Grice e Leanace: la
ragione conversazionale e la setta di Sibari -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo italiano. Pythagorean.
Giamblico.
Grice e Lecaldano: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della traspatia – l’impassibile di Cicerone – filosofia veneta
– la scuola di Treviso -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “Lecaldano
is interested in altruism as the basis for morality; I’m interested in morality
as the basis for altruism; he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love
Lecaldano; perhaps because he is an Italian, he focused on Scots! His analyses
of Smith and Hume on ‘sympathy’ is ‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice:
“Lecaldano engages in the kind of linguistic botanising I do when I reflect on
‘cooperation’ versus ‘benevolence’ versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus
‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end up with a rationality-based account of
cooperativeness – or rather a narrowing of ‘co-operation’ to ‘rational
co-operation’ – there are others!” Si
laurea a Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di Filosofia
Analitica (“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro della
Società Filosofica Italiana. Le riflessioni di L. spaziano dalla storia della
filosofia morale sino alle discussioni contemporanee sulla bioetica.
Avvalendosi anche del rigore concettuale della filosofia analitica, indirizza
la sua ricerca alla ricostruzione storiografica della morale, con particolare riferimento
ai filosofi scozzesi (Hume, Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi
della meta-etica. In bio-etica, L. si prefigge l'obiettivo di una
chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che
sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che
le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del
linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La
fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati””
(Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica:
la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario
di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza);
“Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano,
Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione
officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica
Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di
vista morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di
L. sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra
conversazione comune e letteratura “La molteplicità di usi di
simpatia” È possibile riconoscere diversi significati nel termine
simpatia che di solito è accompagnato da un significato positivo, anche
se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo
con connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni
del termine, dall’attrazione sentimentale alla condivisione di un
atteggiamento o posizione politica. Come nota Hume, è molto difficile parlare
delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti, perché
il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine “simpatia”
viene compreso dalla gran parte delle persone, ma paga la sua ampia
diffusione con l'indeterminazione che ad esso si accompagna. E enorme
l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che
esplicita. Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di
quella che nei testi illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt,
poi, privilegia la simpatia assimilata alla compassione. Già nel
diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione,
la considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre
Hume e Smith la considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini
che negli animali, di partecipare attivamente alle condizioni altrui, sia
dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui il
rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea (reso
possibile dai romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri
umani che fino a quel momento erano stati emarginati. Molti romanzi in
secoli successivi accesero le emozioni e la partecipazione simpatetica
del pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema
può essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le
sue tecniche, degli stati d'animo e della trasformazione delle emozioni
dei personaggi. (discorso su Kundera) “Un percorso di
approfondimento” Lo sforzo di conoscere il funzionamento della simpatia
si connette con la questione relativa a quanto la simpatia si debba
ritenere essenziale per la genesi della pratica morale diffusa tra gli esseri
umani. Cercheremo di capire se la simpatia sia necessaria o meno per la
moralità ed esporremo le argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo
restando che la simpatia può essere considerata necessaria per la nostra
vita etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine
conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui,
oppure a una reazione affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti
altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la simpatia intesa come
preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in
base ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte
quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e
istintiva, un contagio emozionale automatico; 2. Dall'altra quello
che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e
che comporta un minimo di riflessione. L'impostazione adeguata è
quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le
cose, presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla
connessione tra simpatia e la pratica non solo della moralità, ma della
giustizia, della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di
civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul
piano normativo che vede in essa ciò che è necessario e sufficiente per
la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga
tradizione nella storia della filosofia. La prima importante nozione di
simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le
cose del mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia
utilizzata per richiamare una connessione armonica che unisce fra loro
esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella
filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel
mondo fisico e solo secondariamente in quello umano, infatti gli stoici
si riferiscono ad una simpatia universale per indicare l'affinità
oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per
l'influenza che ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e
Smith. In Plotino troviamo un'immagine che verrà ripresa da Hume. Questo
concetto naturalistico della simpatia è il fondamento della magia e verrà
ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia ha
un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno
universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione
automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione
positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è un'importante
innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico
delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il
sole, la luna, l'acqua e il fuoco. Questo atteggiamento è “empatia”
(oriente e Schopenhauer) “Una relazione attiva fra due poli” La
simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica
a Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come
essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson
che però, pur riconoscendo agli esseri umani un grado di apertura
affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella
completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury,
infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia
come una trama che si estende al di là del mondo umano, creando armonia
fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il
termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio
emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea
perché incapace di cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la
riflessione. Ciò non toglie che le analisi di Hutchenson siano tornate
attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e
si può individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni
che influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel
considerare la simpatia solo come un dato della natura della psicologia
umana e non una forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico
che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani;
per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra
ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo disapprovare. Queste
diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e
moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo
necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel
“Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea interpretativa
ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume
un principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti
fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo
quelle fra esseri umani, nonostante coinvolga anche relazioni con gli
animali e tra loro stessi; Nella natura umana esiste una gran tendenza a
prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che osserviamo in noi
stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione
della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di
questi ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali
suscitando le stesse emozioni provocate nella nostra specie. Hume distingue
due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall'
infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo
indiretto, ricorrendo all'immaginazione riflessiva e non immediata che
genera i sentimenti morali. A quest'ultima forma di simpatia può essere
ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e
simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in
grado di rendere conto della distinzione che facciamo tra virtù e
vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione
della simpatia alternativa a quella di Hume. Infatti, a Smith non
interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la identifica
come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e
passioni altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere
su nel condividere emotivamente la risposta che l'altro dà alla
situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa
simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato
complesso e articolato: vi è un primo stadio che è la capacità di
ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta
sofferenza o piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato
dall'approvazione o disapprovazione che si dà della condotta altrui;
infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre
approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia
come approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella generica
analizzata da Hume, ma molto più aperta per ciò che riguarda il ruolo che
gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come approvazione morale in
Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica l'intervento di
uno spettatore immaginario capace di far valere le esigenze di una più
completa ricerca delle informazioni rilevanti. Concezione diversa la
possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla simpatia col ter. Grice: “While his research on
sympathy is erudite, he shows little sympathy! As far as his philosophy of
laicity (an Italian obsession) is concerned, he forgets for Romans religio WAS
a matter of state – those who did not submit were thrown to the lions!” –
Grice: “Lecaldano fails to recognize, but then he would, being a
post-Lateran-pact traumatized Italian – that not only religion was for the
romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but that the STATE was a matter
of religion. This was well perceived by that branch of fascism who culticated
the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies to the birth of Christ! I
would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself as ‘ethnic, ‘ethnicus,
ennico, a pagan, or heathen!” LE DISCIPLINE
FILOSOFICHE o doo lerprene CUCA CO SC {y/ertse e Ul insonne do
SAU VOVASVARIZZZA quali Sé prese NARO 1 SSCONI SUL problemi ‘ORGONO
per gli CSSOLL UAN quando AYIscOno © cerci ole è princi da Seguire
nelle diverse dimensioni d > Oa pratica. Sa parte integrante di questa
ILCELC “tazione delle regole TAN c0 pri «e giù disponibili Q/ we da
altre pers one. Afrontereno WZZZ volte nel co SAGGIO la questione di
Guanto l'etica assorba i sé 4 AGUA dall'economia per fare
valere 77) generale Pa ‘va (esa a lenee distinte concettualmente
CALO, da. In questo senso ‘etica’ occuba lo spazio. Ordinario di
Storia delle dottrine morali al- l'Università «La Sapienza» di Roma. I
suoi lavori sulla filosofia inglese dei secoli XVII e XVIII vanno
dall’edizione italiana delle Opere di Hume), all’edî- zione italiana
delle Lettere a Serena di Johni Roma. I suoi lavori sulla filosofia inglese dei
secoli XVII e XVIII vanno dall’edizione italiana delle Opere di David
Hume, all’edî- zione italiana delle Lettere a Serena di Toland, all’ampia
antologia L’ily- minismo inglese (1985), al volume Hume e la nascita
dell'etica contemporanea. All’etica contemporanea ha dedicato, tra gli
altri, i volumi Le analisi del linguaggio morale e Introduzione a Moore ETICA STEAS TEA - Tascabili degli
Editori Associati S.p.A. Corso Italia 13 - Milano UTET, corso
Raffaello, Torino. UTET dal Volume ITI della Fi/osoffa, diretta da Rossi TEA ETICA La natura
dell'etica. Meta-erica e meta-morale, La conce- zione dell'edonismo
egoistico. 2.3. L'etica come insieme di comandi divini. 2.4. L'etica come
co- mando di una q ualche autorità. L'etica come legge naturale 0
razionale. L'etica come pre- scrizione universalizzabile, La negazione
dell'etica: libertà e determinismo. - 3. Fondazione, giustificazione e
spiegazione: l'epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica
all'epistemolegia. 3.2. La conoscibilità della legge divina. 3.3. La
fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. 3.4, La natura
umana come fondamento dell'etica: la via metafisica. 3.5. La natura umana
come fondamento dell'etica: la via empirica. L'appello a una ragione
universale come via per la fon- dazione dell'etica. LI ricorsa a una facoltà morale per la
fondazione dell'etica. La giustifi- cazione procedurale delle opzioni
etiche: il contrattualismo, 3.9. Il non-cognitivisma e la giustifica.
zione logico-argomentativa del punto di vista etico. 3.10. Dalla
giustificazione alla spiegazione del- l'etica. I problemi centrali per Ia
fondazione della morale; «legge di Hume» e possibilità di una «logica
delle norme». Le etiche normative: concezioni in contrasto. 4.1. Etiche
conseguen- zialiste e deontologiche: principi, mezzi è fini nell’etica. Il valore intrinseco nell'etica. 4.3.
L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. L'etica contratrualistica e le
sue forme. Un'etica dei diritti. L'etica kantiana e la persona umana. Le etiche utilitaristiche. 4.8, La scelta
ra- zionale come criterio normativo, 4.9, Pluralismo, tolleranza,
relativismo, irrazionalismo etico. Dall'etica teorica all'etica pratica. 5.1.
Dall'etica teorica all'antropologia: motivazione e obbliga. zione, Il
ruolo dell'identità personale nell’etica. 5.3. Erica del carattere 0
dell'azione. La svolta normativa e l'irruzione dell'etica applicata. 5.5.
I principali campi dell'etica applicata. - 6. Le dimensioni dell'etica.
6.1. La morale e le relazioni personali. 6.2. Il diritto e i sistemi
codificati. 6.3. La politica e i fini del governo. 1.
Introduzione. Con il termine etica ci si riferisce all'insieme di
scritti e discorsi nei quali si presentano riflessioni sui problemi che
si pongono per gli esseri umani quando agiscono e cercano regole e
principi da seguire nelle diverse dimen- sioni della loro vita pratica.
Fa parte integrante di questa ricerca la valuta- zione delle regole e dei
principi già disponibili o fatti valere da altre persone. ETICA Affronteremo
più volte nel corso del saggio la questione di quanto l'etica as- sorba
in sé e si distingua dall'economia per fare valere in generale una pro-
spettiva tesa a tenere distinte concettualmente etica ed economia. In
questo senso ‘etica’ occupa lo spazio semantico che nella tradizione
dotta italiana si collega a ‘filosofia morale’. L'etica in questo senso
ampio comprende dunque tutta una serie di più determinate specificazioni
che riguardano di volta in volta i problemi morali, quelli di pertinenza
del diritto e della legge e quelli che più propriamente rientrano nel
campo della politica o dell’azione del go- verno. Usando un altro
linguaggio si può dire che l'etica riguarda l'universo dei valori e delle
norme complessivamente inteso e dunque in questo senso sia la morale, sia
il diritto e la politica. È chiaro che, invece, gli aspetti più tecnici e
specifici del diritto e della politica, quali, poniamo, la teoria
dell’ordina- mento giuridico o le varie tecniche da adottare per rendere
efficaci le san- zioni, o ancora le riflessioni sulle varie forme di
governo e i rapporti tra i vari poteri non sono di pertinenza dell'etica
come qui intesa. Verranno dunque brevemente trattate le questioni
relative al diritto e alla politica solo per indi- viduare con più
precisione gli ambiti specifici di problemi pratici in gioco in queste
aree dell'etica, La pretesa per quanto riguarda queste sezioni è di col.
locarle con chiarezza nel campo più generale dell'etica piuttosto che
affron- tare partitamente i loro problemi specifici. La scelta
concettuale fatta com- porta che si lasci completamente da parte la
pretesa di occuparci dell'etica 0 della morale in un senso più
sociologico, ovvero come insieme di costumi di un popolo, o in un senso
più psicologico, ovvero come stili di vita 0 inclina- zioni e abitudini a
determinati tipi di associazione mentali effettivamente rico- noscibili
nella biografia di esseri umani concretamente esistenti. L'etica nel
senso in cui ce ne occuperemo coinvolge piuttosto la riflessione e il
pensiero impegnati nella caratterizzazione, critica, difesa e revisione
del costume o delle pratiche effettive. La scrittura di
questo testo è stata orientata da due linee guida. Da una parte si è
cercato di fare valere l'ottica di chi scrive alla fine del secolo XX.
Anche se probabilmente una partizione che prenda troppo sul serio lo
stacco tra secoli va incontro a forzature, si muove, comunque, da una
prospettiva che è largamente influenzata dalla considerazione di quei
problemi morali che nel nostro secolo si sono dovuti affrontare, e si
stanno ancora affrontando, per la prima volta, quali ad esempio le
questioni della bioetica, o dell'etica am- bientale, del trattamento
degli animali ecc. In secondo luogo chi scrive assume la prospettiva
fatta valere da Derek Parfit secondo la quale una vera e propria etica
nel senso moderno può essere vista nascere solo con il XVII secolo. Ma
un'etica che unisca insieme la consapevolezza della sua autonomia e un
certo impegno in senso professionale riguarda solo la se- conda parte di
questo secolo (Parfit). Ed è dunque a questa etica moderna e
contemporanea più che a quella antica e medievale che in questo scritto
si farà principalmente riferimento per dare spessore storico alle
distinzioni e conclusioni che si avanzeranno. Anche se l'etica si
presenta come una disciplina già consolidata e con una tradizione di
sapere costituito, si può indicare una strada che permette di ac- cedere
ai problemi di cui si occupa muovendo dall'esperienza comune e quo-
tidiana. Infatti la pretesa dell'etica — come del resto di quasi tutti i rami
della riflessione filosofica — è quella di occuparsi di problemi che
tutti gli uomini affrontano e incontrano nella loro vita. Nel caso
dell'etica teorica è frequente — anzi — trovare affermata la pretesa di essere
più vicina e direttamente ri- levante per la vita delle persone di quanto
siano altri ambiti della filosofia, quali poniamo la gnoseologia (con la
sua elaborazione teorica sulla conoscen- za), 0 l'epistemologia (con le
sue riflessioni sulla teoria della verità) ecc. Questa pretesa di
una più stretta vicinanza con la vita di tutti si accompa- gna spesso
nelle elaborazioni teoriche nel campo dell'etica con un'ulteriore pretesa
per cui tali elaborazioni vengono presentate come la parte più impor-
tante delle riflessioni filosofiche 0 comunque come quella che ha priorità
e centralità regolativa rispetto alle altre. Nella vita
quotidiana si presentano numerose situazioni problematiche che possono
essere considerate come punti di partenza per la riflessione etica.
Suggeriamo di classificare queste situazioni problematiche ricorrendo a
due distinte tipologie, quella dei conffitti e quella dei disaccordi.
Casi di conflitto — per così dire il versante privato o soggettivo
dell'etica — sono quelli in cui noi stessi non riusciamo a trovare una
soluzione valida a un problema etico 0 perché i nostri principi
tradizionali risultano inadeguati o perché non riu- sciamo a risolverci
appunto tra differenti principi egualmente rilevanti. Casi di disaccordo
— per così dire il versante oggettivo o pubblico dell'etica — sono
quelli, molto frequenti e diffusi nelle nostre società complesse, in cui
petsone diverse tendono a fare valere principi etici contrastanti per
risolvere la stessa situazione moralmente rilevante, î Il
cammino verso l'elaborazione di un'etica più riflessa sembra aprirsi non
già quando le regole e i principi tradizionali rispondono alle nostre
esigenze, ma piuttosto in una situazione in cui gli esseri umani incontrano
difficoltà nel campo delle loro scelte e decisioni pratiche. Se, infatti,
la vita pratica procede in modo del tutto ordinato all’interno di una
routine consolidata non vi è quella base necessaria per un'elaborazione
critica, Il presentarsi di una diffi. coltà nell'applicazione dei codici
normativi tradizionali è, in genere, il punto di partenza per
l'elaborazione dell’etica nel pensiero moderno e tale quadro problematico
è diventato costitutivo della teoria etica nel pensiero etico con-
temporaneo. La stretta connessione della riflessione etica con
situazioni di conflitto e di disaccordo sembra voler suggerire che
proprio all'etica in quanto tale spetta di proporre una soluzione e che
quindi rientra negli obiettivi specifici del- l'etica teorica prescrivere
esplicitamente ciò che è bene o giusto fare in situa- zioni particolari.
Una pretesa che nel corso della nostra ricostruzione delle varie
posizioni riconoscibili nell’etica moderna e contemporanea avremo l’oc-
casione di valutare criticamente. L'elaborazione etica di cui
renderemo conto in modo più sistematico in questo scritto si colloca in
un quadro generale individualistico. A monte in- fatti della nostra
rivisitazione dell'etica vi è l’assunzione filosofica che in gene- rale i
problemi con cui si ha a che fare riguardano individui ovvero persone
umane. L'etica così intesa si muove in un contesto — che può essere
conside- rato come proprio del pensiero moderno da Cartesio in avanti —
in cui i pro- blemi di fronte ai quali ci si trova sono problemi che
nascono per esseri umani particolari e finiti. Anche se nei primi secoli
della ricerca moderna la rifles- sione era volta a fissare il campo
dell'etica tenendo conto della natura umana complessivamente intesa, fin
dal secolo XVII essa muoveva da problemi pra- tici di individui ben
determinati. Il lettore troverà dunque privilegiata nel- l'esposizione
seguente una tradizione empiristica e naturalistica nella quale, tra il
XVII e il XXX, si sono collocati tra gli altri: Hobbes, Locke, Hume, Smith, Bentham,
Mill, e Sidgwick. La riflessione sulla morale di Immanuel Kant
(1724-1804) malgrado non rientri in questa tradizione sarà tenuta
presente per la sua capacità di far valere l'ottica di una responsabilità
individuale auto- noma nella vita morale, Esponenti del neoempirismo e
della filosofia analitica hanno contribuito nel corso del XX secolo a
questo approccio più generale nei confronti dell’etica — e il loro
contributo sarà largamente presente nelle pagine seguenti —, che è stato
più recentemente caratterizzato esplicitamen- te come «individualismo
metodologico». Una linea di ricerca ampiamente percorsa — anche se non
senza differenze — in Italia, ad esempio, da Er- minio Juvalta,
Nicola Abbagnano, Giulio Preti, Uberto Scarpelli e Norberto Bobbio.
È vero che i casi in cui gli esseri umani individuali e le persone si
trovano effettivamente di fronte a problemi etici quali quelli che
rendono possibili laserie di riflessione di pertinenza dell'etica sono
probabilmente più rari di quanto in genere si ritenga. Ma la rinascita
dell'etica e il fiorire della rifles- sione pratica a cui abbiamo
assistito nella seconda metà del secolo XX (dai disaccordi pubblici sulle
questioni di giustizia distributiva e di discrimina. zione che hanno
caratter izzato gli anni Settanta, ai conflitti che negli anni Ot-
tanta ci hanno coinvolto tutti sui principi e le regole da far valere di fronte
alle nuove condizioni del nascere, morire e curarsi degli esseri
umani) mostrano l'ampio radicamento nella vita comune di questa
dimensione filosofica. Pro- babilmente riflessioni e decisioni si
svolgono in modo meno esplicito e più impersonale (attraverso la
meditazione della discussione pubblica intersogget- tiva) di quanto
risulterà dal taglio individualistico di questo saggio. Ma nelle pagine
seguenti, senza la pretesa di tutto abbracci are o risolvere,
renderemo conto in modo sistematico e critico delle diverse concezioni
elaborate per avere a che fare con quelle scelte individuali che sono
influenzate da ragioni etiche. 2. Lanatura dell'etica.
2.1. Meta-etica e meta-morale. — La riflessione sulla natura dell’etica
ha una priorità logica una volta assunta la prospettiva riflessiva e
critica alla cui genesi abbiamo fatto riferimento nel paragrafo 1. Si tratta
infatti, in primo luogo, di capire l'ordine di problemi intorno a cui si
riflette econseguente- mente di individuare quali siano i criteri cui si
può ricorrere per risolverli 0 mettere alla prova la validità delle
soluzioni alternative che ci si presentano. Un esempio particolarmen
te rappresentativo di questo percorso logico troviamo delineato da George
Edward Moore nei suoi Prircipis Ethica (1903). Moore chiarisce che il
problema centrale dell'etica — a suo parere, l’unico problema dell'etica
— è quello di fornire una definizione delle princi- pali nozioni che
ricorrono nei nostri discorsi morali, ovvero le nozioni di buono, giusto,
obbligatorio, dovere ecc. Moore sostiene poi che tutte le no- zioni
etiche sono riducibili, in modo più 0 meno diretto, a quella fondamen-
tale e primaria di «buono». Ecco quindi quanto scrive Moore: Ciò
che ‘buono’ significa è in effetti, a parte il suo contrario «cattivo», il solo
oggetto semplice di pensiero che appartenga peculiatmente all'etica. La
sua definizione, di con- seguenza, è il punto essenziale nella
definizione dell'etica; e inoltre un errore su questo punto porta con sé
un numero di giudizi errati di gran lunga più grande che qualsiasi altro
errore in materia. Se questa domanda preliminare non è pienamente compresa
è non se ne vede chiaramente la risposta, tutta il resto dell’etica ha un
valore praticamente nullo dal punto di vista della conoscenza sistematica
[...] in ogni caso, è impossibile che, finché non si conosca la risposta,
si possa sapere quale è la prova richiesta per un giudizio etico
qualsiasi. Ma il principale obiettivo dell'etica come scienza sistematica è dì
fornire ragioni corrette per pensare che una cosa 0 un'altra è buona; e
se non si risponde alla nostra domanda tali ragioni non si possono dare
(Moore, 1964: 48-49). Secondo l’impostazione di Moore dunque — che
faremo nostra — i me- todi di prova e confutazione che hanno efficacia in
etica potranno essere iden- tificati solo dopo che avremo capito la
natura dell'etica, ovvero il tipo di pro- blemi di fronte ai quali ci
troviamo laddove è in gioco la parte morale della nostra esistenza.
Cominciamo quindi con il passare in rassegna criticamente le più
impor- tanti concezioni sulla natura dell'etica. In filosofia è corrente
una nozione per riferirsi a questa parte della ricerca e, specialmente in
questo secolo, ci si è molto dilungati sulle diverse meta-etiche o
meta-morali (assumiamo qui que- ste etichette in un senso generico e che
le rende equivalenti senza investire la distinzione tra etica e morale su
cui invece ci soffermeremo nel $ 6). Una de- terminata concezione
meta-etica o meta-morale si colloca sul piano conosci- tivo e logico.
Essa si propone infatti, prima di tutto, di farci capire qual è la natura
dell'etica e quali sono i metodi di prova e dimostrazione in essa in vi-
gore. Tutto ciò è preliminare e solo dopo si ritiene possibile passare a
sotto- scrivere una determinata soluzione. La riflessione meta-etica
viene quindi non solo concepita come preliminare o logicamente
prioritaria, ma in genere come del tutto neutra da un punto di vista
normativo, Si tratterebbe dunque, per usare formule che piacciono molto
ai filosofi, di identificare preliminarmente ciò che è comune a tutti i
punti di vista etici in quanto etici, per eventual- mente passare poi a
sottoscrivere una determinata etica a preferenza di altre.
Naturalmente vi sono anche pensatori che negano che una meta-etica
neu- trale e del tutto priva di implicazioni normative sia possibile. In
questalinea troviamo un autore di tendenze analitiche come Scarpelli che
sottolinea la na- tura prescrittiva di tutte le scelte a monte della
costruzione di una particolare meta-etica (Scarpelli, 1982: 102-112). Ma
anche autori del filone postanalitico come Hilary Putnam e Donald
Davidson che negano la validità dell'assun- zione che distingue tra
forma e contenuto, distinzione a monte della tesi della neutralità delle
teorie meta-etiche (H. Putnam, 1985; D. Davidson, 1992). Questa controversia
riguarda però più propriamente il modo di intendere il lavoro filosofico
e il modo di concepire le relazioni e connessioni tra analisi concettuali
e logiche e opzioni valutative e normative e dunque in questa sede
laasciamo da parte. Così come non affrontiamo esplicitamente la questione
di quale si debba considerare l'oggetto proprio delle analisi meta-etiche.
Se cioè esse debbano vertere esclusivamente sulle parole e il linguaggio
morale — come ha sostenuto una parte dei filosofi di questo secolo e specialmente
gli esponenti della filosofia del linguaggio ordinario come ad
esempio Charles Leslie Stevenson, Richard Mervyn Hare e Patrick Horace
Nowell-Smith (si veda C. L. Stevenson, 1962; R. M. Hare, 1968; P. H.
Nowell-Smith, 1974), o possano essere caratterizzate in modo meno
ristretto. Più recentemente, ad esempio, Bernard Williams ha suggerito di
considerare come oggetto proprio delle analisi sulla natura dell'etica —
in coerenza con una concezione più li- berale dell'analisi
filosofica — non solo i discorsi, ma anche esperienze, azioni, emozioni
ecc. (B. Williams, 1987). Tenendo conto del livello generale di questo
scritto potremo fare tesoro di questa proposta liberalizzatrice e con-
siderare come campo della meta-etica o della meta-morale l'insieme delle
di- verse dimensioni della vita etica degli uomini. La concezione
dell'edonismo egoistico. — La via più ovvia per identi- ficare la natura
generale dei problemi che sorgono quando stiamo scegliendo o decidendo
tra differenti alternative che ci stanno di fronte è quella di soste-
nere che in realtà siamo esitanti solo perché non ci risulta chiaro cosa ci
con- viene fare di più. Ovvero — lasciando da parte la questione di una
differenza tra le più specifiche caratterizzazioni di che cosa intendiamo
con la formula «ciò che ci conviene di più» —-ciò su cui stiamo
deliberando è solo l'indivi- duazione del corso di azione che farà
maggiormente il nostro proprio inte- resse, 0 ci darà più piacere o ci
farà guadagnare di più ecc. Questa concezione meta-etica riconduce quindi
le azioni in gioco in questa dimensione della no- stra vita pratica
all'interno di un contesto che riguarda le azioni umane in generale:
tutte le azioni umane sono rivolte a ottenere il proprio personale
piacere e a evitare il dolore. Si tratta di una concezione che riconduce
l'etica all’interno di quel quadro dell’edonismo egoistico che — con una
certa ap- prossimazione interpretativa — viene attribuito a pensatori
come Epicuro e Hobbes. Troviamo ad esempio che Hobbes negli Elements of
Law Natural and Politic (Elementi di legge naturale e politica) sostiene:
«Ogni uomo, dal canto suo; chiama ciò che gli piace ed è per lui
dilettevole, bene; e male ciò che gli dispiace; cosicché, dato che ognuno
differisce da un altro nella co- stituzione fisica, così ci si
differenzia l’uno dall’altro anche riguardo alla co- mune distinzione di
bene e male. Né esiste una cosa come l’agaton aplos, vale a dire il bene
assoluto» (Hobbes, 1985: 50-51). Questa concezione della natura
dell'azione umana in generale in realtà porta a negare che vi sia una
dimensione etica nella vita degli esseri umani. Infatti ci troviamo di
fronte a una posizione che propone di tradurre tutti gli enunciati 0
giudizi etici in questioni che hanno a che fare esclusivamente con valutazioni,
pro 0 contro una certa linea di azione, sulla base di un criterio
esclusivo che è quello del proprio personale tornaconto. La natura
dell'etica non viene certo caratterizzata in questa direzione da tutti
coloro che presen- tano delle teorie meta-etiche o meta-morali. Infatti
al di lì delle diversità da un punto di vista epistemologico,
gnoseologico, psicologico 0 genetico, tutte le diverse concezioni
concordano nel presentare, in termini contenutistici e sostantivi, il
campo dell'etica come quello che ha a che fare con scelte e valu- tazioni
che hanno come punto di riferimento degli obiettivi che vanno al di là
del solo interesse personale. Naturalmente una caratterizzazione
dell'etica che insiste sulla natura non interessata, imparziale e
generale del punto di vista che essa coinvolge pone come questione
preliminare quella più propriamente empirica e psicologica della
possibilità che gli uomini effettivamente agiscano mossi da motivazioni
non strettamente egoistiche. Vedremo più volte nelle pagine seguenti (cfr.
jn- fra $$ 3.3, 4.8 e 5.1) che una delle grandi questioni intorno a cui
sono conver- gentemente confluiti gli sforzi di melti pensatori è
proprio quella di riuscire a salvaguardare nel comportamento umano uno
spazio per le azioni mosse da ragioni etiche e dunque non strettamente
egoistiche. In questa sezione ci limi- tiamo dunque a fissare in via del
tutto preliminare il punto su cui convergono le diverse concezioni sulla
natura dell'etica e della morale di cui renderemo conto in questo
paragrafo. In modi diversi le numerose concezioni meta-etiche
cercano di rendere conto di un fatto considerato più o meno acclarato
ovvero che nella vita degli esseri umani esiste una sfera di azioni,
scelte, valutazioni che è di pertinenza dell'etica e della morale. Questa
sfera ha a che fare comunque con valori, principi, criteri, norme, regole
che riguardano la condotta degli uomini ove la si veda come non
esclusivamente indirizzata verso la realizzazione di obiettivi
strettamente egoistici ponendosi dal punto di vista di ciascuno degli agenti.
Vi è cioè secondo le diverse teorie meta-etiche che ora passeremo in
rassegna una dimensione sovraindividuale e intersoggettiva (se non
addirittura univer- sale) coinvolta nelle azioni umane e che sarebbe
appunto quella di pertinenza dell'etica. Sulla base di questa premessa
comune le meta-etiche si differen- ziano poi per il modo di rendere conto
di questa dimensione e conseguente- mente delle vie per fondare e
giustificare scelte e giudizi etici corretti. 2.3. L'etica come
insieme di comandi divini. — Una delle teorie meta-eti- che più
antica e fortunata è quella che ritiene che al centro dell’etica vi siano
una serie di doveri e di obblighi che ricavano la loro origine, validità e
forza dal fatto di essere comandi di un’autorità superiore. In genere poi
all'interno di questa concezione meta-etica si tende a identificare
l'autorità i cui comandi vengono messi in pratica nell'etica con una
qualche divinità, si tratti del Dio di una delle diverse religioni
positive, o piuttosto l'Autore della Natura della religione naturale, o
ancora qualcuna delle divinità minori delle religioni po-
liteistiche. Nel mondo moderno una tale concezione meta-etica è
stata presentata nella forma più chiara dai teorici del giusnaturalismo
provvidenzialistico del XVII secolo e in particolare la si trova difesa
approfonditamente da Locke negli Essays on the Law of Nature (1660-1664,
Saggi sulla legge naturale). Si tratta di una concezione meta-etica che
proprio per il riferimento essenziale ai comandi di una autorità
sovrannaturale considera primarie e centrali per ren- dere conto di
questo campo della vita umana le nozioni di legge, obbliga- zione, dovere
e mette, dunque, in secondo piano altre nozioni quali quelle di buono,
giusto, diritti, virtù ecc. In questa prospettiva l'etica è poi
strettamente connessa con la religione. Infatti se tutto ciò che è
in gioco nelle nozioni eti- che è un qualche comando o legge di
un’autorità divina che rende obbligatori i suoi dettami attraverso
sanzioni a cui nessun essere umano può sfuggire al- lora un'etica così
intesa dipenderà fortemente dalla disponibilità di prove del- l'esistenza
dell'autorità divina presupposta e andrà incontro a insormontabili
difficoltà nel momento in cui entra in crisi la credenza nell'esistenza di
un essere che trascende la natura. I fautori della concezione che vede
nell’etica una serie di comandi o leggi o ordini di una qualche autorità
divina, giunti a questo punto o riterranno scomparsa l'etica
dall'orizzonte della vita degli uo- mini 0 dovranno indicare una qualche
autorità terrena da cui fare dipendere la validità dei principi etici 0,
infine, dovranno abbandonare del tutto la meta- etica che rende conto dei
principi morali come di comandi di una qualsiasi autorità. Una
trasformazione del genere fu al centro della riflessione di Hob- bes
portando inizialmente a una forma implicita di positivismo giuridico.
Ma più in generale guardando alla riflessione morale dal XVII secolo ad
oggi, con una qualche semplificazione, si può rendere conto dell'etica
moderna e con- temporanea come un processo di progressivo allontanamento
della meta-etica in termini di comandi di una qualche autorità distinta dal
soggetto che sceglie, decide o giudica eticamente. Laddove si
istituisce il collegamento tra l’etica e la legge divina si aprono le due
diverse possibilità dell’intellettualismo e del volontarismo. Chi ritiene
che l’etica non sia altro che un insieme di comandi divini può infatti
ritenere che Dio comandi ciò che è bene perché lo riconosce come tale
oppure — alla lucedi una concezione volontarista — può concludere che ciò
che è buono è tale proprio in quanto è Dio a volerlo. Non ci soffermeremo
sulle difficoltà presenti in queste due distinte vie teoriche. In
particolare l’intellettualismo sembra andare incon tro alta
difficoltà di rendere in qualche modo il bene pre- cedente e superiore a
Dio. Viceversa il volontarismo si scontra con la teodicea ovvero con la
questione dell’esistenza del male nel mondo e dunque con la necessità di
ammettere un qualche limite alla potenza di Dio di fronte ad esso. Si può
ipotizzare che proprio le difficoltà incontrate — una narrazione di
queste difficoltà si può trovare nei volumi di S. Landucci e Scribano — nel
corso del XVII secolo nel delineare in modo coe- rente e
accettabile queste diverse strategie per fare dipendere il bene
morale dalla legge divina, hanno segnato una delle cause del crollo della
concezione meta-etica che stiamo esponendo. Sulle macerie di questa
concezione si sono andate consolidando le meta-etiche che ritengono
costitutiva per una ricostru- zione adeguata di questo campo il pieno
riconoscimento dell'autonomia del- Petica. Cerchiamo di
delineare sia pure sommariamente le principali argomenta- zioni che
giustificavano questo sforzo di ricondurre l'etica alla legge divina.
Nella sezione successiva ricostruiamo invece il tentativo di connettere
comun- que l’etica ai comandi di un'autorità, non già però sovrannaturale,
ma solo terrena e positiva. Come si è detto la biografia
intellettuale di Locke è particolarmente signi- ficativa per chi sia
interessato a una riflessione critica sulle ragioni pro e con- tro
un’etica del comando divino. Lo sforzo di Locke era quello di conciliare
questa concezione meta-etica con ragioni che potessero essere accettate
an- che, al di fuori della metafisica innatistica del pensiero medievale
e cartesiano, da chi si muoveva accettando un’epistemologia empiristica.
Vi erano alcuni vantaggi a favore di una concezione della morale e
dell'etica come una legge divina presente nella natura umana.
Quest'impostazione permetteva di risol- vere in modo semplice le
complesse questioni della motivazione propria della condotta etica e
dell’universalità ed eternità dei principi morali. Locke mostra con
chiarezza che questa concezione meta-etica veniva abbracciata in defini
tiva proprio in quanto permetteva di rendere conto di un'etica in cui i
prin- cipi venivano appunto considerati come eterni e universali e
obbligatori per tutti gli esseri umani. Infatti come insistentemente
ripete Locke — e non solo negli Essays on the Law of Nature, ma anche in
An: Essay concerning Human Understanding (1690, Saggio sull'intelletto
umano) e negli scritti pubblicati dopo il 1690 — un'adeguata filosofia
morale deve riuscire a delineare le con- dizioni che rendono vincolante
principi e regole, ovvero la legge naturale, per tutti gli esseri
umani in qualsiasi epoca. Ma il punto decisivo è che l’obiettivo di una
filosofia morale non è solo mostrare che un certo principio è
vincolante e obbligante, ma anche che ciò che esso ci comanda va fatto
perché noi rico- posciamo che è giusto. Tutto ciò possiamo realizzarlo
solo concependo la legge naturale al centro dell'etica come un comando di
Dio. Solo questo in- fatti garantisce che il comando sarà giusto,
direttamente presente în tutti gli esseri umani e vincolante in modo
efficace in quanto tutti sanno che qualsiasi defezione alla legge sarà
punita da Dio senza scampo in una vita eterna. Locke nella sua
presentazione della natura dell'etica come una legge natu- rale non solo
si sforzava di insistere sulla natura obbligante di questa legge
facendola derivare da un comando divino, ma di rendere possibile la conosci-
bilità di questa da parte della coscienza umana senza doverla presupporre
come innata o ammettere un consenso universale non riscontrabile
empirica- mente. Proprio il fatto di fare derivare la conoscenza della
legge naturale da un processo che univa senso e ragione portava Locke a
considerare tale legge come costitutiva della natura umana. Locke finiva
dunque con il congiungere la concezione che vede l'etica come il
campo dei comandi divini con un’altra concezione che vede piuttosto
l’etica come l’esplicitazione di quelli che sono i caratteri necessari
della natura umana. Nelle sue analisi Locke non distin- gueva tra due
strategie radicalmente diverse, quella che concepisce la legge morale
naturale come un comando divino che ci viene direttamente comuni- cato da
Dio o da un suo interprete autorizzato e quella che invece vede la legge
naturale come qualcosa solo indirettamente scopribile ricostruendo le
leggi morali incorporate nella condotta umana. 2.4. L'etica come
comando di una qualche autorità. — L'insistenza sulla tesi che la natura
propria dell'etica può essere colta solo mettendo al suo cen- tro
principi morali che sono obbliganti e vincolanti in quanto comandati è
presente anche in un’altra linea di caratterizzazione meta-etica e
meta-morale. Si tratta di quella concezione che, negata la possibilità di
riconoscere una au- torità sovrannaturale e divina, mantiene pur tuttavia
l'apparato concettuale dell'etica religiosa per cercare di rendere conto in
termini mondanizzati della natura vincolante della morale. Questa
strategia di traduzione dell'etica del comando divino nella meta-etica
che definisce comunque le nozioni morali in termini di imperativi o
comandi sia pure di una autorità terrena e umana fu percorsa già nel
corso del XVII secolo, ad esempio secondo alcuni studiosi di etica da
Hobbes. Ma l'interpretazione di Hobbes in questo senso è contro- versa e
dunque risulta dubbia la possibilità di rendere conto della sua con-
cezione della legge etica o morale considerandola come una concezione che
la riduce al comando di un'autorità positiva riconosciuta. Né ritengo che,
diversamente da quanto pensano altri studiosi di storia dell’etica (ad
esempio M. A. Cattaneo, 1962), una concezione del genere si possa ritrovare
nell'opera del fondatore dell’utilitarismo Jeremy Bentham in quanto è
chiaro da un punto di vista concettuale che per un utilitarista il
criterio decisivo dell'etica non è il rinvio a qualcosa che è
comandato — secondo procedure ricono- sciute idonee — ma direttamente
a ciò che è accettabile in termini di utilità generale. Tale concezione
può dunque essere più correttamente attribuita ad autori come John Austin
o, per venire al secolo XX, ai sostenitori del positi- vismo giuridico
come Hans Kelsen. Si tratta di una concezione legalistica del- l'etica;
ciò che ha una validità etica può essere obbligante solo se vi è un’au-
torità che è in grado di fare rispettare, con opportune sanzioni, la legge
o le regole codificate. Tale impostazione non solo esige una qualche
codificazione dell'etica, ma richiede anche che vi sia una autorità in
grado di fare rispettare i suoi decreti. Numerose sono le
obiezioni che sono state mosse a questa concezione le- galistica
dell’etica e in generale a una concezione come quella che sarà svilup-
pata sistematicamente dal positivismo giuridico che tenta di ricondurre la
to- talità del valore etico ai comandi di un'autorità positiva in grado
di fare rispet- tare con l'uso della forza i suoi decreti. Già nel XVII
secolo viene messa a punto un’ampia batteria di critiche. Esse rendono
difficile accettare questa concezione come in grado di spiegare la natura
dell’etica in generale e fini- scono con il delimitarne la portata
esplicativa, eventualmente, al solo diritto positivo strettamente inteso
(cfr. infra, $ 6.2). Ricordiamo alcune di queste critiche. Il
punto decisivo sta nel fatto che ricondurre l'etica a un insieme di
comandi non permette di discriminare — come ha mostrato nel dettaglio ad
esempio F. Snare (Snare) — tra tre situazioni che sono concettualmente
distinte. 1) Una posizione è quella di chi accetta un comando in quanto
teme l'eventuale sanzione di chi pro- mulga il comando, ovvero quella di
chi considera il comando obbligatorio e vincolante in quanto prevede che
chi lo ha emesso ricorrerà a una forza effi- cace coercitiva per farlo
rispettare. 2) Completamente diversa è poi la posi- zione di chi accetta
un comando in quanto riconosce un'autorità a chi pro- mulga il comando.
In questa posizione ricadono non solo i fautori — di cui abbiamo già
detto nella sezione precedente — di un legalismo religioso alla Locke che
vedono il comando divino come obbligante non potendosi non avere
«fiducia» nell’autore della natura che non può regolarsi in modo di-
verso da quello proprio di un padre buono. Vi ricadono anche i fautori
del positivismo giuridico (per una presentazione ed una critica di questa
posi- zione sono utili Bobbio, 1965; Scarpelli, 1965} che ritengono di non
potere non obbedire alle leggi promulgate da un'autorità che riconoscono
come le- gittima in quanto rispetta le procedure costituzionalmente
previste per pro- mulgare leggi. 3) Infine del tutto diversa è la
posizione di coloro che accettano un comando in quanto discriminano tra
comandi giusti e comandi ingiusti e dunque rispettano le leggi del loro
paese fino a quando le considerano etica- mente accettabili. Si tratta di
tre situazioni ben distinte e una meta-etica che non riesca a
mantenere autonoma l'obbligatorietà della morale dalla mera ac-
cettazione di un comando legittimo o dal timore di una qualche sanzione
data da un potere che ha la forza di costringerci risulta una meta-etica
inadeguata. Le critiche alle concezioni religiose o legalistiche
della natura dell’etica sono una chiara via pet giungere a
cogliere l'autonomia dell'etica. L'autono- mia che così viene in
primo piano è quella di decisione di ciascun soggetto individuale
responsabile. L'etica ha a che fare con decisioni autonome di in- dividui
che non possono ritenere risolti i loro problemi meramente facendo
appello a una qualche autorità che comanda loro che cosa fare. In realtà
resta sempre aperta da un punto di vista etico la domanda che conta
ovvero se ob- bedire o meno al comando riconoscendolo giusto. Il senso
peculiarmente etico di tale domanda ci si rivela laddove comprendiamo che
con essa ci si chiede non tantose l'autorità che ci sta di fronte sarà in
grado di scoprirci o punirci ove non rispetteremo i suoi comandi, quanto
piuttosto se il comando è giusto o meno, ovvero se è o no moralmente
accettabile. Le concezioni legalistiche dell'etica e il positivismo
giuridico non riescono dunque a discriminare tra potere giusto e
ingiusto. Collocandosi al loro in- terno non trovano una spiegazione
tutte le situazioni — su cui ha molto insi- stito Ronald Dworkin
(Dworkin, 1990) nella sua critica al riduzionismo meta- etico del
positivismo giuridico — quali quelle in gioco quando ci si rifiuta di
obbedire a un comando ingiusto (le forme di totalitarismo del XX secolo
hanno di continuo fatto sorgere per gli esseri umani dilemmi del genere}.
