bene che, spente che sieno le passioni, non resta negli studi
aura Ebbene, sentire ripullular
questa vita, che il raziocinio aveva dimostrata morta, era pur sentire il
bisogno (ji riprendere la dimostrazione. L. non affronta nelle
Operette, né in altro dei suoi scritti, il problema di questa vita
incoercibile che risorge dalla sua più fiera negazione. Ma sente
oscuramente questa diificoltà, non superata nei primi due gruppi de’ suoi
dialoghi. Tutto l’argomentare della sua filosofia non genera la
convin¬ zione che ne dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma la
mano di Bruto contro se stesso, e fa gittare dalla mi¬ sera Saffo « il
velo indegno », per rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il
crudo fallo del destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha
detto all’Anima che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno
incontro i grandi, « sono ricompensate abbondantemente dalla fama,
dalle lodi e dagli onori che frutta a questi egregi spiriti la loro
grandezza, e dalla durabilità della ricor¬ danza che essi lasciano di sé
ai loro posteri. Ebbene, questa gloria, che già non arride
all’anima, quando natura gliel’addita, questa gloria abbelliva pure
agli occhi del Leopardi questo mondo di morti, in cui gli sembrava di
vivere. Filippo Ottonieri, che è lui stesso, potrà esser « vissuto ozioso
e disutile, e morto senza fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva
bene d’esser nato alle opere virtuose e alla gloria ». Questa
gloria, che è il premio della grandezza e la sublime consolazione dei
grandi infehci, che tanto più saran grandi quanto più sentiranno la loro
infehcità, e più quindi saranno infelici, è la lode che nell’animo degli
altri e pei secoli riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli
alla loute e fondamento di piacere che una vana curiosità, la
soddisfazione della quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per
Taddietro, finché mi è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non
potevo comprendere, Epist,,-- propria grandezza nella coscienza felice del suo
genio. La sua sostanza è veramente in questa lode interna e
soggettiva: la sua esteriorità è in quella eco che si ripercuote lontano, e
ferma, e pare consolidi il valore onde il genio vede illuminata la
propria opera. Leopardi, nudrito la mente dei concetti classici e delle
idee materialistiche, cerca la realtà di questa gloria, in cui lo spirito
attinge la propria liberazione da tutte le miserie, in quella eco
esterna, in quel consenso che in fatto altri verrà tributando alla nostra
grandezza. E perciò si trova in faccia al problema del valore
tuttavia superstite della grandezza spirituale, veduto in questa
forma; l’anima grande e infelice è destinata essa alla gloria ? o la
speranza è fallace, come tutte quelle che ei rimpiangerà dileguate nelle
Ricordanze? ' Ed ecco il Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi
all’acquisto di questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel
mondo presente, da farla apparire mèta inattingibile. Talché vien meno
anche questa aspettazione, e al grande non rimane che seguire il suo
fato, dove che egli lo tragga, con animo forte, adoprandosi nella virtù,
perché la natura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.
Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si possa chiedere
alla stessa eccellenza dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale
di gioia, non si vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso,
qual porto rimane allo stanco spirito umano? Vivere infeUce ?
Dovecanterà: O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età
! sempre, parlando. Ritorno a voi; ché per andar di tempo. Per
variar d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi,
intendo, Son la gloria e l’onor; diletti e beni Mero desio; non ha
la vita un frutto. Inutile miseria. E sia; ma se non si può né anche
farsi un monumento della propria infelicità ? Sola nel mondo,
eterna, a cui si volve Ogni creata cosa.In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura. Lieta no, ma sicura Dall'antico
dolor. La risposta viene dai morti, che si sveghano per un
quarto d’ora nello studio di Ruysch, e cantano, e descrivono questa loro sicurezza
dall’antico dolor, nella quale vivono immortah; senza speme, ma non in
desio, come le anime del limbo dantesco: Profonda notte
Nella confusa mente Il pensier grave oscura; Alla speme, al
desio, l’arido spirto Lena mancar si sente: Così d’affanno e
di temenza è sciolto, E l’età vote e lente Senza tedio
consuma. Vita vuota, dunque, anche quella: ma senza sentimento. Vero
porto, in cui il povero Islandese finalmente avrà pace, e in cui si può
giungere in un languore di sensi senza patimento, com’ è degli ultimi
istanti della vita, quando sopravvive solo un senso « non molto
dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del
sonno, nel tempo che si vengono addormentando. Dolce morte hberatrice ! Ma
prima che la morte ci abbia sciolti dal tedio ? Filosofare, come Filippo
Ot- tonieri, il socratico, che « spesso, come Socrate, s’intratteneva una
buona parte del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e
massime con alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era
somministrata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre. non per
farne trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la
filosofìa in iscritto e irrigidir]^ in formule che non risponderanno piti
ai mutevoli bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e
senza illusioni la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando ogni vana
querimonia: come aveva detto Spinoza: non ridere, non liigere, neque
detestari, sed intelligere. Questo r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà
ozioso e disutile e morrà senza fama, ma « non ignaro della natura
né della fortuna sua »>. E con la sua pacata magnanimità e la
sua bonaria ironia rinnoverà l’immagine di Socrate anche in questa
modesta, anzi umile coscienza del sapere, e quindi, per lui, del potere umano.
L’ Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e
persona. Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia
? Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte
vegliata sull’oceano .sterminato e inesplorato col fido Gutierrez, confidando
all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, ha
posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee
opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando
altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia
profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla
noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che
altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e
scampandone, restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione
amorosa. Io non so se egli si. debba credere che ottenessero questo
effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di
tempo, anco senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima
avevano in odio; o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi.
Ciascuna pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla fxipe
di Leucade. E navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione eroica.
O filosofare, dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo, e far
guerra al tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non
ce ne liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il
Dialogo a Colombo e Gutierrez
Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa
coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé
l’attività, di questa grandezza felice, mette mano al bellissimo Elogio
degli uccelli: Urica stupenda, sgor- gatagU dal pieno petto, al guizzo
d’una immagine Ucta e ridente: di queste creature amiche delle
campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e lucenti,
del paese bello e dei soli splendidi, delle arie cristalline e dolci e di
tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena e allegra gli animi; e
che, col perpetuo movimento e col canto che è un riso, sono simbolo di
quella vita piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta
una gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un pensiero d’amore,
assegnando a un medesimo genere d’animali il canto e il volo ; « in guisa
che quelli che avevano a ricreare gU altri viventi colla voce, fossero per
l’ordinario in luogo alto ; donde ella si spandesse all’ intorno
per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori ». Così
viva è r intuizione della gioia gentile che il poeta riceve da questa
vaga immagine degU ucceUi, che è già appagato il desiderio finale di
questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in
uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita ». Non
ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens. E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di
cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e
tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vibrante
gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita, attenuando bensì
il tono della lirica precedente, c smorzando l'entusiasmo, al quale mai
come in questo caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e
additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la
morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente, ma
pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e frizzante
aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già nota al
Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo esulta
nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I suoi tremuli rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge
benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;
« Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton- sene le
immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita : riducetevi dal
mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non
destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. Ad ogni modo », dice il
Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c canta questa corsa
universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol
essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se
ne La Vita solitaria
producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora eziandio
senza materia alcuna speciale e de¬ terminata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovasi occupato
dalla disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la speranza,
quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco, dunque, la
spe¬ ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì nella
disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita dell'universo al
giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e alla vita umana che
muove dalla heta gio¬ vinezza incontro alla vecchiaia e alla morte: e se
termina annunziando che tempo verrà, che la stessa natura sarà spenta, e
« un silenzio nudo e una quiete altissima empieranno lo spazio immenso »;
il dolce gusto della speranza mattutina e giovanile non è distrutto:
perché quel tempo è molto remoto e (secondo avvertì più tardi
l’autore in una nota della seconda edizione) non verrà mai: e la vita
mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬ tino, e la speranza risorge, e
la vita rinasce di continuo. Le operette dunque del terzo gruppo
ricostruiscono, nella misura e nel modo che si può secondo L.,
quello che le prime dodici hanno abbattuto. Ricostruiscono, movendo
dall’estrema mina in cui è caduta anche la speranza della gloria, nel
Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai precedenti; e fu ritirato dopo
le prime due edizioni verso il principio, e attratto nell’orbita del
se¬ condo gruppo, poiché tra la Storia del genere umano e il
Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo rifiutò e gli sostituì il
Frammento di Stratone, collocato al diciannovesimo posto, innanzi al
Timandro. Allora il gruppo ricomprese il Dialogo della Natura e di
un'Anima e il secondo II Parini. E il Frammento, lì sulla fine del-
l’opera, innanzi all’epilogo apologetico, fu come l’interpretazione metafisica
che da ultimo il pensiero, ripiegatosi su se medesimo, diede della propria
intuizione filosofica: concezione, sullo stile delle teorie cosmologiche
greche più antiche, di un universo go\'ernato da pure leggi meccaniche,
com’era quello che giaceva in fondo a ogni concetto pessimistico del
Leopardi; onde si tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta,
l’immagine di quella Natura che eternamente passa, e che negli ul¬
timi detti del Gallo silvestre è rimasta «arcano mirabile e spaventoso.
Si noti che il Sallustio fu conservato tra le venti operette primitive
anche nell’edizione di Firenze. quantunque in questa fossero aggiunti i
due nuovi dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti
che in questa edizione invece non potè entrare il Frammento di
Stratone molto probabilmente per le difficoltà già accennate, derivanti dalla
materia di esso, poiché è il solo scritto crudamente materialistico, che
sia tra le Operette. 11 che, se si pensa pure al fatto che il Frammento
fu scritto quando L. aveva tuttavia presso di sé il manoscritto delle Operette,
e a\ rebbe già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa
aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico del hbro), dimostra
all’evidenza che i dialoghi fiorentini, che sappiamo scritti a Firenze
due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si viene ad
aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi: come avverrà del
Frammento, appena l’autore crederà potere e dover tralasciare il
Sallustio, e sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse », risponde
il Mestica I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G. L.,
perché gli parve troppo scolastico e di materia non [ abbastanza
originale, sebbene i pensieri in esso conte¬ nuti siano conformi al suo
filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e scarso valore artistico »,
osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e sull’attrattiva
dello strano e del fantastico prevale nel lettore un senso d’incredulità.
Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e forse anche per
rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar degli anni, il
Leopardi non credè più che tutta la grandezza antica perisse con Bruto e
per opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è accostato al L vero
questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si sarà I pentito
delle parole crudissime che usa parlando della I libertà e della patria.
È ben vero che anche altrove egli f lamenta la mancanza d’amor
patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il Sallustio, in questo
cinico pessimismo, contraddice al motivo fondamentale delle Operette:
logico nell’ordine di pensieri da cui sorse, ma ripugnante a quei
sentimenti più profondi, onde la personahtà del poeta abbraccia in sé e
contiene, e tempera quindi e solleva a un suo particolar significato,
siffatti pensieri. I quali non sono qui un sistema filosofico astratto,
ma l’alimento segreto di un’anima che si riversa ed esprime in una
poesia di grande respiro, la quale in tutta la sua unità risuona
all’anima del lettore come una musica, secondo che osservò un amico del
poeta, il Montani i, appena I operette morali di L., ’
Le prose morali di L.Vedi la sua recensione ncWAntologia del gennaioche
incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera d’opera nuova, di entrare in
teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi un motivo musicale diverso
dal vero, trovar men bello e men significante ciò che poi dee sembrarvi
meraviglioso ? — Quando VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio
dell’operette del L. ancora inedite.... io non ne fui che leggermente
colpito; mi mancava il motivo della musica. Intesone il motivo, al
pubblicarsi delle operette insieme unite, mi parve d'aver acquistato
nuovo orecchio e nuovo sentimento. E ne scrissi al Giordani, ch’era a
Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora stava potè leggere tutta la
collana delle Operette. Questo rrio tivo fondamentale facilmente si
riconosce nel preI^^]i^^ e nell’epilogo, onde è inquadrata nella sua
naturale cor nice la trilogia delle operette : ossia nella Storia del
genere umano e nel Timandro: due operette, che sono affatto
estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di tutte le altre, ad
eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re qua e là s’insinua a
frenare l’impeto Urico di gioia e d’entusiasmo; a quello spirito, che si
può definire con le parole stesse con cui il Leopardi ritrae se medesimo
in una lettera al Giordani (del
tempo in cui forse raggiunse nel Frammento di Stratone l’estremo
termine di questo suo stato d’animo) : « Quanto al ge¬ nere degli studi
che io fo, come sono mutato da quel che io fui, così gli studi sono
mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso e di eloquente mi annoia, mi sa
di scherzo e di fanciullaggine ridicola. Non cerco altro più
fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio
di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e
delle cose, e di inorridire freddamente, speculando questo arcano
infelice e terribile della vita dell’universo ». Lo stesso animo, non
altrettanto feli¬ cemente, ma con maggior abbandono, esprimerà tut¬
tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar non perde
Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i
fati qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra gente a’ di
del Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla camera del
suo amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette del L.
sono musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più
d’una osservazione notabile.
SuU’amicizia del L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi
leopardiani, Firenze, Le Mounier,
(si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)] Della prima stagione i
dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso
immagini, che tanto Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi
fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito
e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e
solitario riso. Né degli augelli mattutini il canto Di
primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni bel tate o di natura o d’arte.
Fatta inanime e muta; ogni alto senso. Ogni tenero affetto, ignoto
o strano; Del mio solo conforto allor mendico. Altri studi men
dolci, in eh’ io riponga L’ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle
mortaU E dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi traendo Verrò:
che conosciuto, ancor che tristo. Ila suoi diletti il vero.
Questo era stato il suo ideale nelle Operette] speculare, scoprire,
frugare la miseria degli uomini e di tutto, e inorridire, ma con petto
irrigidito e freddo. Se non che nel '25, nel caldo ancora dell’opera,
poteva credere di aver raggiunto già questo stato d’animo; l’anno
dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior consapevolezza, sente
che il suo petto sarà forse un giorno, non è ancora, al tutto irrigidito
e freddo; non è eterna la gioventù del cuore, né in lui, né in altri, ma
non è ancora del tutto tramontata. Così nelle Operette il freddo
inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di affettuoso e di
eloquente è un desiderio, un programma, un propo sito; ma non è, né può essere
il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è inanime e muta, né ogni
alto senso ogni tenero affetto ignoto e strano. E questo sente
liené e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di Eleandro; dove a
Timandro che, secondo la filosofia di moda fa alta stima dell’uomo e del
progresso di cui egli è capace' ed è insomma un ottimista, il pessimista,
che sente invece per l’uomo un’alta pietà, il futuro cantore della
Ginestra protesta di non essere un Timone (per quanto non abbia
sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; « Sono nato ad amare,
ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva
Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in età naturalmente fredda,
né forse anco tepida » (aveva appena ventisei anni !) ; « non mi
vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di
natura, e il meno che mi è pos¬ sibile ». Dove ognun vede che realmente
certo invinciliile pudore arresta Eleandro innanzi alla conseguenza
delle sue dottrine; e si ripigha subito infatti: « Contuttociò sono
solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di
patimento ad altri. E di questo, per poca notizia che abbiate de’ miei
costumi, credo mi possiate essere testimonio ». L’amore degli altri si
ribella alla negazione che se n’ è voluto fare, e s’appella all’ intima e
irreprimibile attestazione del cuore. Altro che freddezza e petto
irrigidito! E da ultimo Eleandro conchiude; «Se ne’ miei scritti io
ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo deU’animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro ; io non lascio tuttavia negli
stessi libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo studio di
quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di
noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, [Ed ecco perché,
scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬ tolare, come aveva
pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli non era davvero
quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero Filénore
poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di azioni, e perversità di
costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle opinioni,
benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti, magnanimi,
\nrtuosi, e utili al bene comune o privato; quelle immaginazioni belle e
felici, ancorché vane, che danno pregio alla vdta; le illusioni naturali
dell’animo; e in line gli errori antichi, diversi assai dagh errori barbari;
i quali, solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della
civiltà moderna e della filosofia ». Dunque, ogni alto senso e tenero
affetto, destato da queste illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui
si volgono gh occhi del Leopardi, il mondo di Stratone da Lampsaco,
o la natura dell’ Islandese, come non è spiegabile nel mondo che solo
esiste per la scienza; ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al
cuore del Poeta. 11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a
dispetto di quella natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtù,
dichiarandola un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque
contradittoria a quell’altra natura, che non conosce né amore, né bene.
Inorridire fred¬ damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al
di sopra della universale miseria, sentita come tale, e non
assentirvi, non semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe
voluto. Così nella Storia del genere umano, vero preludio
alla sinfonia delle Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno fondo di
cotesta miseria, rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità,
spunta egualmente una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile
dei mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è
mai spenta, commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta
infehcità; e massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza
d’ intelletto, con¬ giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i
quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più
IO.(‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi. che alcun
altro, dalla potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia
appunto, della Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità,
propose agjj immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo
a visitare, come avevano usato in antico, e racconsolare in tanto
travaglio questa loro progenie, e particolarmente quelli che dimostravano
essere, quanto a se, indegni della sciagura universale. Tacciono tutti
gli altri Dei¬ ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste,
«questo massimo iddio », che « non prima si volse a visitare i
mortali, che eglino fossero sottoposti all’ imperio della Verità ». Di
rado egli scende, e poco si ferma, e perché la gente umana ne è
generalmente indegna, e perché gli Dei molestissimamente sopportano la
sua lontananza. EgU è dunque premio, che l’uomo conquista con la
sua grandezza. La quale perciò è condannata sì all’ infelicità del
vero; ma è pur redenta e beatificata da Amore. « Quando viene in sulla
terra, sceglie i cuori più teneri e più gentih delle persone più generose
e magnanime; e quivi siede per breve spazio; diffondendovi sì
pellegrina e mirabile soavità, ed empiendoh di affetti sì nobili, e
di tanta virtù e fortezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova
nel genere umano, piuttosto verità che rassomiglianza di beatitudine.
