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Monday, December 30, 2024

GRICE E MONDIN

 

Grice e Mondin: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell ritorno dell’angelo – la semantica filosofica – semantica pel sistema G – interpretazione e validità – la scuola di Monte di Malo -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Monte di Malo). Filosofo italiano. Monte di Malo, Vicenza, Veneto. Grice:“Trust an Aquino to provide a systematic philosophy! Mind, I’ve been called a systematic philosopher, too!” Grice: “At Oxford, we are very familiar with angels – but only Mondin takes angeologia seriously! Trust an Italian! Ponte Sant’Angelo comes to mind!” Dottore di Filosofia e Religione a Harvard. È stato decano della Facoltà di Filosofia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Mondin membro della Congregazione dei Missionari Saveriani. Nei suoi studi, le principali figure di riferimento sono state AQUINO e Tillich, da cui ha tratto l'ideale di un accordo e di un mutuo sostegno tra filosofia e teologia.  “Etica, Etica e politica, Filosofia, Antropologia filosofica, Manuale di filosofia sistematica, La Metafisica di Aquino e i suoi interpreti,” “Storia dell'antropologia filosofica” Antropologia filosofica e filosofia della cultura e dell'educazione; “Epistemologia e cosmologia; “Logica, semantica e gnoseologia; Ontologia e metafisica Storia della metafisica, Storia della metafisica, Storia della metafisica, “Ermeneutica, metafisica, analogia in Aquino; Storia della filosofia medievale Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale Il sistema filosofico di Aquino Corso Introduzione alla teologia Dio: chi è? Elementi di teologia filosofica Scienze umane e teologia Cultura, marxismo e cristianesimo I teologi della liberazione, “Il problema del linguaggio teologico dalle origini ad oggi” Filosofia e cristianesimo I teologi della speranza I grandi teologi Professore  I grandi teologi Professore  I teologi della morte di Dio Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale. Software Filosofia della cultura e dei valori Le realtà ultime e la speranza cristiana Religione Nuovo dizionario enciclopedico dei papi. Storia e insegnamenti Commento al Corpus Paulinum (expositio et lectura super epistolas Pauli apostoli) La chiesa primizia del regno. Trattato di ecclesiologia Mito e religioni. Introduzione alla mitologia religiosa e alle nuove religioni L'uomo secondo il disegno di Dio. Trattato di antropologia teologica Preesistenza, sopravvivenza, reincarnazione Teologie della prassi L'eresia del nostro secolo Società Storia dell'antropologia filosofica Antropologia filosofica. L'uomo: un progetto impossibile? Philosophical anthropology Una nuova cultura per una nuova società. In ricordo di M..  Un tomista ed "oltre" del XX secolo: M. di PMontini, Congresso tomista internazionale, Roma,  nel sito "E- Aquinas" Studium thomisticum. Grice: “M. attempts a systematic semantics. Rather he has a section on ‘semantics’ --. The expressions have to be used carefully. System itself, should be used alla Gentzen, or as Myro does with System G in my gratitude. A semantics for System  BATTISTA MONDIN   introduzione  alla  filosofia    (Problemi, Sistemi, Filosofi) M. INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA PROBLEMI - SISTEMI - FILOSOFI Con guida alla lettura  di alcune opere fondamentali  e glossario dei principali termini filosofici    MASSIMO - MILANO    La prof. Rossana Carmagnani ha collaborato alla revisione del pre-  sente volume ed ha curato i « questionari », le « sintesi contenutistiche »  e le « chiose a margine ». Massimo  Corso di Porta Romana, Milano. Altre opere filosofiche dello stesso Autore: Corso di storia della filosofia, Massimo, Milano. L'uomo: chi è? (Elementi di antropologia filosofica), Massimo, Milano.   Introduzione alla teologia, Massimo, Milano.   Cultura, marxismo e cristianesimo, Massimo, Milano.   Storia della filosofia medievale, Pontificia Università 'Urbaniana, Roma.   Una nuova cultura per una nuova società (Analisi della crisi epocale della cul-  tura moderna e dei progetti per superarla), Massimo, Milano.   Il sistema filosofico di Tommaso d'Aquino (Per una lettura attuale della filo-  sofia tomista), Massimo, Milano.   Il valore uomo, Dino Editore, Roma.   I Verori fondamentali (Definizione e classificazione dei valori), Dino Editore,   oma.  In quale modo contribuire alla trasformazione dell'uso di un testo  per lo studio della filosofia, affinché esso divenga lo strumento vivo  di ricerca e di riflessione?   Questa quarta edizione di Introduzione alla filosofia, completa-  mente rinnovata rispetto alla precedente, risponde a questo obiettivo,  offrendo non solo una presentazione sistematica di contenuti, ma  anche indicazioni metodologiche atte a sviluppare un processo di ri-  cerca attivo e dialogico, alla luce della propria tradizione culturale,  attraverso l'esercizio della riflessione, per arrivare a soluzioni con-  formi alla ragione e alla natura dell'uomo.   L'Autore ha introdotto, nella prima parte dedicata ai problemi filosofici, tre nuovi problemi, che durante l'ultimo decennio si sono im-  posti all'attenzione di tutti, quello culturale, quello epistemologico e  quello assiologico. Questi tre problemi suscitano oggi particolare in-  teresse perché ci si è resi conto che la grave crisi spirituale, che ha  colpito l'umanità intera, trova la sua ragione più profonda nella  disgregazione della cultura e dei valori e nella confusione che si fa  tra scienza e tecnica. E questo vale per chi vuole fare dello studio  della filosofia non un semplice esercizio accademico, ma, come già  pensavano i greci, uno strumento fondamentale e l’unico razional-  mente possibile, per la soluzione dei problemi della vita e della no-  stra società.   Le parti seconda (dedicata ai sistemi filosofici) e terza (dedicata  alla presentazione dei principali filosofi) sono state ampliate con  l'aggiunta di altre « scuole filosofiche », specie quelle sorte negli ulti-  mi decenni e di numerose altre « schede » sui maggiori filosofi. Nella  quarta parte, dedicata alla presentazione di alcuni grandi testi filo-  sofici, è stata inserita l'opera: Introduzione alla metafisica, che è tra  le più significative e rappresentative di Heidegger, uno dei maggiori  filosofi. Infine, il volume è completato da una quinta  (nuova) parte che contiene un « glossario » dei principali termini  filosofici, che sarà di aiuto a chi si accosta per la prima volta alla  filosofia. ì   Questa quarta edizione dell'opera è stata rielaborata seguendo an-  che le indicazioni di molti insegnanti che hanno usato il testo nel  passato e che sono stati da noi interpellati con « schede-inchiesta ».   Ogni capitolo del testo è corredato di questionari, di concetti da  ritenere, di sintesi contenutistiche e di chiose a margine, che, opportunamente utilizzati, costituiscono un adeguato sussidio per un mi-  gliore approfondimento e una rapida consultazione. I questionari assolvono la duplice funzione propedeutica e di    verifica: a) i questionari propedeutici sono finalizzati a suscitare il  problema nei suoi aspetti fondamentali; b) i questionari di verifica  e discussione consentono il controllo del processo di apprendimento  in ordine ai contenuti, il raccordo tra le successive fasi di lavoro e  la discussione sui temi di maggior rilievo. I concetti da ritenere sono finalizzati alla corretta acquisizione  del linguaggio tecnico e alla capacità di gestire con maggiore facilità  qualsiasi testo filosofico. Le sintesi contenutistiche, elaborate alla fine di ogni capitolo,  hanno lo scopo di favorire la padronanza costante dei contenuti acquisiti.  Le chiose, ai margini del testo permettono di individuare su-  bito i temi centrali presentati. Alla fine di ogni capitolo una breve ed aggiornata bibliografia  segnala, secondo le necessità, opere per approfondire temi parti-  colari.   Questa opera, oltre che per uso scolastico, date le sue caratteri-  stiche che ne fanno una piccola enciclopedia filosofica (da consul-  tare nelle più svariate occasioni), la riteniamo molto utile anche per  tutti coloro che vogliono conoscere gli elementi fondamentali della  filosofia come studio dei grandi problemi dell'umanità e vogliono  aggiornarsi su di essi.   Ricordiamo, infine, che l'Autore ha curato presso la nostra edi-  trice un Corso di storia della filosofia, in tre volumi, con le stesse  caratteristiche metodologiche della presente opera e con un'ampia  antologia di testi dei maggiori filosofi di ogni epoca. Il terzo volume  del Corso suddetto, di pp. 616, presenta in modo esauriente la filo-  sofia degli ultimi due secoli e può diventare un o ttimo strumento  per far conoscere le maggiori correnti filosofiche contemporanee ad  ogni persona di cultura media superiore. QUESTIONARIO PROPEDEUTICO Chi sono? Da dove vengo e dove vado? Che cosa è la vita? Sono questi  i « perché » fondamentali che l’uomo si pone.   2. Quali risposte dare a questi perché?   3. Rispetto agli altri esseri viventi, che cosa significa essere uomo?   4. Che cosa significa essere dotato di intelligenza, di volontà, di capacità  di amare?   5. Che cos'è il pensiero? Che cos'è la realtà? Che rapporto c'è tra la capa-  cità di pensaree la realtà? Che cos'è la verità? 6. Che cosa significa essere libero? Che cosa significa essere condizionato? Qual è il criterio che deve regolare il rapporto con i propri simili e con l’uso delle cose? Che cos'è il bene? Che cos'è l'utile? Che rapporto c’è tra bene e utile? . 7. Ciascuno di noi ha bisogno degli altri. Come e perché? L'uomo, si dice, è naturalmente filosofo, cioè « amico della sa- pienza »; bramoso di sapere, egli non si accontenta di vivere alla giornata e di accettare passivamente le informazioni che l’esperien- za immediata gli offre, come fanno gli animali. Il suo sguardo inquisitivo vuole conoscere il perché delle cose, soprattutto il perché della propria vita. Che cos'è la filosofia 1.1 La conoscenza intellettuale L'uomo è un essere che pensa: egli è dotato di una capacità cono- scitiva superiore a quella degli altri esseri viventi appartenenti sia al regno vegetale che a quello animale. Gli animali, ad esempio, pos- sono avere coscienza ma non autocoscienza; essi sanno, ma non sanno di sapere; desiderano, ma non sanno di desiderare; amano, ma non sanno di amare; crescono, diventano adulti e muoiono, ma non sono consapevoli di queste trasformazioni del loro essere. L'uomo non solo percepisce con i sensi gli eventi particolari, come {(*) Come è accennato nella presentazione dell'Editore, i questionari pro- pedeutici hanno lo scopo, attraverso l'esercizio della riflessione e dell’autorifles- sione, di suscitare la partecipazione attiva degli allievi alla costruzione previa della lezione, Superiorità della conoscenza umana Conoscenza razionale e conoscenza simbolica Varie definizioni del termine ‘‘filosofia’’ gli altri esseri viventi, ma con la sua ragione è in grado di acquisire idee generali o di formulare giudizi universali. Egli non conosce solo i fatti ma anche i « perché ». La conoscenza intellettuale, di cui l'uomo è dotato, assume due forme principali: quella razionale o logica (che opera con i concetti) e quella simbolica o analogica (che opera con le immagini, i simboli, i miti, le parabole, ecc.). La prima è di tipo speculativo e astratto, mentre la seconda è di tipo figurativo, concreto. La conoscenza simbolica non è necessariamente inferiore a quella razionale, anzi per alcune sfere della realtà (per esempio: arte e re- ligione) essa è più congeniale della seconda. me il valore della vita e della conoscenza umana, la libertà, la natura del male, l'origine e il valore della legge morale. Di questi problemi si occupa soltanto la filosofia. In secondo luogo, perché, mentre le scienze studiano questa o quella dimensione della realtà, la filosofia ha per oggetto l’intero, la totalità, l'universo preso globalmente. Ecco, pertanto, la prima caratteristica che distingue la filosofia da qualsiasi altra forma di sapere: essa studia tutta la realtà ò, co- munque, cerca di ottenere una comprensione completa ed esauriente di ogni settore della realtà. Essa si preoccupa soprattutto, di sapere, di comprendere; mentre la scienza si accontenta di analizzare e di calcolare. 1.3 Natura della filosofia Ma ci sono anche altre tre qualità che contribuiscono a dare al sapere filosofico un carattere proprio e specifico: a) lo strumento di ricerca; b) il metodo; c) il fine o scopo. a) Lo strumento di ricerca, di analisi di cui si serve la filosofia è la ragione, la pura ragione, il « puro ragionamento », come dice Platone. Essa non dispone di microscopi, telescopi, macchine foto- grafiche, ecc. Non può effettuare controlli con strumenti materiali né affrettare le sue operazioni ricorrendo agli elaboratori. Anche gli strumenti conoscitivi, di cui si serve ogni uomo e ogni scienziato, i sensi e la fantasia, al filosofo servono solo nella fase iniziale, per ottenere quelle cognizioni del reale, su cui poi indirizza lo sguardo penetrante della ragione. Il lavoro vero e proprio dell'indagine filo- sofica è compiuto dalla sola ragione, Ia quale per sottrarsi a qualsiasi distrazione si chiude dentro il suo sacro recinto, lontana dal frastuo- no delle macchine, dalla seduzione dei piaceri e dalla prassi, dalia confusione dei sensi, in solitaria compagnia col proprio oggetto. b) Il metodo della filosofia è essenzialmente raziocinativo, anche se non esclude qualche momento intuitivo (sia nella fase iniziale sia in quella terminale). I procedimenti raziocinativi sono però mol- 9 La filosofia può esaminare ogni cosa La filosofia, a differenza delle singole scienze, studia ogni settore della realtà Lo strumento di ricerca della filosofia è la ragione La fiiosotia nella su ricerca ha un metodo e un fine La filosofia elementare è soprattutto narrativa: si esprime attraverso i miti Con l’indagine razionale è sorta la filosofia scientifica teplici, di cui i più importanti sono l’induzione e la deduzione. La filosofia li adopera entrambi: il primo per risalire dai fatti ai prin- cipi « primi », il secondo per ridiscendere dai principi primi ed illu- minare ulteriormente i fatti, per comprenderli meglio. c) La filosofia si distingue dalle scienze anche nel fine. La filo- sofia non è volta a fini pratici e interessati, come la scienza, l’arte, la religione e la tecnica, le quali, in un modo o nell'altro, hanno sempre di mira qualche soddisfazione oppure qualche vantaggio. La filosofia ha per unico obiettivo la conoscenza; essa mira semplicemente a ricercare la verità per se stessa, a prescindere da eventuali utiliz- zazioni pratiche. La filosofia ha uno scopo puramente teoretico, ossia contemplativo; non ricerca per nessun vantaggio che sia ad essa estraneo, ma per se stessa; essa è quindi — come ha detto egregia- mente Aristotele nella Metafisica (A, 2,982b) — « libera », in quanto non è asservita ad alcuna utilizzazione di ordine pratico, e quindi si realizza e si risolve nella pura contemplazione del vero. 2. Le origini della filosofia 2.1 Filosofia elementare e scientifica L'uomo — l'abbiamo già visto — è per natura filosofo: in quan- to essere ragionevole egli è portato ad interrogarsi su tutto ciò che c'è, tutto ciò che accade, tutto ciò che compie e tutto ciò che vale. Le questioni ultime non sono una riserva di caccia aperta soltanto ai dotti e ai letterati, ma è aperta anche all'uomo della strada, an- che all'analfabeta. Esiste pertanto una filosofia elementare che è comune a tutti gli uomini. a La forma letteraria della filosofia elementare è quella del rac- conto: è essenzialmente filosofia narrativa (non è filosofia argomen- tativa, raziocinativa, sistematica); la filosofia elementare si esprime attraverso miti, presentati in racconti, poemi, diari. Sotto queste forme essa è presente in tutte le civiltà, in particolare nelle grandi civiltà orientali (cinese e indiana) e nelle antiche civiltà del vicino Oriente (egiziana, assiro-babilonese, ittita ed ebraica). Ma, come abbiamo già spiegato in precedenza, oltre alla filosofia elementare esiste anche una filosofia scientifica, sistematica, spe- cializzata. Questa forma di filosofia, storicamente, si è sviluppata soltanto in Occidente (al pari della scienza e della tecnologia). Per quale motivo? Perché soltanto gli occidentali, a partire dal popolo greco, sono riusciti a mettere a punto gli strumenti concettuali (la logica, la dialettica, il puro ragionamento) che sono necessari per elevare la filosofia dal livello elementare a quello scientifico. Infatti anche nelle altre culture, specialmente in quelle derivanti dalle grandi civiltà mediorientali ed orientali, elementi filosofici appaiono in contesti di carattere prevalentemente religioso e pertanto non 10 possono essere definiti « filosofia » in senso scientifico vero e pro- prio. Che i problemi ultimi si possono affrontare e risolvere col puro ragionamento (controllato dalle regole della logica) fu scoper- to da Parmenide, Eraclito, Platone e, soprattutto, da Aristotele. Que- ste grandi intelligenze dell’Ellade cercarono la filosofia come scien- za. La filosofia è quindi una conquista degli occidentali e, fino ai giorni nostri, è rimasta una prerogativa del pensiero occidentale. È per questo motivo che ogni storia della filosofia coincide pratica- mente con l'esposizione delle teorie dei filosofi dell'Occidente. 2.2 Mito e filosofia L'umanità primitiva (lo si può constatare presso tutti i popoli) per qualsiasi problema si è accontentata di dare delle spiegazioni mitiche. Così alla domanda: « Perché tuona? » ha risposto: « Per- ché Giove è adirato »; alla domanda: « Perché tira vento? » ha ri- sposto: « Perché Eolo si è infuriato ». A noi moderni queste soluzioni paiono semplicistiche e sbaglia- te. Tuttavia, storicamente, esse hanno grandissima importanza, in quanto rappresentano il primo sforzo fatto dall'umanità per render- si conto della natura delle cose e delle loro cause. Sotto il velo fan- tastico c'è in esse un'autentica ricèrca delle « cause prime » del mondo. Per questo motivo, riteniamo opportuno spendere qui qualche parola sul mito, sulla sua definizione, sulle sue interpretazioni prin- cipali e sul passaggio dalla mitologia greca alla filosofia. Il Turchi, noto studioso della storia delle religioni, definisce così il mito: « Il mito, nella sua accezione generale e nelia sua scaturigi- ne psicologica, è l'animazione dei fenomeni delia natura e della vità, dovuta a qualche forma primordiale ed intuitiva della conoscenza umana, in virtù della quale l'uomo proietta se siesso nelle cose, cioè le anima e personifica dando loro figura e atteggiamenti sugge- riti dalla sua immaginazione; esso è, insomma, una rappresentazio- ne fantastica della realtà spontaneamente delineata dal meccani- smo mentale ».! Di questa lunga definizione possiamo ritenere l’ulti- ma parte: il mito è una rappresentazione fantastica, intuitivamen- te delineata dal processo mentale dell'uomo, al fine di dare un'’in- terpretazione e una spiegazione ai fenomeni delia natura e della vita. Come s'è detto, sin dall'inizio l'uomo ha cercato di indagare l'origine dell'universo, la natura delle cose e delle forze cui egli si sentiva soggetto. A questa indagine, sotto la spinta cella fanta- sia creatrice e dell’intuizione, doti così vive ancor oggi presso i po- poli primitivi, egli ha dato colore e forma, costruendosi un mondo di esseri viventi (con sembianza umana oppure ferina), dotati di storia. La loro funzione è di fornire una spiegazione per qualsiasi ! N. TURCHI, Le religioni dell'umanità, Assisi 1954, p. 61. 11 Ii mito è ia prima riscosta dell’umanità ai fenomeni delia naiura e delia vita Rivaiutazione del mito quale risposta “‘prelogica’’ ai problemi dell’esistenza umana evenio della natura e dell’esistenza umana: per la guerra come per la pace, per la quiete come per la tempesta, per l'abbondanza come per la carestia, per la buona salute come per la malattia, per la na- scita come per la morte. Tutti i popoli antichi, gli assiri, i babilonesi, i persiani, gli egiziani, gli indiani, i cinesi, i romani, i galli, i greci, hanno i loro miti. Però, fra tutte le mitologie, la greca è quella che spicca maggiormente per ricchezza, ordine e umanità. Non c'è quindi da essere sorpresi se fu proprio dalla mitologia greca che prese svi- luppo la filosofia. Del mito sono state fornite le più svariate interpretazioni, di cui le principali sono due: mito = verità, mito = favola. Secondo l’interpretazione « mito = verità », il mito è una rappre- sentazione fantastica che intende esprimere una verità. Secondo l'interpretazione « mito = favola », il mito è un racconto immagi- noso senza nessun intento teoretico. I miti, secondo la prima inter- pretazione, sono le uniche spiegazioni che l'umanità, ai suoi primor- di, era in grado di fornire delle cose, ma sono spiegazioni in cui credeva fermamente. I miti, nella seconda interpretazione, sono raffigurazioni fantastiche in cui nessuno ha mai creduto, e meno degli altri i loro creatori. I primi a considerare i miti delle pure favole furono i filosofi greci. A loro più tardi si sono associati volentieri i Padri della Chiesa, gli scolastici e la maggior parte dei filosofi moderni. Ma, a partire dall'inizio del nostro secolo, vari studiosi di storia delle religioni (Eliade}, di psicologia (Freud), di filosofia (Heidegger), di antropologia (Lévi-Strauss), di teologia (Bultmann) hanno inco- minciato ad appoggiare l'interpretazione mito = verità, indotti a ciò dall’argomento che l'umanità primitiva, pur non potendo darsi del- l'universo una spiegazione « logica », cioè concettuale, ragionata e metodica, tuttavia deve aver cercato di darsi una spiegazione più o meno intuitiva di fenomeni come la vita, la morte, il bene, il male, ecc., fenomeni che colpiscono la mente di qualsiasi osservato- re, per quanto poco istruito. Secondo molti studiosi contemporanei, i miti nascondono, pertanto, sotto la maschera di immagini più o meno eloquenti, la risposta « prelogica » fornita dall'umanità pri- mitiva a questi grossi problemi. Tale risposta, a loro giudizio, me- rita d'essere presa in considerazione anche oggi, perché l’umanità primitiva, semplice e attenta, in alcuni casi può aver colto intuitiva- mente nel segno più dell'umanità progredita, troppo smaliziata e distratta che si vale dei metodi raffinati della logica, della dialettica e della scienza. Dall'analisi degli studiosi del nostro tempo risulta che presso i popoli antichi il mito ha svolto tre funzioni principali: religiosa, sociale e filosofica. Anzitutto « il mito è il primo gradino nel processo di compren- sione dei sentimenti religiosi più profondi dell’uomo; è il prototipo 12 della teologia »? Però, allo stesso tempo, esso è anche ciò che se- gnala e garantisce l'appartenenza ad un gruppo sociale piuttosto che ad un altro; infatti la diversa appartenenza dipende dai miti particolari che uno sposa e coltiva. Infine il mito svolge anche una funzione affine a quella della filosofia in quanto esso rappresenta il modo di autocomprendersi dei popoli primitivi. Anche l’uomo del- le civiltà antiche è consapevole di certi fatti e valori, e cristallizza la causa dei primi e la realtà dei secondi in quelle rappresentazioni fantastiche che sono appunto i miti. Noi siamo del parere che il mito sia denso di significato sia religioso che filosofico, sia sociale che personale. Però non siamo disposti a rivalutarlo fino al punto. di stabilire una equiparazione diretta tra mito e filosofia. Questa, pur proponendosi essenzialmen- te lo stesso obiettivo del mito, ossia quello di fornire una compren- sione esaustiva delle cose, cerca di conseguirlo in un modo comple- tamente diverso. Infatti il mito procede con la rappresentazione fan- tastica, con l'immaginazione poetica, con intuitive analogie suggeri- te dall'esperienza sensibile; pertanto resta al di qua del /ogos, ossia al di qua della spiegazione razionale. Invece la filosofia opera con la sola ragione, con rigore logico, con spirito critico, con motiva- zioni razionali, con argomentazioni stringenti’ basate su principi il cui valore è stato previamente assodato in forma esplicita? 3. | problemi filosofici fondamentali Abbiamo già detto che ogni cosa è suscettibile di indagine filo- sofica; si può, quindi, dare una filosofia dell'uomo, degli animali, del mondo, della vita, della materia, degli dèi, della società, della politica, della religione, dell’arte, della scienza, del linguaggio, dello sport, del riso, del gioco, ecc. Di fatto, però, coloro che si chiama- no filosofi hanno studiato di preferenza soltanto alcuni problemi, quelli che vanno sotto il nome di logica, gnoseologia (o problema del- la conoscenza), epistemologia, metafisica, cosmologia, antropologia, etica, teodicea {o religione), politica, estetica, pedagogia, cultura, linguaggio e assiologia, le quali costituiscono pertanto anche le parti principali della filosofia. La logica si occupa del problema del- l'esattezza del ragionamento; la gnoseologia della conoscenza; l'e pi- stemologia, nell'accezione attuale del termine, della scienza, del suo fondamento e del suo valore; la metafisica, del fondamento ultimo ? L. GILKEY, I! destino della religione nell'èra tecnologica, Roma 1972, p. 163. ? Aristotele dice che la differenza specifica tra scienza ed esperienza sta nel fatto che la seconda testimonia che qualcosa è accaduto e ne rappresenta il come, mentre la prima cerca di chiarirne il perché. A nostro avviso, anche la differenza tra mito e filosofia sta proprio qui. Il mito ci dice come si struttura l'universo, ossia il mondo degli dèi, degli uomini e delle cose. La filosofia invece vuole spiegare il perché del mondo, dell'uomo e di Dio. 13 | fondamenti filosofici sono le costanti della riflessione umana delle cose in generale; la cosmologia, della costituzione essenziale delle cose materiali, della loro origine e del loro divenire; l'antro po- logia, dell'uomo, della sua natura e del valore della sua persona; la teodicea, del problema religioso ossia dell'esistenza e della natura di Dio e dei rapporti che gli uomini hanno con lui; l’etica, dell'origine e della natura della legge morale, della virtù e della felicità; la politica, dell'origine e della struttura dello Stato; l’estetica, del problema del bello e della natura e funzione dell’arte; la pedagogia, dell’educazio- ne; la cultura del complesso delle conoscenze e dei comportamenti dell'uomo; l'assiologia, dei valori. Essendo queste le costanti del filosofare, che in forma più o meno accentuata sono presenti in tutte le epoche della storia, prima di iniziarne lo studio sistematico è opportuno acquisire un'idea abba- stanza precisa dei problemi che esse abbracciano e intendono risol- vere. A tale esigenza si propone di rispondere il presente volume. Esso non è diretto agli specialisti ma a chi inizia a studiare la filosofia. Per questo motivo, i singoli problemi sono esposti e di- scussi in forma semplice, precisa, essenziale. Di ogni problema si illustrano le origini e gli sviluppi storici, le soluzioni prospettate dai vari filosofi attraverso i secoli e le questioni tuttora aperte e pen- denti. CONCETTI DA RITENERE — Conoscere; filosofia; filosofo — Intelletto; razionalità; logicità — Ricerca; metodo; finalità — Scienza; tecnologia; scientificità — Induzione; deduzione — Mito; favola; risposta « pre-logica » o intuitiva. SINTESI CONTENUTISTICA 1) Che cos'è la filosofia — La conoscenza umana è superiore a quella degli altri esseri viventi. A livello intellettuale essa assume due forme: razionale o logica e simbolica o analogica. L'uomo è naturalmente « filosofo », egli cerca sempre il perché delle cose. Vengono chiamati « filosofi » coloro che hanno come primo scopo queste ricerche condotte in modo sistematico, per arrivare ad avere delle risposte ai grandi interrogativi che da sempre si è posta l’uma- nità. La filosofia ha una sfera particolare di competenza. Non è facile però stabilire in modo specifico il campo di ricerca proprio della filosofia. In realtà i filosofi si sono occupati non solo dello studio dell'uomo, ma anche del lin- guaggio, dell'essere, della storia, dell’arte, della cultura, della politica, ecc. Si può dire pertanto che la filosofia si occupa di ogni cosa, ricercandone le cause e le ragioni fondamentali. Inoltre, mentre le singole scienze studiano una par- ticolare dimensione della realtà, la filosofia ha per oggetto l'universo preso nella sua totalità. . 2) La specificità della filosofia è data dal fatto che essa si vale: a) di uno strumento di ricerca, che è dato dalla ragione; b) di un metodo raziocinativo, valendosi dell’induzione e della deduzione; c) dell'obiettivo specifico della co- noscenza. 