Ma più in generale partendo da una concezione meta-etica del genere non
si rie- sce a spiegare proprio la genesi di istituzioni quali la giustizia
e il governo. Naturalmente intendiamo riferirci a una genesi che cerchi
sul piano logico- critico le ragioni della validità morale di un certo
governo e della giustizia, non già a una genesi che si contenti di
qualche risposta di ordine storico 0 fattuale. Le concezioni che
riconducono la validità dei principi morali a co- mandi vincolanti dati
da una qualche autorità tendono infatti a considerare che l'unico
problema in gioco laddove ci interroghiamo sulla genesi della va- lidità
del potere di un certo governo o di determinate regole di giustizia non è
altro che il mero interrogarsi sul fatto storico se questo governo esiste o
meno e se queste sono o meno le leggi che vigono nel nostro paese. Chi
riduce l'etica ai comandi di una qualche autorità non riesce più a rendere
conto del perché distinguiamo tra governi e leggi giuste e governi e
leggi ingiuste. In questo quadro legalistico non ha nemmeno molto senso
porsi il problema, che pure sembra centrale per l'etica moderna e
contemporanea, dello spiegare quali sono le basi per cui si debba
obbedire a una qualche norma anche quando si sa che non c’è nessuna
autorità in grado di osservare il nostro com- portamento e dunque
premiarci o punirci per la nostra fedeltà o la nostra de- fezione. Se
l'unica validità di una legge etica è data dalla forza che chi la co-
manda ha di farla rispettare, è evidente che non c’è nessuna ragione di
seguire una norma etica quando l’autorità non è in condizione di
raggiungerci con le sue sanzioni, Questa concezione meta-etica dunque non
solo non spiega il passaggio da una situazio ne priva di etica a una
in cui vi è un qualche princi- pio etico, ma finisce con il lasciare
sempre aperta — in definitiva come fisio- logica e legittima — la possibilità
di defezionare dai comandi dell'etica ove si sia in condizione di
sfuggire al controllo dell’autorità che li ha promulgati. 2.5.
L'etica come legge naturale 0 razionale. — Un'altra concezione sulla
natura dell'etica che ha una lunga storia dietro di sé è quella che identifica
il bene e il giusto con ciò che è naturale per gli uomini ovvero con ciò
che è razionale per essi. Le derivazioni della morale in termini di
ragione umana e in termini di natura umana rappresentano certamente due
diverse concezioni meta-etiche se le si vede da un punto di vista
contenutistico; infatti è ben di- verso presentare come un tratto
definiente del bene e del giusto la natura o la ragione umana. Per una
lunga parte della storia dell’etica però le due vie sono state fatte
coincidere e fino al XVII secolo la natura umana è stata appunto
presentata principalmente come natura razionale. Solo nel XVIII secolo si
sono andate divaricando le due diverse strategie che hanno ricondotto
l’etica o ad aspetti della natura umana non strettamente razionali (i
sentimentalisti e Hume) o proprio alla parte razionale in quanto non
influenzata da desideri e passioni (Kant). Per quanto riguarda queste
concezioni che riconducono l'etica alla natura o alla ragione umana va
rilevato che diversamente da quanto accade nel caso dell'etica del
comando divino la definizione del campo pro- prio del bene e del giusto
non viene data rinviando a realtà al di sopra o al di là degli esseri
umani, quali sono appunto i comandi di un Essere Supremo. Ci troviamo
infatti di fronte a concezioni che ritengono di potere rendere conto del
campo della morale ricavandolo integralmente da ciò che è interno
all’uni- verso della vita umana. Si viene così a superare una concezione
eteronoma dell'etica nel senso di una concezione che rinvia a qualcosa
che è al di sopra o al di fuori della natura e ragione umana. Non tutte
però le concezioni che collegano l'etica alla natura o ragione umana — e
che potremmo caratteriz- zare in un senso molto generale come
naturalistiche o immanentistiche — ne riconoscono pienamente l'autonomia,
e non mancano fino al XVIII secolo concezioni riduzionistiche che tendono
ad assimilare l'etica a tratti generali della vita o della natura umana
niente affatto peculiari. Alle concezioni meta- etiche di Hume e Kant
possiamo fare risalire il pieno riconoscimento dell’au- tonomia
dell’etica pure nell’alveo di spiegazioni che fanno ricorso alla natura o
alla ragione umana. Nel senso più radicale di collegamento dell'autonomia
dell'etica con le scelte e le decisioni individuali dobbiamo invece guardare
a un processo che si è sviluppato solo nel XIX e XX secolo.
Cerchiamo di individuare i tratti distintivi di questa concezione
meta-etica o meta-morale rendendo brevemente conto delle tradizioni che
l'hanno mag- giormente sviluppata. In primo luogo la tradizione
naturalistica che ha guar- dato — e guarda tuttora — all'etica nei
termini metafisici e ontologici propri della filosofia di Aristotele con
le trasformazioni e manipolazioni più o meno profonde operate dalle
filosofie tomistiche e neotomistiche. In secondo luogo la tradizione
razionalistica che possiamo fare coincidere con il giusnaturali- smo
razionalistico del XVII secolo. Come si è detto vanno tenute distinte da
queste due strategie meta-etiche che potremmo caratterizzare come
riduzioni- stiche quelle che pur rinviando alle nozioni di natura o
ragione umana rico- noscono uno spazio del tutto autonomo per la morale o
l'etica. Così va consi- derata a parte la forma di naturalismo presente
nelle opere di Hume che rico- nosce nell’etica una dimensione del tutto
peculiare della vita umana della quale non si può rendere conto nei
termini di una generale ricostruzione on- tologica e metafisica della
natura umana complessivamente intesa. Va ugual- mente tenuta distinta
dalle concezioni riduzionistiche dell'etica la ricostru- zione che della
morale realizza Kant. Infatti questi, pur ammettendo lo stretto
collegamento tra razionalità ed etica, salvaguarda l'autonomia del campo
della morale distinguendo nettamente tra il piano della ragione pura
conoscitiva e quello della ragione pratica. Presenteremo
dunque quattro distinte caratterizzazioni dell'etica: nel senso di un
giusnaturalismo ontologizzante e metafisico; nel senso dell’estrin-
secazione di un'unica Ragione ontologicamente radicata; nel senso di un
col- legamento con una natura umana universalmente intesa al cui interno
si cer- cano però tratti che consentano di salvaguardare l'autonomia del
campo della morale; e infine nel senso dell'estrinsecazione di una
razionalità pur sempre sovrastorica e universale ma che viene connotata
in una dimensione specifica- mente pratica distinta da altre
dimensioni. In Aristotele troviamo chiaramente formulata la tesi
che la virtà e il bene consistono per gli uomini nel realizzare il
comportamento che è proprio della loro natura. L'essere umano è dunque
naturalmente etico (come del resto è naturalmente politico), e l'etica
nella sua realtà può essere derivata solo dalla conoscenza dell'essenza stessa
della natura umana. Una prospettiva che tra l’altro rende praticamente
impossibile distinguere il piano dell’analisi meta- etica da quellodelle
analisi normative: identificare lo spazio dell'etica coincide con
l’identificare il bene che gli esseri umani sono naturalmente inclini a
rico- noscere. Nell’Etica Nicomachea (Aristotele, 1979) Aristotele
presenta la più chiara formulazione di una concezione che ricava la
definizione dell'etica dalla definizione della natura umana. L'elenco
delle virtù umane e la loro ge- rarchia viene infatti derivata da una
preliminare conoscenza di quella che è la natura sostanziale dell'uomo.
Anche se in Aristotele si riconosce come propria della vita pratica una
dimensione di indeterminatezza e probabilità che la rende del tutto
diversa dal sapere teorico in cui si possono attingere sia la certezza,
sia la conoscenza dimostrata, poi non troviamo tale indeterminatezza
quando si passa a delineare i fondamenti dell'etica. Che per gli uomini
la virtù somma stia nella vita contemplativa e che la giustizia
rappresenti la virtù suprema della vita associata viene derivato
logicamente dalla definizione del- l'essenza dell’uomo come appunto
animale razionale propriamente adatto al sapere teorico e al vivere in
società. Vi è nell’etica aristotelica non solo una derivazione della
definizione dell’etica da quella che si ritiene la natura essen- ziale e
sostanziale dell'uomo, ma anche una particolare strategia teleologica per
rendere conto della vita etica in modo tale da salvaguardare l'impianto
dinamico e progressivo della vita pratica. In Aristotele infatti il bene
per l’uomo e quindi l'orizzonte di realizzazione dell'erica non rinvia a
qualcosa di già dato e posseduto, ma richiede piuttosto l'impegno
dell'uomo a realizzare quello che è lo scopo ad esso più proprio.
Questo impianto teleologico dell'ontologia aristotelica permette alla
filo- sofia di Aristotele di venire riproposta nel tomismo e nel
neotomismo come struttura portante della concezione mediante cui il
cristianesimo elabora il suo peculiare tentativo di ridurre l’etica alla
natura umana (si veda Maritain, 1971). Nella tradizione cristiana non è
necessario percorrere la strategia che riduce l’etica direttamente ai
comandi divini: si può infatti percorrere anche la strada che vede la
natura umana come di per se stessa fornita di caratteri etici
imprescindibili. L'Autore della Natura con la sua bontà e provvidenza ha
creato la natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel
par- ticolare te/os che le permette di realizzarela felicità e i
risultati migliori per gli uomini. Realizzare i fini propri della natura
umana diventa così un comanda- mento anche per la religione cristiana in
quanto appunto nella n atura umana sono rintracciabili chiaramente i
tratti distintivi propri della vica etica. Ciò che è innaturale risulta
negativo e malvagio e nello stesso ordine naturale delle cose possiamo
rintracciare la regola di ciò che è buono e giusto. Ma questa via
di ricondurre l'etica a qualche tratto tipico della natura umana viene
percorso nel pensiero moderno e contemporaneo anche su basi diverse da
quelle metafisiche e ontologiche proprie dell'etica aristotelica. Se il
carattere comune în base al quale caratterizziamo una meta-etica come
natu- ralistica è quello di ricondurre i tratti distintivi dell'etica a
qualcosa che è pe- culiare della natura umana allora numerose
meta-etiche naturalistiche sono state presentate anche dal Seicento in
avanti. Ma queste forme moderne e contemporanee di naturalismo rifiutano
poi di irrigidire la natura umana alla luce di una concezione
sostanzialistica e di conseguenza non percorrono la strada che presenta
l'etica come qualcosa di ontologicamente o concettual- mente necessario
per una definizione della natura umana ed evitano anche di ricorrere alla
strategia finalistica 0, nella versione cristiana, provvidenzialistica,
per fondare il campo della morale. Presentiamo alcune di queste
meta-etiche naturalistiche delineate nella cultura moderna econtemporanea
e alcune cri- tiche ad esse mosse. Abbiamo un filone di
meta-etiche naturalistiche, inaugurato dalla filosofia di Anthony Ashley
Cooper Shaftesbury, che pone al centro dell'etica un qual- che istinto 0
sentimento originario e irriducibile ad altro: un «senso morale» proprio
di tutti gli esseri umani, Qui ci troviamo non solo di fronte a una
meta-etica chiaramente immanentistica, ma anche a una con cezione che
non deriva la definizione dell’etica da una caratterizzazione di tipo
essenzialistico della natura umana, ma da una ricognizione empirica degli
esseri umani. Re- sta poi vero che attraverso questa procedura empirica
si ritiene di potere in- dividuare qualcosa che è comune a tutti gli
uomini e quindi come tale proprio della natura umana e almeno nel caso di
Shaftesbury, e dopo di lui di Francis Hutcheson, anche qualcosa di
originario. Va sottolineato che l'etica viene qui collegata alla
disposizione da parte degli uomini a reagire alle cose del mondo sulla
base di qualche sentimento o senso piuttosto che in termini meramente
intellettuali o razionali. Ancora per tutto il secolo XVILI vi è stata una
meta- etica riconducibile a una forma di naturalismo sentimentalistico.
L'etica in- fatti ha a che fare con sentimenti e emozioni proprie di
tutti gli uomini anche, ad esempio, per Hume e Smith. Nel caso di Hume
tale caratterizzazione in termini naturalistici dell'etica risulta
temperata, sia dalla portata complessiva- mente ipotetica delle sue
spiegazioni filosofiche, sia dal presentare i senti- menti e le emozioni
proprie dell’etica come in larga parte non originarie, ma piuttosto come
il risultato di un processo artificiale di sviluppo della natura umana. Di
conseguenza da una parte l'etica si presenta come qualcosa che ha a che
fare con un risultato artificiale e non originario della vita umana,
ma dall'altra questo stesso artificio è presentato come del tutto
naturale per gli uomini nel senso che Hume ne ricostruisce la genesi ricorrendo
a cause natu- rali. Tale concezione naturalistica è stata così vista — ad
esempio da Ruse — come un precedente di quella evoluzionistica elaborata
da Darwin e che si trova sviluppata poi
a un livello filosofico (non privo di incli- nazioni assolutistiche) in
Herbert Spencer. Nel naturalismo evoluzionistico l’etica viene
considerata come un insieme di istinti e abitudini cooperative ac-
quisite dagli uomini nel corso dell’evoluzione, ma una derivazione
evolutiva dell’etica non esclude che essa venga considerata —
specialmente laddove si insiste sulle sue radici biologiche — come propria
di tutta la specie umana. ‘Tutte queste diverse forme di meta-etica
naturalistica sono state sottoposte a critiche radicali lungo due linee
convergenti, tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX. Da una
parte si èobiettato, come ad esempio fa J. $. Mill nel primo dei suoi
Three Essays on Religion (1874, Tre saggi sulla religione) dedicato alla
natura (Mill, 1972: 13-52), mostrando la vaghezza e genericità della
nozione di natura che come tale è del tutto incapace di fornire un qual-
che criterio preciso per avere a che fare con i problemi etici, dato che sta
le azioni più crudeli sia quelle più generose rientrano nella Natura
latamente in- tesa. Dall'altra si è obiettato, come fa ad esempio G. E.
Moore nei Prircipia Ethica (Moore, 1964: 91-120) che da un punto di vista
logico econcettuale il naturalismo cade nella cosiddetta «fallacia
naturalistica» riducendo appunto a naturale ciò che non lo è (cfr. oltre
$$ 3.4 e 3.11). Malgrado queste critiche nel XX secolo concezioni
naturalistiche dell’etica sono state pur tuttavia riproposte, sia in
termini evoluzionistici (ad esempio nel caso della sociobiologia,
specialmente da E. Wilson, 1975), sia attraverso forme aggiornate di
neoaristotelismo (ad esempio P, Foot, 1978 e A. Mac. Intyre, 1988).
In contrasto con queste meta-etiche naturalistiche vanno viste quelle
con- cezioni che rendono conto dell’etica non tanto riconducendola alla
natura umana, in generale, quanto piuttosto collegandola
strettamen te, in modo più specifico, con la ragione umana. Tale
strategia è stata percorsa lungo due di. verse linee, Da una parte i
razionalisti etici del XVII secolo, quali ad esempio i giusnaturalisti
Ugo Grozio e Samuel Pufendorf, consideravano questa ra- gione umana come
una facoltà ontologicamente garantita in grado di cogliere l'essenza
stessa dell’uomo e dunque i suoi obiettivi più propri (Bobbio, 1963).
Questa concezione della ragione è rintracciabile anche alla base dei
numerosi tentativi nel corso del XVII secolo di dare vita a un'etica
dimostrata, un compito verso cui tendono pensatori per altri versi molto
differenti quali ad esem- pio Hobbes, Baruch Spinoza, Locke e Samuel
Clarke. L'idea era quella di presentare una morale che derivasse le leggi
del comportamento umano da principi o auto-evidenti, o assunti comevalidi
per definizione, o radicati nella struttura metafisica del mondo.
Il razionalismo etico è stato però successivamente elaborato anche al
d i fuori di questo quadro metafisico, essenzialistico o
dimostrativo. Questa è ad esempio la strategia percorsa nel modo più
rigoroso ed approfondito da Kant nella Kritik der praktischen
Vernunft (\788, Critica della ragion pratica), ma poi ampiamente
ricorrente nella storia dell'etica contemporanea. Nel caso di Kant
l'etica ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo,
quanto piuttosto con la forma pura della razionalità umana. Kant precisa
anzi, salvaguardando la sua meta-etica dalla critica di ridurre il
dovere al fatto, la morale alla scienza, che la ragione di cui egli tratta
nell'etica non è la ragione pura conoscitiva ma è la ragione pratica.
L'etica secondo Kant non ha un con- tenuto diverso dai principi
generali che presiedono alla possibilità stessa di una razionalità
pratica per gli uomini, ed è in questo senso che l'etica ha a che fare
con una dimensione trascendentale che riguarda la volontà umana in ge-
nerale. L'etica fissa e precisa le leggi che presiedono al funzionamento di
qual- sivoglia volontà umana che non si proponga questo o quell'obiettivo
partico- lare, ma piuttosto di conformarsi alla sua struttura generale.
L'etica rende così esplicita la struttura categoriale della razionalità
pratica umana. Vedremo nel paragrafo 4.6 quali sono i contenuti normativi
precisi a cui Kant giunge muo- vendo da questa concezione meta-morale;
qui ci limitiamo a sottolineare al- cuni tratti della meta-etica
kantiana. Nel caso della caratterizzazione della natura della
morale fornita da Kant risulta del tutto salvaguardata l'autonomia
dell'etica rispetto alle dimensioni della conoscenza empirica e della fede
religiosa (Landucci, 1993): la raziona- lità pratica umana è infatti in
grado da sola di fondare la validità della vita morale. Anzi nella
concezione kantiana gli stessi contenuti principali della re- ligione
sembrano presentarsi come risultati dell’azione della razionalità pra-
tica umana in quanto suoi postulati che garantiscono la validità della vita
mo- rale. Nell’approccio kantiano l’esigenza di non ridurre l'etica a
qualche altra cosa viene dunque salvaguardata sia attraverso
l'affermazione della netta di- stinzione tra ragionpura conoscitiva e
ragion pura pratica, sia con la nega- zione della riconducibilità
dell'etica a sentimenti ed emozioni naturali degli uomini. Rifiutando di
assumere un qualsiasi sentimento o emozione partico- lare degli uomini
come in grado di rendere conto della natura della morale, Kant ritiene
anche di poter giungere a garantire l'universalità della legge
morale. Questa teoria meta-etica ha come sua conseguenza un pregiudiziale
ri- fiuto rigoristico di considerare come bene una qualunque cosa che
possa sod- disfare un sentimento, un'emozione 0 un desiderio
individuale. Malgrado l'impegno con cui Kant si è sforzato di
salvaguardare l’autono- mia dell’etica non sono mancate nei confronti della
sua meta-etica le critiche di coloro che vi trovano una forma di
riduzionismo non diversa da quella pre- sente nell’etica naturalistica.
Si insiste dunque che in Kant il dovere etico è ridotto a quella che è la
legge e la struttura della volontà. E ancora che nei suoi scritti vi è la
riduzione di tutte le ragioni pratiche dei singoli esseri umani finiti a
una razionalità universale e assoluta. Si rileva poi che l’uso di una no-
zione come quella di trascendentale è una traccia del permanere di tentazioni
di tipo ontologizzante ed essenzialistico. Va segnalato che — come avremo
modo di documentare ulteriormente — l’impostazione kantiana ha avuto co-
munque una grande fortuna nel corso del XX secolo. Autori su posizioni
filo- sofiche molto diverse — quali ad esempio J. Rawls, H. Putnam, K. O.
Apel — la ripropongono in nuove vesti. La tendenza è quella di depurare
l'imposta» zione kantiana dalle tentazioni di ordine metafisico e
considerare l'etica come qualcosa che ha a che fare non tanto con la struttura
di fondo della razionalità pratica quanto con le condizioni stesse della
comunicazione umana in gene- rale o con le presupposizioni della
vita civile. Coloro che elaborano il modello della razionalità pratica
kantiana giungono così per quanto riguarda la natuta dell'etica a
conclusioni non molto diverse da quelle raggiunte da alcuni teorici del
prescrittivismo non cognitivistico di cui renderemo conto nella prossima
sezione. 2.6. L'etica come prescrizione universalizzabile. — Nel
corso del XX se- colo il tipo di concezione dell'etica che ha avuto la
prevalenza è quella preoc- cupata principalmente di rendere conto della
vita morale in modo tale da se- gnarne una netta autonomia e
differenziazione rispetto al piano della cono- scenza empirica e
scientifica; potendosi oramai ritenere già del tutto acquisito, sul piano
teorico, il processo che ha portato a segnare il distacco dell’etica
dalla religione. La distinzione dell'etica rispetto al campo della scienza e
della conoscenza empirica è stata poi tracciata su basi molto diverse,
rimanendo dunque costante la tendenza a definire la natura dell'etica
come campo del tutto irriducibile e peculiare della cultura umana.
Così Moore consolida in modo definitivo la tendenza a segnare una
completa autonomia dell'etica rispetto alla cono- scenza empirica 0
metafisica, anche se poi egli legava le principali nozioni eti- che con
una forma di conoscenza intuitiva del tutto peculiare. Conclusione
quest'ultima che verrà rifiutata da coloro che più rigorosamente
negheranno che l'etica abbia a che fare con una forma qualsiasi di
conoscenza, ovvero da quei teorici del non-cognitivismo preoccupati piuttosto
di salvaguardare la di- mensione prevalentemente normativa o prescrittiva
al centro della morale. Ma la soluzione di Moore era quella di indicare
nelle proprietà oggetto dell’intui- zione etica — ovvero nel bene e nel
dovere — delle proprietà del tutto uniche e irriducibili ad altri tipi di
proprietà naturali, presentandole quindi come pe- culiari e indefinibili
qualità non-naturali. Tutte le meta-etiche che non ave- vano riconosciuto
l’indefinibilità e l'irriducibilità delle proprietà etiche se- condo
Moore avevano compiuto, in generale, l'errore logico da lui chiamato
«fallacia naturalistica», errore consistente prima di tutto nel ridurre ciò
che non è naturale al naturale. Su basi diverse all'analoga
conclusione dell’affermazione di una netta di- stinzione tra conoscenza
empirica o scienza e ambito della morale arriveranno anche quei
neo-positivisti che —— come ad esempio Alfred Jules Ayer in Lan- guage,
Truth and Logic (1946, Linguaggio, verità e logica) — allargavano la loro
analisi verificazionista del discorso fino a presentare conclusioni a
propo- sito della natura dell'etica. La tesi generale di Ayer era quella
dell'impossibi- lità di rend ere conto dei giudizi morali con le
stesse concezioni esplicative che rendono conto delle normali asserzioni
empiriche e scientifiche. Ma Ayer non si limitava a tracciare una
distinzione tra l'ambito delle asserzioni empiriche e l'etica. Egli
infatti concludeva sulla base della generale teoria del significato
accettata dai neo-positivisti — secondo la quale solo le proposizioni
empirica- mente verificabili, sia pure in linea di principio, hanno un
significato — che l'autonomia dell’etica è data dal fatto che i suoi
enunciati, proprio per l’uso di nozioni quali buono, giusto e dovere non
sono verificabili in termini empirici e dunque sono privi di senso. Ayer
non si limitava però alla conclusione nega- tiva, ma aggiungeva anche una
caratterizzazione in positivo dell’etica. Ayer in- fatti riconosceva alle
proposizioni dell'etica un ruolo loro proprio: quello di esprimere le
emozioni di chi parla e di suscitare emozioni in chi ascolta. Pro- prio
sulla base di questa caratterizzazione emotivistica della natura
dell'etica Ayer finiva con il sostenere sul piano epistemologico che non
esistono modi razionali per cercare di superare il disaccordo in morale
(cfr. srfra, $ 3.9). Anche Stevenson salvaguardava in Ethics and
Language (1944, Etica e lin- guaggio) l'autonomia dell'etica collegandola
agli atteggiamenti, mentre le altre specie di discorso hanno a che fare
principalmente con le credenze. Gli stru- menti teorici generali di
Stevenson erano però quelli del pragmatismo e non già quelli del
neopositivismo, e proprio perciò permettevano di delineare una
ricostruzione meno rinunciataria e negativa del discorso etico. Infatti
secondo Stevenson l’etica è costituita da un insieme di giudizi in cui chi
parla espone appunto i propri atteggiamenti e cerca di provocarne di
analoghi anche negli altri. Rispetto all'analisi riduttiva di Ayer, in
quella dell’«ernotivismo mode- rato» di Stevenson viene riconosciuto il
ruolo peculiare del discorso etico come pienamente significante sia pure
collocandolo su dì un piano non cono- scitivo. Rispetto al neopositivismo
(ma anche all'intuizionismo di Moore) il punto di svolta sta nel
riconoscimento che non solo le conoscenze sono signi- ficanti. Rispetto a
quanto era stato fatto dalla riflessione meta-etica precedente quello che
per Stevenson e i non- cognitivisti diventa centrale non è solo riu- scire
a rendere conto di quanto l'etica sia distinta dalla conoscenza, ma anche
specialmente dello stretto collegamento che essa ha con l'azione e la
pratica effettiva. Su questo piano diventa prioritario nella riflessione
meta-etica la sal- vaguardia della distinzione tra l'è di cui appunto si
occupa la conoscenza e il deve che è di pertinenza della morale.
I fautori della meta-etica non-cognitivistica si impegnano
particolarmente lungo una linea analitica rivolta a rendere esplicito il
collegamento del discor- so etico con l’azione fissando in termini di
regole precise e non già di espres- sione di emozioni questo ruolo del
linguaggio umano. In questa direzione sono stati elaborati numerosi
tentativi di caratterizzazione. Tutta la riflessio- ne europea
sull'analisi del linguaggio morale nel periodo successivo alla fine della
seconda guerra mondiale è dedicata principalmente a questo obiettivo.
Rendiamo qui conto della più fortunata tra le concezioni
non-cognitivisti- che, quella di Richard Mervyn Hare, già delineata fin
dal 1952 con The Lan- guage of Morals (Il linguaggio della morale) e poi
ripresa e sviluppata, prima sul piano epistemologico nel 1963 con Freedom
and Reason (Libertà e ragione) € poi su quello normativo nel 1981 con
Mora! Thinking. Its Levels, Method and Point (Il pensiero morale).
Secondo Hare l’etica è caratterizzata dalla presenza di nozioni la cui
fun- zione è tale che non può trovare realizzazione in nessuna altra
parte del di- scorso umano: la funzione propria del discorso etico è
quella di dare voce a «prescrizioni universalizzabili soverchianti».
Tutti questi tratti dell'etica ven- gono spiegati dettagliatamente da
Hare nei suoi scritti. Le impostazioni filo- sofiche generali di L.
Wittgenstein e di J. L. Austin gli forniscono gli stru- menti per dare
corpo alla sua meta-etica. Con il sottolineare la natura prescrit- tiva
dell'etica Hare salvaguarda quello stretto collegamento delle nozioni
morali con le azioni effettive di chi esprime una propria posizione e di
chi ascolta. Si tratta di quel nucleo proprio dell’etica per cui essa è
necessaria- mente collegata con una qualche motivazione ad agire, e per
cui si imparenta con i comandi e con gli imperativi e include il ricorso
alle nozioni di dovere e obbligo. Si tratta appunto di quel nucleo
prescrittivo che veniva perso di vi- sta da quelle concezioni meta-etiche
— quali l'intuizionismo sostenuto da Moore — che tendevano invece a
rendere conto dell'autonomia e specificità della morale in termini di una
conoscenza peculiare. In realtà l'etica non è in alcun modo una
conoscenza di ciò che è, ma è un insieme di prescrizioni ri- volte a ciò
che deve essere. Un altro punto importante della concezione
meta-etica di Hare è quello che insiste sul farto che i nostri discorsi
morali non solo sono prescrittivi, ma in realtà trasmettono prescrizioni
universali, ovvero prescrizioni che si riten- gono valide per tutti i
casi simili. Il riconoscimento di una universalizzabilità dei giudizi
morali così come affermata dalla meta-etica non-cognitivistica vuole
rendere conto di un'esigenza peculiare di coerenza e strutturazione pro-
pria della vita morale, per cui i giudizi dell'etica si distinguono dai giudizi
di gusto 0 di preferenza relativamente ai quali tale esigenza non viene abitual-
mente fatta valere. Una distinzione tra giudizi morali e giudizi di
preferenza della quale invece non riuscivano a rendere conto le
meta-etiche emotivisti- che. Attraverso questa via
dell'universalizzabilità Hare e i non-cognitivisti re- cuperano e
includono nelle loro spiégazioni un tratto dell'etica che è stato
fortemente richiamato e sottolineato da Kant ed è centrale per coloro che
ne riprendono la concezione della morale. Non diversamente come un
tentativo di rendere conto di un'etica che ha molti dei tratti della
moralità così come già la presentava Kant, va visto l'ultimo carattere
che Hare riconosce come proprio dell’etica nel suo modello
non-cognitivistico: il fatto di essere sover- chiante. Ciò significa
riconoscere che l'etica è costituita non solo da prescri- zioni
universalizzabili, ma anche che in quanto «soverchianti» sono gerarchi-
camente preordinate rispetto ad altre prescrizioni. Il
non-cognitivismo di Hare è stato ampiamente discusso nella seconda metà
del secolo XX come tentativo fertile di cogliere la natura propria del-
l'etica, La concezione dell'etica come insieme di prescrizioni
universalizzabili soverchianti è stata fatta propria anche dai teorici
tedeschi dell'etica del di- scorso come K. O. Apel e J. Habermas (Apel,
1977; Habermas, 1985). Non sono mancate le critiche a questa concezione
che è stata considerata — ad esempio da B. Williams (1987) — non tanto
come una spiegazione o un’ana- lisi neutra di quella che è l'etica per
noi, quanto piuttosto come una posizione che cerca di imporre una ben
precisa concezione, rigida e superata, della moralità. Altre critiche
hanno rilevato come tale meta-etica sembri volere ne- gare, sul piano
logico, la possibilità — invece del tutto aperta a ogni essere umano — di
restare al di fuori di una vita etica così intesa. Hare ha cercato di
rispondere a questo ultimo tipo di critiche precisando che la sua tesi non
so- www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 30 ETICA
stiene che non si può fare a meno di sottoscrivere nel corso della
propria vita prescrizioni universalizzabili soverchianti, quanto
piuttosto che non si può rendere conto in modo logicamente corretto della
natura dell'etica e della morale fuoriuscendo da questo quadro
esplicativo. Altri problemi aperti riguardano dimensioni ulteriori
della meta-etica non- cognitivistica e avremo occasione di fermarci su di
essi nei prossimi capitoli. Proprio in quanto la meta-etica
non-cognitivistica si presenta, secondo chi scrive, come quella più
adeguata e fertile si tratterà di completarne l'esame affrontandone anche
le altre implicazioni, relative alla genesi dell’etica (cfr. $ 3.10),
alle forme argomentative ad essa proprie fcfr. $$ 3.9 e 11) e ai suoi
eventuali suggerimenti normativi (cfr. $ 4.7). 2.7. La negazione
dell'etica: libertà e determinismo. — Nel rendere conto delle posizioni
che si sono occupate in generale della natura dell'etica dob- biamo
soffermarci su quelle concezioni che hanno negato che in realtà vi sia
uno spazio per le scelte etiche degli uomini. Per quanto riguarda queste
posi- zioni — molto differenziate e sempre più diffuse nel secolo XX —
distin- guiamo tra coloro che negano decisamente che gli uomini possano
mai agire realmente in modo libero e dunque essere imputabili di una
qualche respon. sabilità, e le posizioni che invece, pur ammettendo che
gli uomini possano agire liberamente, negano che possano essere
effettivamente motivati dalla ri- cerca di obiettivi non strettamente
personali. Le negazioni dell'etica dell'ul- timo tipo nascono da quelle
teorie psicologiche che non ammettono che gli esseri umani possano essere
mossi ad agire da prospettive imparziali o valori più o meno
universali. Le concezioni che negano qualsiasi spazio per una
libera scelta da parte dell'uomo sono chiamate abitualmente
deterministiche. Va subito precisato però che qui ciò che è in gioco non
è tanto la questione su cui sembrano con- trapporsi deterministi e non-
deterministi se vi possano mai essere per gli es- seri umani azioni del
tutto immotivate e dunque arbitrarie, quanto piuttosto la questione se
gli uomini possono scegliere liberamente di fare le azioni che vogliono
fare sulla base delle ragioni e motivazioni a cui sono più sensibili,
comprese le motivazioni e ragioni specificamente morali. Nella lettura che
noi proponiamo dunque la questione della libertà e della responsabilità
etica degli uomini non si colloca nel quadro di discussione sul
determinismo e indeter- minismo proprio della filosofia medievale,
incline a identificare la libertà degli uomini con un irrealizzabile
libero arbitrio, ovvero con una libertà di volere in assenza di qualsiasi
motivazione. In alternativa va invece accettata l’imposta- zione delle
analisi sulla questione libertà-necessità dell'agire umano fatte valere nella
linea empiristica da Thomas Hobbes, John Locke, David Hume. Secondo
questi pensatori è del tutto compatibile (0 se si vuole addirittura es-
senziale) con il riconoscimento di una libertà e responsabilità morale
nelle azioni umane, una posizione che considera le azioni umane sempre
determi- nate o motivate da una qualche causa o ragione (W. K. Frankena,
1981: 155- 162). Il punto decisivo nella diatriba non è dunque se le
azioni umane siano o no sempre motivate da ragioni o cause, ma se gli
uomini possano 0 meno sce- gliere liberamente di fare le azioni per le
quali hanno motivi o ragioni. In que- sto senso la libertà delle azioni
umane non si contrappone tanto all’esistenza di motivi o ragioni che
determinano la volontà, quanto al fatto che gli esseri umani sono
costretti a fare certe azioni da altri esseri wmani o che vi siano
comunque delle cause — che essi non possono in alcun modo controllare —
che li costringano a fare delle azioni che, ove fossero liberi, non farebbero.
Si è costretti a concludere che gli uomini non sono liberi € l'etica non
ha alcuna possibilità di sussistere laddove si ritenga non tanto che
tutte le azioni umane abbiano {o debbano avere) dei motivi, delle cause o
delle ragioni, ma si ri- tenga che tali cause e motivi agiscano
necessariamente anche laddove gli uo- mini credano di avere altri motivi
e ragioni per agire. Dunque non sussiste uno spazio per l'etica quando si
abbraccia una concezione che ci porta a rite- nere tutte le azioni umane
come effetto necessario di cause esterne ai diffe- renti individui umani
esistenti, cause sulle quali né ciascuno di questi esseri umani
singolarmente né in collegamento con gli altri può avere una qualche
influenza. Esistono numerose concezioni che specialmente nel corso
del XIX e XX secolo hanno insistito sulla completa assenza di spazio per
una libera scelta nelle azioni umane nel senso che abbiamo appena
definito. Non possiamo qui rendere conto di tutte le concezioni del genere;
ricordiamo solo quelle più importanti e certamente inquietanti per chi
crede a una qualche realtà ed ef- ficacia delle distinzioni morali.
Già Darwin, nei primi appunti stesi in collegamento con le sue prime
ri- flessioni tra il 1833 e il 1840 sulle sue scoperte intorno alle
trasformazioni delle specie viventi, suggeriva le implicazioni per la
morale di una concezione evoluzionistica (Desmond e Moore, 1992:
293-320). Tutto il processo evolu- tivo è dominato dal caso e dalla
sopravvivenza dei più adatti in termini mera- mente biologici e sessuali.
Come risulta chiaro poi la lotta per la vita in ter- mini evolutivi
riguarda non già i singoli individui, ma le specie nel loro com- plesso.
In questo quadro tutte le azioni umane si presentano come frutto di cause
che riguardano complessivamente la specie umana. Questa prospettiva
biologica sulla vita degli uomini è stata sviluppata e approfondita da
autori che hanno elaborato quella che è chiamata sociobiologia (Wilson,
1979). A) di là delle opzioni apparentemente libere che si presentano
alle scelte umane, in realtà tutte le azioni umane sono casuali e
soggette a condizionamenti in ter- mini di ciò che è vantaggioso per la
sopravvivenza della specie complessiva- mente intesa. Così se
identifichiamo l'etica con la presenza di una dimensione cooperativa
nelle azioni umane, tale dimensione non è altro che un effetto
dell'evoluzione biologica naturale e le azioni che ne conseguono sono del
tutto istintive e sottratte al nostro controllo. Del tutto illusoria è dunque
la prospettiva dell'etica che vi siano dei contlitti, disaccordi e scelte
drammati- che di fronte agli uomini e che essi possano responsabilmente e
liberamente dare ad esse una soluzione. La vita umana è sottoposta alle
leggi generali della vita e del tutto casualmente si realizzano processi
e trasformazioni, i quali tutti vanno dunque al di là di qualsiasi libera
scelta individuale. Un'altra concezione che sembra negare qualsiasi
spazio alle scelte libere e responsabili di cui tratta l'etica è quella
che viene considerata come una con- seguenza dell’accettazione
dell’impostazione psicanalitica di Sigmund Freud. È dubbio che una tale
schematica concezione sia presente in Freud, che, se leggiamo opere come
Das Unbebagen in der Kultur (1929, Il disagio della ci- viltà) sembra
piuttosto impegnato a rendere conto della genesi della coscienza morale
all’interno della sua generale teoria sulla dinamica psichica, senza vo-
lersi dunque impegnare su di un piano essenzialistico (Freud, 1978). Ma vi
è comunque una vulgata che considera una conseguenza dell’impostazione
psi- canalitica la tesi che le azioni umane individuali non possono
essere viste come frutto di scelte consapevoli, ma sono il risultato
piuttosto di motivazioni inconsce che sfuggono a qualsiasi controllo
individuale. Quando noi rite- niamo di avere di fronte determinate
alternative tra le quali scegliere razional- mente la migliore, in realtà
siamo spinti a percorrere una certa strada da pul- sioni profonde (amore-
odio ecc.) che sfuggono completamente al nostro con- trollo consapevole e
che dettano — anche tenendo conto della nostra storia psicologica
personale — i nostri comportamenti in modo necessario. Una analoga
riduzione delle motivazioni consapevoli ad altre più profonde cause si
troverebbe nella concezione di Carl Gustav Jung e in tutte quelle dottrine
che elaborano una qualche tipologia o caratteriologia.
Rispetto a questi approcci alle azioni umane che negano all’etica un
qua- lunque ruolo va mossa una critica preliminare. Queste tesi hanno un
valore se sono presentate come ipotesi scientifiche, ma se vengono
presentate come tali la loro validità non può essere estesa appunto al di
là di quella propria di spiegazioni empiriche per un campo ben
determinato di comportamenti umani. Rendere conto delle azioni umane
secondo una spiegazione evoluzionistica non può essere presentato — pena
l'abbandono del piano scientifico di discorso — come l’unica e necessaria
spiegazione di qualsiasi azione umana, come una sorta di
caratterizzazione essenzialistica e sostanzialistica della na- tura delle
cose. Gli stessi teorici, metodologicamente più avvertiti, dell’evolu-
zionismo — come ad esempio Richard Dawkins (Dawkins, 1992) — non hanno
mancato di temperare in vari modi questa semplicistica negazione del-
l'etica. Da una parte hanno così insistito sull'incidenza solo statistica e
non necessaria delle cause evolutive. Dall'altra hanno anche riconosciuto
una ca- pacità degli esseri umani, non solo di essere consapevoli dei
processi evolutivi, ma di sottrarsi proprio sul piano procreativo ai
meccanismi dettati dall’evolu- zione, Infine si sono impegnati ad
elaborare spiegazioni che rendono conto della superiorità, sul piano
evolutivo, di quelle culture che realizzano al loro interno un equilibrio
selettivo stabile intorno ad abitudini cooperative, ri- spetto alle
culture dominate dal completo egoismo individuale. Una estensione
dunque su di un piano ontologico o metafisico dell’evolu- zionismo
risulta effettivamente incompatibile con qualsiasi altra spiegazione o
interpretazione delle azioni umane, ma in quanto tale rappresenta una
fuoriu- scita dal piano del discorso scientifico e la trasformazione
dell’evoluzionismo in una religione. Non diversamente si può ritenere indebita
la generalizza zione del modello esplicativo proprio della psicanalisi a
tutte le situazioni in cui gli uomini scelgono, decidono e deliberano. La
fertilità della psicanalisi è indubbia laddove è presentata come una
spiegazione di ben precise azioni e di situazioni patologiche del
comportamento umano. Ma non si può se non im- propriamente estenderla in
modo tale che essa pretenda di spiegare tutte le azioni umane in
qualsiasi situazione con le forze e pulsioni inconsce su cui richiama
l’attenzione, Un'altra strada è stata percorsa sempre più
insistentemente negli ultimi due secoli per negare qualsiasi spazio
all'etica. Si tratta qui di quella posizione che sostiene che gli uomini
sono in definitiva mossi solo da motivazioni del tutto personali ed
egoistiche e che dunque cercano sempre e solo la soddisfa- zione dei loro
interessi. È poi molto diffusa la tendenza a caratterizzare questi
interessi in termini strettamente economici. La negazione dell'etica in
questo senso deriva da una concezione essenzialistica dell'azione umana
che identi- fica come unico movente di tutte le scelte la realizzazione
del massimo vantag- gio da un punto di vista economico. Secondo alcuni —
ad esempio Louis Du- mont (Dumont, 1984) — è questo il tipo di prognosi
sulla civilizzazione umana nell'Occidente che troveremmo già in Bernard
de Mandeville (Mande- ville, 1987) e in Smith e che dovremmo
realisticamente fare nostra. La tesi generale è che la realizzazione e il
consolidarsi delle società dominate dalla logica del mercato rende
praticamente impossibile la ricerca da parte di cia- scun essere umano di
obiettivi non strettamenté autointeressati. Vi sarebbe quindi,
paralletamente al progressivo consolidarsi delle strutture delle società
di mercato, una vera e propria morte dell’etica. In luogo di una
spiegazione pluralistica — ancora legittima nel secolo XVII — dell’azione
umana che la riconduceva a ragioni etiche, economiche, di moda ecc. ora
saremmo dunque costretti a fare nostra una spiegazione monistica per la
quale le uniche ragioni delle scelte e decisioni sono economiche, e tra
l'altro quasi mai sotto il con- trollo dell'individuo. Secondo questa
filosofia della civilizzazione sono dun- que del tutto scomparse le
condizioni che permettono azioni mosse da ragioni etiche, altruistiche 0
universalistiche. Ancora una volta una spiegazione che può avere una sua
fertilità se tenuta su di un terreno del tutto limitato finisce poi con
il risultare inaccettabile una volta estesa su di un piano essenzialistico.