Rarissimamente congiunge due cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro
a un medesimo tempo, e inducendo scambievole ardore e desiderio in ambedue;
benché pregatone con grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa:
ma Giove non gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi;
perché la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve
intervallo superata dalla divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo
nume vince per se qualunque più fortunata condizione fosse in alcun uomo
ai migliori tempi. Ed ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur
freddamente, allo spettacolo del tristo vero. La sua anima è calda
(iel divino beneficio di Amore. Né può in lui la verità (quella mezza
verità) contro le sacre illusioni, che né egli può respingere, né altri
egli ha consigliato mai a respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello
si aggirano, invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già
segregate dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per
questo effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere
vietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fantasmi, e
nell’animo grandemente offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura
dei geni di contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra logica
non render l’arme all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale
mette in cuore il bisogno della virtfi, e la fa apparire poi stolta a
Bruto. Infine, quella stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e
ringa¬ gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo
Amore ; « E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi
esso, convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo
voto degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della
puerizia. Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare, suscita e
rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede, l’infinita speranza e
le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti
c incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì
lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode
i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe:
tanto è da natura magnanimo e mansueto. Qui non c’ è satira,
né riso, né fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa del
Poeta, che con la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di
Elean- dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore
tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel
gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad
ora in una perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo
e della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con nodi
divini, e della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose
nobili e alte che fan grande l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto
verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la vita umana,
questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬ simista, sì, ma alla
Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la
nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers
entier s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour
le tuer. d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore
plus noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et
l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la
grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU misérable E il
Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia delle Operette, e quando il
concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬
biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬ mente comprendere
e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità dei mondi, si
sente essere infinitesima parte di un globo che è minima parte degh
infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione
stupisce della sua piccolezza e pro¬ fondamente sentendola e intensamente
riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel
pen¬ siero della immensità delle cose, e si trova come smarrito
nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora con que¬ sto atto e
con questo pensiero egli dà la maggior piova della sua nobiltà, della
forza e della immensa capacità della sua mente, la quale, rinchiusa in sì
piccolo e menomo essere. I Pensées, (Brunschvicg). è jiotuta
pervenire a conoscere e intendere cose tanto superiori alla natura di
lui, e può abbracciare e con¬ tener col pensiero questa immensità
medesima della esistenza e delle cose. Questa coscienza dell’umana
grandezza e sovranità sulla trista natura il Leopardi non smarrì mai; ed
è l’anima di tutta la sua poesia, in cui queste Operette rientrano.
E chi voglia intenderle, deve nel loro insieme e in ogni singola parte
che le costituisce, aver l’occhio a questo punto centrale, da cui
s’irradia la luce che tutte le investe e compenetra. Tutte, ad eccezione
del Sallustio, che è negazione fredda, senza l’orrore, la ri-
beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato da amaro sorriso, che
si diffonde in tutte le altre. E questo parmi il giusto motivo che
indusse l’autore a sopprimerlo. Quando nel ’27 una nuova ripresa della
primitiva ispirazione diede il Copernico e il Plotino, venutisi
quindi ad aggiungere alle prime Operette già formanti un orga¬
nismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché il Copernico dimostra,
secondo il detto dello stesso autore, la nullità del genere umano; e la
dimostra ripigliando un’ idea che contro i Timandri medievali attardati
aveano già nel Cinque e Seicento svolta Bruno nella Cena delle
ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la conclu¬ sione necessaria
che Porfirio ricava nell’altro dialogo (che sarebbe poi la conclusione
rigorosamente logica di tutta la parte negativa delle Operette) : che sia
ragionevole uccidersi. Ed egh vince a furia di argomentare (movendo da
premesse, che son quel che sono, ma a lui paiono ben fondate) il suo
stesso maestro, Plotino. Ma Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza
assai più profonda più vera: «Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro
ragion^ 1 accomodar l’animo alla vita : certamente quello è u ^
atto fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuoP elegger piuttosto di
essere secondo ragione un mostr^' che secondo natura uomo. Perché contro
natura e contro umanità il suicidio ancorché conclusione di logica
inesorabile? Porgiam’orecchio, dice Plotino, «piuttosto aUa natura che
alh ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre
nostra e deU’universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se
bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e
malefica, che non siamo stati noi coir ingegno proprio, colla curiosità
incessabile e smisu¬ rata, colle speculazioni, coi discorsi, coi sogni,
colle opinioni e dottrine misere: e particolarmente, si è sforzata ella
di medicare la nostra infelicità con occultarcene, o con trasfigurarcene,
la maggior parte. E quantunque sia grande 1 alterazione nostra, e
diminuita in noi la jjo- tenza della natura; pur questa non è ridotta a
nulla né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in
ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il che, mal grado che n’abbia la
stoltezza nostra, mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu
nomini error di computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile;
pur si commette di continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl’idioti, ma
dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la
natura, che ha prodotto questo nostro genere, essa medesima, e non già
il raziocinio e la propria mano degli uomini, non lo spegne.
E credi a me, che non è fastidio della vita, non disperazione, non
senso della nulhtà delle cose, della vanità deUe cure, della solitudine
dell’uomo; non odio del mondo e di se medesimo, che possa durare assai:
benché queste disposizioni dell’animo sieno ragionevolissime, e le lor
contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un
subito, per cagioni menomissime, e appena possibili a notare; rilassi il
gusto della vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose
umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di
qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di
dire, al senso dell’animo » •. E infine, conclude Plotino, questo
senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa. Sicché è evidente che
non la filosofia negativa, che spazia dal Dialogo d’ Ercole e di Atlante
fino al Cantico del Gallo silvestre e al Frammento di Stratone, e poi nel
Copernico, opera di puro intelletto, è la somma della sapienza leo¬
pardiana; ma questa stessa filosofia in quanto dichiarata stoltezza dalla
natura e da questo « senso dell’animo ». Senso dell'animo, che è
sempre amore per L. Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì
anche un bisogno d’amore, che a noi spetta di alimentare: « E
perché », chiede Plotino, « anche non vorremo noi avere alcuna
considerazione degh amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli, dei
frateUi, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che,
morendo, bisogna lasciare per sempre : e non sentiremo in cuor
nostro dolore alcuno di questa separazione; né terremo conto di
quello che sentiranno essi, e per la perdita di persona cara o consueta,
e per l’atrocità del caso ? ». E dice la parola, che si va cercando
attraverso tutte le Operette, ma di cui può dirsi quello stesso che
Tacito dell’ imma- Il solo, a mia notizia, che abbia rilevato l’importanza
che questo «senso dell'animo» ha nel sistema dello spirito leopardiano,
come principio di redenzione dal pessimismo, è stato il prof.
Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni leopardiane (6 volumi, Pavia,
1894-99), passim, e specialmente voi. V, pp. lys-yy. 1gine di Bruto
mancante ai funerali della sorella: prae- fulgebat eo ipso gitoci non
visebatiir. « E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né
pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si
gitta per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il
genere umano: tanto che in questa azione del privarsi della vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men
liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo. Dunque quella
grandezza non è infelicità; perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la
morte; e si ucciderebbe se vivesse per la felicità e si attenesse quindi
al calcolo dell’utile. Ma la vera vita è non sembianza, sì verità
di beatitudine se è amore, in cui l’uomo non distingue più sé dagli
altri, né agli altri antepone più se stesso. E questa è la A’irtù, la
magnanimità, di cui parla tanto spesso L., che non è più il dolore
incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma questo amore che ci
stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del nostro cuore di
uomini, come Plotino con voce tremante di affetto dice al suo Porfirio: «Viviamo,
e confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il
destino ci ha stabìhta, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo
a tenerci compagnia l’un l'altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano
e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica
della vita». Questo amore, che ci regge e riempie la vita, ci conforta
la morte e ci abbellisce l’idea di questo mondo, da cui non spariremo
senza sopravvivere. « E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e
anche in quell’ultimo momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e
ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo sjienti, così molte
volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora ». Vili.
Amore è la prima e l’ultima parola delle Operette. Le quali ebbero
ancora una ripresa nei due dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e
Tristano. Nel primo ritorna il motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il
venditore d’almanacchi col suo grido festoso annunzia l’anno nuovo, il
tempo che ri¬ comincia, e risveglia le speranze e promette. Ma il
pas¬ seggero in cui s’incontra oppone la sua fredda riflessione a
quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e lo conduce a considerare che «
quella vita eh’ è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella
che non si co¬ nosce ; non la vita passata, ma la futura ». La vita che
si conosce è la passata, mista di beni e di mali, e a cagione di
questi ultimi tale che nessuno vorrebbe riviverla: vita brutta, dunque.
La futura è quella che non si conosce, e che sarà egualmente brutta
quando sarà passata; e sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la
vedessimo venire incontro quale in effetti sarà. Dunque ? L. non
conchiude ; ma la conclusione è quella che viene dalle Operette: sperare
non è ragionevole, poiché, come cantava il Gallo silvestre, già si corre
alla morte; ma non sperare non si può; perché, è evidente, il
futuro sarà brutto quando sarà passato; ma bello è finché fu¬ turo;
né di questo futuro potrà mai tanto passarne che non ce ne sia sempre
dell’altro, in cui possa rifugiarsi la speranza, o innanzi a cui non
possa il Gallo intonare il suo canto consolatore. E la vita resta sempre
con queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una mi¬ seria
disperante; a viverla, a \'iverci dentro col nostro cuore, i nostri
fantasmi, le nostre speculazioni e il no¬ stro amore, una beatitudine
divina. Fu per Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede.
Dopo dieci anni tornò la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però
luminosa immagine della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del
cuore stesso di Giacomo. Bello il tuo manto, o divo cielo, e
bella Sei tu, rorida terra. Airi di cotesta Infinita beltà parte
nessuna Alla misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi
superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E
dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille
invano Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo
guarda ad Aspasia; onde ricorderà: Or ti vanta, che il puoi. Narra
che prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol
vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di
sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola,
ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir. E
cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu «
notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido
disperato ; Morremo ! -- e violenta
cercò l’atra notte e la silente riva. Leopardi scrisse invece Amore e
morte] dove la morte non è più l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in
tutta la sua gentilezza fino alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella
d’Amore ; 1 Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima
fanciulla, Dolce a veder, non quale La si dipinge la codarda
gente. Gode il fanciullo Amore Accompagnar sovente; E
sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d'ogni saggio
core £ la morte sospirata dall’amante, nel languido e stanco
desiderio di morire, che si sente Quando novellamente Nasce
nel cor profondo Un amoroso affetto, perché già a’ suoi occhi
la vita diviene un deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil
fatta Vede ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità
che il suo pensier figura; Ma per cagion di lei grave
procella Presentendo in suo cor, brama quiete. Brama raccorsi
in porto Dinanzi al fier disio. Che già. rugghiando, intorno
intorno oscura. E a questa morte consolatrice, che insieme con
amore è quanto di bello ha il mondo, a questa morte, senza armare
la mano, anzi con umile e mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro
di religiosa preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al
mondo dei terreni affanni. Se celebrata mai F'osti da
me, s’al tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar
tentai. Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati
preghi. Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o
dell’età reina. Non già che amore e morte abbian potere di
cancellare la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi
abbiano mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le
penne al suo pregare, lo troverà Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. La man che flagellando si colora
Nel suo sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir. La
morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬ dele: ma già
Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto nel
vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa
aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di
Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia
del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬ ciarlo : « non lo
volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e
di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità
dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento
che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in confidenza, mio
caro amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a
me, con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo;
e tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario
». Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più
vi dico francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né
piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri
uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra
cosa.... Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora,
il fatto non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho
invidiato gli sciocchi e gh stolti, e quelli che hanno un gran concetto
di se medesimi; e volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non
in\'idio più né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né
potenti. In¬ vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri
àzH’antico dolori E quest'invidia, questo desiderio intenso della morte,
è fiducia confortata da una speranza che non falhrà, e che già allieta di
sé Tanimo sottratto per lei a quella vita che è dolore: a quella cosa
arcana e stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare senza
tema, poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione
piacevole, ogni pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia
solitudine, e con cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è
un avvenire, adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva.
In conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del
dolore, anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la
natura e il fato danno all’uomo « di cedere inesperto ». Cederebbe il
suicida egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore,
e guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae,
alla miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte
di cui Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al
principio delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge
desioso alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che
dall’una conduce all altra è già nella Storia del genere umano'.
Amore figlio di Venere celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel
Messaggero della domenica, poi nei Frammenti di estetica e letteratura, A
proposito di L. toma sempre in campo la questione delia differenza e del
rapporto tra filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per
certi rispetti nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma,
d’altra parte, egli stesso pare abbia voluto distin¬ guere una cosa
dall’altra, come res dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma
più sistematica e più ra¬ zionalmente convincente esporre quel suo
pensiero da cui traeva intanto ispirazione il suo canto nelle
poesie. E non importa se non ci sia una sola delle sue poesie in
cui il Leopardi non ragioni la sua fede e non si sforzi di dimostrare la
verità del concetto ch’egli s’era formato della vita, e che attraverso
una determinata situazione personale, un paesaggio, un ’immagine, si
sforza costantemente di mettere in piena luce. Non importa se nessuna
delle prose raccolte nelle Operette morali si presenti sotto la forma di
scolastica dimostrazione e scevra di quel sentimento, di quella viva
commozione, in cui \dbra la personalità del poeta così nelle Operette
come nei Canti. La distinzione pare tuttavia innegabile, poiché, non
po- tenilo altro, se ne fa una questione di quantità e di più e di
meno: affermando che l’elemento filosofico predomina nelle Operette, e l’elemento
hrico nei Canti. E si crede così di salvare la tesi generale, che bisogna
rinunziare alla filosofia per esser poeti, e viceversa: giacché la
loro natura è così diversa e ripugnante, che l’una non può esser
l’altra e una sempre deve essere sacrificata. Ma io non voglio ora
affrontare la questione, che potrà sembrare tanto teoricamente difficile
e dehcata uanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso di L. la questione
di principio è priva d’ogni interesse, perché il Leopardi, anche nelle
sue prose, è indubbiamente poeta ; temperamento poetico sempre, che,
canti o ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in realtà non
riesce se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella verità che
gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare e di assoggettarla a
quella più alta razionalità, a quella critica oggettiva che s’inquadra in
un sistema, e in cui consiste propriamente una filosofia che non vuol
dire che non abbia anche lui la sua filosofìa; ma è una filosofìa fatta
vita e persona, fatta vibrazione e ritmo del suo stesso sentimento,
incapace come tale d’acquistare intera coscienza di sé, e perciò di
superarsi. E, cioè, un certo suo atteggiamento spirituale, che s’effonde
nella divina ingenuità della poesia, e che riesce perciò superiore
a quella dottrina che l’autore si sforza consapevolmente di
formulare. Superiore perché, ormai è noto agh studiosi più
attenti della sua poesia questa ha pel
poeta un contenuto pessimistico, e per noi, invece, ha un contenuto
ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatal¬ mente infelice, è
ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi, vedeva e si proponeva di
cantare. Ma poiché quella \nta che ogni poeta canta non è quella che ha
innanzi agli occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e però
ogni poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore con
cui egli la guarda; e poiché il cuore di L. era, come egli disse una volta,
nato ad amare, ed aveva amato, e forse con tanto affetto quanto
]iuò mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del suo
I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii. d.
filos- Hai., e nel voi. Dante e
Manzoni, Firenze, Vailecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che è piena
di dolore, ma quell’altra che egli più profondamente sentiva, redenta
dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che rassomiglianza di
beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e ottimismo: che il
primo vede la vita quale apparisce nella natura considerata dal punto di
vista materialistico, brutale, sorda ai bisogni e alle finalità dello
spirito, chiusa in sé di contro alle aspirazioni dell’anima umana
biso¬ gnosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme alla
sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede nello spirito, nel
valore de’ suoi ideali, e nell’energia dell’amore che sola è capace di
reahzzare un tale valore. 11 mondo del pessimista è il mondo
dell’egoismo, per cui il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il
mondo del¬ l'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà
è quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità è
questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi alla
superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più
acutamente pessimista, col progresso della riflessione, e tanto più
altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la canzone All’Italia con
La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della sua poesia, dove la
bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e dissolvono nella
commossa e tenera effusione di un’anima angosciosamente agitata da
un bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede nella
virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di questo superiore
ottimismo in cui rimane assor¬ bita la sua iniziale visione pessimistica;
e continua a dire che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-,
ma l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella storia
del genere umano. Lett. al De Sinner -- realtà che è per lei la vera e
suprema realtà, raggiungo bensì la forma poetica della sua espressione in
modo pieno e perfetto. Se cerchiamo in lui il filosofo,
avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto mediocre nell’
invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba ai libri
che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti ph,
disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬ ferma delle sue
idee: mediocre nell'esposizione od ela¬ borazione della materia, per
evidente inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente familiarità
coi grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il Leopardi e
si fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né anima per
vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo ed eterno e grande:
ciò per cui anche a chi pedanteggi la sua poesia s’impone e suscita
un’eco solenne nell’animo. In questo senso bisogna pur dire che in
Leopardi non si deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è un anima,
che rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima umanità. C’ è
insomma il poeta. Anche nelle sue Operette. Le quali io credo di
avere definitivamente dimostrato con argomenti esterni, at¬
testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di esso L., e con
argomenti interni, desunti dallo svolgimento del pensiero e dagli evidenti
legami onde le singole operette sono congiunte tra loro per
graduali passaggi di atteggiamenti spirituali e di sentimenti dal
primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta, ma un organismo, un
tutto unico, che si articola dentro di se stesso e si conchiude. Si
conchiude tra un preludio e un epilogo in una opera, che è un poema, e
non è un trattato: un libro di poesia, anch’esso, e non di contenuto
didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente di venti
capitoli, scritti tutti in un anno di lavoro felice, ma con un intervallo
tra i primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire il
sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte, svolgendosi
in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie: dalla quale
sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché introduzione e
questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie, si
ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono in
due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è destinato a
svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé. Sospetto
confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo
ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una
sostituzione che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per
l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo
gruppo: capitolo abolito allora perché infatti non armonico né col
gruppo, né con tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non
può avere se non una importanza relativa. £ ragionevole pensare che
fosse voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non volle mai
rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da lui curate dei Canti, e
diede loro un ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore, e che per
i lettori ed interpreti non può essere perciò trascurabile. Ma il fatto
stesso che tutte e venti le operette furono scritte successivamente,
l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo, e hanno tutte un
prologo generale e un unico epilogo, dimostra evidentemente che i loro
singoli gruppi non si possono considerare separatamente, quasi ognun
d’essi formasse un tutto a sé. La distribuzione del nucleo
principale delle Operette in tre gruppi di sei capitoli ciascuno, con a
capo un capitolo introduttivo e in fondo un altro capitolo conclusivo, può
servire soltanto a renderci attenti per leggere le varie parti del libro
cercandovi tre motivi fondamentali che nel pensiero deU’autore si
fondo no in un solo ritmj complessivo, e formano l’unità organica
del libro; e in questo modo può servire quasi di chiave a un libro,
che fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno o l’altro
capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre dire che ci vuole
discrezione, e non bisogna pretendere un taglio netto tra un gruppo e
l'altro, e una soluzione di continuità che non si sa perché l’autore
avrebbe do¬ vuto introdurre una prima e una seconda volta nel corso
della sua unica opera. Discrezione che non vedo, per esempio, nel
professor Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e Farfarello
che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬ vire quindi come
passaggio al secondo, mi domanda: « Ma non potrebbe stare anche nel
secondo, poiché è una affermazione chiara ed esplicita dell’ infelicità
assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che, assoluta- mente parlando,
il non vivere è sempre meglio del vivere ? ». Ma io non avevo eretto nessuna
muraglia tra il primo gruppo concluso da questo dialogo di
Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello della Natura
e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero dominante nel primo
gruppo, additavo in Malambruno quell’anima che si ritrova di fronte alla
Natura al prin¬ cipio del nuovo ciclo; e tra i due dialoghi successivi
non un salto, anzi un passaggio naturale e come insensibile ove non
si osservi che quella che nel primo ciclo è una constatazione,
un'osservazione di fatto, diventa nel se¬ condo ciclo il problema.
Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una nuova
edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬ zocco -- da me
usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬ renza tra primo e secondo
periodo in questa trilogia delle Operette consisterebbe, secondo me, in
ciò: che nel primo « r infelicità del genere umano si considera
particolarmente nell’età moderna come effetto più che altro della volontà
pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel secondo invece, « questa
infelicità si considera come legge imprescindibile e ineluttabile
dell’umanità o del mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella
prima ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e di
fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio di ogni male e di
ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo Zumbini tra
la prima fase « storica » del pessimismo leopardiano, e la seconda
metafisica o cosmica. Ma non corrisponde per l’appunto alla distinzione
da me indi¬ cata, tra il concetto del primo e quello del secondo
gruppo delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien
posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto della vita, non
più degna d’essere vissuta; poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la
vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e
l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irrequieto
ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ». Qui il pessimismo
storico è già superato, e Malam- bruno può dire che « assolutamente
parlando » il non vivere è meglio del vivere. Lo può affermare, perché
la vita umana, fin da principio e per sua natura, è senso,
coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e affatto
inconsapevole, che è pura animalità. « Può parere », scrissi io, « che la morte
dell’umanità, la sua nul- htà o infelicità sia, nei dialoghi del primo
gruppo, una colpa dei degeneri nepoti » : poiché infatti civiltà è aumento
progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in realtà, fin dalle origini,
insieme col sapere, che fa uomo l’uomo. c’ è già il dolore, ed il destino
dell’uomo è fissato. Malambruno perciò è benissimo al suo luogo alla fine
del primo ciclo. Il secondo ciclo ricava la conseguenza
pratica della verità scoperta nel primo. E si apre infatti col
Dialogo della Natura e di un’Anima, nel quale dalla proporzione del
dolore con la grandezza dell’uomo (il cui progresso e perfezione consiste
nell’acquisto di sempre maggior copia di sentimento che gli fa sentire
sempre più acuto il dolore dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio
spogliarsi deU’umanità, o delle doti che la nobilitano, e farsi «
conforme al più stupido e insensato spirito umano che la natura abbia mai
prodotto in alcun tempo. Negare l’umanità, rinunziare a ciò che fa il
pregio della \ùta, rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente,
che ci respinge da sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi
alla vita vuota, al tedio, all’ inerzia. Laddove il primo ciclo addita
aU’uomo l’abisso che con la coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il
secondo gli fa sentire il destino a cui gli conviene di rassegnarsi,
rinunziando a quella natura che non è per lui, e a quella vita che
sol¬ tanto nella natura potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è una
negazione, per così dire teoretica; il secondo è la negazione pratica, che
consegue dalla prima negazione. La conclusione dovrebbe essere
quella di Bruto minore e di Saffo, il suicidio; non ò però la conclusione
del Leopardi, il quale non finisce con r Ultimo canto di Saffo, ma con la
Ginestra. E perché quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto
nel terzo ciclo delle Operette. Il quale svolge questo motivo: che
quella vita che certamente non ha valore, perché è dolore e perciò
negazione della vita che noi vorremmo vivere, ripullula rigogliosa e
incoercibile dalla sua stessa negazione. La \àta è abbarbicata
aH’anima umana; e questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della
gloria, la stessa contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro
da tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch, attraverso
una filosofia che sappia intendere e sorridere con la magnanimità bonaria
di un Ottonieri, attraverso gli stessi rischi in cui la vita si perde e
si riconquista col gusto di una cosa nuova, e in generale
attraverso l’attività, il movimento, la passione e la speranza che
non vien mai meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore che ci fa ricercare
nell’uomo, neW’umana compagnia, quello che la natura ci nega anche nella
piena coscienza della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e
sente la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo
dalla natura. Una soluzione dunque del problema della vita nei
tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che
no: perché la via che filosoficamente si dovrebbe seguire per superare il
pessimismo radicale dei primi due cich è, senza dubbio, quella per cui
l’anima dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente
procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì 10 slancio
naturale dello spirito che risorge con tutte le sue forze dalla negazione
pessimistica. E il pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità
assoluta e insuperabile. Leopardi sente bensì e vive la verità superiore,
ma non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬
rimenta in sé ed attesta coi moti del suo animo la potenza dello spirito, che
anche nell’uomo che s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa della
forza tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e gusta
la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello spirito. E in
questo balsamo, che il suo animo sparge così su tutte le piaghe che ha
aperte e che ha fissate inorridito, in questa dolcezza che sana ogni
dolore, in quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione, qui la
personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto nelle Operette,
come nei Canti. Si rilegga l’affettuosa parlata di Eleandro onde
si conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il di.
scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei. lato nelle aggiunte
posteriori; e si neghi, se è possibile, che il centro e l’accento
principale dello spirito leojiar- diano è in quel « senso dell’animo »,
com’egli dice, che, agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo, e con l’amore,
vincolo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale inespugnabile
a ogni riflessione scettica, e superstite infatti (coni’ è detto nella
Storia del genere umano) a quella fuga di tutti i lieti fantasmi che è
prodotta dal sorgere della verità tra gli uomini. L’animo del L.,
come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi vi si stringe
vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta, per quel che
dice appunto Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna
considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli,
dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di
questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, per
la perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del caso ?
». Questo non è un argomento filosofico, ma un cuore che trema in ogni
parola; e ogni parola si sente come velata dal pianto dell’anima che il
dolore apre ed espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a
domandarmi il profes¬ sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola
delle Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia
consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della vita
nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno
possa dubitarne. E non vedo che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale
dubita piuttosto che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare
che sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo a
Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo
posto fu collocato il Dialogo di Tristano e di un Amico. La compassione
di Eleandro, egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo dialogo
dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e Mis nore, cioè
odiatore dell’uomo, doveva essere L. ». Ma il Faggi non ha badato che (come
avrebbe potuto vedere da tutte le varianti che io ho tratte
dall’autografo) cotesto titolo, poi mutato dall’autore nell’altro con cui
pubblicò il dialogo, non solo fu ideato quando ancora il dialogo era da
scrivere, ma mantenuto fino alla fine della composizione del dialogo
stesso. Sicché il concetto di Mist'nore è puntualmente quel
medesimo che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè non si
oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si oppone soltanto a
chi, anzi che Filénore, merita d’esser detto Timandro, perché
eccessivamente valuta, col domma della perfettibilità progressiva, il
potere umano di impadronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è
l’uomo vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII e
dai progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche sorti e
progressive del Mamiani: è l’uomo vittima della natura e però degno di
compassione. La compassione non è amore; certo. Ma ne è la radice.
E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del genere umano, manda
Amore fra gli uomini. Perché solo l’amore lenisce i dolori, per cui si
commisera l’infelice; e se Eleandro, dopo aver protestato con un grido
che gli si sprigiona dal più profondo del cuore: Sono nato ad
amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima
viva », soggiunge. Oggi non mi vergogno a dire che non amo nessuno,
fuorché nie stesso, per necessità di natura, e il meno possibile»-
l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del si' sterna
pessimistico della vita che Eleandro oppone al dommatico ottimismo di
Timandro; ma si smentisce subito continuando. Con tutto ciò sono solito e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione di pa¬
timenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg una sorta di
amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte questa
morte (come credo di aver chiarito abbastanza col riscontro di quel
dialogo con i canti dell’amore fio¬ rentino, Aspasia e Amore e morte),
non è la disperazione della vita, cantata da Bruto minore e da Saffo, ma
è la bellissima fanciulla che Gode il fanciullo Amore
Accompagnar sovente; la bella morte, pietosa, sospirata in
quel languido e stanco desiderio di morire che sorge col nascere d’un
amoroso affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel Tristano,
non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì contro quel
volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di Timandro e deH’amico di
Tristano. Vero è che per leggere Leopardi non bisogna tanto badare a
quello che egli dice, ma al modo piuttosto in cui lo dice, al tono delle
sue parole, in cui propriamente consiste la sua anima, e quindi la vita e
il valore della sua prosa. Che io perciò desidero considerare più
come poesia che come argomentazione. E perciò non posso accettare
quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo Genio familiare e dell’
Elogio degli uccelli. Come mai, mi domanda del primo, «appartiene
al secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo dialogo è senza
dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato. vale il Dialogo
di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ». Infatti, egli osserva, «
non dee spaventare la differenza che c’ è fra un uomo chiuso nelle
quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele spiegate 1’
Oceano infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio col suo
Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il grande Genovese
nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la maniera di fuggire
la noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando altro frutto
non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo Colombo a
Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima in quanto che per
lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara la vita, ci fa
pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in considerazione.
E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla conversazione col suo Genio,
che, si può ritenere, il consigUo da questo datogli di ricercarlo, ov’ei
lo voglia, in qualche Uquore generoso, non andrà perduto. Tutt’e due,
tra fantasticare o navigare, van consumando la vita: non con altra
utiUtà che di consumarla; che questo è l’unico frutto che al mondo se ne
può avere: e l’unico ‘intento che l’uomo deve proporsi ogni mattina in
sullo svegliarsi ’ ». Ora tutto ciò, se si guarda alla nota
fondamentale dei due dialoghi, non credo si possa sostenere. Lo
spunto del Colombo ci è indicato dallo stesso Leopardi, che, come
io ho mostrato, aveva prima concepito questo scritto col titolo di Salto
di Leucade\ e il senso o nucleo del dia¬ logo va quindi cercato nel passo
che segue alle parole citate dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU
antichi, come avrai letto o udito, che gli amanti infelici, gittan-
dosi dal sasso di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella
marina, e scampandone, restavano per grazia di Apollo, liberi dalla
passione amorosa. Io non so se egli si debba credere che ottenessero
questo effetto; ma so bene che, usciti di quel pericolo, avranno
per un poco di tempo, anco senza il favore di Apollo avuta cara la vita,
che prima avevano in odio; o pm-g avuta più cara e più pregiata che
innanzi. Ciascuna na vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla
rupe di Leucade; producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli
che quello non produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore
assai. Credesi comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a
ogni poco in pericolo di morire, facciano meno stima della vita propria,
che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto giudico che
la vita si abbia da molto poche per¬ sone in tanto amore e pregio come
da’ navigatori e soldati ». Non il consumai'e la vita è
l'utilità del rischio, a cui Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la
gioia di riafferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfuggita per
sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo bene, appena ci paia di
averlo perduto, se lo riacqui¬ stiamo. 11 Colombo è questa gioia del
pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare per vincerlo.
Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il piacere della
vista di un cantuccio di terra: ma il povero prigioniero non conosce né
spera mutamento alla sua sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da
parte i dolori, la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può
parlare perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino universale
degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo della natura, che
circonda e chiude dentro di sé l’uomo: A me pare che la noia sia della
natura dell’aria : la (juale riempie tutti gli spazi interposti alle
altre cose matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro:
e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra, quivi ella
succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai
piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo
mate¬ riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così
nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la mente per
qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del
tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal
corpo, si trova con¬ tenere qualche passione; come quello a cui l’essere
vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia;
la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto. Che
egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio col suo Genio, è vero. Ma
lo consuma senza dolcezza, ]ier confermarsi nella convinzione della sua
immedicabile tri¬ stezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure
assai. Non che ella interrompa la mia tristezza, ma questa per la più
parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle ;
mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che
molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando
mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio risponderà con amara
ironia che la sua abitazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi
crede sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla lettera ? «
Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che ebbe pure la strana idea
di cercare negh scritti del Tasso l’eventuale fondamento storico di
questo tratto. Il quale, per chi legga la prosa leopardiana con animo
sensibile all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può
significare altro che un realistico strappo che 1 autore vuol dare alla
stessa poetica illusione consolatrice del- r infelice prigioniero.
E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello scrittore io
credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli lirica stupenda sgorgata al
Leopardi dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un
canto di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli
un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione; benché
questa sia ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il
Leopardi non intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al
Passero no litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto
estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello non è un canto
di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il Leopardi è filosofo,
e non è poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la giornea del
filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo
soli¬ tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso.
.Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende
in una lunga digres¬ sione sull’origine e la natura del riso,
suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che
fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo suo
volea riposarsi, si lascia attrarre a considerare il riso umano nello
scettico, nel pazzo e nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o
spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto degli
uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia
voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi
ritenuta da senno per vera, e industrian¬ dosi di dimostrarla nel miglior
modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera ci ammonirebbe il poeta. Il quale ad
altro proposito scriveva al padre scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo :
« Io le giuro che l’intenzione mia fu di far poesia in prosa, come s’usa
oggi, e però seguire ora una mito¬ logia ed ora un’altra ad arbitrio;
come si fa in versi, senza essere perciò creduti pagani, maomettani,
buddisti ecc. » Senza essere creduti perciò zoologi o filosofi,
possiamo aggiungere noi. E del resto a quella conclu¬ sione io non credo
che il Faggi abbia voluto andare incontro intenzionalmente, poiché egli pure
vede « l'ima¬ ginazione beta o serena in cui l’animo del Leopardi
volea riposarsi » ; e rispetto alla quale gli uccelli non sono davvero
gli uccelli dello zoologo; ancorché nella tessitura dell’ Elogio l’autore
si giovi spesso di reminiscenze delle sue letture del Buffon (che è poi
un poeta, anche lui, della storia naturale) ; ma sono appunto un’
immagine, simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce
tedio, anzi è tutta una gioia. La cui espansione e penetrazione nel cuore
del poeta si vede bene dove a questo si svegha nell’animo un senso di
gratitudine verso quella Provvidenza, che volle il dolce canto degli
uccelli a conforto degli uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu
notabile prowedimento della natura l’assegnare a un medesimo genere di
animali il canto e il volo; in guisa che quelli che avevano a ricreare
gli altri viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto,
donde ella si spandesse all’ intorno per maggiore spazio e
pervenisse a maggior numero di uditori. E in guisa che l’aria, la
quale si è l’elemento destinato al suono, fosse popolata di creature
vocali e musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non
meno, per mio parere, agli altri animali che agli uomini, l’udire il
canto degli uccelli. La prosa tranquilla e contenuta vuol essere
nella sua forma esteriore l’eloquio didascalico di un filosofo, ma
tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che vi si agita
dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa dal poeta
contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la vispezza dei
volatili. « Gli uccelli per lo contrario, pochissimo soprastanno in un medesimo
luogo; van- [ I Episiol., lett. no e vengono di continuo senza necessità
veruna ; usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più
cen tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo
in sul vespro vi si riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in
un luogo, tu non h ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono
cjua I là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK
lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di
moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’esposizione
solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’ deve vibrare dentro,
si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice eruditi e freddi, e
che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel
desiderio finale di Amelio: Similmente io vorrei, per un poco di
tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e
letizia della loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che ne sono quasi
la chiave, e che reca me¬ raviglia non vedere intese esattamente nepjmr
dal Faggi Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo
pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito ma offuscatore
assai più spesso che rischiaratore del nitido pensiero leopardiano, postillò: n
Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la vantata perfezione
degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno restrittiva. E il
Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio non sia riuscito a
convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo non sia stato
davvero troppo profondo ». Come se si trattasse di convincere! A me
pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬ dere quell’inciso; ed è
quello che verrà subito in mente ad ognuno, che rifletta che se il
filosofo avesse espresso il desiderio d’essere convertito per sempre in
uccello, avrebbe fatto ridere. Che diamine, il poeta invidia degh
uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non sono altro per lui, ma
né anche la contentezza e la letizia per lui sono tutto, ed egli ama
troppo la propria umanità per essere disposto a barattarla con esse per
sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui, come per Porfirio,
la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso dell’animo» lo
ammonisce colle parole di Plotino: «In vero, colui che si uccide da se
stesso non ha cura né pensiero alcuno degh altri; non cerca se non la
utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi
prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa azione del
privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il
men bello e men liberale amore di se medesimo che si trovi al mondo
». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del Palazzo Comunale di
Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio dello stesso anno del
periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di commemorare un poeta è
quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo animo, nel mondo
dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli elementi della sua
biografia, tutti, dalla data di nascita a quella di morte, i casi della
sua vita, le persone e le cose in mezzo alle quali questa vita si svolse,
le idee stesse che egh accolse e che professò, le correnti spirituali
ante¬ cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono semplici generahtà,
paragonabili alle note d’un passaporto; le quah, ove non si accompagnino
e precisino con una fo¬ tografia, rimangono appunto generalità,
riferibili a migliaia di persone. Ogni uomo è una determinata personalità
in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca da vicino e cioè
per davvero, è singolare e inconfondibile: unica. E la sua singolarità in
fondo consiste non nella periferia del mondo di cui l’uomo fu centro, ma
in quello piuttosto che egli fu, al centro di questo mondo, col suo modo
di reagire a questo mondo che era il suo, raccolto nel suo pensiero
e nel suo sentimento. Due possono nascere nello stesso anno e nello
stesso giorno, vivere nello stesso luogo e quasi cogli stessi spettacoli
dinanzi agli occhi, tra gli stessi uomini e quasi con le stesse voci
negli orecchi; e ricevere la stessa educazione, incorrere magari nelle
stesse malattie, e insomma viv'ere tutta materialmente la stessa vita e
concorrere perfino nelle stesse idee, ed essere come due anime gemelle.
Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad entrare nel suo
intern è se stessa, diversa, assolutamente diversa dall’altra quel
certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr nel timbro della voce
o lampeggia nelle pupille, svelane!^ subitamente l’essere dell’indi\dduo
: quell’essere eh” ognuno di noi, nella vita, spia e riesce a
scoprire atti e nelle parole delle persone che frequenta. Quest
dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in verità tutta la
vita effettiva dell’uomo non soltanto quale essa è, ma quale è sentita e
perciò nel valore che ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io: il
soggetto, che è la base d’ogni individualità umana. Qualcosa
d’inaf¬ ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta se
non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni del carattere,
nel complesso degh atti e delle parole, che formano la trama della vita
dell’ individuo. 11 centro non è rappresentabile se non in rapporto alla
sua circonferenza. Ora questo demone segreto che si cela e si svela
nella vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del
poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se non jierché riesce
a stampare una più profonda impronta di questa segreta potenza nelle
espressioni del suo essere. E pare che per lui innanzi agli occhi
meravigliati della moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine
infinita l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa il
suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù
sua onnipossente son corpi saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la
immensa scena del mondo che il poeta sostituisce a quello della comune
esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli vede e tutto
ciò che può dirci è la sua anima, anzi questo dèmone che si cela nella
sua anima. Nel caso di L., quanto difficile cercarla e trov'arla questa
scaturigine della sua poesia: e quanto perciò s e girato e si gira
tuttavia intorno al segreto della sua grandezza ! Questa poesia da un
secolo e più conquide tutti i cuori, trova la via di tutte le anime, che
sponta¬ neamente si aprono alle soavi commozioni di essa. Ma
studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da mille ingegni,
alla luce di mille sistemi e sulla base di mille preconcetti, analizzata,
tormentata dalla preten¬ siosa volontà indagatrice della critica,
impegnata per lo più nella superba impresa di ricostruire l’arte dagli
sparsi frammenti esanimi ottenuti attraverso una fredda operazione
anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora alla intelligenza
riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una
definizione. Negli ultimi tempi vi si son provati critici di
grande levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non
disconoscerò io il merito insigne. Questi scritti giovano indubbiamente
alla comprensione della poesia leopar¬ diana; ma solo in quanto ne
scoprono alcuni aspetti. 11 loro comune difetto è quello di trascurare la
verità, che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho
creduto opportuno prender le mosse. Trascuranza il cui effetto è questo:
che il critico non sente la necessità di risalire sino alla sorgente da
cui la poesia leopardiana sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere
l’unità della sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei
motivi in essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e le
prose del Leopardi, e si dica. Nelle prose, manco a dirlo, non c’ è
poesia. C’ è una pretesa filosofia, che è una filosofia per modo di dire.