14 3) Le origini della filosofia — Filosofia elementare (comune a tutti gli uomini) e scientifica (sistematica, specializzata). Rapporto tra mito e filosofia. Due principali interpretazioni del mito: mito = verità, mito = favola. Mentre sino al secolo scorso ha dominato il concetto del mito = favola, dall’inizio del secolo XX molti studiosi hanno ripreso il concetto di « mito = verità » in quanto l'umanità primitiva, non potendo dare una spiegazione « logica » del- l'universo, ha cercato una spiegazione intuitiva ai grandi fenomeni come la vita, la morte, il bene, il male, ecc. I miti, sotto la maschera di immagini varie, danno una risposta « prelogica » a questi fenomeni. Dalla mitologia greca prese sviluppo la filosofia. Funzione religiosa, sociale e filosofica del mito. 4) I problemi filosofici fondamentali — La logica (studio dell'oggetto del pensiero in quanto tale) si divide in formale, trascendentale e matematica. Il « sillogismo » aristotelico; l'epistemologia (teoria generale del sapere scienti- fico) e la gnoseologia (teoria filosofica della conoscenza); la cosmologia (studio della forma e delle leggi dell'universo); l'antropologia {studio dell’uomo); la metafisica (studio dell'essere in quanto tale); l'etica o morale (studio dell'agire umano con riferimento all'ultimo fine); l’estetica (studio dell'attività e della produzione artistica); la politica (studio dell'origine e del fondamento dello stato); la teodicea {studio di Dio); la storia (lo studio del senso della storia); la pedagogia (scienza dell'educazione); la cultura (l'insieme di costumi, valori, ecc., propri di un popolo); l’assiologia (studio dei valori). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Animali e uomo: in che cosa consiste la differenza? 2. Quali forme assume, nell'uomo, la conoscenza intellettuale? 3. Perché l’uomo è stato sempre naturalmente filosofo? L'uomo come si differenzia dagli altri esseri viventi? 4. Che cosa sono la filosofia e il filosofo? 5. La differenza tra filosofia e scienze consiste nell'oggetto o nel metodo? 6. Quali sono le principali concezioni cosmologiche della scienza contem- poranea? 7. Che cosa è il mito? Come è sorto? 8. Perché si dice oggi che il mito è una risposta « prelogica » dell'umanità? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1. Sul concetto di filosofia: AA.Vv., Enciclopedia Garzanti di filosofia, Garzanti, Milano 1986°. AA.Vv., Scienza e filosofia oggi, Massimo, Milano 1980. GENTILE M., Che cosa è il sapere, La Scuola, Brescia 1948. MARITAIN J., Introduzione alla filosofia, Massimo, Milano 1986. Morra G.F., Filosofia per tutti, La Scuola, Brescia 1974. PIEPER J., Per la filosofia, Ares, Milano 1966. RicoBELLO A., Perché la filosofia, La Scuola, Brescia 1979. VERNEAUX R., Introduzione e logica, Paideia, Brescia 1956. 2. Sui rapporti tra mito, religione e filosofia: ABBAGNANO N., Filosofia, religione, scienza, Taylor, Torino 1960. CopLESTON F.C., Religione e filosofia, La Scuola, Brescia 1977. MonpoLro R., Alle origini della filosofia della cultura, Il Mulino, Bologna 1956. SERVIER J., L'uomo e l'invisibile, Borla, Torino 1967. 15 SNELL B., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino 1963. VERNANT J., Mito e pensiero presso i greci, Einaudi, Torino 1970. 3. Sui problemi fondamentali della filosofia: AA.Vv., Studio ed insegnamento della filosofia, A.V.E., Roma 1966, 2 voll. AA.Vv., Concetti fondamentali di filosofia, Queriniana, Brescia 1982, 3 voll. AA.Vv., Storia antologica dei problemi filosofici, collana diretta da Ugo Spirito, Sansoni, Firenze 1965 ss. VOLKMANN-SCHLUCK, Introduzione al pensiero filosofico, Città Nuova, Ro- ma 1986. Per un aggiornamento generale segnaliamo la rivista quadrimestrale Per la filosofia (Filosofia e insegnamento), dell'Ed. Massimo di Milano, con temi monografici e una seconda parte di aggiornamento didattico per gli insegnanti. (Si può chiedere lo « specimen » della rivista con i sommari dei vari numeri usciti). 16 Parte prima: I PROBLEMI FILOSOFICI Capitolo primo IL PROBLEMA LOGICO (*) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Esiste una relazione del pensiero con se stesso? 2. Eventualmente, esso come si esprime e quale valore ha? 3. Quale rapporto è possibile stabilire tra pensiero e, discorso? 1. Natura del problema La conoscenza umana è un fenomeno complesso e misterioso. Al suo studio si interessano particolarmente tre discipline filoso- fiche, la psicologia, la gnoseologia e la logica: la prima ne esa- mina l'origine e i tipi principali; la seconda ne accerta il valore, studiando il rapporto che intercorre tra la conoscenza e gli oggetti conosciuti; la terza, infine, studia le condizioni essenziali al co- stituirsi della conoscenza e fissa le regole per il suo retto funziona- mento. La logica non presuppone la gnoseologia, di cui è piuttosto uno strumento indispensabile per il raggiungimento della verità. ‘Pre- suppone invece la psicologia, perché è da quest’ultima che essa viene a sapere quali sono i tipi di conoscenza di cui è dotata la mente umana. Ottenute queste informazioni (per l'appunto dalla psicologia), la logica procede allo studio delle condizioni fondamen- tali che rendono possibili tali tipi di conoscenza ed a stabilire le norme per il loro retto funzionamento. (*) Il termine greco /ogos (dal verbo /égein = dire) presenta nella lingua originaria una pluralità di significati, che esprimono però tutti una stretta con- nessione reciproca; dal più semplice al più complesso sono i seguenti: parola, discorso, ragionamento, mente, intelletto. Il termine indica quindi sia il sog. getto pensante, sia il procedimento proprio del pensiero, sia il linguaggio nel suo irisieme che la parola nel suo valore di comunicazione e di specchio astrat- to delia realtà. La logica, di fatto, finisce per essere lo studio della retta corre- lazione di tutti quesii elementi. 17 La logica ricerca le condizioni ed il loro retto funzionamento per giungere alla gonoscenza La storia della filosofia conferma la dipendenza della logica dalla psicologia Il problema della logica si impone da sé. La logica: l’oggetto del pensiero in quanto tale La logica è lo studio degli enti di ragione Tale dipendenza della logica dalla psicologia è chiaramente con- fermata dalla storia della filosofia. Aristotele, per esempio, distin- gue tre tipi di conoscenza intellettiva (apprensione, giudizio e ra- gionamento) e così nella sua logica fissa le regole per il retto fun- zionamento dell’apprensione, del giudizio e del ragionamento. Hu- me e Stuart Mill pensano che tutta la conoscenza umana faccia capo alla fantasia e pertanto nella loro logica stabiliscono delle re- gole per il retto funzionamento della fantasia. Kant, da parte sua, distingue tre operazioni conoscitive: sensazione, giudizio e ragiona- mento, e pertanto esplora le condizioni trascendentali che rendono possibile il loro funzionamento. Il problema logico, anche se a qualcuno può sembrare artificio- so, si impone da sé. Esso prende forma non appena ci si accorge che alcune conoscenze possono essere interpretate in maniera diver- sa, oppure che la conclusione di un certo ragionamento non può essere valida. Ecco due esempi. Primo: di notte ho la sensazione d'essere colpito mortalmente da una fucilata e mi sveglio di so- prassalto; in un primo momento non so se si tratta di una per- cezione oggettiva oppure semplicemente d'un sogno. Cosa è che distingue queste due forme di conoscenza? Secondo: dalle proposi- zioni: « tutte le oche sono bipedi » e « tutti i galli sono bipedi », qualcuno potrebbe trarre la conclusione: « tutti i galli sono oche ». Per quale motivo una simile argomentazione è errata? La logica si propone, quindi, di fornire una risposta ai seguen- ti interrogativi: Ciò che esprimo quando parlo, che cos'è? E quali sono le sue strutture? Quale la sua organizzazione interna? Della logica sono state date molte definizioni. Una di quelle su cui quasi tutti gli autori si trovano d'accordo è la seguente: « è la scienza che studia il pensato in quanto pensato ». Che significa « il pensato in quanto pensato »? Vuol dire che la logica studia un oggetto di pensiero {il pensato) in quanto oggetto di pensiero (in quanto pensato) e non in quanto rappresentazione di questa o di quella cosa. Per esempio, la logica prende in esame l'idea di tavolo non in quanto è la rappresentazione più o meno fedele di questo o di quel tavolo, oppure per spiegare in che modo tale idea è entrata nella nostra men- te, ma considera il tavolo in quanto, diventato pensiero, esso assume certe particolari caratteristiche (che come oggetto fisico non ha), come l'universalità, la predicabilità, la definibilità, ecc. Così, quando spiego che nella proposizione « il tavolo è quadrato » tavolo è sogget- to e quadrato è predicato faccio un discorso che appartiene alla lo- gica e non alla fisica. Spesso si dice che la logica non studia enti reali ma enti di ragione. E questo è vero. Infatti le caratteristiche del pensato, delle idee, come l'universalità, la predicabilità, ecc. sono entità che non esistono nella natura delle cose (non sono entità fisiche), ma esistono solo nella mente. La logica si divide in tre grandi branchie: logica formale, logica trascendentale e logica matematica. 18 La logica formale esamina le caratteristiche delle idee al fine di stabilire le norme del retto argomentare. Si dice « formale », ap- punto perché ciò che l’interessa sono le caratteristiche delle idee e non i loro contenuti. Ne consegue che le norme che essa stabilisce garantiscono la correttezza del discorso ma non la sua verità. La logica trascendentale tratta della validità delle nostre cono- scenze, ossia delle condizioni alle quali esse devono la loro possi- bilità e verità, e perciò del peculiare modo di essere del pensato in quanto pensato. La logica matematica non parte da un determinato discorso al fine di determinare le regole che ne garantiscono la verità, ma procede nel senso inverso: stabilisce anzitutto un gruppo di regole sulle relazioni di certi termini tra di loro e poi procede a determi- nare quale discorso sia possibile una volta accettato tale gruppo di regole. La logica matematica viene pertanto costruita come un puro calcolo. 2. Panorama storico Aristotele ci ha dato le prime norme della logica formale: « La scienza della logica è stata scoperta dai Greci. Ciò non significa che prima di essi non vi sia stato pensiero logico: questo infatti è antico quanto il pensiero, poiché ogni ideazione fertile è con- trollata dalle regole della logica. Ma una cosa è applicare tali regole inconsciamente nelle operazioni del pensiero pratico, e un’altra for- mularle esplicitamente, in maniera da sistematizzarle sotto forma di una teoria. Spetta ad Aristotele il merito d'aver iniziato lo studio organico delle regole logiche ». Il merito principale d’Aristotele è avere fissato con grande pre- cisione le regole dell'argomentazione deduttiva, nella forma del sillogismo. Il sillogismo consta di tre proposizioni di cui le prime due sono chiamate « premesse » e la terza « conclusione ». Le tre propo- sizioni sono costruite soltanto con tre termini, denominati « me- dio », « maggiore » e « minore ». Il medio è quello che compare due volte nelle premesse ma non figura nella conclusione. Il mag- giore e il minore figurano sia nelle premesse sia nella conclusione. Il maggiore è quello che ricorre nella premessa maggiore e il mi- nore quello che ricorre nella premessa minore. Per esempio, nel sillogismo: « Tutti gli uomini sono ragionevoli; Socrate è un uo- mo; quindi Socrate è ragionevole », « uomo » è il termine medio; « ragionevole » è il termine maggiore; « Socrate » è il termine minore. ! H. REICHENBACH, La nascita della filosofia scientifica, Il Mulino, Bolo- gna 1961, p. 208, 19 La logica si divide in: — formale — trascendentale — matematica Aristotele fissa ie regole dell’argomentazione deduttiva (il sillogismo): si ha la logica ‘‘formale’’ Le quattro figure del sillogismo L’induzione: dal particolare all’universale Critica al sillogismo: da Sesto Empirico, Cartesio, Stuart Mill Del sillogismo si danno quattro figure principali, le quali si ca- ratterizzano per la diversa posizione assunta dal termine medio nel- le premesse. La prima figura si ha quando il termine medio è sog- getto della maggiore e predicato della minore; la seconda figura, quando è predicato in tutt'e due le premesse; la terza, quando è soggetto in entrambe le premesse; la quarta quando è predicato nella maggiore e soggetto nella minore. Perché il procedimento sillogistico sia retto Aristotele ha fissato otto regole fondamentali Oltre che dell’argomentazione deduttiva Aristotele s'è occupato anche di quella induttiva. Il procedimento induttivo, o induzione, si ha quando una proposizione universale viene inferita da due gruppi di proposizioni particolari. Per esempio: a) il ferro è un me- tallo, il bronzo è un metallo, l'oro è un metallo, il rame è un me- tallo, ecc.; b) il ferro è un buon conduttore di elettricità, l'oro è un buon conduttore di elettricità, il rame è un buon conduttore di elettricità, ecc.; c) dunque i metalli sono buoni conduttori di elet- tricità. L'enumerazione dei casi non può essere completa, perché i casi sono potenzialmente infiniti, ma dev'essere sufficiente a far co- gliere la ragione del fenomeno (per esempio, che l’esser metallo è la ragione della buona conducibilità). Lo studio della deduzione e soprattutto quello dell'induzione fu ulteriormente approfondito da altri filosofi dopo Aristotele. Gli Stoici e alcuni filosofi medioevali hanno sviluppato lo studio delle deduzioni imperfette, vale a dire delle argomentazioni ipotetiche e disgiuntive. Invece Bacone * e Stuart Mill5 hanno fissato alcune re- gole per rendere l’induzione più feconda e sicura. Le tabulae di Bacone offrono metodi di enumerazione dei casi; le regole di Stuart Mill precisano vari metodi di ricerca della ragione di fatti sperimentali. L'utilità del procedimento sillogistico è stata contestata da vari autori lungo il corso dei secoli, per esempio, da Sesto Empirico, Cartesio, Stuart Mill. C'è però da osservare che le loro difficoltà non muovono tanto dalla logica quanto dalla teoria della conoscenza, la quale .viene concepita in modo diverso da quello di Aristotele. ? Le otto regole del sillogismo sono: 1. I termini debbono essere soltanto tre; 2. I termini debbono avere la medesima estensione nelle premesse e nella conclusione; 3. Il medio non deve mai entrare nella conclusione; 4. Il medio deve essere preso almeno una volta in tutta la sua estensione; 5. Due premesse negative non danno nessuna conclusione; 6. Due premesse afferma- tive risultano necessariamente in una conclusione affermativa; 7. Due premesse particolari non danno nessuna conclusione; 8. La conclusione segue sempre la parte più debole, ossia se una premessa è negativa la conclusione dev'essere negativa; se una premessa è particolare, la conclusione dev'essere particolare. ? Sulla logica aristotelica cfr. B. MONDIN, Corso di storia della filosofia, vol. I, pp. 122-123, Massimo; Milano 1983. ‘ Cfr. B. MONDIN, Corso di storia della filosofia, vol. II, pp. 103-107, Massi- mo, Milano 1984. 5 Cfr. B. MONDIN, Corso di storia della filosofia, vol. III, pp. 184-186, Massi- mo, Milano 1985, 20 Sesto Empirico e Stuart Mill negano i concetti universali, e quindi per loro è assurdo pretendere di passare dall'universale al singo- lare come si fa nel sillogismo. Invece Cartesio afferma la corioscenza intuitiva sia degli universali che dei particolari, e pertanto per lui diviene superflua qualsiasi argomentazione tesa a passare da un ordine all’altro. Invece secondo Aristotele noi abbiamo la capacità di acquistare concetti universali, ma non per intuizione, bensì me- diante l’astrazione dai particolari. L’astrazione però non comporta la conoscenza di tuiti i particolari. Così nella deduzione si vengono a conoscere nuovi casi singoli che nell'universale erano presenti sol- tanto potenzialmente. Un altro tipo di logica, detta logica trascendentale, volta a stabi lire le condizioni essenziali che rendono possibili i vari tipi di cono- scenza, fu elaborata da Kant. Questi, convinto della validità della scienza, ha esaminato quali siano gli elementi che fondano tale validità. A suo giudizio, essi non possono procedere dall’espe- rienza che non è mai dotata di necessità e universalità, ma dal sog- getto stesso: sono forme o categorie con le quali il soggetto accoglie, interpreta e classifica l’esperienza. Nella sua logica trascendentale Kant determina appunto le forme (di spazio e tempo) e le categorie (dodici) che danno ordine all'esperienza. Secondo Kant l'intelletto spontaneamente foggia gli oggetti dell'esperienza (per esempio, fa sì che essi siano regolati dai principi di causalità, di ordine, ecc.), ma non li crea; esso fornisce le condizioni a priori mediante le quali, sol- tanto, qualcosa può essere pensato come oggetto. Queste condizioni sono l'oggetto della logica trascendentale kantiana, la quale studia pertanto l'origine, la validità oggettiva e l'estensione (sempre limitata all'ordine fenomenico) delle nostre conoscenze a priori. La logica trascendentale non prescinde da ogni contenuto come la logica formale, ma solo dal contenuto empirico (sensibile) delle conoscenze. La teoria kantiana della logica trascendentale ha dato luogo ad innumerevoli dispute. C'è chi l’ha salutata come la soluzione più adeguata al problema della conoscenza scientifica; invece altri l'ha respintaoperchéprivadi fondamento oppure perché non neces- saria. Alcuni ne hanno contestata la validità, negando alla matemati- ca, alla geometria e alla fisica quelle caratteristiche di certezza asso- luta che Kant ascriveva loro. Ora, se questa obiezione è fondata, come i più recenti sviluppi della matematica e delle scienze speri- mentali sembrano attestare, è evidente che crolla il terreno su cui Kant ha costruito il suo edificio. Altri non mettono in questione la validità della scienza, ma per spiegarla non ritengono necessario po- stulare elementi conoscitivi a priori (forme e categorie). Seguendo Aristotele affermano che l’universalità e la necessità delle idee e dei giudizi non è il risultato di una sovrapposizione di queste caratteri- stiche sui dati dell'esperienza, bensì di una lettura approfondita di tali dati: non sono frutto di una sintesi dell'elemento a posteriori con 21 Kant elabora le condizioni essenziali della conoscenza: si ha la logica ‘‘trascendentale”’ Dalla critica a Kant deriva il recupero della logica aristotelica Nell'ultimo secolo si è sviluppata la logica ‘‘matematica’’ costruita come un calcolo di simboli La sintassi del linguaggio comprende: — regole di formazione — regole di deduzione Il sistema assiomatico deriva dai due tipi di regole quello a priori, bensì di un'astrazione effettuata dall’intelletto sugli oggetti dell'esperienza. L'ipotesi aristotelica rispetto a quella di Kant ha il vantaggio di salvaguardare meglio l'obiettività del conoscere e, allo stesso tem- po, è in condizione di render conto della mobilità delle scienze (fi- siche e matematiche).£ In Hegel la logica formale di Aristotele e quella trascendentale di Kant non sono abbandonate ma acquistano un senso nuovo: esse non si riferiscono più semplicemente alla sfera del pensiero, ma an- che a quella della realtà, perché, secondo Hegel, tra le due sfere c'è perfetta coincidenza: « tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale ». Durante l’ultimo secolo, per merito di Frege, Peano, Whitehead, Russell e altri, ha ottenuto considerevole sviluppo un terzo tipo di logica, la logica matematica {detta anche logica simbolica oppure logistica). Questa, come s'è detto, viene costruita come un calcolo di simboli, i quali non hanno nessun altro senso che quello assegna- to loro dalle rispettive regole. Il primo passo della logica matematica è stabilire la sintassi del linguaggio: ossia fissare le relazioni dei segni tra di loro, mediante alcune regole generali. Tale sintassi viene costruita indipendente- mente dalla semantica del linguaggio, la quale si occupa del rapporto dei segni con ciò di cui si parla. La sintassi comprende due gruppi di regole: di formazione e di deduzione. Le regole di formazione stabiliscono prima quali se- gni scritti (per esempio, q, p, v, -) sono espressioni del linguaggio, e poi quali combinazioni di tali espressioni sono formule ben for- mate ossia espressioni sensate, distinte dalle altre (non sensate). Alcune di queste formule ben formate vengono assunte quali as- siomi, ossia quali primi enunciati validi. Le regole di deduzione poi determinano mediante quali procedimenti (per esempio, sostituzione di una espressione ad un’altra) altri enunciati validi possono essere derivati, ossia dedotti, dagli assiomi iniziali. Sia gli assiomi sia gli enunciati dedotti sono chiamati teoremi del sistema. Il sistema che ne risulta è detto sistema assiomatico, in quanto tutti i teoremi vi sono dedotti da pochi assiomi. Come s'è detto, i sistemi assiomatici sono costruiti in modo del tutto indipendente dal significato che potrà poi essere attri- buito ai loro teoremi, quando siano applicati ad una scienza; ed i loro assiomi non hanno affatto la pretesa di essere evidenti. Per- ciò «la deduzione non consiste nell’inferire da verità evidenti altre verità, mediatamente evidenti (come nel sillogismo); ma consiste solo nel trasformare date formule assunte come primitive (ossia gli assiomi), in modo da ottenerne altre (le formule derivate): tutte ‘ Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp. 338-347. * Cfr. B. MoNDIN, vol. III, pp. 74-80. 22 queste formule — ossia tutti i teoremi — risultano così tra di loro concatenati in un unico sistema. I sistemi sono però usualmente costruiti in vista della loro interpretazione, ossia applicazione ad una data scienza; sicché l'utilità di un sistema sta tutta nella sua ca- pacità di fornire un criterio rigoroso di distinzione di date formule — i teoremi, eventualmente interpretabili come enunciati veri di una data scienza — dalle altre formule. L'interpretazione di un sistema è data dalle regole semantiche che mettono ogni sua espressione in rapporto o con un nesso logico (disgiunzione, implicazione, ecc.) o con una delle entità (oggetto, proprietà, relazione, proposizione, ecc.) studiate in una data scienza. Il sistema e la sua interpretazione sono costruiti in modo tale che ad ogni teorema del sistema corri- sponda una proposizione vera di quella scienza in cui esso viene inter- pretato »} Perché un sistema assiomatico sia corretto e logicamente inter- pretabile si esige che sia non-contraddittorio, tale cioè che due for- mule di cui una nega quello che l’altra afferma, per esempio, « A » e « non A », non siano ambedue in esso deducibili. Senonché nel 1931 Gidel fece una scoperta che ebbe del sensa- zionale: dimostrò che la non-contraddittorietà del sistema non può essere dimostrata nel sistema stesso: ossia espréssa in un enunciato che sia teorema o assioma del sistema. Sicché per affermare valida- mente la non-contraddittorietà d'un sistema occorre usare espressio- ni estranee al sistema stesso. Si prese così coscienza dei limiti interni della logica matematica. Più tardi ci si accorse che difficoltà ancora maggiori provenivano dall'esterno, nel momento in cui si passava dal calcolo simbolico alla traduzione semantica dei sistemi assioma- tici. E in effetti le difficoltà apparvero insormontabili allorché nella traduzione dei sistemi assiomatici, in un primo tempo, si adot- tarono regole semantiche come quelle del neopositivismo, regole troppo rigide e del tutto inadeguate ad esprimere la ricchezza e varietà dell'esperienza umana. Si cercò di superare tale difficoltà abbandonando il neopositivi- smo e sviluppando una nuova filosofia del linguaggio, la filosofia analitica. Questa insegna che ogni tipo di discorso deve avere una logica sua propria e che la logica matematica si addice soltanto al discorso scientifico. Dalla filosofia analitica i logici matematici hanno appreso l’impor- tante lezione di mantenere una rigorosa distinzione tra la loro opera e quella dei semantici. In effetti i logici matematici contempo- ranei (Carnap, Quine, Church) costruiscono dei calcoli puramente formali, intesi cioè come sistemi di segni privi di significato. Solo in un secondo tempo si chiedono se vi siano delle verità significate da * F. RIVETTI BARBO', « Il problema logico », in Studio e insegnamento della posse, Ave, Roma 1966, pp. 159-160. Cfr. B. 'MONDIN, vol. III, pp. 450-456. » Cfr. Ivi, pp. 456-460. 23 L’interpretazione di un sistema: — nesso logico (disgiunzione, implicazione, ecc.) — entità (oggetto, proprietà, relazione, proposizione, ecc.) Il problema della non contradditorietà e i limiti della logica matematica La filosofia ‘‘analitica’’ insegna che la logica matematica è solo del discorso scientifico Logica ‘‘formale’’ e logica ‘’simbolica”’: affinità e differenze Oggi risulta chiaro che la logica è una tecnica ordinatrice del pensiero quei segni, e quali esse siano. Le risposte variano dal nominalismo (Quine) al platonismo (Church). Al suo primo apparire, la logica matematica parve a molti incom- patibile con la logica formale tradizionale. Questo giudizio oggi non è più condiviso da nessuno. In effetti tra le due discipline non esiste nessuna incompatibilità. Tant'è vero che in uno dei testi più classici di logica matematica (quello del Quine), tutta la prima parte non fa altro che riproporre, in forma simbolica, la logica formale di Ari- stotele. Esistono tuttavia sicuramente alcune importanti differenze tra logica formale e logica simbolica. In quest'ultima è più netta la se- parazione tra il calcolo logico e l’interpretazione semantica; mentre in Aristotele regole logiche e principi semantici sono spesso mesco- lati insieme. In secondo luogo, l'apparato della logica matematica è assai più vasto e complesso di quello della logica formale. Infine, mentre la logica tradizionale partiva dalla definizione degli enti lo- gici (concetto, giudizio, ragionamento) e poi ne ricercava le strut- ture, la logica matematica si limita a costruire i sistemi formali la- sciando alla semantica di determinare, in un secondo tempo, di quali enti si tratti. Grazie alla netta separazione tra logica e semantica oggi risulta più evidente una verità che i filosofi del passato non hanno sempre visto chiaramente: che, cioè, la logica, propriamente parlando, non è una parte della filosofia (e tanto meno tutta la filosofia come pre- tendeva Hegel) bensì una tecnica generale per ordinare rettamente il pensiero, qualsiasi pensiero. Essa è pertanto un presupposto fon- damentale di tutte le scienze, inclusa ovviamente anche la filosofia. CONCETTI DA RITENERE — Psicologia; gnoseologia; logica — Logica formale, trascendentale, matematica — Sillogismo; deduzione, induzione — Sintassi del linguaggio; regole di formazione; regole di deduzione — Sistema assiomatico — Filosofia analitica SINTESI CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA 1. La conoscenza umana è un fenomeno complesso e misterioso. Tre disci- pline filosofiche si interessano ad esso: la psicologia {ne esamina l'origine e i tipi); la gnoseologia (ne accerta il valore); la logica (ne studia le condizioni essenziali e le regole del retto funzionamento). x 2. La logica non presuppone la gnoseologia, di cui è strumento, ma presup- pone la psicologia che le indica i diversi tipi di conoscenza. 3. Il problema logico si pone da sé quando ci si rende conto che alcune conoscenze e alcuni ragionamenti possono condurre a conclusioni diverse. Na- 24 scono allora questi interrogativi: Ciò che esprimo quando parlo che cos'è? Quali sono le sue strutture? Quale la sua organizzazione interna? 4. La logica studia un oggetto di pensiero (il pensato) in quanto oggetto di pensiero (in quanto pensato) e non in quanto rappresentazione della realtà. 5. La logica è così distinguibile: a) logica « formale »: suo oggetto sono le idee e i loro contenuti; stabilisce le regole del retto argomentare; b) logica « trascendentale »: tratta della validità delle nostre conoscenze e della loro possibilità e verità; c) logica « matematica »: è un puro calcolo che stabilisce un gruppo di regole sulla relazione tra certi termini e determina quale discorso sia possibile. II. PANORAMA STORICO 1. Aristotele ha fissato nel sillogismo le regole dell’argomentazione dedut- tiva. Egli si è occupato anche dell’argomentazione induttiva, che inferisce una proposizione universale da una particolare. 2. Lo studio della deduzione e dell’induzione si è protratto nei secoli attra- verso gli stoici, Bacone, Cartesio e Stuart-Mill. 3. La logica trascendentale deve la sua paternità a Kant che attribuisce alle forme pure dello spazio e del tempo e alle categorie il compito di organiz- zare l’esperienza. 4. In Hegel la prospettiva aristotelica e quella kantiana assumono carat- tere metafisico: la realtà è il pensato del pensiero. 5. Nel sec. XX Frege, Peano, Whitehead, Russell, ecc. hanno elaborato la logica matematica o simbolica orientata a stabilire la sintassi del linguaggio incentrata sulle regole di formazione e di deduzione. Queste ultime portano alla individuazione dei sistemi assiomatici. La correttezza del sistema assioma- tico sta nella sua non contraddittorietà. Gòdel nel 1931 ha scoperto che il cri- terio di non contraddittorietà del sistema è posto fuori dal sistema stesso. 