Tutte queste concezioni contestano la possibilità dell'etica sulla base
di una pretesa ingiustificata di caratterizzare in termini sostanziali ed
essenziali l'azione umana. La ricostruzione che dell'azione umana viene
offerta da chi ammette l'incidenza delle ragioni etiche è una delle
possibili spiegazioni che restano aperte nella nostra cultura. Certo non
l’unica, forse nemmeno quella più importante e significativa, ma di
sicuro una spiegazione fertile sul piano esplicativo e non priva di forza
prognostica. Se si cerca di rendere conto delle azioni umane sulla base
dell'assunzione che gli uomini sono mossi ad agire anche da ragioni
etiche si riesce — come ha recentemente in vari modi mo- strato Amartya
K. Sen (Sen, 1986, 1988, 1992, 1994) — a rendere conto di alcuni
comportamenti effettivi e a prevedere alcune situazioni future in modo
non diverso (e non meno esteso) di quanto accade con le altre
spiegazioni. 3. Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l’epistemologia dell'etica. 3.1. Dalla meta-etica
all'epistemologia. — La ricerca rivolta a identificare la natura della
morale, il senso delle nozioni che operano nell'etica, rappre- senta un
passaggio preliminare prima di affrontare un altro genere di que- stioni
decisivo per l'etica, quello relativo alle vie disponibili per fondare,
giu- stificare, o eventualmente spiegare, le scelte e i giudizi
normativi. Sapere che tipo di domande ci poniamo quando siamo alla
ricerca di ciò che è bene © giusto fare in una data situazione è appunto
preliminare — da un punto di vista logico e concettuale — per arrivare a
individuare le procedure mediante le quali si può trovare la risposta
adeguata. Rendiamo dunque conto in questo paragrafo delle diverse
linee lungo le quali si è risposto al problema dei modi in cui si possono
conoscere, fondare 0 giustificare le norme e i valori con cui l'etica ha
a che fare. Nel corso del se- colo XX vi è stato, prima, uno spostamento
deciso dal problema di come sono conoscibili i valori etici, a quello di
come sono fondabili i nostri giudizi normativi e le nostre decisioni
pratiche. Successivamente l'elaborazione filo- sofica ha visto affermarsi
una prospettiva che in luogo della tesi della fonda- bilità delle
conclusioni etiche ha preferito limitarsi a sostenere la possibilità di
giustificarli o di argomentare pro o contro i valori in gioco. In questo
para- grafo renderemo anche conto di un altro approccio che si è andato
sempre più consolidando nella riflessione etica del secolo XX rivolto non
più a fon- dare o giustificare le conclusioni normative, quanto piuttosto
a spiegare la ge- nesi dell'etica e delle distinzioni che in essa vengono
istituite. Quest'ultimo approccio che abbandona le pretese di elaborare
criteri gnoseologici ed epi- stemologicì per passare ad un'analisi
propriamente esplicativa non coinvolge solo le posizioni (di cui abbiamo
reso conto nel $ 2.7) di coloro che negano la validità delle distinzioni
etiche. Un analogo approccio esplicativo troviamo in chi occupandosi dell'etica
filosofica si rifiuta di passare sul piano più diretta- mente
prescrittivo e normativo, fissando così i limiti dell'intervento
riflessivo nella determinazione della natura dell'etica, dei tipi di
procedure gnoseologi- che ed epistemologiche che essa coinvolge e dei
meccanismi genetici che l'hanno costituita. Nel rendere conto
dei diversi modelli gnoseologici ed epistemologici rico- noscibili
nell’etica moderna e contemporanea mescoleremo ancora la prospet- tiva
storica con quella critica e teorica. Per procedere con questo bilancia-
mento delle due prospettive le partizioni di questo paragrafo non
seguiranno l'ordine di quelle esposte nel precedente paragrafo, né
riprenderanno in modo esclusivo le distinzioni già fissate a livello di
meta-etica. Dal punto di vista gnoseologico ed epistemologico alcune
delle partizioni fatte valere sul piano meta-etico risultano infatti o
troppo strette o troppo larghe, nel senso che un approfondimento
analitico permette di riconoscere diverse procedure epi- stemologiche
alla base della stessa concezione meta-etica o procedure episte-
mologiche analoghe laddove siamo costretti a tracciare delle distinzioni sul
pia- no meta-etico. Il lettore si accorgerà che il quadro precedentemente
delineato di concezioni meta-etiche trova comunque un riscontro in questo
paragrafo. 3.2. La conoscibilità della legge divina. — Come si è
già avuto modo di sottolineare il secolo XVII rappresenta un punto di
riferimento essenziale per chi voglia rendere conto dello sviluppo
dell’etica teorica nel senso in cui ne stiamo trattando in questo
scritto. Numerosi pensatori riconoscono che le so- luzioni a proposito
dell'etica devono essere tali da poter essere accettate da esserti umani,
finiti razionali, che siano in grado di ripercorrere la strada che viene
ad essi indicata per superare coniflitti e disaccordi. Questa prospettiva
di ricerca sull’etica e sulle sue basi epistemologiche e gnoseologiche è
ad esem- pio del tutto operante in Cartesio, che però non la percorre
arrestandosi alla sua soglia. Infatti Cartesio non sottopone anche le
verità etiche all’analisi in termini di dubbio e di ricerca della
certezza a cui egli sottopone le altre verità, e proprio in quanto non
intraprende tale indagine si arresta a quella che lui stesso chiama una
«morale provvisoria». Una morale assunta acriticamente dalla tradizione e
che andrà confermata o sostituita dopo che si sarà percorsa
sisternaticamente la strada della ricerca critica sulle verità morali. Questa
ri- nuncia dichiarata a percorrere una strada fondazionale non esclude,
del resto, la presenza nell'opera di Cartesio di una vasta ricerca sulle
basi antropologi- che della vita morale e una rivisitazione, per molti
versi scettica, delle conce- zioni tradizionali di virtù e felicità
(Canziani, 1980). Una ricerca sulle basi razionali dell'etica viene
invece esplicitamente av- viata, nel secolo XVII, da pensatori come
Hobbes e Locke. Negli scritti di Locke troviamo in realtà percorse
diverse strategie gnoseologiche ed episte- mologiche per l'etica e il suo
problema fondamentale fu proprio quello della conoscibilità della legge
morale e degli articoli della fede religiosa (Colman, 1983; Fagiani,
1983). Locke dunque affronta sistematicamente la questione di come sia
conoscibile la legge morale naturale in un contesto che assume che la
legge naturale è un comando divino. Dopo avere ricostruito analiticamente
diverse strategie alternative mediante le quali si potrebbe giungere a
cono- scere tale comando Locke finisce poi però con il dichiarare la loro
inadegua- tezza. Possiamo quindi ricavare dai suoi scritti sia una
indicazione delle di- verse procedure epistemologiche a cui può fare
appello chi accetta la tesi che l’etica sia in definitiva un insieme di
comandi divini, sia l'indicazione dei limiti propri di queste procedure e
dunque la difficoltà complessiva di dare una base razionale al tentativo
di derivare l’etica da tesi di ordine religioso. Una prima
strategia consiste nel legare la conoscibilità e autorevolezza della
legge morale quale comando divino ad alcuni testi in cui tale legge è
rivelata. Locke si mostra petò consapevole dei limiti presenti in questo
appello ai testi rivelati. Egli riconosce, ad esempio in The Reasonableness
of Christianity, as de- liver'd in the Scriptures (1695, La
ragionevolezza del Cristianesimo), che il ricorso ai testi sacri per la
tradizione cristiana può al massimo valere sul piano peda- gogico e
retorico. Argomenti analoghi possono essere fatti valere per tutte le
religioni positive. Il ricorso ai testi sacri e rivelati può rappresentare un
aiuto e una facilitazione per chi si preoccupi di convincere 0 persuadere
altri, ma non può però rappresentare una via adeguata per giustificare
una conclusione etica per tutti gli esseri umani, Il collegamento della
verità etica conoscibile con la lettura di qualche testo in cui la
divinità ha espresso i suoi comandi — oltre il problema della
molteplicità delle interpretazioni possibili della lettera del testo —
comporterebbe l’assurda conseguenza di considerare tutta quella parte
del- l'umanità che è vissuta prima, 0 vive al di fuori, della rivelazione
come del tutto priva di etica. Una ulteriore conseguenza assurda:
considerare del tutto privi di morale coloro che sono in disaccordo con
noi su alcuni dei punti caratterizzanti la religione rivelata che noi
accettiamo. Lo stesso Locke fa valere una obiezione più generale
nei confronti del ten- tativo di ricondurre la base di validità di una
tesi etica al fatto che si tratti del comando di una certa divinità. Si
tratta di una critica contro il volontatismo di quei teologi che
considerano invece questa strategia come in grado di fondare la moralità.
La critica generale presente negli scritti di Locke — già negli Es- says
(Saggi) del 1664 (Locke, 1973) — è che il fatto di trovare un certo co-
mando espresso in un testo che — più o meno fondatamente — crediamo
espressione della volontà divina è del tutto irrilevante sul piano etico; su
que- sto piano il problema che si pone non è tanto se ci si trova di
fronte ad un comando di qualcuno, quanto piuttosto se ciò che viene
comandato è giusto. I sostenitori dell’origine divina dell’etica hanno
sempre considerato come ne- cessaria e sufficiente la coincidenza tra
volontà divina e legge morale, ma la riflessione moderna e contemporanea
ha invece fatto valere sempre di più l'autonomia dell'etica. Questa
autonomia viene affermata già a livello concet- tuale distinguendo
nettamente le nozioni etiche dalle nozioni che fanno rife- rimento a ciò
che è comandato da qualcuno, sia pure l'Autore della Natura. Il
riconoscimento di tale autonomia ha poi un riflesso sul piano
epistemologico e gnoseologico e porta a fissare con precisione la
diversità delle procedure gnoseologiche con cui si conosce la volontà
divina rivelata nei testi sacri ri- spetto a quelle con cui si conosce la
legge morale valida. Prima di illustrare le vie percorse in
positivo da Locke per cercare di fon- dare razionalmente le conclusioni
etiche soffermiamoci invece su una strada da lui rifiutata. Si tratta di
quella concezione che indica in una particolare coscienza 0 facoltà
morale il modo più sicuro per arrivare a conoscere diret- tamente i
comandi mortali della divinità. Una strategia per fondare e cono- scere
l'etica tuttora molto frequentata e cara ai fautori di una riduzione del-
l'etica alla religione. Per quanto riguarda Locke nel I libro dell’Essay nega
che alla «coscienza» ci si possa appellare come a una prova valida in
morale e la nozione di coscienza viene fatta rientrare nell'armamentario
delle assunzioni innatistiche che non possono avere alcun riscontro sul
piano empirico (Locke, 1971; 92-93). La concezione che Dio stesso ci
comanda direttamente — senza per questo servirsi della rivelazione — la legge
morale, e che noi abbiamo una cognizione diretta di tale legge attraverso
la nostra coscienza, è stata svilup- pata, nel secolo XVII, da alcuni
neo- platonici di Cambridge, e in particolare da Herbert di Cherbury con
la sua dottrina delle notiones comsmunes. La stessa linea fu poi
riproposta nel secolo XVIII su basi nuove da intuizionisti e
sentimentalisti che conservavano un quadro provvidenzialistico. Così
Joseph Butler legava la conoscenza delle verità etiche all’attività
intuitiva di una pe- culiare «coscienza» capace di obbligare e fornita di
autorevolezza, e Hutche- son indicava nel «senso morale» la base di quel
particolare sentimento che ci fa cogliere la virtà in un mondo ordinato
dall’Autore della Natura. Contro la tesi che Dio ci rende noti
direttamente nella coscienza i suoi ordini morali vi sono alcune
argomentazioni già formulate da Locke. L'appello alla coscienza non può
essere certo un criterio definitivo in etica perché dovremmo disporre di
almeno altre due ulteriori specificazioni. In primo luogo un qualche
criterio che ci permettesse di discriminare quei dettami della nostra
coscienza che sono affidabili da quelli che sono errati. In secondo luogo
un qualche fonda- mento che ci autorizzasse a ritenere — laddove
sorgessero disaccordi — che ciò che ci fa conoscere la nostra coscienza è
veramente la legge morale per tutti gli uomini, anche per quelli che con
i loro discorsi e con le loro azioni testimoniano di non trovare nelle
loro coscienze principi analoghi ai nostri. Rifiutata la via della
coscienza Locke invece si impegna positivamente nel cercare di conciliare
una concezione che vede la morale come caratterizzata da comandi divini
con una strategia empiristica. L'accettazione di una episte- mologia e
gnoseologia empiristiche porta Locke ad elaborare una strada indi- retta
di fondazione e giustificazione della legge morale naturale come co-
rando divino. Secondo questa via di fondazione indiretta noi giungiamo ad
accettare il comando morale divino espresso nella legge naturale dopo
avere percorso un ragionamento che ci porta a risalire a Dio come
all'Autore della Natura buono che ha creato gli esseri umani in modo tale
che essi effettiva- mente siano in condizione di ottenere la loro
felicità. Ovviamente questa stra- tegia comporta l’assunzione che ciò che
Dio comanda non può che essere il bene per gli uomini, un passaggio verso
l'accettazione dell’intellettualismo etico che non vede più nella volontà
divina l'unico fondamento del bene e rende del tutto secondario il valore
dei testi rivelati. La strategia di giustifica- zione della validità
della legge naturale morale avanzata da Locke comprende diversi passaggi:
in primo luogo trovando un ordine o un disegno nel mondo si risale a un
autore della natura; poi si postula una natura divina buona e razionale
per cui l’autore della natura non può che volere la felicità degli es-
seri umani; ancora si crede che l’autore della natura non solo abbia
trasmesso agli esseri umani un insieme di leggi naturali, universali ed
eterne, per realiz- zare la loro felicità, ma anche che abbia messo gli
esseri umani in condizioni di conoscere tali leggi con certezza con il
ricorso alle loro facoltà naturali del senso e della ragione; infine si
assume che conoscere tali leggi naturali equi- vale a essere obbligati a
obbedire a ciò che ci richiedono. Le lacune e le cir. colarità presenti
in questi vari passaggi risultavano già evidenti allo stesso Locke che
nel corso di tutta la sua vita si affannò a cercare di ovviare ad esse.
In effetti la procedura di giustificazione lockiana della validità delle
leggi naturali come comandi divini comporta il continuo passaggio dal
piano empi- rico a quello sovrannaturale, dal piano dell'essere a quello
del dovere. Con l’aiuto di questa strategia si potrà al massimo disporre
di ragioni del tutto ipo- tetiche a favore di ciò che noi siamo già
giunti ad accettare come un comando divino del tutto indipendentemente e
prima del ricorso a queste procedure gnoseologiche ed epistemologiche.
Consapevole di ciò Locke presentava nel- l’ultima parte della sua vita il
suo tentativo di elaborare un'etica dimostrativa come una via per
confermare le opzioni morali trasmesse dalla tradizione cri- stiana. Una
volta che cadono le assunzioni che sorreggono l'argomento del disegno e
le pretese sulla bontà provvidenziale dell'Autore della Natura que- sta
strategia sembra crollare, Non c'è più nessuna divinità da cui far dipen-
dere la validità della legge morale, nulla garantisce che l’autore della
natura sia buono piuttosto che malvagio, nulla è più in grado comunque di
farci su- perare l'abisso tra l'eventuale conoscenza di una norma come
comando divino e il nostro accettarla come obbligante. Locke stesso cercò
di superare questo abisso, ma legando la validità e l'efficacia della
legge morale naturale non tanto al riconoscimento che si tratta di un
comando divino in sé giusto, quanto piuttosto al timore per la sanzione
che sarebbe derivata in un'altra vita in caso di infrazione verso di essa.
Ma questo tentativo di agganciare la vali- dità e l'obbligatorietà di un
principio etico a una qualche sanzione che segue una infrazione verso di
esso, è una strategia che non possiamo più percorrere — indipendentemente
dall’accettabilità o meno delle credenze sull’immorta- lità dell'anima e
sull'esistenza di uno stato futuro — ove riconosciamo l’auto- nomia
dell'etica. Fare appello a qualche sanzione ultraterrena infatti al mas-
simo riesce a giustificare o fondare che noi si faccia qualcosa perché
temiamo la sanzione o cerchiamo i premi che una certa autorità lega a
questi compor- tamenti, Ma percorrere questa strada impedisce di vedere
che il piano concet- tuale investito dall’etica è quello che comporta
fare ciò che è giusto o bene fare e non già quello che comporta fare una
certa cosa solo perché teniamo la sanzione di una qualche autorità (per
quanto illuminata} ove non dovessimo obbedire ai suoi comandi. La
fondazione dell'etica attraverso un calcolo prudenziale. — Un'altra
strada percorsa per fondare l'assunzione di un punto di vista etico è
quella che cerca di riconnettere la ricerca individuale del bene
personale con la con- siderazione pet il bene comune. Naturalmente non si
tratta di quelle conce- zioni che sulla base di considerazioni empiriche
e a posteriori concludono che la ricerca del bene personale risulta
essere l’unica via che consente di realiz- zare un incremento del bene
comune. Una concezione del genere è spesso alla base della difesa
dell'economia di mercato e viene attribuita a Smith ed è stata esposta in
modo approfondito da FÀ. von Hayek (Hayek, 1986). Affron- tiamo invece in
questa sezione la questione se si possa o meno fornire un fon- damento
razionale all'esigenza di essere morali: dove si considerano razionali
solo le argomentazioni che rinviano alla soddisfazione di propri interessi
o piaceri e con «morale» si intende il rispetto di qualche regola
generale o norma di cooperazione quali — ad esempio — mantenere le promesse,
rispet- tare i contratti e obbedire alle leggi del proprio paese.
Questa impostazione è presente in modo del tutto esplicito nelle pagine
di Hobbes. Così la risposta che Hobbes dà allo «sciocco razionale» nel
capitolo XV del Leviathan, or tbe Matter, Forme and Power of a
Common-wealth Eccle- siasticali and Civili (1651, Il leviatano; Hobbes,
1976: 139-143) è rivolta a cer- care di mostrare che, calcolando sulla
base degli interessi in gioco, la salva- guardia di un minimo di principi
etici e cooperativi è vantaggiosa per i diversi individui. Troviamo
dunque nelle pagine di Hobbes il tentativo di elaborare una
giustificazione di ordine prudenziale a favore del riconoscimento
dell'op- portunità di rispettare i principi dell'etica. La razionalità in
gioco nel calcolo prudenziale è stata sistematicamente delineata — nei
suoi assiomi e nelle sue deduzioni — nel corso del XX secolo dalla
«teoria della scelta razionale 0 teoria delle decisioni» (Axelrod, 1985;
Resnik, 1990). Proprio tra i teorici della scelta razionale di questo
secolo vediamo ripresentarsi il problema di Hobbes formulato in un
diverso modo (Kavka, 1986). Si tratta cioè di indivi- duare se e in che
modo sia possibile provare la razionalità dell’accettazione di un minimo
di regole cooperative anche quando quest’accettazione sembra es- sere in
contrasto con i nostri interessi più immediati e diretti e ci si trovi in
una situazione in cui un’eventuale nostra defezione unilaterale potrebbe
sfug- gire al controllo altrui. Già in Hobbes troviamo dunque
un tentativo di argomentare a favore dell'accettazione di regole ©
principi etici contro le pretese dello «sciocco razionale» di fare sempre
e comunque ciò che è per lui più vantaggioso e dunque di defezionare o
sospendere la propria fedeltà nei confronti della re- gola o del
principio etico quando ciò è per lui più conveniente o quando comunque può
sfuggire alla sanzione altrui. Torneremo su queste argomen- tazioni
quando affronteremo i tentativi di presentare come una vera e propria
teoria etica normativa la teoria della scelta razionale. La situa- zione
dello «sciocco razionale» è molto simile a quella di cui si occupano i
teorici della scelta razionale quando affrontano i problemi posti dal
«dilemma del prigioniero», e si impegnano nell’analisi del comportamento
del free rider. Già Hobbes elaborava alcune argomentazioni che
insistevano sulla rischio- sità di un comportamento di defezione
unilaterale e sulla probabilità di rica- vare un danno nel momento in cui
gli altri — prima o poi — giungeranno a scoprirlo. Negli
ultimi decenni il paradigma hobbesiano è stato in vari modi inter-
pretato e sviluppato da diversi teorici dell'etica. Particolarmente stringente
è stato il modo in cui David Gauthier (Gauthier, 1986) ha cercato di
fondare la preferibilità di avere una morale in luogo di esserne privi
all'interno di quella posizione che ha caratterizzato come «contrattualismo
reale» per distinguerla dal «contrattualismo ideale» di Rawls (Rawls,
1982). Secondo Gauthier il quadro concettuale di Rawls con l'assunzione
in partenza della validità del principio di equità implica già
l'accettazione di un piano etico e dunque dà per dimostrato quella che
vorrebbe giustificare. Gauthier cerca di elaborare invece una teoria in
cui l'accettazione dell’etica e del contratto sociale origina- rio che
garantisce la vita civile e la cooperazione non viene fatta dipendere da
condizioni ideali presupposte, ma piuttosto dal beneficio che ciascuno
dei contraenti ricava in termini di ragioni prudenziali o di utilità
personale. Il programma di Gauthier è quello di riuscire a mostrare
all’interno della teoria della scelta razionale come sia più conveniente
e vantaggioso essere un «massimizzatore vincolato» dall’accettazione di
qualche principio etico inter- personale, piuttosto che un
«massimizzatore diretto» che tende sempre e solo alla soddisfazione dei
propri interessi immediati. Gauthier elabora tutta una serie di argomenti
che fanno emergere l’ottimalità dei risultati raggiunti attra- verso la
via della massimizzazione vincolata, una volta messi a confronto con le
disponibilità di partenza o con i risultati raggiungibili attraverso la
massi- mizzazione diretta propria di chi procede come un free
rider, Gauthier sostiene che il modo in cui un agente delibera
influenza le op- portunità da lui attese. Così se guardiamo al modo di
deliberare proprio di un massimizzatore vincolato potremo aspettarci che
egli consenta volontaria- mente con i termini di un accordo precedente,
anche se questo comporta che egli così vincoli il diretto perseguimento
dei suoi interessi. Ma sulla base di tali aspettative il massimizzatore
sarà il benvenuto come partner în progetti cooperativi reciprocamente
benefici. Se invece consideriamo il modo di deliberare proprio di un
massimizzatore diretto, da costui non potremo aspettarci che consenta con
i termini dei suoi precedenti accordi a meno che ciò non contribuisca
direttamente a soddisfare i suoi interessi. Ma proprio sulla base di
questa aspettativa sul suo comportamento il massimizzatote diretto sarà
estromesso come partner nelle iniziative cooperative in quanto non si può
ge- muinamente avere fiducia in lui. La conclusione di Gauthier è dunque
che il massimizzatore vincolato può aspettarsi di godere di opportunità
che invece il massimizzatore diretto può solo prevedere che gli saranno
negate. Si tratta di una differenza che evidentemente opera a tutto
vantaggio del massimizzatore vincolato. Sulla base di questa
argomentazione Gauthier conclude che si può ritenere razionale
incorporare nelle proprie deliberazioni i vincoli con cui si è
razionalmente concordato come filtri tra possibili azioni tra cui scegliere, Ed
è chiaro che qui razionale significa un calcolo con un saldo positivo a
proposito della soddisfazione dei propri interessi. La teoria
di Gauthier si presenta come molto potente in quanto presume di potere
dimostrare la razionalità dell'assunzione di vincoli etici come mezzo per
realizzare un surplus di soddisfazione dei propri interessi. Ma
l'elabora- zione di Gauthier va incontro a una serie di difficoltà che
mostrano come sia ancora irrisolto il tentativo di fondare in termini
prudenziali la preferibilità di una vita etica. Infatti da una parte,
legando il saldo attivo che ricava il massi- mizzatore vincolato alla
fiducia di altri nei suoi confronti, Gauthier sembra dovere fornire un
criterio sicuro per discriminare tra situazioni in cui la fidu- cia è
bene riposta e casi in cui invece una tale fiducia è errata. Un criterio
del genere non viene offerto da Gauthier, ma si può ipotizzare che esso
non sia disponibile e che, nel caso in cui si tratti di fiducia da
concedere a un qualche partner, si debba oscillare tra una valutazione
diretta, caso per caso, 0 una assunzione di trasparenza delle motivazioni
del partner o una qualche circo- larità. L'altra difficoltà di ordine
generale dell’argomentazione di Gauthier (e più in generale di quelle
strategie che tentano di giustificare l’etica in termini prudenziali o di
salvaguardia dei propri interessi) sta nella pretesa di potere dimostrare
che il surplus di ottimalità conseguente all'assunzione di un vin- colo
etico riguardi tutti i possibili contraenti con qualsiasi interesse di
par- tenza. Gauthier si impegna ad elaborare una concezione non
riduzionistica di «interessi» (concerns) non definendoli in termini
strettamente economici, ma lastiandone indeterminato il contenuto mediante
un rinvio alle preferenze di ciascuno. La cooperazione e dunque l'etica
secondo Gauthier rende possibile soddisfare con esiti migliori i propri
interessi di partenza — di qualsiasi tipo essi siano — che vanno quindi
vincolati secondo le aspettative degli altri. Re- sta difficile da capire
come si possa mettere su uno stesso piano interessi che esigono
soddisfazioni molto differenziate e, ciò che più importa, vincoli ben
diversi. È difficile cioè riuscire a capire come si possa assemblare e conside-
rare vincolabili alla stessa stregua preferenze di partenza per beni diversi
(po- niamo, beni condivisibili e beni esclusivi). Difficile capire come
si possa co- struire in modo unitario il «massimizzatore vincolato»
tenuto conto che in genere gli interessi degli esseri umani — si intende
dello stesso essere umano in tempi diversi — sono molteplici e
probabilmente bisognosi di un qualche ordinamento interno. Ma la
difficoltà più generale riguarda la pretesa della teoria di Gauthier di
fornire la mossa vincente per convincere chiunque — solo sulla base di un
calcolo strettamente interessato — della convenienza a interiorizzare una
disposizione a rispettare gli accordi. Sembra opinabile che questa mossa
possa risultare efficace anche laddove per esempio non si avesse già una
disposizione a rispettare gli accordi o non vi fosse una qualche base
motivazionale, emotiva o psicologica, sulla quale fare leva per radicarla o
raf- forzarla. Vedremo poi in una sezione successiva (cfr. $
4.8) un'altra difficoltà intrin- seca all'approccio prudenziale o della
teoria della scelta razionale. Vedremo infatti che per restare coerenti
con questo approccio finiamo, in alcune situa- zioni, con il tendere a
risultati niente affatto ottimali. 3.4. La natura umana come
fondamento dell'etica: la via metafisica. — Vi sono però strategie per la
fondazione dell'etica molto più antiche di quelle che abbiamo appena
ricordato e ad esse si continua a ricorrere anche nel- l'etica moderna e
contemporanea. Ad esempio quelle strategie che ritengono che nella natura
umana siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che fondano
una particolare considerazione e rispetto per gli esseri umani, conse-
guenza del riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo
nel- l'universo. Abbiamo visto sopra ($ 2.5) che vi sono
cacatterizzazioni dell'etica che vedono al suo centro una legge naturale
razionale e dunque concepiscono il comportamento morale come
realizzazione di alcuni tratti propri delia na- tura umana. È costitutivo
di questa strategia argomentativa il tentativo di de- rivare ciò che si
deve fare da quella che è la natura umana in quanto tale. Due
passaggi sono caratteristici di questa strategia sul piano fondazionale.
In primo luogo questa strategia implica che si abbracci una forma di
cogniti- vismo essenzialistico e può essere percorsa solo da chi ritenga
di disporre di una concezione che coglie in modo assoluto e compiuto la
natura umana. In effetti le etiche che procedono lungo questa strada
presentano come loro pre- messa una qualche definizione sostanziale della
natura umana e in genere ren- dono conto del suo posto nell'universo in
termini metafisici o ontologici. Troviamo percorsa questa linea nella
tradizione aristotelico-tomistica di cui Jac- ques Maritain ha reso
conto, nel XX secolo, in modo simpatetico (Maritain, 1971). In questa
strategia il contenuto dell'etica viene derivato da una defini- zione
dell’uomo concepito come persona con una propria peculiare natura so- stanziale
che ne garantisce la dignità. La difficoltà per questa strategia sta
nella discutibilità della caratterizzazione della natura della persona, una
na- tura della quale linee di pensiero diverse hanno reso conto in
termini dei tutto alternativi e incompatibili (come argomentano
Scarpelli, 1985: 181-203; Preti, 1989: 63-95). Nell'elaborare la
concezione della persona morale si procede di solito o impoverendo
l'essere umano di tutti gli elementi concreti, o presen- tando
l'individuo umano in vesti tanto astratte e ideali che una tale
rappresen- tazione finisce con il non avere alcuna presa sul piano delle
azioni concrete. Un'altra via che pone al centro della morale una
definizione della natura per- sonale dell’uomo è quella che connota la
persona con una serie di tratti che non sono altro che l’ipostatizzazione
di assunzioni di ordine ideologico o reli- gioso. Una tale costruzione —
e conseguente uso — della nozione della per- sona come fondamento
dell'etica è ad esempio presente nel XX secolo nei documenti ufficiali su
questioni morali della Chiesa Cattolica. Un altro limite di questa
impostazione sta nel commettere in modo evi- dente l'errore logico di
ridurre ciò che deve essere a ciò che è. Si tratta di quella «fallacia
naturalistica» ovvero di quella offesa alla cosiddetta «legge di Hume.
Infatti le diverse caratterizzazioni della natura umana in termini
ontologici e sostanziali non fanno che richiamare ciò che è già proprio
di tutti gli esseri umani. Ma allora non si riesce a capire in che modo
da ciò che è già proprio dell’uomo in quanto tale si possa ricavare ciò
che l’uomo dovrebbe fare e che in quanto dovrebbe ancora realizzare non
può logicamente già essere. Proprio questa indebita riduzione del dovere
all'essere è stata al centro di una serie di conte- stazioni contro tutte
le forme di riduzionismo dal Settecento in avanti. Tali critiche sono
particolarmente decisive contro quelle forme di ragionamento che
presumono di potere conoscere quale sia il bene 0 il dovere per gli omini
ricorrendo a una definizione di quella che è la loro natura essenziale. In
gene- rale va quindi detto che chi procede per la strada di una
fondazione ontolo- gica dell’etica compie tutta una serie di errori
logici; il tentativo di ridurre i valori a fatti ovvero a realtà
empiriche o metafisiche; il non cogliere la pecu- liare funzione
prescrittiva e normativa che è propria di tutti i giudizi etici;
l'assimilare le procedure mediante cui si può giustificare o argomentare
in etica a quelle seguite dalle scienze empiriche o da presunte
discipline metafi- siche per descrivere o spiegare il mondo come è.
La natura umana come fondamento dell'etica: la via empirica. — Vi è stata
un'altra strategia che ha cercato di indicare come procedura propria
della fondazione della morale un esame della natura umana. In questa
linea non ci si propone di risalire a una qualche definizione metafisica
o ontologica della natura umana, ma di cercare di cogliere, attraverso
l’esperienza e l'osser- vazione, quale è per gli esseri umani il
comportamento più consono ed ade- guato. Anche questa via di fondazione
epistemologica dell'etica si presenta come destinata al fallimento. Da
una parte la ricerca empirica sulla natura de- gli uomini ben
difficilmente potrà ottenere dei risultati di ordine universale, ma
finirà sempre con l’identificare la natura umana con alcuni tratti propri
degli esseri umani in un determinato momento del tempo e in una ben
precisa cultura. Inoltre questa strategia non può sfuggire alla fallacia
tipica di tutte le forme di naturalismo che riducono ciò che deve essere
a ciò che è. Tra le concezioni che hanno cercato di sviluppare
sistematicamente il ten- tativo di provare attraverso un’indagine
empirica che cosa è bene o giusto si colloca certamente l'evoluzionismo
erede di Darwin, specialmente nella forma che esso ha preso con Herbert
Spencer. Berirand Russell agli inizi di questo secolo negli Elements of
Ethics (1910, Gli elementi dell'etica) criticava, in quanto
riduzionistica, la pretesa di ricavare indicazioni etiche da un presunta
linea dell'evoluzione umana empiticamente corroborata. Nella concezione
evoluzionistica, rilevava Russell, la strategia argomentativa procede
attraverso continui passaggi dal piano del riscontro empirico a quello
delle definizioni implicite. Così laddove si identifica ciò che è giusto
e ciò che è buono con la linea evolutiva che si ritiene avere scoperto
empiricamente in realtà si è intro- dotta una definizione etica per cui
ciò che è più evoluto è moralmente supe- riore, Proprio per queste
difficoltà generali a cui va incontro l’evoluzionismo etico dopo
l’ubriacatura dei sociobtologi, neo-evoluzionisti epistemologica- mente
avvertiti come R. Dawkins (Dawkins, 1992; cfr. $ 2.7) rifiutano di pre-
sentare le loro concezioni come una fondazione dell'etica. Tra l’altro non
è certo possibile percorrere questa strategia con un minimo di utilità
pratica, ovvero rintracciare in termini empirici la soluzione a un
problema etico con- nettendola con un corso di azioni migliore
evolutivamente, ovvero che favori- sce la sopravvivenza del genere umano
o del gruppo di cui facciamo parte biologicamente. Non vi sono procedure
empiriche che consentono di arrivare a confrontarsi con un’aliernativa
secca tra ciò che favorisce la sopravvivenza del genere umano e ciò che
l’ostacola. Non esistono di certo sicuri metodi empirici per decidere se
una certa linea di comportamento è più o meno in contrasto con i bisogni
della specie umana. Né può rappresentare una fuoriu- scita dalle
difficoltà etiche con cui ci confrontiamo, sostenere che però a posteriori può
essere poi dimostrato — ammesso che ciò sia possibile — che ciò che gli
uomini fanno è quanto rende possibile la loro sopravvivenza. Si tratta di
procedure dubbie perché finiscono con il razionalizzare catastrofi e
guerre e comunque si tratta di ricostruzioni che vengono date dopo che le
azioni sono state compiute e che poco dunque possono aiutarci sul piano
delibera- tivo o della costruzione di una qualche concezione etica.
Difficoltà insormontabili si presentano per tutti gli altri tentativi di
ricon- durre il bene e il giusto a delle proprietà del mondo che, non
diversamente dalla forza e dall’energia, possono essere verificate,
misurate e quantificate. Ma più in generale e su un piano meno materiale sono
destinati al fallimento tutti quei tentativi di ricondurre le procedure
di fondazione dell'etica a quelle in uso in scienze, quali la psicologia
e la sociologia, più direttamente rivolte allo studio degli uomini. La
via di ricondurre l'etica alla psicologia è stata più volte percorsa nel
corso del secolo XX. Così procedeva Moritz Schlick nei suoi Fragen der
Ethik (Problemi di etica) quando indicava nel bene ciò che è considerato
più idoneo ai bisogni di un individuo che vuole mantenere l'armonia con
il gruppo sociale di cui fa parte. Una definizione che, ammesso sia in
grado di suggerire un qualche criterio di valutazione, dà per scontata la
preferibilità — sempre e comunque — dell'armonia rispetto alla
disarmonia, con ovvie implicazioni conformistiche. Un più recente
tentativo di ricondurre le procedure della deliberazione etica a quelle
in uso nella psicologia è stato fatto da Richard Brandt in A Theory of
the Good and Right (1979, Una teoria del bene e del giusto). Brandt si è
sforzato di mostrare come il processo deli- berativo dell’etica sia
assimilabile alla tecnica usata nella terapia psicologica cognitiva per
mettere alla prova i desideri e gli obiettivi sulla base di una va-
lutazione della loro razionalità. Brandt sostiene che nell’etica come nella
tera- pia cognitiva si tratta di valutare razionalmente se i desideri che
abbiamo sono o meno adeguati: ovvero tali che li confermiamo avendo tutte
le informazioni empiriche necessarie, tali che ci propongono obiettivi
per realizzare i quali disponiamo dei mezzi necessari e infine tali che
non comportano delle conse- guenze inaccettabili. Questi sono certamente
passaggi a cui si può ricorrere quando è in corso una deliberazione
etica, ma va aggiunto che parte dell’etica sembra consistere nel valutare
se noi riteniamo che determinati desideri deb- bano essere accettati da
tutti coloro che si trovino in situazioni analoghe. I riscontri empirici
ci dicono quali desideri gli uomini hanno, ci presentano le distribuzioni
statistiche di questi desideri, ma nulla dicono su quali siano i desideri
da privilegiare e quelli da mortificare, quelli da rafforzare e quelli da
controllare ad ostacolare. Non mancano coloro che non si fanno
influenzare da questi dubbi sulla validità conclusiva in etica di un
metodo di deliberazione e giudizio che cerchi di controllare empiricamente
come stanno le cose per quanto riguarda gli uo- mini e le situazioni in
discussione. Fautori di un naturalismo ingenuo, sosten- gono che noi di
fatto già sappiamo che certe azioni sono negative e malvagie (per esempio
l'assassinio o il furto) e che certe istituzioni (per esempio i con-
tratti, il mantenimento delle promesse e la fedeltà verso un certo
governo) sono giuste. Si può ammettere che questa strategia naturalistica
aiuti a indivi- duare inclinazioni e tendenze ira le più radicate negli
esseri umani, ma il punto è che tali inclinazioni e tendenze non possono
essere giustificate con la mera argomentazione che di esse già disponiamo
di fatto, o che sono univer- salmente presenti tra gli uomini (il che tra
l'altro non si riesce a dimostrare). Ancora una volta si fa appello a
predisposizioni o inclinazioni così generiche e indeterminate che il
rinvio ad esse ci può essere di scarso aiuto nel risolvere i concreti
problemi etici di fronte ai quali ci troviamo. Così, ad esempio, nes-
suna indagine empirica sulla natura umana potrà riuscire a risolvere la
que- stione se vanno considerati o meno come omicidi alcuni casi
controversi (per esempio l'aborto nelle prime settimane dal concepimento,
o alcuni casi di eu- tanasia volontaria). Inoltre forse egualmente
naturali e per così dire universali si presentano inclinazioni
all’aggressività e predisposizioni all’odio, al risenti- mento, e alla
gelosia che non risultano certamente giustificate per la loro dif-
fusione e riscontrabilità empirica. 3.6. L'appello a una ragione universale
come via per la fondazione del- l'etica. — Un'altra concezione
epistemologica per l’etica è quella che fonda le sue conclusioni non
tanto genericamente sulla natura umana, quanto più specificamente sulla
ragione umana, ovvero su quello che è considerato il tratto più peculiare
degli uomini. Così larga parte del giusnaturalismo del XVII secolo si
presenta come un vero e proprio giusrazionalismo. Grozio e Pufendorf si
impegnarono, infatti, nel tentativo di edificare il diritto, e più in
generale l'etica come scienza razionale dimostrativa. Questo stesso tentativo
è presente anche — accanto ad altre vie — in Locke. La possibilità di
edificare la morale come scienza dimostrativa viene fatta dipendere da
Locke dalla na- tura del tutto artificiale delle principali nozioni
morali (come egli sostiene si tratta di «modi misti»), ciò che permette
dunque di stringere con un collega- mento logicamente necessario tutti i
giudizi in cui ricorrono nozioni morali (Locke, 1971: 632-636). Ma questo
rigore dell’etica, questa sua struttura di- mostrativa, e la sua completa
dipendenza dalla razionalità, è possibile solo in quanto si sono svuotate
di qualsiasi portata realistica le nozioni etiche ricavan- dole
integralmente da convenzioni linguistiche che permettono di dare vita
a definizioni essenziali di tipo arbitrario. In generale questa forma di
razionali smo etico si unisce con una qualche fondazione
contrattualistica dei principi dell'etica nel senso di un qualche accordo
sulla definizione delle sue nozioni centrali. Ma la procedura
contrattualistica può fondare una validità solamente convenzionale —
ovvero limitata a coloro che accettano di sottoscrivere il patto — e
dunque le basi della conseguente scienza etica dimostrativa risul- tano
del tutto esili (cfr. $ 3.8). Il razionalismo seicentesco ha
presentato anche tentativi di dare una por- tata realistica alle
conclusioni etiche scoperte mediante la ragione. Così ad esempio in
autori come Samuel Clarke e William Wollaston la ragione si pre- senta
come la facoltà che permette di scoprire la verità in etica. Questo è
pos- sibile solo in quanto si ritiene che il bene e il male, il giusto e
l'ingiusto siano identificabili individuando quali sono le relazioni
adeguate alle cose in se stesse. Nel caso di Clarke il giusto non è altro
che una relazione di adegua- tezza tra l’azione e lo stato delle cose;
per Wollaston il giusto non è altro che un collegamento veritativo tra
l’azione e lo stato complessivo delle cose (così come l’ingiusto è dichiarare,
con la propria azione, il falso). Ma questa pro- spettiva che riconduce
il giusto e l’ingiusto a un giudizio di adeguatezza o inadeguatezza tra
le azioni e lo stato delle cose comporta due assunzioni che saranno
fortemente contestate nel pensiero successivo. Da una parte la con-
vinzione che gli esseri siano ordinati secondo una gerarchia ben definita —
la grande catena degli esseri — che distingue nettamente tra livelli
separati on- tologicamente e forniti di valore diverso. Solo sulla base
di questa assunzione si può ad esempio, all’interno di questa
prospettiva, considerare inadeguata quella azione in cui l'animale sia
preferito a un essere umano, o un essere umano trattato in modo
inadeguato al suo status ontologico. Questa tesi della gerarchia tra gli
esseri è contestata decisamente da tutta la ricerca evoluzioni- stica del
XIX e XX secolo, Non necessariamente la scala evolutiva corri- sponde a
una scala di valore; non mancano inoltre i casi di confine difficil-
mente decidibili; nulla vieta di riconoscere valore anche agli esseri che si
pre- sume siano al fondo della scala degli esseri. La seconda assunzione
dei razionalisti realisti è che dare un giudizio sulla giustezza o meno
di un atto {o di un evento) si possa identificare con l’individuare una
qualche relazione tra le cose. Questa pretesa è criticata e dissolta da
Hume che mostra con chia- rezza (Hume, 1987: I, 481-497) come un giudizio
di relazione tra cose non possa in alcun modo esaurire lo spazio di un
giudizio morale. È infatti indub- bio che relazioni dello stesso tipo di
quelle in gioco nell’incesto sono rintrac- ciabili tra animali, o che tra
le piante ritroviamo collegamenti analoghi a quelli che si hanno nel
parricidio, eppure non possiamo certo concludere con un giudizio morale
sulle «azioni» degli animali e delle piante. La pretesa di ri- durre i
giudizi morali a formule matematiche o a conclusioni razionali dimo-
strative risulta del tutto fallace. Un tentativo — ma in una forma
del tutto diversa dalle precedenti — di fondare l’etica sulla ragione è
stato anche quello di Kant e di coloro che ne riprendono il razionalismo
etico. In questo caso si sostiene che è la stessa ra- gione pratica o
volontà pura, in quanto tale, che implica certi principi morali che vanno
rispettati se si vuole dare coerenza alle nostre conclusioni etiche. Ciò
che è bene e ciò che è giusto può essere quindi individuato conformando
la nostra scelta e decisione alle presupposizioni che vincolano qualsiasi
vo- lontà umana razionale. La razionalità pratica in quanto tale implica
certi prin- cipi formali che sono rispettati solo da coloro che compiono
le azioni effetti vamente giuste o ingiuste (Kant, 1970a; Landucci,
1993). È questa la strategia fondazionale seguita da Kant per ricavare le
diverse formulazioni dell'impera- tivo categorico (si veda $ 4.6) dalle
regole trascendentali che presiedono alla volontà umana. Critiche alla
procedura epistemologica alla base dell'etica kantiana vengono mosse su
due piani. In primo luogo si obietta che la pro- spettiva kantiana in
realtà concepisce la volontà umana in termini sostantivi e dunque
inttoduce fin dall’inizio nelle sue analisi apparentemente formali e
neutrali del volere umano dei tratti che non possono che portare a un ben
preciso esito morale. In secondo luogo viene obiettato che un mero
appello alla coerenza formale è del tutto inefficace in etica perché alla
costrizione in gioco nell’appello alla coerenza si può sempre sfuggire rifiutandosi
di consi- derare come effettivamente insostenibile uno stato di
incoerenza. In questa rivisitazione del razionalismo etico faccio
dunque mia la pro- spettiva critica che rileva che la ragione in quanto
tale può solo permetterci di trarre delle conclusioni che si esprimono in
quelle che chiameremo deduzioni o giudizi analitici. Ma se così stanno le
cose ciò che è eticamente rilevante o è già dato nelle premesse del
nostro discorso — e allora occorrerà spostare la discussione su come sono
state costruite queste premesse — o non potrà certo essere raggiunto
ricorrendo al solo aiuto della deduzione razionale. La razio- nalità e la
ragione umana in quanto tali non solo risultano eticamente vuote, ma se
si guarda poi alla ragione come facoltà intellettuale questa presenta
l’in- sufficienza più generale, dal punto di vista fondazionale, di
portare a conclu- sioni © esiti che non risultano direttamente motivanti.