Lambiccatura di cervello che si sforza di dimostrare sistematicamente uno
stato d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato
d’animo; e quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero e profondo
sentire dello stesso scrittore, e perciò freddo, sofistico. Né filosofia,
né poesia. Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono
strofe o versi in cui il poeta trova se stesso e parla serio e
commosso; e lì è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano
e tornano da sé a risuonare nell’animo, a commuoverci col calore e la
passione della vita che ogni uomo vive e sente. Ma ci sono negli stessi
canti poesie giovanili rettoricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche
non meno fredde e artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora-
torii, in cui il poeta cerca l’effetto e pensa al lettore e non si
dimentica nello schietto moto della sua anima Manca qua e là negli stessi
canti più felici il caldo di queir ispirazione, che s’apprende
immediatamente all’animo di ogni uomo. Risorge il ragionatore a freddo
che vede il mondo dall’angustissimo foro che le sciagure fisiche e le
tristi condizioni personali gli han lasciato aperto sulla grande scena
della vita, e vien meno il poeta che accoglie beato nel suo petto la voce
naturale del mondo e il vasto respiro delle cose. £ fortuna se alla prova di questa
critica si salva qualche frammento della poesia del Leopardi.
Ma si salva davvero ? Io vorrei invitare questi critici a
ristampare Leopardi purgandolo da tutte le scorie della sua poesia, per
darcene il fiore, un’antologia; con¬ tenente i soli pezzi ^'eramente
poetici a cui si fa grazia. Temo che al fatto questa antologia
riescirebbe estrema- mente difficile, se non impossibile: poiché non solo
il significato di ciascun verso risulta dal contesto a cui
appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel complesso del
componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre un accento, in cui è la
sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può sentire se non nel ritmo
dell’ insieme. Isolare una parola è impresa vana ed assurda. E se
si crede il contrario, ciò accade perché in realtà quella parola
che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la fondiamo in un nuovo
nesso, in un ritmo da noi creato, in cui non è più la parola di quel
poeta, ma l’espressione del nostro animo. L. non è soltanto il poeta
degl’ idillii, dove il suo petto si allarga e s’inebria del profumo della
na¬ tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande cuore del
mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei campi, brilla a
notte nel mite chiarore della luna, imporpora il viso alle fanciulle
innamorate, tuona tra le nubi nell’ infuriar della tempesta, e ridesta ad
ora ad ora negli animi stanchi e delusi la speranza e la dolcezza
dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Eleandro; ed è Copernico e
Ottonieri; ed è Colombo e Tasso visitato nel mesto carcere dal suo Genio
familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto della Natura
dal volto mezzo tra bello e terribile; ed è il gallo silvestre che sta in sulla
terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo, e
riempie del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile e
spaventoso dell’esistenza universale » che, « innanzi di essere dichiarato né
inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato
nel sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero e della
vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima soavità dell’amore, onde
gh uomini vincono ogni travagho c gustano una beatitudine divina,
ancorché confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento
nella vita universale. Ed è anche il poeta che come italiano vede le colonne e
i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma non vede più la gloria e le
armi dei padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera
infinita d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza
pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore la disperazione
di Bruto per l’impotenza della virtù sconfitta dalla perversa fortuna e
lo strazio della misera Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei
superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non gli
si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode di cedere inesperto,
guerreggerà sempre contro l’indegno fato, e in cui anche il virile animo
di Saffo si sentirà sparso a terra il velo indegno, di emendare il crudo
fallo del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo che si leva
col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo che conosciuto,
ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si compiace d’investigar
Yacerbo vero e i ciechi destini delle mortali e delle eterne cose] e trae
gli ozi in questo speculare. E in fine l’uomo che si rifugia con questo
altissimo sentimento della invitta potenza del pensiero umano nella
rocca inespugnabile della noia: di questo che egli dice « in qualche modo
il più sublime dei sentimenti umani », poiché « il non poter essere
soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera;
considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, n numero e la mole
maravighosa dei mondi, e trovare che tutto è ])oco e piccino alla
capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e
l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe
ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vóto, e però noia,
pare a me il maggior segno di gran¬ dezza e di nobiltà, che si vegga
della natura umana. E perciò anche L., nel colmo della sua
delusione, può giungere a fermare in se stesso ogni desiderio e
ogni moto, a disprezzare perfino se stesso, come la natura, il
brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V infinita vanità del tutto:
e, pur caduto l’incanto che gli fece vedere e amare in una donna mortale
la Dea della sua mente, pur vedendo ormai nella propria vita una
notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare al suo fato
Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella coscienza di
se medesimo: su l’erba Qui neglùttoso immobile
giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e sorrido.
Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi della poesia
leopardiana, per restringerci al dolce gusto di quell’ idillico che è la
prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì elementi di una
poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del Leopardi. Nella
quale quella prima forma è solo uno degli elementi del dramma e del fiero
contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia leopardiana per l’appunto
consiste. L’i dilli o è certo alla base di L. poeta. Ne risuona il
motivo di continuo nell’ Epistolario, nello Zibaldone, nei Canti, nelle
Operette morali. Se volete rendervi conto della natura dell’ idillio, come L.
r intese e lo sentì, rileggete l’ Infinito, quei quindici versi che
gittano la fantasia del Poeta al di là della siepe in spazi interminati,
sovrumani silenzi e profondissima quiete: dove l’infinito silenzio e
l’eterno assorbono in sé e annichilano la voce del vento che stormisce
tra le piante e il suono delle lotte e delle fatiche umane: Così tra
questa Immensità s’annega il pensier mio E il naufragar m’ è dolce
in questo mare. L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli
riflettendo si distingue e si oppone alla natura, e si confonde
con essa. Ricordate il Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia, che dice alla sua greggia: Quando tu siedi all’ombra, sovra
l’erbe. Tu .se’ quieta e contenta; E gran parte
dell’anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra
l’erbe, all’ombra, E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno
spron quasi mi punge Si che, sedendo, più che mai son lunge Da
trovar pace o loco. Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta
l'antico mito della colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna
Possa de’ morbi e di sciagura ; e attribuisce all’ irrequieto ingegno
dell’uomo la prima origine dei suoi dolori. La noia, la sublime noia, è
il privilegio del pensiero. Finché la riflessione non è sorta, e il
pastore errante non è ancora in grado di domandare alla luna il fine di
tanti moti, e che sia Questo viver terreno. Il
patir nostro, il sospirar che sia; Che sia questo morir, questo
supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir
meno .‘Vd ogni usata, amante compagnia; egh può esser queto e
contento come la sua greggia. Pensare è distinguersi dalla vita,
opporvisi, sentirsene fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di
tutto: non aver più né contentezza né pace. Il Leopardi intanto sa
bene che senza pensiero non c’ è grandezza. Perciò in uno de’ suoi
dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’, figliuola mia prediletta, che tale
sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e sii
grande e infelice. Perciò il Poeta dice ai « nuovi credenti » che
non credono al dolore: A voi non tocca DeU’umana miseria alcuna
parte, Ché misera non è la gente sciocca. Dico, ch’a noia in voi,
ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri alcun poter concesso.
Non al dolor, perché alla vostra cuna Assiste, e poi sull’asinina
stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se talor la vostra
vita inciampa. Come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio Il non
sentire e il non saper vi scampa. Noia non puote in voi, ch’a
questo scoglio Rompon l’alme ben nate. Ma se il pensiero è la sorgente
del dolore, bisogna pur distinguere tra pensiero e pensiero. E anche
questo è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la stessa natura
deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore e nella virtù ; che
sente e crede nella bellezza della natura e della vita; che spera e apre
l’animo alla gioia delle il¬ lusioni, che tali si dimostreranno al
cimento della espe¬ rienza, ma che la natura stessa risusciterà sempre
dal fondo del cuore umano a rendere amabile o almen sopportabile la vita.
Questo è pensiero. Ma c’ è un altro pensiero, che si sovrappone a questo
primo e lo critica e lo demolisce e lo irride, e, scoprendone tutte le
debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore umano e lo inonda
d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che l’uomo si abbrutisca come il
gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli simile, e al pari di esso rimaner
congiunto con la natura e godere del benefizio di essa, se si abbandona,
per dir così, al pensiero naturale, e vede la vita con quegli occhi che
la natura gh ha dati. Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e
istintiva che è propria di tutti gli esseri naturali, senza che
questa natura sia sconvolta o turbata dal suo irrequieto ingegno.
Così fa il fanciullo, così tutti gli spiriti semplici e sani. Questa è la
giovinezza sempre rinascente del genere umano; dell’anima aperta alla
speranza e fortificata dalla fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova
in se stesso al mattino sul primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni
suo giorno, come d’ogni nuovo periodo della sua vita « Il primo tempo del
giorno », canta anche il gallo silvestre « suol essere ai viventi il più
comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri
dilettosi o lieti- ma quasi tutti se ne producono e formano di
presente perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia
alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o
sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se
alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato daUa
disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza
ciuantunque cUa in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli
propri, molte cause di timore o di affanno, paiono in quel tempo minori
assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce
del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso,
come effetto di errori e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla
vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla
giovanezza. Cresce l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬
sione, la speranza dilegua: sottentra il dolore e la noia: tanto più
acuto quello, tanto più grave questa, quanto più viva fu la speranza e
ardente la fede nella vita. Quindi la grande importanza del momento
idillico, o giovanile, spontaneo, naturale in una poesia che, come quella
del Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco e della
opposizione, che è il momento del dolore. Questo dolore è materiato, si
può dire, dalla stessa dolcezza dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione
non avrebbe mai il suo significato lirico se non corrispondesse a
un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così bella
agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo
cuore, egli si duole tanto di non possederla. Al disperato affetto di
Saffo non arride spet- tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto
negli occhi e nel petto; Placida notte, e verecondo
raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in
su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care Mentre ignote mi
fur l’erinni e il fato. Sembianze agli occhi miei. Del resto questo
molle spettacolo non fugge da’ suoi occhi senza che questi si volgano
desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo.
Noi r insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si voi
ve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando
il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il
tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar
giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o
d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira
dell’onda. Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di
questa natura di cui ella si vede prole negletta:, Bello il tuo manto, o divo
cielo, e bella Sei tu, rorida terra. A me non ride
L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor; me non il
canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure saluta: e
dove all’ombra Degl' inchinati salici dispiega Candido rivo il puro
seno, al mio Lubrico pie’ le flessuose linfe Disdegnando
sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge. GkktIx<s,
Manzoni e L. Bruto minore, fermo già di morire, percote l’aura sonnolenta
di feroci note. Ma tra queste note se ne odono di soavi, affettuose, per
quanto solenni, come queste: E tu dal mar cui nostro sangue
irriga. Candida luna, sorgi, E l’inquieta notte e la
funesta All’ausonio valor campagna esplori. Cognati petti il
vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle somme vette Roma
antica mina; Tu si placida sei ? Tu la nascente Lavinia prole,
e gli anni Lieti vedesti, e i memorandi allori; E tu su
l'alpe l'immutato raggio Tacita verserai quando ne’ danni Del
.servo italo nome. Sotto barbaro piede Rintronerà quella
solinga sede. Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e
l’augello. Del consueto obblio gravido il petto. L’alta mina
ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre. Al mattutino canto Quel
desterà le valli, e per le balze Quella r inferma plebe
Agiterà delle minori belve. D’altra parte, fin da quando il
Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed eternamente
giovanile della santa natura e del mondo, contro cui si volgerà sempre
più risentito e dolorante, egli sente nel petto Nell’ imo
petto, grave, salda, immota Come colonna adamantma, quella
noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte Carlo Pepoli. E
nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri piccoli e
grandi idilli che altro, infine, si canta se non il dolore ? Dolce
e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli
orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna
mia. Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la
notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse agevol soimo Nelle tue chete
stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta
piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che si
benigno Appare in vista, a salutar m’affaccio, E l’antica
natura onnipossente. Che mi fece all’affanno. A te la speme Nego, mi
disse, anche la speme; e d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di
pianto. La serenità, il dolce chiarore lunare dei primi versi e lo
stesso sonno tranquillo e scevro d’affanni de lla donna formano lo sfondo
del quadro, in cui risalta la personalità di quest’uomo, a cui la
speranza è negata e i cui occhi non brilleranno mai se non di lagrime.
L’amarezza di questa anima desolata nasce dal contrasto. La donna
sogna forse a quanti oggi piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e
sentimenti pieni di dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto
per fargli sentire che egli ne è escluso: non io, non già eh’ io
speri, .à.1 pensier ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna.
Si getta per terra, grida, freme. E il suo pensiero si insinua
nella gioia altrui e vi soffia dentro il vento della riflessione
che l’inaridisce: Ahi, per la via Odo non lungo il solitario
canto Dell’artigian, che riede a tarda notte. Dopo i sollazzi, al
suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non
lascia. L’artigiano probabilmente non fa questa malinconica
riflessione. Probabilmente egli, come la donna, rimembra i sollazzi del
giorno, la cui memoria non è spenta e basta tuttavia a riempirgli e
consolargli l’animo. Ma su quel mondo festivo e gorgogliante ancora di
sensazioni dilet- tose il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore
de¬ solato. E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste
sue poesie, che L. stesso definì idillii, e in cui più forte
risuona la corda dell’animo commosso e vibrante della stessa vita del
mondo. Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria
che comincia; La mattutina pioggia, allor che l’ale
Battendo esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon
s’afìaccia L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce I suoi tremiili
rai fra le cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente
picchiando, mi risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il
primo Degli augelli susurro, e l’aura fresca, E le ridenti
piagge benedico; per rivolgersi subito contro le cittadine infauste
mura, e per concludere; In cielo. In terra amico
agh infehci alcuno E rifugio non resta altro che il ferro.
Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto è idillico
il principio. I due termini si corrispondono e si congiungono insieme in
un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione e l’amore per la
natura, per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza
ma¬ gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la
patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che rende amabile e
santa la vita, e non intenderete più lo strazio delle sue delusioni.
Prescindete dal fermo con¬ vincimento, che la sua filosofìa gli ha
piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli ideali in cui
l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente;
chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui egli, tornando sempre ad
esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale
degli uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non
potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca a questa
vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire virgineo con cui tutto
il suo essere si stringe al mondo, che non può, malgrado tutto, non
amare. Leggete II pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte
del Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è
gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬ giato, ma il cui
incanto è caduto, risorge nella sua memoria e nel suo cuore superba visione,
sua delizia ed erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e
presente, torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,
che già lo fece per tanto tempo ululare. L’atteggiamento negativo
ed ostile, quando non si scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e
signi¬ ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme
di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in qualche raro
tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬ rette morali. Di cui si è
potuto parlar con sì distratta intelligenza da vedervi lampeggiare non so
che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi, sa
che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i critici
del frammento. Si fermano a una pagina delle Operette leopardiane, e non
curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente
unità organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la
stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così
vedono Momo, i sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine
del libro. E si lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito
iniziale, la Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-
v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come
si lasciano sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino,
tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e
centrale e quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,
che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più
pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del
freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei due
opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello spirito del
Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel momento stesso
che pare prostri gli animi nel più disperato dolore, li solleva, conforta
ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soa\ ita. Idilho e
dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la vita; e l’uomo che
diffida di essa, e se ne apparta ed estrania; e fattosene spettatore
deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto infinito. Due cuori
diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì unificati in un
cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né ])cssimismo, ma il
commosso e serio concetto della nobiltà, del valore e della superiore
letizia della vita, tremenda insieme e adorabile, angosciosa e febee :
questa è 1 es¬ senza della poesia leopardiana. In verità, l’origine
del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e soprattutto sperimenta in se stesso, che
quel pensiero che ferisce, sana esso stesso le sue ferite. 11 pensiero
che sfronda l’albero della vita di tutte le sue illusioni, e specula e scopre
l’infinita vanità di tutto, è lo stesso pensiero dentro eh cui
quell’albero ad ora ad ora rinverdisce di nuove fronde. Non si può negare
che esso faccia guerra continua alla nativa confidenza deH’uomo nella
natura; ed esso certamente spegne nei cuori la fede e la speranza. Ecco,
da una parte. Saffo supphchevole ; e dall’altra, il ruscello che al piede
della misera donna, la quale tenta d’immergervisi e sentirne il
refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose acque, e fugge e
s’affretta per le piagge odorate. Se non che questo pensiero
devastatore e distruttore della originaria unità dell’uomo con la natura,
è esso stesso una nuov'a natura: è la natura di quell anima grande
perché infelice, e infehee perché grande, onde il Poeta insuperbisce
sopra la turba degli sciocchi. E in verità sempre che il pensiero non si
guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui, si viva, esso non è più nulla
di estraneo alla vita, ma è la vita stessa. E in esso, ancorché
rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più aride, rifluisce l’onda della
vita e si risveglia il palpito della gioia. Allora, ecco, il Leopardi
acquista coscienza della felicità superiore in cui si purifica e
rinvigorisce il suo spirito attraverso al pensiero e al canto; poiché
(come egli dice) « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e
la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e nobiltà
dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente comprendere e
fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora egli
sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è contenuto
nel suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora egli,
piccolo ed esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore,
s’inebria del profumo della sua poesia, che consola il deserto.