6. Una nuova filosofia del linguaggio, la filosofia analitica, insegna che ogni tipo di discorso deve avere una sua logica e che la logica matematica si addice solo al discorso scientifico. 7. Tra logica formale e logica simbolica vi sono importanti differenze: nella prima sono spesso mescolate regole logiche e princìpi semantici; nella seconda il calcolo logico e l’interpretazione semantica sono più nettamente separati. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quale relazione intercorre tra psicologia, gnoseologia e logica? 2. Che cosa contraddistingue la logica e qual è l'oggetto del suo studio? 3. La logica in quante branchie si divide e quale significato ha ciascuna di esse? 4. Che cosa sono il sillogismo e l’induzione? 5. Quale rapporto intercorre tra la logica formale e lo studio dell'analisi logica di una lingua? 6. C'è un campo di applicazione specifica della logica matematica o simbo- lica nella nostra cultura a tecnologia avanzata? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI BocHENSKI J., La logica formale, 2 voll., Einaudi, Torino 1972. CAsARI E., La logica del Novecento, Loescher, Torino 1981. Corpi I., Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna 1982. 25 FucHs W.R., La nuova logica, Rizzoli, Milano 1982. GRANA N,, Filosofia della logica, Loffredo, Napoli 1982. MORANDINI F., Corso di logica, P.U.G., Roma 1971. PASQUINELLI A., Introduzione alla logica simbolica, Einaudi, Torino 1953. PIageET J., Logica e psicologia, La Nuova Italia, Firenze 1971. ‘PropI G., Storia naturale della logica, Bompiani, Milano. QuINE W.V.0., Manuale di logica, Milano 1960. REICHENBACH H., La nascita della filosofia scientifica, Il Mulino, Bologna 1961. SANGUINETI J.J., Logica e gnoseologia, Urbaniana Univ. Press, Roma 1983. SELVAGGI F., Elementi di logica, P.U.G., Roma 1979. VANNI RovIGHI S., Elementi di filosofia, I, La Scuola, Brescia 1963. VERNEAUX R., Introduzione e logica (Corso di filosofia tomista), Paideia, Brescia 1966. 26 Capitolo secondo IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO (o problema della conoscenza) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che cosa si può ritenere necessario per la conoscenza? 2. È possibile analizzare i caratteri del proprio modo di conoscere? 3. Quale rapporto intercorre tra verità, errore e conoscenza? Il problema della conoscenza, s'è osservato nel capitolo preceden- te, è un problema complesso, i cui aspetti principali sono tre: primo, origine e strutturazione; secondo, valore; terzo, retto funziona- mento. Il primo aspetto è trattato dalla psicologia, il secondo dalla critica e il terzo dalla logica. Nel capitolo precedente abbiamo esa- minato l'aspetto logico; ora, nel presente capitolo, ci occuperemo sia di quello critico che di quello psicologico. I principali problemi di ordine psicologico sono due, uno riguar- da le forme della conoscenza umana e l’altro la loro origine. 1. Le forme della conoscenza umana Per quanto concerne la conoscenza umana, è evidente che anche noi come gli animali siamo dotati di alcune forme di conoscenza sensitiva: vista, udito, gusto, odorato, tatto. 'Possediamo inoltre, anche un'altra capacità, la memoria, la quale ci consente di richia- mare alla mente notizie che appartengono al passato. Vi è infine la fantasia, che ci permette di rappresentare le cose in modo originale, diversamente da come le abbiamo ricevute dall'esperienza. Così, per esempio, possiamo immaginare un bue con la testa di leone e la coda di coccodrillo, anche se di fatto un simile animale non esiste nella realtà. Sul possesso di queste facoltà non esiste nessun dubbio; perciò la filosofia non ha nulla da disputare al riguardo. Senonché la conoscenza umana fornisce anche altri dati singo- lari, appartenenti all'ordine scientifico, religioso, morale, estetico, ecc., che includono idee universali e astratte, principi generali e asso- luti, leggi necessarie, e che presentano quindi caratteristiche del tutto dissimili dalle conoscenze ottenute mediante i sensi e la fanta- sia. Di fronte a tali dati sorge inevitabilmente l’interrogativo: di che 27 Aspetti del problema della conoscenza: — orlginl e strutturazione — valore — retto funzionamento Alcune forme della conoscenza: — conoscenza sensitiva — memoria — fantasia Parmenide e i Pitagorici danno valore assoluto alla conoscenza razionale Conoscenza sensitiva e conoscenza intellettiva: orientamento platonico e orientamento aristotelico genere di conoscenze si tratta? A quale sfera appartengono? Questo è un problema impegnativo e spetta al filosofo risolverlo. Le soluzioni possibili, come ci insegna la storia della fiiosofia, sono molte. Il problema fu già dibattuto dai presocratici, i quali presentano subito una soluzione contrastata: Parmenide e i Pitagorici ricono- scono apertamente oltre alla conoscenza sensitiva anche quella ra- zionale, ma soltanto a quest’ultima ascrivono valore assoluto. In- vece Protagora, Gorgia e gli altri Sofisti ammettono solo l’esistenza della conoscenza sensitiva e in tal modo ritengono di riuscire a spiegare le profonde divergenze che si incontrano tra gli orizzonti conoscitivi di membri appartenenti a diverse società o anche allo stesso gruppo sociale. In generale, però, durante il periodo classico, quasi tutti i filosofi riconoscono l’esistenza di almeno due ordini conoscitivi: quello dei sensi e quello dell'intelletto. Ma all’interno di questo ampio accordo di fondo, si danno alcune divergenze significative tra i pensatori di orientamento platonico (Platone, Plotino, Agostino, san Bonaven- tura) e quelli di orientamento aristotelico (Aristotele, Averroè, Al- berto Magno, Tommaso d'Aquino). I platonici suddividono sia la conoscenza sensitiva che quella intellettiva in due tipi: — conoscenza sensitiva per immagine diretta, — conoscenza sensitiva per immagine indiretta, ossia mediante una copia, — conoscenza intellettiva per ragionamento (che Platone chiama dianoia e Agostino ratio inferior), — conoscenza intellettiva mediante visione (che Platone chiama noesis e Agostino illuminatio)? Gli aristotelici mantengono la prima distinzione, ma le assegna- no scarsa importanza; respingono invece la seconda in quanto a lo- ro avviso la nostra mente non è dotata di conoscenza intuitiva, ma solo astrattiva e raziocinativa.* Il problema gnoseologico assume un'importanza singolare nel- l'epoca moderna a partire da Cartesio. Questi comprende che dalla soluzione del suddetto problema dipende la soluzione di tutti gli altri. Anche nel periodo moderno come in quello classico, di fronte al problema dei tipi di conoscenza i filosofi si dividono in due grandi schieramenti: alcuni ammettono sia la conoscenza sensitiva che quella intellettiva; sono i razionalisti (Cartesio, Spinoza, Malebran- che, Leibniz) e gli idealisti (Kant, Fichte, Hegel, Croce). Altri ammet- tono soltanto la conoscenza sensitiva: sono gli empiristi (Berkeley, ! Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 60-61. ? Cfr. Ivi, pp. 62-64. ? Cfr. Ivi, pp. 85-87; 217-219. ‘ Cfr. Ivi, pp. 137-139. 28 Hume), i positivisti (Comte, Spencer, Mill) e i neopositivisti (Russell, Ayer). Oggi, il problema delle forme della conoscenza rimane ancora aperto e tutto lascia prevedere che neppure nel futuro si arriverà ad una soluzione conclusiva. Ci sarà sempre anche in seguito, come nel passato, chi basandosi su ciò che è immediatamente sperimentabile affermerà che l’unica conoscenza di cui siamo dotati è quella di or- dine sensitivo. Altri invece, prendendo seriamente in esame alcune espressioni della nostra conoscenza che non sono riconducibili al- l'ordine sensitivo (come le conoscenze scientifiche, religiose, etiche, estetiche, ecc.) riterrà necessario ammettere che siamo dotati anche di una forma di conoscenza trans-sensitiva, ossia intellettiva. 2. Origine della conoscenza Le idee di cui noi siamo in possesso da dove provengono? Sono riproduzioni di oggetti esterni a noi o sono invece creazioni della nostra mente? Anche per questo problema, come per quello pre- cedente si possono dare varie soluzioni. Si può pensare che le idee siano esclusivamente frutto dell’azione dell'oggetto su di noi, oppure che siano, viceversa, il risultato dell’opera del soggetto solamente, oppure, infine, che siano dovute all'azione combinata del soggetto e dell'oggetto. (Le divergenze, però, non finiscono qui. Abbiamo visto che quasi tutti i filosofi riconoscono almeno due forme di conoscenza: quella sensitiva e quella intellettiva. Ne consegue che le tre ipotesi prece- denti vanno moltiplicate per due. E in effetti si può pensare: 1. tutta la conoscenza (sia sensitiva che intellettiva) viene pro- dotta dall'oggetto (Platone); 2. tutta la conoscenza (sia sensitiva che intellettiva) è prodotta dal soggetto (Hegel); 3. la conoscenza intellettiva è prodotta dal soggetto e quella sensitiva dall'oggetto (Occam); 4. la conoscenza intellettiva è prodotta dall'oggetto e quella sen- sitiva dal soggetto (Berkeley); 5. la conoscenza intellettiva è il risultato dell'azione combinata del soggetto e dell'oggetto, mentre invece la conoscenza sensitiva è dovuta esclusivamente all’azione dell'oggetto {Aristotele); 6. la conoscenza sensitiva e quella intellettiva sono entrambe il risultato dell'azione combinata del soggetto e dell'oggetto (Kant). Storicamente le grandi linee di sviluppo del problema dell'origine della conoscenza sono le seguenti. ‘Platone, il quale è il primo filosofo ad affrontare questa questione in maniera esplicita e sistematica, ritiene che tutta la conoscenza umana sia sensitiva che intellettiva abbia la sua origine dall'oggetto. Dato però che nel mondo fisico che esperimentiamo non esistono 29 Forme della conoscenza: è un problema aperto Le idee: — riproduzione di oggetti esterni — creazione della mente — relazione soggetto “oggetto Sei soluzioni al problema delle forme e delle origini Sviluppo storico: — Platone: l’origine è nell’oggetto (reminiscenza e anamnesi) — Aristotele: azione del soggetto In virtù dell’intelletto — Sant'Agostino: le verità eterne e l'illuminazione — San Tommaso: l’azione astrattiva dell’intelletto — Berkeley: Dio causa delle idee — Hume: il primato della sensazione oggetti universali e necessari, Platone, per spiegare l'origine della conoscenza intellettiva, ritiene necessario postulare l’esistenza di un mondo ideale costituito appunto di oggetti universali, necessari e pertanto immateriali. L'anima è stata a contatto con questo mondo delle Idee prima di entrare nel corpo: è quindi preesistita al corpo. Attualmente, quando conosciamo verità assolute noi non facciamo altro che prendere coscienza (reminiscenza, anamnesi) di quanto ab- biamo già esperito precedentemente, nell'Iperuranio.5 Aristotele considera la teoria platonica dell'origine della cono- scenza intellettiva artificiosa, arbitraria e non corroborata in alcun modo dall'esperienza. La conoscenza intellettiva a suo parere, è do- vuta in larga misura all’azione del soggetto, il quale è dotato di una potenza particolare (l'intelletto) mediante la quale elabora i dati offertigli dall'esperienza così da cogliere in essi l'elemento universale e necessario e pertanto essenziale. Sant'Agostino condivide la tesi platonica che le idee universali (le verità eterne) sono prodotte in noi dall'esterno, perché a suo giudi- zio se esse fossero causate da noi stessi non potrebbero avere quei caratteri di assolutezza, certezza, universalità, immutabilità di cui sono dotate, essendo noi esseri contingenti e fallibili; ma la modifica in un aspetto importante: la causa della loro origine non sono le Idee ma Dio. Questi le infonde nella nostra mente con la sua azione il- luminatrice (illuminatio). San Tommaso ritiene che la teoria agostiniana misconosca l’auto- nomia dell'uomo proprio in quella che è la sua facoltà più propria e specifica e che lo innalza al di sopra del regno degli animali. Ripro- pone quindi la teoria aristotelica: la conoscenza delle idee universali è dovuta all’azione dell'intelletto umano, il quale le astrae dalle cose.! Sulla linea di Platone continuano a muoversi alcuni eminenti filosofi moderni (Cartesio, Malebranche, Rosmini, Gioberti); invece altri si muovono sulla linea di Aristotele (Locke, i Neotomisti). Ma durante l'epoca moderna si affacciano soluzioni diverse da quelle tradizionali. Così, per esempio, Berkeley afferma che le idee sono tutte particolari, ma non hanno come causa della loro origine gli og- getti materiali, bensì Dio stesso.’ Hume fonda tutta la nostra cono- scenza sulla sensazione; ma non sa spiegare in che modo si formano in essa i dati iniziali Ad ogni modo, presupposti tali dati, tutte le nostre conoscenze fattuali, a suo avviso, sono frutto dell’azione della fantasia la quale le ottiene associando oppure dissociando i dati pri- mari in base alla loro contiguità nello spazio e nel tempo, alla loro 5 Cfr. Ivi, pp. 85-87. 6 Cfr. Ivi, pp. 137-139. ? Cfr. Ivi, pp. 217-219. * Cfr. Ivi, pp. 286-290. * Cfr. B. MoNnDIN, vol. II, pp. 229-230. 30 somiglianza e dissomiglianza, e alla loro successione causale.! Kant spiega sia la conoscenza sensitiva che quella intellettiva come il risul- tato di una sintesi di elementi forniti in parte dal soggetto e in parte dall'oggetto. L'oggetto fornisce la materia, il soggetto la forma. C'è pertanto un elemento a posteriori (la materia) ed uno a priori (la forma). Kant distingue pertanto vari elementi formali: nella cono- scenza sentitiva sono lo spazio e il tempo; nella conoscenza intellet- tiva, le dodici categorie. In tal modo Kant ritiene di aver superato l'impasse tra razionalisti ed empiristi e di avere fornito una valida spiegazione dell'origine della conoscenza scientifica." Ma la sua spie- gazione viene ben presto contestata dagli idealisti; essi escludono qualsiasi apporto dell'oggetto nella formazione della conoscenza, ritenendo che soltanto così si può salvare l'autonomia del soggetto; e affermano che la conoscenza è creazione spontanea del soggetto." Oggi si cerca di sbloccare il problema dell'origine della conoscen- za facendo intervenire nella sua formazione molti altri fattori oltre a quelli tradizionali (soggetto, oggetto, Dio). Gli psicanalisti danno rilievo al fattore subcoscienziale ed istintivo; gli strutturalisti a quello sociale; gli esistenzialisti, in particolare Heidegger, e i teorici della nuova ermeneutica (Gadamer) al fattore storico; gli analisti a quello linguistico. A nostro avviso, però, la soluzione conclusiva del problema della conoscenza non va ricercata nell’affermazione di una sola di queste componenti ad esclusione delle altre, bensì nella giusta armonizza- zione di tutti questi coefficienti tra di loro e con quei due coefficienti indispensabili che sono il soggetto e l'oggetto. 3. Valore della conoscenza Anche per quanto concerne l'aspetto critico i problemi fonda- mentali sono due: a) che valore ha la conoscenza umana? b) qual è il metodo più efficace per garantire alla nostra conoscenza il raggiun- gimento della verità? Esaminiamo anzitutto il primo problema. Il valore della nostra conoscenza diventa un problema nel mo- mento in cui facciamo esperienza dell'errore. Allora ci domandiamo: possiamo fidarci delle nostre facoltà conoscitive? Le conoscenze che esse ci procurano sono valide? Quando e in che misura? Storicamente il problema del valore della conoscenza è uno dei primi affrontati dai filosofi, i quali, poi, non hanno più cessato di dibatterlo, fino ai nostri giorni. Per risolverlo, Parmenide traccia una netta distinzione tra cono- ‘ Cfr. Ivi, pp. 234-236. " Cfr. Ivi, pp. 337-345. !? Cfr. B. MonDIN, vol. III, pp. 31-32; 67-77. 4 Cfr. Ivi, pp. 222-227; 406-414; 456-460; 468472. 31 — Kant: la conoscenza come sintesi soggetto- oggetto Valore della conoscenza: — i Sofisti: relativismo gnoseologico — Socrate: valore assoluto della conoscenza intellettiva — Platone: immortalità, assolutezza e necessità della conoscenza intellettiva — Aristotele: intelletto, essenza e verità — Agostino: evidenza dell’esistenza scenza sensitiva ed intellettiva: solo la seconda può attingere la verità; la prima al massimo può generare opinioni. I Sofisti, i quali come s'è visto hanno una concezione sensistica della conoscenza non le riconoscono in nessun caso valore assoluto: né nel campo speri- mentale né in quello filosofico né in quello religioso né in quello giuridico. Contro il relativismo e lo scetticismo dei Sofisti, Socrate fa vedere che oltre alle conoscenze dei sensi l'uomo possiede anche altre conoscenze che travalicano la sfera sensitiva come le idee di bontà, giustizia, felicità, bellezza, verità; le quali hanno valore as- soluto." Platone cerca di considerare la posizione di Socrate distinguendo due piani di realtà, quello fisico e quello ideale ed assegnando all’in- telletto la conoscenza del secondo mentre ai sensi appartiene la cono- scenza del primo. Ora, come il piano ideale è immutabile, eterno, in- corruttibile, così anche la conoscenza intellettiva è necessaria, im- mutabile e assoluta. Per contro, essendo il piano materiale mutevole e corruttibile, anche la conoscenza sensitiva è mutevole e soggetta ad errore." Aristotele condivide il pensiero di Socrate e Platone circa l’essen- ziale validità della conoscenza intellettiva, ma non la spiegazione fornita da Platone. Sono le cose stesse a suo giudizio a contenere un nucleo fondamentale sempre identico a se stesso, l'essenza. Questa non si trova al di fuori delle cose, separata, ma nelle cose. E l’intel- letto umano attinge la verità afferrando per astrazione tale essenza. Dopo Platone e Aristotele la filosofia greca attraversa un profondo travaglio, che sfocia nell’abbandono dei loro poderosi sistemi meta- fisici e nel ripiegamento, con gli Stoici e gli Epicurei, su specula- zioni di carattere etico e politico. Ma la crisi della metafisica fornisce un ulteriore motivo per mettere in dubbio il valore della ragione umana: così sorge lo “scetticismo”. Secondo questa filosofia l’uomo non può mai raggiungere con certezza la verità." Durante l’ultimo secolo avanti Cristo e nei primi secoli dell'era cristiana lo scetticismo diviene la teoria di moda oltre che in Grecia anche a Roma. Persino Agostino la condivide durante una fase della sua vita; ma poi, convertito al cristianesimo, la respinge ferma- mente, mostrando che anche ammettendo di cadere continuamente nell'errore, uno ha ciononostante e proprio per questo motivo il possesso di almeno una verità: che esiste. Si fallor, sum. « Chi può dubitare d'essere vivo, se ricorda, capisce, desidera, pensa, conosce e giudica? Dal momento che egli ha questo dubbio, egli vive; se egli dubita, pensa. Per quanti dubbi egli abbia, quindi riguardo ad altre cose, egli non deve aver dubbi riguardo a questa; poiché se egli non * Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 49-51; 61-65; 70-74. * Cfr. Ivi, pp. 81-87. “ Cfr. Ivi, pp. 137-139. ” Cfr. Ivi, pp. 177-179. 32 esistesse, non potrebbe aver dubbi riguardo ad alcuna cosa »." Il valore della conoscenza umana, almeno di quella intellettiva, è apertamente affermato e difeso da san Tommaso e dagli altri Scola- stici. Ma col tramonto della Scolastica spunta nuovamente lo scetti- cismo. Alla fine del Cinquecento esso fa presa su molti spiriti tanto che non è esagerato dire che il « Que sais-je? » non è solo il motto di Montaigne ma di tutta la sua epoca. Quando Cartesio decide di rin- novare l’edificio filosofico, la visione imperante nel mondo dei dotti è ancora quella scettica. E così si comprende perché il padre della filosofia moderna inizi la sua costruzione filosofica, sottoponendo al vaglio della critica l’ordine della conoscenza, onde verificarne il valore e la portata. Egli inizia, com'è noto, facendo le massime con- cessioni allo scetticismo; ma questo non gli impedisce di cogliere una prima fondamentale verità: dubito, quindi penso; penso, quindi sono: Cogito, ergo sum. Da questa verità Cartesio deduce poi tutta una vasta serie di proposizioni di ordine metafisico, religioso e anche fisico. Alla fine egli ritiene di potere riscattare dal dubbio non sol- tanto le conoscenze di ordine intellettivo ma anche quelle di ordine sensitivo, in quanto neppure queste ultime sarebbero frutto del- l’esperienza bensì il risultato di un'attività « innata ».!° A fianco di Cartesio e a difesa del valore della conoscenza intel- lettiva si schierano alcuni grossi nomi della filosofia moderna, come Spinoza, Malebranche, Leibniz, Wolff: è il gruppo dei filosofi razio- nalisti. Ma allo stesso tempo si sviluppa anche una forte corrente contraria a Cartesio e alla sua interpretazione ottimistica del feno- meno conoscitivo: è la corrente degli empiristi (Locke, Berkeley, Hume) i quali o negano qualsiasi forma di conoscenza intellettiva oppure ne contestano l'utilità. Secondo gli empiristi l’unica cono- scenza che consente all'uomo di ottenere informazioni fattuali è quella dei sensi, la quale tuttavia non può mai rivendicare per sé i caratteri dell’universalità e della necessità. Pertanto la verità come sicura corrispondenza tra le nostre idee e le cose non esiste. Come si vede, siamo di nuovo ripiombati dentro lo scetticismo, anzi nello scetticismo più radicale. Tale è in effetti la conclusione cui giunge la ricerca filosofica di Hume.® Dalle posizioni assunte dagli empiristi e dai razionalisti, ma te- nendo allo stesso tempo anche conto delle posizioni di prestigio ac- quisite dalla scienza moderna, muove Kant quando affronta e pren- de nuovamente in esame il problema critico. Questo a suo giudizio non può essere risolto che in modo positivo dati i successi ottenuti dalle scienze sperimentali. Ossia si deve riconoscere la validità della conoscenza intellettiva. Ma secondo Kant si deve circoscrivere il suo ambito ad oggetti diversi da quelli che volevano assegnarle i ra- zionalisti e gli empiristi. La conoscenza intellettiva non ha di mira # AGOSTINO, De Trinitate, X, 10, 14. ' Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp. 137-139. ® Cfr. Ivi, pp. 224-243. 33 — Cartesio: dall’'evidenza del pensare all’evidenza dell’esistere — Kant: la soluzione critica Tendenze attuali circa il valore della conoscenza: scetticismo che si basa sulla scienza e sulla prassi la cosa in sé (ossia la realtà oggettiva), ma i fenomeni. Soltanto come conoscenza dei fenomeni essa attinge la verità, cioè la necessità e l'universalità. Quando mediante la ragione l’uomo vuole oltrepas- sare la sfera dei fenomeni per raggiungere quella del noumeno, egli si perde necessariamente in una selva di antinomie.* La soluzione indubbiamente geniale ma discutibile di Kant, la quale se per un verso aveva il merito di chiarire la struttura della conoscenza scientifica, per un altro verso aveva anche il demerito di precludere ogni soluzione teoretica proprio per quei problemi che maggiormente interessano e tormentano l’uomo (come la pro- pria origine, la natura del proprio essere, la sopravvivenza dopo la morte, l’esistenza di Dio, la libertà, ecc.): tale soluzione non viene ac- colta per molto tempo. Dopo qualche decennio i filosofi ricadono nuo- vamente nelle due classiche alternative: quella intellettualistica (spo- sata dagli idealisti, gli intuizionisti, i neotomisti) e quella sensistica (accolta dai positivisti, gli empiriocriticisti, i materialisti, i neopo- sitivisti). î Oggi, la tendenza generale per quanto concerne il valore della conoscenza è contraria al razionalismo ed è favorevole ad uno scetti- cismo più o meno oltranzistico. È, però, una tendenza che assume toni e sfumature diverse, di cui le espressioni più significative sono due. Una è rappresentata da coloro che ritengono che la verità si debba sempre ricercare per via conoscitiva, ma sono convinti che è necessario escludere qualsiasi forma di metafisica: per scoprire la verità bisogna affidarsi soprattutto alle tecniche delle scienze umane, la psicanalisi, la nuova ermeneutica, lo strutturalismo oppure alle scienze sperimentali. L'altra è rappresentata da coloro che cercano la verità non attraverso la speculazione bensì attraverso la prassi. Secondo un gruppo di pensatori del XIX secolo, che fanno capo a Marx e a Engels, la validità di una concezione, d'una teoria, d'un sistema non si può provare con argomenti aprioristici, ma emerge nella prassi, nell'azione. Ma a questo punto il nostro discorso è scivolato fuori da quello che era l'argomento specifico di questa sezione, il problema critico, ed è entrato in un altro argomento, quello del metodo. Eccoci quin- di, ora, a trattare la questione del metodo nei suoi sviluppi storici. 4. Il metodo Il problema del metodo, in quanto si propone di trovare una via che dia sicure garanzie di attingere la verità, coincide in larga misura col problema logico, ma non interamente, perché il problema logico prescinde dai contenuti, mentre invece il problema critico si rivolge soprattutto ai contenuti. 2 Cfr. Ivi, pp. 336-346. 34 Il problema del metodo è già avvertito dalla filosofia greca (c’è il metodo maieutico di Socrate, il metodo dell’ascensus e del descen- sus di Plotino, il metodo dialettico di Platone, il metodo induttivo e deduttivo di Aristotele) e dalla filosofia cristiana (c'è il metodo alle- gorico di Origene, quello introspettivo di Agostino, quello analogico di Tommaso d'Aquino), ma acquista importanza capitale soprattutto nella filosofia moderna. Sorpresi e abbagliati dal successo delle scienze sperimentali i filosofi si persuadono che anche la filosofia potrebbe aspirare ad analoghi risultati, qualora disponesse di un buon metodo. E perciò si preoccupano o di trasferire direttamente alla ricerca filosofica gli stessi metodi della scienza (Bacone, Galilei)? e della matematica (Cartesio, Spinoza, Leibniz) oppure cercano di escogitare nuovi metodi. I più noti sono: — il metodo del « cuore » di Pasca — il metodo della verifica « storica » (verum est factum) di Vico ® — il metodo associativo di Hume * — il metodo « trascendentale » di Kant 7 — il metodo dialettico di Hegel * — il metodo positivo di Comte ” — il metodo pragmatico di James ” — il metodo intuitivo di Bergson *! — il metodo fenomenologico di Husserl” — il metodo della verifica sperimentale dei neopositivisti * — il metodo della falsificabilità di Popper.* Oggi molti autori sono propensi ad abbandonare tutti questi me- todi di tipo teoretico e ritengono che l'unico metodo valido sia co- stituito dalla prassi. È la prassi, l’azione, la vita che rivela se una teoria, un sistema sono validi. È nell'impatto con la storia, con la realtà vissuta che emerge il valore di un'idea. A nostro avviso questo metodo della prassi ha certamente dei pregi, perché la testimonianza dei fatti contribuisce senza dubbio a decidere della bontà o meno di un'idea, una teoria, un sistema. Ex fructibus eorum conoscetis eos, diceva Gesù. Ma non pensiamo che esso possa essere assunto come criterio supremo di verità, come 1% ? Cfr. Ivi, pp. 103-110. ® Cfr. Ivi, pp. 134-137; 163-164. 2 Cfr. Ivi, pp. 203-204. * Cfr. Ivi, pp. 273-275. * Cfr. Ivi, pp. 234-236. 2" Cfr. Ivi, pp. 336-344. * Cfr. B. MonpIN, vol. III, pp. 77-78. 2 Cfr. Ivi, pp. 178-181. * Cfr. Ivi, pp. 346-348. # Cfr. Ivi, pp. 253-254. ® Cfr. Ivi, pp. 389-392. ® Cfr. Ivi, pp. 450-453. * Cfr. K.R. PoPPER, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970. 35 Metodo maieutico e metodo dialettico: Socrate e Platone Nuovi metodi di ricerca sotto l'influsso dello sviluppo della scienza Il metodo della prassi La valutazione critica di G. Reale guida infallibile delle nostre azioni. Qualsiasi azione, per non essere cieca e stolta, ha bisogno di venire guidata, illuminata, e la sua guida, ovviamente, non può essere l’azione. Su questo punto a noi pare che abbia perfettamente ragione Giovanni Reale quando scrive: « Quando sulla scia del pensiero marxistico o di estrazione marxi- stica si asserisce che la filosofia non ha da contemplare ma da can- giare la realtà [...] non si sostituisce semplicemente una visione filosofica ad un'altra, ma si uccide la filosofia: il cangiare la realtà può infatti essere solo un momento conseguente al vero ricercato e trovato, e più che filosofare è, al massimo, corollario del filosofare. Il cangiare può essere solo impegno etico, politico, educativo e non può mai essere, dal punto di vista filosofico, momento primario, per- ché presuppone strutturalmente che si sappia e si accerti preliminar- mente perché, come e in che senso e misura cangiare; dunque sup- pone sempre a monte il momento teoretico (cioè propriamente filo- sofico) come condizionante. Né vale obiettare, come coloro che, quasi sentendosi in colpa di fronte all’obiezione prassistica, asseriscono che, sì, cangiare la realtà non è filosofare, ma che, tuttavia, l'uomo di oggi deve filosofare per cangiare qualcosa. Anche questa posizione è decettiva: infatti, chi filosofa con questo spirito perde la libertà, e l'ansia del cangiare fatalmente condiziona e turba il momento del contemplare; lo turba al punto che, rovesciati i termini, e aggiogatisi al carro della prassi, la speculazione pura diventa ideologia e quindi cessa di essere filosofia »,5 CONCETTI DA RITENERE — Conoscenza sensitiva; conoscenza intellettuale — Relazione soggetto-oggetto — Scetticismo; metodo SINTESI CONTENUTISTICA I. LE FORME DELLA CONOSCENZA UMANA 1. La conoscenza umana, complessamente articolata, consta di una forma sensitiva (vista, udito, gusto, odorato, tatto); della memoria che custodisce il passato; della fantasia che rappresenta le cose in modo originale rispetto al- l'esperienza. Sull’evidenza di questa conoscenza la filosofia non ha nulla da discutere. Problematiche sono invece le conoscenze astratte che suscitano in- terrogativi circa il loro genere e la sfera di appartenenza. 