Scoprire che vi è una certa relazione tra le cose, o che date certe
premesse se ne ricavano per via analitica determinate conclusioni è cosa
ben diversa dall'essere mossi a fare ciò che è bene, giusto, doveroso
fare. La ragione può dunque solo aiutarci a identificare ulteriori
situazioni a cui estendere i nostri principi etici, una volta che noi già
abbiamo — sulla base delle nostre sensazioni, emozioni e pas- sioni —
discriminato tra quello che approviamo 0 disapproviamo, apprez- ziamo o
svalutiamo. 3.7. Il ricorso a una facoltà morale per la fondazione
dell'etica. — Il col. legamento con la ragione umana — concepita come la
parte migliore e più alta, quasi una patte divina, della natura umana — è
spesso sembrata la via maestra per garantire alle conclusioni dell'etica
sia una strategia peculiare sia una superiorità rispetto a tutto il
resto. Ma nel pensiero moderno e contem- poraneo la consapevolezza
dell’autonomia della morale ha portato ad abban- donare questa strada.
Questa esigenza di riconoscere l'autonomia dell'etica veniva già raccolta
da Kant, sia pure in un quadro generalmente razionali. stico, attraverso
l'identificazione di una peculiare razionalità pratica. Ma altri
pensatori hanno preferito incamminarsi sulla strada di una derivazione
del- l'etica e delle distinzioni in essa in gioco da una facoltà ad doc
del tutto pecu- liare ed irriducibile sia alla ragione o intelletto sia
ai vari sensi che contribui- scono a dare agli uomini il bagaglio delle
loro esperienze. La strada dell'individuazione di una vera e
propria facoltà ad hoc per la vita morale è stata percorsa in modo
sistematico e nel dettaglio da Hutcheson (Hutcheson, 1725). Nei suoi
scritti infatti egli presenta articolatamente uno specifico «senso
morale» che permette di cogliere direttamente le distinzioni morali e che
non è riducibile né alle operazioni dell'intelletto, né agli altri sensi.
La ricostruzione che Hutcheson fornisce del senso morale come facoltà del
tutto peculiare che permette di fondare oggettivamente le conclusioni
eti- che sembra giustificare l'attribuzione a questo pensatore di una
concezione intuizionistica (Norton, 1982). In definitiva il senso morale
di Hutcheson è in grado di cogliere direttamente delle vere e proprie
qualità delle azioni e situa- zioni naturali da giudicare, Hutcheson si
impegna anche a ricostruire il modo in cui proprietà e qualità etiche
sono collegate necessariamente con le altre proprietà oggettive e reali
delle cose di cui abbiamo esperienza. Dunque in Hutcheson possiamo
trovare un quadro intuizionistico che vedremo ripreso, al di fuori di alcune
pretese sensistiche, nel secolo XX. Infatti intuizionisti come
Sidgwick e Moore {o in parte H. Prichard, A. Ewing e D. W. Ross; si veda
Hudson, 1980: 74-104) insisteranno nel tro- vare nel campo dell'etica la
presenza di peculiari proprietà non-naturali, ben distinte dalle qualità
naturali ordinarie, che solo una intuizione del tutto spe- ciale può
cogliere. La strategia di fondazione propria dell’intuizionismo etico
viene criticata in quanto perde di vista che al centro dell'etica non c'è tanto
la questione di riuscire a cogliere la presenza di questa o quella
proprietà non-naturale — sia poi questa proprietà considerata come
sopravveniente o come una accanto a quelle naturali —, quanto piuttosto
di essere motivati o sentirsi obbligati a fare certe cose considerate
buone, giuste o doverose. Natural- mente questa difficoltà può essere
supetata sostenendo che le proptietà non- naturali con cui l'intuizione
etica ci mette direttamente in contatto si presen- tano come
costitutivamente motivanti e obbliganti. Ma un aggiustamento del genere
non sembra nulla di più che uno stratagemma convenzionalistico. Per
ovviare a questa difficoltà è stata elaborata una strategia — già in
parte riconoscibile secondo alcuni interpreti negli scritti di Hutcheson
— che con- cepisce la facoltà in gioco nella conoscenza morale non tanto
come uno stru- mento intellettuale e conoscitivo di registrazione e
individuazione, quanto piuttosto come essa stessa emotiva o sentimentale
e dunque motivante e ca- rica di energia attiva. In questa linea si
collocano tutte le analisi sviluppate a proposito dell'etica dai
sentimentalisti del Settecento come ad esempio Shaf- tesbury, Hume e
Smith. Ma in questa stessa direzione vanno le analisi di co- loro che nel
XX secolo sostengono (come è il caso di David Wiggins, 1987 e John
McDowell, 1981) sia rintracciabile nell’etica una peculiare sensibilità
che risponde appunto con una qualificazione di valore a certe azioni o
situazioni. La strategia epistemologica del sentimentalismo sembra però
fuoriuscire dal quadro fondazionale e muoversi piuttosto in
quell'orizzonte più moderata- mente giustificativo 0 esplicativo di cui
renderemo conto nelle successive se- zioni di questo paragrafo.
Infatti questa sensibilità peculiarmente morale si presenta come
qualcosa che va ricostruita e delineata nella sua specificità attraverso
un esame a poste- riori degli esseri umani. L'appello poi a questa base
di giustificazione non per- mette certo di edificare giudizi etici forniti
di quei caratteri di necessità e uni- versalità definitiva a cui tendono
invece coloro che si muovono in un oriz- zonte fondazionale.
3.8. La giustificazione procedurale delle opzioni etiche: il
contrattualismo. — Rifiutando la strada di una fondazione assoluta e aprioristica
dell'etica vi sono alcune concezioni che considerano le opzioni etiche
come esiti a cui si può arrivare dopo avere seguito una determinata
procedura razionale. Percor- rono questa strada quei pensatori che sul
piano meta-etico considerano l'etica € la morale come un universo di
principi e norme frutto di decisioni 0 scelte individuali e
intersoggettive. Questa linea di giustificazione è propria ad esem- pio
del contrattualismo etico. Il contrattualismo è stato inizialmente
presen- tato — specialmente nel XVII e XVIII secolo da pensatori come
Hobbes, Locke, J. J. Rousseau e Kant — come una teoria mediante la quale
rendere conto della genesi della società civile e delle istituzioni
politiche (Gough, 1986). Ma il ricorso a qualche forma di contratto è
stato spesso presentato anche come una procedura in grado di dirimere in
generale i disaccordi pub- blici su tutti.i tipi di distinzioni etiche.
In particolare nel XX secolo il contrat- tualismo è stato ripreso e
sviluppato, ad esempio da Rawls e Gauthier, come la teoria etica e la
procedura di giustificazione di regole e principi capaci di impostare
meglio le questioni di giustizia sociale. In questa sede ci limitiamo a
presentare sinteticamente le concezioni di Hobbes e di Rawls viste come
due forme tipiche di tentativi di derivare la giustificazione delle
conclusioni etiche da procedure contrattuali. In realtà il
contrattualismo si lega strettamente alle forme di giustificazione
prudenziale di cui abbiamo dato conto nel paragrafo 3.3. Le differenze
che qui richiameremo non riguardano il tipo di ragiona- mento — in genere
appunto prudenziale — che porta ad accettare il contratto come una
procedura idonea per risolvere i contrasti etici. Le differenze con-
cemono piuttosto il contesto in cui la procedura contrattuale interviene,
le sue implicazioni e le conseguenze che se ne ricavano per quanto
riguarda il carattere vincolante degli esiti. Nel caso di Hobbes il
ricorso a una procedura contrattuale in etica si svi- luppa dopo la presa
d’atto dell’impossibilità di trovare una fondazione del bene e del giusto
in termini di rinvio al piacere di ciascuno e ai desideri e alle «
passioni individuali. Fare riferimento ai piaceri e desideri individuali non
per- mette di superare quella condizione di guerra di tutti contro tutti
che è pro- pria dello stato di natura in cui ciascuno definisce bene,
male, giusto e ingiu- sto, appunto a suo modo. Se si vuole mantenere uno
stato di pace e conver- gere su qualche bene considerato comune (che
certo comunque non potrà essere trattato come un bene assoluto) bisognerà
limitare la completa discre- zionalità naturale concordando
sull’accettazione di una procedura che per- metta di realizzare patti
condivisi. Secondo Hobbes, dunque, solo un con- tratto è in grado di vincolare
i singoli individui all'accettazione di principi etici che non siano
direttamente riconducibili agli interessi egoistici di qual- cuno. Nel
fare ricorso al contratto come risolutivo Hobbes delineava tutta una
serie di condizioni che presiedono alla sua genesi e alla sua efficacia.
Da una parte il contratto incorporava tutta una serie di principi —
secondo Hob- bes le «leggi naturali» — che venivano considerati
giustificati razionalmente, in linea esclusivamente strumentale, come
mezzi idonei alla conservazione in vita dei contraenti e al mantenimento
della pace tra loro. Dall'altra parte la necessità di rendere vincolanti
gli equilibri che vengono identificati mediante la procedura di
contrattazione porta a un completo trasferimento della forza coercitiva a
un potere che in nome della sua funzione di garantire il rispetto del
contratto non è sottoposto ad alcun limite. Anche questa è una conse-
guenza derivante dalle assunzioni generali di Hobbes che vede appunto gli
esseri umani come del tutto egoisti e mossi da un irrefrenabile impulso
pos- sessivo in una condizione di scarsità di beni. Infine va rilevato
che laddove in Hobbes il potere non può avere limiti esterni, esso ha un
ampio limite in- terno. Ciò dipende dalla convinzione di Hobbes che leggi
contrattualmente definite possono valere solo per i corpi di coloro che
stipulano il patto, men- tre sentimenti, emozioni e pensieri sono al di
fuori della portata dell’applica- zione di principi e regole create con
la procedura condivisa. AI modello di contrattualismo hobbesiano
sono state mosse numerose cri- tiche. In particolare è la sua peculiare
derivazione artificialistica dei principi etici ad essere oggetto di
diverse obiezioni. La prima linea di obiezioni viene da coloro che
ritengono necessaria una fondazione assoluta dell'etica e che rilevano la
parzialità e la limitazione di una derivazione da un qualche con- tratto
di regole e principi etici. Le leggi concordate mediante il patto possono
valere solo quando si è sotto il controllo di un potere totale e completo
come quello appunto ipotizzato nel Leviafazo di Hobbes, ma non riusciamo
così ad escludere defezioni quando il potere è inefficace. Hobbes sembra
tentare una risposta a queste critiche quando ammette la validità delle
leggi naturali anche «in foro interno» {Hobbes, 1976: 150-154; ma si veda
Warrender, 1974), ma risulta difficile capire qual è la base di
obbligatorietà in questo caso delle leggi naturali. Una seconda linea di obiezioni
viene da quei pensatori che — come ad esempio Hume — pur condividendo una
spiegazione artificiale della ge- nesi di principi e regole etiche,
prendono poi le distanze da Hobbes e dal suo contrattualismo per il
particolare tipo di artificialismo razionalistico in gioco. L’obiezione
in questo caso è che il «costruttivismo razionalistico» hobbesiano — il
considerate cioè i principi etici come il frutto di una scelta
consapevole di una serie di individui razionali — risulta del tutto
inadeguato quando si tratta di rendere conto della genesi di regole e
principi etici. Vedremo nelle ultime due sezioni di questo paragrafo în
che senso il convenzionalismo etico di Hume presentava un modello
artificialistico di spiegazione dell'etica del tutto alternativo rispetto
a quello di Hobbes. Un altro modello di giustificazione procedurale
dell'etica è quello presen- tato nel modo più sistematico ed argomentato
da Rawls (Rawls, 1982, 1994). Si tratta di un modello che viene ora
abitualmente chiamato «contrattualismo ideale» per distinguerlo da quello
di Hobbes e da quello detto «contrattuali- smo reale» sviluppato da
Gauthier (cfr. $ 3.3), Il modello epistemologico del
«contrattualismo ideale» sostiene pur sem- pre che i principi giusti
dell'etica possano essere individuati attraverso accordi, ma poi fa valere
tutta una serie di vincoli relativamente alla procedura considerata
idonea per realizzare accordi equi. Rawls delinea tale procedura come una
«posizione originaria» del tutto artificiale. In primo luogo, gli indi-
vidui che entrano nella posizione originaria da cui si scelgono i principi
di giustizia vanno considerati come individui rappresentativi e non già
come sin- goli individui concreti. In secondo luogo, gli individui
rappresentativi scel- gono tra le diverse opzioni a loro aperte in una
condizione caratterizzata da «un velo d’ignoranza», ovvero si immagina
che gli individui nella posizione originaria non debbano sapere quale
sarà la loro condizione effettiva e il loro status concreto nella
società. Infine Rawls ritiene che le scelte nella posizione originaria
debbano essere ispirate da un principio generale, che egli chiama del
maxinmin, secondo il quale si debba sempre preferire quell’alternativa
che permette di massimizzare le esigenze degli individui rappresentativi
dello stato peggiore. La linea argomentativa di Rawls in
realtà non si presenta come un tenta- tivo di giustificare o fondare il
nucleo centrale dell'etica, ma piuttosto come un tentativo di decisione o
risoluzione dei conflitti una volta assunta una de- terminata definizione
della morale. Troviamo che fin dalla delineazione della «posizione
originaria» sono presenti alcune opzioni morali sostantive che vengono
incorporate nella procedura prevista per l'individuazione dei prin- cipi
di giustizia. Ad esempio è fuori discussione fin dall’inizio che le
soluzioni da preferire saranno quelle più imparziali ed eque. Rawls non
spende nem- meno un’argomentazione a giustificare queste opzioni di fondo
che sono co- stitutive del suo contrattualismo. Ancora, in quanto Rawls
si preoccupa prin- cipalmente di questioni di giustizia sociale o di
distribuzione delle risorse, tro- viamo che egli fa valere il citato
criterio di waxiziz. Contro questo criterio numerosi studiosi di etica (ad
esempio Harsanyi, 1988: 109-136) hanno obiet- tato che esso ha delle
conseguenze controintuitive. Infatti il criterio del maxi- min ci
costringe a preferire sempre e comunque quel corso di azione che può
migliorare sia pure di pochissimo le condizioni di chi sta peggio senza
mini- mamente tenere conto di quanto questo corso d'azione peggiori le
condizioni di tutti gli altri o senza minimamente instaurare un confronto
tra i diversi corsi d'azione possibili ad esempio sulla base della
probabilità effettiva che si realizzi ciascuno di essi,
Dunque la procedura epistemologica a cui si richiama Rawls, ben lungi
dal giustificare le opzioni etiche, in realtà dà già per acquisita la
natura dell'etica e il suo ambito. Del resto questo è ampiamente ammesso
dallo stesso Rawls che ha riconosciuto che la sua ricostruzione della
natura dell’etica è adeguata a rendere conto delle intuizioni morali di
un cittadino di una società caratterizata, come quella statunitense, dalle
istituzioni liberal-democratiche. Spiega Rawls che la sua etica è tale da
non avere una portata metafisica, ma che si presenta come prevalentemente
rivolta a rendere conto di un ben preciso con- testo storico e dunque
politico (Rawls, 1994: 155-182). La procedura giustifi- cativa delineata
da Rawls può dunque operare solo presupponendo una serie di intuizioni o
credenze morali già date. La linea argomentativa del contrat- tualismo
ideale è rivolta ad ottenere un risultato che Rawls stesso presenta come
una sorta di «equilibrio riflessivo» tra le nostre intuizioni di partenza
e i risultati più equi e giusti raggiunti attraverso una correzione delle
distorsioni e parzialità di tali intuizioni. Caratteristico
di questo modello è la caduta della pretesa di una fonda- zione assoluta
e compiuta dei principi etici. Il contrattualismo ideale di Rawls in
definitiva riesce a generare accordi solo in quanto parte già da un
accordo dato in partenza tra tutti i membri della stessa società. Nulla
può essere fatto per convincere ad accettare l'etica da parte di coloro
che non sono già citta- dini della stessa società ideale che condivide il
contratto. Laddove la posi- zione hobbesiana sembrava incapace di
generare accordi se non presuppo- nendo il ricorso a uno strumento extra-teorico
quale la forza; la posizione di Rawls è sterile perché si limita a
ricostruire il modo in cui già di fatto si rea- lizzano accordi, nelle
società liberal-democratiche, tra coloro che accettano politiche
progressiste e nulla dice per dirimere i contrasti tra individui rappre-
sentativi di società profondamente diverse (quali, poniamo, quelle del
mondo occidentale e quelle dei paesi dell’Africa o dell'Asia). La
procedura contrat- tualista di giustificazione etica ha sicuramente un
ampio spazio laddove con- trasti e conflitti sorgano tra individui già
vincolati a un certo patto e all’accet- tazione di una certa procedura
per dirimere i contrasti. Ma poco o nulla può offrire laddove si
affrontino le questioni più sostanziali: da una parte di come giustificare
la scelta di avere un contratto da rispettare in luogo di non avere
nessuna forma di contratto; dall'altra di come giustificare l'opzione di
conti- nuare a rispettare il contratto, in luogo di defezionare, anche
quando ciò dan- neggia i nostri interessi personali. 3.9. Il
non-cognitivismo e la giustificazione logico-argomentativa del punto di
vista etico. — Una teoria della giustificazione © argomentazione etica è
stata messa a punto anche dai teorici del non-cognitivismo (cfr. $ 2.6). Laddove
gli emotivisti consideravano del tutto fallace la convinzione che si
potesse avere una reale discussione su questioni etiche, i teorici del
non-co- Bnitivismo trovano possibile indicare una serie di procedure come
peculiari del ragionamento etico. Vale la pena di fermarsi brevemente
sulle differenze www.scribd.com/Filosofia_in Ita3 56
ETICA sul piano della giustificazione e dell’argomentazione,
dunque sul piano episte- mologico, tra le posizioni degli emotivisti e
quelle dei non-cognitivisti. Infatti lo sviluppo di questa differenza
rappresenta una delle vicende centrali del- l'etica del XX secolo che
viene completamente trascurata da quanti — come ad esempio A. MacIntyre
(MacIntyre, 1988) — assimilano rigidamente emo- tivismo e
non-cognitivismo, Nel caso degli emotivisti occorre distinguere tra
le posizioni di Ayer e di Stevenson. È appunto nelle pagine di Ayer
(Ayer, 1961) che troviamo la posi- zione più radicale che ritiene che
l’unico punto di dibattito effettivo in una discussione etica possa
essere quello di una verifica fattuale sul come sono andate le cose e,
per il resto, sia da considerare comeeffettivo in una discussione etica
possa essere quello di una verifica fattuale sul come sono andate le cose
e, per il resto, sia da considerare come del tutto illusoria la
pretesa di aprire una qualche discussione criticamente valutabile sulla
rile- vanza etica di ciò che è accaduto, In definitiva connotando
eticamente qual- cosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del
tutto personali e, come è noto, sui gusti non si può certo disputare. La
posizione di Stevenson (Steven- son, 1962; cfr. qudo eticamente
qual- cosa ciascuno esprime solo i propri gusti morali del tutto
personali e, come è noto, sui gusti non si può certo disputare. La posizione
di Stevenson (Steven- son, 1962; cfr. qui sopra $ 2.6) è meno riduttiva,
ma finisce con il sostenere che tutto ciò che possiamo fare da un punto
di vista argomentativo o episte- mologico in morale è divenire pienamente
consapevoli del come usare nel modo appropriato, come un potere causale,
la forza emotiva presente nelle nozioni etiche, vuoi per persuadere altri
ad accettare i nostri standards, vuoi impedendo che altri ci persuada con
il mero ricorso a delle definizioni persua- sive, Ma non resta nessuna
possibilità pet discutere in una qualche forma ar- gomentativa
l'appropriatezza etica di un determinato giudizio morale. Lad- dove
consideriamo l’etica come un linguaggio emotivo — sia pure, come fa
Stevenson, come un linguaggio guidato da regole nel suo uso — tutto ciò
che possiamo fare sul piano epistemologico è richiamare l’attenzione
sulla pre- senza di tecniche di persuasione che possono essere utilizzate
sia da una per- sona che voglia fare passare dei valori giusti, sia da
chi invece voglia imporre dei valori ingiusti, L'argomentazione etica,
così come ce la presenta Stevenson con il suo emotivismo moderato, non ci
permette di discriminare tra questi valori, ma solo di sostenerli nel
modo migliore ed egli quindi riconosce in questo campo solo uno spazio
per procedure di tipo retorico o propagandi- stico. Nel caso
invece del non-cognitivismo, come sostenuto ad esempio da Hare (Hare,
1971 e 1989), troviamo l'impegno a elaborare un'epistemologia per l’etica
che fornisca criteri di discussione e critica anche per il nucleo
peculiare di valori che è in gioco nel discorso morale. Come si è già
spiegato (cfr. sopra, $ 2.6) secondo questa concezione meta-etica la
morale è costituita di prescri- zioni universalizzabili soverchianti.
Partendo da questa caratterizzazione della natura della morale un
non-cognitivista ha di fronte a sé due problemi di- stinti. Si tratta, in
primo luogo, di esaminare se vi sono vie argomentative per convincere
razionalmente a farsi guidare nelle proprie azioni da una morale così
intesa chi non la vuole fare propria preferendo un completo amoralismo.
In secondo luogo si tratta di delineare quali procedure argomentative
sono disponibili per sottoporre a controllo le diverse opzioni mortali
possibili al fine di individuare, per la situazione in cui ci troviamo,
quale è la migliore prescri- zione universalizzabile soverchiante.
Esponiamo qui di seguito le due diverse strategie argomentative così come
vengono delineate da Hare. Per quanto riguarda il livello di
discussione che si apre nei confronti di chi non intende in alcun modo
ispirarsi a regole morali, sul piano argomentativo non c'è molto da fare.
Non si può cioè costringere logicamente qualcuno a usare il linguaggio
della morale; si può solo, una volta che egli lo usi, mostrare che lo ha
usato in modo inadeguato rispetto alle regole che ne governano l'uso.
Hare dunque sembra voler fissare come limite invalicabile per l’argo-
mentazione morale il confine al di lì del quale si collocano tutti coloro
che non fanno in alcun modo uso del linguaggio morale. Nei confronti di
costoro si potrà fare qualcosa solo collocandosi da un punto di vista non
strettamente argomentativo. L'educazione e l’uso della forza sono due
diverse strategie cui si ricorre per far si che le persone facciano
propria la forma di vita che in- clude la morale. All’interno
della prospettiva non-cognitivista di Hare si può invece argo- mentare
contro chi pretende di formulare giudizi morali ed invece in realtà non
rispetta le condizioni logiche necessarie perché un proferimento faccia
parte del linguaggio etico. Come sappiamo un'espressione linguistica farà
parte del discorso morale solo in quanto si presenta come una
prescrizione universalizzabile soverchiante. Possiamo identificare con
chiarezza coloro che pretendono di dare una portata morale alle loro
affermazioni, ma compiono degli errori logici (oltre che morali}. Le
analisi di Hare sono rivolte a delineare il tipo di argomentazione che
può essere sviluppata contro il più comune errore nell'uso del linguaggio
morale, quello proptio dei fanatici morali. Le posizioni dei fanatici
morali nascono in quanto si prescrivono dei principi che non vengono
fatti valere — come la loro natura di principi morali esigereb- be — in
modo analogo per tutte le situazioni simili indipendentemente dal posto
occupato da coloro che sono coinvolti. Un tentativo, coerente con la
concezione della morale propria del non-cognitivismo, può essere fatto per
contrastare il fanatismo morale ad esempio nella forma più ricorrente che
è quella del razzista (Hare, 1971; ma Hare più recentemente ha trattato
anche del caso di un medico che in nome dei suoi doveri professionali fa
proprio www.scribd.com/Filosofia_in_Ita3 58
ETICA l’accanimento terapeutico: Hare, 1989). Si tratta di
chiedere al fanatico di im- maginarsi in una situazione in cui egli
occupa il posto di colui nei confronti del quale egli vuole fare valere
in modo diseriminante i suoi pretesi principi morali. Che cosa fa il
razzista anti-semita quando una nuova informazione for- nisce le prove
che lui stesso è di origine ebraica? Il non-cognitivista può con.
siderare l'articolazione di un esperimento mentale del genere come
un’esten- sione epistemologica della sua concezione meta-etica.
Si badi infine che l’argomentazione propria dell'etica che viene
individuata muovendo dalla concezione della natura dei giudizi morali
avanzata da Hare non si limita — come nel caso del formalismo kantiano —
ad avanzare la ri- chiesta di una mera coerenza formale, ma enuncia un
requisito contenutistico. In linea del tutto pregiudiziale un giudizio
potrà essere incluso nell'universo dei giudizi propri del discorso morale
solo se prescrive un qualche principio che si è pronti a far valere in
modo analogo per tutti i casi simili indipenden- temente dalla propria
collocazione nelle situazioni investite. Lavorando su questa condizione
epistemologica della concezione che vede la morale come insieme di prescrizioni
universalizzabili soverchianti, più recentemente Hare (1989) ha elaborato
ulteriori passaggi critici a cui sottoporre le prese di posi- zione
etiche. Nello sviluppare queste implicazioni epistemologiche si è incam-
minato lungo una linea che giunge a presentare come adeguate — su basi
so- stantive — quelle conclusioni che vengono ricavate dall’utilitarismo
dell’atto. In quanto ci troviamo di fronte ad un’argomentazione che
ricava da una me- ta-etica una ben precisa etica normativa, ce ne occuperemo
in un prossimo paragrafo. Dalla giustificazione allo spiegazione
dell'etica. — Proprio nel no- stro secolo la riflessione filosofica
sull'etica ha elaborato una serie di analisi conseguenti a un radicale
mutamento di approccio. L'effetto di questo cam- biamento è che anche per
quanto riguarda le procedure argomentative in uso in morale l’obiettivo
cui si tende è di ricostruirne il complesso delineando an- che il
contesto in cui si sono formate. Con questo approccio non ci si propone
dunque di fondare o giustificare aleunché 0 di modellare al meglio
strutture argomentative, quanto piuttosto di presentare spiegazioni
complessive rivolte a comprendere qual è il posto che l’etica occupa
nella nostra vita. In definitiva è la prospettiva che Hume aveva
sviluppato nella sua scienza della natura umana che viene recuperata,
tradotta nel linguaggio del nostro secolo e resa più rigorosa e
determinata. L'etica viene così considerata come un presuppo- sto della
nostra forma di vita che non tanto va giustificato o fondato quanto
piuttosto spiegato nella sua concretezza. Si tratta dunque di un
programma esplicativo che considera l'etica e le sue distinzioni come
costitutive della nostra esperienza del mondo, con un approccio in parte
analogo a quello kantiano impegnato a identificare le forme generali
della nostra esperienza. Ma questo approccio esplicativo non percorre poi
la linea aprioristica kan- tiana dell'analisi trascendentale,
proponendosi piuttosto di avanzare ipotesi empiriche sulla natura dell'etica
e le forme di argomentazione in essa correnti (Preti, 1986). ;
Questo tipo di ricerca ha avuto nel nostro secolo una notevole
espansione parallelamente al tentativo della filosofia di trasferirsi dal
piano fondazionale a quello esplicativo (cfr. Gargani, 1975 e Nozick,
1987). Una prima differenza tracciabile in questa linea filosofica, come
si è detto, è relativa al tipo di spie- gazioni, ovvero alla natura
logica delle presupposizioni a cui ci si richiama, caratterizzate o in una
direzione trascendentale oppure come ipotesi empi- riche. Su
basi kantiane un tentativo di spiegare l'etica è presente nelle analisi
di Putnam (Putnam, 1991). La tendenza a esprimere giudizi morali è
secondo Putnam un modo del tutto aprioristico e comune al genere umano di
catego- rizzare; in modo analogo va spiegata la stessa predilezione
sostantiva per certi contenuti (benevolenza, giustizia ecc.). Invece sul
piano empirico si trovano, tra le altre, le seguenti spiegazioni della
morale. Da una parte abbiamo una concezione come quella di J. L. Mackie
(Mackie, 1977) che ritiene che l'etica sia una produzione artificiale
della cultura umana con cui gli vomini cercano di fare affermazioni su
specifiche proprietà del mondo, ovvero i valori o le qualità etiche; ma
queste affermazioni sono tutte false in quanto tali proprietà non
sussistono realmente. Dall'altra abbiamo le posizioni proiezioniste,
quale ad esempio quella di S. Blackburn (Blackburn, 1984), secondo le
quali invece si guarda all’etica come un prodotto della nostra cultura
che ci consente di fare riferimento a qualità o proprietà quasi reali (le
proprietà morali) che noi abbiamo proiettato sulle cose e sul mondo. Sono
ancora da ricordare le analisi sensiste di Wiggins {Wiggins, 1987) e
McDowell (1981) i quali ritengono vi- ceversa che si debba considerare
l’etica come il campo che gli esseri umani costituiscono in quanto
forniti di un peculiare senso o sentimento che li mette in grado di
cogliere delle proprietà nel mondo (appunto ciò che rende moral- mente
rilevante una qualche situazione) che hanno poi su di essi una forza
motivante e vincolante. Infine in un contesto più evoluzionistico A.
Gibbard {Gibbard, 1990) indica nella morale un insieme di norme che gli
uomini anno elaborato nel corso di una loro attività peculiare che
li muove a discu- tere pubblicamente sul come condurre le loro vite e
come sentire a proposito delle scelte fatte nel corso delle loro vite.
Tutti questi diversi modelli esplicativi dell'etica e della sua genesi come si
può vedere ne rendono conto in ter. mini universalistici; l'etica si
presenta cioè come un'istituzione del genere umano che include al suo
interno il ricorso a procedure pubbliche pet con- trollare la validità
delle opzioni privilegiate. Larga parte di queste concezioni esplicative
sono rivolte a trovare una collocazione per la credenza che il con-
trollo fattuale giochi un ruolo importante nella discussione etica. Una
cre- denza del genere sussiste anche se i fatti morali non esistono, 0 sono
solo delle nostre proiezioni o tali che noi li cogliamo perché forniti di
una peculiare at- trezzatura percettiva. 3.11. I problemi
centrali per la fondazione della morale: «legge di Hume» e possibilità di
una «logica delle norme». — In questo secolo un ampio dibat- tito si è
sviluppato intorno a due nuclei problematici centrali per chiunque si
ponga l’obiettivo di una fondazione o giustificazione di conclusioni etiche.
In primo luogo hanno avuto un’ampia diffusione le discussioni relative
alla co- siddetta «legge di Hume» che coinvolgono tutti i tentativi di
fondare una conclusione etica su basi scientifiche, osservative o
empiriche. Il punto di par- tenza per questa linea di riflessione viene
indicato in un passo del Treazise di Hume (Hume, 1987: I, 496-497), il
cosiddetto «is-ought paragraph», in cui si richiama l’attenzione sulla
differenza tra proposizioni in cui è presente la co- pula è {:5) e quelle
in cui compare la nozione deve (ough)). A questo passo si sono richiamati
tutti coloro che hanno criticato come logicamente inaccetta- bile la
derivazione di una conclusione normativa, e in generale etica, da pre-
messe descrittive, assertive o in generale non-etiche (cfr. Hudson, 1969;
Car- caterra, 1969; Oppenheim, 1971; Scarpelli, 1982: 165-178; Celano,
1994). Sul piano storico occorre precisare che è molto probabile che Hume
non fosse direttamente impegnato a formulare un vero e proprio principio
logico rela- tivo all’inderivabilità del dovere dall'essere, quanto
piuttosto a segnare con precisione la «grande divisione» concettuale tra
conclusioni con l'è e quelle con il deve. Importa però qui richiamare che
nel XX secolo invece si fa rile- vare che proprio da un punto di vista
strettamente logico-formale e sintattico si deve ritenere del tutto
scorretto qualsiasi ragionamento o argomentazione che pretenda di
ricavare una decisione, una scelta o un giudizio etico da con-
siderazioni che riguardano lo stato dei fatti o delle cose. Questa
posizione è stata ampiamente sostenuta nel corso del XX secolo con articolazioni
lievemente diverse. Così ad esempio Max Weber insisteva con decisione
sulla differenza di piani tra fatti e valori e dunque tra conclu- sioni
avalutative e scientifiche sulla natura e sulla società e decisioni o
assun- zioni di responsabilità intorno a ciò che si deve fare (Weber,
1958; Rossi, L'EPISTEMOLOGIA DELL'ETICA 61 1971: 249-315;
Hennis, 1991). Partendo dalla stessa tesi della inderivabilità dei valori
o doveri dai fatti si sono rifiutate numerose concezioni spesso accu-
sate di essere cadute nella «fallacia naturalistica» (Moore). Così da una patte
vengono denunciate come frutto di un errore lo- gico tutte quelle
posizioni riduzionistiche o conformistiche che concludono che ciò che si
deve fare è o ciò che è naturale per l'uomo o ciò che è già indicato dai
valori accettati più o meno diffusamente nella società. Non diver-
samente viene considerata fallace quella specie di argomentazione etica
pro- pria dell'approccio consequenzialista che considera come
completamente ri- solvibile un qualche problema morale ricostruendo con precisione
—— am- messo che tra l'altro questo sia fattibile — quali sono le
conseguenze delle diverse opzioni tra cui dobbiamo scegliere. In realtà
sapere con precisione quali sono le conseguenze delle alternative che ci
sono davanti non basta per ricavare una conclusione su ciò che dobbiamo
fare perché una tale previsione — se attendibile — ci dirà solo ciò che
ci sarà nel futuro, ma nulla ci dice sul punto se certe conseguenze che
ci saranno vanno poi preferite o meno ad altre e dunque approvate o
disapprovate. Tra l’altro era proprio questa l’argomen- tazione che
faceva valere Hume nella sua Exquiry concerning the Principles of Morals
(1751, Ricerca concernente i principi della morale; Hume, 1987: II, 302)
contro i tentativi di derivare le distinzioni etiche dal principio di
utilità. Contro l’uso di questa critica come ghigliottina decisiva
per numerose concezioni etiche si sono schierati quei pensatori —
particolarmente nume- rosi nell'ultirna parte del XX secolo — che hanno
negato che si potesse net- tamente distinguere un piano di descrizioni
neutrali del mondo da un piano di opzioni valutative su di esso. Questo
tentativo di superamento del quadro concettuale che sorregge la
cosiddetta «legge di Hume» è stato principal mente rivolto a contestare
la concezione della scienza dei neopositivisti che sembra sorreggere una
forte divaricazione tra fatti e valori, essere e dovere. Questa
divaricazione è stata criticata e giudicata superata da numerosi pensa-
tori pragmatisti, tra i quali in particolare Putnam (Putnam, 1982 e
1985). In secondo luogo indubbiamente rilevante per il problema
della fonda- zione e della giustificazione dell’etica è tutto il
dibattito — specialmente vivo nella seconda metà del XX secolo — relativo
alla possibilità di costruire una logica delle norme. Collocandosi dunque
sul piano della ricerca di una sin- tassi di un discorso etico che voglia
fare valere al suo interno principi di coe- renza e non-contraddizione è
stata contestata la stessa possibilità di enunciare una logica delle
norme. Una posizione del genere è presente nelle conclusioni a cui era
giunto H. Kelsen nell'ultima parte della sua vita (Kelsen, 1985). Ri-
levando che le norme sono, dal punto di vista del significato, dei comandi,
e che dunque come tali non possono essere valutati in termini di verità e
falsità, Kelsen negava che si potesse costruire un sillogismo logico in
cui premesse e conclusioni fossero degli asserti normativi. Le
implicazioni della sintassi logica possono valere solo in presenza di
proposizioni empiriche o asserzioni scien- rifiche, ovvero laddove
premesse e conclusioni si collocano sul piano della ve- rità e dunque da
premesse vere (o false) si traggono conclusioni vere (o false). Ma un
enunciato normativo non è in alcun modo vero 0 falso e dunque non può
funzionare da premessa di nessuna conclusione logicamente derivata, Così
se presentiamo nella premessa maggiore un enunciato normativo di ca-
ratrere universale, laddove nella premessa minore troviamo l'individuazione
di una fattispecie rilevante sulla base della norma generale enunciata
nella premessa maggiore, secondo Kelsen non siamo autorizzati a
presentare come una conclusione logicamente necessaria una qualche azione
o omissione {con relativa sanzione). Coloro che contestano la possibilità
di una logica delle norme obiettano infatti che comunque il linguaggio
normativo esige sempre che ci sia un qualche comando effettivo ripetuto
subito prima del compi- mento di qualsiasi azione. Sia le
«legge di Hume» sia le obiezioni alla possibilità di elaborare una
«logica delle norme» risultano particolarmente rilevanti nei confronti di chi
si muove all’interno di un contesto fondazionale e pretende dunque di
dare una qualche fondazione assoluta o conclusiva dell'etica. Ma se ci
collochiamo sul piano dell’argomentazione o della giustificazione (per
non dire del piano della spiegazione delle procedure effettivamente
adottate) le cose risultano più complesse. Per quanto riguarda, ad
esempio, la cosiddetta «legge di Hume», sembra difficile non ammettere
l'efficacia di quelle critiche rivolte al tentativo di ricavare le
proprie conclusioni etiche semplicemente da una ricostruzione dei fatti
in gioco, o da una mera raccolta di informazioni, o dall’accumulo di una
congerie più o meno estesa di previsioni. Dovrà introdursi prima o poi la
nostra preferenza per un qualche principio da fare valere in modo analogo
in tutte le situazioni simili, una preferenza che sia radicata nelle
nostre emozioni e che siamo pronti a mettere in pratica quando starà a
noi agire facendola prevalere su nostre opzioni non strettamente etiche.
Questa ammissione di una qualche frattura, divisione o salto tra il piano
delle ricostruzioni empiri- che della situazione e quello di una
valutazione — e conseguente decisione — delle diverse opzioni che ci
stanno di fronte non deve essere spinto però fino ad esiti eccessivi.
Così risulterà insostenibile sul piano metodologico una rico- struzione
della natura dell’indagine empirica e scientifica che non tenga conto di
quanto le nostre osservazioni e le nostre esperienze siano dipendenti
dalle teorie, ipotesi e opzioni (anche valutative) da cui muoviamo. Né
sarà accettabile un divisionismo spinto fino all’estremo di non riconoscere la
rilevanza — in un certo senso come condizione necessaria anche se non
sufficiente di un’argomentazione etica — dell'impegno sia a verificare
come stanno real- mente le cose nella situazione in esame, sia a
immaginare quali conseguenze seguiranno una volta incamminatici lungo
l’uno o l’altro corso di azione. Non diversamente a proposito della
questione della possibilità di costruire una logica delle norme è
difficile negare la nostra capacità sia di squalificare certe prese di
posizione etiche perché in contraddizione con principi già as- sunti, sia
di estendere i nostri principi a situazioni nuove sulla base della tesi
logica che esse sono del tutto simili a quelle che abbiamo già giudicato.
È probabile che nel riconoscere questo ci muoviamo a un livello che non è
esat- tamente quello della sintassi logico-formale, ma piuttosto — come
ha sugge- rito Nowell-Smith— delle implicazioni di una logica
pragma- tica che dà vita a una valutazione dei giudizi in gioco in
termini di stranezza logica. Ma la rilevanza e la portata di strategie di
tipo sintattico o logico resta innegabile se si abbandona la pretesa di
muoversi sul piano di un'etica dimo- strata in modo assiomatico e
geometrico. Va, infine, sottolineato che — malgrado le obiezioni di
fondo dei puristi della logica — larga estensione hanno avuto nella
seconda metà del XX secolo i tentativi di elaborare simbolismi e
formalismi idonei al trattamento di norme. Ben al di là dei tentativi o
delle enunciazioni di principio si sono spinti tutti coloro — da Wright a
Alchourron e Bulygin — che si sono impegnati a elaborare la logica
deontica e la logica delle norme. I risultati raggiunti con tutta la loro
complessa articolazione mostrano la fertilità di un tentativo di dare
vita a un trattamento simbolico della sintassi delle norme e di inserire
in un contesto logico le relazioni tra obbligazioni eti- che. Difficile
peraltro che tali modelli di linguaggi perfetti o ideali per le norme o
le valutazioni etiche possano essere di aiuto per ciascuno di noi quando,
nella vita comune, siamo alle prese con i nostri problemi etici concreti.