Allora egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna gli
può strappare, nel demone divino e onnipotente che fa insieme la sua
infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore della vera vita; in
cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende l’amcre
con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riattaccano alla vita e han
la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a conclusione d’un
rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino ammonisce che «
non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere secondo
ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro chi non cerca se non
la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle spalle i suoi
prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se medesimo
pospone all’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini, è
proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono, per
dir così, due ragioni: una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio
attraverso il più sordido amore di noi medesimi, e una superiore, che ci
libera dal giogo di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini
che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non è la
natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e
canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed
acque. Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi
aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette. Fingon l’ombre
lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e
collinette e ville; Giunta al confin del cielo. Dietro
Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la
luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente
luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier dalla sua
via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età mortale La
giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere canta. La giovinezza si
dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto. In questo canto, nella
sua mesta melodia, è il più alto segno dello spirito del Poeta. Qui la
sua poesia. Conunemorazione centenaria letta alla R. Accademia
Nazionale dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata, oltre che
ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i» lugUo dello stesso
anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi (Firenze,
Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla morte di L. Secolo, segnatamente
per 1’ Italia, pieno di grandi eventi ; storia mossa e agitata da fedi e
interessi in massima parte estranei all’animo del Leopardi, anzi osteggiati
e a volte irrisi da lui. Altra filosofia, altro uomo. E gli effetti sono
stati così cospicui, così importanti, anche secondo il modo di vedere del L.,
da riuscire un’aperta condanna delle sue convinzioni e de’ suoi giudizi
storici. Secolo, si può dire, anti-leopardiano, culminante in questa Italia,
potente, imperiale, creazione audace della stessa Italia che alla
fantasia giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche
ambe le braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la faccia
nascosta tra le ginocchia, piangente. Eppure lungo questo secolo la
fama del Leopardi è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in
Italia ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza
della sua poesia, della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi
giorno per giorno, di penetrazione, di comprensione e di intima simpatia a mano
a mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza
più seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze
risorgevano a dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo
contro gli oppres¬ sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano
rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e
di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano
dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva,
operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto
sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una
nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un
esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla
vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e
creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate
da secoli all’igno¬ ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di
un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le
energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello
Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era
venuta formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee
religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande
guerra della storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più
d’ogni altra nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova
stupenda dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬
fonda rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova
Roma. Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui
parlava Leopardi! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di
quesb cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi, r
ha portata sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza. La
bibliografia leopardiana è una delle più ricche tra quante se ne siano
formate intorno ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con
la dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e
su¬ scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con i
casi della sua vita. Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano
con le loro alte cime al vento, da De San- ctis a Carducci e a
Pascoli, per non citare viventi, e di fitta boscaglia pullulante per
tutto, ai piedi dei grossi tronchi. Intorno al L. non pure letterati,
deside- sori di esattamente conoscere tutti i particolari della biografia
e dello svolgimento graduale del genio, e di risol¬ vere tutti i problemi
che lo studio di tal materia fa na¬ scere; ma filosofi e storici della
filosofia, poiché il Leopardi ebbe il gusto degli alti concetti
speculativi, e nel suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri
di dottrine celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme
scienziati (antropologi e fisiologi) entrati a un tratto in
sospetto che certi limiti nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬
vino da non so qual limite somatico; sospetto nascente da improvvisate
teorie e appoggiato a improvvisate os¬ servazioni di fatto; ma fecondo tuttavia
di costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili
tuttavia a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto
in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente, peraltro, se ci
sono state deviazioni ed eresie critiche e storture di metodi materialistici
suggeriti da pigrizia intellettuale di letterati ottusi, o da presunzione
pseudo-scientifica di cervelli rozzi e ignari dei rudimenti di qual¬
siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito, ci sono stati pur
saggi di quella critica magistrale che attraverso le forme storiche e
letterarie e i conseguenti atteggiamenti della espressione artistica sa
scoprire il principio profondo dell’ ispirazione, che è l’anima del poeta
e 1 essenza di quell’eterna poesia che lo fa immortale. Critica che
in Italia, in questo secolo, da Leopardi a noi, ha avuto esempi da
fare epoca, e che hanno infatti educato nel¬ l’universale la coscienza
del solo metodo che ci sia per raggiungere il poeta là dove egli e
poeta. Così in questa selva della letteratura leopardiana noi
non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a capo di questo secolo anti-leopardiano
si può dire che egli sia stato prima scoperto, e poi veduto più e più
giganteggiare come uno dei più grandi spiriti della storia del mondo, e
come il creatore della più intensa poesia che si sia prodotta mai
in Italia. Fu scoperto quando un nostro grande critico, che lo aveva
conosciuto di persona, gentile e mansueto come era, e molto ne aveva
studiato ed amato gh scritti, e acutamente investigato lo spirito che ci
vive dentro, non poteva paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire
la infinita differenza tra il pessimismo amaro del filosofo tedesco e il
pessimismo sui generis del poeta itahano. L., dice, produce l’effetto
contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa
desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio
inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi
accostar tigli, che non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti,
perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa
credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la
patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a
nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta,
gentile e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse
prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato
accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva
confessato il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più
freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli
occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza
indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser
vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che
non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nuUità delle
cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio del
mondo e di se medesimo; che possa durare assai; benché queste
disposizioni dell’animo siano ragionevo¬ lissime e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata
leggermente la dispo¬ sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in
un subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare;
rilassi il gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e
le cose umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne
di qualche cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire,
al senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva
l’uomo dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché
sente di dover affermare, come fa L. Sono nato ad amare, ho amato, e
forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva, sohto e
pronto a eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬
mento agli altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire : <( Se ne’
miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo
dell’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di (juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte
o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, o perversità di costumi; laddove, per Io
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben
comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane,
che dànno pregio alla vita; illusioni naturali dell’animo; e infine
gli errori antichi, diversi assai dagli errori barbari; i quali
solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà
moderna e della filosofia ». Così aveva pensato quando scriveva con
animo di credente il Saggio sopra gli errori popolari degli
antichi. Così continuava a pensare, da miscredente, sette anni dopo,
nella canzone Alla primavera, o delle favole antiche. Non si può credere
al Poeta, quando, raccogliendo il succo dell’amarissima esperienza
amorosa fiorentina e assaporandone il fiero gusto, rivolge .4 se stesso nel
'33 quegli accenti disperati ed empi; In noi di cari
inganni Non che la speme, il desiderio è spento. Amaro e
noia La vita, altro mai nulla ; e fango è il mondo. Al gener
nostro il fato Non donò che il morire. Ornai disprezza
Te, la natura, il br\itto Poter che, ascoso, a comun danno
impera, E r infinita vanità del tutto. Momento
satanico, ma un solo momento: voce sì dell’anima leopardiana, ma che il
lettore attento non può ascoltare se non commista in armonia profonda
a voci più alte che sgorgano da polle maggiori; e che lo stesso Poeta
ascolta dentro il suo petto come espressione più schietta della sua
propria natura. Alla quale egli non può rinunziare, convinto che sia da
fare « poco stima di quella poesia che, letta e meditata, non lascia al
let¬ tore nell’animo un tal sentimento nobile, che per mez¬ z’ora
gl’ impedisca di ammettere un pensier vile, e di fare un’azione indegna. Il
momento satanico ricorre spesso nel Leopardi. Ma esso è la prima e
fondamentale ribellione di questa forza incoercibile che egli sente
insorgere di dentro a se medesimo, di fronte e a dispetto della natura,
ossia di questo universal meccanismo che regge il mondo concepito,
come L. aveva appreso a concepirlo, in maniera rigorosamente
materialistica: quel mondo in cui non c’ è posto per la libertà, né
quindi per la virtù, né per l’immortalità; per nulla di ciò che forma
l’essenza umana dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede,
e la fiducia nella sua forza di contrastare alla natura, di
dominarla e farne strumento di una vita spirituale sem¬ pre più
ricca. Lampeggia sì da lungi allo spirito del Poeta l’im¬ magine enorme
e tremenda di quella Natura disumana, che stritola e annienta l’uomo e
tutte le pretese del suo audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli
si presenta nel Dialogo della Natura e di un Islandese: dove
all’uomo che aveva fuggito quasi tutto il tempo della sua vita per
cento parti la Natura e la fuggiva da ultimo nel- r interno dell’Africa,
sotto la hnca equinoziale, in un luogo non mai prima penetrato da uomo
alcuno, ecco che gli interviene qualche cosa di simile che a Vasco
di Gama nel passare il Capo di Buona Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura
in petto e in persona: «Vide da lontano un busto grandissimo; che da
principio immaginò doveva essere di pietra, e a somiglianza degli ermi
colossali veduti da lui, molti anni prima neh’ isola di Pasqua. Ma
fattosi jiiù da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta
in terra, col busto ritto, appoggiato il dorso e il gomito a una
montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile,
di occhi e capelli nerissimi ; la quale guardavalo fissamente ». La
Natura è infatti qui nelle parti dove si dimostra più che altrove la sua
potenza. E alle molte parole con cui 1 ’ Islandese si lagna delle
tribolazioni che affliggono l’uomo in questa vita a cui non egli ha
chiesto di nascere, risponde breve che « la vita di quest’universo è un
perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé
di maniera, che ciascheduna serve con¬ tinuamente all’altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro,
verrebbe parimente in dissoluzione ». Intanto sopraggiungono « due leoni, così
rifiniti e maceri dall’ inedia, che appena ebbero forza di
mangiarsi quell’ Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si
tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso,
e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che r Islandese
parlava, lo stese a terra, e sopra gh edificò un superbissimo mausoleo di
sabbia; sotto il quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una
bella mum¬ mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato
nel museo di non so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente
beffardo della prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga
questa immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra una
dichiarazione esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero
enorme delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo,
anzi per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo
socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso
della vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al
di sopra e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo
Leopardi non fa la fine dell Islan¬ dese; non soggiace aUa natura, pasto
dei leoni o còlto improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda
dal¬ l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore nell’
intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col
sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia n plebeo il quale, non valendo a
cessare gli oltraggi del destino, si consola con la necessità dei danni,
quasi fosse men duro un male senza riparo o non sentisse dolore chi
è privo di speranza. No, Guerra mortale, eterna, o fato
indegno, Teco il prode guerreggia. Di cedere inesperto.
È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso luta ad emendare
il crudo fallo del cieco dispensator de casi. A quel modo di
emenda a cui s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà consentire, come
sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo non
devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo che col pensiero
si leva al di sopra del fato, intende, comprende e sorride;
Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili errori,
È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato mortale a me
bastante E conforto e vendetta è che su l’erba. Qui neghittoso
immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e sorrido.
Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si allarga allo
spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece battere un momento
il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa eroica grandezza non
basta; poco stante, nella piena maturità delle sue esperienze morali,
tornata la calma dopo la tempesta della patita delusione e del
sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su dal cuore la risposta
più vera che si deve al cieco dispensator dei casi. Quando, presso
Portici, mirerà i campi cosparsi di ceneri infeconde e ricoperti d’
impietrata lava, là dove erano state liete ville e ricche messi e
armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma involve, il
suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra, che, quasi i danni
altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un profumo, che il deserto
consola: simbolo della sua poesia, del suo animo, che da questa spietata
empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo nella umana
compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro al destino:
Nobil natura è quella Che a sollevar s'ardisce Gli occhi
mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al
ver detraendo. Confessa il mal che ci fu dato in sorte. E non
si rivolge stoltamente contro gli uomini, ma contro la natura che sola è
rea: che de’ mortali Madre è di parto e di voler
matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando. Siccome è il vero, ed ordinata in
pria L'umana compagnia. Tutti fra sé confederati estima Gh
uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta
ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della
guerra comune. Oh l’alta meraviglia del Leopardi, dopo circa un
lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel concetto desolato del mondo
che le meditate dottrine gli mettevano innanzi, e spogliarsi d’ogni
personale sentire, e obliarsi nella speculazione dell’acerbo vero (non più
acerbo del resto a chi lo gusti, poiché conosciuto, come dice lo stesso
Poeta, ancor che tristo ha suoi diletti il vero) ; dopo avere
scritto le Operette che sono la filosofia del Leopardi, ma sono pure
un momento essenziale dello svolgimento della sua poesia; dopo avere
scritto il prosaico programma della sua vita avvenire nell’epistola Al
conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno nella filologia
italiana, che furono per lui le cure spese intorno alle Rime del Petrarca
e la compilazione della Crestomazia italiana. oh l’alta meraviglia,
quando si sentì rifluire in petto la vita ! Non che risorgesse la
speranza; non che la natura gli apparisse sott’altra luce; non che
si accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi. Ma
insomma. Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci inganni.
Sopirò in me gli affanni L’ingenita virtù ; Non
l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non con la
vista impura L’ infausta verità. Dalle mie vaghe
immagini So ben ch’ella discorda; che natura è sorda. Che
miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual egli 1 ’ ha raffigurato
nelle Operette: Pur sento in me rivivere Gl’inganni aperti e
noti; E de’ suoi propri moti maraviglia il sen.
Da te. mio cor, quest’ultimo Spirto, e l’ardor natio.
Ogni conforto mio Solo da te mi vien. Saffo ha ragione quando
afferma; Mancano, il sento, aH’anima Alta, gentile e
pura. La sorte, la natura. Il mondo e la beltà.
Saffo però ha dimenticato il suo cuore: Ma, se tu vivi, o
misero. Se non concedi al fato. Non chiamerò
spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima si calma, torna la
vita con le sue attrattive, con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al
cuore del Poeta Silvia, la giovinetta Silvia splendente di bellezza
negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa; toma l’onda di beate
speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il petto, al suon della sua
voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli studi leggiadri per
affacciarsi al balcone della casa paterna: Mirava il ciel
sereno. Le vie dorate e gli orti, E quindi il mar da
lungi, e quindi il monte. Lingua mortai non dice Ouel eh’ io
sentiva in seno. E pur lo aveva detto la sua lingua, dieci anni
prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito nei quindici
versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna, della spietata
natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura; l’immensa
Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe l’anima
è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica
dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete ove per poco Il cor non si spaura. E
come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito
silenzio a questa voce Vo comparando; e mi sovvien l’eterno, E le
morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Cosi tra
questa Immensità s’annega il pensier mio; E il naufragar m’ è
dolce in questo mare. Di questo momento mistico del Leopardi poco
s’è parlato; ed è momento di grande valore per la compren¬ sione
della sua anima, che in quest’atteggiamento reli¬ gioso placa
definitivamente il fiero contrasto tra la sua indomita
soggettività e la realtà onnipotente e infinita, in cui quella par
destinata ad infrangersi. Lo placa in una situazione idillica che,
riportando l’individuo alla natura madre, infonde in lui la fiducia
rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per vivere, abbandonarsi
al¬ l’azione e sentire nel proprio petto il respiro eterno e r
infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli perciò, com’egh
stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i grandi idilli che dal canto
a Silvia vanno a quello del pastore errante dell’Asia, scritti tra il ’zq
e il ’30, anni della più potente espansione e della lirica più piena e
felice del Poeta, è la chiave di vòlta di tutta la poesia
leopardiana. Quando si legge la lettera al Giordani : « Poche sere
addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e
vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida
e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune
immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a
gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura, la cui voce mi
parve di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere com¬ mossi
da questo prorompere di così alta vena mistica la cui scaturigine
evidentemente si cela nel centro vivo più remoto della personalità
leopardiana. E allora s’intende l’invocazione ansiosa della canzone Alla
primavera: Vivi tu, vivi, o santa Natura ? Allora
si ode quasi il lento respiro queto e dolce e l’arcana soave mestizia della
Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria parte, Sovra un
rialto, al margine d’un lago Di taciturne piante incoronato. Ivi,
quando il meriggio in ciel si volve. La sua tranquilla imago il sol
dipinge. Ed erba o foglia non si crolla al vento; E non
onda incresparsi, e non cicala Strider, né batter peima augello in
ramo, Né farfalla ronzar, né voce o moto Da presso né da
lunge odi né vedi. Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio Sedendo immoto; e già mi
par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso Più le
coramova, e lor quiete antica Co' silenzi del loco si confonda.
Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto del Pastore, così buio e
pur così luminoso, così accorato e pur così sereno, con i suoi perché
disperati, e col suo funereo sigillo (è funesto a chi nasce il dì natale)
e la sua alata poesia : Forse s'avess’ io l’ale Da
volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O
come il tuono errar di giogo in giogo. Più felice sarei. Poiché
il pastore vede che la sua greggia è beata, quasi libera d’affanno, e
che, sopra tutto, tedio non -prova, a differenza di lui, che non ha pace
anche sedendo sopra l’erba, all’ombra, poiché un fastidio gl’ ingombra
la mente e uno sprone lo punge di dentro e non gli lascia riposo. E
ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso, si appaga. Vede il pastore
che nel seno della natura è la felicità; e l’affanno nasce dall’opporsi a
lei con l’irrequieto ingegno destinato ad avvolgersi in un insolubile
intrigo, in una fatica vana senza speranza. Tutta la poesia del
Leopardi attinge in quel punto mistico del ritorno alla gran madre la
pace e la gioia. Allora egli parla dei pensieri immensi e dolci sogni
che gli ispirò sempre, nello stesso modesto giardino della
casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri ». Per
lui, come pel jiassero solitario, non sollazzi, né riso, né amore: ma
cantare sì, come ruccellino che dalla vetta della torre antica va
cantando, alla campagna, finché non muore il giorno; ed erra l’armonia
per la valle, mentre Primavera d’intorno Brilla
nciraria, e per li campi esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il
core. L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che
passa e della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua
vaghezza e in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il
canto che aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa
brillare l’aria e esultare le campagne. Anche uomini di alto
intelletto, come Capponi, han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel
suo con¬ cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬
zione della loro grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬ pere. Come se
questo stesso lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli han voluto
far osservare che felice era certo egh stesso mentre componeva i suoi
canti, e riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo il
significato di tutta la poesia leopardiana, e la sorgente del suo irresistibile
incanto! L. lo sapeva bene, e sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi
Pensieri annotava: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il
miglior tempo eh’ io abbia passato in mia vita, e nel quale mi
contenterei di durare finch’ io vivo ! Passar le giornate
senz’accorgermene e parermi le ore cortissime, e meravigliarmi sovente io
medesimo di tanta facilità di passarle ». E nell’agosto del '23 non
aveva egli scritto, tra gli stessi Pensieri, che « ninna cosa maggiormente
dimostra la grandezza e la potenza deU’umano intelletto.... che il poter
l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua
piccolezza? Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare
della natura santa e onnipossente, raccolta, per dir così, a far la più
alta prova del suo potere dentro il genio dell’uomo. Il quale, pertanto,
in se stesso, infine, trova se stesso, scoperta che abbia la fonte della
sua vita: quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle
beate larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere e
di morire, di fallaci promesse e di v'ane speranze, al regno immortale
della vita dello spirito. E quando scopre questa sorgente, egh è
veramente lui, il genio; e sente l’amore che abbellisce e conforta, e
crede nella potenza e nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna
ad amare la vita nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti
parole suggeritegli dallo spettacolo del mondo esteriore in cui l’uomo
rischia di smarrirsi, sente l’ineffabile gusto dello spirito che si
ritrae in se stesso e nel sentimento del proprio valore, quale si svela
al contatto di quella natura eterna, in cui è il suo principio e con cui
perciò deve immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio essere.