2. Il problema gnoseologico è stato dibattuto in modo contrastante. Dalle origini del pensiero occidentale ad oggi si è verificata la seguente alternanza di orientamenti: a) compresenza della conoscenza sensitiva e di quella razionale (Parme- nide, pitagorici, platonici, aristotelici); * G. REALE, I problemi del pensiero antico dalle origini a Platone, Celuc, Milano 1972, pp. 52-53. 36 b) primato della conoscenza sensitiva su quella razionale (i sofisti, gli em- piristi, i positivisti, i neopositivisti); c) primato della conoscenza razionale su quella sensitiva (i razionalisti e gli idealisti). 3. Nell’età moderna il problema gnoseologico va acquisendo un graduale primato, decisamente affermato soprattutto da Cartesio; nel nostro tempo re- sta un problema aperto. II. ORIGINE DELLA CONOSCENZA 1. Le idee sono riproduzioni di oggetti esterni a noi o sono creazioni della nostra mente, oppure esse sono il risultato dell’azione combinata del soggetto e dell’oggetto? 2. Si sono delineate per i tre interrogativi sei piste di soluzione: a) tutta la conoscenza è prodotta dall'oggetto (Platone); b) tutta la conoscenza è pro- dotta dal soggetto (Hegel); c) la conoscenza intellettiva è prodotta dal soggetto e quella sensitiva dall'oggetto {(Occam); d) la conoscenza intellettiva è prodotta dall'oggetto e quella sensitiva dal soggetto (Berkeley); e) la conoscenza intel- lettiva è risultato dell'azione combinata del soggetto e dell'oggetto; f) la cono- scenza sensitiva è dovuta all’azione dell'oggetto {Aristotele). III. VALORE DELLA CONOSCENZA 1. Il valore della conoscenza diventa un problema DS momento in cui fac- ciamo esperienza dell’errore. 2. Storicamente il problema del valore è stato tra i primi ad essere affron- tato: Parmenide: la conoscenza intellettiva attinge alla verità, la conoscenza sensitiva genera opinioni; Sofisti: la conoscenza non ha mai valore assoluto; Socrate e Platone: le conoscenze intellettuali hanno valore assoluto, le cono- scenze sensitive sono soggette ad errore; Aristotele: l'intelletto umano attinge la verità afferrando per astrazione l'essenza delle cose; Agostino: inoppugna- bile verità dell’esistenza; San Tommaso: afferma il valore della conoscenza intellettiva; Prospettiva scettica della filosofia del ’500; Cartesio: dal dubbio metodico al valore assoluto della conoscenza intellettiva; Empiristi: primato della conoscenza sensibile e negazione della verità; Kant: mediazione tra cono- scenza sensibile e conoscenza intellettiva; Tendenza scettica della cultura con- temporanea. IV. IL METODO 1. Già avvertito nel pensiero classico (Socrate, Platone e Aristotele), il pro- blema emerge nell'età moderna con particolare riferimento al sapere scientifico (Bacone e Galilei) e al sapere matematico (Cartesio, Spinoza e Leibniz). 2. Dal metodo del « cuore » di Pascal al metodo della falsificabilità di Pop- per il pensiero moderno e contemporaneo si è impegnato in una costante ri- cerca. Oggi, abbandonata la strada teorica, si attribuisce validità di metodo alla prassi (la storia e la realtà vissuta convalidano un'idea). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Qual è l'origine della conoscenza umana e quali le sue forme fonda- mentali? 2. Quale valore ha la conoscenza umana? 3. Come si arriva al raggiungimento della verità per la nostra conoscenza? 4. In che cosa consiste il problema gnoseologico? Quali sono i suoi aspetti princi pali? 5. Qual è il pensiero dei platonici, degli aristotelici, dei razionalisti, degli empiristi, degli idealisti sulla divisione, l'origine e il valore della conoscenza? 37 6. Come sorge il problema critico? Quale impostazione assume in Socrate, Agostino, Cartesio, Kant e Husserl? 7. Che cos'è il metodo? Quali sono i metodi proposti da Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Vico, Leibniz, Hume, Kant, Hegel, Husserl, Wittgenstein, Mara? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI BLANDINO G., I! problema della conoscenza, Abete, Roma 1972. FagRO C., Percezione e pensiero, Morcelliana, Brescia 1961. HEEGGER M., Sull’essenza della verità, La Scuola, Brescia 1977, MARCUSE H., L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967. MARITAIN J., / gradi del sapere, Morcelliana, Brescia 1981. Miano V., Problemi di gnoseologia e metafisica, L.A.S., Roma 1966. PENATI G.C., Problemi di gnoseologia e metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1979. Poppi A., La verità, La Scuola, Brescia 1984. RINALDI G., Critica della gnoseologia fenomenologica, Giannini, Napoli 1979. RIVETTI BarBò F., Dubbi, discorsi, verità. Lineamenti di filosofia della cono- scenza, Jaca Book, Milano 1985. SAMEK Lopovici E., Metamorfosi della gnosi, Ares, Milano 1979. SANGUINETI J.J., Logica e gnoseologia, Ed. Urbaniana, Roma 1984. VANNI RovIGHI S., Gnoseologia, Morcelliana, Brescia 1979. 38 Capitolo terzo li PROBLEMA EPISTEMOLOGICO {o problema della scienza) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO I. Che cosa si intende per scienza oggi? E che cosa si intendeva nel passato? 2. Quale valore è da attribuire al sapere scientifico? $. Evoluzione del concetto di scienza nei corso dei seceli Da quando Comte negò alia filosofia una propria sfera di oggetti e le affidò come compito specifico lo studio delle scienze, ia determi- nazione dei loro oggetti e dei loro compiti, la loro divisione e coor- dinazione, l’attenzione dei filosofi si è rivolta sempre più insistente- mente in direzione della scienza, la quale è divenuta per molti l’ar- gomenta principale e centrale della loro analisi. Del resto, un'inda- gine più attenia e approfondita delle caratteristiche e delle funzioni del sapere scientifico era richiesta, oltre che dall’orientamento posi- tivistico delia filosofia, anche dagli enormi sviluppi e dall'importanza straordinaria che la scienza aveva acquisito durante gli ultimi due secoli, un periodo in cui essa ha mostrato di essere un sapere estre- mamente fecondo e pratico. Da tali istanze ha preso il via quelia speciale disciplina che si chiama filosofia della scienza o episiemologia. Questa si identifica « con la critica metodologica della scienza, nelia misura in cui tale critica tende all’'esplicitazione consapevole e sistematica del metodo e delle condizioni di validità dei giudizi — particolari, o singolari, e universali — fatti propri dagli scienziati e persegue così una “rico- struzione razionale”, convenzionalmente qualificata in senso empiri- co-pragmatico, del concetto di conoscenza scientifica ». Gli interrogativi a cui l'epistemologia si propone di rispondere sono i seguenti: « Cos'è la conoscenza scientifica? In altre parole, in che cosa cohsiste propriamente il lavoro dello scienziato? Cosa fa egli quando fa scienza? Interpreta, descrive, spiega, prevede? Le sue sono soltanto congetture oppure asserzioni (generali e singolari) rispecchianti fedelmente tratti (generali e singolari) dei fatti? E quan- do lo scienziato spiega, cos'è che egli spiega dei “fatti”? La fun- FO A. PASQUINELLI, Nuovi principi di epistemologia, Feltrinelli, Milano 946, p. 56. 39 La riflessione sulla scienza: caratieristiche s funzioni L'epistemotpgia: critica metodologica della scienza Gli interrogativi fondamentali — induzione — causalità — oggettività Presa di coscienza della problematicità del sapere scientifico Trasformazioni nel tempo del concetto di scienza: — divisione aristotelica: matematica, fisica, metafisica — età moderna: l’aspetto denotativo ristretto ai fenomeni sperimentabili e calcolabili zione, l'origine, la genesi, l'essenza, il fine? Qual è lo status logico delle leggi nella scienza? Sono essi l'esito di procedimenti induttivi (e poi che cosa vuol dire induzione nella scienza?), ovvero congetture della fantasia scientifica che dovranno venir sottoposte ad una terribi- le lotta (prove empiriche) per l’esistenza? Inoltre, in che senso si par- la di causalità (e di cause) nelle scienze empiriche? Quand'è, poi, che possiamo dire che una teoria è “migliore” di un’altra? E che cos'è che intendiamo allorché diciamo che le scienze empiriche sono og- gettive? Qual è il ruolo dell'esperienza nella ricerca scientifica? Sono questi tutti interrogativi che sgorgano dalla domanda iniziale su che cosa sia la conoscenza scientifica »? Questi interrogativi hanno cominciato ad imporsi all'attenzione dei filosofi verso la fine dell'Ottocento con Boutroux, Poincaré, Duhem, Mach, ecc., allorché all’atteggiamento di ottimistica fiducia e cieca esaltazione della scienza, è subentrato un atteggiamento di pacato scetticismo e di critica penetrante nei confronti della cono- scenza scientifica. Si deve appunto alla presa di coscienza della pro- blematicità di tale conoscenza (coscienza che era ancora assente in Cartesio, Newton, Kant, Comte, Spencer, ecc.) la nascita e lo sviluppo della filosofia della scienza o epistemologia. Il concetto di scienza ha subìto profonde trasformazioni lungo il corso dei secoli sia per quanto attiene all'aspetto connotativo (il significato del termine) sia a quello denotativo (il campo di applica- bilità). Aristotele, per primo, definì la scienza come cognitio rei per causas: conoscenza di una cosa attraverso i suoi principi (cause) costitutivi, o, più brevemente, « conoscenza ragionata, argomentata, delle cose ». Aristotele divideva le scienze in tre grandi rami: mate- matiche (scienze dei numeri), fisiche (scienze delle cose materiali) e metafisiche (scienze delle realtà indipendenti dallo spazio e dal tempo). Durante l'epoca moderna, a partire da Bacone, c'è stato un cam- biamento per quanto concerne l'aspetto denotativo: perché l'ambito di applicazione del termine « scienza » un po’ alla volta è stato ri- stretto allo studio di fenomeni sperimentabili fisicamente e calcola- bili matematicamente; ma allo stesso tempo interveniva anche un cambiamento concernente l'aspetto connotativo, dato il nuovo si- gnificato che andava assumendo nel pensiero moderno il concetto di causa. Per « causa » Aristotele ed in generale tutti i pensatori dell'an- tichità e del Medioevo intendevano l'essenza, la natura delle realtà (sia materiali che spirituali) e credevano che per spiegare ‘un fatto, un fenomeno, bastasse conoscere l'essenza della cosa che lo pro- duce. Così, per es., per spiegare il fenomeno dell'ebollizione del- l'acqua quando viene messa sul fuoco, pensavano che fosse necessario ? D. ANTISERI, La filosofia del linguaggio, Morcelliana, Brescia 1973, p. 95. 40 e sufficiente conoscere la natura dell’acqua e del fuoco. Da tale con- cetto di scienza e di causa derivava quell'interessamento per le es- senze delle cose tanto caratteristico del pensiero antico. Nel pensiero moderno si registra un cambiamento radicale. Da Bacone (1561-1626) in poi l'oggetto della scienza non è più l'essenza delle cose che si nasconde dietro i fenomeni, bensì i rapporti co- stanti, le leggi che legano i fenomeni fra di loro. Anche secondo la concezione moderna la scienza studia la causa dei fenomeni ma, per causa, non si intende più l’essenza e l'elemento qualitativo delle cose, ma solo gli aspetti quantitativi e la relazione costante che lega i feno- meni fra di loro, cioè la legge. La legge indica puramente una relazio- ne di fatto fra due termini. Anziché un rapporto causale propriamente detto la legge esprime una certa regolarità fenomenica. Per esempio, che ad una certa variazione di temperatura coincide nel metallo una certa variazione di dilatazione. Questo però non dice nulla riguardo alla natura ontologica del calore e del metallo o della causalità del mondo materiale. Il problema che si pone lo scienziato non è più quello del perché e dell'essenza delle cose, ma quello del come e del comportamento delle medesime. Nasce così il concetto moderno di legge naturale che viene a prendere il posto della natura, essenza, o forma aristotelica. La legge non è la definizione dell'essenza della co- sa, bensì la formulazione del rapporto costante tra due grandezze va- riabili, non è dunque che la descrizione del comportamento di un fe- nomeno, espressa in forma matematica. Questo cambiamento nella concezione dell'oggetto della scienza è avvenuto, come già detto, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. In tempi assai più recenti si è effettuato un cambiamento non meno sensazionale riguardo alla concezione dei rapporti tra scienza e realtà. Fino alla fine del secolo scorso si è sempre concepita la scienza come una fedele riproduzione della realtà. Scienziati e filo- sofi hanno universalmente ritenuto che la scienza riveli all'uomo la struttura effettiva delle cose e gli manifesti esattamente la realtà. Secondo tale concezione dei rapporti tra scienza e realtà, per esem- pio, le « definizioni » di Euclide non indicano semplici costruzioni mentali nostre, in certo modo convenzionali e che potrebbero perciò essere diversamente formulate, ma designano essenze reali concepite di per sé esistenti. Allo stesso modo è concepita la sostanza e lo spazio. Molti antichi credono non solamente in questa fedele corri- spondenza tra scienza e realtà ma arrivano persino ad identificare il razionale con il reale. Così, per esempio, poiché cerchio e sfera, per l'equidistanza di tutti i punti dal centro e quindi la simmetria ed ar- monia che presentano, sono figure « perfette », Aristotele e gli astro- nomi antichi deducono che gli astri, che sono gli esseri materiali più « perfetti », devono avere forma sferica e muoversi secondo orbite circolari. La scienza moderna invece, fondandosi sull’osservazione di fatto, ha dimostrato che la terra è schiacciata ai poli e che le orbite dei pianeti sono ellittiche. La concezione classica di esatta 41 Oggi si studia Il comportamento delle cose Daila scienza come riproduzione della realtà si passa alla scienza come sistemazione dei dati dell'esperienza Dogi si ritiene che i cencetti filosofici fon corrispondono esattamente alla realtà corrispondenza tra scienza e realtà è durata per molto tempo anche nell'età moderna e non raramente si è spinta la corrispondenza tra lo scientifico e il reale fino a tal punto da identificare lo scientifico col reale, sicché è reale solo quello che è scientifico. È famoso il caso delle proprietà primarie (figura, estensione e numero) e secon- darie (colore, odore, sapore, ecc.). Secondo Galilei, Cartesio e mol- tissimi altri scienziati e filosofi moderni, poiché la considerazione scientifica si limita alle qualità primarie, queste sono ritenute ogget- tive e perciò reali, mentre le qualità secondarie sono considerate sog- gettive e quindi irreali. Estensione, moto e numeri, cioè i concetti che hanno preso il luogo prima occupato dalle forme e essenze arista- teliche non sono concepiti da Galilei e Newton meno realisticamen- te di quanto non lo siano state ie forme e sono considerati l'essenza costitutiva della realtà naturale. Col crollo di molti punti cardinali della scienza moderna, co- struita da Newton e ritenuta per un paio di secoli infallibile come i dogmi rivelati, la concezione classica di esatta corrispondenza tra scienza e realtà cominciò a vacillare. Oggi la maggioranza degli scienziati ritiene che i concetti scientifici non corrispondano esatta- mente alla realtà. Essi non concepiscono la scienza come una ripro- duzione fedele della realtà ma come una semplice sistemazione dei dati dell'esperienza. La scienza, quindi, non è valida in quanto rivela all'uomo la struttura effettiva dei fenomeni ma in quanto permette all'eomo di orientarsi nella congerie dei fatti che gli presenta l’espe- rienza, di prevederne la successione futura e di poter quindi meglio attendere all'organizzazione della propria vita. Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), paleontologo e teologo, ha scritto a questo proposito: « Se prendiamo nel suo insieme l’edificio di onde e di particelle costruito dalla nostra scienza, risulta chiaro che questa bella architettura contiene di “noi-stessi” almeno quanto contiene delle “cose”. Giunte ad un certo grado di ampiezza e di sottigliezza, le costruzioni della fisica moderna lasciano intravedere distintamente la trama intellettuale dello spirito del ricercatore sotto la marea dei fenomeni. Di qui il dubbio che fotoni, protoni, elettroni e altri elementi della materia non abbiano né maggiore (né minore) realtà fuori della nostra mente di quanto ne abbiano i colori fuori dei nostri occhi. Di conseguenza il vecchio realismo dei laboratori si incammina verso una specie di idealismo scien- tifico ».3 Sullo stesso argomento il matematico Jules-Henri Poincaré (1854- 1912) si è espresso nel modo seguente: « Le teorie matematiche (dei fenomeni fisici) non hanno lo scopo di rivelarci la vera natura delle cose; questa sarebbe una pretesa irragionevole. Il loro unico scopo è di coordinare le leggi fisiche che l'esperienza ci fa conoscere, ma che senza il concorso delle matematiche non potremmo neppure e- ? P. TEILHARD DE CHARDIN, L'énergie humaine, Parigi 1962, p. 144. 42 nunciare. Interessa poco che l'etere esista effettivamente, questo è un problema che interessa i metafisici: l'essenziale per noi è che tutto si svolga come se di fatto esistesse ».* Le parole di Poincaré sono assai autorevoli, perché è stato lui a provare che lo spazio di cui tratta la geometria euclidea non è né la riproduzione esatta della realtà, come aveva creduto la scienza classica, né una forma a priori come aveva sostenuto Kant, ma è una costruzione mentale escogitata dall'uomo per riordinare i dati dell'esperienza ed eliminare da essi il carattere complesso e contrad- dittorio con cui si presentano. Anche il concetto di numero ha mutato significato per lo scienziato moderno. Mentre per gli antichi il nu- mero era un elemento essenziale della realtà materiale e per alcuni l'essenza stessa delle cose, per gli scienziati del nostro tempo i nu- meri sono un simbolismo, come le parole, introdotto dall'uomo per esprimere e riassumere certi caratteri dei fenomeni, come la esten- sione, la molteplicità, la direzione, ecc. I principali argomenti che si adducono a favore della nuova con- cezione della scienza e del significato delle teorie scientifiche sono tre. Il primo e più importante è quello che si fonda sulla verità che tutte le nostre idee hanno solo una corrispondenza parziale con le cose. La realtà individuale è troppo complessa e la mente umana per comprenderla deve sempre sottoporla a riduzioni, semplificazioni, schematizzazioni che rappresentano le cose solo in modo imperfetto e inadeguato. Per questo motivo gli scolastici affermavano che tra conoscenze umane e cose non vi è relazione di univocità ma di ana- logia. E tutti sanno che l'analogia comporta una piccola somiglianza là dove c'è grande differenza. Un altro importante argomento 2 fa- vore della nuova interpretazione è il fatto che il soggetto conoscerite è sempre coinvolto nell'evento che sta osservando, e, per certi espe- rimenti, l'osservazione si risolve sempre in una modificazione de! fe- nomeno. È questo il significato dei famoso principio di indetermina- zione formulato dal fisico Werner Heisenberg, che afferma l’impos- sibilità di determinare assieme la posizione e la velocità di un elet- trone, perché la determinazione delia posizione richiede che l’eiet- trons sia illuminato, il che ne altera inevitabilmente la velocità. Analoga conclusione si ricava dal famoso teorema di Gòdel,' il quale dice che « di qualsiasi sistema logico è indimostrabile la non-con- traddittorietà con i mezzi offerti dal sistema stesso ». Il terzo arga- mento è la constatazione che tante teorie scientifiche ritenute incroi. labili in un non lontano passato, recentemente sono risuitate se non proprio errate quanto meno insufficienti: inapplicabili ai nuovi fe- nomeni che sono venuti alla luce con l'ampliarsi dell'orizzonte delia scienza. ‘ H. PoINCARÉ, La science et l'hypothèse, Parigi 1902, p. 245. 5 Kurt Géodel (1906-1978) matematico statunitense di origine morava, che, doro l'avvento del nazismo, andò negli USA ad insegnare nell'università di rinceton. 43 Dal carattere essenziale 21 carattere simbolico del numero Tre argomenti a favore delia concezione moderna della scienza: — if concetto di analogia — ii principio di indeterminazione —- il priterie d! falsificeditità Nozione non univoca di scienza La matematica e la geometria come rappresentazioni formali Probabilismo e relativismo del sapere scientifico Stando così le cose, si può ritenere filosoficamente valida la con- cezione moderna della scienza e la nuova interpretazione della rela- zione tra scienza e realtà, in termini di analogia (cioè di parziale cor- rispondenza tra teorie scientifiche e mondo reale), perché si tratta semplicemente di un'applicazione in un campo particolare (quello scientifico) dell'unica interpretazione corretta del rapporto tra cono- scenza umana in generale e le cose materiali. La nuova interpreta- zione sottrae definitivamente le scienze sperimentali al pericolo al quale si sono trovate sistematicamente esposte in passato: il pericolo di identificare il razionale col reale, lo scientifico col fisico, il quan- titativo col qualitativo. Oltre che alla interpretazione dei rapporti tra scienza e realtà, se- condo alcuni epistemologi (Maritain, Agazzi, Tonini, ecc.) il concetto di analogia si addice perfettamente anche alla definizione della no- zione di scienza. Questa non è una nozione univoca (che si applica cioè esattamente allo stesso modo a tutte le scienze), bensì analoga. In effetti il rigore e l'oggettività, che sono gli elementi specifici del sapere scientifico, non si applicano allo stesso modo alle varie scienze, ma variano da scienza a scienza: altro è il rigore e l’oggettività che si richiede nella fisica, nella chimica, nell’anatomia, ecc. e altro il ri- gore e l’oggettività che si esige in psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc.9 2. Classificazione delle scienze e natura del sapere scien- tifico secondo gli epistemologi contemporanei I primi risultati significativi di questa nuova disciplina riguar- dano la matematica e la geometria, le quali non sono più concepite come scienze reali, come rappresentazioni di situazioni obiettive, bensì come costruzioni formali: come sistemi fondati su postulati scelti arbitrariamente e costruiti con la tecnica della deduzione lo- gica delle conseguenze che tali postulati comportano. Così, per opera di Hilbert, Poincaré, Peano, Riemann, Frege, Russell e di altri stu- diosi, la matematica e la geometria prendono coscienza della loro specificità come scienze del possibile, distinte dalla fisica che è invece scienza del reale. Per quanto concerne la fisica e le scienze sperimentali in ge- nerale si passa dalla visione statica e meccanicistica ad una visione dinamica, probabilistica e relativistica delle leggi della natura. Que- sto cambiamento fu motivato dalle scoperte della entropia, della radioattività, della relatività, dei quanta, ecc... In conseguenza di tali scoperte i concetti di uno spazio e di un tempo assoluti come pure quelli di simultaneità persero ogni valore. L'idea dello spazio curvo ‘ Cfr. E. AGAZZI, « Analogicità del concetto di scienza », in Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979, pp. 57-76. 44 prende il posto dell'idea euclidiana dello spazio rettilineo; l’idea di rapporti necessari di causalità è sostituita dall'idea di indetermi- nazione. Nelle scienze della natura, all'inizio del Novecento, acquista ri- lievo una serie di questioni filosofiche relative al carattere e alla fun- zione della conoscenza sperimentale. Le scienze naturali non figu- rano più nel campo del sapere come conoscenza assoluta e onnipo- tente, ma come una forma singolare di conoscenza, con caratteri- stiche e limiti propri. Il suo campo è la quantità. In tal modo la fisica guadagna un profilo matematico, relegando in secondo piano le intenzioni ontologiche e gli elementi sensibili. Di qui la tendenza di ridurre la conoscenza sperimentale a puri dati metrici e allo sche- ma relazionale di tali dati. Questo sforzo di quantificazione e mate- maticizzazione della fisica accentua i tratti che la distinguono sia dalla conoscenza ordinaria che da quella filosofica. ‘Per quanto concerne la filosofia della scienza propriamente detta, essa ha avuto uno sviluppo considerevole nel nostro secolo, dando origine a tre movimenti principali: il neo-positivismo, l’interpreta- zione metafisica e il razionalismo scientifico. I sostenitori più qualificati del neopositivisnio sono Schlick, Wittgenstein, Carnap, Ayer e Russell. I neopositivisti dividono le scienze in due grandi gruppi: a) quelle logico-matematiche e b) quelle sperimentali. Le prime sono costituite da proposizioni analitiche ossia tautologiche, mentre le seconde sono composte di proposizioni fattuali. Le proposizioni lo- giche e matematiche, prive di contenuto, non sono altro che regole per l'utilizzazione dei simboli e per l'ordinazione delle proposi- zioni. 'Le proposizioni sperimentali o fattuali sono quelle il cui conterfuto è verificabile empiricamente. In contrasto radicale col neopositivismo si colloca la concezione metafisica della scienza. Questa afferma che la scienza implica una metafisica e soltanto in questa trova il suo ultimo fondamento. Se- condo tale concezione l’opera della scienza si presenta o come la scoperta progressiva della realtà oppure come l’automanifestazione dello spirito umano attraverso la ricerca scientifica. Nel primo caso si tratta di una concezione metafisica realistica; nel secondo caso di una concezione metafisica idealistica. Uno dei più autorevoli esponenti del realismo metafisico è il francese Emile Meyerson (1859-1933). Questi afferma che la scienza « non è positiva e non contiene neppure dati positivi, nel senso pre- ciso che è stato dato a questo termine da A. Comte e dai suoi se- guaci, ossia di dati sprovvisti di qualsiasi ontologia. L'ontologia fa corpo con la scienza stessa e non può esserne separata ».” È il reali- smo del senso comune, secondo Meyerson, che si prolunga nella scienza senza soluzione di continuità. La scienza, avanzando nella ? E. MEyERson, /dentité et réalité, Parigi 1926, pp. 438-439. 45 La filosofia della scienza oggi: — il neopositivismo: scienze logico- matematiche e scienze sperimentali — la concezione metafisica: la scienza come automanifestazione dello spirito — il ‘“selettivismo soggettivo”’ di Eddington: attività spontanea