Tali linguaggi invece illuminano certamente il lavoro di giuristi,
politici, scienziati sociali im- pegnati nel mettere a punto sistemi di norme
più o meno stabili, efficienti, chiari e comprensibili da tutti coloro
per cui tali norme debbono valere. 4. Le etiche normative:
concezioni in contrasto. 4.1. Eriche conseguenzialiste e
deontologiche: principi, mezzi e fini nel- l'etica. — Quando si tratta di
classificare le diverse concezioni etiche pos- siamo ricorrere a
differenti criteri formali che si intersecano. È quanto faremo n questo
paragrafo, esponendo le differenti concezioni normative esistenti usando
diverse strategie di classificazione. In primo luogo distingueremo le
etiche normative in generale sulla base di una loro struttura di fondo che
col. lega la valutazione etica 0 a un riferimento a principi 0 a una
considerazione delle conseguenze. Renderemo così conto della differenza
tra etiche deonto- logiche o tuotanti intorno a principi ed etiche
teleologiche o rivolte principal- mente alle conseguenze, e accenneremo
anche ad alcuni tentativi di elaborare etiche miste. Passeremo poi a
rendere conto delle diverse etiche normative classificandole sulla base
di un diverso criterio formale che ritiene essenziale la distinzione tra
etiche che fanno uso di una nozione di valore intrinseco, in quanto
contrapposta a quella di valore estrinseco, ed etiche che invece rifiu-
tano tale distinzione. Esamineremo, infine, alcune concezioni normative
che identifichiamo come le più diffuse e vitali nelle discussioni di
etica teorica nel secolo XX. Ovviamente di pari passo con l’esposizione
cercheremo sia di for- nire le ragioni delle inclusioni ed esclusioni
nella lista, sia della nostra prefe- renza critica per una di queste
etiche. Un modo ricorrente per distinguere tra le diverse
concezioni normative è dunque quello che contrappone l’etica che ruota
intorno a un appello ai prin- cipi a quella che tiene piuttosto conto
delle conseguenze dell’azione. Si tratta di una distinzione che è
centrale, ad esempio, nella riflessione di Max Weber, che però se ne è
valso non tanto per distinguere due tipi diversi di etica quanto piuttosto
per richiamare l'attenzione su due piani diversi della vita etica: quello
proprio del moralista che fa appunto appello alla rilevanza dei principi
e quello di chi — come il politico o chi sia comunque impegnato in una
dimensione tecnico-pratica — invece, muovendosi nel quadro di un'etica
della responsabilità, deve badare principalmente alle conseguenze dei
diversi corsi di azione in cui si impegna (Weber, 1966). Dietro queste
due diverse strategie possiamo anche ritrovare — come subito vedremo — un
diverso modo di considerare il rapporto mezzi-fini nella vita
pratica. Sono state presentate concezioni deontologiche dell'etica
diversamente strutturate. Avremo così diversi tipi di etiche dei principi
a seconda che pon- gano al loro centro uno o più principi, e a seconda
che concepiscano tali prin- cipi o come assoluti e aprioristici o come
ricavati dall'esperienza e in generale rivedibili. È così chiaro che
l'etica kantiana si presenta come un'etica deonto- logica che ruota
intorno a un solo principio di fondo, assoluto e a priori, dato
dall'imperativo categorico, e le diverse formulazioni offerte,
dell'imperativo categorico, non presentano in realtà principi diversi
(Kant, 1970a). Nel caso di alcune etiche del comando divino (come ad
esempio l’etica cristiana o car- tolica) vi è invece una tendenza a
presentare come costitutivi della vita morale diversi principi tutti
assoluti (i vari comandamenti divini o le norme che costituiscono la legge
naturale). Un'etica deontologica pluralista si trova di fronte al
problema (quasi mai invece affrontato esplicitamente in queste eti- che)
della necessità di disporre di un criterio chiaro per ordinare i diversi
principi e risolvere quei casi in cui più principi assoluti entrano tra di loro
in conflitto. Ma una concezione etica deontologica non è logicamente
costretta a considerare i principi al centro della vita morale come
assoluti, immutabili e di derivazione non empirica. Non mancano infatti
analisi della vita etica (ad esempio quella dell'evoluzionismo filosofico
di H. Spencer — H. Spencer, 1893 — o di certe forme contemporanee di
intuizionismo — si vedano ad esempio W. D. Ross, 1930 e A. C. Ewing,
1948) che pur ritenendo costitutivo della vita morale l’appello a
principi, non rendono conto del costituirsi di questi principi lungo
l’asse dell’impostazione kantiana o di quella religiosa. I principi
dell'etica vengono piuttosto considerati o come regole fissatesi nel
corso dell'esperienza quali abitudini o come assunzioni — più o meno con-
venzionali — preliminari, o anche come ipotesi più o meno rischiose da
avan- zare in situazioni risolvibili difficilmente con gli strumenti
ordinari. La questione centrale per una valutazione critica delle
etiche deontologi- che è quella di chiederci fino a che punto le si possa
seguire nella loro assun- zione che i principi e la coerenza sono il
criterio determinante della vita mo- rale senza che st debba tenere conto
delle conseguenze di un'applicazione di questi principi. Le etiche
deontologiche incontrano in realtà difficoltà insor- montabili in quanto
si presentano come la struttura di riferimento di tutte le forme di
fanatismo morale, ovvero di quelle concezioni che ritengono che l'unico
modo per elaborare decisioni e giudizi eticamente validi sia quello di dedurre
coerentemente le implicazioni suggerite da principi considerati come
indiscutibili e non modificabili. Il fanatismo nasce laddove si spinge la
fedeltà ai principi fino a non tenere in alcun conto le eventuali
conseguenze disa- strose di questa fedeltà. Le etiche deontologiche
partoriscono quindi spesso moralisti che riaffermano continuamente vecchi
principi che, in realtà, non sono più in consonanza con la vita effettiva
degli esseri umani, Paternalismo e rigidità sembrano essere sul piano
pragmatico alcune delle possibili implica- zioni delle etiche
deontologiche. Tali conseguenze sono evitate attraverso l’im- pegno a
formulare elaborate casistiche che prevedono un'ampia gamma di condizioni
in cui si può fare un'eccezione alle regole, Mentre sul piano psico-
logico non è infrequente che tali etiche generino forme più 0 meno estese
di ipocrisia per cui regole e principi assoluti sono enunciati solo
verbalmente e in pubblico, ma non seguiti nelle scelte effettive e in
privato. Proprio come correttivo di questi eccessi formalistici e
rigoristici sono state presentate come più adeguate le teorie etiche che
mettono al centro della vita morale una considerazione delle conseguenze
delle azioni. Si tratta di eti- che in cui è centrale la considerazione
per la dimensione della responsabilità. In luogo di una stretta fedeltà
ai principi l'atteggiamento etico è quello di chi è impegnato in una
continua valutazione dei risultati. Si tratta di quelle con- cezioni dell'etica
che già nel mondo antico, ad esempio con gli stoici, richia- mavano
l’importanza della prudenza per rendere conto del nucleo centrale della
vita morale, Queste posizioni conseguenzialiste hanno avuto un grande
sviluppo dalla fine del secolo XIX in quanto sono divenute la struttura
por- tante delle etiche utilitaristiche. Sul piano logico non è però
corretta un’assi- milazione tra conseguenzialismo e utilitarismo. Infatti
l'utilitarismo è una delle varie forme che può prendere il conseguenzialismo,
quella che considera come criterio di valutazione dei risultati la
realizzazione del massimo bene per il maggior numero. Altre forme di
conseguenzialismo possono assumere, come criteri di valutazione dei
risultati, concezioni del bene o del valore da realizzare del tutto
alternative rispetto a quella felicifica dell'utilitarismo. Però
proprio la possibilità di distinguere tra utilitarismo e conseguenziali-
smo richiama quella che sembra essere la difficoltà principale delle
concezioni conseguenzialiste, ovvero la loro incompletezza. Infatti una
concezione che mette in primo piano per la valutazione morale la
considerazione delle conse- guenze delle nostre azioni non sembra in
grado di rendere conto pienamente del giudizio etico, in quanto tale
giudizio non può limitarsi a esaminare quali saranno le conseguenze di
certe scelte, ma dovrà anche valutarle sulla base di ben precisi criteri
di valore. Ci troviamo dunque di fronte alla difficoltà che già
richiamava Hume (Hume, 1987: II, 301-311), ovvero che una considera-
zione delle conseguenze può informarci solo relativamente ai mezzi e resta
poi da valutare del tutto indipendentemente l'accettabilità dei fini. Ma
per quanto possa essere incompleta, un'etica conseguenzialista richiama
su quello che è un passaggio necessario per le nostre valutazioni e
decisioni; la considerazione appunto di ciò che la loro accettazione
comporta. Anche se poi questo ap- proccio non può esimerci da una
valutazione dell’accettabilità o meno dei ri- sultati che si
raggiungeranno. La concezione conseguenzialista dell'etica riesce a
rendere conto delle nostre valutazioni su ciò che è giusto o ingiusto ed
esige di essere integrata con una teoria della bontà o del valore dei
risultati. Per quanto riguarda poi l’uso della distinzione tra
mezzi e fini in etica va anche detto che specialmente nell'ultimo secolo
varie forme di naturalismo etico si sono impegnate nell’approfondire e
render meno semplicistica una considerazione esclusiva dei mezzi come
passaggio obbligato verso i fini, riflu- tando così di considerare i
mezzi come una dimensione incompiuta della vita pratica. In questa linea
si collocano le analisi di John Dewey nella sua Theory of Valuation (1939,
La teoria della valutazione) che ha insistito nel richiamare l'attenzione
sul processo mediante il quale gli stessi mezzi possono trasfor- marsi in
fini e nel mettere quindi in crisi una concezione che vede i fini come un
risultato finale, per sostituirvi una prospettiva che nella condotta
umana trova un conzinuute di azioni che da mezzi si trasformano in fini
che a loro volta si trasformano in mezzi ecc. Dall'altra parte vi sono
stati teorici che hanno concepito il conseguenzialismo come
autosufficiente laddove non si considerino i fini come valori intrinseci
o valori in sé, ma piuttosto come va- lori estrinseci. Il valore
intrinseco nell'etica. — Dal punto di vista normativo le di- verse etiche
possono essere differenziate anche sulla base del ricorso o meno alla
nozione di valore intrinseco. La nozione di valore intrinseco trova un
uso centrale nell’etica di Moore, ma anche ad esempio sul versante
fenomenolo- gico nell'opera di F. Brentano e poi di Max Scheler (Scheler,
1944: 121-130). Nella seconda metà del XX secolo l’uso di tale nozione
nella teoria etica è stato più volte fatto oggetto di critiche in particolare
da pensatori pragmatisti {su questa discussione è da vedere G. Pontara,
1974, che presenta anche una difesa dell’uso in etica di tale nozione).
Vi sono stati altresì tentativi di de- lineare una nuova
caratterizzazione della nozione ad esempio da parte di R. Nozick (Nozick,
1987). La nozione di valore intrinseco è legata al tentativo di
dare all’etica una dimensione oggettiva. Infatti in questo senso Moore
(1964) collegava la no- zione di valore intrinseco con quella di «unità
organica». Le cose fornite di valore sono uniche in quanto presentano una
unità organica che non è defini- bile riducendo l’intero alle sue parti.
In questo senso il valore intrinseco è la contropartita a livello
ontologico della tesi gnoseologica che riconosce nel bene una qualità del
tutto unica, semplice e indefinibile. D'altra parte il rife- rimento al
valore intrinseco fa sì che si consideri il bene come qualcosa che viene
conosciuto come presente nel mondo oggettivo e non già come un modo di
sentire soggettivo. In questo senso Moore riteneva che le proprietà
etiche avessero una loro realtà e sussistessero indipendentemente
dall'essere percepite, La tesi che vi sono degli interi
forniti di valore intrinseco (come ad esem- pio per Moore le relazioni
personali e le cose belle) permette di identificare il normativo e
l'etico con qualcosa che ha uno statuto peculiare e che dunque non può
essere ridotto a nessuna altra realtà. La posizione che ammette l’esi-
stenza del valore intrinseco nega che ogni azione possibile sia fornita solo
di valore estrinseco e strumentale e che possa essere sostituita da
qualsiasi altra azione. La concezione del valore intrinseco si accompagna
dunque all’elabo- razione di una teoria normativa che riconosce l'autonomia
dell’etica e ritiene anche che vi sia un modo compiuto e definitivo per
fondare le conclusioni dell'etica. Anche Nozick (1987) usa la
nozione di valore intrinseco come mezzo teo- rico per arrivare a
riconoscere alle realtà al centro dell'etica un'oggettività e una forza
vincolante indipendenti dalle motivazioni individuali. Nozick, come
Moore, collega la nozione di valore intrinseco con quella di unità organica
e anzi propone una gerarchia delle realtà sulla base del diverso grado di
valore intrinseco, nel senso che sarà fornito di maggiore valore
intrinseco quell’inte- ro che connette in modo più organico, ovvero più
stretto e unitario, un maggiore numero di parti differenti. In questo
senso la nozione di valore intrinseco secondo Nozick può essere attribuita
a un gran numero di esseri e permette misurazioni e graduazioni. La
moltiplicazione di esseri forniti di valore intrinseco nella teoria etica
di Nozick è confermata dalla tesi che questo valore può essere creato o
costituito (in quanto «valore contributivo» alla totalità di valore
intrinseco già esistente nel mondo). Nozick poi delinea una precisa lista
di realtà fornite di valori, suggerendo che in particolare sono le
persone e i sé ad avere una maggiore quantità di valore intrinseco e a
poterne creare di nuovo. Riprendendo la gerarchia degli esseri della
tradizio- ne aristotelico-tomistica Nozick indica nella persona umana il
vertice tra le realtà fornite di valore intrinseco nel senso che i sé
personali possono sceglie- re di costituire unità organiche molto
originali e strette, unificando l’insieme molto differenziato di parti
rappresentato dal fluire delle loro vite. Nozick sembra dunque essersi
impegnato a riproporre su una base laica e empiristica la concezione
religiosa e spiritualistica che indicava negli esseri personali realtà
fornite di un valore intrinseco e non sottoponibili a una valutazione
strumentale. Un'etica che faccia uso della nozione di valore
intrinseco va incontro alla difficoltà di coinvolgere chi la sostiene in
una serie di pretese metafisiche dif ficilmente accettabili una volta
sottoposte a controllo empirico. Così nel caso di Moore la nozione di
valore intrinseco in definitiva rinvia a una struttura essenziale e
sostanziale delle cose buone che può essere direttamente cono- sciuta
solo ricorrendo a una intuizione niente affatto empirica. Nozick riesce
in parte a depurare la sua utilizzazione della nozione di valore intrinseco
da queste implicazioni ontologizzanti e metafisiche in quanto colloca
tutta la sua teoria non già su di un piano fondazionale, ma piuttosto su
quello esplicativo, Ma procedendo per questa strada non si capisce più
perché sia strettamente necessario usare in etica la nozione di valore
intrinseco. Infatti se rale nozione viene introdotta solo per spiegare
alcune assunzioni e intuizioni che si dà per scontato siano presenti nel
nostro modo di vivere la dimensione etica, po- tremmo rifiutarla negando
di trovare in noi tali assunzioni e intuizioni, oppure sottoponendo le
assunzioni e intuizioni presupposte a una critica che ne fac- cia
risultare l’artificiosità e l’inaccettabilità. La nozione di valore
intrinseco può avere un suo uso nel campo dell’este- tica quando si
tratta di spiegare il valore di cui una certa opera d’arte come un tutto
è fornita, valore che non è riconoscibile nelle diverse parti che la
costituiscono. Ma sembra difficile accettare come pacifica un'estensione
di tale nozione alla vita morale, In realtà affermando
l'imprescindibilità dell'etica dalla nozione di valore intrinseco si
ripropone sotto una nuova forma l’obie- zione che contro le concezioni
conseguenzialiste muove chi fa appello all’ineliminabilità dei principi. Il
sostenitore dell'etica dei principi rimarca che la considerazione delle
conseguenze esige comunque una loro valutazione ticorrendo a principi. In
modo analogo chi ritiene ineliminabile dall’etica l’uso della nozione di
valore intrinseco rimarca che una considerazione etica in termini di
valore strumentale rinvia sempre a qualcosa che è fornito invece di
valore intrinseco 0 finale. Con questo lessico la critica al conseguenzialismo
si carica di allusioni ontologiche, metafisiche e oggettivistiche che è
difficile possano avere un riscontro sul piano dell’analisi
empirica, L'etica giusnaturalistica e la legge naturale. Passando al
piano più sostantivo un'etica normativa chiaramente identificabile è
quella giusnaturali- stica o della legge naturale. Abbiamo già avuto modo
(cfr. $ 3.4) di sostenere come il giusnaturalismo e la concezione della
legge naturale vadano incontro a profonde difficoltà epistemologiche, ma
resta fermo che anche nel corso del XX secolo — benché con minore fortuna
che nel passato — sono riconosci- bili dei sostenitori di un concezione
giusnaturalista o della legge naturale (ad esempio Finnis, 1983), Si
tratta di quella posizione etica che ritiene che gli uomini hanno per
natura determinati doveri e obblighi e che tali doveri e ob- blighi siano
determinabili prima e indipendentemente dal costituirsi di qual- siasi
istituzione giuridica o politica. La tradizione giusnaturalistica
ha avuto, dopo la presentazione da parte di Tommaso d’Aquino di un’etica
cristiana della legge naturale, una ripresa e una formulazione
sistematica nel corso del XVII secolo da parte di autori come Grozio e
Pufendorf. La concezione della legge naturale è stata poi varie volte
ripresentata nei secoli successivi e tuttora costituisce l'etica
prevalente nelle visioni cristiane e religiose. Le concezioni della legge
naturale ruotano intorno al riconoscimento di una serie di obblighi e di
doveri propri della na- tura umana. Proprio conseguentemente a questo
riconoscimento i teorici della legge naturale fanno ampio uso del
linguaggio dei diritti, anzi possiamo ritenere che la diffusione nell'età
moderna e contemporanea di tale linguaggio sia una ricaduta del
giusnaturalismo del XVII secolo. Va però sottolineato come sia del tutto
differente il ruolo che i diritti hanno nelle concezioni giu-
snaturalistiche rispetto a quello che essi hanno nelle teorie etiche dei
diritti propriamente dette. Infatti i diritti affermati da un'etica
giusnaturalistica non sono mai illimitati e assoluti, ma trovano una
delimitazione nell’obbligo o dovere che occorre comunque rispettare
facendo valere il proprio diritto. Le diverse classificazioni dei diritti
rinviano quindi a un contesto di leggi, doveri e obblighi che resta
primario. I teorici della legge naturale concordano nel ritenere
che gli uomini in quanto tali hanno tutta una serie di diritti e doveri paralleli:
ad esempio, l’esi- stenza di un diritto alla vita da parte di qualcuno sì
accompagna al dovere del rispetto della vita di costui da parte degli
altri. Tra gli obblighi più frequente- mente richiamati dai teorici della
legge naturale ricordiamo i doveri verso se stessi, i doveri verso gli
altri (distinguendo in questo ambito tra i doveri verso i propri
familiari e i doveri verso i propri concittadini) e i doveri verso Dio. I
doveri verso se stessi sono spesso identificati con tutta una serie di massime
di tipo prudenziale, sulla base di un più generale principio che
considera la vita umana — più specificamente la propria vita — come non
disponibile. All’in- terno del quadro delle etiche giusnaturalistiche
infatti il suicidio è general mente considerato inaccettabile.
Per quanto riguarda poi la dimensione dei doveri verso gli altri una
prima proposta è quella che distingue tra i doveri in senso più stretto
nei confronti dei propri familiari e i doveri in senso più generale verso
i propri simili. Un'altra distinzione ricorrente tra i teorici del
giusnaturalismo è quella tra doveri perfetti e imperfetti. Ci si trova di
fronte a doveri perfetti laddove a questi doveri non si può disattendere
in quanto sono legati a un corrispon- dente diritto da parte degli altri
e dunque con una qualche codificazione. Così in questa classe rientra il
dovere di non ledere gli altri o di ottemperare a una promessa o patto
sottoscritto. Nella nozione di lesione si fa spesso rientrare non solo il
danno fisico, ma anche il danno relativo ai beni ovvero alla proprietà.
Vi sono invece tutta una serie di doveri imperfetti: essi riguardano
azioni che non siamo sempre tenuti a realizzare perché gli altri non le
possono pretendere da noi come un loro diritto (ad esempio le azioni mosse
da generosità 0 beneficenza); oppure si tratta di doveri speciali legati
al partico. lare posto che si occupa, ovvero al ruolo professionale, o al
ruolo nella famiglia (padre, madre, figlio ecc.), o alla carica che si
ricopre nella società. Non mancano tentativi fatti dai teorici della
legge naturale specialmente nel XVII secolo con Grozio, Pufendorf,
Althusius e Thomasius (Bobbio, 1980) di esporre in forma compiuta e
sistematica tutto il codice di obblighi e doveri. I teorici
della legge naturale riconoscono uno statuto del tutto peculiare al
dovere nei confronti del governo o dello Stato, ovvero al dovere di obbe-
dienza 0 lealtà nei confronti delle leggi del proprio paese. Ma proprio la
rifles- sione intorno a questo dovere, alla sua assolutezza o ai suoi
limiti, segna nel corso del XVII secolo il processo di crisi per l'etica
della legge naturale. In- fatti Hobbes mette in luce la difficoltà di
conciliare all'interno di un'etica della legge naturale due distinte
esigenze entrambe considerate essenziali: da una parte il dovere di
obbedienza al governo e dall'altra un qualche diritto a resistere al
governo ingiusto. Hobbes indicava la soluzione nel rimettere al governo
attraverso il patto tutti i diritti e dunque complessivamente anche il
diritto di resistenza, lasciando però all'individuo la possibilità di salvare
con la fuga la propria vita quando in pericolo. La concezione
giusnaturalistica dunque è entrata in crisi non solo sul piano epistemologico
(cfr. $ 3.4), ma anche per la sua incapacità di fornire soluzioni
pratiche effettive ai problemi etici che di volta in volta si sono pre-
sentati agli uomini. Quanto più le condizioni di vita degli esseri umani
sono andate collocandosi in un ambiente artificiale, tanto meno il
richiamo alla na- tura è risultato decisivo e chiaramente comprensibile.
Non solo il dovere di resistenza del cittadino nei confronti dei governi
ingiusti o delle guetre ingiu- ste è risultato inderivabile da una
presunta legge naturale, ma molti dei doveri a cui rinviava la legge
naturale sono apparsi desueti o inutili o lacunosi quando le condizioni
di vita si sono andate trasformando radicalmente nel corso di un processo
di civilizzazione che ha segnato il prevalere di condizioni artificiali
di vita. Si pensi, ad esempio, alle profonde trasformazioni che hanno
subito le relazioni familiari. Da queste trasformazioni deriva la vuotezza
di quelle concezioni che pensano di potere risolvere i conflitti facendo
appello a ciò che è naturale. Le questioni legate alle relazioni
familiari o ai rapporti tra i sensi non trovano certo più una soluzione
ovvia e condivisa rinviando a una presunta famiglia naturale ideale o a
un comportamento appropriato e lode- vole secondo un qualche modello naturale
di padre, madre, figlio e dei rispet- tivi doveri. Ancora, per cogliere
le difficoltà a cui va incontro il giusnaturali- smo si pensi come al suo
interno sia arduo trovare risposte per i problemi che nascono con le
nuove professioni o le nuove responsabilità etiche (pensiamo a chi si
occupa di gestione o trasmissione delle informazioni o delle immagini, o a chi
si occupa di terapia delle malattie mentali). L'etica della legge
naturale pretende di trovare nella natura umana da sempre e per l'eternità
doveri e diritti relativi a condizioni e situazioni che solo cinquant'anni
fa erano inimmaginabili. Né una riduzione a una presunta essenza della
condi- zione umana può risolvere queste difficoltà in quanto per questa
via le norme ricavate dalle leggi naturali si presentano con una
formulazione tanto astratta e generica da risultare del tutto inefficaci.
Proprio perciò la tradizione giusna- turalistica si è andata sempre più
svuotando della sua forza pratica e l'appello alla legge naturale è divenuto
solo uno strumento retorico e ideologico, unito alla reiterazione di
regole (spesso del tutto incapaci di guidarci) molto gene- rali quali
«non uccidere», «non rubare» ecc. 44. L'etica contrattualistica e
le sue forme. — Il contrattualismo come teoria etica fu elaborato
inizialmente nel corso del XVII secolo proprio come superamento del
giusnaturalismo cristiano e medievale. La possibilità di indi- care nella
natura umana un fondamento adeguato per l’etica veniva messa in crisi da
Hobbes indicando la completa assenza, nella natura originatia degli
uomini, di tendenze che rendessero possibili la pace, l'ordine e la
coopera- zione sociale. Proprio in quanto la natura umana immaginata in
uno «stato di natura» è incapace secondo Hobbes di dare fondamento alla distinzione
tra il bene il male, tra il giusto e l'ingiusto, queste distinzioni vanno
collegate a una procedura artificiale che coincide con il contratto. Il
contratto fu am- piamente usato nel corso del XVII secolo come criterio
etico decisivo da autori — molto diversi tra loro — come Hobbes,
Pufendorf, Spinoza e Locke {Gough, 1986). Un tratto tipico
comune del contrattualismo del XVII secolo sta nel fatto che il contratto
è presentato come un criterio che può riuscire a fondare solo una parte
del contenuto dell'etica — quello che ha a che fare con le leggi
giuridiche e con le istituzioni politiche —, ma non la totalità dell'etica e
în particolare non può rappresentare un criterio adeguato per fondare la
morale nel senso stretto in cui ne trattiamo in questo scritto. Proprio
perciò i teorici nel XVII secolo, al di lì dello spazio garantito dal
contratto, rinviano a una diversa base come fondazione per la morale
propriamente detta. Ad esempio nella teoria di Hobbes troviamo che o —
secondo la maggior parte dei suoi interpreti — vi è una completa assenza
di morale nello stato di natura e prima del patto che dà vita all’ordine
civile, oppure — ad esempio secondo H. War- render (1974) — la morale
viene fatta dipendere dagli ordini di Dio, o infine — ad esempio secondo
Bobbio (1989) — la si fa dipendere da un calcolo prudenziale. Pufendorf e
Locke invece ritengono che il contrattualismo per quanto riguarda
l'obbligo giuridico e politico possa (e debba) essere accom- pagnato
dall'accettazione del giusnaturalismo per quanto riguarda l’obbliga-
zione morale propriamente detta. Una prospettiva che restringe la portata
della procedura artificialistica del contratio è presente anche in un
autore come Jean-Jacques Rousseau che pure indica, nel contratto sociale
(Rousseau, 1966), l’unica via per correggere le distorsioni generate
dalla corruzione pro- dotta dallo sviluppo della società e ricostituire
così condizioni etiche più con- sone alla natura degli uomini (Rousseau,
1988). Solo con il XX secolo il contrattualismo si è presentato
come criterio etico generale non ristretto alle situazioni di pertinenza
del diritto e della politica. È infatti con Rawls e la sua «teoria della
giustizia» (Rawls, 1982) che la conce- zione contrattualista viene
proposta come strategia adeguata per individuare i principi etici in
generale. Va però rimarcato che il «contrattualismo ideale» di Rawls
riesce a funzionare da criterio generale per l’etica solo in quanto si
de- linea come una procedura che ha incorporato in sé un altro requisito
ritenuto caratteristico dell’etica: quello dell’imparzialità o
dell'assunzione di un punto di vista generale. Abbiamo già indicato (cfr.
$ 3.8) i limiti del contrattualismo di Rawls per quanto riguarda le procedure
epistemologiche a cui si richiama; sul piano normativo va rilevato che
tale criterio è in grado di indicare solu- zioni — ad esempio nella
distribuzione dei beni disponibili — solo in quanto tutti coloro che sono
coinvolti accettano già alcuni vincoli. Perché la proce- dura
contrattualistica possa risultare decisiva bisogna, dunque, ritenere che
ci sia già un qualche accordo nel considerarsi cittadini di una stessa
comunità; oppure, in alternativa, bisogna ritenere che ci sia un’armonia
prestabilita (un residuo del provvidenzialismo settecentesco) che
garantisce la confluenza de- gli interessi individuali nel bene generale.
Proprio come correttivo di queste limitazioni Gauthier ha presentato una
procedura delineata come una forma di «contrattualismo reale» (Gauthier).
Questa strategia si sforza di mo- strare che un certo esito identificato
come un equilibrio di contrattazione ri- sulta per tutti coloro che sono
coinvolti più conveniente in termini di soddi- sfazioni personali. Resta
però da dire che in questo caso il criterio etico deci- sivo sembra
presentarsi — al di lì del contratto — in una sorta di «egoismo
razionale» che accetta i vincoli di una contrattazione come mezzo
migliore per l'ottimizzazione di risultati anche dovendo fare conto su
eventuali soste- gni o ostacoli da parte degli altri (cfr. $ 3.3).
In generale dunque il contrattualismo presenta un criterio normativo
che non è in grado di esaurire nella sua interezza lo spazio dell'etica,
ma che ha bisogno di rinviare a criteri aggiuntivi (imparzialità o
egoismo razionale) ove lo si voglia fare valere al di là del piano
giuridico e politico. Un'etica dei diritti. — Anche l'etica dei diritti si
è andata svilup- pando nella cultura moderna e contemporanea come un
correttivo della con- cezione giusnaturalistica. Una prima fase
dell'etica dei diritti nel corso del XVII secolo fu la via attraverso la
quale si cercò dì garantire la sfera di auto- nomia delle persone nei
confronti dell'intervento della legge e del potere po- litico. I diritti
che vengono fatti valere sul piano etico si presentano dunque
prevalentemente come diritti negativi e di libertà contro l’ingerenza di un
po- tere esterno. Così, da una parte, autori come Hobbes e Locke si
fermarono a lungo sui diritti negativi alla autoconsetvazione e alla
proprietà dei beni ed altri autori — come ad esempio Anthony Collins
(1990) — e in generale i free-tbinkers — cercarono di far valere il
diritto alla libertà di pensiero. Il pro- cesso teso a garantire i
diritti negativi ebbe esito sul piano storico con le varie Dichiarazioni
dei diritti degli Stati Americani (1776-1789) e con la Dichiara- zione
dei diritti della Rivoluzione francese (1789; cfr. Cassese, 1988).
Nel corso del XIX secolo e nella prima metà del XX vi è stata una
conte- stazione della teoria etica dei diritti, da una parte dagli
utilitaristi sul piano epistemologico e, dall'altra, dai marxisti sul
piano di una critica storico-so- ciale. Ma — come rileva Brenda Almond
(Almond, 1991} — una ripresa del- l'etica dei diritti si è avuta dopo la
seconda guerra mondiale in particolare come reazione alla soluzione
finale e al penocidio voluto dai nazisti. Si è così assistito a un
progressivo ampliamento dell'etica dei diritti fino al punto che Bobbio
ha potuto indicare come adeguata per la nostra epoca l’espressione di
«età dei diritti» (Bobbio, 1990). Infatti più recentemente hanno fatto
ricorso al linguaggio dei diritti anche quelle concezioni che in
precedenza lo avevano criticato, come ad esempio l’utilitarismo — che
l'aveva riftutato come del tutto privo di sensatezza — o l'etica
cattolica — che l’aveva attaccato come espressione del trionfo di una
mentalità moderna anarchica e priva di eticità. Nella seconda metà del
secolo XX si è altresì assistito a una espansione della sfera dei diritti
affermati come degni di salvaguardia. Infatti la più recente etica dei
diritti non si limita più a rivendicare i tradizionali diritti negativi
ma ha esteso le pretese anche a tutta una serie di diritti cosiddetti
positivi (ad esempio alla salute, all'educazione, ad un lavoro ecc.). Ma
in questa sede non possiamo limitarci a prendere atto della larga
diffusione a livello di opinione pubblica del linguaggio dei diritti;
dobbiamo piuttosto impegnarci a identifi- care e valutare criticamente le
concezioni teoriche che hanno visto nell’affer- mazione dei diritti il
criterio etico fondamentale. Nel corso del secolo XVII laddove i
sostenitori della legge naturale prefe- rivano richiamare sul piano etico
il primato dei caratteri essenziali della na- tura umana intesi in modo
complessivo, o per così dire olistico, i sostenitori di un'etica dei
diritti — pur conservando la convinzione di una legge naturale o divina
che fonda in modo assoluto l’etica — facevano proprio — sia pure in modo
grezzo e schematico — il quadro teorico dell'individualismo metodolo-
gico. Muovendo da questa prospettiva, almeno per una parte della storia
del- l'etica dei diritti possiamo accettare il quadro esplicativo
proposto da autori come L. Strauss (1990) e C. B. Macpherson (1973) che
identificano questa sto- ria con quella della lotta di una nuova classe
in ascesa — la borghesia 0 ceto medio, ovvero il ceto di produttori — per
giungere a un ticonoscimento delle sue esigenze da parte della legge o del
potere politico. Dunque una prima fase dell'affermazione dei diritti fu
rivolta a far valere pretesi diritti naturali degli uomini contro lo
strapotere della legge e dello Stato. Si tratta di quella fase che
possiamo ritenere conclusa con le Rivoluzioni americana e francese in cui
si affermano i diritti negativi alla vita, alla libertà, all'autonomia, alla
resi- stenza, alla proprietà ecc. In questo quadro, oltre ai teorici del
liberalismo settecentesco, possiamo collocare anche autori che, come Rousseau,
sono im- pegnati a recuperare una serie di esigenze naturali degli uomini
contro le li- mitazioni progressivamente delineatesi nella storia della
corruzione umana. Nel corso del XX secolo invece i fautori
dell'etica dei diritti hanno cer- cato, sempre su un piano morale o
pregiuridico e prepolitico, di argomentare a favore del riconoscimento di
una serie di esigenze minime che gli esseri umani avrebbero in quanto
tali e che le collettività dovrebbero garantire con le loro istituzioni e
forme di vita organizzate. Tra questi diritti positivi rien- trano ad
esempio quelli alla salute, al lavoro, a una casa o più genericamente
alla liberazione dalla povertà o addirittura al benessere o alla felicità.
Laddove nella prima fase erano i diritti dell’individuo o del cittadino
che si cercava di considerare come criterio decisivo dell'etica, nella
fase più recente si pren- dono a guida piuttosto i diritti della persona
umana più ampiamente intesa. Va però rilevato che ci si trova di fronte a
una sorta di contrasto 0 incompa- tibilità tra l'affermazione dei diritti
negativi e quella dei diritti positivi. Come ha più volte sottolineato
Bobbio (1990) l'espansione dei programmi di difesa dei diritti sociali o
positivi (a parte le difficoltà di concordare una lista precisa dei
diritti da includere in questo programma e di convergere su una loro ge-
rarchia) non può che essere realizzata dando al potere politico e giuridico
una qualche autorità per limitare eventualmente i diritti negativi
individuali che, se illimitati, non permettono il raggiungimento per
tutti i membri di una so- cietà dei diritti sociali. Dal
punto di vista teorico nel nostro secolo l'appello ai diritti è stato
col- legato, sul piano fondazionale, non solo con la legge naturale, ma
anche con altre strategie etiche. Non è mancato chi ha cercato di fondare
i diritti in un quadro generalmente contrattualistico (ad esempio Rawls,
1982), o di recupe- carne un qualche riconoscimento anche in un quadro
utilitaristico (ad esem- pio Hare, 1989), anche se in queste concezioni i
diritti non hanno più una collocazione primaria e originaria ma solo un
ruolo sussidiario e derivato. Non sono poi mancate profonde divaricazioni
per quanto riguarda il tipo di tradizione etico-politica al cui interno
sono state calate le affermazioni dei di- ritti. Da una parte si è fatto
ricorso alla tradizione liberale che ha piuttosto insistito sui diritti
negativi degli individui nei confronti della società civile e spesso
contro lo Stato (così da I. Berlin, 1989, fino alle posizioni anarchiche
di R. Nozick, 1981). Dall'altra si colloca la strategia — che ha trovato
espres- sione nei movimenti democratici e socialisti e in forma più
totalitaria nei re- gimi comunisti — che in nome della realizzazione dei
diritti sociali dei citta- dini ha proposto limitazioni più 0 meno estese
delle libertà negative. Una storia del progressivo espandersi e
modificarsi delle rivendicazioni dei diritti può essere una strada molto
fertile per ripercorrere la storia della mo- rale e del costume sociale
nelle società occidentali, ma non permette di arri. vare a identificare
un preciso criterio etico. In questa direzione già Bentham mostrava le
fallacie e le insufficienze di una teoria etica dei diritti che a suo
parere non poteva che confluire in un'etica della legge naturale e dunque
in una forma di etica autoritaria o dell’ipse dixit {Bentham, 1981).
Un'alternativa alle concezioni giusnaturalistiche che può essere percorsa
dall’etica dei diritti è quella che, secondo alcuni interpreti, sarebbe
propria di Hobbes, il quale identifica i diritti con le prerogative che
ciascuno individuo si trova di fatto ad avere a ragione delle sue
condizioni storiche, del suo status sociale, delle sue capacità, forza
ecc. Una impostazione che però rende praticamente impossi- bile un
qualche bilanciamento dei titoli che qualsiasi individuo può far valere
come decisivi. Ovviamente si presentano qui come insolubili pretese
conflig- genti di diritti in una condizione come quella umana nella quale
per la scarsità delle risorse e i vincoli emotivi degli esseri umani non
sono contemporanea- mente soddisfacibili tutte le esigenze di
tutti. L'etica dei diritti manifesta la sua maggiore inadeguatezza
sul piano critico e teorico proprio nella seconda metà del XX secolo,
quando realizza il mag- giore successo dal punto di vista della sua
diffusione come forma di discorso prevalente nell'opinione pubblica.
Infatti proprio in questo periodo vi è stato un fiorire di nuovi diritti
ed un indubbio processo di democratizzazione (ov- vero di allargamento
della base di coloro che avanzano le pretese di diritti), fenomeni che
ben lungi dal risolvere problemi etici ne hanno fatto sorgere di nuovi.
Abbiamo assistito, proprio come conseguenza del prevalere della forma di
rivendicazione etica che fa appello ai diritti, a un riacutizzarsi
dei contrasti in campi quali quelli della nascita, della morte, della
cura, dell’am- biente, del trattamento degli animali, della
considerazione delle generazioni future ecc. Da un punto di vista
puramente descrittivo — e lasciando sospeso il giudizio di merito su
questi fenomeni — si può rilevare una crescita espo- nenziale di nuovi
soggetti di diritti e di diritti che ciascun soggetto avanza con la
pretesa che siano riconosciuti da tutti e salvaguardati dalle istituzioni
poli- tiche e giuridiche. Dietro questo diffondersi delle pretese ai
diritti, invece, da un punto di vista teorico e fondazionale restano
valide le strategie del passato con cui si era già cercato di
giustificare il primato dei diritti presentandoli, di volta in volta,
come una pretesa di verità (White, 1984), uno strumento emo- tivo
particolarmente persuasivo (Hagerstròm, 1953), una sorta di «asso di bri-
scola» (Dworkin, 1982), un titolo richiamato come valido (Nozick, 1981),
Ma il tentativo di costruire una qualche etica dei diritti come
risolutiva va incon- tro a difficoltà insuperabili quando si tratta di
fornire criteri sicuri per deci- dere quali nuovi diritti riconoscere effettivamente
come meritevoli di codifi- cazione giuridica o di tutela morale. Non
diversamente, il contesto teorico dell'etica dei diritti non è in grado,
di fronte a casi concreti, di offrire una strada argomentativa per
superare contrasti e conflitti proprio relativamente a diritti da
riconoscere convergentemente. Per questi suoi limiti epistemologici
l’etica dei diritti si presenta, più che come una teoria valida e coerente,
come una retorica pubblica largamente usata oggi nella nostra
cultura. 4.6. L'etica kantiana e la persona umana. — Un modello
del tutto pecu- liare di etica normativa è quello che si trova negli
scritti di Kant. Come ha sottolineato Frankena, nel caso di Kant ci
troviamo di fronte a una ben pre- cisa forma di «deontologismo della
regola» {Frankena, 1981). L’universalità richiamata dall’etica kantiana
si collega, su un piano epistemologico, con una forma di intuizionismo
che attraverso la via del trascendentalismo sfocia in un realismo etico
che esclude la possibilità di conciliarlo con una meta-etica non-
cognitivistica. Va così rifiutato il tentativo di Rawls {Rawls, 1980) di
trovare in Kant un'etica sostanzialmente costruttivistica e puramente
procedurale. La legge etica di fondo dell’etica kantiana — ovvero
l'imperativo catego- rico «agisci in modo che la massima della tua
volontà possa valere nello stesso tempo come principio di una
legislazione universale» (Kant, 1970a: 167) — si presenta come decisiva e
capace di indicare le soluzioni dei diversi conflitti e disaccordi etici.
Ma è proprio questo universalismo dell’etica di Kant che è stato più
frequentemente criticato. L'etica kantiana si presenta secondo i cri-
tici come una mera etica della coerenza formale e propria di una volontà
che per rendersi il più universale possibile si depotenzia, si svuota di
contenuti e si rende del tutto incapace di incidere in qualche modo sulle
effettive opzioni presenti nelle situazioni reali. La
comprensione della proposta etica kantiana passa attraverso una più
precisa individuazione della natura dell'imperativo categorico. In Kant
si tratta di una massima che è universalizzabile solo se può essere
voluta senza contraddizione come legge universale, cioè se e solo se
qualcuno può volere, senza incoerenza nella volontà, che ognuno adotti
questa massima e agisca secondo essa. L’universalizzabilità in questo
senso «è la prova dell’accettabi- lità morale di una massima dell’azione
e conseguentemente della condotta» (cfr. M. G. Singer, 1985: 55). Per
Kant l’universalità è un principio morale e come tale non ha molto a che
fare con l’universalizzabilità che Hare riconosce come carattere proprio
dei giudizi morali, in quanto tale carattere, almeno nelle prime
affermazioni che ne fa Hare (cfr. $ 2.6), si presenta come una tesi sulla
logica del discorso morale. Ma per rendere conto adeguatamente
dell’etica normativa kantiana non ci si può limitare alla componente
universalistica. Vi sono altri tratti che la ren- dono storicamente
riconoscibile, e almeno altre due tesi ne rappresentano il nucleo
essenziale: il complessivo approccio rigoristico a preferenze, desideri e
passioni umane; l'affermazione della centralità morale della persona.
Nel caso dell’etica kantiana la legge morale e gli imperativi categorici
na- scono proprio negando — in nome della libertà — interessi egoistici e
desi- deri individuali e non già rendendo possibile, con il fare valere
punti di vista imparziali e generali, una loro conciliazione. Uno degli
aspetti caratteristici dell'etica normativa kantiana sta nel riprendere
il discorso delle etiche asceti- che cristiane che indicavano
un'incompatibilità tra la ricerca del proprio be- nessere e il piano
morale. In questa linea l’etica kantiana non si spinge solo a fissare una
distinzione tra il cosiddetto piano prudenziale e il piano etico, ma
procede fino a prescrivere la salvaguardia di un piano morale che nega
recisa- mente — contrapponendovisi — tutta l'impostazione delle etiche
eteronome che fanno del benessere il fine delle azioni umane. Proprio in
questo senso l'etica di Kant si presenta come un'etica del dovere e della
scelta responsabile e razionale della legge universale, in contrasto con
qualsiasi tendenza a consi- derare la felicità individuale come obiettivo
finale dell'etica. La posizione kan- tiana si presenta, dunque, come del
tutto alternativa rispetto a quella fatta va- lere sempre più decisamente
nella tradizione empiristica — da Hume all’uti- litarismo, al
prescrittivismo universale — secondo la quale solo desideri, sentimenti e
preferenze sono in grado di motivare le scelte (etiche o non eti- che) e
la ragione invece risulta inefficace su questo piano, Non bisogna per
dere di vista questa componente dell'etica kantiana che rende del tutto
eccentrici aleuni tentativi contemporanei — ad esempio quelli di J. Rawls e R.
M, Hare — di conciliare l’universalismo kantiano con un bilanciamento dei
desi- deri e delle preferenze effettive di coloro che sono
coinvolti. Kant rifiutava tutte quelle etiche che facevano discendere
la determina- zione della moralità da motivi diversi da quelli
propriamente etici. La sua teo- ria è del tutto in linea con
l'affermazione nella cultura moderna e contempo- ranea dell'autonomia
della morale. In particolare Kant rifiutava come etero- nome tutte quelle
etiche che assimilavano il bene morale a qualcosa che dipendeva o
dall'educazione (Montaigne), o dalle leggi civili (Mandeville), o dal
sentimento fisico (Epicuro), o dal senso morale (Hutcheson), o dalla per-
fezione oggettiva (Wolff e gli stoici), o dalla volontà di Dio (Crusius e
altri moralisti teologici; Kant, 1970a: 178). Secondo Kant l’amore di sé,
i senti- menti e le preferenze personali non sono in grado di costituire
il punto di vista morale: laddove l’azione è motivata da questi scopi
essa è chiaramente eteronorna e dunque non morale. Solo una legge della
ragione può motivare autonomamente. Nel primo caso si hanno solo
imperativi ipotetici e precetti prudenziali, mentre nel secondo caso si
giunge agli imperativi categorici mo- rali nella loro peculiarità.