E il naufragar m è dolce in questo mare. Qui la grandezza del
Poeta; qui l’incanto della sua poesia, che i giovani amano per l’amore
della giovinezza che vi spira dentro; che gh uomini maturi ed
esperti della vita amano non meno per il lucido specchio che essa
offre degli aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i quah si deve
avere il coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che tutti gli
uomini, piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come uno dei doni
più preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran
cuore parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono per
sedvarsi) in un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e della
non meno innegabile azione dello spirito che affranca da ogni miseria e
infonde la fede per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro, sacro
per gl’ Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in cui
grandi pensieri si sono fatti semplici e chiari e perciò faciU, com’ è al
passero solitario il suo perpetuo canto : anima della sua anima. Piccolo
libro da leggere bensì non a brani e frammenti, ma intero, affinché non
sia frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme la
sua dolce virtù consolatrice e animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di
Firenze e pubblicata nel volume di letture Giacomo Leopardi a cura di
Blasi (Firenze. Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo
Leopardi (Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un
grande poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di
questo poeta con la filosofia, un pover uomo, per discreto che voglia
essere, si espone al rischio di toccare un tasto falso e di riuscire
uggioso e molesto fin dalle prime parole. Ripugna infatti al senso
poetico di cui ogni spirito ben¬ nato è più o meno riccamente dotato,
questa ricerca che ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima
e affatto arbitraria : questa ricerca di mettere quel che pensa un
poeta, sopra tutto, ripeto, se è un grande poeta, e cioè un poeta vero,
quel che egli riesce a dire, ossia quello che egli sente, e sente
profondamente, al paragone degh astratti schemi in cui ogni filosofia va
a finire. Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro
filosofia, un loro concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno
! Non c’ è uomo che non ne abbia una. Anzi con la vivezza e col
vigore del suo sentire la sostanza della propria vita spirituale, nessuno
così fortemente come il poeta afferma la propria fede e la oppone ad ogni
più meditata dottrina che si esibisca da coloro che passano per gh
autorizzati interpreti della filosofia; nessuno più di lui è
convinto d’avere una sua filosofia capace di sbaraghare tutte le
altre. Ma le battaglie che il poeta combatte e vince, si svolgono dentro
al chiuso della sua fantasia. E gh pos¬ sono bensì procurare la gioia
della vittoria, ma una gioia tutta soggettiva come di chi in sogno viene
a capo del suo più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del
giar¬ dino della vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e
le opere loro, perché con la ragione sovrana prima o poi valuta le
ragioni di ciascuno — di fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che
scopre le contrad¬ dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito
delle sue asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede; e
insomma i difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene così a
trovarsi nella impossibilità di scorgere la grandezza della sua
personalità se a misurarla non adotti un metro diverso. E che cosa di più
irriverente e ottusamente inu¬ mano e brutale che accostarsi ai grandi
uomini per guar¬ darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano
scorgere i loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto
in cui rifulge la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è grande uomo per
il suo cameriere; e potrebbe parere che in fine il filosofo sia, per tale
rispetto, il cameriere del poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le
scarpe, ma non lo guarda mai in faccia. Oh la servitù
numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il filosofo; ma c’ è anche
l’antropologo e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ;
schiere e schiere di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i
quah, per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più
elementari del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il
padrone, per entrargli nel¬ l’anima e scrutarne la passione, intenderla,
sentirla, parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta
confidenza! Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda
dall’alto tutto questo servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi,
per salvare se stesso e \fivere la sua vita supe¬ riore, di cui è geloso
come del suo tesoro. Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza
o signorile degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti
occhi che penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬ riosi, così opachi,
così grevi; — e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia,
sarcasmo. E allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti
gli uomini che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue
inces¬ santi inchieste e pretese, diventa materia di satira.
Allora, il Leopardi esce in un’osservazione di gusto volteriano,
come questa che è nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e della
filosofia consiste a conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo
fosse ancora qual era da principio; consiste a correggere i danni ch’essa
medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe
sempre stato s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la
som¬ mità della filosofia, perché ci libera e disinganna dalla
filosofia ». Osservazione che ama ripetere, dandola come un «suo principio»:
«La sommità della sapienza consiste nel conoscere la propria
inutihtà, e come gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella non
fosse mai nata: e la sua maggiore utilità, o almeno il suo primo e
proprio scopo, nel ricondurre l’intelletto umano (s’ è possibile)
appresso a poco a quello stato in cui era prima del di lei nascimento ».
E in assai più nitida forma tornerà a ribadirla infine come uno de’
capisaldi delle sue più profonde convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo
di Timandro e di Eleandro: «L’ultima conclusione che si ricava dalla
filosofia vera e perfetta, si è, che non bi¬ sogna filosofare ».
Nei Paralipomeni degli ultimi anni, anzi degli ultimi giorni della
sua vita, più amaramente dirà; Non è filosofia se non un'arte
La qual di ciò che l'uomo è risoluto Di creder circa a qualsivoglia
parte. Come meglio alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni
assegnando empie le carte O le orecchie talor per instituto Con più
d'ingegno o men, giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova
avere. Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬
pardi chi si limitasse a leggere questa sola ottava dei Paralipomeni,
come chi si diverte a ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia,
dimenticando o ignorando che PETRARCA continua; Dice la turba al vii
guadagno intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si
ripiglia nella seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in
questo modo: Quella filosofia dico che impera Nel secol
nostro senza guerra alcuna, E che con guerra più o men
leggera Ebbe negli altri non minor fortuna, Fuor nel prossimo
a questo, ove, se intera La mia mente oso dir, portò ciascuna
Facoltà nostra a quelle cime il passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al
basso. La filosofia, dunque, che il Leopardi schernisce è
quella teologica, come allora si diceva, dommatica, spiritua¬
listica; la filosofia della Restaurazione e del Romanticismo. La filosofia
imperante al suo tempo: non ogni filosofia. Anzi la filosofia imperante,
tutta ottimistica, presuntuosa, intollerabile alla mentalità leopardiana
per¬ ché in contrasto coi fatti e con le necessità di ogni li¬ bera
mente, proveniente, come pur quivi si dice, da quella
Forma di ragionar diritta e sana Ch’a priori in iscola ancor
s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi par vana. La
qual per certo alcun principio pone E tutto l'altro poi a quel piega e
compone; cotesta filosofia non è satireggiata qui
propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole,
da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è combattuta e
debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬ tore par vera. Neanche
si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia respinta in
tutte le sue forme e in generale, quando osserva che anch’essi,
questi avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro
filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere la sua
filosofia; anzi, per cominciare ad intenderci, egli propriamente professa
di averne due. Dico cU più: senza r intelligenza di questa sua duphce
filosofia si rischia di fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi
filosofica, ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare, e che
s’ è sempre fatta fin dal tempo del Leopardi; una filosofia infarcita di
luoghi comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da camerieri che allacciano
le scarpe e non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a
braccetto una critica che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non
meno, tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però
della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione
di metodo, che ritengo fonda- mentale. Ed è questa: che l’essenza della
poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta
ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma negh occhi con cui
lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del
quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile.
Lì, nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo ha il
suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede o si pensa, o si può
vedere e pensare; e lì è la sorgente della poesia. Perciò una critica che
innanzi alle Operette morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e
reazionario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e per ciò
non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e cioè di positivo ed eterno,
è critica radicalmente sbaghata, che scambia le ombre con i corpi saldi.
Poiché le idee, una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima
assume verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse
partecipano e da cui traggono il loro significato vivente, sono
pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai
abbracciare al suo petto. Nel caso del Leopardi poi c’ è di più;
perché, come ho accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa,
natu- rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che
fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli
ha la filosofia di cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore
che è negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito
da Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser
quella, che non bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il
senso serio e profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna
beffarda della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo
stesso L., teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima
della sapienza, la chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»: una
filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci ravvicini
alla natura: filosofia naturale, spon¬ tanea, primitiva, barbara; più che
alle origini, si trova nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo
da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della
filosofia leopardiana contro la pretensiosa filosofia ottimistica alla
moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e
che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i
più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo
comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco
meno che tutti i filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad
Eleandro che tutti sono infelici; gli ha concesso la necessità
della nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e
piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli
ha concesso che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la
filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo
frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo
fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e
distorh dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle
verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare
alla maggior parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste che
debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute
nell’animo, non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la
filosofia si debba estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare,
come s’ è detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia
primieramente è inutile, perché a questo effetto di non filosofare
non fa di bisogno di essere filosofo; secondariamente è dannosissima,
perché cjuella ultima conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e
imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio
degli uomini dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più
facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare ». Non si
può mettere in opera. Il che significa che rultrafilosofia — che è la
conclusione perfetta e perciò la vera filosofia — non estirpa e distrugge
l’altra, falsa o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è
quella che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi
resta confitta incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme
con essa e al disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e
degna dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha
demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che si
conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto ragionare che
s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa della filosofia superiore
non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda
natura, che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà
mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la
verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa filosofia quando sia
riuscita ad elevarsi fino alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur
non contraddire alle verità via via accertate e sempre più
strettamente connesse e saldate insieme in irrepugnabile sistema, bisognerà
sì rassegnarsi a dire errori in sem¬ bianza di verità, illusioni,
fantasmi, tutte quelle altre verità che come tali si rappresentano
all’uomo il quale a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda
rivivere il mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva, felice,
ridente, soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente. L’uomo L.
non può non filosofare; non può non passare attraverso la prima
filosofia; ma non può né anche non giungere infine alla seconda e superiore.
Dove egli ritrova tutto quello che ha perduto. Lo ritrova,
s’intende, com’ è possibile soltanto dopo averlo perduto; poiché
dimenticare quel che ha saputo e sa, non potrà mai ; a quel modo che può
tornar fanciullo un uomo che ha vissuto e sofferto tutte le delusioni e
le amarezze del mondo, e può riacquistare il gusto della virtù chi
abbia una volta bevuto al calice del bene e del male. Chi
distingue nel pessimismo leopardiano due fasi o forme, la prima di un
pessimismo storico in cui tutto il male è frutto dell’ « irrequieto
ingegno e dello scellerato ardimento degli uomini contro gl’ inermi
regni della saggia natura (di cui si parla nell’ Inno ai
Patriarchi), e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi
uomini vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire
l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è, ripeto, il segreto
della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona dentro alla lettura dei
canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese e più sistematicamente
determinata, almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette
morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli uni
e nelle altre si riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo,
che fu certamente tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella
vasta onda della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per
avvol¬ gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione, anzi
per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella vita con i suoi
ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene
apertamente attestata nello stesso disegno delle Operette. Le quali
cominciano col mito delle origini della umanità governate
dall’amore e finiscono nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei
scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo,
o per consolarmene col riso, e non per altro [e dunque egli ha sfogato, e
s’è consolato e ora può parlare con animo pacato e sereno], io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario,
lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e
pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e
privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che dànno
pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori
antichi, diversi assai dagli errori barbari. i quali solamente, e non
quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della
filosofia. E più tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e di
Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge della vita e
rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto al fondo della
disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed ultima, amore.
Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E contraddice
certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello Zibaldone, e delle
Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi credenti e insomma a
tutto il contenuto prosaico della poesia leopardiana; voglio dire a
tutto quel sistema di filosofia che era, nel vocabolario del Leopardi, la
verità in opposizione agli errori: a tutto il complesso degli insegnamenti di
quella filosofia che, per altro, negli stessi Paralipomeni, dove più
espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L. di uscire in quel
famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te s’awede. Come per lieto
avvenimento esulta Lo spirto mio. Cotesta filosofia, non occorre
esporla. Tutti la conoscono. E quella concezione del mondo, che giustifica
un empirismo assoluto. Lo spirito vuoto; e tutto quello che in esso
può mai trovarsi, un derivato meccanico dall’esterno attraverso i sensi. Quindi
lo stesso spirito, il quale da chi tenga fermo al concetto delle sue
esigenze imprescindibili, non può non raffigurarsi dotato di liberta,
e quindi appartenente a quel mondo dei valori per cui è possibile un
pensare logico che sia vero in opposizione al falso, o un volere buono in
contrasto col malvagio, e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel
puro aere ideale e sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte;
lo stesso spirito, dico, tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che
si trova dentro, nulla: assoluto nulla, in cui libertà e verità e virtù e
bellezza non possono essere, in fondo, altro che vane larve e falsi
miraggi di un’ immaginazione ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura:
cioè questa realtà che si rappresenta a un tratto tutta spiegata
ncUo spazio e nel tempo, materiale, risultante da infinite parti e
particelle che si condizionano a vicenda in guisa che ciascuna sia 0 si
muova in conseguenza di tutte le altre; in un meccanismo universale, dove
tutto quel che accade, è fatale di una necessità che schiaccia e stritola
ogni vana pretesa dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso del
destino. Tutto. Anche il sentimento che sboccia nel cuore degli uomini, e
che soltanto l’irriflessione e l’ignoranza ci possono far giudicare buono o
cattivo; anche il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero
dal falso. Anche la volontà che non sceglie, come si favoleggia, tra bene
o male, ma scoppia in un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del
fulmine nelle tempeste della natura. La natura dunque è
tutto, e l’uomo nulla. La natura, perché meccanica, incomprensibile,
opaca, ripugnante a ogni razionalità (perché la ragione è
discriminazione, scelta, libertà). Un mistero. Così dice
cotesta filosofia, come se tutto questo, che essa dice con tanta
sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse possibile un mondo in cui,
se non altro, la verità sia una parola vana, e ci sia nondimeno posto per
l’uomo che, in mezzo a questo universale meccanismo, nel mistero di
questa tenebra profonda e per definizione invincibile, abbia pure il
diritto di affermare che la verità sia proprio quella che egli asserisce ! Come
se fosse possi¬ bile salvare una verità qualsiasi dal naufragio d’ogni
verità. Filosofia dunque essenzialmente contradditoria, che
nei filosofi empiristi, naturalisti, materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara
di questa sua immanente contrad¬ dizione, tra la ragione che si nega e la
ragione che per negarsi rivendica di fatto il proprio potere e
valore. Filosofia accettata dal Leopardi, ma con un’anima che
troppo sente le conseguenze dolorose di essa e troppo è naturalmente
dotata di quella forza con cui lo spirito reagisce ai hmiti che si
oppongono alla sua libertà, e quindi al dolore, per non aver coscienza di
tale contraddizione. E questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo,
pertanto, che dovrebbe prostrarsi di fronte alla natura nel senso
angoscioso del proprio niente, non piega, invece, non s’accascia, non
rinunzia alle sue verità, anche se battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso
la potente reazione di tutto il suo spirito nel senso gagliardo e tenace
con cui l’apprende e lo ferma nel cristallo della sua divina
fantasia, si trasfigura: non è più il limite della sua forza e della sua
libertà; è poesia, cioè umanità; è grandezza umana, trionfo della potenza
creatrice, che è Ubera e infinita potenza. Qui l’anima di L.,
qui il fascino deUa sua poesia. La quale non trae la sua ispirazione
centrale dall’astratto concetto di quel crudo materialismo, che
annienta l’uomo e fiacca perciò ogni velleità di vivere a proprio modo, a
norma de’ propri ideaU, in un mondo qual egU perciò lo vagheggi,
liberamente, ma da questo senso profondo, or cupo e straziante, or
placato e sereno, che gli \aene dalla sua « ultrafilosofia », dal bisogno
di respingere come antiumana e contradditoria alla incoer¬ cibile
natura dell’uomo cotesta filosofia negativa e sof¬ focante. Ora è Bruto
minore, nudo di speranza, ma prode, di cedere inesperti), neUa sua guerra
mortale contro il fato indegno, in atto di sfida magnanima contro il
Destino, che egU vince, violento irrompendo nel Tar¬ taro: e la
tiranna Tua destra, allor che vincitrice il grava.