dell'intelletto — il razionalismo scientifico: la scienza come opera della ragione Esperienza e ragione: il ruolo direttivo dell’eilemenio teorics direzione del senso comune, crea delle essenze il cui carattere reale non solamente non viene eliminato ma si intensifica. L'interpretazione metafisica idealistica della scienza ha avuto invece un valido sostenitore nell’inglese Arthur S. Eddington (1882- 1944). L'idea centrale di questo pensatore è la « selezione », che egli stesso designa come « selettivismo soggettivo ». Nella sua epi- stemologia l'idea di selezione occupa il posto che nell’epistemologia realista detiene l’idea di astrazione. La selezione corrisponde ad una attività del nostro intelletto, sorta spontaneamente e di cui lo scien- ziato inglese si compiace di accentuare la soggettività. In tal modo, al concetto di scoperta egli contrappone quello di creazione, intesa in senso idealistico, come apprensione del proprio lavoro intellettivo nell'universo. Fra le leggi fisiche, Eddington distingue quelle che egli chiama « leggi epistemologiche ». La loro caratteristica peculiare è di essere deducibili mediante il solo studio dei nostri metodi di osservazione. Queste leggi necessarie, universali ed esatte costituiscono l'elemento a priori della fisica e delle altre scienze sperimentali. Secondo un altro gruppo abbastanza nutrito di autori la scienza è opera della ragione umana, una specie di macchina creata da essa, di cui si tratta di riscoprire le strutture e le leggi interne. Mentre l'interesse dell’interpretazione metafisica si rivolgeva alla infrastrut- tura ontologica della scienza e quello del neo-positivismo ai suoi contenuti in quanto tali, appresi nel loro grado massimo di cristalliz- zazione oggettiva, lo sforzo del razionalismo scientifico, per contro, è teso a chiarire il senso dell'opus rationale che costituisce la scienza. Principale esponente di questa interpretazione è il francese Gaston Bachelard (1884-1962). Secondo questo studioso la filosofia della scienza dei nostri giorni non può accogliere né la soluzione rea- listica né quella idealistica, ma deve collocarsi in una via di mezzo ira realismo e idealismo, in cui vengono entrambi ripresi e superati: « un realismo che si è incontrato col dubbio scientifico non può più essere della stessa specie del realismo immediato [...] un razionali- smo che ha corretto i giudizi a priori, come è avvenuto nelle nuove ramificazioni della geometria, non può più essere un razionalismo chiuso ».3 Nella sua gnoseologia, Bachelard pone la coppia esperienza- ragione alla base di tutta la conoscenza umana. Non si tratta tuttavia di un condominio di potenze eguali, perché l'elemento teorico si ma- nifesta con maggior forza. In effetti è l'elemento teorico che svolge il ruolo direttivo: « Il senso del settore epistemologico ci appare assai netto. Esso va certamente dal razionale al reale e non, nell’or- dine inverso, dalla realtà al generale come professarono tutti i filo- sofi da Aristotele a Bacone »/ ; Sd RSCHELARD, Le nouvel esprit scientifique, 5° ed., Parigi 1949, pp. 2-3. Vi, p. 9. 46 Il procedimento scientifico si configura, pertanto, come « rea- lizzante », in quanto realizzazione del razionale e del matematico. È così che un certo matematicismo si impadronisce del pensiero di Bachelard, fino alla dissoluzione della realtà nella matematica, e il reale non si presenta più al limite che come un caso particolare del possibile. In questo senso la posizione filosofica di Bachelard si po- trebbe definire come un « razionalismo applicato », in cui primeggia la direttrice che va dalla ragione all'esperienza e che corrisponde alla supremazia della fisica- matematica. Mentre l’empirismo, secondo Bachelard, è la filosofia della conoscenza volgare, il razionalismo ri- sponde alle istanze della conoscenza scientifica. Anche Bachelard, come Gadamer e l'ultimo Popper, ritiene che l'osservazione scien- tifica si realizza sempre movendo da una teoria precedente e prepara- trice e non viceversa. Una posizione analoga a quella del Bachelard è quella difesa da Karl Popper. Anch'egli respinge decisamente l'empirismo in nome di una certa forma di razionalismo. « L'epistemologia empiri- stica tradizionale e la storiografia tradizionale della scienza — scrive K. Popper — sono ambedue profondamente influenzate dal mito baconiano secondo cui l’intera scienza parte dall'osservazione per poi lentamente e con cautela procedere verso le teorie ».!° Ma le cose non stanno così. Il primum {logico e genetico) nella costru- zione della scienza sono i problemi e con essi le ipotesi, le conget- ture e non le osservazioni. Noi osserviamo sempre da un punto di vista, sempre sotto lo stimolo di un problema. Tutte le nostre cono- scenze sono risposte a precedenti problemi. Noi acquistiamo le co- noscenze che si prestano a risolvere i nostri interrogativi, i nostri problemi. Pertanto le teorie scientifiche non sono cumuli di osser- vazioni, ma sistemi di azzardate e temerarie congetture. La scienza è anzitutto invenzione di ipotesi; l’esperienza svolge il ruolo di con- trollo delle teorie. Il controllo delle teorie, la convalida delle proposizioni scienti- fiche, secondo Popper, non si ottiene come vogliono i neopositivisti, direttamente, facendo ricorso alla verifica sperimentale, bensì indi- rettamente mediante il processo della fa/sificabilità. Questo criterio stabilisce che una teoria può considerarsi scientifica soltanto se sod- disfa a due condizioni: a) essere falsificabile, ossia poter venir smen- tita e contraddetta in linea di principio; b) non essere ancora stata trovata falsa di fatto. Secondo Popper « una teoria che non può venir confutata da nessun evento concepibile non è scientifica. L'in- confutabilità di una teoria non è (come spesso si ritiene) una virtù, bensì un vizio... Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità o confutabilità o controllabilità ».! Non la verifi- cabilità è il criterio di demarcazione tra teorie empiriche e teorie non !° K. PopPER, Conjectures and Refusations, 2* ed., Londra 1965, p. 137 {ora tradotta in Italia dall”Ed. Il Mulino, Bologna 1974). # K, PopPPER, Scienza e filosofia, Einaudi, Torino 1969, p. 130 s. 47 Il ‘‘razionalismo applicato”: — dalla ragione all'esperienza — primato della fisica-matematica Popper: problemi- ipotesi e congetture sono il “primum” logico e genetico Dal criterio di verificabilità al processo di falsificabilità empiriche (per es., le metafisiche, le teologie della storia, le utopie, ecc.), ma la loro falsificabilità. In effetti, una legge scientifica non potrà mai essere completamente verificata, mentre invece può essere totalmente falsificata. 3. Conclusione La nostra breve rassegna delle posizioni degli epistemologi con- temporanei ha messo in luce come, anche in questo nuovo settore della filosofia, la ragione umana non sia riuscita a raggiungere una soluzione soddisfacente, su cui ci si possa trovare tutti d'accordo. Anche nella filosofia della scienza si sono rinnovate le classiche al- ternative: idealismo o realismo? razionalismo o positivismo? Nonostante la persistente problematicità, il compito della filosofia è quello di non arrestare mai il suo cammino di ricerca, ma di conti- nuare ad esprimere la profonda esigenza dell'uomo di trovare una spiegazione radicale ed esauriente ai suoi interrogativi. CONCETTI DA RITENERE — Epistemologia — Aspetto connotativo; aspetto denotativo — Nozione di analogia; principio di indeterminazione; criterio di falsifi- cabilità — Neopositivismo; interpretazione metafisica; razionalismo scientifico SINTESI CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA DELLA FILOSOFIA DELLA SCIENZA 1. Nel pensiero contemporaneo, sulla scorta del positivismo di Comte, na- sce la filosofia della scienza, che si interroga su: che cos'è la conoscenza scien- tifica? Qual è l’attività propria dello scienziato? Di che natura sono le sue affer- mazioni? Che cosa egli spiega? Qual è lo status logico delle leggi della scienza? 2. Nel tempo il problema della scienza si è trasformato sia nell'aspetto connotativo (significato del termine) sia nel campo denotativo (campo di ap- plicabilità). 3. Nel pensiero classico la scienza aveva per oggetto l'essenza delle cose (Aristotele). Nel pensiero moderno l’oggetto divengono i rapporti costanti, le leggi che legano i fenomeni tra loro (da Bacone a Newton). Nel pensiero con- temporaneo si è ormai pervenuti alla convinzione che la scienza è una costru- zione mentale dell'uomo per ordinare e semplificare i dati dell'esperienza (Teil. hard de Chardin, Poincaré, ecc.). 4. Ne consegue un ridimensionamento del valore del sapere scientifico a cui si attribuisce la nozione scolastica di analogia, il principio di indetermina- zione di Heisenberg e il criterio di falsicabilità. II. CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE E NATURA DEL SAPERE SCIENTIFICO SECONDO GLI EPISTEMOLOGI CONTEMPORANEI 1. Nel pensiero contemporaneo si passa dalla visione statica della scienza alla visione dinamica, probabilistica e relativistica. 48 2. All’inizio del ’900 le scienze naturali si pongono come una forma singo- lare di conoscenza con caratteristiche e limiti propri. 3. La filosofia della scienza nel nostro tempo si orienta in tre direzioni: neopositivismo, interpretazione metafisica, razionalismo scientifico: a) neopositivismo — distingue le scienze in logico-matematiche (costituite da proposizioni analitiche o tautologiche) e in sperimentali (il cui contenuto è verificabile empiricamente); b) interpretazione metafisica — si configura in due orientamenti: 1) meta- fisica realistica: la scienza, che ha il suo fondamento nella metafisica, è consi- derata come scoperta progressiva della realtà (E. Meyerson); 2) metafisica idealistica: la ricerca scientifica è automanifestazione dello spirito {A.S. Ed- dington); c) razionalismo scientifico — preoccupato di chiarire il senso dell’« opus rationale » che costituisce la scienza {G. Bachelard e Popper). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è l’epistenwologia e a quali interrogativi risponde? 2. Oggi in che cosa si differenzia l'epistemologia dalla gnoseologia? 3. L’epistemologia a quali movimenti ha dato origine? . 4. Nella cultura del nostro tempo quale rapporto intercorre tra scienza e religione? 5. In che misura il secolo XX ha promosso un progetto uomo finalizzato alla scienza? 6. Quale rapporto intercorre oggi tra scienza e potere politico? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979. AA.Vv., Scienza e filosofia, Massimo, Milano 1980. AcassI J., Epistemologia, metafisica e storia della scienza, Armando, Ro- ma 1978. 'ANTISERI D., Epistemologia e didattica, L.A.S., Roma 1976. BALDINI M., Epistemologia e storia della scienza, Città di Vita, Firenze 1974. BRAITHWAITE R.B., La spiegazione scientifica, Feltrinelli, Milano 1966. FILIASI CARCANO P., Epistemologia delle scienze umane e rinnovamento filo- sofico, Bulzoni, Roma 1977. GEIMONAT L., /l pensiero scientifico, Garzanti, Milano 1954. HEMPEL C.G., Filosofia delle scienze naturali, Il Mulino, Bologna 1968. 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Caratteri del linguaggio Il linguaggio è una proprietà primaria, fondamentale dell’uomo, ed è inoltre una proprietà che lo caratterizza nettamente nei con- fronti degli altri esseri di questo mondo, viventi e non viventi. Anche gli animali sono dotati di una forma elementare di linguaggio, ma possono servirsene solo come strumento di sopravvivenza, per segnalare agli animali delia stessa specie situazioni di vitale impor- tanza, come presenza di cibo, di pericolo, ecc. L'uomo, invece, adope- ra il linguaggio per scopi e nei modi più svariati: come strumento di espressione di se stesso, dei propri sentimenti, desideri, idee, per co- municare con gli altri, per descrivere le cose, per domandare, per educare, per pregare, per cantare, come strumento di lotta, di pro- paganda, di divertimento, ecc. « L'uomo — scrive Martin Heidegger — parla sempre. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sem- pre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggia- mo, ci dedichiamo ad un iavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell'altro parliamo ininterrottamente. Parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acqui- sito che l’uomo, a differenza della pianta e dell'animale, è l'essere vivente capace di parole. Dicendo questo non si intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. Si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo ». Il linguaggio costituisce un problema per i cultori di molte di- scipline: per lo storico che cerca di conoscerne l'origine e lo svi- luppo, per il fisiologo che studia gli organismi interessati alla emis- sione dei suoni, per lo psicologo che esamina l'incidenza del lin- ! M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 27. 50 guaggio sulla sfera del conscio e dell'inconscio, per il logico che stu- dia il linguaggio in vista di rimuovere da esso oscurità e ambiguità e promuovere una sua intrinseca chiarificazione, per il critico lette- rario che esamina lo stile che gli scrittori imprimono al linguaggio, per il sociologo che si interessa all’influsso del linguaggio sui movi- menti sociali, sulle dottrine, gli ideali, gli usi, i costumi di una società, ecc. Per il filosofo il linguaggio fa problema quanto all'origine, alla natura, alla funzione e al valore. Sono questi i punti della problema- tica linguistica che prenderemo in esame nel presente capitolo e a questo scopo sarà opportuno chiarire il significato di alcuni termini e di alcune distinzioni. Anzitutto lo stesso termine linguaggio. Secondo una definizione molto comune « per linguaggio si intende ogni sistema di segni che può servire come mezzo di comunicazione » Esso comporta, quindi, una struttura essenzialmente intenzionale. In effetti il linguaggio vuole segnalare intenzioni, idee, sentimenti, cose, ecc. Si può dire a buon diritto che il linguaggio è lo strumento ideale della intenziona- lità essenziale dell'uomo, che è un essere aperto e in continuo movi- mento, orientato verso tutta la realtà che lo circonda e sovrasta. Tale apertura dispone alla comunicazione, e la comunicazione si ef- fettua principalmente mediante il linguaggio. Altri termini che ricorrono spesso nel discorso linguistico sono lingua, parola, significante, significato. Diversamente dal linguaggio, il quale indica la funzione generale delia comunicazione, ia lingua significa il sistema linguistico usato da una determinata società (lingua latina, italiana, greca, russa, da- nese, inglese, ecc.). La lingua, pci, viene distinta a sua volta dalla parola. La lingua è il sistema sovraindividuale di segni grazie ai quali gli uomini pos- sono comunicare tra di loro: il sistema secondo le regole stabilite dalla grammatica e dalla sintassi e secondo i significati generali regi- strati nel dizionario. La parola, invece, è la forina concreta ed indi- viduale assunta dal sistema, secondo i’uso di una determinata per- sona, secondo i significati personali, soggettivi, emotivi da essa voluti. Abbiamo infine i termini significante e significato. Il significante indica una realtà come essa è denotata e strutturata dal linguaggio, mentre il significato indica il modo sempre parziale e storico in cui la lingua parlata attualizza il significante. Per esempio « padre » è un significante che ha il proprio senso grazie alle relazioni all’interno della costellazione familiare. Il significato rappresenta l'attuazione di questo significante in un determinato discorso e in una cultura determinata. ? A. LALANDE, Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 478. 51 Origine, natura, funzione e valore del linguaggio La lingua come sistema linguistico di una società Significante e significato: denotazione di una realtà e sua attualizzazione storica Linguaggio: origine naturale o origine convenzionale? La teoria evolutiva è la tesi odierna: onomatopea — caso — convenzione Preminenza di parole onomatopeiche nelle lingue europee 2. Origine del linguaggio Sulla questione dell'origine del linguaggio le soluzioni possibili, in definitiva, sono due: o il linguaggio è stato ricevuto (dalla natura oppure da Dio), o è stato inventato dall'uomo (imitando la natura oppure in un modo affatto convenzionale). Entrambe le soluzioni hanno incontrato il favore di numerosi sostenitori sia nell'antichità sia ai nostri giorni. Mentre però la prima soluzione era largamente seguita nel passato, oggi trova pochi sostenitori. Secondo Humboldt, il linguaggio non può essere stato inventato dall'uomo stesso, perché « l’uomo è uomo soltanto mediante il lin- guaggio, ora, per inventare il linguaggio, egli dovrebbe essere già uomo ». Oggi, però, la tesi più comune è che il linguaggio abbia avuto origine per evoluzione. Ma ci sono modi diversi di interpretare que- sto evento. Alcuni ritengono che l'evoluzione sia stata determinata dall'’onomatopea; altri invece assegnano la parte principale al caso e alla convenzione. La teoria che il linguaggio nasce formando suoni onomatopeici (ossia imitando suoni già esistenti in natura, per esempio, il sibilo del vento, il mormorio dell’acqua, il canto degli uccelli, ecc.) era già stata ventilata dagli stoici e più tardi da Leibniz, ma fu proposta per la prima volta in modo scientifico solo da Herder, il quale già nella sua tesi di laurea affermava: « Il primo vocabolario è costituito da suoni raccolti da ogni parte del mondo. Da ogni natura emettente un suono si ricava il suo nome: l’anima umana si vale di tali suoni quali segni per indicare le cose ».* Recentemente la tesi dello Herder è stata ribadita con dovizia di argomenti dal Bruni. Secondo questo studioso, « la tesi dell'origine naturale del linguaggio, mediante l’onomatopea, è l’unica scientifica- mente sostenibile ».5 « I glottologi e gli psicologi, che ritengono il linguaggio di origine naturale, hanno sempre pensato che l’onoma- topea sia stata la madre più feconda delle parole. Il Renan affermò che nelle lingue semitiche, e specialmente nell'ebraico, la formazione della onomatopea è sensibilissima per un grande numero di radici, e soprattutto per quelle che hanno un carattere spiccato di antichità e di monosillabismo » Del parere del Bruni è anche il Merlo. Questi afferma che « le prime parole create dall'uomo furono certo onomatopeiche, imitative dei suoni risonanti al nostro orecchio; onomatopeiche sono le prime parole che il bambino crea e che poi presto dimentica per le eredi- tarie. Il lessico delle lingue europee è pieno di parole onomatopei- } W. von HuMmBOLDT, Ueber das vergleichende Sprachstudium, par. 2. ER CIUO H. ARENS, Sprachwissenschaft, K. Alber Verlag, Friburgo-Monaco » P. IUS. 5 F. BRUNI, L'origine del Linguaggio, Studium, Roma 1958, pp. 6-7.. * Ivi, p. 7. 52 che; molte ne conosce di sue proprie il lessico della lingua latina; e perché alle ereditarie non sarebbero venute ad aggiungersene altre, e molte altre, in età latina tarda, e nelle singole lingue romanze? ».’ Secondo moltissimi studiosi il linguaggio ha origine convenzio- nale. È l’homo sapiens che escogita certi suoni per espletare deter- minate operazioni. A questa teoria ha dato espressione autorevole il Wittgenstein nelle sue Philosophical Investigatiovs. In quest'ope- ra egli sostiene che l'assegnazione di nomi alle cose è arbitraria così come è arbitrario l'accordo sulle regole per fare un determinato gioco. Il linguaggio stesso è concepito dal Wittgenstein come un gioco (Sprachspiel). Come esempio del formarsi del gioco linguistico Wittgenstein cita il caso dell'accordo che si stabilisce tra un muratore e un manovale a riguardo di un certo arnese. « Supponi che un arnese adoperato da un muratore per costruire porti un certo segno, un'etichetta. Quando il muratore mostra al ma- novale il segno (l'etichetta), il manovale gli porta l’arnese che porta quel segno. È press'a poco in questo modo che un nome significa e viene assegnato ad una cosa. Si rivelerà assai utile in filosofia ripe- tersi di tanto in tanto che denominare è una operazione simile al- l’affibbiare un'etichetta ad una cosa ».? A nostro giudizio queste due tesi sull'origine del linguaggio non sono necessariamente contraddittorie, ma si possono integrare vi- cendevolmente. Dando per certo che il linguaggio è un'invenzione dell’uomo e non un dono della natura o di un essere superiore, ci pare che questa invenzione abbia avuto luogo inizialmente mediante l'imitazione dei suoni emessi dagli animali e dalle cose. Così, per designare il cane, si ripete il verso del cane; per designare il lupo, si ripete il verso del lupo; per designare il vento, si ripete il rumore del vento, e così per tante altre cose. Questa origine prima del linguaggio è confermata dalla larga quantità di suoni onomatopeici presenti in tutte le lingue. Ed è pure confermata dal modo con cui il bambino apprende a parla- re, imitando i suoni che sente dalla mamma. Su questa base onomatopeica l’uomo ha in seguito manovrato con libertà e genialità, escogitando suoni nuovi, oppure combinando in maniera diversa suoni vecchi (per es., automobile, televisione, ae- roplano, ecc.). Per questo motivo gran parte del linguaggio attual- mente in uso ha origine convenzionale. 3. Condizioni essenziali del linguaggio Il linguaggio presuppone tre condizioni essenziali, tre costanti o componenti assolute: ? Citato in ivi, p. 8. * L. WITTGENSTEIN, Philosophical Investigations, n. 15. 53 L’“homo sapiens” e l'origine convenzionale: la teoria di Wittgenstein Integrazione tra naturalismo e convenzionalismo Tre condizioni essenziali del linguaggio: soggetto, oggetto, interlocutore Divisione dicotomica: conoscenza et esistenza — soggetto che parla (e si esprime parlando); ; — oggetto di cui si parla (e si rappresenta mediante la parola); — interlocutore a cui si parla e al quale si vuole dare una comu- nicazione parlando. « È chiaro che ci sono tre elementi in gioco: il parlante, l’ascol- tante o gli ascoltatori, e la comunicazione che si stabilisce tra loro. Un noto psicologo ha riassunto questo triplice aspetto del linguaggio in una chiara formula: dal punto di vista del parlante, l'atto lingui- stico è un sintomo, un'indicazione di ciò ch'egli ha in mente; dal punto di vista dell’ascoltatore è un segnale, che lo stimola ad una de- terminata azione; dal punto di vista della comunicazione è un sim- bolo, un segno cioè che sta per qualsiasi cosa il parlante intenda trasmettere ».° A ragione, quindi, il Macquarrie afferma che il linguaggio è un complesso di relazioni fondate su tre termini: «i tre termini sono ovviamente la persona che dice qualcosa, la materia di cui si parla e la persona o le persone alle quali si parla... È il linguaggio che fa da intermediario per la relazione triadica, anzi è esso che la costi- tuisce ».!° 4. Funzioni e valore del linguaggio iFino a qualche anno fa si soleva presentare una divisione dico- tomica delie funzioni del linguaggio. Vi si distinguevano, da una parte, una funzione descrittiva o conoscitiva o denotativa o rappre- sentativa o simbolica, e, dall'altra, una funzione emotiva, esisten- ziale o personale. Così Ogden-Richards, Carnap, Ayer, Stevenson, e altri. Ultimamente però sono diventati sempre più numerosi gli autori che propongono una divisione tricotomica, aggiungendo alie due funzioni precederti quella comunicativa o intersoggettiva. Sono di questo parere Schbkel, Polanyi, Barbotin, Ullmann e vari altri stu- diosi. Noi troviamo quest'ultima divisione più giustificata della prima, in quanto essa risulta dalle ire componenti essenziali costitutive del linguaggio, che abbiamo visto essere ii soggetto che parla, ciò di cui si parla e ia persona alla quale si parla. Iì linguaggio esercita una funzione diversa rispetto alle sue tre componenti: — ha una funzione rappresentativa o descrittiva o denotativa ‘nei confronti dell'oggetto; — ha una funzione espressiva o esistenziale o emotiva nei con- fronti del soggétto; ? S. ULLMANN, La semantica, Il Mulino, Bologna 1966, p. 27. * J. MACQUARRIE, Ha senso parlare di Dio?, Borla, Torino 1969, pp. 66-67. 54 — ha una funzione comunicativa o intersoggettiva nei confronti della persona cui si dirige il discorso. In connessione con la questione delle funzioni dei linguaggio si affaccia anche la questione del suo valore, la quale, fra tutte le que- stioni concernenti il linguaggio è quella oggi più assiduamente e vi- vacemente dibattuta. Se ne occupano tutti i filosofi (sia gli esistenzia- listi che gli strutturalisti, sia i neopositivisti che gli ermeneuti, sia i tomisti che i marxisti) e anche i teologi e gli scienziati. ‘Le soluzioni di questa questione sono molte e assai disparate. C'è chi assegna al linguaggio un valore puramente strumentale. Questa è la soluzione tradizionale, tuttora largamente condivisa dai neopositivisti, dagli analisti, dai tomisti, dai marxisti, e da tanti altri. C'è invece chi gli assegna un valore fondamentale, di ordine esistenziale. 4. Funzione descrittiva Una folta corrente filosofica del nostro tempo, la corrente neo- positivistica e analitica ha riconosciuto valore conoscitivo alla fun- zione denotativa (descrittiva, conoscitiva, oggettiva) e ha proscritto come insignificanti e prive di senso le altre funzioni. Secondo tale corrente, solo la funzione denotativa abilita l'uomo a raggiungere e a trasmettere la verità. Questa funzione è svolta in modo eccellente dal linguaggio scientifico, il quale è dotato della massima chiarezza, precisione e oggettività. Qualsiasi altro linguaggio acquista più o me- no valore nella misura in cui si conforma al linguaggio scientifico. La ragione dell'eccellenza di quest'ultimo sta nella semplicità del suo criterio di significazione, che è la verifica sperimentale, il quale prescrive di riconoscere significato descrittivo soltanto a quelle pro- posizioni che sono traducibili in una catena di dati sensitivi. La teoria dei neopositivisti e degli analisti inglesi ha suscitato fortissime reazioni da parte di filosofi di tutte le scuole, i quali han- no potuto provarne l'infondatezza appellandosi a vari argomenti, di cui i principali sono i seguenti: a) ilcriterio della verifica sperimentale è un postulato metafisico privo di qualsiasi fondamento, è una proposizione metafisica sensa- zionale che si squalifica da sola perché è inverificabile." " Ecco alcune critiche radicali al principio della verifica sperimentale. «Il principio di verifica sperimentale significa ridurre all’assurdità sia la conoscenza che il significato... Perché l'intenzione di riferire al trascendente l'esperienza immediata è l'essenza della conoscenza e del significato ». (C.I. LEVIS « Experience and Meaning », in Readings in Philosophical Analysis, P. . «Il principio della verifica è una dichiarazione metafisica e, perciò, il positivismo logico deve essere considerato senza significato ». (JoAD, A critique of Logical Positivism, p. 11). « Il principio di verificabilità è una dichiarazione metafisica ‘sensazio- nale’ ». (J. WIspom, Philosophy and psychoanalysis, Oxford 1953, p. 245). Cfr. anche: A.C. EwING, « Meaninglessness », in Mind 1937; MACQUERRIE, Ha senso parlare di Di0?, cit. 55 Il vaiore del linguaggio: strumentale, esistenziale Neopositivismo: valore conoscitivo e funzione denotativa Posizioni critiche al neopositivismo Funzione espressiva e funzione comunicativa b) la preferenza per il linguaggio scientifico è del tutto ingiusti- ficata, perché ci sono molti altri linguaggi che per la esistenza uma- na sono altrettanto importanti quanto quello scientifico, per es., il linguaggio ordinario, il linguaggio etico, il linguaggio artistico, il linguaggio poetico, il linguaggio mistico." c) la preferenza per la funzione descrittiva o conoscitiva del lin- guaggio è la conseguenza di una tradizione intellettualistica e razio- nalistica che è stata estremamente dannosa perché ha creato un'im- magine distorta e depauperata dell'uomo.”* 4.2 Funzione comunicativa Da questi argomenti risulta che non si può ascrivere valore sol- tanto alla funzione conoscitiva ma si deve riconoscere anche l’im- portanza fondamentale che hanno le altre funzioni, sia quella espres- siva, che quella comunicativa. Del resto è abbastanza facile rilevare che il linguaggio umano non ha soltanto e neppure principalmente valore a causa della sua fun- zione conoscitiva (descrittiva o denotativa). La sua funzione princi- pale è infatti comunicativa e la comunicazione, in moltissimi casi, non intende affatto offrire descrizione di oggetti, cose, fenomeni, leggi della natura, ma affetti, sentimenti, desideri, comandi. È soprattutto su questo punto che gli studi più recenti hanno gettato nuova luce. Qui ci limiteremo a riferire alcuni risultati ac- quisiti dal Barbotin nel suo saggio, profondo, ricco e illuminante, Humanité de l'homme. In quest'opera egli mette in evidenza il valore comunicativo esistenziale e prassistico del linguaggio. Il linguaggio è lo strumento privilegiato della‘comunicazione, nonché della pre- senza e della socialità. L'uomo, diversamente dalle cose che sono chiuse in e su se stesse, è aperto, si vuole dare agli altri e dagli altri vuole ricevere; si vuole rendere presente... La parola trasforma la nostra presenza puramente fisica e passiva — semplice giustapposizione nello spazio — in presenza attiva che ci impegna reciprocamente. «Io sono presente a me stesso nella misura in cui sono fuori di me, in un movimento di donazione che mi rende libero. La parola, per la precisione, è donatrice; al di là dei propositi, essa mira allo scambio dei due « Io »; nella preghiera mi dono, mi consegno a Dio, mi getto nelle sue mani »." Questo potere esistenziale della parola, questo potere di renderci presenti agli altri, e gli altri a noi stessi è stato meravigliosamente rafforzato dalle moderne scoperte della radio, del telefono, dei re- !? Cfr. H.G. GADAMER, « Che cos'è la verità », Rivista di filosofia, 1956, pp. 257-260. ) ! Cfr. ivi, pp. 253 ss.; P. RICOEUR, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970 4 E, BARBOTIN, Humanité de l'homme, cit., p. 139. 