La concezione etica kantiana infine riconosce un posto centrale alla
per- sona. Kant presenta una caratterizzazione della persona umana in
termini es- senzialistici e semplici ovvero come qualcosa che ha una sua
realtà sostanziale continua e inconfondibile {tra l'altro che sopravvive
alla stessa morte}, anche se questa realtà sfugge alia nostra conoscenza
e si presenta come collocata sul piano noumenico. Ecco ad esempio una
definizione dell’essere umano, non priva di implicazioni assiologiche,
offerta da Kant nella Axtoropologie in prag- matischer Hinsicht abgefasst
(1798, Antropologia dal punto di vista pragmati- co): «Che l’uomo possa
avere una rappresentazione del proprio io, lo innalza infinitamente al di
sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Perciò egli è una
persona e, grazie all'unità della coscienza in tutti i mutamenti che
subisce, una sola e stessa persona» (Kant, 1970a: 547). Malgrado alcune
limitazioni epistemologiche nell’affermazione di un personalismo
essenzialistico Kant considera decisamente come tratto definiente della
persona umana — che è l'unico soggetto-oggetto dell'universo morale — la
sua razionalità. La centra- lità della nozione di persona nell’etica
kantiana risulta esplicita in una delle formulazioni dell'imperativo
categorico che suona: «agisci in modo di trattare l'umanità nella tua
persona come nella persona di ogni altro sempre come fine e mai soltanto
come mezzo» (Kant, 19704). Proprio sulla base della persona è fondata la
tavola dei doveri presentati in Die Merapbysik der Sitten (1797, La
metafisica dei costumzi). Kant riprendeva le distinzioni avanzate dai
giusnaturalisti (in particolare Pufendorf e Thomasius) tra doveri positivi e
negativi (che si intreccia con quella tra doveri verso Dio, verso gli
altri e verso se stessi), riformulandola come una distinzione tra doveri
perfetti {quelli verso se stessi stabiliti da massime universali per le
quali persare un'eccezione equivale a una contraddizione) e doveri
imperfetti (doveri verso gli altri in cui la contraddi- zione si presenta
laddove vogliazzo un'eccezione) (Kant, 1970b: 269-374). Le critiche
alla concezione kantiana dell'etica sono state mosse lungo di- verse
linee. Ricordiamo quelle che ci sembrano più decisive: la mera forma
dell’universalità o è vuota 0 può essere soddisfatta dalla coerenza e
fedeltà verso qualsiasi valore anche negativo; l’uso dell'autonomia
dell’etica in chiave rigidamente rigoristica rende del tutto astratta e
ininfluente la norma kantiana che non potrà includere nessuno dei
desideri effettivi di esseri umani concreti. Inoltre, l'ancoraggio
dell'etica da parte di Kant alla persona razionale com- porta per la sua
prospettiva alcuni limiti: non può essere estesa a rendere conto di
situazioni etiche in cui siano presenti esseri non razionali (animali,
ambiente ecc.); resta pur sempre un residuo di colorazione egoistica in
una prospettiva che si muove esclusivamente in un contesto di persone in
qualche modo distinte e separate l'una dall'altra. Quest'ultima critica è
stata fatta va- lere in particolare da Parfit (1989). La tesi è che solo
un quadro concettuale che — come quello elaborato da Parfit — dia una
spiegazione riduzionistica e complessa per quanto riguarda la natura
dell'io e della persona potrà permet- tere di non considerare le singole
persone umane come unità di misura finale pes l'etica. Dunque solo chi
sappia liberare la morale dai confini ontologici della persona umana
potrà porre le basi per la costruzione di un'etica effetti- vamente
universalistica e altruistica. 4.7. Le etiche utilitaristiche. —
Una concezione etica molto diffusa e for- tunata è quella utilitaristica.
Si può trovare un appello generico all’utilità come criterio di scelta
etica in molti pensatori dall’antichità ai giorni nostri. Ma prendendo in
esame l’utilitarismo propriamente detto facciamo riferi- mento a quelle
concezioni che riprendono da Bentham lo sforzo di svilup- pare, in
termini precisi e rigorosi, un criterio di scelta e valutazione morale
con al centro l'utilità, a sua volta definita ricorrendo a nozioni quali
piacere- dolore, felicità-infelicità, soddisfazione di preferenze ecc. La
storia dell’utilita- rismo, anche in questo senso più stretto e
determinato, è molto ampia e non si può qui ripercorrerla se non in modo
sommario limitandosi a delineare alcuni dei filoni principali in esso
riconoscibili. Nel rendere conto delle varie forme di utilitarismo
proviamo a differen- ziarle sulla base della diversa caratterizzazione
che viene offerta della nozione del bene che alla fine si deve ottenere.
La nozione di utilità è, infatti, sempre ricondotta ad una più
determinata nozione di bene che identifica con più precisione in che cosa
risiede l'utilità che va massimizzata. Un'altra linea di distinzione che
sviluppererno in questo paragrafo è quella tra le concezio- ni che
applicano il criterio utilitaristico alle singole azioni o agli atti
partico- lari e quelle che viceversa fanno valere tale criterio per le
regole o norme in generale. Occorre precisare preliminarmente
— una precisazione particolarmente necessaria in una cultura come quella
italiana in cui l’utilitarismo, ben lungi dall'essere studiato e
discusso, è aprioristicamente liquidato e stigmatizzato come una forma di
egoismo del tutto inconciliabile con la moralità (è ancora
l'atteggiamento avanzato da Alessandro Manzoni nelle sue Osservazioni
sulla morale cattolica nel 1819 a fare testo) — che l'etica
utilitaristica va tenuta net- tamente distinta dalle cosiddette
concezioni egoistiche. È tipico dei fautori dell'etica utilitarista fare
riferimento a un’utilità che non riguarda mai il sin- golo agente, ma che
riguarda — a seconda della formula privilegiata — la massima utilità
generale, l’utilità del maggior numero, l’utilità di tutti, l'utilità di
tutti coloro che sono coinvolti ecc. Si possono individuare diverse
conce- zioni dell’utilitarismo anche tenendo conto della prospettiva
sottoscritta per quanto riguarda l'universo dei soggetti da tenere
presente nel calcolo utilita- ristico. Vi è la tendenza a considerare la
massima utilità che va cercata come coinvolgente tutti coloro nei quali
può essere rintracciato il tipo di stato men- tale che va massimizzato,
che si tratti di piacere, dolore, preferenze, desideri o altro. Proprio
in questo senso è tipico dell'utilitarismo il presentarsi come una
concezione della morale che estende la sua portata anche al di là
dell’ambito delle persone umane, fino a coinvolgere tutti gli esseri viventi
in cui si trovi lo stato mentale (ad esempio la sofferenza o il piacere)
che il criterio deve mi- nimizzare o massimizzare con il corso di azione
prescelto. Già in Bentham {Bentham) era presente quell'apertura a una
considerazione etica del mondo animale che troviamo poi largamente
sviluppata nell’utilitarismo contemporaneo. Per quanto riguarda la
caratterizzazione del bene che va massimizzato una differenza classica è
quella tra concezione edonistica che distingue tra i piaceri solo su basi
quantitative e quella che riconosce differenze qualitative. Così in
Bentham troviamo sviluppata l’idea che la misurazione quantitativa del
pia- cere € del dolore è l'unico criterio in grado di dare una base
esterna, valida e pubblicamente discutibile, alle prese di posizione
etiche. Bentham quindi cri- tica tutte le etiche alternative
all’utilitarismo in quanto inclini a far valere un criterio del rutto
arbitrario in morale. La formulazione di un criterio di misurazione della
quantità del piacere, in gioco in corsi di azione che coinvolgono più
esseri senzienti, non è priva di difficoltà. Proprio sull’inadeguatezza,
ad esempio, del criterio offerto da Bentham si sono concentrate le
critiche degli avversari dell’utilitarismo. Si è rilevata tra l’altro
l'impossibilità di ridurre a una base unica piaceri diversi e
l'impraticabilità di quei confronti interperso- nali di piacere e dolore
che sarebbero necessari. Resta poi anche costante la critica che la
ricerca del solo obiettivo della massimizzazione dei risultati sem- bra
lasciare completamente da parte le esigenze di una distribuzione giusta
del bene massimizzato. Considereremo eticamente preferibile un corso di
azione che realizza un incremento della quantità di piacere, anche se
questo risultato si accompagna a una distribuzione del tutto iniqua di
tale piacere o benessere e addirittura accentua la distanza tra individui
che ottengono grandi quantità di piacere e individui che ne ottengono una
ridottissima. Dunque vi sarebbe un’opacità di fondo dell'utilitarismo
rispetto a questioni di giustizia distributiva, e più in generale a
questioni di diritti. Una diversa forma di utilitarismo fu
delineata da John Stuart Mill in Ut litarianism in parte già come
risposta a queste critiche e difficoltà del particolare edonismo di
Bentham (Mill, 1981b). Le variazioni più significative riguardano
l’introduzione di una distinzione qualitativa tra piaceri e un'insi-
stenza sul principio che ciascun individuo è sovrano nella determinazione
delle proprie gerarchie di piacere e che le sue opzioni — laddove non
procu- rino danno agli altri — vanno incorporate nel criterio
utilitaristico. Mill nei suoi scritti non si limita ad assumere come
rilevante la distinzione qualitativa tra piaceri più elevati e più bassi,
ma sviluppa anche una tecnica con l’aiuto della quale risolvere eventuali
contrasti, e ciò che più conta usa questa distin- zione per proporre
sostanziali innovazioni del costume morale a proposito del trattamento
delle donne, della questione dei lavoratori manuali, della povertà e
della scelta responsabile delle nascite. Per quanto riguarda i contrasti
relativi ai piaceri qualitativamente diversi coinvolti Mill ritiene che
essi possano essere risolti facendo appello all'opinione — che si esprime
nella discussione pub- blica con l'approvazione o la disapprovazione
morale — di coloro che cono- scono tutte le forme di piacere in gioco. La
posizione di Mill per quanto ri- guarda la distinzione qualitativa dei
piaceri è stata spesso criticata e denun- ciata come contraddittoria, in
quanto mescolerebbe due differenti criteri di valutazione (cfr.
Musacchio, 1981). Occorre ammettere che Mill presenta un’etica mista,
ovvero che unisce due diversi criteri di scelta e di decisione, ma non.va
data come ovvia e scontata l'inaccettabilità di una posizione nor- mativa
che cerchi di conciliare due distinti principi ad esempio facendoli
valere a diversi livelli etici. Ma la grande svolta nella storia
dell'utilitarismo è segnata da quel mo- mento in cui il criterio passa a
prendere in considerazione non tanto le com- ponenti del piacere e del
dolore, quanto, più genericamente, le preferenze di coloro che sono
coinvolti nelle situazioni in esame. L'utilitarismo delle prefe- renze
che si sviluppa in particolare nel secolo XX realizza uno spostamento
decisivo del criterio che non pretende più di fare riferimento a una unità
di misura comune e oggettiva quale il piacere, ma muove piuttosto
accettando come tutte di eguale valore le preferenze dei diversi soggetti
coinvolti e dun- que identificando come giusto quel corso di azione che
massimizza la soddi- sfazione delle preferenze quali che siano. Le
preferenze possono tendere verso oggetti completamente diversi e dunque
l’utilitarismo delle preferenze dispone di uno strumento di valutazione
etico più flessibile, recuperando e ampliando — in un senso ancora più
liberale e individualistico — quell’esi- genza di pluralismo fatta valere
da Mill contro il riduzionismo oggettivistico e paternalistico
dell’utilitarismo di Bentham (Harsanyi, 1988 e Hare, 1989).
L'utilitarismo delle preferenze è stato poi elaborato nel tentativo di
trovare una risposta per numerose questioni dell’etica teorica; in particolare
sono stati messi a punto criteri per distinguere preferenze di ordine
diverso, quali quelle antisociali di un sadico e quelle benevole o
altruiste. Così John Harsanyi (Har- sanyi, 1985: 75-126} ha considerato
rilevanti per l'etica solo le preferenze be- nevole considerate
imparzialmente, mentre Hare ha identificato come etica- mente
significative le preferenze universalizzabili (Hare, 1989). Infine non
sono mancati utilitaristi che hanno proposto complesse tecniche di
valuta- zione critica delle preferenze: ad esempio Brandt ha proposto di
accettare, dopo averle sottoposte a una sorta di vaglio terapeutico, le
sole preferenze razionali ovvero basate su desideri non egoistici e
pienamente informati (Brandt, 1979). Anche la storia dell’utilitarismo
mostra dunque come, a livello teorico, prevalga l’elaborazione di
concezioni miste. Nel caso specifico al cri- terio della massimizzazione
si affianca quello della selezione delle preferenze in base alla loro universalizzabilità
formale o imparzialità sostanziale. Malgrado questi tentativi di
evitare il riduzionismo, l'utilitarismo è stato insistentemente attaccato
(Smart e Williams, 1985; A. Sen e B. Williams, 1984) contestando la
legittimità di un approccio che considera come decisive le preferenze che
di fatto un certo individuo si trova ad avere. Procedendo in questo modo
l’utilitarista non terrebbe conto che le preferenze esistenti pos- sono
essere indotte dall'esterno o comunque niente affatto adeguate ai bisogni
reali degli individui che di fatto le rivelano. In particolare A. Sen (1986)
ha obiettato che la mera registrazione delle preferenze rivelate finisce
con il con- solidare le distribuzioni di beni inique di fatto già
istituzionalizzate. Gli utilitaristi hanno cercato di rispondere a queste
critiche indicando che l'esigenza della massimizzazione delle
soddisfazioni delle preferenze può essere ottimiz. zata solo laddove si
accetti l’esistenza di una soglia per ciascun individuo al di là della quale
un incremento della soddisfazione delle sue preferenze realizza risultati
meno validi di quelli realizzabili incrementando la soddisfazione delle
preferenze di individui che stanno peggio (Pontara, 1988). Nella
storia dell’utilitarismo, specialmente nel XX secolo, si è proceduto
anche su di un altro piano nel cercare un correttivo che permettesse di
fare valere nella massimizzazione una qualche regola o principio
distributivo. In questa linea si sono sviluppate ad esempio varie forme
di utilitarismo della norma © della regola. Sul piano storico vi è stata
una tendenza a considerare Bentham come un tipico esponente
dell’utilitarismo dell’atto e a trovare in- vece in Mill una posizione
che anticipa le esigenze dell’utilitarismo della re- gola o della norma (J.
Urmson, 1953). Il problema principale affrontato da questa parte della
riflessione teorica interna all’utilitarismo è stato quello della
possibilità o meno di ricondurre l’utilitarismo della regola all’utilitarismo
del- l’atto. Nel caso poi in cui si è concluso per la specificità
dell'utilitarismo della regola, la questione è stata se una teoria che fa
valere un qualche riferimento a regole, principi e norme non comporti una
fuoriuscita dal quadro conseguen- zialista proprio dell’utilitarismo (Lyons,
1965). Nella riflessione sullassibi- lità di conciliare l'accettazione
primaria dell’utilitarismo dell’atto con un rico- noscimento di un
qualche ruolo nella vita etica a principi e norme, partico larmente
interessante risulta un tentativo come quello di Hare. Hare ha presentato
una teoria dei due livelli di pensiero etico: uno, più intuitivo e di
senso comune, all’interno del quale valgono le regole e le norme, e
l'altro — che si colloca invece sul piano della riflessione critica — nel
quale, vice- versa, si applica ditettamente alle singole azioni il
criterio utilitaristico della massimizzazione della soddisfazione delle
preferenze di tutti coloro che sono coinvolti (Hare, 1989). Più fertili
sono da ritenere però quei tentativi di pre- sentare un utilitarismo
della norma e della regola come itriducibile — sul piano normativo —
all’utilitarismo dell'atto. Così ad esempio procede Brandt, che ha più
volte fatto valere la sua posizione come una forma di utilitarismo della
norma ideale. In questa teoria il criterio etico decisivo è quello che
iden- tifica le soluzioni rappresentandosi le norme da accettare in una
società idea- le rivolta a soddisfare massimamente i desideri razionali
dei suoi cittadini (Brandt, 1992). Nel rendere conto delle
varie specie di utilitarismo va infine ricordato quell’utilitarismo che è
sembrato preoccupato non tanto di realizzare un saldo attivo di piaceri,
quanto di minimizzare le sofferenze e i dolori (R, N. Smart, LE ETICHE NORMATIVE).
Questo tipo di utilitarismo negativo è stato spesso criticato — ad esem-
pio da J. J. Smart (Smart, 1985) — come paradossale in quanto implica che
la soluzione migliore è quella che riduce al massimo il numero di esseri
sen- zienti esistenti, in quanto per questa via si procede certamente a
una ridu- zione della quantità delle sofferenze. Ma se si va al di là del
piano speculativo sul quale si muove l’etica teorica sembra chiaro che
proprio il criterio di una riduzione delle sofferenze inutili ha avuto un
ruolo decisivo nei dibattiti più recenti sull’etica pratica. È stata
questa la via principale mediante la quale si è allargato l'ambito del
discorso etico anche alle questioni del trattamento degli animali ed
ancora è questa la via mediante la quale — riprendendo le critiche di
Bentham nei confronti delle etiche ascetiche — si continua a fare
emergere l'inaccettabilità di quelle soluzioni fittizie ricavate
dall’imposizione di antro- pologie astratte. 4.8. La scelta
razionale come criterio normativo. — Consideriamo poi quella concezione
normativa che sostiene che ciò che è bene o giusto fare, in una qualsiasi
situazione che ci presenta diverse alternative, può essere deciso
cercando ciò che è razionale o ragionevole fare, nel senso di ciò che
soddisfa massimamente i propri interessi e bisogni. Una concezione etica
della scelta razionale è riconoscibile in particolare negli scritti di
alcuni teorici che difen- dono l'economia di mercato, sostenendo che proprio
la ricerca da parte di ciascun individuo della massima realizzazione
delle proprie esigenze consente di ottenere i risultati migliori per la
società nel complesso (Arrow, 1977 e Buchanan, 1989). Naturalmente un
punto decisivo per questa concezione normativa sta nell'impegno a
definire con maggiore precisione la natura di ciò che è razionale
massimizzare nella ricerca di una soddisfazione personale. In questa luce
si presentano come nettamente distinte: da una parte, una posi- zione che
tende a ritenere razionale qualsiasi scelta che ciascuno consideri come
massimizzante la propria utilità interpretata in termini di benessere o
vantaggio economico personale — una teoria etica che muove dal riconosci-
mento di una qualche sovranità del consumatore; dall’altra una posizione
che interpreta la scelta razionale come quella che massimizza, ad
esempio, i biso- gni più profondi ed elevati della persona che
sceglie. La teoria che ritiene eticamente preferibile come criterio
per le scelte pub- bliche il comportamento che tende a massimizzare
l’utilità attesa da ciascuno degli agenti negli ultimi decenni è stata
attaccata lungo due linee: una rivolta a mostrarne le difficoltà interne
laddove venga presentata come teoria norma- tiva da adottare per
identificare l'alternativa di azione ottimale; l’altra rivolta a farne
risaltare la scarsa portata analitica e esplicativa. Il primo ordine di
difficoltà si esprime specialmente osservando che, col. locandoci
all’interno della teoria della scelta razionale e regolandoci non di-
versamente da giocatori che cercano di vincere la partita contro
avversati egualmente razionali, finiamo con il trovarci di fronte al ben
noto dilerzizza del prigioniero (Axelrod, 1985 e Resnik, 1990). Se più
individui razionali in una situazione che li coinvolge in competizione si
fanno guidare per decidere la via da seguire dalla ricerca del migliore
risultato prevedibile — sulla base del. l'attribuzione di un calcolo
eguale agli altri individui — saranno costretti a privilegiare corsi di
azione che porteranno a un risultato niente affatto otti- male. Ll
risultato migliore a cui tenderà ciascuno cercando di garantirsi la mas-
sima utilità attesa, presupponendo anche da parte degli altri un analogo
com- portamento, non garantirà affatto quel buon esito che si potrebbe
realizzare solo introducendo l'accettazione di qualche vincolo
cooperativo da parte di tutti gli individui presenti nella scena.
L'altro tipo di critica — avanzato ad esempio da Sen (1986) — è rivolto
a mostrare i forti limiti esplicativi presenti nella teoria della scelta
razionale in quanto risulta del tutto incapace di rendere conto di tutte
le nostre scelte in situazioni che coinvolgono beni pubblici. Infatti se
pensiamo a scelte che ri- guardano la disponibilità di beni quali strade,
servizi ecc. ci rendiamo conto che ciò che di fatto facciamo laddove
privilegiamo una decisione che porti alla creazione o all'uso regolato di
uno qualunque dei beni pubblici — creazione e uso regolato che risultano costitutive
della nostra forma di vita — non può essere in alcun modo spiegato come
esito di una scelta ispirata dalla teoria della scelta razionale. Infatti
ispirandoci a tale criterio dovremmo sempre tutti regolarci come free
riders, ovvero come battitori liberi che si preoccupano esclusivamente
dei propri interessi, e ciò renderebbe impossibile la conver- genza sulla
creazione e l’uso regolato di un bene pubblico, Tale teoria non riesce
dunque a rendere conto dell’esistenza di una larga fetta della nostra
realtà sociale. Va però segnalato che i teorici della scelta
razionale sono tuttora impe- gnati a elaborare modelli, coerenti con le
loro assunzioni, con cui rispondere a tutte queste obiezioni. In
particolare si sono sforzati di mostrare come nel quadro teorico della
cosiddetta teoria della scelta razionale o dei giochi — ov- vero in una
situazione in cui sono presenti più agenti razionali con obiettivi in
competizione — è possibile spiegare l'insorgenza di norme e regole
coopera- tive che permettono di convergere sui risultati ottimali. In
questa linea si è mosso ad esempio R. Sugden {Sugden, 1986) che ha molto
lavorato nel cer- care di mostrare come una teoria della scelta razionale
che preveda scelte ri- petute, con la ricerca da parte degli agenti di un
aggiustamento reciproco in vista di un equilibrio più stabile, permette di
arrivare a rendere conto dell’ac- cetrazione sociale di norme con un
minimo di contenuto cooperativo. Questo modello cerca di rendere conto
dell'ordine sociale in generale sviluppando alcuni tratti della
ricostruzione della genesi delle istituzioni cooperative già presente in
Hume (Magri, 1994). Questi modelli esplicativi valgono solo in quanto a
posteriori rendono conto di quello che si è già realizzato, ma è dif-
ficile usarli come criteri normativi per scegliere comportamenti rivolti al
fu- turo. I modelli della scelta razionale sono stati adottati in modo
indubbia- mente fertile per rendere conto, all’interno di un generale
quadro evoluzioni- stico, di come tra gli animali superiori si rafforzano
abiti cooperativi in alternativa a quelli o del tutto egoistici o
assolutamente benevoli (Dawkins, 1992). Ma questa teoria nulla può dirci
quando si tratta di decidere quale, tra le differenti alternative di
comportamento che ci sono davanti, dobbiamo scegliere. 4.9.
Pluralismo, tolleranza, relativismo, irrazionalismo etico. — L'esistenza
di differenti concezioni etiche — il loro conflitto sempre risorgente —
non solo fa nascere la questione della disponibilità o meno di criteri
per affrontare razionalmente i contrasti, ma fa sorgere anche il problema
di come conciliare la presa d'atto di una pluralità di concezioni etiche
con il riconoscimento al- l'etica di una qualche validità. In
primo luogo il riconoscimento del pluralismo etico sembra essere ineli-
minabile nella società attuale. Non solo si tratta di una constatazione di
fatto, ma il pluralismo etico è considerato anche un valore. Viene cioè
considerata più apprezzabile una società pluralistica che una società che
in forme più o meno coercitive impone il prevalere di una sola etica.
Quest'ultima assun- zione valutativa non è però condivisa dalle
cosiddette concezioni comunitarie (Ferrara, 1992) che invece privilegiano
società in cui si realizzi una forte con- vergenza sui valori e anzi al
limite siano caratterizzate da un'unica morale {MacIntyre, 1988). Ma al
di là dei timori per un pluralismo etico eccessivo e delle tentazioni per
una società segnata da una forte uniformità, vi sono argo- mentazioni e
distinzioni che sorreggono una preferenza per situazioni caratte- rizzate
da una pluralità di etiche in competizione. Tutta la tradizione
liberale trova nella fioritura pluralistica una condi- zione che
favorisce lo sviluppo di tutte le differenti potenzialità creative
presenti nella natura umana. Tale posizione — presente ad esempio in
pensatori come W. von Humboldt (Humboldt, 1974) e J. S. Mill (Mill,
19814) — ritiene che solo un'effettiva libertà per gli esseri umani di vivere
Îl tipo di vita che essi ritengono giusta, libertà garantita anche
accentuando le differenze, permette che vi sia una piena realizzazione e
un progresso delle capacità umane. L’uniformità porterebbe invece a una
completa atro- fizzazione di queste capacità. Una posizione a
favore del pluralismo etico presuppone che si riescano a tenere ben
distinte due dimensioni dell'etica: da una parte, quella che ri- guarda
quel minimo comune denominatore di principi e regole cooperative che
sembrano essere una condizione necessaria perché vi sia una qualche sta-
bilità della vita associata; dall'altra parte invece quella che ha a che fare
coni modelli e gli ideali che ciascuno può assumere per quanto riguarda
lo stile di vita da preferire. Proprio sul piano che riguarda i valori e
gli ideali etici un confronto tra progetti anche alternativi può segnare
un arricchimento e uno sviluppo della cultura umana. Sul piano più
ristretto dell'etica minima in gioco laddove si tratta delle basi della
convivenza è invece difficile ritenere adeguato un pluralismo di fondo.
Ritorna qui dunque una distinzione già pre- sente nella tradizione
giusnaturalistica tra il piano dei diritti o doveri perfetti e quello dei
doveri imperfetti. Questa posizione di apprezzamento per un
contesto sociale e culturale segnato dal pluralismo etico o pluralismo
dei valori va tenuta però distinta da una concezione che sottoscriva un
completo relativismo. Va, infatti, tenuta chiaramente distinta una
posizione che, sul piano descrittivo, prenda atto che si confrontano
diverse concezioni etiche, dunque tutte relative e non assolute, da una
posizione che assuma da un punto di vista normativo le conclusioni del
relativismo. Il relativismo normativo infatti sostiene che non abbiamo
ragioni per ritenere che nelle questioni etiche sia preferibile una posizione
a un'altra. Il relativista dunque, in definitiva, non riconosce alcuna
validità alle distinzioni morali o etiche tra bene e male, giusto e
ingiusto. È invece carat- teristico del nostro tempo il fatto che si
riesca a sostenere con decisione e forza di convinzione la propria
soluzione etica ai problemi pur rispettando è tollerando quelle diverse
dalla nostra. Ma in questo caso l'ammissione di altre posizioni etiche
non equivale a ritenere che l’una vale l’alira. Come si è ben detto (in
particolare da parte di Berlin, 1989 e Rorty, 1989, ma a livello teorico
la posizione era stata già illustrata da Juvalta, ed è stata più
recentemente derivata da una meta-etica non-cognitivista, da Scarpelli,
1982) la situazione è — per paradossale che possa sembrare — quella di
chi si impegna con decisione a fornite ragioni a favore del proprio punto
di vista etico pur riconoscendo, ammettendo e rispettando un
interlocutore che fa valere un altro punto di vista e differenti ragioni.
La consapevolezza che il proprio punto di vista etico non è quello
assolutamente giusto e buono consente di tollerarne altri. Ciò non toglie
che, comunque, è il nostro punto di vista a valere di più — ad essere più
buono e più giusto — fin quando non ci verranno presentate ragioni o non
faremo esperienze che ci costringeranno ad abbandonarlo. Le
distinzioni che stiamo suggerendo partono dal presupposto che si sia
completamente abbandonata la pretesa di un'assolutezza dei valori in ge-
nerale e dunque anche del proprio punto di vista etico. Una condizione
propria del nostro tempo che M. Weber esprimeva con l’espressione «po-
liteismo dei valori» (Weber, 1958). Viceversa risulterà impossibile
conciliare pluralismo, relativismo empirico, tolleranza e impegno per il
proprio punto di vista se si muove dalla convinzione che l’etica deve
avere a che fare con qualcosa di assoluto. Ma quest’ultima prospettiva
nel XX secolo è larga- mente inattuale e perdente, in quanto certamente
non può essere conciliata con una meta-etica che pretenda di avere dalla
sua una qualche verità e capacità di rendere conto della nostra effettiva
esperienza morale. Proprio la persistenza di questa prospettiva
assolutistica dell'etica continua a gene- rare confusione e conflitti e
contrasti etici spinti fino a mettere in pericolo la coesistenza, in
quanto mossi da forme di fanatismo morale che non tollerano le
differenze. La trasformazione che stiamo vivendo con il pas- saggio da un
contesto etico caratterizzato dall’aspirazione all’assolutezza ad uno che
accetta la finitezza e mutevolezza dei punti di vista morali può essere
vissuta in due diversi modi. Da una parte ci sono i nostalgici che vivono
il tempo e la società presente come caratterizzati da una perdita e da un
regresso; sono coloro che identificano il passaggio da valori assoluti a
valori frutto delle scelte umane come l’atto di nascita di un completo
nichilismo e di una cultura del tutto irrazionalistica. Per costoro non vi
è alternativa tra un fondamento assoluto e la più completa irrazionalità
e mancanza di senso. Dall'altra — e chi scrive si riconosce in questa
seconda linea — vi sono coloro che vedono la nuova condizione come un
guadagno in quanto ci si è finalmente liberati di miti e illusioni. La
credenza in va- lori assoluti è stata, ed è tuttora, all'origine di
pericolosi e insanabili con- trasti. L'alternativa non è il nulla o la
perdita di senso della nostra esisten- za ma piuttosto un'etica che muove
da un piano più realistico e empirica. mente fondato. I valori derivano
quindi da scelte e decisioni che gli uomini assumono responsabilmente tenendo
conto delle loro emozioni, delle loro limitate capacità intellettuali e
delle loro condizioni effettive. Credere que- sto non equivale ad avere
perso qualcosa, ma viceversa ad avere puada- gnato una prospettiva che
permette agli esseri umani di muoversi, su un piano di parità, verso
soluzioni realizzabili e adeguate per i loro problemi pratici.
Dall’etica teorica all'etica pratica. Dall’etica teorica all’antropologia:
motivazione e obbligazione. —La storia dell'etica è ricca di pensatori
che uniscono alle tesi normative, specifi- che concezioni antropologiche
relative alle motivazioni, i bisogni, i desideri e gli interessi degli
esseri umani. Potremmo anzi sostenere che è comune che a un'etica teorica
si accompagni un’etica antropologica, ovvero una psicologia della morale
che su basi più o meno empiriche pretende di descrivere come gli uomini
sono fatti e procedono nelle loro scelte. Questa commistione tra piano
normativo e piano descrittivo ed empirico risulta largamente praticata
specialmente dal secolo XVII in avanti, dopo che è entrata in crisi Ja
conce. zione innatistica della legge naturale, che riteneva la legge
morale natural- mente obbligante in quanto presente originariamente nella
coscienza di tutti gli esseri umani. Il quadro filosofico del XVII secolo
segna il tramonto di que- sta soluzione innatistica nel collegamento tra
legge morale obbligatoria e base motivante negli esseri umani e dunque
per l’etica moderna e contemporanea diventa essenziale non solo la
questione di ciò che è bene o giusto, ma anche di ciò che rende
effettivamente obbligante per gli uomini il bene e il giusto (cfr.
Fagiani, 1983). Si avvia quindi una ricerca sistematica sulla motivazione
e la base psicologica che rende obbligatoria una condotta etica,
Nel pensiero moderno è ricorrente, per quanto riguarda la
motivazione morale, una concezione che nega che ciò che viene scoperta 0
trovato con l’aiuto della sola ragione possa avere di per sé forza obbligante
o motivante, Un residuo di attribuzione di forza obbligante alla ragione
in quanto tale si può trovare nella concezione di giusnaturalisti come Grozio
(Grozio, 1625) o in quei pensatori che — come ad esempio Joseph Butler
(Butler, 1970) — nel corso del Settecento indicano nella coscienza non
solo un prin- cipio in grado di trasmettere la consapevolezza della legge
morale, ma anche di obbligare ad essa. Ma la via percorsa dai teorici
dell'etica è piuttosto quella alternativa di negare alla ragione la
capacità di motivare all’azione e dunque di negare forza obbligante alle
norme e leggi scoperte attraverso l’uso del solo intelletto. Muovendo da
questa premessa è dunque necessario procedere a uno studio empirico della
natura umana e in particolare della condotta per vedere che cosa muove ad
agire. Viene così ampiamente ripresa nel corso del XVII secolo la tesi
edonistica secondo la quale solo il piacere e il dolore muo- vono
all'azione (cfr. $ 2.2). Sia Hobbes che Locke, quando fanno riferimento
al piacere e dolore come cause motivanti guardano, in modo del tutto
esclu- sivo, alla persona che agisce. Proprio su questa base tanto Hobbes
quanto Locke sembrano appoggiare la forza obbligante della legge naturale
esclusivamente sul potere di sanzione. Nel caso di Hobbes il potere
sanzionatorio viene legato a un calcolo prudenziale relativo ai benefici
e ai danni che nel corso della vita terrena si ricevono uniformandosi
alle leggi naturali. Locke lega invece il potere sanzionatorio della
legge naturale, e dunque la sua forza obbligante, alla considerazione del
premio e delle pene che si potranno otte- nere in un’altra vita (Locke,
1971). La concezione che lega la forza obbligante e la capacità di
motivare della morale e dell'etica in generale a qualche san- zione viene
spesso riproposta nel pensiero moderno e contemporaneo, ad esempio
rinviando alla forza sanzionatoria data da qualche piacere o dolore
fisico comunque in gioco. Erede di questa tradizione può essere
considerato Bentham con il suo tentativo di agganciare al potere
sanzionatorio del sovrano la forza della legge giuridica. Non
diversamente in questa linea va collocato il positivismo giuridico del
secolo XX. Proprio l’approfondimento della conoscenza della natura
empirica degli uomini porta tra la fine del XVII secolo e la metà del
XVIII a elaborare una concezione della forza obbligante dell’etica che,
pur non riconducendola a una capacità automotivante della ragione o delle
facoltà intellettuali, non la tiduce però al sanzionamento in termini di
piacere e dolore fisici, generica- mente intesi. Questa ricerca di una
base specifica di motivazione per la morale è già presente alla fine del
secolo XVII in Shaftesbury, che proprio dall'osser- vazione empirica
degli uomini fa derivare la scoperta di un peculiare «senso morale» che
non solo porta gli uomini ad approvare le azioni virtuose, ma anche a
sentirsi spinti a compiere tali azioni e ove tali azioni non sono com-
piute a provare emozioni di disagio e sradicamento da ciò che è più
proprio del genere umano, È dunque la struttura passionale degli uomini a
presentare un'inclinazione — in parte già colta dall’antropologia
aristotelica — a com- piere azioni in generale cooperative.
Questa stessa linea analitica verrà sviluppata ancora nel corso del
XVIII secolo da Hutcheson e Hume. Il nucleo distintivo di questa
ricostruzione della forza obbligante del comportamento etico sta nel
mostrare nella psico- logia degli esseri umani una base motivazionale del
tutto autonoma e specifica che spinge a fare azioni eticamente rilevanti.
Questi autori poi si differenzie- ranno tra loro in quanto presenteranno
o meno come motivazione universali- stica tale base psicologica. Così
mentre da una parte troveremo pensatori come Shaftesbury, Hutcheson e
Smith che rinviano a un altruismo o benevo- lenza più o meno universali,
dall’altra troveremo chi, come Hume, ricono- scetà come motivante solo
una benevolenza limitata che si estende piuttosto ai legami familiari.
L'idea di tutti questi autori è comunque comune. Il senso morale approva
determinate azioni perché esse risultano motivate non solo da un esclusivo
amore di sé, ma da una benevolenza più o meno estesa. La stessa
approvazione del senso morale costituisce poi una motivazione aggiuntiva
al comportamento virtuoso. Risulta dunque chiaro in questa
strategia analitica che la condotta etica trova una sua base
motivazionale in inclinazioni naturali degli uomini per una forma più o
meno estesa di altruismo e interessamento per gli altri. Un aspetto
teorico significativo per il quale questi autori si distingueranno sarà il
loro modo di rendere conto della naturalità della motivazione etica. Accanto
a coloro — come ad esempio Shaftesbury o Hutcheson — che
considereranno la motivazione a fare azioni cooperative come originaria
per la natura umana, vi saranno coloro che la presenteranno piuttosto
come risultato o prodotto di un processo evolutivo o di civilizzazione
piuttosto lungo. Nel corso del XVIII secolo la spiegazione delle basi
motivazionali del comportamento morale sarà inserita sempre di più in un
quadro artificialistico ed evolutivo, Una spiegazione genetica
evoluzionistica e artificialistica della motivazione alla condotta etica
è, ad esempio, già presente in Mandeville e viene svilup- pata
estesamente da Hume e poi — in una direzione ancora più ampia — da
pensatori come J. J. Rousseau, A. Smith e A. Ferguson. Questi ultimi sono
impegnati nel progetto, che sembra centrale per gli intellettuali del XVIII
se- colo, di ricostruire la storia della civilizzazione umana avvalendosi
della teoria stadiale, ovvero di quella concezione che scandisce in
quattro stadi diversi (della caccia e pesca, dell’allevamento,
dell’agricoltura, e del commercio) la storia dell'umanità (Meek, 1981).
La prospettiva impegnata a delineare il pro- cesso artificiale attraverso
il quale gli uomini giungono a disporre di una base psicologica e
motivazionale specifica per il comportamento etico (0 coopera tivo) viene
realizzata nel corso del XVIII secolo anche lungo una diversa linea
associazionistica. In questa chiave il costituirsi delle motivazioni
propriamente etiche viene spiegato come un risultato di ripetute
associazioni. Significativo — anche per un lettore del XX secolo — il
contributo analitico di David Hartley, il cui associazionismo è
propriamente fisiologico, e poi di alcuni esponenti dell'Illuminismo
francese (ad esempio Claude-Adrien Helvétius, Etienne Condillac, Paul
Heinrich Dietrich D'Holbach ecc.) e ancora di utili taristi come James
Mill e J. S. Mill. Nel XIX secolo la genesi delle motivazioni cooperative
sarà collocata in un quadro più esplicitamente evoluzionistico da Darwin
e Spencer (Ruse, 1986). Questa linea di spiegazione evoluzionistica — che
coinvolge il livello biologico — della genesi di una base motivazionale
ad hoc per il comportamento morale è stata ampiamente ripresa nel corso
del XX secolo. Abbiamo così chi, come E. Wilson (1975), ha presentato una
vera e proprio concezione socio-biologica, o chi, come K. Lorenz (1990),
si è piuttosto impegnato a mostrare analogie e differenze tra gli istinti
cooperativi pre- senti negli uomini e quelli rintracciabili negli
animali. La ricerca rivolta a individuare una base motivazionale
nella natura emo- tiva degli uomini a cui agganciare l'obbligazione etica
si estende ben al di là delle concezioni che abbiamo appena delineato.
Non sono mancati coloro che hanno indicato come carattere distintivo
della specie umana la capacità di es- sere motivati a compiere azioni
degne di apprezzamento per il solo gusto o senso del dovere da compiere,
e dunque per il solo essere richiamati da ciò che vale: una strategia che
risulta percorsa da Kant e da coloro che a lui si richiamano come ad
esempio K. O. Apel {Apel, 1977). Al polo opposto si colloca la strategia
di analisi, scettica e riduzionistica, che ha del tutto negato che negli
uomini sia rintracciabile una qualche capacità di auto-motivarsi o
scegliere liberamente, e dunque tanto meno una inclinazione a partecipare
ai piaceri e ai dolori degli altri esseri umani. Nel XX
secolo entra in crisi la pretesa di disporre di una antropologia uni-
versalistica che sia in grado di indicare con nettezza passioni e sentimenti
pre- senti in tutti gli uomini o viceversa di negare agli esseri umani
generalmente intesi una qualche motivazione. L'analisi antropologica,
piuttosto che rinviare a una base motivazionale comune, si impegna ad
elaborare più strategie me- diante le quali si può spiegare la forza
obbligante delle regole morali. Risulta pur sempre difficile riuscire
rendere conto del ruolo obbligante dell'etica lad- dove si ritiene che
gli esseri umani siano mossi dal più rigido egoismo; stanno a dimostrarlo
la crisi e le difficoltà a cui è andata incontro la teoria della scelta
razionale (cfr. $ 4.8). In positivo, dunque, risulta del tutto acquisito che —
per dirla con Williams (Williams) — nessun discorso può riu- scire
a rendere motivante per un essere umano un principio etico cooperativo se
nella struttura emotiva di questo essere umano non è già presente (proba-
bilmente come frutto della sua formazione e iniziazione alla cultura
umana) un minimo di interessamento per i piaceri e i dolori di un altro
essere urnano. Da questa prospettiva come da altre il contesto dell'etica
coinvolge diretta- mente non solo la capacità di chi agisce di
presentarsi come essere fornito di una sua identità, ma anche di
riconoscere l'identità degli altri. Passiamo dun- que a rendere conto
della portata delle analisi sulla natura dell’identità perso- nale
nell’etica teorica. 5.2. Il ruolo dell'identità personale
nell’etica. — Nell’etica medievale il rinvio all'anima sostanziale
rappresentava un fondamento e un preciso criterio per risolvere le
questioni morali. Infatti, da una parte, proprio al fondo della sostanza
spitituale si presentavano le norme da applicare in etica e
dall'altra l'individuazione dell'universo di esseri forniti di sostanza
spirituale metteva a disposizione un chiaro criterio di applicazione ed
estensione dell’ambito mo. rale. Questa concezione semplice dell'etica
che ruota intorno a una sostanza che è la persona umana e che non è
riducibile ad altro, nello stesso tempo oggetto e soggetto esclusivo
della vita morale, è entrata in crisi tra il XVII e il XVIII secolo
quando l’identità personale non è più risultata riconducibile a una sostanza.
Alla filosofia di Locke prima e a quella di Hume poi si può far risalire
il superamento critico della concezione sostanzialistica della persona
umana e dell'identità personale e l'avvio di quell'approccio che
concepisce tali realtà come complesse e cerca di spiegarne la natura
riconducendola a qualcosa d'altro. Ma sulla strada dell’elaborazione
delle concezioni complesse e ridu zionistiche dell’identità personale si
presenta la difficoltà di riuscire a rendete conto del soggetto morale
con quel minimo di stabilità necessaria per dare una base a nozioni
essenziali per l'etica — quali responsabilità, merito, deme- rito ecc. Un
altro problema a cui vanno incontro le concezioni riduzionistiche e
complesse dell'identità personale sta nella difficoltà con cui riescono a
ren- dere conto del valore morale senza farlo dipendere esclusivamente da
una considerazione degli atti di per sé stessi, ma riuscendo a collegarlo
anche con una considerazione del carattere e dei motivi dell'agente. La
connessione tra la considerazione del carattere e dei motivi e i giudizi
morali è al centro, ad esempio, dell’analisi delle virtù e dei vizi
delineata da Hume e Smith e sembra tanto profondamente radicata nel senso
comune morale da non poter essere soppiantata da una qualche teoria che
indica come eticamente rilevanti le sole azioni. La riflessione di marca
empiristica e analitica sulla natura dell’identità personale si è dunque
sempre più impegnata dal Settecento a oggi nell’elabo- razione di una
spiegazione della continuità e stabilità dell’io che, senza dover
ricorrere alla nozione sostanzialistica e semplice di io, fosse conciliabile
con l’uso di categorie centrali del linguaggio etico-giuridico quali
responsabilità, merito, demerito, punizione, condotta virtuosa ecc.