Indomito scrollando si pompeggia. Quando nell’alto lato l’amaro
ferro intride, e maligno alle nere ombre sorride. Ora è la
misera Saffo, grave ospite di natura, estranea alla infinita beltà di
questa, consapevole del prode ingegno che pur le venne in sorte
assegnato, delle proprie virili imprese, del dotto canto, della virtù
insomma che può vantare; ed ecco, è risoluta di spargere a terra il
velo indegno ricevuto da natura, primo principio della sua
infehcità; e morire, ed emendare così «il crudo fallo del cieco
dispensator de’ casi. Ora è il Poeta stesso, che invoca la morte hberatrice. Ma
certo troverai, qual si sia l’ora che tu le penne al mio pregar
dispieghi. Erta la fronte, armato, E renitente al fato. La
man che flagellando si colora Nel mio sangue innocente Non ricolmar
di lode. Non benedir, com’usa Per antica viltà l’umana
gente; Ogni vana speranza onde consola Sé coi fanciulli il
mondo. Ogni conforto stolto Gittar da me. O che, stanco di
sperare e disperare, sente in sé spento anche il desiderio, e vuol
acquetarsi nell’ultima dispera¬ zione e cliiudersi in un superbo disdegno
di se medesimo, della natura e di questa infinita vanità del tutto. Nel
disprezzo del brutto poter che, ascoso, a comun danno impera. Ora invece,
il Poeta s’accosta a questa Natura mi¬ steriosa, arcana, e si scioglie in
un mistico sentimento della sua vita infinita e divina. Giacché si sa che
il naturalismo è stretto parente della mistica, che ugualmente oppone la
realtà all’uomo al punto da non lasciargli più modo di distinguersene e
spingerlo perciò al desiderio d’immergersi e immedesimarsi col tutto
infinito che gli è davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo
volto dal ghigno della ribellione, e scioglie il suo dolore, ossia quella
sua soggettività solitaria e disperata di uomo che, perduta la
giovinezza, vede intorno a sé il deserto e il buio della sera e
deH’orrida vecchiezza, nella languida consolazione degli Idilli: de l’infinito,
dove il poeta non canta più il suo dolore, ma il dolce gusto
dell’eterno: Così tra questa Immensità s’annega il
pensier mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare;
de La sera del dì di festa, dove il cuore si stringe A pensar
come tutto al mondo passa e quasi orma non lascia; e il suono
delle umane glorie e degl’ imperi più famosi cede come il canto
dell’artigiano che riede a tarda notte al suo povero ostello poiché la
festa è finita: Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il
mondo; e risvegha nella memoria del poeta una immagine accorante
insieme e viva divenutagli familiare: ed alla tarda notte Un
canto che s’udia per li . sentieri Lontanando morire a poco a poco;
de La vita solitaria, dove « l’altissima quiete » del meriggio presso
all’ immoto specchio del lago di taciturne piante incoronato gli fa
obliare se stesso e il mondo: e già mi par che sciolte Giaccian le
membra mie, né spirto o senso Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda. Estasi; estasi mistica che fa
risalire dal petto il trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel
canto Alla primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi,
o santa Natura ? e quello anche ])iù antico della stupenda
lettera al Giordani, che convien rileggere: «Poche sere addietro, prima
di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo
puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che
abbaiavano da lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e
mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un
forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi parve di
udire dopo tanto tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore
allontana, riconduce quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota
nello Zibaldone che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione,
ed è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota, della FILOSOFIA
inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando,
sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano
robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo
laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬
timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di
una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che
sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si
contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o « senso
dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola ragione,
poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver spiegato
tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette in
condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a
dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana. L’uomo,
che è poi colui che si propone il pro¬ blema della natura, e senza del
quale {pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella
mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia nel meccanismo
della natura e condanna alla schiavitù del nulla, ma che risorge in tutta
la sua libertà e nel suo valore infinito appena la grande ragione gh
faccia sentire la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna
cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬
noscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza
» ; e provare la gioia del comporre, del cantare, del pensare, del
sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa, è
grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace alla natura, e può
non temere la morte, e può, come la ginestra, consolare il deserto col
profumo del suo divino alito spirituale. Perciò infine il poeta c’
insegna, in una forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi
proverbio, che « nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco
savio, che voler savia e filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di
passare in proverbio tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella
vita non c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi
sempre filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano
robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del
filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬ lettualismo. La quale FILOSOFIA,
si ponga mente, una volta, come s’è veduto, il Poeta la chiama
ultrafilosofia; ma non è poi altro propriamente che la sua personalità,
il suo modo di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù
che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide meravigliata
salire su dal profondo i palpiti naturali, i dolci inganni, la speranza,
e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La piaggia, il
bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il mar ») : quella
ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire; Non l’annullàr:
non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista
impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la poesia; e che è,
io dico, la stessa poesia, depurata dalle forme in cui il pensiero
la determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle parole, nelle
formule, nei concreti pensieri, come sistematica- mente si possono
comporre ad unità nelle esposizioni che l’autore non fece delle sue idee,
e che, sempre a fatica e non senza arbitrarie glosse, continuano a
imbandirci quei camerieri del Leopardi che sono i suoi interpreti,
pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L. i volumi che questi
non pensò mai di scrivere; non vorrei, dico, si ricercasse una vera e
formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente costruita su’ suoi
fondamentali convincimenti e orientamenti Mi perdoni la grande e austera
ombra del Poeta questa parola cara oggi a certi spiriti spigoUsti e
vanitosi, che ogni giorno che il Padre manda in terra, suonano a stormo
per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso mellifluo e un ohibò di pelosa
carità, e disporla a cercare con essi l’orientamento che essi non
riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE PAROLE, i pensieri più o meno
frammentari e sparsi, le sentenze assai spesso felicemente
formulate non possono essere pel critico altro che accenni, spie
dell’anima del filosofo. La cui individualità è caratterizzata e, propriamente,
individuata da un certo atteggiamento, che è la concreta FILOSOFIA dell'uomo:
quella che, conferendo all’uomo un carattere, non ci spiega tanto
le sue parole, spesso espressioni di cose pensate e non sentite, ma le
azioni in cui l’uomo opera come sente nel suo più intimo essere; là dove
egli, arrivi o no ad averne coscienza in un sistema chiaro e bene
organato di idee, è quello che è : quello che l’uomo nella sua singolare
e inconfondibile individualità si mamfesta e si fa conoscere non per quel
che dice ma per il modo in cui lo dice, non pel contenuto delle sue
parole ma pel colore che esse hanno sulla sua bocca, per l’accento con
cui la sua anima vi suona dentro. Stile, essenza della poesia
d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente della filosofia del
Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del cameriere. Conviene guardare
il Poeta negh occhi, dove la pupilla trema della commozione segreta:
ascoltare il suo canto, dove la sua filosofia è la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi. Keywords: il favoloso. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi nella filosofia
italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Leopardi: l’implicatura
conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – filosofia
maceratese -- Luigi Speranza (Recanati). Filosofo italiano. Recanati, Macerata, Marche. Grice: “We don’t have at Oxford a ‘chip off
the old block’ as they have in Recanati!” -- Importante
esponente del pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi,
targa commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio
primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una
delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del
padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro
figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal
precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della
cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali
cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto
alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio
familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la
deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse
l'amministrazione della propria eredità. Dopo un primo progetto di nozze andato a
monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua lontana parente. Il matrimonio fu
un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato dalla famiglia di Monaldo, in
base ad antiche dispute tra casati e per questioni economiche (mancanza di una
dote adeguata), che per manifestare la propria contrarietà non partecipò al
matrimonio, che venne infatti celebrato nella sala detta "galleria"
di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio di famiglia, dalle mani di Monaldo,
passò in quelle della moglie, a causa dei debiti del prozio che il conte non
riusciva a ripianare. Frutto di questa unione tra opposti caratteri furono
numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età adulta Giacomo, Carlo, Paolina,
Luigi, e Pierfrancesco. A causa della impossibilità di gestirli (dovuta alla
sua indole caritatevole verso i poveri, agli sperperi dei parenti e
all'invasione giacobina), l'amministrazione dei beni di famiglia passò nelle
mani della consorte, donna energica e severa; Monaldo poté così dedicarsi
totalmente alla sua passione, gli studi e le lettere. Tra i suoi molti meriti
vi è aver grandemente contribuito alla formazione del nucleo fondamentale della
biblioteca di famiglia dei L., nella quale il giovane Giacomo passò i suoi anni
di "studio matto e disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i
quali il conte ottenne la dispensa della Santa Sede, per metterli a
disposizione dei figli) e che Monaldo donò all'intera cittadinanza recanatese,
come ricorda la lapide apposta nella cosiddetta "prima stanza".
L'impegno civico Angolo della biblioteca di palazzo L. con i ritratti di
L., Adelaide e Giacomo Il medico e naturalista britannico Jenner La sua
opera è rappresentativa del concetto di reazione (per es., la demolizione
dell'egualitarismo nel Catechismo sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno
riconosciuti diversi meriti acquisiti durante lo svolgersi della sua vita
politica, indirizzata nei confronti di Recanati, città in cui visse.
Monaldo fu consigliere comunale a diciotto anni, governatore della città, amministratore
dell'annona. Fu tra coloro che si mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo
dell'occupazione francese. S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in
tumulto contro le forze dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi
principî morali e religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la
Repubblica Romana e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di
Recanati, la massima carica amministrativa, e si occupò della costruzione di
strade e di ospedali, dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno
abbienti, della riduzione delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e
delle attività teatrali. Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze
della meccanizzazione sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a
vapore fossero tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò
inoltre il diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo
stabilimento di case coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il
cotone o la patata. Fu anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il
vaccino antivaioloso dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui
propri figli; poi, da gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che
svolgeva personalmente (in ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di
"retrogrado" che si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte
della critica novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di
un'università nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe
seguito. Infine, durante la carestia, fece erogare gratuitamente i
medicinali ai più bisognosi e creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la
costruzione di strade, sia femminile, con la tessitura della canapa. Come
scrisse una volta, quelle attività riformatrici non erano in contrasto con le
sue idee controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire
il mondo per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene
presente sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale» Morì
il celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi,
la perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella
tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei
molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi,
i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo
pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di
"Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo,
ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero
notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre
in una lettera dell'8 marzo: «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di
cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà
se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.» Per
umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con
quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che
giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi,
infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra
le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al
papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia
per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio dell'autorità
dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da Dio"), la
proposta della suddivisione del territorio francese fra Inghilterra, Spagna,
Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della dominazione turca sul
popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.
Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico
e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di
Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato
nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione
digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli
cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della
Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso
diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000
abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero
inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua
Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza,
ironia e umorismo. Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non
amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna
consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo
pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico
svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi
storici su Recanati, coltivati in gioventù. Opere digitalizzate Monaldo
Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso
Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino
con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con
annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle
materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da
don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca
pazienza. Rapporto con il figlio ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante
la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono:
senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del
ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del
padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte:
la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo. La
lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto
negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella
che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819,
quando il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli
dovette rinunciare ai suoi piani. «Mio Signor Padre. Per quanto Ella
possa aver cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti,
Ella non potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi
hanno conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non
debbo ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea
cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in
questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e
persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo
consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice
mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo.
Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande
azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla
conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.» Finalmente,
Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il
padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma
non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione
delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che
non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di
prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La pubblicazione
dei Dialoghetti di L. è causa di attrito fra padre e figlio. Giacomo Leopardi
si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce che fosse lui
l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che egli fu
costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si sfogò
poi per lettera con l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con questa
macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo, scelleratissimo
libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è l'autore, mio padre è
sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore sono io. Fino il governo
m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi, fanatici dialogacci. A Roma io
non potevo più nominarmi o essere nominato in nessun luogo, che non sentissi
dire: ah, l'autore dei dialoghetti.» In toni decisamente più miti ne
scrive poi a L. il 28: «Nell'ultimo numero dell'Antologia... nel Diario
di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o avrà veduto una mia
dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei Dialoghetti. Ella deve
sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia, e atteso l'esser io
conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel libro è di Leopardi l'ha
fatto assai generalmente attribuire a me. E dappertutto si parla di questa mia
che alcuni chiamano conversione, ed altri apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4
mesi, e infine mi son deciso a parlare, per due ragioni. L'una, che mi è parso
indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è dovuto ad altri, o massimamente a Lei.
Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello degli altrui meriti. [ L'altra,
ch'io non voglio né debbo soffrire di passare per convertito, né di essere
assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato mai né irreligioso, né
rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei principii non sono
precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e ch'io rispetto in Lei,
ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati però mai tali, ch'io
dovessi né debba né voglia disapprovarli.» Nelle ultime lettere Giacomo
esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai toni formali a quelli
affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima lettera). Monaldo
sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i due rimaneva però ancora
evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non accettando lui le idee
areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina, scriveva a Marianna
Brighenti: «Di Giacomo poi, della gloria nostra, abbiam dovuto tacere più
che mai tutto quello che di lui veniva fatto di sapere, come di quello che non
combinava punto col pensiero di papà e colle sue idee. Pertanto, non abbiamo
fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle sue opere, e quando le
abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo ancora, acciocché per
cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.» Su richiesta
dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo la morte del
figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su Giacomo, con
aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura fra i due e
l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal figlio; il Memoriale
si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto successivo è più noto a
Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò, Monaldo piangerà con dolore
la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà il proprio testamento, alla
settima volontà scrisse: «Voglio che ogni anno in perpetuo si facciano
celebrare dieci messe nel giorno anniversario della mia morte, altre dieci il
giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L.
e la sua famiglia, Bietti, Milano. La famiglia Leopardi è protagonista del
romanzo fantastico di Michele Mari Io venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di
Sandro Petrucci Monaldo In viaggio per
Leopardi, Leopardi fu chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo
fondatore, il Principe di Canosa Antonio Capece Minutolo. Giacomo Leopardi, Carissimo Signor Padre.
Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo Leopardi, Il monarca delle
Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo Leopardi, Graziella Pulce,
introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo Leopardi. La
giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo Leopardi,
Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana ed., Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed., (L'ultimo amico del poeta narra di un suo
incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi,
Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede et Cultura, L.,
Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa
giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi,
Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo
Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il
bicentenario del trattato di Tolentino, n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L..
Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i
Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale
Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco
Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi. Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Corno, L. in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e
l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte
Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi
anti-italiano. che
dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte
le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio, questi sono i
doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e
raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in
stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo
potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo,
questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi, e non trovo in esso una
sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole
e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi
sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto
questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro
io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete
che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello? LA
CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora
avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer.
Fin quì non dite male, ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con
cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella, ognuno ba i suoi gusti,
e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè
voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di
fare un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si
tratta poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via
cervellaccio mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”.
Già adesso non avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa
tutto senza di voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a
campare coi savi sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo,
bravissimo. Vedrele che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno
della età dell'oro, il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo.
come in addietro, senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo
dice che ho operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va
guastare il mondo l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é
desiderio di conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m
e. Chi vi pare dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol
guastare, o cbi guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non
dubitale. Sono cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie
per chiamare la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i
merlolli ; sicchè gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi
ecco qualchedu. no che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo, e incominciamo
le nostre operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia, il Cervello e
il Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete
quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che
vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi Cer.
Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il
governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città, perchè immagino
che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce
lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle
formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non
vogliamo un governo all'antica, il quale pretenda di governare davve ro, ma
bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra, un simulacro, un brodo di
ranocchie e niente di più. questa è una cosa da nulla, ed è più facile
preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel
regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer.
Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e
il più semplice, ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd, oibù ; se
fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele
poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo
vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano
diavere ricevuto il loro potere da Dio, e nessuno si azzardava di slendere la
mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma
nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del
popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente
devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico
adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il
più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re falto
dal popolo, perchèchipuòfarepuò guastare, ed è più facile sbalzare dal trono un
monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di
cucina.Sentite dunque signor governo, e imparate bene cosa ha da essere il
governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di
tutto, il re ha da essere un re di carta, o vogliamo dire che tulta la sua
autorilà deve consistere in un pezzo di carta, esso medesimo deve riconoscerla
tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella
carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle
belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso
di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e putati,
ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi la camera
ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza, e per una
semplice for malità, sua maestà di carta deve subito pi gliare la frusta e
andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del popolo. Gov.
Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la giustizia,e
deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza essere
ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino riceverà una
coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare una querela a
quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di pane e acqua,
il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità della
giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere i
vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico
costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa, e di toccare un
quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno
di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla
cainera dei deputali, e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo
importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se
però la camera non vorrà darglieli,lascerà che il governo cammini da per sè
stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il
pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche
volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con
le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una
giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi
scacciare il re con tutta la sua maestà e la Gov. Benissimo. Fil.Siccome
poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve
sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla, e che egli pad usarne
soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali
condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua
maestà di carta lo dovrà liberare, e se condanneranno ingiustamente un
innocente malveduto dal popolo, sua maestà di carta dovrà farlo impiccare. Gov.
Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col bordone
in mano, e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five dei
conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono, il governo, tutto è del
popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di passatempo
al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella cillà a
preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”.
Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia
vera mente solida, dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse
col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che muova
la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino, il quale
non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna
contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto
affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare
ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici
debbano essere lavorali sopra queslo m o dello, un re dipinlo,ovvero un re di
paglia potrebbe servire nello stesso modo. La Filosofia. Chi siete, e cosa
volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella
vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a
meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti, i quali hanno inolla pratica dei
tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie presenti, sa
rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle cause,ovvero
giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri sparmierebbero le
spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si confonderebbero il giusto
con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo con l'as sassino. Giu .
Parlate pura giacchè sono venula a p La Filosofia, il Cervello, a la
Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo senza tribunale
e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai lulle queste
cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente. Considero però che
se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia, gli avvocati e i procuratori
resterebbero in camicia, e questo non si ac comoderebbe con le idee filosofiche
sulla dif fusione dei godimenti e dei beni.È d'uopo dunque per un altro poco
adattarsi al siste ma antico, e perciò venile avanli madonna Giustizia e
facciamo i nostri palli. posta per imparare cosa deve essere la
giu. stizia nel paese della filosofia. Fil. Prima di tutto lenetevi bene in m e
n te che i liberali tauto palesi come occulli non devono avere mai lorlo,e la
giustizia deve essere una vera cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente
al servizio dei liberali. Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròin verecondamente
per compiacere iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle
cause, quando stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei
giudici però i quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere
discacciati e puniti. 102 re che questo non è proibilo ; e non manca il
modo di stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli
occhi al mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se però qualcbe
volta vi troverelealle strelle, rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate
ilnome di Dio,egiudicatenel nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre
assicurala per i liberali. pu. Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e
salvare la capra e l'orto, falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano
di niente quando sono protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo
sofia i giudicisono una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i
liberali si mellono per tutto, e coperlamente, ovvero scopertamente comandano
in lulli i dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo
loro, e a chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le
corna. Giu.Ho capilo: e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione.
Fil. Inoltre se s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei
liberali, dale sempre ragione all'uomo indifferente an corchè fosse uù
ruffiano, ovvero un capo la dro, e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali,
acciocchè quesla capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà.
Fil. In questi casi potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero
ilvostro interesse; potete farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale
pure quello che vi pare, che alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne
dile compare Cervello ? Fil.Questo sarebbe un partito troppo gras. so per i
galantuomini i quali giuocherebbero alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan.
no da godere sempre qualche vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ?
Giu. Ho capito anche questo e non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma
come si dovrà procedere in parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a
litigare due uo. mini indifferenti, ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che
hanno ragione quelli iquali desiderano, che ildirillo eiltorlo si estraggano
allasorte oppure vengano giuo catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha
da essere veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della
nera . Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause
criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per
la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si
vuole la m a n naia del boia, e piuttosto si gradisce ilcol tello degli
assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb
bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo
morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto
per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce, Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq
diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il
Sacramento, te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez
za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete,
un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli, i frali, i
vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in
galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave
re fatto una sconcordanza, caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la testa,
e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re, distribuite le
pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma regolatevi in modo da
far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è permesso fuorcbè toc care
colla puola delle dila i liberali e la fi Giu . H o capitotullo
benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a portare in trionfo la giustizia
nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene compare mio che i miei ordinamenti
fondamentali non incontrano trop. po il vostro genio; ma finchè sarele un cer
vello all'anlica tullo pieno di pregiudizi, nonvimetterele
livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel regno della filoso. fia.
Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello perderà il cervello, e allora
le dottrine e le pratiche della filosofia si diran no regolale col cervello.
Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che vengono per abitare nel. la nostra
nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la Proprietà . La Filosofia.
Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i proprielari,ma anche
105 1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto umano proferire
qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire dominati na.
scostamente dai liberali faranno sempre la grazia, e non ci sarà mai pericolo,
che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un liberale. La
Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro puovo
impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i
proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro.
Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà, e lulle
le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere
tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire, m a
siccome ancora non siamo arrivati al punto, basterà stabilire per adesso alcu
ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che
nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non
fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per
introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe
benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja,
intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e
tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo
partito definitivo, l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo
non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg
gi, tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare
lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si
diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione
uguale ? 106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole fondamentali
della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in mira di
spogliare iricchi,i signori e i benestanti; e di arricchire i
cialtroni, e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre diretle
la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso vi dard
alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino, e si
arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer. Stiamo
a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da questo
volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una
importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello
Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime, e siccome
alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere
come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti
gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più
rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il
denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano
di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente
aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con
questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il
malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un
popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca
pito,signora Proprietà? Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad
un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo, che
bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati
ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e
divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne;
e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia
le anticamere, perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a
spalle dei mincbioni, se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi
parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre
preferire i più indegni, i più asini e i più lemerari, e così si deve correre
ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il
perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo
Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo
in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni, diffusa l'idea che
tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato, e
rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni, igoverni e i
ministri del governo verranno strascinati da quella piena, e non potranno più
impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più
bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo
disordine e sono vera 108 mente affezionati allo Stato, daranno
mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno
la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè
in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti
qualche loro protello, tutti diranno che quella è la eccezione della regola, e
tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di
più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol
tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto,
acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè
furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il
privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato
perchè non ebbe mai niente, e non è dovere che nel giorno della cuccagna un
galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato
non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni
assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le
sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza, a depositarsi nella pan cia
di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare la
diffusione dei beni, o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei
privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa
- tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe
qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci
è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste
nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e
delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da
vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di
pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia
prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero
un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita
impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi,
ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta,
con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di
avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli
poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le
mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con
dottieri nasali dei grandi, e sino le zitelle, le vedove e le vecchie,
pericolate, perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una
pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver
tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi,
e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli
soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e
i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno
in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti
annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della
proprietà. Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi,
e ci voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per
sconquassare da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go
che basteranno queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per
operare la diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi
cacissimi;ma sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla
dirama zione e livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale
della proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e
le competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a
poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori,
e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i
coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e
preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le
casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare
del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra
mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi
zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste
cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi, siguor Cervello, e
imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno
depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in
quelle casse, m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti
ipoteche sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco
depositato nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei
propriela rii verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli
effetti di questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio
avranno un capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie
tari e ancora dello stato, allora si manife steranno le forze di questa nuova
occulta p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le
proprielà, e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è
diventata la vera padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con
elemosine propor zionate, stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro
bisogni,e ricoverarli nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le
opere della prudenza e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di
talli i pezzenti, aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse
di risparmio so no un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni
? a banca per il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla
bellola ovvero rubati nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè
monti a cavallo sul collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli
stessi go. verni, questo è propriamente secondo la dol trina della diffusione
del potere e dei beni, ed è la vera quintessenza della filosofica malignità.