56 gistratori, ecc. Riuscire, oggi, a registrare le voci di persone che ci sono care, oppure di personaggi importanti modifica sensibilmente il salto, l'abisso della morte e i nostri rapporti con i defunti: poter risentire la loro voce ci dà la sensazione che la morte non abbia operato una separazione completa tra noi e loro. La funzione fondamentale del linguaggio è quindi quella della comunicazione. Tuttavia dobbiamo dolorosamente constatare che è una comunicazione che il linguaggio non ci consente mai di realiz- zare pienamente. « La parola scambiata, dice bene Barbotin, mette in comunicazione due persone tra di loro, essa risveglia, mantiene e consacra l'apertura reciproca; ma allo stesso tempo conserva qual- cosa di inesprimibile. E questo non è dovuto alla doppiezza, bensì alla ineffabilità della persona, delle sue intenzioni, della sua libertà: la parola lascia filtrare qualche raggio, ma ne conserva, per forza, se- greto il focolare. Sempre ineguale rispetto a ciò che manifesta, la parola è di conseguenza necessariamente molteplice — se fosse perfetta sarebbe invece unica — e provoca nell'interlocutore interro- gativi a non finire; essa esaudisce lo spirito, ma non lo sazia mai ».! Che il linguaggio abbia aspetti ambigui è cosa evidente ed è stata ripetutamente rimarcata già dai filosofi dell'antichità, in par- ticolare da Platone, Aristotele e Agostino. Esso è strumento di for- mazione (educazione), ma si presta anche molto facilmente alla de- formazione e alla corruzione, come rileva Socrate contro i Sofisti. In un capitolo celebre di Sein und Zeit Heidegger ha mostrato come l’inautenticità degli individui è dovuta soprattutto al linguaggio: la maggior parte degli uomini non pensa da sé, non giudica con la pro- pria testa, non decide per proprio conto: ma pensa giudica decide, ecc. secondo quanto sente dire dagli altri. 4.3 Funzione e valore esistenziale Il linguaggio è importante non soltanto per la funzione descrittiva e comunicativa, ma anche per la funzione esistenziale. Esso infatti oltre che a descrivere oggetti e a comunicare sentimenti serve anche a testimoniare agli altri e a noi stessi la nostra esistenza. Suppo- niamo, per es., che uno si sia smarrito in una foresta oppure su una montagna. A chi scrive capitò una volta scalando il Monte Rosa. Eravamo a quota 3.000 e, alle dieci di sera, non eravamo ancora giunti al rifugio Quintino Sella. Era buio fitto e ad un certo punto avevamo completamente smarrito la pista. Allora abbiamo comin- ciato a gridare con la speranza che qualcuno dal rifugio ci sentisse e ci fornisse qualche elemento per orientarci. In effetti fu così. Da sopra ci risposero alcune voci d'uomo. Esse bastarono da sole a li- berarci dall'angoscia e a restituirci fiducia in noi stessi e padro- 4 E. BARBOTIN, op. cit., p. 141. Sui limiti del linguaggio vedi anche G. GuSsDORF, Filosofia del linguaggio, Città Nuova, Roma, pp. 78-92. 4 M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano, pp. 140 ss. 57 La funzione fondamentale della comunicazione Parola e determinazione dell’esistenza La densità esistenziale del nome Funzione del nome nanza della montagna. Quelle voci improvvise invasero tutto lo ssa- zio che stava intorno, conquistarone il mondo silenzioso delie cose e lo trasformarono conferendogli un nuovo significato. Così avvenne che un universo senza voci in cui ci trovavamo smarriti, divenne un universo in cui l'uomo parla. Certo lo smarrimento non avviene soltanto là dove l'uomo non parla; in certi casi ciò accade anche in luoghi dove sono troppi co- loro che parlano, facendo fracasso e confusione. Eppure anche in questi casi, è di nuovo una voce, una voce familiare che ci rassicura della nostra esistenza. Si pensi al caso di un bambino che si smar- risce in mezzo alla folla... Basta che ad un certo punto senta la voce del babbo o della mamma che lo chiama da lontano perché riacquisti la serenità e la pace. Dunque la parola testimonia la mia esistenza a me stesso e agli altri. E non si tratia di una testimonianza vaga, indeterminata, gene- rica, ma determinata, precisa e qualificata. Infatti quando sono adi- rato adopero un particolare tono di voce ed un certo tipo di lin- guaggio, che sono del tutto diversi da quelli che uso quando insegno oppure quando prego. Fare corrispondere perfettamente un certo linguaggio con i vari modi di essere dei loro personaggi è una spe- cialità degli attori. Ma ciò che questi ultimi sono in grado di fare per molti personaggi, noi lo facciamo tutti i giorni per quel perso- naggio singolare che ciascuno di noi è naturalmente. La parola acquista densità esistenziale soprattutto attraverso il nome. Avere un nome significa possedere un'esistenza. Ma a causa della pubblicità del nome, per mezzo di esso anche ia mia esistenza acquista una certa pubblicità. Lo nota bene il Barbotin guando scri- ve: « Il nome è la parola che mi rivela, mi esprime agli altri, aprendo loro l’accesso al mio essere. Io non esisto veramente che per coloro che conoscono il mio nome; l'anonimato, l’incognito sono alibi che aggiungono ai vantaggi della presenza fisica in un determinato luogo il beneficio di una certa “assenza sociale”. [...] Però, se il mio nome mi esprime agli altri, allo stesso tempo esso mi consegna a loro, mi mette in loro potere. Dichiarando il mio nome, io rinuncio a parte della mia autonomia; ormai gli altri mi dominano e mi posseg- gono. La prima preoccupazione del direttore di un internato non è forse quella di imparare il nome dei suoi ragazzi per controllare le iniziative e mantenere la disciplina? I servizi di polizia non svolgono un'attività vigile per conoscere i nomi e i molteplici soprannomi delle persone sospette e, in tal modo, poter controllare i loro movi- menti? ».!” . Sta di fatto che il nome fa sempre da sostegno alla propria pre- senza. Ovunque il nome di una persona è conosciuto, pronunciato, ricordato, ha luogo la sua presenza intenzionale presso gli altri, e soddisfa in qualche modo quel desiderio di ubiquità che è insito " E. BARBOTIN, Op. cit., p. 155. 58 in ogni uomo. Ma oltre che a superare i limiti dello spazio, il nome ci consente anche di scavalcare i confini del tempo: la nostra presenza continua a perdurare anche dopo la morte, fintanto che il ricordo del nostro nome permane vivo. Questo spiega il desiderio che noi tutti abbiamo perché il nostro nome sia famoso, acquisti notorietà: è il nostro modo di conquistare un'illusione di eternità. 5. Rapporto del linguaggio con. il pensiero, con le cose e con gli interlocutori Passiamo ora a considerare la questione del valore del linguag- gio dall'altro punto di vista: quello dei suoi rapporti col pensiero, con le cose e con i due interlocutori. Al linguaggio si assegna valore diverso a seconda del modo di- verso di come viene concepito questo rapporto. C'è chi si preoccupa esclusivamente del pensiero; altri invece si preoccupa soltanto degli interlocutori. Nell’analisi linguistica la preoccupazione è centrata sulle cose; nell’esistenzialismo è centrata sul soggetto pensante; nell'ermeneutica, nel personalismo e nello strutturalismo è centrata sugli interlocutori. In tutti i tre casi si danno però due alternative (e qualche volta anche tre). Per il rapporto pensiero-linguaggio, la soluzione comune è di vedere nel linguaggio uno strumento subordinato e secondario del pensiero. Oggi gli strutturalisti e gli ermeneuti tendono a sovvertire questo rapporto e a mettere il pensiero al servizio e alle dipendenze del linguaggio. La tesi di questi ultimi non può essere pienamente accolta, perché tutti abbiamo esperienza di pensieri per i quali non riusciamo a trovare le parole adatte per esprimerci. Tuttavia è una tesi che contiene della verità, in quanto tra pensiero e linguaggio intercorre un rapporto assai profondo. Con un linguaggio nitido an- che il pensiero guadagna in chiarezza e precisione.! Anche per quanto concerne i rapporti tra linguaggio ed essere ci sono due opposte tendenze. Generalmente al linguaggio si rico- nosce valore semantico, indicativo, segnalatore dell'essere. Oggi strutturalisti ed ermeneuti vogliono ascrivere al linguaggio una den- sità ontologica molto più profonda: l’essere trova la sua manifesta- zione nel linguaggio; soprattutto l'essere dell’uomo ha il suo soste- gno, il suo modello nel linguaggio. Anche a questo proposito ci pare di non poter accogliere la secon- da tesi integralmente perché, se seguita fino in fondo, essa sfocia inevitabilmente in una nuova forma di idealismo; tuttavia è una tesi ! Ivi, pp. 133-144, 59 Il rapporto linguaggio-pensiero La subordinazione del linguaggio al pensiero Linguaggio e intersoggettività: due tesi opposte che contiene anche un importante nucleo di verità: essa esprime il carattere storice e creativo dell’uomo.! Quanto al terzo tipo di rapporti, quelli fra linguaggio ed interlo- cutori, si danno anche qui due tesi opposte: una che afferma il valore capitale del linguaggio per l’intersoggettività, valore tanto più grande in quanto oggi si vede nell'uomo un essere essenzial- mente intersoggettivo; oggi la persona umana non è intesa in chiave egocentrica, cartesiana, ma in chiave sociale. L'altra tesi assegna uno scarso valore intersoggettivo al linguaggio, in quanto muove da una concezione egocentrica, angelicata dell’uomo. Noi riteniamo che il linguaggio abbia effettivamente importanza capitale per la funzione intersoggettiva. Tale importanza risulta da quanto è stato detto in precedenza sulla funzione comunicativa del linguaggio. Ma essa risulterà ancor più evidente in seguito, quando ci occuperemo del problema politico e sociale e vedremo che il lin- guaggio costituisce il mezzo necessario, principale ed ideale per rea- lizzare la socievolezza umana. CONCETTI DA RITENERE — Linguaggio; lingua; parola — Significato; significante — Origine naturale, convenzionale, evolutiva; onomatopea — Soggetto; oggetto; interlocutore — Sintomo; segnale; simbolo — Funzione descrittiva, emotiva, comunicativa SINTESI CONTENUTISTICA I. CARATTERI DEL LINGUAGGIO 1. Proprietà primaria e fondamentale dell'uomo che lo distingue dagli altri esseri viventi per l’uso che ne fa, in ordine a scopi e modi diversi. 2. Il linguaggio è uno degli elementi che costituisce l'uomo in quanto uomo. Esso ha una struttura intenzionale che lo fa mezzo della comunicazione degli uomini tra loro. 3. Esiste una distinzione tra linguaggio (funzione generale della comuni. cazione), lingua (sistema linguistico usato da una determinata società) e parola (forma concreta e individuale assunta dal sistema linguistico). Differenza tra i termini significante e significato: il primo indica una realtà come è denotata dal linguaggio; il secondo indica il modo parziale e storico in cui la lingua parlata attualizza il significante. II. ORIGINE DEL LINGUAGGIO . Tre ipotesi: origine naturale (tesi ormai abbandonata); origine conven- zionale; origine evolutiva (tesi più comune oggi). La prima ipotesi annovera tra i suoi sostenitori Humboldt, Herder, Bruni e Merlo che attribuiscono al- 4 Cfr. I. MANCINI, Linguaggio e salvezza, Vita e Pensiero, Milano 1964, pp. 14 ss. 60 l'onomatopea la maternità delle parole. La seconda è autorevolmente espressa da Wittgenstein: il linguaggio è un gioco di cui l’uomo ha stabilito le regole. Come terza ipotesi si può dire che oggi l’azione creativa e libera dell’uomo sul- l'’onomatopea ha prodotto un linguaggio convenzionale che può essere chiamato evolutivo. III. CONDIZIONI TRASCENDENTALI DEL LINGUAGGIO 1. I trascendentali o costanti del linguaggio sono: — il soggetto che parla — l'oggetto di cui si parla — l'interlocutore a cui si parla 2. L'atto linguistico dal punto di vista: del soggetto è un sintomo, dell'og- getto è un segnale, dell'interlocutore è un simbolo. Il linguaggio è l'intermediario di una relazione triadica. IV. FUNZIONE E VALORE DEL LINGUAGGIO Si sono delineate tre connotazioni delle funzioni del linguaggio: a) la fun- zione descrittiva (o conoscitiva, denotativa, rappresentativa, simbolica); b) la funzione emotiva (o esistenziale, personale); c) la funzione comunicativa o intersoggettiva. V. RAPPORTI DEL LINGUAGGIO COL PENSIERO, CON LE COSE E CON GLI ‘INTERLOCUTORI (Al linguaggio si assegna valore diverso in relazione al rapporto nel quale viene colto: — rapporto pensiero-linguaggio: il linguaggio è uno strumento subordi- nato e secondario del pensiero; — rapporto pensiero-cosa: a) in genere si attribuisce al linguaggio un va- lore semantico; b) oggi strutturalisti e ermeneuti considerano il linguaggio una manifestazione dell'essere; — rapporto linguaggio-interlocutore: a) importanza fondamentale del lin- guaggio per l'essere umano inteso come essere intersoggettivo; b) scarsa im- portanza del linguaggio per l'essere umano inteso in senso egocentrico. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali delle diverse forme del linguaggio umano sembrano predominare nella nostra cultura? 2. In quale misura il linguaggio identifica l’uomo come essere di relazione? 3. Che cosa si intende per linguaggio, lingua, parola, significante, signi. ficato? 4. Quali sono le principali teorie sull'origine del linguaggio? 5. Quali sono gli elementi costitutivi, essenziali, trascendentali del lin- guaggio? ! 6. Quali sono le principali funzioni del linguaggio? 7. Quale rapporto è possibile stabilire tra linguaggio e concezione del- l'uomo? 8. Che rapporto intercorre tra pensiero, linguaggio e cose? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI ANTISERI D., La filosofia del iinguaggio, Morcelliana, Brescia 1973. BENVENISTE E., Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1971. BERRUTO G., Nozioni di linguistica generale, Liguori, Napoli 1976. 61 BRuNI F., L'origine dei linguaggio, Studium, Roma 1958. CASTELFRANCHI C.-PARISI D., Linguaggio, conoscenza e scopi, Il Mulino, Bo- logna 1980. CoRrRapI-FIUMARA-GEMMA, Funzione simbolica e filosofia del linguaggio, Bo- ringhieri, Torino 1980. Guspore G., La filosofia del linguaggio, Città Nuova, Roma 1970. GALIMBERTI U., Linguaggio e civiltà, Mursia, Milano 1977. 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La branca del sapere che si occupa della costitu- zione dell'universo per definirne la forma e le leggi che lo gover- mano, viene denominata cosmologia {dal greco kosmos,! che significa ordine, mondo e logos = discorso); quanto riguarda la sua origine e il suo fine ultimo viene invece studiato dall'ontologia e dalla tsleologia. i Intorno all'universo e in ordine alla soluzione dei suddetti pro- blemi si può fare un duplice discorso, scientifico e filosofico. Nel primo caso si propone una descrizione dei fenomeni, specialmente nelle loro relazioni d'insieme e nel loro divenire, interpretandoli se- condo criteri logici, tendenti a stabilire tra loro un ordine, una struttura, una legge di conservazione e di evoluzione. Nel secondo si presenta un’interpretazione generale dei fenomeni dell'universo, nella loro natura essenziale, nelle loro proprietà, nel loro ultimo fondamento. Questa distinzione tra discorso scientifico e filosofico è una con- quista piuttosto recente del pensiero umano. Essa è divenuta possi- bile soltanto col sorgere delle scienze sperimentali, vale a dire du- rante il secolo XVII. Prima si consideravano le ricerche dei metafisici e gli studi degli astronomi e dei fisici come facenti parte d'una unica grande disciplina, la filosofia. ‘ Il termine kosmos ìn greco indica ìn senso proprio l'armonia universale regolata da leggi precise e inviolabili. Contrapposto al termine kaos, che nella mentalità dei Greci era espressione non solo di disordine indifferenziato, ma anche di tutto ciò che contiene in sé la forza del negativo, il kosmos rap- presentava per gli antichi tutto ciò che è positivamente conforme alla volontà degli dèi e che è pertanto vita e bene. 63 La cosmologia studia la costituzione dell’universo {forma e leggi) Discorso scientifico e discorso filosofico Una soluzione mitica ai primi interrogativi sul cosmo Il problema dell’uno e del molteplice in Talete 2. La cosmologia nel pensiero occidentale Il problema cosmologico è uno dei primi che la mente umana si sia posto. Appena ha acquisito il potere di riflettere, l'uomo ha cominciato ad interrogarsi sull'origine delle cose: qual è la loro causa ultima? e in che modo tale causa ha prodotto tutto il comples- so sistema dell'universo? Qual è il costitutivo fondamentale del mondo? A questi interrogativi gli uomini hanno cercato di dare una ri- sposta molto tempo prima di scoprire gli strumenti logici di ricer- ca propri della filosofia, servendosi degli strumenti espressivi del mito. Documenti preziosi di alcune spiegazioni cosmologiche di caratte- re mitico sono i poemi di Omero e Esiodo. Nelle loro opere l’uni- verso è considerato come una grande città, di cui fanno parte oltre gli uomini anche gli dei. Come la città così l'universo sta sotto il governo di un grande monarca. Tutto ciò che accade nel mondo è opera sua e degli altri dei; tutti i fenomeni naturali sono promossi dai numi: i tuoni e i fulmini sono scagliati dall'alto da Zeus, i flutti del mare sono sollevati dal tridente di Poseidone, i venti sono so- spinti da Eolo, e così di seguito. Nella sua Teogonia Esiodo ha fissato con precisione il quadro cosmico, entro cui in seguito si muo- verà la spiegazione cosmologica dei filosofi. Secondo la spiegazione esiodea della genesi dell'universo, dapprima si generò il Caos, poi si generò Gea (ossia la Terra), nel cui ampio seno sono tutte le cose. Nella profondità della Terra si generò il Tartaro buio, e, da ultimo, Eros (l’amore) che, poi, fece generare tutte le altre cose. Talete, vissuto a cavallo tra il VII e VI secolo avanti Cristo, è il primo pensatore che si domanda espressamente e sistematica- mente: « Qual è la causa ultima, il principio supremo di tutte le cose? », e che per rispondere a tale interrogativo non fa ricorso a raffigurazioni mitiche ma si vale di concetti filosofici. Talete si domanda se, nonostante l’esperienza, la quale ci pre- senta il quadro impressionante di una molteplicità infinita di fe- nomeni apparentemente irriducibili, sia possibile derivare la realtà da un unico principio supremo. È un problema colossale che oltre- passa i confini della cosmologia ed invade il terreno della stessa metafisica: il problema dell'uno e del molteplice, problema che tormenterà i filosofi d'ogni tempo. A questa domanda ardita ed im- pegnativa, Talete offre una risposta ingenua e rudimentale. Gli sembra che tra i quattro elementi che il buon senso considera pri- mordiali e costitutivi d'ogni cosa, l’acqua abbia una priorità sugli altri. E conclude che l'acqua è il principio da cui traggono origine tutte le cose. Dall'acqua per condensazione deriva la terra, per rare- fazione derivano l'aria e il fuoco. ? Cfr. B., MONDIN,, vol. I, pp. 39-40. 64 Più che come una città, alla stregua di Omero e Esiodo, Talete concepisce il mondo come una casa. In questa casa c'è movimento, c'è mutamento, c'è caldo e freddo, fuoco e umidità, c'è fuoco al centro, e su di esso una marmitta con acqua. La casa è esposta ai venti e alle correnti; ma è una casa e questo significa sicurezza e stabilità. Per tre secoli il problema cosmologico conserva l'impostazione che gli aveva data Talete, un'impostazione ambigua, in cui il pro- blema metafisico del principio supremo d’ogni cosa si confonde col problema cosmologico dell'origine e della strutturazione di questo mondo. La distinzione tra problema metafisico e problema cosmologico viene finalmente percepita e lucidamente formulata da Platone. Questi distingue due piani di realtà, uno di ordine fisico (che è quello di questo mondo materiale) e l’altro di ordine metafisico: è il piano delle idee. Della origine e strutturazione del mondo mate- riale egli presenta una famosa spiegazione nel Timeo. Il mondo è stato prodotto dal Demiurgo. Questi contemplando le Idee (ossia prendendo le Idee come modelli), assistito e coadiuvato da altre Potenze, plasma la materia informe, facendole assumere quelle qua- lità e caratteristiche che sono proprie degli esseri che popolano questo mondo. Portata a compimento la formazione del mondo, il Demiurgo vi infonde un'anima universale, la quale ha la funzione di conservare in vita il mondo, senza bisogno di un continuo inter- vento da parte del Demiurgo? Aristotele, in Metafisica, compie un esame ancora più approfon- dito del problema cosmologico, almeno per quanto concerne l’aspet- to della natura essenziale delle cose materiali e del loro divenire. Secondo Aristotele il mondo non ha né origine né fine: è eterno. Ma non è affatto immobile, statico, perché il divenire è uno dei suoi tratti più caratteristici. Ma a che cosa è dovuto questo perenne divenire? C'è anzitutto una causa estrinseca: la tensione delle cose verso il loro ultimo traguardo, Dio. Ma c'è anche una causa intrinseca: la costituzione stessa delle cose materiali, le quali sono composte di materia e forma. La materia è di natura corruttibile ed è quindi la ragione intrinseca del continuo succedersi di nuove forme sulla sce- na di questo mondo. La materia è inoltre il fondamento ultimo del- l'estensione e quindi dello spazio. Invece il divenire è la ragione pro- fonda del tempo. Da parte sua la forma è la ragione della distinzione delle cose in molte specie diverse. Le specie fondamentali secondo Aristotele sono quattro, e, di conseguenza, quattro sono anche i grandi regni degli esseri terrestri: minerale, vegetale, animale e uma- no. Particolarmente interessante ed acuta è l’analisi condotta da Aristotele intorno al divenire, di cui distingue e definisce quattro tipi principali: quantitativo (crescita e diminuzione), qualitativo * PLATONE, Timeo, 5 ss. 65 Platone e le due realtà: fisica e metafisica Aristotele e la sua concezione sulla costituzione del cosmo: materia, divenire, forma L'esistenza e la perfezione del Movente immobile La concezione atomista di Democrito ed Epicuro Agostino e Tommaso: la temporalità del mondo e la sua eternità (alterazione di qualità), sostanziale (generazione e corruzione) e lo- cale (spostamento da un luogo ad un altro).* Ma come s'è detto, secondo Aristotele, il divenire delle cose non ha soltanto una causa intrinseca ma anche una estrinseca: le cose divengono per un fine ed è appunto il fine che le induce a trasfor- marsi, ad acquisire ulteriori gradi di realizzazione. Ciò porta Ari- stotele a riconoscere l'esistenza di un Movente immobile, che pro- voca tutti i fenomeni, tutte le generazioni, tutti i movimenti di questo mondo. Aristotele deduce la necessità del Movente immobile continuando la sua analisi del divenire. Si deve dare un movente in ogni forma di divenire perché il soggetto del divenire, non può darsi da sé ciò che non ha: « Tutto ciò che è mosso, è mosso da un altro ». Dalla esistenza delle varie forme di divenire e di movimento esistenti nel mondo Aristotele deduce l'esistenza di un Movente immobile, non subordinato a nessun genere di movimenti, causa im- mediata del movimento totale dell'universo, e causa mediata di tutti i movimenti particolari. Il Movente immobile è, secondo Aristotele, eterno, unico, del tutto immobile cioè talmente perfetto da non essere suscettibile di qualsiasi perfezionamento; inesteso non però come sono inestesi di natura loro la materia o i punti, ma perché superiore a tutto il mondo della materia e dell'estensione. Una concezione profondamente diversa e sotto molti aspetti con- traria a quella di ‘Platone e di Aristotele hanno sviluppato alcuni loro contemporanei, detti atomisti, i cui massimi esponenti sono Democrito ed Epicuro. Secondo questi filosofi il mondo è composto di una moltitudine infinita di atomi o elementi fisicamente invisibili, a causa della piccolezza delle loro dimensioni. Queste particelle si muovono nel vuoto e unendosi producono la nascita dei corpi e se- parandosi la distruzione. Fino a questo punto Democrito ed Epicuro sono perfettamente d'accordo. Divergono invece nella maniera di concepire il moto degli atomi. Mentre secondo Democrito tale moto assume una direzione rettilinea, Epicuro ritiene che per spiegare il mutamento e la combinazione degli elementi tra di loro occorre concepire il moto come passibile di deviazioni spontanee (clinamen): è proprio grazie a tali deviazioni che gli atomi danno origine a com- binazioni così molteplici e diverse, quali noi osserviamo in questo mondo I pensatori cristiani per spiegare la struttura intrinseca delle co- se materiali di solito si rifanno alla dottrina aristotelica; mentre in- vece per spiegare l'origine del mondo ricorrono alla nozione biblica di creazione: il mondo è scaturito dal nulla per volontà di Dio. Ma quando è stato creato questo mondo? Per rispondere a questo in- terrogativo gli autori cristiani hanno avanzato due soluzioni: una fa capo ad Agostino ed è quella più comune; l'altra è quella di Tom- 4 Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 129-133. 5 Ivi, pp. 134-136. 6 Ivi, pp. 52-54; 174-177. 66 maso d'Aquino. Secondo il Vescovo di Ippona il mondo è stato creato nel tempo, così vuole la Scrittura e così esige anche la natura contingente e mutevole delle cose materiali. Invece secondo l’Aqui- nate, in linea di principio (vale a dire assolutamente parlando senza tener conto di quanto la ragione umana ha acquisito dalla Rivelazione) non si può escludere l’esistenza eterna del mondo, in quanto Dio ha potuto crearlo da sempre.” L'epoca moderna si apre con uno spiccato interessamento per il problema cosmologico. L'’Umanesimo e il Rinascimento sono carat- terizzati appunto da un interesse straordinario per il mondo, per la natura. Gli uomini del Quattro e Cinquecento (Cusano, Telesio, Pico della Mirandola, Ficino, Bruno, ecc.) sono incantati, abbagliati dalla bellezza, grandezza, fecondità, potenza della natura e su di essa ap- puntano il loro sguardo indagatore. Ma le loro spiegazioni di so- lito, sono pure fantasticherie, che non possono vantare maggiore solidità di quelle di alcuni pensatori greci, dai quali traggono ispi- razione. Eppure, ciononostante, le loro ipotesi costituiscono il pro- logo essenziale allo sviluppo di una nuova cosmologia, la quale assu- me la veste di ricerca scientifica anziché quella di indagine filo- sofica.? Già con Galilei non ci si interessa più delle essenze delle cose materiali e delle loro cause ultime, ma si concentra tutta l’attenzio- ne sui fenomeni e sulle leggi che li regolano. Sono soprattutto le leggi che contano. Si tratta di una rivoluzione che ha prodotto copiosi frutti. Un po’ alla volta, per merito di Galilei, Keplero, Newton, Lavoisier, Einstein e tanti altri, l'indagine scientifica è riuscita, almeno in parte a dipanare la complessa voluminosa ed intricata matassa delle leggi che regolano i fenomeni dell’universo. Tutte le cosmologie antiche, quella egiziana, babilonese e gre- ca, mettevano sempre al centro dell'universo la Terra, circondata e sostenuta da un oceano e sopra la volta del cielo. Nel secondo secolo dopo Cristo, il matematico ed astronomo alessandrino Tolo- meo Claudio rielaborò tutti i risultati delle ricerche precedenti e sviluppò un complesso sistema geocentrico, basato su una serie di circonferenze, in cui la Terra era al centro ed il sole e la luna le giravano intorno, mentre gli altri corpi celesti avevano dei percorsi eccentrici. Questo sistema fu accettato per oltre un millennio, sino a che Niccolò Copernico non elaborò il suo sistema eliocentrico, nel 1507, secondo cui i pianeti si muovono intorno al sole su orbite com- plementari. Si deve soprattutto agli studi di Galilei la diffusione del sistema copernicano. Un altro elemento caratteristico della cosmologia moderna trae origine da Galilei: il meccanicismo. Applicando allo studio dell’uni- ? Ivi, pp. 221-223; 285. * B. MONDIN, vol. II, pp. 48-50. 67 Il naturalismo della cultura rinascimentale Il cammino verso la scienza: da Galilei ad Einstein Il ‘‘meccanicismo’’ di Galilei Teoria cinetica e teoria molecolare: movimento perpetuo e struttura atomica I corpi celesti e la distanza infinita Teoria stazionaria e teoria evolutiva: creazione continua ed esplosione originaria verso il metodo matematico, come aveva insegnato Galilei, i filosofi e gli scienziati moderni non si interessano più delle qualità e delle forme, ma guardano esclusivamente alla quantità e ai numeri. Viene in tal modo a cadere la spiegazione vitalistica delle cose di questo mondo: le piante e gli animali non svolgono determinate attività perché sarebbero dotati di un'anima ma semplicemente perché sono forniti di elementi fisici capaci di svolgere movimenti più o meno complicati Il meccanicismo peraltro non è mai riuscito a sradicare il vitali- smo, il quale conta anche oggi molti validi sostenitori. È comunque al meccanicismo che si ispirano alcune importanti ipotesi scientifiche dell'ultimo secolo, come la teoria cinetica e quel- la molecolare. La teoria cinetica constata un perpetuo movimento disordinato delle particelle dei gas, tanto più rapido quanto maggio- re è la temperatura. In quésto disordine si possono tuttavia applicare le leggi del calcolo delle probabilità, e trovare delle relazioni tra grandezze macroscopiche direttamente misurabili. Secondo la teoria molecolare la struttura della materia risulta da un'aggregazione di atomi, tutti di una specie se si tratta di un corpo semplice, di tante specie diverse quanti sono i componenti semplici, se si tratta di un composto o di un miscuglio. Di ciascuna specie di atomi si conosce esattamente il peso, indicabile con H per l'idrogeno, 238 H per l’ura- nio, ecc. 3. La cosmologia nel secolo XX In questo secolo, grazie allo sviluppo di nuovi strumenti di ri- cerca, è stato possibile penetrare sempre più a fondo nel cuore della materia e individuarne gli elementi costitutivi più minuscoli, come le molecole, gli atomi, gli elettroni, ecc. Anche del più piccolo organismo vivente, la cellula, si è riusciti a decifrare in larga misura la complessa e meravigliosa struttura. Dal lato opposto lo sguardo umano, sospingendosi sempre più lontano, è riuscito a raggiungere corpi celesti che si trovano ad una distanza pressoché infinita dalla terra. In tal modo l’uomo ha acquistato una coscienza più acuta della vastità e della complessità dell'universo che lo circonda, un universo di cui gli riesce sempre più difficile cogliere le ragioni del suo inizio, il tempo della sua durata e il momento della sua fine. Per risolvere questi problemi enormi oggi si avanzano varie ipotesi: le più note sono quella stazionaria e quella evolutiva. Secondo la teoria stazio- naria, oggi meno accettata, vi è una creazione continua di materia, che mantiene l'universo ad una densità costante, nonostante la sua espansione, che si desume dall'ipotesi del moto di allontanamento * Ivi, pp. 107-110; 143. 