Un’estensione dell'analisi complessa e riduzionistica dell'Io anche a
livello di ricostruzione della vita morale — oltre che sul piano
conoscitivo — viene avviata da Henry Sidgwick nel 1874 con i suoi Methods
of Ethics (I metodi dell'etica), ed è stata poi sistematicamente
realizzata nella seconda metà del secolo XX da pensatori come Nagel,
Parfit, Nozick ecc. Si può ipotizzare che questa recente fortuna di
un'analisi dell'etica che muove da una concezione complessa dell'identità
personale sia un riflesso, a livello filosofico, di quel fe- nomeno più
generale a cui si allude sinteticamente con l’espressione «perdita del
Soggetto». La rapidità delle trasformazioni nelle società occidentali,
la grande quantità di novità che quotidianamente ciascun essere umano
deve raccordare con l’esperienza passata e con i punti di equilibrio in
essa raggiunti hanno reso sempre più frammentaria la continuità della
vita interiore e diffi- coltosa l'operazione di recuperarne una qualche
stabilità. Va peraltro sottoli- neato che le concezioni complesse e
analitiche dell'identità personale più che essere impegnate in lamentele
e declamazioni sulla «Perdita del Soggetto» cercano di elaborare una
concezione dell’essere umano eticamente responsa- bile che sia adeguata
alle trasformazioni culturali degli ultimi secoli, trasfor- mazioni che
hanno reso il rinvio a un qualche Soggetto sostanziale solo un mito privo
di qualunque fondamento empirico. Le analisi di Parfit sfociate nel
volume del 1984 Reasons and Persons (Ra- gioni e persone) presentano lo
sforzo più approfondito di sviluppare gli spunti presenti nell'opera di
Sidgwick e di ridefinire, muovendo da una nuova con- cezione — appunto
riduzionistica e complessa — dell’identità personale no- zioni come
quelle di responsabilità morale, merito e demerito ecc. Se tuito ciò che
troviamo dietro la soggettività e l'identità di una persona umana è una
qualche continuità psicologica più o meno stretta, ne consegue che i
nostri giudizi morali © giuridici dovranno essere del tutto a posteriori
e investire in- terrogativi quali: «quanto la persona che ci sta di
fronte è la stessa di quella che ha compiuto l’azione? », «quanto
l’azione che la persona ha compiuto si inserisce nel flusso più continuo
e stabile delle sue abitudini e del suo carat- tere e quanto invece ne
rappresenta una rottura?» ecc. L'approccio empiri- stico all’identità
personale comporta dunque non già l’eliminazione delle no- zioni etiche
tradizionali dal nostro lessico morale, ma una loro ridefinizione in modo
tale da presupporre connessioni più deboli e meno definitive: tra le
azioni e la persona che le ha compiute; tra la persona come attualmente è e
la sua storia passata; tra il tipo di intervento che possiamo fare sulla
persona attuale e la sicurezza che, utilizzando determinati mezzi,
potremo ottenere certi risultati che coinvolgono il suo io futuro. In
generale ci si muove verso una concezione meno assolutistica e
necessitante dell'etica di quella che ac- cetta chi crede nella persona come
sostanza. Ed è ovvio che una prospettiva del genere risulta del tutto in
linea con l’epistemologia empiristica, ma — e si tratta di ciò che più
conta — anche forse, oggigiorno, fertile sul piano espli- cativo e
predittivo, L’approccio all'identità personale che la considera
come una successione di io che hanno tra di loro una connessione
psicologica più o meno stretta è ben lontano dall'essere diventato «senso
comune» e ranto meno sembra cor- rispondere intuitivamente a quella
concezione della persona che troviamo ra- dicata nella parte morale del
nostro «senso comune», una parte che tende a trasformarsi con più lentezza
e prudenza di quella intellettuale. Vanno però messe in luce le
implicazioni normative che accompagnano le analisi di tipo complesso e
riduzionistico dell'identità personale, anche se per ora occorre
confinatne la portata solo alle premesse intellettuali di un sistema morale
che pretenda di essere costruito su credenze vere. Un
approccio all'identità personale che metta in secondo piano una con-
cezione sostanzialista e semplice della persona umana favorisce anche un
complessivo riassetto normativo. In primo luogo questa linea
epistemologica porta al rifiuto di una concezione statica e sostanziale del
bene morale, la presa di distanza da un modo di intendere la
responsabilità morale come le- gata a colpe, peccati o meriti che solo un
Essere Assoluto, in grado di cono- scere la struttura sostanziale della
persona e i più riposti pensieri degli esseri umani, può giustamente
distribuire. La responsabilità morale in questa pro- spettiva ha invece a
che fare non già con riposte intenzioni, ma principal. mente con ciò che
effettivamente si compie in un campo di azioni pubblica- mente
osservabili. In secondo luogo poi tale approccio contribuisce anche
a scalzare le basi analitiche che sorreggono l’impianto normativo
dell’egoismo razionale. An- cora a Parfit si devono dettagliati argomenti
che mostrano, una volta assunta la prospettiva complessa e riduzionistica
dell'io, quanto risulti ingiustificata una preferenza per le parti future
della propria vita nei confronti delle vite attuali di altri esseri
umani. La ragionevolezza ed evidenza di una preoccupa- zione esclusiva —
su base egoistica e prudenziale — per i nostri io futuri non risulta
affatto giustificata una volta che si diventi consapevoli della comples-
sità di passaggi che muovendo dal nostro io attuale porta ai nostri io
futuri laddove non si postuli più la persistenza di una stessa sostanza
semplice. Tra il nostro io attuale e quello che saremo fra numerosi anni
vi sono connessioni più dubbie — e dunque relazioni più deboli — rispetto
a quelle che possiamo istituire oggi con i Sé degli altri esseri umani.
L'impegno nella costruzione di un'etica più imparziale e meno rigidamente
egocentrica sembra dunque avere tutto da guadagnare dalla revisione
dell'identità personale intrapresa dalla fi- losofia empiristica.
Infine risulta del tutto indebolito il ruolo della nozione di persona
come categoria essenziale per la determinazione dell'universo di esseri
per i quali valgono le nozioni etiche. Se ciò che conta in morale non è
più solo la pre- senza di qualche peculiare sostanza semplice di natura
spirituale, ma gli atti che si compiono più o meno responsabilmente, nulla
vieta che divengano eti- camente rilevanti anche atti che non coinvolgono
persone umane. Passando attraverso atti responsabilmente connessi con
dimensioni quali la sofferenza e il danno o il piacere e la soddisfazione
di bisogni e desideri, possono diven- tare rilevanti per l’etica gli
animali, o gli oggetti che costituiscono l’ambiente, o realtà — di certo
non personali nel senso di essere effettivamente presenti ora come
sostanze semplici con una loro propria individualità — quali, ad esempio,
i membri di generazioni future molto lontane. È questa dunque la via
epistemologica che porta ad abbandonare quella concezione ristretta del-
l'etica che si ha quando si è costretti a passare sempre attraverso la
cruna d'ago fornita dalla persona. In particolare sono le etiche
utilitaristiche e con- seguenzialiste che si sono impegnate in questo
sforzo di fornire indicazioni normative congruenti con le concezioni di
derivazione empiristica dell'iden- tità personale e dell’universo degli
esseri moralmente rilevanti. 5.3. Etica del carattere 0
dell’azione. — Come abbiamo visto le diverse concezioni etiche si
distinguono sulla questione di quale sia da considerare l'oggetto proprio
di una valutazione. Su questo piano la differenza più rile- vante è
quella tra chi ritiene che l’unico oggetto peculiare di valutazione etica
sono le azioni e le loro conseguenze e chi invece ritiene essenziale il
riferi mento al carattere 0 comunque a qualche qualità interna (intenzione
ecc.) di chi agisce. Le due diverse concezioni hanno entrambe dei punti a
loro favore. Si può anzi suggerire che la concezione più adeguata sia
quella che non ri- corra in modo esclusivo o all'uno a all’altro
approccio — o azione o tratti del carattere — ma piuttosto sappia
integrare entrambe le esigenze. A favore della concezione che
ritiene esclusiva l’attenzione per le azioni vi è l'esigenza — fatta
valere in modo decisivo non solo dall’utilitatismo, ma an- che dal
garantismo giuridico (Fetrajoli, 1989) — che ciascuno possa essere
ritenuto responsabile solo di quello che ha effettivamente compiuto e non
possa essere giudicato negativamente sulla sola base di presunte
predisposi- zioni 0 inclinazioni ad agire, che tra l’altro rinviano a una
pretesa capacità di cogliere l'essenza o vera natura di una persona. Il
riftuto della concezione so- stanzialistica della persona umana è tra
l’altro accompagnato dallo sforzo di ricollocare l'etica su un piano più
esterno e comportamentale. La considera- zione prevalente delle azioni
effettivamente compiute segna anche il tramonto di valutazioni che
investono i piani del peccato o della colpa. Considerando come
positivo il superamento di un approccio etico che pretenda di presentare
valutazioni assolute basate su di una presunta cono- scenza finale del
carattere o della natura di una persona, va però segnalato un limite di
questo approccio. Un'etica che pretenda di derivare in modo esclu- sivo
le sue valutazioni dalla considerazione dei comportamenti esterni degli
esseri umani sarà costtetta a omologare azioni criminose e incidenti colposi
e non sarà comunque in grado di discriminare tra azioni compiute in
contesti motivazionali e intenzionali differenti. La valutazione etica
non sembra potere prescindere dall'esame di quanto le azioni in gioco
siano responsabili e dun- que frutto di intenzioni e non del tutto
casuali o determinate da costrizioni al di là della portata di chi
agisce. Proprio la necessità che l'etica riesca a coinvolgere anche
la responsabilità delle azioni considerate rappresenta un argomento a
favore delle concezioni che pongono al centro della loro considerazione
il carattere di chi agisce. In questo si sono impegnate le cosiddette
etiche della virtà. Una tradizione che — diversamente da quanto è stato
recentemente sostenuto (MacIntyre, 1988) — non è certo confinata alla
cultura antica e medievale, ma ha trovato anche nella cultura moderna e
contemporanea dei sostenitori. La concezione dell'etica che ritiene
centrale la considerazione del carattere sembra salvaguardare alcune
esigenze essenziali per una adeguata teoria della valutazione morale.
Anche questo approccio ha però bisogno di correttivi, ÎNon solo risulta
dubbia un'attenzione per il carattere tanto esclusiva da giu- dicare una
persona condannabile per il solo fatto che ha determinate inten- zioni,
ma una considerazione etica esclusivamente attenta al carattere può
portare a considerare virtuoso anche chi si limiti a manifestare certi principi
o convinzioni etiche e poi di nascosto agisce in modo completamente
diver: gente. Un’etica dell’intenzione può anche portare a ritenere
giustificati atti gravemente dannosi rinviando a presunte intenzioni
benefiche di chi li com- pie. Un'etica dell'intenzione o del carattere
corre il pericolo di sottoscrivere posizioni morali esclusivamente
predicatorie o addirittura ipocrite, alle quali comunque non corrisponde
alcun effettivo comportamento. Nella conciliazione, tutt'altro che
semplice, delle due concezioni sull’og- getto della valutazione morale
sono impegnati in particolare i fautori dell’uti- litarismo della regola
o delle norme (cfr. $ 4,7). Nel senso di un'integrazione delle
considerazioni etiche sugli atti con quelle relative ai caratteri e alle
inten- zioni vanno anche molte delle discussioni di casi concreti nelle
quali si sono impegnati — specialmente nella seconda metà del secolo XX
(cfr. $ 5.4) gli esponenti dell'etica contemporanea. Ad
esempio, larga parte della discussione etica contemporanea su situa-
zioni concrete quali quelle legate alla nascita — e in particolare all'aborto —
€ alla morte — e in particolare all’eutanasia — è legata alla riflessione
sul ruolo più o meno decisivo delle intenzioni in gioco. Proprio la tesi
di un ruolo es- senziale delle intenzioni nelle valutazioni delle scelte
relative all'inizio e alla fine della vita umana ha portato ad elaborare
la dottrina del «doppio effetto» (Anscombe, 1958 e Foot, 1978). Con
questa dottrina si è ritenuto di potere distinguere tra diverse ricorrenze
della stessa azione, considerandola rispetti- vamente o come una
conseguenza diretta e voluta dell'intenzione di ottenere questo risultato
o viceversa come effetto secondario e non direttamente vo- luto
dell'intenzione rivolta a un risultato benefico. Laddove l'effetto
diretto della nostra intenzione è, ad esempio, garantire la nascita di un
bambino, solo un doppio effetto non voluto è la morte della madre; o —
all’altro confine della vita — laddove effetto diretto della nostra intenzione
è l’azione rivolta a un'attenuazione delle sofferenze di un morente, è
solo un effetto secondario non direttamente voluto la morte della
persona, quale conseguenza dell’uso di farmaci per attenuare il dolore.
Ma questa concezione va incontro a un’insor- montabile difficoltà di
ordine epistemologico, in quanto ovviamente non sono disponibili
procedure affidabili per discriminare tra una dichiarazione di in-
tenzione del tutto ritualistica o ipocrita e una dichiarazione veritiera. In
que- sto senso la prospettiva che ruota intorno alla centralità
dell’intenzione si pre- senta come il residuo di una fase in cui l’etica
teorica era impegnata a far va- lere per il giudizio sulle azioni umane
un punto di vista ideale o divino. Un'’etica fatta su misura per le esigenze
della specie umana, pur riconoscendo la rilevanza delle motivazioni delle
azioni, indebolisce però la portata delle intenzioni considerandole come
componente aggiuntiva e sussidiaria del giu- dizio etico e non già come
aspetto decisivo ed esclusivo. Fa parte della riflessione
sull’oggetto proprio delle valutazioni etiche an- che la discussione
sulla possibilità di distinguere nettamente da un punto di vista
assiologico tra azioni e omissioni. Questa distinzione viene considerata
sempre meno influente per l'etica (Glover, 1977; Singer, 1989) proprio da
quelle concezioni che — come l’utilitarismo — hanno messo al centro della
valutazione le azioni e la considerazione delle conseguenze.
L’utilitarismo contemporaneo fa propria in realtà una nozione non
riduttiva di azione, data la quale risulta chiaro che il non fare
qualcosa quando si ha la possibilità di farlo è eticamente rilevante non
meno del compimento effettivo di un atto. Ciò che conta è la nostra
responsabilità — che si agisca o non si agisca — per conseguenze nella
situazione futura, in quanto esse dipendono comunque da nostre scelte e
decisioni. Si può avanzare l’ipotesi che nel corso degli ultimi
secoli della storia della cultura occidentale la struttura del nostro
discorso morale si sia trasformata nel senso di un'estensione della
portata del lessico legato primariamente alle azioni e di una correlativa
riduzione dell'incidenza di quella parte del lessico legato a emozioni,
sentimenti, stati d'animo, intenzioni, caratteri ecc. Da que- sta ipotesi
si ricava che per quanto forte possa ancora essere, al livello della
predicazione, la riaffermazione di un’etica di tipo agapistico o dell'amore
universale (un’etica cristiana genericamente intesa), tale etica risulta poi in
se- condo piano, quando ci si impegna in una riflessione critica rivolta
a indivi. duare regole e principi etici concreti a cui ispirarsi.
L'appello a sentimenti quali l’amore o una benevolenza universale sembra
essere del tutto irrilevante quando siamo impegnati a identificare il
migliore comportamento effettivo nelle situazioni eticamente rilevanti
che ci sono di fronte. Certamente tale ap- pello può continuare a
mantenere un ruolo decisivo laddove siano in gioco concezioni
super-erogatorie e ideali sul dovere (che coinvolgano ad esempio la
santità e l’eroismo), che hanno però un ruolo sempre più marginale nella
morale di senso comune di società altamente complesse e popolate come
quelle nelle quali viviamo. La nostra ricerca etica è piuttosto rivolta a regole
più modeste e limitate che incidano però effettivamente sulle azioni o
omis- sioni della nostra vita quotidiana, in modo tale che le conseguenze
dei nostri stili di vita siano benefiche — o quanto meno non disastrose €
dannose — per le generazioni future. 54. La svolta normativa
e l'irruzione dell'etica applicata. — Nel corso del XX secolo l'orizzonte
di riflessione che muove dai problemi pratici concreti degli esseri umani
è stato riafferrmato come primario e decisivo da una serie di pensatori
che hanno contestato l'utilità di una ricerca esclusivamente meta- etica
e astratta. Si è soliti fare riferimento a questa svolta, realizzatasi
nella riflessione sulla morale specialmente a partire dagli anni
Settanta, con l’espressione «l'irruzione dell'etica applicata» (De Marco
e Fox, 1986). Que- sto appello all'etica applicata è stato fatto valere,
successivamente, con due diversi obiettivi critici. In un primo periodo
l'appello era rivolto a fare sì che punto di partenza e punto di arrivo
della riflessione etica fosse considerato non già la conoscenza della
natura della morale e delle forme di ragionamen- to in essa valide, ma la
ricerca di soluzioni normative. In un secondo periodo — a partire dagli
anni Ottanta — si sono contestate le stesse risposte norma- tive offerte
dalle opere sistematiche degli anni Settanta e la richiesta avanzata è
stata che in luogo di criteri normativi generali validi per tutte le
questioni etiche la riflessione critica fosse rivolta a delineare
soluzioni più determinate e settoriali in grado di risultare rilevanti
per una delle diverse dimensioni pro- blematiche riconoscibili
all'interno dell'etica pratica. La prima esigenza fatta valere
negli anni Settanta è stata dunque quella di trasformare la teoria etica
in modo tale che in essa l’obiettivo principale fosse non già quello
logico-conoscitivo di mettere a punto una meta-etica e dunque una
conseguente epistemologia, quanto piuttosto lo sviluppo sistematico di un
risposta esplicitamente normativa. Il neo-contrattualismo di J. Rawls e
Gautbier, il neo-utilitarismo di }. Harsanyi e poi di R. M. Hare e R.
Brandt, le diverse teorie dei diritti di R. Nozick e di R. Dworkin ecc. —
tutte conce- zioni a cui abbiamo già fatto riferimento specialmente nel
paragrafo 4 — sono alcuni dei tentativi più influenti di elaborare teorie
etiche impegnate prevalen- temente sul piano normativo. Le
differenti teorie etiche normative presentate nel corso degli anni Set-
tanta sono, di volta in volta, la riproposta sotto una nuova veste di opzioni
già formulate a partire dal secolo XVIL Il neocontrattualismo di Rawls e
Gau- thier tiene largamente conto dell'elaborazione contrattualista
precedente da Hobbes a Kant. Il neo-utilitarismo ha largamente discusso e
riproposto le pre- cedenti impostazioni di J. Bentham e J.S. Mill. I
teorici dei diritti non hanno mancato di tenere conto delle analisi di
Locke ecc. Restano dunque in larga parte operanti le stesse concezioni
che nel corso dell'età moderna e contem- poranea sono state indentificate
come utilizzabili da chi fosse alla ricerca di un criterio generale per
risolvere i problemi pratici degli esseri umani. Al livello dei principi
o procedure più generali non sembra si possa segnalare la nascita di
nuove etiche, ma si assiste solo allo sviluppo e all'approfondimento
delle linee etiche normative già disponibili. La novità
principale nell’«etica teorica» {e qui si intende una teorizza- zione
etica con obiettivi esplicitamente normativi) del XX secolo sta dunque
nelle forme che prendono le diverse concezioni normative, una trasforma-
zione che in realtà era stata già anticipata da H, Sidgwick con i suoi
Methods of Ethics (Sidgwick, 1963). In primo luogo le diverse proposte
normative non fanno più parte di una ricerca filosofica generale. Chi si
occupa di etica e con- tribuisce ad essa non colloca la sua ricerca in
una più ampia prospettiva che ad esempio affronti questioni generali
sulla conoscenza umana, la natura umana ecc. Si parte dando per scontata
una sorta di specializzazione per cui chi si occupa di etica e di
problemi normativi guarda esclusivamente a questi. I teorici dell'etica
contemporanea sono dunque eredi dei professori di filoso- fia morale come
Hutcheson o Smith, più che di filosofi come Hobbes, Locke € Hume (per non
dire che nulla hanno a che fare con personalità quali quelle dei
fondatori di morali come Cristo, Budda o Gandhi}. Laddove Hobbes, Locke e
Hume — ma ovviamente anche Kant — collocavano la loro atten- zione per i
problemi etici in un contesto filosofico generale, i teorici dell'etica
contemporanea limitano invece le loro analisi ai soli problemi pratici.
Questo si accompagna non solo con la specializzazione che abbiamo
sottolineato, ma anche con un più limitato orizzonte critico che viene fatto
valere nelle pro- poste etiche contemporanee. Tutti i diversi teorici
dell'etica muovono nelle loro analisi assumendo la validità di tesi più
generali sulla conoscenza, la ragione ecc. In questo senso le diverse etiche
teoriche acquistano senso solo vi. ste sullo sfondo delle diverse
prospettive filosofiche generali elaborate dai pensatori — che abbiamo
più volte richiamato — del XVII e XVIII secolo, Questa più marcata
limitazione del contesto dell’etica teorica contempora- nea è in molti di
questi pensatori esplicitamente riconosciuta e programmati. camente
affermata anche per quanto riguarda il piano dei valori di riferi. mento.
Così molti dei teorici dell’etica contemporanea ammettono di muo- versi
in contesti storici e culturali ben definiti identificando lo sfondo che
dì validità alle loro teorie normative con quello delle credenze
etico-politiche condivise nelle società liberal-democratiche occidentali
(Rorty, 1989; Rawls, 1994). Emerge dunque in molti teorici contemporanei
la tesi che l’etica è una riflessione critica che non solo muove da
intuizioni 0 credenze morali di par tenza che sono già date, ma che in
realtà non può operare al di fuori di un qualche contesto di credenze
condivise. Questo orientamento segna di fatto non solo una
specializzazione dell’etica teorica, ma anche l'abbandono in essa del
quadro universalistico in cui si muovevano i filosofi del XVII e XVIII
secolo. Parallelamente con questo restringimento della base del
discorso dell’etica teorica troviamo viceversa — e specialmente nelle
opere sisternatiche elabo- rate negli anni Settanta — uno sforzo di
approfondimento analitico molto più marcato, con la pretesa di realizzare
un'elaborazione coerentemente sistema- tica e un’argomentazione persuasiva
di ampio respiro. Se ci volgiamo infatti alle opere principali dell'etica
teorica contemporanea vediamo che la loro. mole e complessità rispetto
agli scritti dell'etica tradizionale è fortemente cre. sciuta. La base di
partenza è più ristretta ma la pretesa di approfondimento analitico è
maggiore. Le nozioni che la tradizione etica precedente trovava del tutto
comprensibili vengono ora sottoposte ad analisi dettagliate. In questa
direzione contributi del tutto nuovi vengono offerti, ad esempio: o con
una dettagliata tassonomia — dovuta in particolare agli utilitaristi —
delle diverse forme di preferenze; o con una classificazione — che
troviamo principalmente negli scritti dei neo-contrattualisti e dei
teorici dei diritti — delle principali differenze tra bisogni e
interessi; o con lo scavo — e qui sono i teorici della scelta razionale
ad offrire il maggiore contributo — delle diverse forme di ra- gionamento
con cui possiamo valutare le linee di azione che coinvolgono con-
seguenze future più o meno lontane e più 0 meno sicure. Ll terreno
dell'etica teorica appare dunque certamente come più limitato e ristretto
— un campo che si cerca di tenere distinto da quelli confinanti — ma esso
viene scavato con una profondità maggiore che nel passato in tutte le sue
parti. La convin- zione che muove questo approccio è che le radici delle
questioni etiche possano essere raggiunte non già derivandole da un altro campo
di ricerca, ma andando sempre più a fondo nello scavo dell’area
dell’etica considerata come autonoma e autosufficiente. Quello che lascia
particolarmente insoddisfatti è che i tratti generali del paradigma della
ricerca si trovano messi in pratica e ripresi acriticamente senza nessuna
elaborata valutazione della loro adegua- tezza. Né vi è una sensibilità
per la questione — a mio parere decisiva — di come la vicenda dell'etica
teorica contemporanea possa essere raccordata — acquistando con questi
raccordi senso e rilevanza — con i lasciti e i residui della passata
elaborazione. Molto più accentuata che nel passato è poi la pretesa
di sistematicità e di coerenza interna, così come della massima
completezza possibile. In questo senso l’etica teorica si muove prendendo
a modello le teorie scientifiche in generale. Proprio per questo
tentativo di strutturarsi in analogia con gli uni- versi scientifici
prevale tra le diverse concezioni normative una tendenza al monismo etico
e nello stesso tempo assistiamo ad un progressivo allargamento
dell'ambito di casi e fenomeni investiti. Una tendenza verso il monismo
nor- mativo era presente anche nelle etiche tradizionali che
insistentemente anda- vano alla ricerca di un solo principio
fondamentale. Una volta caduto l’oriz- zonte fondazionale il monismo
etico si presenta come la ricerca di un unico criterio di decisione per
tutte le situazioni problematiche nella convinzione che la presenza di
più criteri non può che originare conflitti e disaccordi insanabili.
Nei sistemi normativi degli anni Settanta troviamo infine approfondito
lo sforzo di argomentare in modo persuasivo e convincente a favore della
posi- zione fatta valere. La dimensione per così dire retorica e
persuasiva diviene esplicita e diventa primario l'impegno a fornire già
all'interno di ciascuna teo- ria una risposta alle critiche avanzate
dalle concezioni alternative. Prevalgono quindi nell’etica teorica
contemporanea le esigenze di una discussione pub- blica. Le diverse
etiche si presentano infatti in primo luogo come discorsi si- stematici e
razionalmente giustificati nel modo più compiuto, sviluppati per
convincere gli interlocutori nella discussione pubblica a proposito della
pre- feribilità delle opzioni normative proposte. Questi tratti spiegano
nello stesso tempo, da una parte la maggiore concretezza delle etiche teoriche
contempo- ranee rispetto a quelle tradizionali e, dall'altra, il loro
minore respiro e la loro collocazione in un contesto storicamente più
limitato. 5.5. I principali campi dell'etica applicata. — Ma come
si è detto un’ulte- riore svolta ha segnato l'etica teorica a partire
dagli anni Ottanta. Vengono contestate ora le stesse teorie impegnate
nella presentazione di grandi sistemi normativi, denunciando la loro
astrattezza e la loro irrilevanza per i problemi pratici effettivi.
L'impegno in una riflessione etica che abbandonasse il piano delle
concezioni astratte veniva a caratterizzare sempre di più gli anni Ot-
tanta. Anzi in questa direzione era la medicina a salvare l'etica — come
si esprimerà Toulmin {$. E. Toulmin, How Medicine saved Etbics, in De
Marco e Fox) — nel senso che i nuovi problemi etici generati dagli
svi- luppi della medicina e della biologia ponevano in modo urgente una
richiesta di soluzioni che non poteva essere soddisfatta dai grandi
sistemi normativi classici o contemporanei. Laddove infatti i sistemi
normativi degli anni Set- tanta avevano al loro centro i problemi della
giustizia sociale e della cittadi- nanza, le questioni della guerra
giusta e delle relazioni internazionali, vice- versa i nuovi problemi
posti dalle mutate condizioni nella nascita, morte e cura degli esseri
umani coinvolgevano dimensioni etiche completamente di- verse,
Inizia così un processo di articolazione e sviluppo di una miriade di
settori nuovi nell’etica applicata che, in parallelo con la tendenza
della cultura ame- ricana alla specializzazione e alla
professionalizzazione, porta al consolidarsi e istituzionalizzarsi di
vari campi dell'etica pratica considerati come autosuffi- cienti. Compare
così la nuova figura professionale dell’eticista, ovvero del- l'esperto
dei problemi di un particolare settore. Certamente la riflessione etica
guadagna così in concretezza, ma una ricerca esclusivamente impegnata
nel- l’evidenziare i criteri ed i principi etici validi per specifici e
peculiari problemi applicativi va incontro ai limiti del settorialismo e
della iper-specializzazione. Dopo lo sforzo di scomposizione e di
indagine ravvicinata dei singoli campi problematici che ha accompagnato
il fiorire delle varie dimensioni dell'etica pratica è ora auspicabile un
lavoro di sintesi e di ricomposizione che identifi- chi i principi e i
criteri etici validi in generale e che sappia fornire visioni d'in- sieme
della vita etica. La maggior parte dei diversi settori dell'etica
applicata consolidatisi negli ultimi decenni del secolo XX ha a che fare
con i problemi pratici del tutto nuovi che sono sorti con lo sviluppo
della tecnologia e detta ricerca medico- biologica. Tutta una serie di
azioni e pratiche umane che risultavano neutre da un punto di vista etico
o che comunque erano affidate quasi integralmente a processi naturali e
biologici, e dunque considerate al di là delle decisioni re- sponsabili,
sono entrate a far parte dell’universo di eventi influenzati dai di-
versi criteri per discriminare tra scelte giuste e ingiuste. In
primo luogo si sono andate consolidando come aree largamente indi-
pendenti dell’etica applicata alcune dimensioni problematiche già colte
dalla riflessione del secolo scorso, Laddove nel Settecento trovavamo
solo degli ac- cenni in Bentham sulle sofferenze degli animali, nella
seconda metà del XX secolo si è assistito al fiorire di una vera e
propria etica impegnata nel realiz- zare la liberazione degli animali
(Singer, 1992). St sono sviluppate diverse con- cezioni generali rivolte
a giustificare un trattamento non discriminante per le sofferenze degli
animali: da posizioni mistiche o religiose, a quelle utilitaristi- che a
quelle che ruotano intorno all'elaborazione di una teoria dei diritti an-
che per gli animali (T. Regan, 1990). In questo caso la presentazione di
una risposta normativa alla questione del trattamento degli animali va di
pari passo con una ridescrizione della loro condizione. I libri dei
teorici della libe- razione animale sono infatti insostituibili per la
ricchezza di dati e esemplifi- cazioni che forniscono sulle pratiche
invalse — il più delle volte inutilmente crudeli — per quanto riguarda
l'uso degli animali nella ricerca medica e far- maceutica, nell'industria
cosmetica a dell’abbigliamento, nella produzione in- dustriale di cibo
ecc. (Singer, 1992). Una grande fioritura, in quest'ultima parte
del XX secolo, hanno avuto i tentativi — già presenti ad esempio in uno
scritto del 1869 di J. S. Mill su The Subjection of Women (La soggezione
delle donne) — di affrontare in modo esplicito e sistematico i problemi
etici legati al differente trattamento — nelle istituzioni e nelle
pratiche sociali — di persone di sesso diverso. Il dibattito critico sulle
discriminazioni legate alle differenze sessuali ha assistito non solo a
una ricerca rivolta a ricavare soluzioni giuste dalle diverse concezioni
nor- mative disponibili, ma anche alla presentazione di tesi femministe
che hanno insistito sulla radicale inconciliabilità tra l’elaborazione di
un'etica delle donne e le concezioni tradizionali. Così da una paste si è
discusso sull’alterna- tiva tra l’universalismo che sarebbe proprio
dell'etica maschile e l'assunzione delle differenze di genere come
orizzonte decisivo che è proprio dell'etica femminile {Irigaray 1985).
Dall'altra si è insistito sulla tesi che il recupero del punto di vista
femminile farebbe emergere valori del tutto peculiari e in luogo di una
centralità del valore della giustizia tipicamente maschile segnerebbe
l'affermazione del valore della cura (Gilligan, 1982). Molti altri
tradizionali problemi etici sono stati rivisitati alla luce della si-
tuazione contemporanea e coloro che se ne sono occupati hanno dato vita a
un'ampia produzione specialistica. Tra i campi più significativi per la
costitu- zione di un'ideale «Enciclopedia Pratica» del nostro tempo
ricordiamo le ri- flessioni dedicate a: le guerre giuste e l'uso — lecito
o no — della violenza {Walzer, 1990); le particolari regole che governano
le relazioni internazionali tra stati (Bonanate, 1992); le questioni più
strettamente legate alle discrimina- zioni di tipo razziale e culturale
(Walzer, 1987); i problemi del trattamento della povertà anche
riconoscendone le articolazioni geografiche (Sen, 1981); il tuolo della
pena nel diritto (Ferrajoli, 1989). Una ben precisa area di etica degli affari
si è costituita per i problemi morali posti dall'attività economica e
produttiva, e qui i maggiori avanzamenti sono venuti dall’uso di una
tecnica del tutto nuova fornita dalla «teoria della scelta razionale»
(Sacconi, 1991). Infine un incremento notevole hanno avuto le
riflessioni morali — già pre- senti in Ar Essay on the Principles of
Population del 1798 di Thomas Robent Malthus (Saggio sul principio di
popolazione) e nei Principles of Political Eco- nomy del 1848 di J. S.
Mill (Prizcipi di economzia politica) — relative alla que- stione etica
di una procreazione responsabile. Tali riflessioni hanno forte mente
approfondito le questioni collegate al contesto di decisione costituito
dall’intreccio tra le previsioni sullo sviluppo demografico e quelle sulla
dispo- nibilità di risorse. Tutta questa tematica ha portato ad elaborare
una vera e propria etica delle generazioni future. Le questioni della
giustizia tra genera- zioni, della regolazione delle nascite in
previsione della presenza nel 2050 di oltre dieci miliardi di esseri
umani, dei rischi dello sviluppo tecnologico per gli esseri umani futuri
sono al centro di riflessioni che hanno anche contri- buito a modificare
il quadro complessivo delle etiche tradizionali (Parfit, 1989; Jonas,
1990). Del tutto nuovi sono invece due settori di etica applicata.
Da una parte abbiamo il consolidarsi e determinarsi della bioetica come
disciplina auto- noma che affronta sistematicamente i problemi etici
posti dallo sviluppo della medicina e della biologia. Non possiamo qui
fare altro che accennare ai prin- cipali tra questi problemi del tutto
nuovi che coinvolgono la nascita, la morte e la cura degli esseri umani:
la fecondazione artificiale ix vitro: l'uso nei re- parti di terapia
intensiva di strumenti vicarianti le funzioni essenziali della
respirazione, alimentazione e idratazione; il ricorso ai trapianti; la
diagnostica prenatale; la ricerca sul DINA e l’ingegneria genetica;
l’accresciuta conoscenza dello sviluppo embrionale e la possibilità di
realizzare in laboratorio le prime fasi di questo sviluppo con eventuali
conseguenti sperimentazioni ecc. Vita umana, persona umana, sanità,
malattia, benessere, diritti dei malati, dignità della morte, doveri dei
medici ece. sono solo alcune delle nozioni che ven- gono sottoposte a
riesame nella riflessione bioetica che si è concretizzata in una
sterminata letteratura e nella nascita di una ben precisa disciplina. Nel
corso di questa ricerca sono emerse tendenze a far valere alcuni nuclei
tema: tici specifici come nucleo della discussione (ad esempio la
contrapposizione tra un’etica che si impegna principalmente nel sostenere
la non disponibilità e sacralità della vita umana e un'altra che ritiene
invece centrale la preoccupa zione per una buona qualità della vita
umana; Kuhse, 1987), o a enucleare principi più specificamente rilevanti
per le problematiche della nascita, morte e cura degli esseri umani (in
questo senso è, ad esempio, frequente il richiamo a un principio di beneficenza
o ad un principio di autonomia: Engelhardt, 1991, ma anche Gracia,
1993). Infine le conseguenze devastanti che sull'ambiente hanno
avuto gli svi- luppi scientifici e tecnologici e l'incremento demografico
a livello planetario hanno reso eticamente rilevante una serie di azioni
umane con effetti più o meno diretti, immediati o futuri sulla natura. La
riflessione di etica ambientale è stata caratterizzata da una
molteplicità di concezioni (Bartolommei, 1989): quella più religiosa e
sacrale rivolta a dare un valore intrinseco alla natura; quella
utilitaristica tesa a calcolare le differenti conseguenze (in termini di
danno e beneficio) sull'ambiente di differenti strategie operative; quella
che cerca di estendere il linguaggio dei diritti anche a oggetti naturali
ecc. Non abbiamo fatto altro che elencare le differenti dimensioni
dell'etica ap- plicata. Infatti dalla prospettiva complessiva da cui
muoviamo dobbiamo limi- tarci a rilevare la fertilità di questo recente
dibattito, sia nel senso di un arric- chimento delle nostre conoscenze
sui problemi pratici effettivi degli esseri umani, sia nel senso di un
incremento del processo di democratizzazione del- l'etica (al centro di
tutti i diversi settori dell'etica applicata troviamo individui umani che
affrontano autonomamente i loro problemi). Il pericolo che sta dietro
questo specializzarsi e professionalizzarsi dei vari campi dell'etica ap-
plicata è quello della frammentazione. Ciò che fa questione non è tanto il
fatto che ciascun individuo elabori da sé la propria etica, quanto
piuttosto quella confusione che nella vita pratica di ciascuno può
derivare dall’appello, in si- tuazioni diverse, a principi o criteri
etici differenti come risolutivi. Una fram- mentazione in questo senso
può spingersi fino a esigere dallo stesso individuo comportamenti
incompatibili. In contrasto con questa tendenza l’obiettivo di una
unificazione richiede un recupero di tutte le diverse dimensioni
dell'etica teorica di cui abbiamo reso conto nei paragrafi precedenti. Un
contesto uni- tario per le riflessioni etiche può infatti essere offerto
da teorie generali che — sul piano meta-etico, epistemologico e normativo
— identificano quel nucleo comune valido per qualsiasi approccio o discorso
che pretenda di farsi valere come etico. 6. Le dimensioni
dell'etica. 6.1. La morale e le relazioni personali. — Nel corso
dei paragrafi prece- denti abbiamo reso conto dei problemi generali al
centro dell'etica in modo unitario non tracciando distinzioni al suo
interno. Così finora in modo unita- rio si sono affrontate le questioni
di una caratterizzazione, definizione, giusti- ficazione o fondazione,
applicazione e formulazione sistematica dell’etica. Ma le norme e i valori
con cui ha a che fare l’etica complessivamente intesa ven- gono in vari
modi distinti in campi più o meno nettamente differenziati nei nostri
discorsi e nelle forme di vita. In questo paragrafo renderemo conto bre-
vemente della distinzione più comune e consolidata che vede l'etica
compren- dere i diversi piani della morale, del diritto e della
politica. Ricorrendo all'aiuto della storia dell'etica possiamo
rilevare che nell’età moderna e contemporanea vi è una certa convergenza
nel discriminare tra morale, diritto e politica, mentre notevoli
differenze vi sono per quanto riguar- da i criteri a cui ci si è
richiamati per tracciare queste differenze. I differenti criteri
risultano — come vedremo nelle pagine seguenti — in definitiva funzio-
nali alle diverse opzioni meta-etiche, epistemologiche e normative da cui
sono mossi coloro che hanno proposto una ricostruzione dei campi
dell'etica. Un primo modo per caratterizzare il campo dell'etica
che proponiamo di chiamare morale in senso stretto è quello di
considerarlo come quel settore in cui sono in gioco principi e norme che
guidano, 0 dovrebbero guidare, azioni che producono negli altri
conseguenze positive o negative diverse dal danno in gioco con le azioni
di rilevanza giuridica e dai benefici o danni provocati dalle azioni di
rilevanza politica. Proprio in quanto diverso è il raggio di in- fluenza
con cui ha a che fare la morale strettamente intesa essa ha anche a che
fare con una sanzione del tutto particolare che va tenuta distinta da quella
in gioco con la legge giuridica e con quella politica: una sanzione
semplicemente in termini di disapprovazione pubblica piuttosto che di
concrete pene 0 multe o di allontanamento dalla cittadinanza politica.
Questa caratterizzazione dei vari campi dell’etica è largamente corrente
tra gli utilitaristi ed è stata deli- neata già nel 1859 in On Liberty di
J. S. Mill (Saggio sulla libertà). La caratterizzazione così
avanzata della natura delle regole e dei principi specificamente morali —
ovviamente nel senso meta-etico di cui qui ci occu- piamo — è in realtà
pur sempre carica di normatività in quanto si presenta come una
ridefinizione stipulativa. Alcuni avvertiranno in questa caratterizza-
zione un limite dato dal fatto che essa esclude comunque una qualunque
rile- vanza etica per quelle regole e principi che riguardano stati
d'animo o azioni del tutto privati, ovvero tali che non hanno nessun tipo
di conseguenza — né benefica, né negativa — sugli altri. Possiamo offrire
un chiaro esempio di que- sto campo di azioni del tutto private e che non
sarebbero di pertinenza della morale così intesa rinviando ad atti di
auto-erotismo o al modo in cui impie- ghiamo il nostro tempo
libero. È così chiaro che stiamo proponendo una caratterizzazione
della morale più stretta rispetto a quella a cui giungono coloro che,
muovendosi all’interno di una tradizione spiritualistica e
giusnaturalistica, trovano l'etica complessivamente intesa come un insieme di
doveri verso Dio, se stessi e gli altri. An- che all'interno di questo
approccio all’etica, comunque, il livello della mora- lità per così dire
del tutto privato si presenta come diverso rispetto a quello della
moralità che coinvolge altri; nel complesso poi l’insieme della morale va
tenuto distinto dalle azioni con cui hanno a che fare il diritto e la politica.