Cer. Confesso il vero che mi avele sor preso, e non credeva cbe la filosofia la
sa. pesse tanto lunga, e pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto
di fare la carità ai poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi
sociali che proveranno da questa dilapidazione universale della proprie tào
vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo
non cerca di mutar posto, 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da
perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate
onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti,
rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e
la buona morale, il deside rio dell'ordine, l'altaccamento al governo e la
considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite
e degra date dalla miseria, sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire
l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della
nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio
dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le
classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni
; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o
quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine
tolta la barriera della ricchezza e della nobillà, o vogliamo dire tolta la
barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril
tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà
più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo, e le gloriose
giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non
altro è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni, o vogliamo dire
l'as sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire,
ma Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed
il ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato
per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti
passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno
nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo
crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non
potranno es sere permanenti e durevoli, perchè l'egua glianza delle proprietà è
in opposizionecon gli ordinamenti della natura. sfasciata da capo a fondo
una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo, sì quando avremo
subissata ben beno la società, non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci
saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di
quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le
educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini
del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle
mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il
dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per
ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo
assicurare il bordello, il susurro, e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai
secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non
mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama
Proprietà, ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi
ai miei be nefici regolamenti, e ricordatevi che nel re gno
dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni
e delle proprietà, o sia per assassinare tulle quante le proprielà. La
Filosofia, il Cervello, l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre
persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è
colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro
talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi
sono l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali, e amici tan to
sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento
el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma
bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di
corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la
cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini
e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve
nite avanti, signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad
ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà. L'Ins. Parlate
pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima
di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi
è quella appunto con cui si olliene Fil.Dibò,oibo.Tutti
vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà
poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno
i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti
e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società, e che anche i
guatleri, i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi,
letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia,
e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina?
la diffusione della civillà.Voi dunque, signor Josegnamento, dovete mettervi in
testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi, let terati e saccenti, e
di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la
nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi
vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che
dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a
trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol
lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e
lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani, que stinon vorrete che
apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli
oziosi,indocili e scontenti diseme desimi, e gravosi e molesti agli
altri. rivare alla diffusione generale dei lumi,e al
l'incivilimento universale del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora
si giungesse ad ottenere questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai
vostri scon siderati seguaci, qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero
d'individui, e qual utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla
schiella per moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità
e semplicità, giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro
che ad empir- ' gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso
stalo,e così la società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di
vil lapi ignoranti, e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto
basta al rispellivo mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla
società non conviene alla filoso fia, la quale vuole il movimento e non vuole
la quiete, vuole il susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se
predicando l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere
alla vera sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio
dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m
o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio
grado, la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la
diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu
ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni, e che ostacoli insormontabili
naturali e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumi e della civiltà,
così è certa che la propagazione smodera la dell'ammaestramento e
dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi dolli, di scioli, di
sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la
grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al
curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non
pensa, neppure quando si trova ubriaco, di essere esso stesso un sovrano.Chi
non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le
gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli
della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come
si rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del
Bellarinino ? e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le
croci,per abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare
Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa
vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà. L'Inc. Orsù, non perdiamo più tempo perchè io
muoro di voglia d'incominciare la mia missione, e di andare a diffondere i lumi
e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che vengano
inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio adattati per affascinare la
mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto allescienze, generalmentepar:
L'ins. Ho capito bene quanto alle scienze e lasciatevi pure servire;e
quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil. Tutti i libri che mettono in
ridicolo i preti, i frali, la chiesa e le pratiche della chiesa;tulli quelli
che parlano contro l'aulo rità del Papa e dei principi; e lulti quelli che
trattano scopertamente ovvero copertamen. te di materie scandalose e lascive
lusingando lando, potete secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate
sempre di oscurargli la verità e di allerare nel loro cuore igermi della virtù.
Parlando poi specialmente, le vostre lezioni più frequenti devono essere sulla
m e tafisica e su i dirilli dell'uomo, le quali scienzc adoperate dalla
filosofia liberale riescono benissimo adattate per diffondere le dollrine
dell’empielà e per suscitare lospiritodellale. merità.Sevoinon
capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare la testa dei
vostri allievi,di farli dubitaredi fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu
l'opera di un essere necessario, ovverouscì dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele
cinquine del lotto e se essi medesimi sono animali viventi, oppure ciolloli del
torrenle o ravanelli dell'orto. Così se di dirillo natu. rale e civile non ne
sapele un acca, queslo purenon importa niente, purchèivostridi scepoli
ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi che la ragione delle genti
consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella sovrani tà del popolo e nel
diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le gloriose giornate.L'Ins. Ho
capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere in pratica le vostre
lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi sempre in lingua
volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più usare la lingua
latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa lingua già morta è
stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè d'uopo sbandirla
affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio letterario
sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che venga
conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la furia
delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi
epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli
della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi,
per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa
abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete
scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con
grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la
rigenerazione filosofioa, o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate a
colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro
lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche
modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende
senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e
l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi
pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo
l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della
chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo, serve a
legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili,
commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e
comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle
nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem
proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta
per custo dire le tradizioni, i monumenti e le opere delle lingue viventi,perchè
quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli scrilli dei
nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre calledre, lad
dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal mescolamento di voci
nuove 0 straniere, e logorate e guastale dall'uso, si mulano e
s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per soltrarle
all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono il latino
di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli italiani,
dai francesi, dai goli e dagli arabi, i libri scritti in ilaliano e in francese
sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici, e non si possono
intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in comoda
precisamente per questo, e che vo gliamo levarcela di altorno appunto, perchè è
la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco della
dottrina ecclesia stica resterà in piedi, vantando diciotto se. coli
d’inalterata antichità, i preti e i frati, i vescovi, i papi e i cristiani ce
lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre
subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre
riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce
della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà
conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei
concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per
accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la
parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e
allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della
filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un
suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli.
E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti
rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa
diventerebbero i canoni dei concili, i placiti dei pontefici, le opere dei
padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina
del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari, ma in primo luogo è
assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non
prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo
luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle trame
della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di quella
lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e che con
lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta sempre a
disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il qua le più
di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la lingua latina
l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente per due dozzine
di secoli,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso l'ultima sua
rovina. Cer. Questo certamente è stato un passo falso carpito dai clamori
dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e straniero, che
presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale concessione
rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di quelle
riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della filosofia e i
danni religiosi e sociali diventi. nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima
o poco dopo le ossa si rimelteran no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista
bilita nei tribunali, e con questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita,
essendo indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano
in volgare ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co
noscano e che vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per
ilcomodo dei litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei
procuratori come gli ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e
siccome per gl'infermi è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero
in vol gare, giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla
parola del dot tore e sulla fede del farmacista, così litiganti è lo stesso che
le citazioni e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua,
giacchè alla fine dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei
loro cu riali. Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la
lingua latina dal foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo
parlato,giacchè tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il
cinquanta per cento della sua importanza e della sua familiarità, si rende
sempre più sconosciuta e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo
totale deperi mento. L'altra poi è quella di dilataremag giormente
l'incivilimento aprendo la carrie ra forense, l'accessoai tribunali,a e tutti
gli impieghi giudiziali a qualanque sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli
alti giudi ziali si faranno sempre in latino, dove ico. dici e i commentari
saranno scrilti in la per i Cer. E quali sono queste ragioni? tino, e
dove il foro sarà chiuso per chi non ha sludiato
illatino,icursori,iprocuratori, i curiali, gli avvocati e i giusdicenti nelle
proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e di
dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango, e
somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di
quella lingua, gl'impegni, le protezioni e la cabala faranno il resto; il foro,
i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a lulli
i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon dersi
sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le mie
ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre chiacchiere,
voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella città della
filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra tutteleclassi del
popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere la vostra lezione.
L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri comandi. Fil. Prima di
tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal vostro nome, persuaden dovi,
che la civillà di adesso non deve essere come quella di una volta, e che
l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere ilfra. tello carnale
dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della filosofia.
L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri precetti. Fil.
Una volta adunque la vera civiltà con. e L'Inc. Ho capito
benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la decenza
e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no l'indizioelagaranzia
dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le vogliamo più, e la
civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza e della
magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure
cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il
vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito
d'arlecchino, una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre
il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito
anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il
modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.
sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono, e al più si deve
con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið
scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità
dichiarata e brutale, predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono
il frutto della civiltà, m a rendele poi familiari negli scritti e nei
trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze
seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e
questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e
il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito
tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per
opera della civiltà. Fil. Andate pure, e vi accompagnino cou
lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae
il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione
vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di
abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel
suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi
dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi, ma
oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo, e l'incilimento deve
esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i
superbi. Voi dunque, andando sempre contro natura,dovele mettere in
tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori, e d o vele
meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini, siccbè
queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino
a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra
costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia
sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la
diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di
una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco
neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo
venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli
imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ? Fil. Voi vi
ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo
pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo
tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue
abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali
che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a
presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale
siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che
si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il
Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i
veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il
luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo
però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi
terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per
fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di
meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro
servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati
di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro
paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e
un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci
libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel
terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con
l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una
religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola
religione può esser vera e tutte le altre devono essere false, così un solo
cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere
allrellanle imposture e mascherate, ridicole agli occhi degli uomini e
oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in
discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine
filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto
dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che
la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città
dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o
Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne
uno. facendo torto agli altri ? trebbe essere la citla della
Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con
tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi
pare, operate come vi pare, e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame non
im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro
slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla
quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio
pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la
tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a
ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre
rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua.
Fil. Queslo veramente non è necessario, percbè nei paesi della filosofia ci è
il datur omnibus, e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno
questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna
magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco,
e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a bere
e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo luttuosamente nei
nostri serragli, come vi vono i galli nel pollaio e i becchi nel peco rile, e
la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo pollaie pecorili ancora
nell'altro mondo, e che l'abbondanza delle galline e delle pecore sarà il
guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa mi sem bra una
religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a dirla schietta,
questa, poco più poco meno, è la religione dei fi losofi liberali, i quali non
sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli due sessi del genere
umano quella libertà che si godono ibruti animali. Esaminate pure e analizzate
quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo illuminato, il libertinaggio
animalesco libera è il compendio di lulti i voti e lo scopo principale del
liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo dire un serraglio, e per
l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto l'evangelio della filosofia.Voi
dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia nuova cillà, esercitatevi il
vostro culto liberamente, e non dubitale che i pollai, i pecorili e i porcili
non saranno mai perseguitati dalla fi losofia. E voi che venile appresso chi
siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia un Dio, ma siccome non so
cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi
religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu
dizio. Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una
religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e
si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale
cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più, e non
gli volge mai nè uno sguardo, nè una parola ; questo Id dio è come se non ci
fosse, si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi, e la
dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe
corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni, ed
entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro.
Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se
il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione
fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo, ovvero se col
tempo prenderà qualche altra figu ra, e non so cosa sia l'uomo e se finirà di
essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per non
vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di Dio,
e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini, voglio dire che non
c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello che
gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia e
senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m e
desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile,
o il sarà quel che sarà, può accomodarsi benissimo con la dottrina della
filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione
filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al
contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni
riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a
doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le
divinità di le gno e di cocco, e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le
lucerte, è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un
branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro
paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se
la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta
alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei
filo sofi non mancheranno adoratori,e a quella cara Venere, deessa della
voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco
galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata, e
che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete
immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono
lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il
fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p Ris. Noi
siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani,
quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un
poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino
che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli, e co noscerele
che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri deve esse
re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà non può
trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che facciamo con
indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti fuori di
strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli ridiamo di noi
medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse, il comodo
parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le nostre
vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto peggio
per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci se i
Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro
divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la
società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale
dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e
somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga
avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ? Rif. Per
ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare
alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza
pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali
avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi
miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e
l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi
venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci
disertori dalla Chiesa romana. Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo
godere i privilegi dell'errore, e non volendo assoggettarsi alle seccature
della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame
d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè
frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità
per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale,
il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi,
e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il
gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo,
perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta. Fil.
Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio
il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante
pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi
melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non
sono più di quelli di pri m a, e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li
patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco
di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa
non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia, nata fatta per venire a
figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia
lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb.
Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il
fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti, portiamo titoli e
decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene
faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale
pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non dubitale
che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi losofia. E voi
che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico, e insieme coi miei
compagni desideriamo di professare li 137 e per ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa
professione di ammettere tutte le religioni e tulli icalli, la sola religione
cattolica dovrà essere esclusa ? Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol
leranti. Cat. Ciò non è vero nel senso in cui voi lo intendele, e non polrete
provare in nes sun modo cbe noi siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che
pretendete di es sere i soli a credere e insegnare la verità, che fuori della
vostra chiesa lulli sono p o veri ciechi deviati dalla strada della salute ?
Cat. Questo si chiama essere conseguenti e non già essere intolleranli ;
imperciocchè al di là della verilà non può trovarsi niente al iro fuorcbè
l'errore,e chiunque è persuasodi trovarsi nella strada della verità deve essere
ancora persuaso che quelli i quali cammina no fuori di quella strada procedono
nella via dell'orrcre.Anzi perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni
sono lungi dalla verilà basta solo considerare qualınente essi accor dano che
anche fuori delle loro dottrine si trova la verità. In conclusione poi noi non
costringiamo nessuno a farsicattolico perfor za,compiangiamo enon
perseguitiamoquelli che vivono in un'altra credenza, e neppure ci vendichiamo
quando veniamo oltraggiati e beramente nei paesi della filosofiala
religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un cattolico!e avreste la presunzione
di stabilire nel regno dei filosofi la fede e il culto cattolico? e
perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in tolleranti, noi fra tulti í
credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli. Fil. Inoltre voi vorreste
empire lo stato di monache, di frati e di claustrali di tutti i colori,e queste
associazionie corporazioni non vanno a genio della filosofia. Cat. Ma, se è
vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno deve godere amplissi ma
liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel pensiero, e animali dallo
stesso desiderio, non potranno albergare in una medesima casa,vestire un
medesimo abi to, vivere come gli pare e godere anch'essi la loro libertà?
esegiusta i principi della vostra tolleranza non podresle escludere dal vostro
regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi, e i Dervis dei maomettani, perchè
lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva mente per i soli frati
cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol vivere senza far niente
e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati callolici predicano la
parola di Dio, istruiscono la gioventù, so stengono il ministero del culto,
assistono gli infermi, consolano i moribondi e tutto questo dovrebbe essere
qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e quanto al vivere a spe
sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano per forza, assassinando
i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi
canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle
nuvole e non 1 $ Fil. E non contate per niente il celibato
del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione
del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non
consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta
proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però
entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà,
forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento
mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse
sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero
alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere
lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è
troppo serio, troppo pubblico, troppo pomposo e solenne, e non può essere mai
gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela
religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il
nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione
cattolica è la dominante, ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene
ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di
donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe,
epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla
filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei
nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto
dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte
dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele
dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non
disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della
filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di
più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare
mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio.
Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il
lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà
sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat.
tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete
accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri
frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro
priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure
e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si
accordano mai coi cattolici, e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto
quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il
perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo, perchè accomodata quella
piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per
ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete
accordarci il bru tismo, le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è
venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di
sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque, i preti e i cat
tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e
inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi
liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo
in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert
mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città, o
la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia
accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con
allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie
i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare
in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce
un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del
ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde
l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle.
La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a
questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS
un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di
scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si
mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un
corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa
la sua danza pippando, e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea
scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a
ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare
il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi, e della
civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno
accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale
dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare
a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna
contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il
libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del
potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo completa.
Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la
Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce
la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo
lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con
l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la
diffusione del potere, dei beni, dei lumi, e della civiltà si rende asfatlo
completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a
calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così
finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata
troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La
Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La
Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La
Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti
dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello,
la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni
sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio
ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi. Keywords: 1150. –
the coding of a name. The philosophical Leopardi. The Leopardi fascista – interpretazione fascista da
Gentile dell’ultra-filosofia di Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Leopardi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lettieri: all’isola -- la
ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale – filosofia siciliana scuola
di Messina -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo siciliano.
Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the
practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational
self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my
principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice:
“I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at
Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we
Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on
‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as
he put it in his vernacular!” Insegna
a Messina. Presidente della Real Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto
apprezzato da Mamiani, Gioberti e Galluppi.
Altri saggi: Il sensualismo – cf. Grice, “Some remarks about the empire of the
five senses” – Austin, “Sense and sensibilia” --, dissertazione, Messina, Capra;
“La fisiologia calunniata di materialismo, Messina, Nobolo; La potenza del
pensiero, Palermo, Console; Etica e diritto naturale, Messina, Amico; L’intuito:
dialogo filosofico, Messina, Arena; L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata
di lu professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico; Introduzione alla
filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of
‘rational’ right!” (Messina, Amico; “La cognizione del dovere -- poche nozioni
dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico; “Ricordi
storici intorno al movimento filosofico in Siciliam Messina, Amico; “L’uomo” Pensieri”
(Messina, Amico; Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on rationality –
solidarity, beneficence and all the conversational principles appealed by Grice
find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il prossimo” – The
fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that competence is an
ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri would hardly
consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a trattarello on
‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to him, nor does he
belong to her!” – Antonio Catara
Lettieri. Antono Catara-Lettieri. Antonio
Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lettiere: la
ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.
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