68 delle galassie. Secondo la teoria evolutiva, vi fu un’esplosione origi- naria in un universo superdenso, il cosiddetto « big bang », circa 10 o 12 miliardi di anni or sono. Oggi comunque la parola definitiva è affidata alla ricerca che si vale di strumenti sempre più perfezionati. Ma a parere di molti filosofi e scienziati moderni, i quali riten- gono valida la distinzione kantiana tra realtà fenomenica e realtà noumenica, cioè pensata, non è possibile trovare una risposta con- clusiva agli interrogativi ultimi della cosmologia (origine del mondo per creazione o per caso, durata finita oppure infinita, estensione li- mitata oppure senza limiti, movimento teleologico oppure necessario, ecc.), in quanto ad ogni tesi è possibile contrapporne un'altra di segno contrario. Ma qui sono la natura e il valore della ragione umana e più spe- cificamente della speculazione filosofica che sono chiamati in causa. E qualora si rifiuti di accogliere la prospettiva kantiana, e si ascriva alla ragione il potere non solo di cogliere i nessi tra i fenomeni ma la verità stessa delle cose, allora si può anche ritenere che il pre: blema cosmologico non sia un problema insolubile. A nostro avviso esiste una filosofia in grado di fornire una risposta valida anche a questo difficile problema: è la filosofia dell'essere. Questa filosofia (lo vedremo meglio nel capitolo dedicato al problema ontologico) muove dalla « intuizione » del valore infinito della per- fezione dell'essere e dalla constatazione che nel mondo tale perfezio- ne si realizza sempre e soltanto in modi limitati. Ora, la finitudine e contingenza dell'essere di tali modi, ossia delle cose dell'universo, fanno comprendere l'esigenza della realtà di un Essere infinito, che ne segni l'origine e lo mantenga in vita, la necessità d'un Incondizio- nato che regga tutta la serie delle condizioni. Pertanto l'universo trae origine da Dio. Questi lo genera compiendo un atto singolare, che nessuna creatura può compiere, l'atto della creazione. Crea- zione significa la produzione di una cosa che prima non era in nessun modo, né in se stessa né nella potenza d'un soggetto (o ma- teria). Il termine « creazione » quindi evidenzia la totale inesisten- za dell'universo prima della sua produzione da parte dell'Essere sussistente; esso pone l'accento sul nulla del punto di partenza rispetto all'oggetto, l'universo. Con l’atto creatore l'Essere sussi- stente comunica il suo essere all'universo. Il suo è un dono del tutto straordinario, perché dal suo darsi nasce la realtà dell'universo là dove prima c'era soltanto il puro nulla. Il termine « creazione » pone quindi l'accento sull'inizio dell'universo, punto di partenza che è tutto nell'Essere sussistente, nella sua generosa dedizione, una dedizione che non ha nulla a che vedere né con l’emanazio- ne necessaria dei neoplatonici, né con l'alienazione dell'Assoluto degli idealisti. Si tratta però, ovviamente, di una comunicazione limitata. L'Essere sussistente non crea un altro essere sussistente, !° J. DE FINANCE, Existence et liberté, Vitte, Paris 1955, pp. 152-207. 69 La risposta della filosofia dell'essere L’atto creativo dell’Essere sussistente (Dio) Insoluto il problema cosmologico della durata ma un ente contingente. Per questo motivo l'universo non eguaglia la perfezione di Dio e tanto meno si identifica con la sua realtà. Esso semplicemente partecipa alla perfezione dell'Essere sussistente, os- sia possiede in modo particolare, limitato, imperfetto, quella perfe- zione che nell’Essere sussistente si attua in modo totale, illimitato e perfetto. C'è tuttavia una tensione permanente nel modo di fare ritorno alla sua prima sorgente, all'Essere sussistente; e questo spiega il profondo dinamismo che lo pervade, la costante trasformazione e la meravigliosa evoluzione che lo animano: l’universo è in cammino verso Dio. Questi è pertanto allo stesso tempo sia il punto Alfa che il punto Omega dell’universo."! Abbiamo così chiarito, facendo appello ai principi della filosofia dell'essere, i due principali problemi della cosmologia: origine e fine dell'universo. Resta ancora insoluto il problema della durata. Qual è la distanza temporale che deve percorrere l'universo prima di raggiungere il punto Omega? ‘Per trovare una risposta a questo interrogativo non possiamo fa- re appello a nessuna filosofia, neppure alla filosofia dell'essere. Si tratta certamente di una distanza finita, come affermano oggi una- nimemente gli scienziati; ma è una distanza che la ragione non riuscirà mai a misurare. CONCETTI DA RITENERE — Teogonia — Condensazione-rarefazione — Materia; forma; divenire — Motore immobile — Geocentrismo; eliocentrismo; meccanicismo — Teoria cinetica, molecolare, stazionaria, evolutiva; creazione SINTESI CONTENUTISTICA I. ‘PROBLEMATICITÀ DELL'UNIVERSO 1. ‘L'universo è una realtà problematica in ordine alla sua origine, ai suoi elementi costitutivi, alla sua durata, al suo fine ultimo. 2. La risposta al problema può essere scientifica o filosofica. Nel primo caso si propone una descrizione dei fenomeni. Nel secondo una interpretazione generale dei fenomeni dell’universo. 3. La distinzione tra i due ordini di soluzione risale al sec. XVII. II. LA COSMOLOGIA NEL PENSIERO OCCIDENTALE 1. Il problema cosmologico è uno dei primi che la mente umana si è posto: "! B. MONDIN, Il sistema filosofico di Tommaso d'Aquino {Per una lettura at- tuale della filosofia tomista), Massimo, Milano 1985. 70 qual è la causa ultima delle cose? in che modo ha prodotto il sistema dell'uni- verso? qual è il costitutivo fondamentale del mondo? 2. Le cosmogonie e le teogonie del mondo antico (da Esiodo ad Omero) sono state i primi tentativi di soluzione. 3. Il problema sta alla base della filosofia ionica {Talete, Anassimene, Anassimandro) che prospetta ambiguamente il problema cosmologico con il problema metafisico. 4. La distinzione tra i due problemi viene posta da Platone con la sua di- stinzione tra il mondo fisico e il mondo metafisico (natura e mondo delle Idee). 5. Aristotele approfondisce il problema cosmologico: it mondo è eterno e il divenire è uno dei suoi caratteri, poiché le cose tendono verso il proprio perfezionamento. Un Motore immobile provoca tutti i fenomeni, tutte ie gene- razioni, tutti i movimenti del mondo. 6. Gli atomisti (Democrito e Epicuro) pongono all'origine del mondo atomi invisibili per le loro dimensioni che unendosi e separandosi provocano la na- scita o la distruzione. Democrito afferma che il movimento degli atomi è retti- lineo; Epicuro afferma che avviene per deviazione spontanea. 7. I pensatori cristiani per spiegare la struttura intrinseca delle cose si rifanno ad Aristotele, mentre spiegano l'origine del mondo come atto creativo deila volontà di Dio. 8. L'Umanesimo e il Rinascimento privilegiano il problema cesmologico (Cusano, Telesio, Pico della Mirandola, Ficino, Bruno). Le visioni sono spesso fantasiose e animistiche. 9. Progressivamente, nel corso dell'età moderna e contemporanea, la co- smologia passa dalla dimensione metafisica a quella scientifica attraverso i traguardi segnati da Galilei, Newton, Lavoisier e Einstein. Il meccanicismo so- stituisce il vitalismo rinascimentale, lasciando successivamente il posto alla teoria cinetica e alla teoria molecolare. III. LA COSMOLOGIA NEL SECOLO XX 1. I nuovi strumenti di ricerca hanno consentito di penetrare i segreti del- la materia e di individuarne gli elementi costitutivi fondamentali: molecole, atomi, elettroni. 2. La teoria stazionaria afferma la creazione continua di materia; la teoria evolutiva afferma l'origine di un universo superdenso da un'esplosione ori- ginaria. 3. La filosofia dell'essere offre una valida soluzione al problema dell'origine dell'universo stabilendo una relazione tra gli esseri finiti e contingenti e l’Es- sere infinito e incondizionato. L'universo trae, pertanto, origine da Dio per atto creativo, in virtù del quale l'Essere sussistente comunica il suo essere al- l'universo con un atto di generosa dedizione. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali rapporti intercorrono tra metafisica e cosmologia? 2. Che cosa caratterizza la distinzione tra discorso mitico, scientifico e filo- sofico circa il mondo? 3. Quali correlazioni è possibile stabilire tra scienza e cosmologia? 4. In che misura il problema cosmologico si incontra con il problema religioso? 5. Quali sono i principali aspetti del problema cosmologico? 6. Quali sono le interpretazioni cosmologiche più significative del pensiero occidentale? 71 7. Quali interpretazioni sono state date al problema dello spazio e del tempo? 8. Che cosa sono il meccanicismo e il vitalismo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI ARCIDIACONO G., Relatività e cosmologia, Veschi, Roma. AuBERT J.M., Cosmologia, Paideia, Brescia 1968. BERTOTTI B., Lo cosmologia, Le Monnier, Firenze 1980. CRICK F., Uomini e molecole, Zanichelli, Bologna 1970. HOENEN P., Cosmologia, Università Gregoriana, Roma 1956. JoLIVET R., Trattato di filosofia, vol. II: Cosmologia, Paideia, Brescia 1957. MARCOZZI V., Caso e finalità, Massimo, Milano 1978. MERLEAU PonTY J., Cosmologia del secolo XX, Il Saggiatore, Milano 1974. Monop J., I! caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970. OraISsoN M., I! caso e la vita, SEI, Torino 1971. SELVvaGGI F., Filosofia del mondo fisico, PUG, Roma 1977. TEILARD DE CHARDIN P., Il fenomeno umano, Il Saggiatore, Milano 1968. TONINI V., La scienza della vita, Jouvence, Roma 1983. TORALDO DI FRANCIA G., L'indagine del mondo fisico, Torino 1976. VAN Hacens B., Filosofia della natura, Urbaniana ‘University Press, Roma 1983. 72 Capitolo sesto IL PROBLEMA ANTROPOLOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Quali interrogativi l’uomo si pone in relazione a se stesso? 2. Perché l'uomo ha bisogno di capirsi? 3. Di che cosa si ha più bisogno per stare bene con se stessi? 1. Natura del problema La filosofia ha sempre fatto dell'uomo argomento del suo studio e delle sue ricerche. Però, lungo l'arco della sua storia plurimille- naria, ci sono momenti in cui l’attenzione del filosofo s'è rivolta all'uomo in maniera distinta e privilegiata. Così, nell'antichità, dopo che lo sforzo dei primi filosofi greci, teso a scoprire la causa ultima delle cose era riuscito vano, con Socrate e i Sofisti la ricerca filo- sofica si concentra tutta sull'uomo, al fine di comprenderne la vera natura, determinarne le capacità e intenderne i doveri e la missione. « Conosci te stesso »: ecco l'obiettivo preciso della filosofia di Socrate e dei suoi contemporanei. Altrettanto è accaduto molti secoli più tardi, alla fine del Medio- evo, dopo i vani tentativi degli Scolastici di fissare in bell’ordine gli elementi molteplici che compongono l'universo. Ancora una volta l'indagine filosofica torna a riflettere anzitutto e soprattutto sul- l'uomo, per conoscerlo più profondamente. In seguito, tutta la filosofia moderna ha assunto un indirizzo spiccatamente antropocentrico. Oggi, anche chi crede nella possibi- lità della metafisica ossia nella possibilità di un sapere filosofico in- torno all'essere assoluto, ritiene di doverla sviluppare partendo dal- l'uomo. Attualmente persino i teologi ritengono opportuno se non proprio necessario dare alla loro disciplina un'impostazione antro- pocentrica. Ma questa tendenza dei metafisici e dei teologi di portare l'uomo al centro delle loro considerazioni rende più acuto che mai il pro- blema di sapere chi sia l'uomo. Infatti senza una soluzione adegua- ta di questo problema ogni tentativo di elaborare dottrine metafi- siche, etiche, politiche, religiose, sociali è inevitabilmente destinato al fallimento. Chi è, dunque, l'uomo? 73 Nel secoli la filosofia ha sempre studiato l’uomo L’interrogativo fondamentale: l’uomo chi è? La complessità della realtà ““uomo”' definito ‘‘mistero’’ da sant'Agostino Il problema antropologico si riferisce all'essenza propria dell’uomo Tre prospettive di ricerca sull'uomo: Sant'Agostino, che è uno degli autori che hanno studiato più at- tentamente la realtà umana, a questo interrogativo risponde di- cendo: « Grande mistero è l'uomo ».! L'uomo, infatti, a causa della complessità del suo essere, fisico e psichico ad un tempo, confinato in una piccola zona dello spazio col suo corpo, ma in grado di scaval- care tutti i confini dell'universo con la sua mente, è effettivamente una realtà di cui è impossibile ottenere una comprensione e fornire una spiegazione sicura ed esaustiva. L'uomo è una realtà estremamente complessa. Ciò è vero anzitut- to nell'ordine dell'azione. Egli esplica attività d'ogni genere: cono- sce, studia, scrive, parla, lavora, gioca, prega, canta, ama, soffre, gode, mangia, ecc. Ed ognuna di queste attività solleva interrogativi e problemi di non facile soluzione. Ma la complessità diventa ancora più accentuata quando si passa dal piano dell'azione a quello dell’es- sere. Allora ci si domanda: chi è questo individuo singolare che chiamiamo Io e che qualifichiamo come persona? Che cos'è che con- sente al suo corpo di esplicare le suddette attività molte delle quali trascendono così palesemente i confini della materialità? È mai pos- sibile decifrare l'essere profondo dell’uomo? Il problema-uomo investe pertanto tutti i campi della filosofia, dalla logica alla gnoseologia, alla cosmologia, alla metafisica, all’eti- ca, alla politica, alla cultura, all'arte, alla psicologia, alla religione. Una antropologia generale dovrebbe affrontarlo nella sua tota- lità e trovare una risposta per ogni specifico interrogativo. Ma, di solito, quando si parla di problema antropologico non si intende riferirsi al problema di questa o di quella attività umana (per esem- pio al problema della conoscenza oppure della libertà, del lavoro, ecc.) ma al problema della natura umana in quanto tale: qual è l'essenza propria dell'uomo? quali sono i suoi elementi costitutivi fondamentali? in che rapporto si trovano tra di loro? quale l’ori- gine prima e il fine ultimo dell’uomo? È appunto di questa serie di interrogativi che noi terremo conto tracciando il quadro storico del problema antropologico. 2. Panorama storico Agli interrogativi: chi è quell’essere vivente che chiamiamo uomo? quali sono gli elementi costitutivi della sua natura? in che rapporto si trovano tra di loro? sono state date le risposte più disparate, le quali tuttavia sono riducibili ad alcuni tipi fondamentali, qualora si tenga conto della prospettiva in cui si sono collocati i filosofi op- pure del metodo che hanno impiegato nell’elaborarle. Le prospettive principali sono tre, cosmocentrica, teocentrica e antropocentrica. ! S. AcostINO, Confessioni, IV, 14. 74 La prospettiva cosmocentrica assume come punto d'osservazione il mondo. È la prospettiva della filosofia greca. Platone, Aristotele, gli Epicurei, gli Stoici, i Neoplatonici quando studiano l'uomo lo situa- no all’interno del mondo e lo considerano alla luce della visione che hanno di quest’ultimo. La prospettiva teocentrica assume come punto d'osservazione Dio. È la prospettiva della filosofia cristiana dei Padri e degli Sco- lastici. Questi si accostano all'uomo in un contesto teologico ossia tenendo conto di quanto Dio stesso ha fatto conoscere all'umanità riguardo alla realtà divina, umana e cosmica. La prospettiva antropocentrica prende come punto di riferimento l'uomo stesso, focalizzando questo o quell'altro suo aspetto caratte- ristico. È la prospettiva propria della filosofia moderna. A partire dall’Umanesimo tutte le antropologie, quella di Cartesio come quella di Hume, quella di Kant come quella di Hegel, quella di Comte come quella di Freud, quella di Nietzsche come quella di Heidegger, ecc., pur tra grandi e profonde divergenze, concordano nell’assumere la stessa prospettiva antropocentrica. Se, però, per classificare le antropologie, anziché la prospettiva si prende come fondamento il metodo, allora si ottengono quattro ti- pi principali: — antropologie metafisiche, le quali si valgono del metodo me- tafisico. Sono quelle di Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tom- maso, Cartesio, Spinoza, Leibniz, ecc. — antropologie naturalistiche, le quali applicano anche allo studio dell’uomo il metodo positivo-scientifico. Sono le antropologie di Darwin, Comte, Spencer, Freud, ecc. — antropologie storicistiche, le quali adoperano il metodo sto- rico. Di queste le più rappresentative sono quelle elaborate da Vico, Marx, Croce, Gadamer, ecc. — antropologie esistenziali, le quali si servono del metodo fe- nomenologico. A questo gruppo appartiene la maggior parte delle antropologie più recenti. Tra queste ricordiamo le analisi di Scheler, Heidegger, Sartre, Ricoeur, Merleau-Ponty, Marcel, Gehlen, ecc. Qui, a motivo dei limiti che ci siamo imposti nel presente scritto, non ci è consentito di tracciare un panorama completo delle antro- pologie che abbiamo ricordato. Illustreremo soltanto alcune posi- zioni più rappresentative e storicamente più influenti. Sono posi- zioni che si trovano già delineate nella filosofia greca. Nella cultura greca la posizione dell'essere umano nell'universo assume indubbiamente maggior rilievo che nelle altre culture ad es- sa contemporanee sia del Medio che dell'Estremo Oriente (cultura babilonese, egiziana, ebraica, indiana, ecc.). E tuttavia anche nella cultura greca la posizione dell'uomo rimane sempre una posizione in- certa, contrastata, subordinata: egli non è padrone dell'universo e neppure della sua storia. Tutti gli sforzi ch'egli compie per affermare se stesso, la propria autonomia, la propria libertà, e per far valere i 75 — cosmocentrica: l’uomo e la visione del mondo — teocentrica: l’uomo e la rivelazione di Dio — antropocentrica: l’uomo a partire da se stesso Quattro metodi di ricerca antropologica: metafisico, naturalistico, storicistico, esistenzialista Soprattutto nella cultura greca emerge lo studio dell’uomo Visione predominante: il fato incombe sull'uomo Altre visioni: — Platone: natura spirituale con libertà assoluta — Aristotele: il limite della corporeità — Plotino: il ritorno dell’anima all’Uno I quattro problemi fondamentali diritti della propria intelligenza sono destinati al fallimento, perché egli rimane inesorabilmente incatenato alle forze del Fato, della Natura e della Storia. La libertà è una vana aspirazione, come pure vana aspirazione è quella di sfuggire alla morsa della morte per rag- giungere l'eternità. Intelligente, coraggioso, forte e astuto l’uomo greco si sente circondato da potenze soprannaturali che sono più forti, intelligenti ed astute di lui. Prometeo incatenato è la figura più emblematica della visione antropologica ellenica. Da tale visione si staccano peraltro le concezioni dell’uomo ela- borate dai filosofi Platone, Aristotele e Plotino. Platone afferma la libertà assoluta dell’uomo, riconoscendogli una natura spirituale che non può in nessun modo essere incate- nata dalle forze del mondo, del tempo e del fato. L'uomo per Platone è essenzialmente anima, spirito. Perciò la sua sopravvivenza, la sua immortalità è fuori questione e non presenta nessun problema. L'u- nico problema per l’uomo è quello di riscattare la sua anima dalla prigione del corpo.’ Aristotele è meno ottimista di Platone riguardo al carattere tra- scendente dell'uomo e all’eternità del suo destino. A suo giudizio l'uomo non è puro spirito, non è essenzialmente ed esclusivamente anima. Come tutti gli altri esseri di questo mondo anche l’uomo è composto di materia (il corpo) e forma (l’anima). Ora, dato che l'anima svolge il ruolo di forma, proprio per questo motivo, nono- stante la sua evidente superiorità rispetto al corpo e alla sua capa- : cità di dedicarsi ad attività sublimi come quella della contempla- zione, non pare tuttavia in grado di sfuggire alla corruzione e di sot- trarsi al flagello della morte. Plotino riprende e sviluppa ulteriormente la concezione plato- nica. Afferma anch'egli la dicotomia tra anima e corpo ed assegna all'anima un'attività che appartiene soltanto ad essa, la contempla- zione. L'anima che conosce la verità può sottrarsi alla prigione del corpo e del mondo, può ritrovare se stessa e ricongiungersi con l'Assoluto, l’Uno. Il ritorno dell'anima alla sua fonte originaria è reso possibile da una tensione che le è connaturale. È una tensione che all’inizio si afferma come impulso oscuro e pressoché inconsa- pevole, ma è già sufficiente a determinare un senso di disgusto per tutto ciò che è molteplice e diveniente. Le tappe del ritorno del- l'anima all’Uno sono tre: ascesi, contemplazione, estasi. Oggi, queste tre visioni antropologiche elaborate da ‘Platone, Ari- stotele, Plotino potranno sembrare inadeguate. Esse hanno comun- que il merito singolare d'avere quanto meno individuato i problemi fondamentali di qualsiasi indagine antropologica: — determinazione di ciò che caratterizza essenzialmente l’uomo, ossia il problema della natura umana; ? Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 88-91. ? Ivi, pp. 137-139. * Ivi, pp. 185-186. 76 — funzione e consistenza dell'elemento psichico, ossia proble- ma della sostanzialità dell'anima; — rapporti tra elemento psichico ed elemento somatico, ossia problema dei rapporti tra anima e corpo; — destino ultimo dell'essere umano: ossia problema dell’immor- talità dell'anima. Su questi quattro problemi fondamentali si è incentrata l'atten- zione di tutti i filosofi posteriori, del Medioevo e dell’epoca moderna, allorché hanno affrontato il problema antropologico. Sul problema della natura umana, fino al secolo scorso c'è stato un accordo costante tra i filosofi nel situarla nell'elemento razionale, come avevano già indicato Platone, Aristotele e Plotino: l’uomo è essenzialmente animale ragionevole (anima! rationale). Agostino, Tommaso, Scoto, Occam, Cartesio, Spinoza, Locke, Leibniz, Kant, Hegel, convengono tutti su questo punto. Ma da un secolo a questa parte si è cominciato a rilevare che nell'uomo esistono altre dimensioni e manifestazioni altrettanto ti- piche e fondamentali quanto quella del conoscere, come il parlare, il lavorare, il giocare, l’amare, il pregare, ecc. Sono così sorte nuove antropologie che definiscono l'uomo in base a queste altre sue at- tività. Tra le definizioni che hanno suscitato maggior interesse ricor- diamo quelle di Marx (essere economico), Freud (essere sessuale), Heidegger (essere ex-sistente), Marcel (essere problematico), Fink (essere ludico), Gadamer (essere storico), Ricoeur (essere fallibile), Buber (essere dialogante), Bloch (essere utopistico), Luckmann (essere religioso), Eliade (essere mitologizzante), Tillich (essere a- lienato), Sartre (essere libero). Per ultima riportiamo quella di Scheler che definisce l'uomo « l'essere capace di dire di no all’im- pulso istintivo ». Anche altri filosofi, come Plessner, Gehlen, Litt han- no confermato il concetto che il tratto essenziale dell'uomo sia la rottura con l’istinto, valendosi dei risultati delle ricerche biologiche. Naturalmente in questa sede non possiamo esporre le ragioni con cui i vari autori giustificano le loro definizioni della realtà umana. Possiamo tuttavia affermare che in generale si tratta di ragioni valide. Essi fanno vedere che sotto l’aspetto della tecnica, del linguaggio, del gioco, della cultura, della religione, dell'amore, ecc., l'uomo sovrasta infinitamente tutti gli esseri che lo circondano e che, pertanto, ci si può servire di ciascuno di tali aspetti a modo di principio erme- neutico della natura umana. Occorre tuttavia riconoscere che la com- prensione di tale natura riesce più chiara e profonda se non la si ac- costa alla prospettiva di una sola attività, ma di molte. Le antropo- logie pluriprospettiche sono quindi preferibili alle antropologie che esplorano l'uomo da un solo punto di vista. Queste ultime riescono difficilmente ad aggirare lo scoglio del riduttivismo. Il problema dell’esistenza dell'anima e del suo carattere sostan- ziale è indubbiamente il più difficile dei problemi antropologici. Pla- tone fu il primo ad affrontarlo in modo esplicito e rigoroso. Nel 77 L’essenza razionale della natura umana La pluralità delle dimensioni Validità delle antropologie pluriprospettiche Platone: spiritualità e immortalità dell'anima Agostino, Cartesio, Leibniz: la sostanzlalità dell’anima Lucrezio, Hobbes, Marx, Comte e altri: l’anima epifenomeno della corporeità Fedone egli prende in esame l'obiezione di coloro che negano al- l'anima il carattere sostanziale, dicendo che essa non è altro che un epifenomeno del corpo: l’anima non sarebbe altro che uno splen- dido accordo degli elementi che costituiscono il corpo. Platone re- spinge l’obiezione rilevando che l’anima, lungi dall'essere in accordo col corpo, si trova praticamente in costante dissidio con esso; infatti le esigenze dell'anima sono in perenne contrasto con quelle del corpo. Per esempio « nel corpo c’è arsura e sete, e l’anima lo tira al contrario a non bere; c'è fame, e l’anima lo tira a non mangiare, e così in mille altri casi in cui vediamo che l’anima si oppone alle passioni del corpo ».î Quindi per Platone non c'è nessun dubbio che l'anima è una sostanza, una sostanza di natura spirituale, incorrutti- bile e immortale. Essa stessa costituisce la vera autentica essenziale natura dell'uomo. L'uomo è l’anima. Il corpo è la prigione in cui l'anima espia le sue colpe. Dopo Platone il problema della sostanzialità dell'anima continua a suscitare dispute assai vivaci, ricevendo soluzioni molto diverse e contrastanti. Alcuni autori (Agostino, Cartesio, Leibniz) seguendo l'esempio di ‘Platone affermano che l’anima è una vera sostanza e che la sua sostanzialità si identifica con quella dell’uomo. Le ragioni che adducono a sostegno di questa tesi sono in parte di ordine mo- rale (come l'aspirazione dell'uomo ad una vita di perfetta felicità, che non può trovare attuazione in questo mondo) e in parte d'ordine gnoseologico (per esempio, il possesso di verità assolute che non sembrano tratte dall’esperienza)£ Secondo un altro gruppo di filosofi (Lucrezio, Pomponazzi, Hob- bes, Marx, Comte, i neopositivisti, gli strutturalisti e molti altri pensatori contemporanei) l’anima non è affatto una sostanza ma semplicemente una trasformazione inconscia ed immaginaria (un epifenomeno) della corporeità. Le ragioni che adducono a sostegno della loro posizione sono note. A loro giudizio la fonte unica d'ogni cosa è la materia. Da essa si sviluppa tutto quello che noi osserviamo nell'universo, compreso l’uomo. Anche ciò che c'è di più alto e di più sublime in lui, come la scienza, l’arte e la morale, è tutto frutto della potenza inesauribile della materia. Quindi anche l'insieme di quegli aspetti superiori dell'uomo per spiegare i quali di solito si postula l’esistenza dell'anima non sono il frutto di « uno spirito che abita nella macchina », ma il risultato più o meno casuale di un alto grado di evoluzione della materia.” Secondo san Tommaso, il quale su questo punto ritiene di inter- pretare il pensiero autentico di Aristotele, e secondo la nutrita schie- ra di discepoli che l’Aquinate ha avuto durante la Seconda Scolastica (Silvestri, Caietano, Suarez) e durante la rinascita neotomistica (Mer- 5 PLATONE, Fedone, c. 43. * Cfr. B. MonpIN, ‘vol. I, pp. 226-227; vol. II, pp. 189-191. ? Cfr. J. Monop, Il caso e la necessità: saggio di filosofia naturale e della biologia contemporanea, Mondadori, Milano 197 78 cier, Gilson, Maritain, Masnovo, De Finance, ecc.) il possesso da parte dell’uomo di un'anima spirituale è una verità indiscutibile, ma essi non condividono la tesi di Platone secondo cui l’anima si identifica con l'uomo, perché l'anima da sola non è in grado di svol- gere tutte le attività che sono tipiche dell'uomo, come sentire, par- lare, lavorare, giocare, ecc. E tuttavia essendo l’anima dotata di al- cune attività proprie come il riflettere, il ragionare, il giudicare, il volere liberamente, anch'essi affermano che l'anima è dotata di un suo proprio atto di essere e che pertanto è una sostanza completa: è una sostanza completa in ordine all'esistenza ma non in ordine alla specificazione. Essa ottiene la propria specificazione nella scala de- gli esseri soltanto unendosi al corpo. C'è infine un altro gruppo di filosofi che ha per capostipiti Hume e Kant, il quale, per ragioni d'ordine gnoseologico, nega che si possa risolvere il problema della sostanzialità dell'anima. Questo è un pro- blema che riguarda « la cosa in sé », mentre la nostra mente è com- petente soltanto su quanto concerne la sfera dei fenomeni? Oggi, con la crisi profonda che sta attraversando la metafisica e con quello scetticismo che sta aggredendo anche la scienza, la posizione, agno- stica di Kant e di Hume incontra un numero sempre più grande di sostenitori. Strettamente connessi col problema della sostanzialità dell'anima sono gli altri tre problemi principali dell'’antropologia: origine del- l'anima, rapporti dell'anima col corpo, e destino ultimo dell'essere umano. Per il problema dell'origine dell'anima i filosofi hanno proposto le seguenti soluzioni: — traducianesimo, ossia derivazione dell'anima dei figli da quella dei genitori (analogamente a quanto succede per il corpo). Questa posizione è stata assunta da Tertulliano e Agostino per rendere in- telligibile la trasmissione del peccato originale; — emanazione dall'essere supremo: dal Logos secondo gli Stoi- ci, dall'Uno secondo i Neoplatonici, dalla Sostanza secondo Spi- noza, dallo Spirito assoluto secondo gli Idealisti; — creazione simultanea di tutte le anime prima oppure nel mo- mento stesso dell'origine del mondo. Questa tesi è stata proposta da Platone, Filone Alessandrino e Origene; — creazione individuale e diretta di ogni singola anima da parte di Dio nel momento stesso della formazione del corpo. È la tesi più diffusa tra i pensatori cristiani d'ogni tempo, condivisa anche da quasi tutti i massimi esponenti della filosofia moderna (Cartesio, Vico, Campanella, Locke, Berkeley, Leibniz, ecc.); * Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 289-290. * Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp. 345-347. 