Il piano delle regole morali del tutto private e personali può essere
considerato come campo di applicazione di principi e regole
super-erogatorie che hanno a che fare con una vita santa, eroica o perfetta
(Urmson, 1958): una forma di vita che solo cedendo al fanatismo può
essere prescritta universalmente. La morale super-erogatoria va dunque
tenuta distinta dalla morale che ha a che fare con azioni di benevolenza
o generosità che per quanto considerate dove- rose e obbligatorie non lo
sono certo nello stesso senso delle azioni che evi- tano il danno fisico
per gli altri. Vediamo così ricomparire una distinzione tra diversi piani
della vita etica, sia pure su basi differenti. Muovendoci all’interno
dell'approccio utilitaristico già delineato sugge- riamo però di
collocare al di fuori dell'etica generalmente intesa non solo le azioni
strettamente interessate a obiettivi economici, ma anche molte azioni del
tutto indifferenti moralmente che ciascuno di noi può compiere nel modo
che preferisce laddove queste non coinvolgano in alcun modo gli altri. In
que- sto senso questa concezione dell'etica si presenta come fornita di
limiti anche per quanto riguarda l'ambito della moralità strettamente intesa
(Williams, 1987). i Possiamo dunque collocare l'ambito della
morale nel campo delle azioni benevole e generose che non siamo tenuti a
compiere con la stessa coercività dei nostri obblighi giuridici e
politici. La morale cioè ha a che fare con un universo di azioni — che
saranno poi distinte in buone e cattive a seconda dei diversi valori
sottoscritti — che gli altri non si aspettano da noi come soddi-
sfacimento di loro diritti giuridicamente o politicamente riconosciuti. Le
no- zioni di obbligo, dovere, diritto possono avere un uso nel contesto
della mo- rale, ma con un significato che va tenuto nettamente distinto
da quello che tali nozioni hanno nel contesto giuridico e politico. Molte
confusioni e conflitti sociali nascono dall’incapacità di tenere distinti
questi diversi livelli dell'etica, In un campo della morale così inteso
le diverse concezioni dei valori potranno confrontarsi presentando
appunto diversi modelli e stili di vita virtuosa. La vita virtuosa si
distinguerà poi, da una parte, dalla vita santa o eroica e dall'al- tra
da quel tipo di vita che è richiesto a ciascuno di noi dalle leggi del
suo paese e dalle regole politiche della sua società. : In un
approccio del genere diventerà decisivo riuscire ad individuare, e tenere
ben distinto, un ambito di danno o offesa che è coinvolto dalle azioni di
pertinenza della morale strettamente intesa. Si tratta di sviluppare
l’idea — messa a punto dagli utilitaristi e più recentemente da H. L. Han
(Hart) e Feinberg (Feinberg) — che ci sono alcune aree delle nostre
azioni interpersonali in cui non sono in gioco danni di rilevanza giuridica,
ma solo danni e offese morali. Gli altri si aspettano da noi un certo
comporta- mento anche se questo comportamento non è sanzionabile mediante
l’inter- vento della legge. Il piano di questi obblighi morali coinvolge
principalmente le relazioni più strettamente personali ovvero quelle
relazioni che riguardano i rapporti familiari, i rapporti tra persone di
sesso diverso, le relazioni tra per- sone di diversa età, le relazioni
collegate a diverse responsabilità professionali o di status sociale ecc,
Tutta un'area di relazioni personali coinvolgono per ciascuno di noi
obblighi relativi al suo status (figlio, padre, marito, amico, me- dico,
docente ecc.) che non fanno riferimento a danni giuridici, ma a danni
morali. Possiamo provare a suggerire l'estensione e l’importanza di un
ambito della morale così determinato pensando al rilievo che nelle relazioni
umane hanno le promesse che non siano state codificate in un contratto, o
alle aspet- tative che ci legano con gli altri esseri umani con cui
abbiamo istituito più strette relazioni personali. Proprio quest'ambito
della moralità è quello che rende possibile la convivenza civile. Infatti
laddove cerchiamo di ancorare la permanenza di una qualche forma di
società civile o ordine sociale al ricono- scimento di obblighi e danni
esclusivamente legali non riusciamo a rendere conto di niente altro che di
uno stato di polizia. Senza basi morali la convi- venza può essere
garantita solo da uno Stato ossessivamente preoccupato che nessuna azione
dei suoi cittadini sfugga al controllo delle sue sanzioni. E si tratterà
comunque di uno stato di polizia la cui accettazione come legittimo da
parte di coloro che si riconoscono come suoi cittadini risulterà del
tutto incomprensibile a meno che — con un ragionamento circolare e
vizioso — non si voglia fare appello alla autorità derivata dalla sola
forza. Il divitto e î sistemzi codificati. — Un ambito dell'etica
completamente diverso da quello in gioco nella morale è quello in gioco
nel diritto e nell'in- sieme delle norme giuridiche. Qui — come peraltro
con la politica — ci muo- viamo nel campo dell’etica pubblica, laddove
con la morale abbiamo a che fare con l’etica privata (Veca). Largamente
condivisa è la tesi di una marcata differenza tra piano delle regole
morali e piano del sistema giuridico, nel senso che quest’ultimo rinvia
necessariamente a un momento di codifica- zione. Anche i teorici del
giusnaturalismo, che pur vedono la sfera giuridica come strettamente
correlata con la legge morale naturale, accettano Ja distin- zione — sia
pure cronologica 0 tecnica — tra il piano naturale della morale € quello
civile proprio delle procedure che caratterizzano il diritto e la politica,
Significativa in questa luce la posizione espressa da Locke nel 1690 nei
Two Treatises of Government {Due trattati sul governo; Locke).
Locke vede già presente nello stato di natura il diritto di punire come
dirit- to di ognuno, ma individua nel passaggio alla società civile la
realizzazione di una completa delega di questo diritto a un magistrato
che potrà usare — unico autorizzato — la forza e fare rispettare le sue
decisioni, che non sa- ranno più caratterizzate dagli inconvenienti che
accompagnano nello stato di natura l’uso del diritto di punizione da
parte di ciascuno. Uno dei grandi problemi al centro dell'etica è
proprio quello delle connes- sioni tra morale e diritto. La questione
preliminare è quella di spiegare in che senso le norme del sistema
giuridico — ovvero le norme che si occupano della giustizia penale e
pubblica e che sono sanzionate con l’uso della forza — sono collegate con
le norme morali (ovvero pre-giuridiche o non-giuridiche). La soluzione
più semplice è quella del positivismo giuridico che ritiene che di vero €
proprio diritto non si possa parlare se non dopo il costituirsi di un
governo riconosciuto, legittimato e autorizzato a promulgare norme
giuridi- che. Queste norme saranno poi valide giuridicamente laddove
siano state pro- mulgate osservando le procedure previste nello Stato —
dalla Costituzione o dalle sue leggi fondamentali — per l’amministrazione
della giustizia (Scarpelli). La posizione del positivismo giuridico non è priva
di difficoltà in quanto confonde due nozioni etiche concettualmente
diverse, ovvero la legge promulgata correttamente, e cioè nei modi
previsti dalla Costituzione, e la legge giusta. Norme del tutto in regola
dal punto di vista della validità formale richiesta dal positivismo
giuridico — come quelle pro- mulgate dal regime nazista — possono
risultare del tutto ingiuste e tali da esigere un obbligo di resistenza
da parte dei cittadini (Dworkin). Alcune posizioni che si
presentano come alternative al giusnaturalismo si distinguono dal
positivismo giuridico proprio in quanto riconoscono un col- legamento tra
morale e diritto. Questo è ad esempio vero per l'utilitarismo fin da
Bentham. Infatti Bentham riconosceva l’ineliminabilità di questa connes-
sione rappresentando la morale e la legge come due sfere concentriche,
l'una più ristretta costituita dal diritto e l’altra più ampia costituita
dalla morale. Questa immagine permette di capire sia in che senso la
morale condiziona la sfera giuridica, sia in che senso l'ambito del
diritto debba essere considerato più ristretto di quello proprio della
morale. Questa stessa linea di analisi è stata elaborata in modo compiuto
da J. $. Mill, I collegamenti tra queste due dimensioni dell'etica
— la morale e la legge giuridica — sono complessi e ineliminabili, Non
solo i limiti di applicazione della legge giuridica — ovvero la
distinzione tra l'ambito di pertinenza della sanzione giuridica e quello
in cui c'è completa libertà dalle sanzioni e in cui dunque vale la sola
critica che si manifesta nella discussione pubblica —, ma le stesse
procedure mediante le quali vanno accertate le azioni che sono rile-
vanti dal punto di vista della responsabilità giuridica e infine gli stessi
modi in cui va articolata la sanzione e la pena giusta esigono un rinvio
continuo a con- siderazioni di ordine morale (Ferrajoli, 1989). Il
riconoscimento di un’effer- tiva responsabilità giuridica rientra
anch'esso in un discorso che esige il ri- corso ad assunzioni di ordine
morale. Non diversamente assunzioni di ordine morale sono in gioco
laddove si discute la questione della pena adeguata o giusta o meritata
pet un determinato reato. Tutta la discussione sull’uso della tortura,
della pena di morte e dell’ergastolo da parte di sistemi penali sta lì a
mostrare questo intreccio. 6.3. La politica e i fini del governo.
— L'ambito dell’etica che invece pos- siamo denominare «politica» è
quello che rinvia ai principi e alle norme che all’interno di una società
riguardano non tanto i rapporti giuridici, quanto l’azione del governo e
il riconoscimento della sua legittimità. Una parte della dottrina etica
che coinvolge la politica riguarda dunque l'individuazione dei principi
che sono in grado di dare ai governanti l'autorità per governare, e
conseguentemente gli obblighi di lealtà dei cittadini nei confronti dei loro
go- vernanti (e di riflesso gli obblighi dei governanti nei confronti dei
loro citta- dini) e infine l’esistenza o meno (e in quali limiti) di un
diritto dei cittadini a resistere alle leggi dello Stato.
Basta volgersi alla riflessione di filosofia politica per vedere quanto
già in quell'epoca fosse centrale la ricerca di una base morale che desse
validità alla pretesa dei governanti di avere un'autorità sui loro
cittadini, Il primo dei Tivo Treatises di Locke rappresenta un chiaro
tentativo di conte- stare la pretesa avanzata da Filmer nel Patriarca che
i sovrani potessero rica- vare il loro diritto ad un'autorità assoluta
sui loro sudditi da una investitura diretta da parte di Dio ad Adamo che
era poi stata trasmessa — secondo una linea diretta, di successione — ai
suoi eredi. La cultura filosofica presenta non solo l’attacco più radicale alla
concezione assolutistica del potere politico come di origine divina, ma
anche i primi decisi tentativi di ricavare da principi più mondani il
potere dei governanti. Così Hobbes e Locke percorrevano la strada del
contratto come base del potere politico, ma le due forme di contratto a
cui si richiamavano erano tali da condurre a due diversi tipi di potere
politico, l’uno totalitario ed illimitato e l'altro invece de- terminato
e limitato dal rispetto di una serie di diritti che comunque il cittadino deve
salvaguardare. Perciò, mentre Hobbes non sembra riconoscere un vero e
proprio diritto di resistenza, Locke lo accetta, come del resto dopo di
lui faranno tutti i teorici dello stato liberale. Quasi tutta la
filosofia politica contemporanea, da J. Rawls a R. Dworkin, da A. Downs a
R. Dahl, si muove elaborando le basi etiche di una teoria libe-
ral-democratica (Brown, 1986). È oramai fuori discussione che solo l’investi-
tura popolare mediante votazioni democratiche può giustificare il potere
po- litico. Così come è largamente accettata la convinzione che il potere
politico deve limitarsi nelle sue leggi in modo tale da non toccare i
cosiddetti diritti negativi dei suoi cittadini. Non viene nemmeno posto
in discussione — spe- cialmente dopo l’esperienza dei regimi totalitari
del XX secolo quali il nazi- smo e lo stalinismo — il riconoscimento del
diritto dei cittadini di resistere ai comandi ingiusti dei loro governanti,
anzi addirittura viene riconosciuto il loro dovere di boicottarli e di
lottare contro di essi. Per quanto riguarda poi la riflessione
etica sugli scopi del governo essa ha subito a partire dal XIX secolo una
radicale trasformazione laddove si è con- siderato come uno dei compiti
primari dei governi garantire ai cittadini non solo la pace sociale, la
vita, la salvaguardia dei diritti di proprietà, ma anche il benessere, la
salute, la qualità della vita ecc. Quando sono entrati in gioco quelli
che si considerano più propriamente i diritti positivi (cfr. sopra, $
4.5) dei cittadini si è posto il problema di quanto si dovesse ritenere
autorizzato il potere di un governante che, ad esempio, ponesse dei
limiti ai diritti negativi dei suoi concittadini al fine di far
progredire i diritti positivi della maggioranza. Si tratta di questioni
etiche che la riflessione sul potere po- litico si è trovata davanti in
particolare all’interno della questione sociale e sulla base delle lotte
sostenute dalle classi operaie e dal movimento socia- lista (Bobbio).
Molte delle questioni etiche in gioco nella politica coinvolgono
diretta- mente le relazioni internazionali tra Stati. È oramai del tutto
superata la posi- zione considerata ovvia nel XVII secolo per esempio da
Hobbes, ma anche da Locke, che riteneva i rapporti tra Stati come
costitutivamente collocabili nella sfera di uno «stato di natura». Nel
corso dell'età moderna e contemporanea non solo è cresciuta l’esigenza di
una valutazione etica delle motivazioni che ispirano le azioni
internazionali dei governanti (Bonanate, 1992), ma si è an- che affermata
sempre più la spinta a far valere anche tra Stati una serie di principi
consensualmente accettati che garantissero, nei limiti del possibile, la
pace. È stato Kant {Kant) che ha fatto valere con decisione l'esigenza di
estendere anche alle relazioni internazionali quel requisito della pace
che si riteneva necessario per i rapporti all'interno della società civile.
Le Filosofia_in_Ita3 riflessioni etiche sull'uso della forza nelle
relazioni internazionali tra Stati nel XX secolo hanno poi dovuto
affrontare le questioni nuove segnate dalla crea- zione di armi nucleari.
Molto insistita è stata la conclusione che l’uso di armi che, come quelle
nucleari, mettono a rischio l’esistenza della stessa umanità, non può
essere giustificabile al di lì della sola funzione deterrente (Kavka,
1987; Pantara, 1989). Anche sul piano delle relazioni internazionali
si è poi ripresentata in que- sto secolo una riflessione etica che non
investe solo quei fini dei governi esclu- sivamente rivolti a
salvaguardare o difendere i diritti negativi dei cittadini del mondo, ma
ancor più i cosiddetti diritti positivi. In particolare l'incremento
della popolazione mondiale, una differenza sempre più incolmabile tra
qualità della vita nei paesi ricchi e sviluppati dell'Occidente e povertà
nei paesi sot- tosviluppati dell’Africa, dell'Asia e dell'America del Sud
hanno posto come problema etico primario per la politica la questione di
quanto si debba ritenere obbligatoria una qualche forma di giustizia sociale
internazionale (Pon. tara, 1988; Singer, 1989; Sen, 1994), Da
un punto di vista teorico generale, così come si è assistito a un
allarga- mento dello spazio per l’etica nel senso di una progressiva
democratizzazione delle responsabilità e decisioni che essa richiede in
modo paritario a tutti i cittadini del mondo, si assiste altresì a un
analogo allargamento di questo spa- zio nella direzione di un incremento
delle questioni che ad essa si demandano. L’ipotesi che avanziamo —
ovviamente carica di un’opzione normativa — è che ci si muova verso un
allargamento delle aree problematiche che vengono affidate alla
discussione pubblica e dunque a una regolamentazione pacifica- mente
concordata, sottraendole al terreno in cui si fa ricorso alla forza. Così
sul piano internazionale vediamo sempre più riconosciuta — almeno al
livello del dover essere — l'esigenza di un governo mondiale —
democraticamente costituito e rispettoso della libertà dei suoi membri —
impegnato a garantire pace e giustizia sociale a livello planetario.
Oggigiorno sembrano quindi pri- vilegiate quelle teorie etiche normative
in grado di rendere conto in modo adeguato delle nuove estensioni
problematiche presenti nella situazione sto- rica degli esseri umani, Una
competizione con le sole armi dell’argomenta- zione razionale e della
conoscenza tra concezioni normative può favorire l’in- dividuazione di
soluzioni giuste ed efficaci. In generale poi una richiesta di maggiore riflessione
sull’etica può trovare una sua giustificazione in quanto questa
riflessione — sia pure in modi più o meno indiretti — contribuisce a
rendere più realizzabili gli obiettivi della pace, della libertà e della
giustizia sociale per l'insieme dell'umanità senza dovere ricorre alla
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Wirson, Sociobiologia: le nuova sintesi, Bologna, Zanichelli, WarisHT, An Essay
in Deontic Logic and the General Theory of Action, Amsterdam, North
Holland, Filosofia_in_Ita3 INDICE DEI NOMI: Abbagnano Cooper A.A., v.
Shaftesbury Alchourron Crusius Almond Althusius Dahl Anscombe Darwin Apel
Davidson LIZIO Dawkins Arrow De Marco Austin Descartes Austin Desmond Axelrod
Dewey Ayer D'Holbach Downs Baier Dumont Bartolommei Dworkin Bentham Engelhardt
Berlin Epicuro L’ORTO Blackburn Ewing (CITED BY GRICE) Bobbio Bonanate Fagiani
Brentano Feinberg Brown Ferguson Buchanan Ferrajoli Buddha Ferrara Bulygin
Filmer Butler Finnis Foot Canziani Fox Carcarerra Frankena Cartesio, v.
Descartes R. Freud Cassese Clarke Gandhi Collins Gargeni Colman Gauthier
Condillac (Etienne Bonnot de), 92. Gibbard om/Filosofia_in_Ita3 Gilligan
Glover Gough Gracia Grice, H. P., Grice (Welsh) G. R. Grozio Habermas
Hagerstròm Hare Hart Hartley Hayek Helvétius Hennìs Herbert di Cherbury Hobbes
Hudson Humboldt Hume Hutcheson Irigaray Jonas Jonsen Jules Jung Juvalta Kant
Kavka Kelsen Kuhse Landucci Locke Lorenz Lyons Mackie Macpherson Magri Malthus
Mandeville Manzoni Marirain McDowell Melniyre Meek Mill Mill Montaigne
Moore Moore Musacchio Nagel Norton Nowell Smith Nozick Oppenheim Parfit Pontara
Preti Prichard Pufendorf Putnam Rawls Regan Resnik Rorty Rass Rossi Rousseau
Ruse Sacconi Scarpelli Scheler Filosofia_in_Ita3 INDICE DEI
NOMI Schlick Sen Shaftesbury Cooper Sidgwick Singer Singer Smart
Smart Smith Snare Spencer Spinoza Stevenson Strauss Sugden Thomasius Aquino
Toulmin Urmson Veca Viano Walzer Warrender Weber White Wiggins Williams
Wittgenstein Wolff C., Wiollaston Wright .com Filosofia_in_Ita3 Introduzione
La natura dell'etica si ci. Fondazione, giustificazione e spiegazione:
l’epistemologia dell'etica CRA ERA Le etiche normative; concezioni in
contrasto Dall’etica teorica all’etica
pratica Di Le dimensioni dell'etica Nota bibliografica Indice dei nomi
.. po. Eugenio Lecaldano. Lecaldano. Keywords: simpatia, simpatico,
antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile, transpatia, patia,
patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice: “Scheler uses
‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani della
simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia, impassibile, im-
negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in Italia, illuminati e
illuministi --. Refs.: transpatia, dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi
Speranza, “Grice e Lecaldano” – The Swimming-Pool Library. Lecaldano.
Grice e Lelio: la
ragione conversazionale al portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha fama
soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce
i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del
Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina
nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra
contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la
pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili
determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro
questo e i suoi fautori. E ammirato, se non come oratore, come uomo
politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli
dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console
della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare
romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda) Africano, che
segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e
questore. Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in
seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo
un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla
presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una
grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa
lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato,
dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia
rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani,
mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono
cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio
Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un
grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto
che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere
degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato
decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di
ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a
Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le
stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore
e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano,
a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio
Cepione. Smith, Dictionary
of greek and roman biography and mythology, The Ancient Library.Polibio, Livio.
Polibio. Appiano di Alessandria, Historia
Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia.
Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le
conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano.
Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in
Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo,
L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale
Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore
Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio
Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica,
guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari.
Consoli
repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman and
orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of
members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname
‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it
all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone
greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio Lelio. Lelio.
Grice e Leocide: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone. Roma – filosofia basilicatese
– scuola di Metaponto -- filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice e Leofronte:
la ragione cnversazionale e la setta di Crotone – Roma – filosofia calabrese –
scuola di Crotone -- filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide.
Grice e Leone: la
ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia
basilicatese – scuola di Metaponto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean,
according to the Vita di Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone
dedicates a ‘saggio’ to him.
Grice e Leonzio:
all’isola -- la setta di Leonzio -- Roma – filosofia siciliana – filosofia
leonzia – scuola di Leonzio -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio). Filosofo italiano. Filosofo siciliano.
Filosofo leonzio. Leonzio, Sicilia. Pupil of Girgenti. He seems to have written one
essay on philosophy. In it, he argues that nothing exists, or that if anything
did exist, there could be no knowledge of it, or if there could be knowledge of
it, that knowledge could not have passed from one person to another. Poche e scarne le notizie relative a L. sotto il
dominio di Roma. Inquadrata in primo momento tra le città decumane, sottoposte
al pagamento della decima parte del raccolto, si trasforma a poco a poco in
città censoria, il cui territorio viene dato in affitto a cittadini di altre
città dietro pagamento di un canone prestabilito. Alla fine del I secolo a.C.
il territorio di Leontini viene usato per i donativi agli alleati dei
triumvirato. La città entra in un periodo di grande decadenza, scompare
praticamente come città, mentre la popolazione preferisce trasferirsi nelle
campagne e nelle fattorie sparse nel territorio. Quasi del tutto assenti le
notizie relative alla città in periodo imperiale. Le poche informazioni giunte
fino a noi sono inserite nel contesto delle vicende dei santi martiri Alfio,
Filadelfo e Cirino, chiaramente leggendarie e quindi di poca utilità. Secondo
la tradizione, la chiesa leontina è una delle prime ad affermare che Maria è
madre di Dio, prima che questa verità di fede venga ufficialmente proclamata
dal concilio di Efeso. La riscoperta tra studi e scavi Paolo Orsi,
R Carta, R Santapaola in una foto degli anni 30 Dopo un secolare abbandono del
sito, torna l'interesse per la storia del luogo grazie ai primi studi favoriti
da vari studiosi. Le prime indicazioni sull'antica L. provengono da C.M.
Arezzo, Fazello, Alberti, Maurolico e Cluverio. Nel XVIII secolo Vito Amico
identificò la valle S. Mauro come l'agorà e la Valle S. Eligio come sede
dell'antico fiume Lisso. Nel 1781 Ignazio Paternò Castello evidenzia lo stato
di decadenza della città. Schubring studiando il testo di Polibio sulla città
ne identifica la struttura assieme alla strada citata anche da Tito Livio per
la morte di Geronimo nel 215 a.C. La testa del kouros della
collezione Biscari Le prime segnalazioni in merito alle necropoli di Leontinoi
risalgono al 1879 ad opera di Giuseppe Fiorelli, con tombe nella zona nord di
Lentini. Nel 1884 Francesco Saverio Cavallari rinviene un ipogeo cristiano e
nel 1887 una necropoli sicula nella Valle Ruccia. Nel 1891 il Columba presenta
uno studio sulla topografia della città con un rilievo del Castellaccio.
Le ricerche effettuate misero in evidenza l'esigenza di mettere ordine al
patrimonio per bloccare i traffici illeciti di materiali verso collezioni
private. Lo stesso Paolo Orsi evidenzia questo problema suggerendo già nel 1884
la fondazione di un museo archeologico. Sono proprio gli studi di Paolo Orsi a
dare impulso alle ricerche tramite gli scavi condotti in varie parti del sito.
Nel 1902 viene ritrovato il kouros di Lentini, oggi al Paolo Orsi cui viene
associata la testa della collezione Biscari. Nel 1925 lo Ziegler pubblica una
sintesi sulle conoscenze di Lentini. Gli scavi riprendono nel 1940 con
Pietro Griffo presso le fortificazioni del S. Mauro e ulteriori indagini
relative alla topografia. Dal 1950 al 1955 viene messa in luce la porta sud (la
cosiddetta porta siracusana) e viene esplorata la necropoli esterna. Ulteriori
ricerche di Adamesteanu e Rizza mettono in luce altre strutture. Mentre nel
1960 viene rinvenuta casualmente una stipe votiva ad ovest del colle della
Metapiccola. Vengono scoperti dei blocchi in Piazza Vittorio Veneto, nel 1971 e
nel 1974 vengono esplorate delle tombe presso la Valle di S. Eligio, e nel
1977-78 si riprende l'esplorazione della necropoli di contrada
Piscitello. In contrada Crocifisso viene riportata alla luce
un'abitazione che rispecchia le descrizioni di Polibio. Tra il 1981-82 le
ricerche vengono effettuale a sud della porta meridionale in contrada
Pozzanghera, mettendo i luce delle tombe di età arcaica sino a quella
ellenistica. Si prosegue con scavi nel 1986 sul colle Metapiccola, nel 1987 sul
Castellaccio da cui emergono anche le strutture murarie della porta nord. Gli
scavi sono proseguiti su varie aree sino al 1989, poi nel 1993 in Piazza
Umberto è stata rinvenuta una necropoli musulmana sopra a quella greco-arcaica,
sino ad arrivare agli ultimi anni con ulteriori aggiornamenti. Il
sito Mappa di Leontinoi «La città di Leontinoi è interamente rivolta
verso settentrione: vi è nel mezzo di essa una valle piana, nella quale si
trovano le sedi dei magistrati e dei giudici e tutta l'agorà. Da un lato e
dall'altro della valle vi sono alture scoscese: I ripiani di queste alture
sopra i colli sono pieni di case di templi. Due porte ha la città, di cui una è
al termine della valle anzidetta verso mezzogiorno e porta a Siracusa, l'altra,
al Nord, porta ai campi detti Leontini e alla regione coltivabile. Sotto uno
degli scoscendimenti, quello verso Occidente, scorre un fiume che chiamano
Lisso. Parallele a questo, E la maggior parte sotto lo stesso pendio, giacciono
delle case contigue, tra le quali e il fiume vi è la strada anzidetta.»
(Polibio, Historiae) Il sito di Leontinoi è stretto tra Carlentini a sud
e Lentini a nord. L'area dell'agorà si trova in una vallata circondata a sud
est dal colle della Metapiccola e a sud ovest dal colle San Mauro. Mentre a
nord vi è l'area del Castellaccio. Il parco archeologico copre parzialmente
l'intera estensione dell'antica città ed è accessibile da sud, con ingresso
dalla porta siracusana, una porta a tenaglia di cui sono ben visibili i tratti
murari. Sull'ingresso sono rintracciabili anche dei monumenti funerari e
delle vicine necropoli del IV e III sec a.C. Le prime tombe di questa zona
risalgono al VI sec a.C. L'agorà si trova al centro della vallata. Le
fortificazioni arcaiche sul monte S. Mauro Sul colle della Metapiccola è
presente un villaggio preistorico identificato con l'antica Xouthia. Gli scavi
hanno evidenziato la presenza di capanne rettangolari col basamento infossato.
Le capanne erano di legno, difatti sono visibili anche i segni dei pali sul
terreno. La cinta muraria La cinta muraria ha un andamento complesso e
mostra quattro interventi costruttivi. La più antica risale al VII sec a.C. e
circondava solo l'acropoli, sono emersi dei tratti sul lato est del colle S.
Mauro con incisioni che distinguono la cava di estrazione. La seconda
cinta è degli inizi del VI sec a.C. e dal fondovalle risaliva sino al colle
della Metapiccola. La fortificazione ben visibile a piccoli blocchi presenta
una torre circolare. Un restauro delle mura avvenne nel III sec a.C. durante la
guerra tra Roma e Siracusa. Lentini nell'Enciclopedia Treccani, su
Treccani. LENTINI Enciclopedia dell' Arte Antica, Treccani. Bibliografia
Massimo Frasca, M. Congiu, C. Miccichè e S. Modeo, Tucidide e l’archaiologhìa
di Leontinoi, in Dal mito alla storia. La Sicilia nell'Archaiologhia di Tucidide
(Atti del VIII Convegno di Studi, Caltanissetta). Massimo Frasca, Leontinoi.
Archeologia di una colonia greca, Roma 2009 Massimo Frasca, Interazione tra
Greci e Indigeni nella Sicilia orientale Il caso Leontinoi. Maltese, I
Tetradrammi di Leontinoi. Dinamiche produttive e storico-artistiche, Trieste
Sicilia, Touring Club d'Italia, Voci correlate Monte San Basilio Storia di
Lentini Museo archeologico di Lentini Altri progetti Collabora a Wikiquote
Wikiquote contiene citazioni di o su Leontinoi Leontinoi, su sapere. Agostini.
Leontini, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Leontinoi,
su sicilia fotografica Filmato audio Leontinoi. Memorie da una città
dimenticata. Frasca, Leontinoi, città dei Calcidesi in Sicilia. Città della
Magna Grecia Siti archeologici della Sicilia greca Portale Antica
Grecia Portale Sicilia Portale Storia Categorie:
LeontinoiSiti archeologici del libero consorzio comunale di SiracusaCittà della
Sicilia grecaCittà romane della SiciliaLentini [altre]. Gorgia Se stai cercando
altri significati, vedi Gorgia (disambigua). Busto di Gorgia ad opera
dello scultore lentinese Caracciolo. Gorgia (in greco antico: Γοργίαςs;
Leontini – Larissa), retore e filosofo siceliota. Discepolo di Empedocle
di GIRGENTI (si veda), è considerato uno dei maggiori sofisti, teorizzatore di
un relativismo etico assoluto, fondato sulla morale della situazione
contingente, spinto fino al nichilismo. Figlio di Carmantida, nasce a
LEONZIO, Leontini (odierna Lentini, nella provincia di Siracusa), città greca
della Sicilia. Fu discepolo del filosofo Empedocle di GIRGENTI (si veda) e dei
retori siracusani Corace e Tisia, inventori della retorica, ma subì anche
l'influenza delle scuole pitagorica ed eleatica. Prese parte ad un'ambasceria ad
Atene per richiedere aiuti militari nella guerra contro Siracusa e riscosse un
grande successo per la sua eloquenza (vedi Prima spedizione ateniese in
Sicilia). Viaggiò anche in Tessaglia, in Beozia, ad Argo (dove fu fatto divieto
di frequentare le sue lezioni), a Delfi e a Olimpia, dove gli furono erette
statue. Vendendo i propri insegnamenti di città in città, pare guadagnasse
ingenti ricchezze facendosi pagare fino a 100 mine ad allievo, anche se in
realtà alla sua morte lasciò una somma piuttosto modesta. Muore in Tessaglia,
dove soggiornava presso il tiranno Giasone di Fere, pare ultracentenario[8]; a
chi gli chiedeva il motivo di tale longevità, egli rispondeva: «il non aver mai
compiuto nulla per far piacere ad un altro. Di sicuro visse con sobrietà dominando
le passioni, lontano da simposi e incurante di tutto ciò che potesse turbarlo.
Tra i suoi numerosi discepoli si ricordano Polo di Agrigento, Crizia,
Alcibiade, Tucidide, Alcidamante, Isocrate e Antistene. Pare inoltre che
intrattenesse ottimi rapporti di amicizia con Pericle. Tipico dell'oratoria di
Gorgia era l'ampio uso di complesse figure retoriche, desunte dal linguaggio
poetico ed epico. Si prendeva gioco, inoltre, di quanti sostenevano di poter
insegnare la virtù, e vantava di saper tenere un discorso su qualsiasi
argomento, come testimoniato anche da Platone. Insieme a Protagora, Prodico e
Ippia di Elide, viene tradizionalmente ricordato come uno dei grandi sofisti.
Contenuto delle opere principali Opere conservate sono l'Encomio di Elena e In
difesa di Palamede. Solo frammenti, invece, abbiamo del Sul non essere o sulla
natura di un Epitafio per i morti della guerra del Peloponneso, di un Encomio
degli Elei, di un Discorso Olimpico e Discorso Pitico. Encomio di
Elena Lo stesso argomento in dettaglio: Encomio di Elena. L'amore
di Elena e Paride, olio su tela di David, oggi esposto al Louvre (Parigi)
Nell'Encomio Gorgia difende Elena dall'accusa di essere stata causa della
guerra di Troia, con la sua decisione di tradire il marito Menelao e seguire Paride.
Elena è innocente, perché agì o mossa da un principio a lei superiore (che si
tratti degli dèi o dell'Ananke, la Necessità), o rapita con la forza, o
persuasa da discorsi (logoi), o vinta dall'amore. In ogni caso il movente
rimane esterno alla sua responsabilità. Schematizzando, l'argomentazione
gorgiana è ricondotta a quattro argomenti: Elena si era innamorata di Paride;
era stata rapita da Paride; fu persuasa da Paride; fu rapita per volontà
divina. Nel primo caso Elena è una vittima, poiché Afrodite promise a
Paride che in cambio della Mela d'Oro avrebbe fatto innamorare di lui la donna
più bella al mondo, appunto Elena. Nel secondo caso Elena viene rapita, quindi
è una vittima e la colpa è da assegnare a Paride. Nel terzo caso se è stata la
potenza della parola a convincerla anche in questo caso non è colpa sua poiché
la parola è una grande dominatrice. E se fu per l'ultimo caso non fu per sua
volontà ma per quella degli dei i cui progetti non possono essere impediti con
la nostra precauzione o provvidenza. Sul non essere o sulla natura
Nell'opera Sul non essere G. dimostra, tramite la reductio ad absurdum, tre
ipotesi, volutamente opposte alla scuola di Elea. Il suo argomentare svolge il
seguente percorso logico: Nulla è; Se anche qualcosa fosse, non sarebbe
conoscibile; Se anche qualcosa fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile agli
altri. Questi tre punti fondamentali della filosofia di Gorgia, secondo la
testimonianza di Sesto Empirico, vengono delucidati attraverso una sequenza di
ragionamenti che portano ad una conclusione ultima. Che niente esista G.
dimostra in questo modo: se qualcosa esiste, esso sarà o l'essere o il
non-essere o l'essere e il non-essere insieme. Ora il non-essere non c'è, ma
neppure l'essere c'è. Ché, se ci fosse, esso non potrebbe essere che o eterno o
generato o eterno e generato insieme. Ora, se è eterno, non ha alcun principio
e, non avendo alcun principio, è infinito e, se è infinito, non è in alcun
luogo e, se non è in nessun luogo, non esiste. Ma neppure generato può essere
l'essere: ché, se fosse nato, sarebbe nato o dall'essere o dal non-essere. Ma
non è nato dall'essere, ché, se è essere, non è nato, ma è già; né dal
non-essere, perché il non-essere non può generare. Se le cose pensate non
si può dire siano esistenti, sarà vero anche l'inverso, che non si può dire che
l'essere sia pensato. È giusta e conseguente la deduzione che “se il pensato
non esiste, l'essere non è pensato”. E che le cose pensate non esistano è
chiaro: infatti, se il pensato esiste, allora tutte le cose pensate esistono,
comunque le si pensino; ciò è contrario all'esperienza, perché non è vero che,
se uno pensa un uomo che voli o dei carri che corran sul mare, ecco che un uomo
si mette a volare o dei carri si mettono a correre sul mare. Sicché non è vero
che il pensato esista. Di più, se il pensato esiste, il non-esistente non potrà
esser pensato, perché ai contrari toccan contrari attributi. Ma ciò è assurdo,
perché si pensa anche Scilla e la Chimera e molte altre cose irreali. Dunque
l'essere non è pensato. Posto che le cose esistenti sono visibili e
udibili e in genere sensibili e di esse le visibili sono percepibili per mezzo
della vista e le udibili per l'udito, e non viceversa, come dunque si potranno
esprimere ad un altro? Poiché il mezzo con cui ci esprimiamo è la parola, e la
parola non è l'oggetto, la cosa, non è realtà esistente ciò che esprimiamo al
nostro vicino, ma solo parola, che è altro dall'oggetto. Al modo stesso dunque
che il visibile non può diventare audibile, e viceversa, così l'essere, in
quanto è oggetto esterno a noi, non può diventar parola, che è in noi. E non
essendo parola non potrà esser manifestato ad altri.» (Sesto Empirico,
Contro i matematici) Interpretazione dell'opera Lo stesso argomento
in dettaglio: Relativismo etico sofistico
Il nichilismo di G. E' decoro allo Stato una baldanzosa gioventù, al
corpo la bellezza, all'animo la sapienza, alla parola la verità. (G.
Encomio di Elena) Le interpretazioni di G. si possono dividere
fondamentalmente in due tipi, a seconda che si considerino le sue opere scritte
con intento serio o ironico. Nel secondo caso, il trattato Sul non essere
sarebbe unicamente una parodia delle dottrine e dello stile argomentativo
tipico di Parmenide e della sua scuola e non, piuttosto, una presa di posizione
convinta che invece farebbe di G., secondo alcuni, un precursore del
nichilismo. Nel Sul non essere G. giunge alla conclusione (secondo
l'interpretazione dello Pseudo-Aristotele) che solo il nulla è. Di conseguenza,
l'essere non esiste: poiché se è infinito nessun luogo potrebbe contenerlo, e
non può essere finito poiché gli stessi eleati lo negano come tale. Ancora, se
anche esistesse, non sarebbe conoscibile: chi è all'interno dell'Essere, dello
Sfero parmenideo, non può conoscerlo. Infine, se anche fosse conoscibile, non
sarebbe dicibile né comunicabile ad altri: mancherebbero le parole per
esprimerlo, e anche se fosse esprimibile non si potrebbe comunicare se non ciò
che è oggetto d'esperienza, sicché per Gorgia appare una conoscenza espressa in
termini negativi: la verità non esiste, ogni sapere è impossibile, tutto è
falso perché tutto è illusorio. Se la verità non è raggiungibile né con i
sensi ingannatori né con la ragione, su quali princìpi certi si reggerà la morale
dell'uomo? Gorgia risponde che non esistono valori, princìpi immutabili di
comportamento, ma che ognuno dovrà affrontare la situazione in cui si trova e
semplicemente reagire ad essa. È questa la «morale della situazione» per cui il
comportamento di ognuno varierà a seconda del soggetto, della sua età, della
sua cultura, delle circostanze. Significativo è il fatto che, quando G.
fu incaricato dal governo ateniese di celebrare i caduti della guerra del
Peloponneso, egli disse che questi non furono eroi, ma che erano da onorare
perché accettarono la situazione in cui si trovarono e seppero agire come le
circostanze richiedevano – seppero cioè rispondere all'occasione (kairós)
offerta dalla situazione. Di fronte al dramma della vita, l'unica consolazione
è la parola (logos), che acquista valore proprio perché non esprime la verità
ma l'apparenza (doxa). La parola, afferma nell'Encomio di Elena, è magica: essa
è «un potente signore, che col più piccolo e impercettibile dei corpi riesce a
compiere le imprese più divine. La parola esprime al meglio le passioni che
guidano la vita dell'uomo, è in grado di evocarle e modificarle, e così di
sottomettere chiunque. Essa è dunque onnipotente e addirittura in grado di
creare un mondo perfetto dove vivere. L'uomo è una pedina nelle mani del caso
(tyche), il quale domina ogni vicenda umana. Egli, però, sarà felice se sarà in
grado di sfruttare a proprio vantaggio le opportunità (kairoȋ) che la tyche gli
offre: è per questo, in ultima analisi, che Elena merita un elogio, in quanto
ha saputo sfruttare a proprio vantaggio ciò che le assegnava il destino.
In conclusione, un'interpretazione filosofica del pensiero di G. tenta di
tracciare un percorso che, partendo dal naturalismo proprio di Empedocle,
conduce alla cosiddetta crisi eristica, di stampo nichilista, sino a uno sbocco
in un più sereno scetticismo del linguaggio. Resta tuttavia dubbio se Gorgia
avesse un'effettiva sfiducia nelle possibilità conoscitive dell'uomo o non,
piuttosto, un'enorme fiducia nelle possibilità del linguaggio, in grado di
dimostrare tutto e il contrario di tutto, svincolato da ogni criterio di
verità. D'altra parte, resta anche incerto quanto G. fosse cosciente
dell'onnipotenza della parola o se essa non fosse piuttosto un ovvio corollario
della sua attività retorica. Infine G., a differenza di alcuni filosofi
di epoca successiva come Platone, ha una buona opinione dell'arte: sostiene che
se esistesse l'essere, l'arte sarebbe solo una sua imitazione imperfetta, ma
siccome l'essere non esiste, l'artista è un creatore di mondi. Quindi il bravo
artista è colui che riesce ad ingannare gli spettatori facendoli partecipi
delle proprie opere, mentre lo spettatore più "saggio" è colui che sa
farsi ingannare.[18] Note Fazello, Della Storia di Sicilia, Palermo, Assenzio,
Quintiliano DK Diodoro Siculo, XII 53, 1-3. ^ Olimpiodoro, commento a Platone,
G., Pausania, VI 17, 7 per Olimpia; X 18, 7 per Delfi. ^ Probabilmente il
prezzo di 100 mine d'oro, testimoniatoci da Isocrate nell'Antidosis, si
riferiva non a singole lezioni ma all'intero ciclo di insegnamento. A riprova
di ciò vi è il fatto che lo stesso Isocrate testimonia che alla morte del
maestro non si trovarono le ingenti ricchezze che tutti si aspettavano, ma solo
1000 stateri. Cfr. Antidosis, 155-156. ^ Le fonti riportano un'età variabile
tra i 107 e i 109 anni. Cfr. Apollodoro di Atene, FGrHist 244 F33. ^ DK 82 A11.
^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 9, 3. ^ Filostrato, Vite dei sofisti, I 1. ^
Forse provenienti da manuali di retorica (frr. 12-14 D.-K.) contenenti numerose
orazioni da memorizzare come esempi. ^ La scuola eleatica, a differenza del suo
fondatore Parmenide, concepisce l'essere come infinito, soprattutto a seguito
delle considerazioni di Melisso. ^ M. Sacchetto, La morale della situazione, in
L'esperienza del pensiero. Le polis e l'età di Pericle, p. 72. ^ DK 82 B6. ^ DK
82B11 ^ J.C. Capriglione, Elena tra Gorgia e Isocrate ovvero se l'amore diventa
politica, in L. Montoneri-F. Romano (a cura di), Gorgia e la sofistica, numero
monografico di «Siculorum Gymnasium» Cfr. DK82 B23. Bibliografia Gorgia,
Testimonianze e frammenti, a cura di Roberta Ioli, Roma, Carocci, 2013. Gorgia
di Leontini, Gorgia "Su ciò che non è", edizione critica, traduzione
e commento a cura di Roberta Ioli, Hildesheim: Georg Olms, 2010. Barbara Cassin, Si Parménide. Le
traité anonyme De Melisso, Xenophane, Gorgia, Lille: Presse Universitaire de
Lille, 1980. I presocratici. Prima traduzione
integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di
Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006
( = DK) Stefania Giombini, Gorgia epidittico. Commento filosofico all’Encomio
di Elena, all’Apologia di Palamede, all’Epitaffio, Presentazione di Livio
Rossetti, Passignano, Aguaplano, 2012. Giuseppe Mazzara, Gorgia. La retorica
del verosimile, Sankt Augustin, Academia Verlag, 1999. Maurizio Migliori, La
filosofia di Gorgia, Milano: CELUC, 1973. Mario Untersteiner (a cura di),
Sofisti: testimonianze e frammenti, Milano: Bompiani, Voci correlate Gorgia
(dialogo), il dialogo platonico di cui è protagonista Ippia di Elide Prodico
Protagora Relativismo etico sofistico Sofistica Gòrgia di Leontini, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Calogero, GORGIA di Leontini, in Enciclopedia Italiana, Istituto
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Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of
Language and Information (CSLI), Università di Stanford. V · D · M Presocratici V · D · M Sofisti Portale
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siceliotiFilosofi del V secolo a.C.Sicelioti del V secolo a.C.Morti a
LarissaFilosofi greci antichi del V secolo a.C.SofistiCentenari greci
antichiMagna Grecia[altre]Gorgia. Gorgia o Leonzio? Cf. Empedocle o Girgentu. Cf.
William or Occam? Gorgia. Conversational reason as a PRESUPPOSITION for
conversation. Trascendental argumentation. Gorgia as a character in Plato’s
dialogue where Socrates and Gorgia argue that, unless understanding that the
other is abiding by a principle of conversational helpfulness, it is not worth
conversing! Or even POSSIBLE! Gorgia. Grice e Leonzio.
Grice e Lionzio. Grice e Lionzo. Grice e Lionzi
Grice e Leonzio: la
ragione conversazionale la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia pugliese –
scuola di Taranto -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean,
according to The Vita di Pitagora di Giamblico di Calcide.
Grice e Lettine: all’isola
– la diaspora di Crotona – Roma – filosofia siciliana – scuola di Siracusa -- filosofia
italiana – Luigi Spearnza (Siracusa).
Filosofo italiano. Siracusa, Sicilia. A Pythagorean, according to “Vita di
Pitagora” by Giamblico di Calcide.
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