79 Da Aristotele e Tommaso al neotomismo: sostanzialità dell'anima e specificazione in unione al corpo L’agnosticismo di Hume e Kant. La crisi scettica attuale Il problema dell’origine: traducianesimo, emanazione, creazione, evoluzione Creazione ed evoluzione Origine spirituale dell'anima: è creata da Dio Il rapporto anima- corpo: a) unione accidentale — evoluzione dalla materia: è la tesi patrocinata da tutte le cor- renti moderne di ispirazione materialistica. Di queste soluzioni le prime tre oggi non trovano più sostenitori e il campo delle scelte è pertanto ridotto a due: creazione individuale da parte di Dio e evoluzione dalla materia. Qual è quella giusta? Le anime discendono direttamente da Dio o sono invece derivate dal- la materia? A nostro avviso la seconda soluzione ha un solo argomento dalla sua parte: la promozione della conoscenza scientifica a metro esclu- sivo di qualsiasi verità e, conseguentemente, il rifiuto di prendere in considerazione fenomeni che non sono suscettibili di verifiche sperimentali, come il fenomeno della riflessione, della libera scelta, dell'autotrascendenza, ecc. Ma per chi non vuole prestar fede al dog- ma dello scientismo, la derivazione dell'anima dalla materia non trova nessuna giustificazione e diviene, per contro, plausibile la tesi della sua origine per creazione. Anzi, una volta che per spiegare fenomeni come la riflessione, il giudizio, il ragionamento, l’auto- trascendenza, la libera scelta, ecc., si ammetta nell'uomo l’esistenza di un elemento spirituale, l’anima, non è più possibile derivare il suo essere dal basso, dal mondo fisico, dalla materia, perché tra l’a- nima quale si rivela nella sua essenza e nelle sue proprietà e il mondo fisico si spalanca un abisso che nessun processo evolutivo di ordine materiale ha la possibilità di colmare. ‘Pertanto su questa questione ci pare che abbiano perfettamente ragione quei filosofi i quali riten- gono che l’anima abbia origine dall'alto, abbia cioè un'origine spi- rituale e non materiale. Il loro argomento, ridotto all'osso, è il se- guente: l’origine dell'anima dev'essere conforme al suo essere. Ora, essendo il suo essere di natura spirituale, è necessario concludere che anche la sua origine abbia carattere spirituale, vale a dire essa non può essere causata che da Dio; si deve pertanto trattare di crea- zione, perché così si chiama l’azione con cui Dio causa l'esistenza del- le creature. Quanto al problema dei rapporti tra anima e corpo, anch'esso ha ricevuto soluzioni molto disparate, che tuttavia in generale sono perfettamente coerenti con le posizioni che gli autori hanno assunto sul problema della natura dell'anima e della sua sostanzialità. Le più significative sono le seguenti: — unione accidentale. È una delle tesi che ha trovato il più ampio coro di consensi; patrocinata anzitutto da Pitagora e Platone è stata in seguito ripresa e sviluppata dai loro innumerevoli disce- poli di cui i più illustri sono Agostino, Bonaventura, Cartesio, Mà- lebranche e Leibniz. Tutti questi autori considerano l'unione tra anima e corpo un'unione accidentale, ossia un'unione tra due so- stanze già completamente strutturate, ciascuna dotata d'un proprio atto di essere, due sostanze assolutamente eterogenee e pertanto aliene da qualsiasi saldatura profonda e duratura. Com'è noto, Pla- tone paragona l'unione dell'anima col corpo a quella del nocchiere 80 alla nave o del cavaliere al cavallo. Malebranche parla di una unione puramente occasionale; Leibniz di un'armonia prestabilita. Cartesio, infine, fissa una localizzazione ben precisa alla saldatura tra l'anima e il corpo: essa avviene nella ghiandola pineale;! — unione sostanziale. È la tesi che Aristotele ha contrapposto a Platone e Tommaso ad Agostino. Secondo lo Stagirita e l’Aquinate l'unione tra l’anima e il corpo è una unione profonda, sostanziale, duratura, perché non è l'incontro fra due sostanze già dotate di un loro essere autonomo prima di incontrarsi, bensì di due elementi sostanziali di cui almeno uno, il corpo, non dispone di un suo proprio atto di essere. La loro unione è simile a quella della materia con la forma sostanziale: due elementi che si compenetrano da capo a fondo, così da formare una sola, unica sostanza;! — identificazione dell'anima col corpo. È la tesi dei materialisti, positivisti, neopositivisti, strutturalisti e di altri autori i quali negando all'anima qualsiasi carattere sostanziale, risolvono il suo es- sere in quello della corporeità; . — posizione agnostica. È la posizione di Hume, Kant e dei loro rispettivi discepoli, i quali, ritenendo che nulla si possa dire del- l'anima come « cosa in sé », concludono logicamente che non è neppure possibile pronunciarsi sulla natura dei suoi rapporti col corpo.!? Anche il problema del destino ultimo dell'essere umano segue la strada già segnata precedentemente dalle soluzioni che i vari autori elaborano per il problema della natura dell'anima e della sua sostan- zialità. Le soluzioni basilari sono tre: — estinzione dell'essere dell'uomo con la morte: la morte non segna soltanto la fine del corpo ma di tutto l'essere dell'uomo, anima compresa. Questa tesi che fino agli inizi del secolo scorso aveva in- contrato il favore di pochissimi pensatori, a partire da Feuerbach, Marx, Comte, Nietzsche, diviene la tesi maggiormente seguita. Og- gi è sostenuta dalla maggior parte degli esistenzialisti, dai neo- positivisti, dai materialisti, dai marxisti, dagli strutturalisti e da molti altri ancora; — sopravvivenza dell'anima dopo la morte del corpo. Questa te- si avanzata in sede filosofica per la prima volta da Pitagora, Socrate e Platone è stata in seguito ripresa e sviluppata con ogni sorta di argomentazioni da quasi tutti i filosofi del Medioevo e dell’epoca moderna. Tra gli argomenti più suggestivi a favore dell'immortalità dell'anima ricordiamo i seguenti: a) argomento di Platone. È basato sulla conoscenza che l'anima ha delle idee del Bello, del Bene, del Vero, del Giusto, del Santo, ecc. Ora, questa conoscenza si raggiunge non mediante i sensi, ma pi$t- tosto con l’allontanamento da essi. Vi è quindi una vita propria dello !° B. MONDIN, vol. I, ‘pp. 88 ss.; vol. II, pp. 1402142; 189-191. 1! Ivi, pp. 137-139; 286-290. !? B. MONDIN, vol. II, pp. 238-239; 345-347. B1 b) unione sostanziale c) identificazione d) agnosticismo Il destino ultimo: estinzione o sopravvivenza? Immortalità dell'anima secondo: — Platone: l’affinità dell'anima con il mondo delle idee — Agostino: la conoscenza delle verità eterne — Tommaso: il desiderio naturale della sopravvivenza — Cartesio: non si può provare la corruttibilità dell'anima spirito, che si svolge tutta sola, indipendentemente dal corpo. « Quan- do compie da sola la ricerca, l’anima si slancia verso ciò che è puro, eterno, immortale e sempre uguale a se stesso; e, sentendo la pro- pria affinità con esso, vi dimora per tutto il tempo che le è con- cesso, e trova pace nel suo errare, e posta in contatto con tali realtà, permane essa stessa costante e immutabile ».* L'affinità, la parentela con l'Idea, che è eterna, è il perno dell'argomento platonico. In quanto spirito la nostra anima è fatta per l’Idea e di essa si nutre e per essa vive della vita dello spirito. Ora l’Idea è eterna, immuta- bile. Di conseguenza anche la nostra anima, che è affine ad essa e vive di essa, è eterna ed immutabile; b} argomento di sant'Agostino. È basato anch'esso sulla cono- scenza delle verità eterne. « L'anima, dice Agostino, nella conoscen- za intellettiva attinge la verità. Ora, in quanto sede della verità, l’a- nima è immortale allo stesso modo della verità. Infatti se ciò che si trova in un soggetto è eternamente duraturo, è necessario che lo stesso soggetto sia eternamente duraturo. Ma poiché ogni scienza risiede sempre in un soggetto, è necessario che l’anima duri per sem- pre. Ma dato che la scienza è verità e la verità dura per sempre, anche l’anima dura per sempre, né si potrà mai dire che essa muore »;! c) argomento di san Tommaso. È basato sul desiderio naturale che l'uomo ha di sopravvivere alla morte e di non morire mai. Ecco come ragiona san Tommaso: « È impossibile che una tendenza na- turale sia vana. Ora l'uomo brama per natura di durare in perpetuo. E questo appare chiaro dal fatto che l'essere è ciò che da tutti è desiderato; l’uomo poi mediante l'intelletto percepisce l'essere non soltanto in un dato momento (come si trova realizzato hic et nunc), a modo degli animali bruti, ma assolutamente. Dunque l’uomo con- segue la perpetuità nella sua parte spirituale, vale a dire l’anima, per la quale percepisce l'essere assolutamente e secondo ogni tempo »;! d) argomento di Cartesio. È basato sull'impossibilità di provare che l’anima umana sia logorata dal tempo e destinata a perire: « Non abbiamo nessun argomento e nessun esempio che ci persuada che la morte, o l'annientamento di una sostanza quale lo spirito, debba seguire da una causa così leggera come un cambiamento di figura, il quale non è altro che un modo, e di più un modo del corpo e non dello spirito... Non abbiamo nessun argomento né esempio che ci possa convincere che vi sono delle sostanze spirituali soggette ad essere annientate »; — posizione agnostica. È la posizione di coloro che ritengono che il problema della sopravvivenza dell’uomo dopo la morte del corpo sia insolubile. Tracce di questa posizione si incontrano già 4 :PLATONE, Fedone, c. 27. 4 S. AcosTINO, Soliloquia, II, c. 13. 4 S. TomMaso, Summa contra gentiles, II, c. 79. * CARTESIO, Meditazioni, Laterza, Bari 1954, p. 156. 82 in alcuni filosofi del Medioevo (Abelardo, Scoto, Occam) e del Rinascimento (Valla, Zabarella, Caietano); ma diviene una posizione molto seguita dal momento in cui essa ottiene il suffragio di due dei massimi esponenti della filosofia moderna: Hume e Kant, i quali come sappiamo, in conseguenza dei loro postulati epistemologici, ritengono che la sfera della realtà oggettiva (sia essa materiale oppu- re spirituale) sia inaccessibile alla nostra mente. La posizione agno- stica è molto diffusa anche ai nostri giorni. Ci sono, oggi, tanti stu- diosi i quali non negano l'immortalità dell'anima ma ritengono che non sia possibile risolvere questo problema mediante prove attinte dalla metafisica. C'è poi un gruppo di teologi capeggiato da Barth e Cullmann, il quale considera la teoria dell'immortalità dell'anima incompatibile con la Rivelazione biblica e, pertanto, ritiene che il cristianesimo primitivo si sia reso colpevole di un errore imperdo- nabile allorché ha tradotto la dottrina biblica della risurrezione dei morti nella teoria greca dell'immortalità dell'anima.” Tale è, a grandi linee, il quadro del problema antropologico così come si è venuto delineando attraverso i secoli. Con la sua lunga serie di tentativi di soluzione, tentativi quasi sempre insoddisfacen- ti, esso comprova l'esattezza della affermazione di Agostino: « Gran- de mistero è l'uomo ». In effetti, messi di fronte a noi stessi, per cercare di cogliere la vera natura del nostro essere ed il nostro ultimo destino, dobbiamo riconoscere che non riusciamo a realizzare que- sta impresa: capaci di risolvere complicati problemi relativi alla fisica, alla matematica, all'astronomia, all'economia, alla politica, ecc., non siamo però in grado di spiegare con sufficiente chiarezza la problematicità del nostro essere, della nostra vita e del nostro de- stino. 3. Il significato dell’autotrascendenza Una delle costanti del comportamento umano è di superare, tra- scendere sistematicamente quello degli animali: l'uomo sorpassa gli animali nel pensiero, nella libertà, nel lavoro, nella parola, nel di- vertimento, nella tecnica ed in tante altre cose. ° Ma ciò che è ancor più singolare è la presenza in tutte le espres- sioni dell'agire umano di un altro tipo di superamento, di trascen- denza, la quale non è più volta verso l'esterno, verso gli altri esseri viventi, bensì verso l'interno, verso l’uomo stesso: questi in tutto ciò che fa, dice, pensa, vuole, desidera, mostra di tentare costante- mente di superare se stesso. L'uomo è essenzialmente segnato dal- l’autotrascendenza. .I filosofi del nostro tempo ancor più che i filosofi dei secoli pre- ” O. CULLMANN, « Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti», in Protestantesimo, 1956, pp. 48-74. 83 Insolubilità del problema: l’agnosticismo da Abelardo a Kant Barth e Culmann: incompatibilità tra immortalità e risurrezione Trascendenza e autotrascendenza: la tensione oltre il limite Soluzione egocentrica: il perseguimento della propria perfezione Ritrovare se stessi in pienezza cedenti vedono nell’autotrascendenza il tratto più caratteristico del- l'essere umano e ritengono quindi che si possa giungere alla com- prensione di quest'ultimo soltanto chiarendo il senso dell'auto- trascendenza. Ma su questo punto le loro opinioni sono discordi. Vo- lendo schematizzare si possono ridurre a tre. Secondo alcuni l’auto- trascendenza ha come obiettivo il perfezionamento del soggetto che si autotrascende (soluzione egocentrica). Secondo altri il suo obiet- tivo è il perfezionamento della comunità, dell'umanità (soluzione filantropica). Secondo altri ancora il suo obiettivo primario è Dio: chi si autotrascende si distacca da se stesso per raggiungere Dio (soluzione teocentrica). a) Soluzione egocentrica - In tutte le epoche della storia troviamo filosofi insigni che interpretano l'autotrascendenza come supera- mento di ciò che l'uomo è attualmente al fine di raggiungere uno stato superiore di esistenza, di perfezione, di felicità. Tra i sosteni- tori più rappresentativi di questa soluzione figurano Platone, Aristo- tele, gli Stoici, Cartesio, Hegel, Nietzsche, Sartre. ‘Sul senso ultimo dell'esistenza umana tutti gli autori citati ma- nifestano un sostanziale accordo. Secondo il loro modo di vedere, l'uomo nella vita presente si trova in una situazione precaria, piena di deficienze e di miserie. C'è però nell'uomo una tensione (più o meno forte a seconda dei casi) di superare tale situazione e di libe- rarsi-dalla schiavitù dell'ignoranza, dell'errore, della paura, delle passioni. Ma questo sforzo di autotrascendenza non vuole essere un’alienazione da se stessi e un'immersione in qualche altro essere diverso da sé. L'intento dell’autotrascendenza è di ritrovare se stessi mediante l'acquisto di un essere più vero, più proprio e più autentico, effettuando una attuazione più piena e più completa delle proprie possibilità. A nostro parere questa interpretazione dell’autotrascendenza è valida nei limiti di ciò che afferma. Essa riconosce giustamente che l'uomo supera costantemente se stesso non per disfarsi della propria realtà ma per realizzarla più pienamente. L'uomo vuole acquisire nuovi livelli di conoscenza, nuovi gradi di cultura e di benessere, ma senza buttare a mare quanto già conosce, può e possiede. L'auto- trascendenza non è una restituzione della macchina vecchia per l’ac- quisto di quella nuova, ma è piuttosto una revisione e un nuovo col- laudo della macchina vecchia. L'autotrascendenza non è un'immola- zione di se stessi a vantaggio di qualche altro. Ma essa è anzitutto e soprattutto ricerca d'un essere personale più perfetto. Però in questa interpretazione dell’autotrascendenza rimane insoluto il problema di come si possa portare a compimento questo processo di più completa autorealizzazione, in quanto da tutti gli autori sopracitati questa impresa è affidata alla iniziativa e alle forze dell'uomo. Ora, l’esperienza insegna che nella maggior parte dei casi i nostri sforzi vengono sistematicamente frustrati: non acqui- siamo mai né il sapere, né l'avere, né il potere, né l'essere che vor- 84 remmo. Ma allora l’autotrascendenza non diviene uno sforzo insen- sato e vano? A questo interrogativò cruciale l’interpretazione ego- centrica non offre nessuna risposta. Per avere una risposta dobbia- mo rivolgerci alle altre due interpretazioni. b) Soluzione sociocentrica - A partire da Marx e Comte numerosi autori hanno visto nell’autotrascendenza un movimento di supera- mento dei confini dell’individualismo e dell'egoismo e un tentativo di dare origine ad una nuova umanità affrancata dalle miserie indi- viduali e dalle diseguaglianze sociali e quindi in grado di conseguire la perfetta felicità. Recentemente questa concezione dell'autotrascen- denza ha trovato dei validi interpreti soprattutto nei marxisti revisio- nisti, Bloch, Marcuse e Garaudy. A nostro avviso questa interpretazione contiene un punto assai positivo: il riconoscimento che il movimento di autotrascendimento ha anche una dimensione sociale: è l'uomo come essere socievole che si autotrascende e non come una monade senza porte e senza finestre. Del resto questo trascendimento a livello sociale oggi è am- piamente testimoniato dalle contestazioni che le giovani generazioni (ma non soltanto loro) sollevano contro le strutture attuali della so- cietà (di qualsiasi società sia capitalista che socialista). Ma il riconoscimento che l’autotrascendenza abbia una compo- nente sociale non significa affatto che essa non comporti anche un elemento personale. Quanto è stato affermato dalla concezione ego- centrica non può essere ignorato completamente come fanno tutti i marxisti, sia quelli ortodossi che i revisionisti. E pertanto la soluzione che Marx e discepoli offrono al problema dell'autotrascendenza non può essere accolta. Pure ammesso (anche se ciò è decisamente assai improbabile) che nel suo progressivo auto- trascendersi l'umanità raggiunga uno stadio finale di perfetta rea- lizzazione di se stessa e delle proprie esigenze, questo non offre nes- suna risposta al problema della propria, personale autotrascendenza. In effetti nessuna comunità storica organizzata, nessuna economia, nessuna politica, nessuna cultura umana riescono ad esaurire l’esi- genza di totalizzazione delle persone che trova espressione nell’auto- trascendenza. Per questo motivo assegnare al movimento di autotra- scendenza traguardi affascinanti e spettacolari che potranno essere raggiunti dall’umanità soltanto in un lontano futuro, come fanno Marx, Comte, Bloch, Garaudy e altri, significa lasciare completa- mente disattese e deluse speranze reali degli uomini d'oggi, che oltre che collettivamente e socialmente sperano anche e soprattutto individualmente e personalmente, ciascuno per il proprio essere, e non tanto per la realizzazione di una nebulosa « società senza clas- si », di cui siamo ben poco sicuri di poter mai far parte.!? Ha ragione quindi Helmut Gollwitzer quando scrive: « Tutti i o Cfr. J. DE FINANCE, Essai sur l'agir humain, Gregoriana, Roma 1962, P. S. Ivi, pp. 185 ss. 85 Soluzione sociocentrica: la realizzazione di una nuova umanità Componente sociale ed elemento personale Contingenza dei fenomeni ed esigenza del significato dell’uomo Soluzione teocentrica: Dio è l'Alfa e l’Omega dell’autotrascenden- za L’autotrascendenza come prova dell’esistenza di Dio fenomeni di questo mondo sono destinati a decadere col tempo; non possono quindi conferire un senso permanente alle cose. Non rimane allora che l’uomo a dare un significato all'uomo. Ma il prossimo che è altrettanto transitorio e imperfetto, non è capace di fornire questa spiegazione — per quanto ci si possa, nel caso pratico individuale, attaccare al prossimo nella speranza di trovare in lui il significato dell’esistenza —. Sembra allora più qualificata a far ciò l'umanità nel suo complesso, la cui durata supera di gran lunga quella dell’indi- viduo. Essa però è un'astrazione di grado elevato e bisognerebbe chiudere gli occhi per ignorare il fatto che anch'essa è un fenomeno passeggero nel cosmo. Per trovare un significato, si deve presuppor- re un'istanza permanente. Mancando questa, s'impone all'uomo e al- l'umanità un peso che non possono portare, un compito che non possono svolgere ».® c) Soluzione teocentrica - Molti studiosi all'autotrascendenza danno un senso teocentrico: l’uomo esce incessantemente da se stesso e oltrepassa i confini della propria realtà, perché vi è sospinto da una forza superiore, Dio. Questi grazie alla sua grandezza, bontà, perfezione e onnipresenza polarizza su di sé tutte le creature, in particolare l'uomo. Dio è il punto A/fa e Omega dell'autotrascen- denza. I più validi esponenti di questa interpretazione dell'autotrascen- denza sono Blondel, Rahner, Marcel, Metz, Boros e De Finance. Ma contro questo modo d'intendere l’autotrascendenza si solleva una grossa difficoltà, che è la seguente: l’autotrascendenza teocen- trica dà per scontata la realtà di Dio. Ora questa è una concessione che la filosofia moderna non è affatto disposta a fare. Oggi c'è tutta una schiera di filosofi i quali affermano che Dio è assolutamente in- conoscibile e indimostrabile, oppure dicono che l’idea di Dio è sol- tanto una ipostatizzazione dei bisogni e degli ideali dell'uomo, cioè Dio è una creatura della mente umana. A questa grave difficoltà Blondel, Rahner, De Finance e gli altri sostenitori del senso teocentrico dell’autotrascendenza replicano che la loro interpretazione del movimento di autotrascendimento non presuppone nessuna dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma al con- trario essa fa vedere che è questo stesso movimento a fornire un chiaro documento a favore della realtà divina. Infatti l'autotrascen- denza, essendo un movimento, esige un senso, un traguardo, una meta. Ma s'è già visto in precedenza che né l’io né l'umanità possono fornire il senso richiesto. Perciò non resta altra possibilità che rico- noscere che il senso ultimo dell'autotrascendenza è Dio. Perciò a nostro avviso commettono grave errore quei filosofi (e sono molti) che contrappongono la trascendenza orizzontale a quella verticale, come se si trattasse di due tensioni antitetiche, quando ®* H. GOLLWITZER, La critica marxista della religione e la fede cristiana, Morcelliana, Brescia 1970, p. 118. 86 invece ci sono fondati motivi per credere che la trascendenza oriz- zontale acquista senso e realtà soltanto mediante la irascendenza verticale. Lo stesso Merleau-Ponty ha giudicato stolto il tentativo di opporre trascendenza orizzontale e trascendenza verticale, attri- buendo alla prima quello che si toglie alla seconda e concependo la Storia infinita e progressiva come « una Potenza esteriore », di cui l'uomo non sarebbe che strumento senza sostanza interna. « Non è mai stata tipica di nessuna filosofia, — assicura Merleau-Ponty, — la scelta tra le trascendenze, per esempio quella di Dio e quella del- l'avvenire umano; che anzi è sforzo costante di ogni filosofia me- diare tali trascendenze ».? Questo incontro tra le due trascendenze è stato ultimamente lu- cidamente esplorato da Antoine Vergote. Egli descrive in modo e- gregio la trascendenza orizzontale (egocentrica) nei termini seguen- ti: « L'uomo è corporalmente legato al mondo che lo porta. Ma ne è il centro movente. Tutte le direzioni di senso, in avanti e all’in- dietro, in lontananza e in vicinanza, a destra e a sinistra sono relative alla totalità del suo io corporeo. Centro contingente e asso- luto, riferisce tutto a sé e, nel guardare, toccare o semplicemente nel camminare, si muove nello spazio ambiente. La dimensione oriz- zontale gli offre il campo che si estende davanti a lui. Egli vi sfoggia la sua potenza, lo ordina e gli dà senso. L'orizzontalità è il terreno delle sue possibilità e delle sue realizzazioni. Egli vi mostra la propria vita nell'immediato. Vi si muove instancabile, padrone di quanto lo circonda, dando forma ai suoi desideri e alle sue idee ». Ma nell’uo- mo la trascendenza orizzontale si apre spontaneamente e chiaramen- te verso la trascendenza verticale. Questa è felicemente illustrata dal Vergote nel brano seguente: « Il desiderio dell’uomo, il suo pensiero e il suo linguaggio si slanciano senza tregua al di là del mondo de- gli oggetti o si volgono verso la loro origine, verso la sorgente ori- ginaria da cui scaturiscono. La scissura verticale scava la sua pre- senza negli uomini e nelle cose, perfino quando vuole recuperarsi tra- mite un ritorno orizzontale. Ed è precisamente la presenza interiore di una liberatrice deiscenza verticale che crea nelle cose un'apertura, salvaguardandole da ogni reificazione. È essa che garantisce così al mondo ambiente la sua separazione e la sua autonomia, nei limiti definitivi di un orizzonte del mondo in perpetua estensione ».? A conclusione della sua penetrante analisi del senso della trascen- denza verticale il Vergote scrive: « Il cielo non sovrasta l'uomo come un'oscura trascendenza minacciosa. E non è neppure il miraggio di un paradiso che aliena dai problemi della terra. Delimita invece la terra come dimora e regno dell'umano. Esso è anche l’indizio di un ? M. MERLEAU-PonTY, Signes, 1960, pp. 88-89. Ro La teologia e la sua archeologia, Esperienze, Fossano 1974, pp. 79-80. 87 integrazione della trascendenza orizzontale e verticale Il cielo delimita la terra ma non la nega L’Altro assoluto sorgente dell’ipseità e superamento del limite superamento che non spezza mai il legame terrestre della condizione umana ».# L'uomo non esce dai confini del proprio essere per sprofondare nel nulla, ma esce da se stesso per buttarsi in Dio, il quale è l'unico essere capace di portare l’uomo alla perfetta e perenne realizzazione di se stesso, « Ciò che è necessario riconoscere, è che lo slancio verso l'Ideale non è possibile e non ha significato che a causa della presen- za affascinante e in certo qual modo aspirante dell’Ideale sussi- stente o, per dargli il nome sotto il quale l’invoca la coscienza reli- giosa, di Dio. È lui e lui solo — l'Altro assoluto e cionondimeno la sorgente della mia ipseità — che pur consegnandomi a me stesso mi strappa al mio io; è la sua presenza che introduce in me un principio di tensione interiore e di oltrepassamento ».* Così, lungi dal fondare l’'Ideale, l'autotrascendenza dell’uomo tro- va il suo ultimo fondamento. CONCETTI DA RITENERE — Cosmocentrismo; teocentrismo; antropocentrismo — Antropologia metafisica, naturalistica, storicistica, esistenziale — Traducianesimo; emanazione; creazione simultanea; creazione indivi- duale e diretta; evoluzione; unione accidentale; unione sostanziale; identifica- zione anima/corpo — Posizione agnostica — Estinzione, sopravvivenza — Autotrascendenza; soluzione egocentrica, filantropica, teocentrica SINTESI CONTENUTISTICA I. NATURA DEL PROBLEMA 1. Interesse costante della filosofia per l’uomo fino a farne l’obiettivo pri- vilegiato con i Sofisti e Socrate. 2. La filosofia moderna assume un indirizzo spiccatamente antropocentrico, Oggi persino i teologi ritengono opportuno dare alla loro disciplina una impo- stazione antropocentrica. 3. Diviene pertanto sempre più urgente rispondere all'interrogativo chi sia l'uomo e confrontarsi con la complessità della sua natwira e del suo mistero. Il problema antropologico investe il problema della natura umana in quanto tale: qual è l'essenza propria dell'uomo? quali i suoi elementi costitutivi? quale la sua origine e il suo fine? II. PANORAMA STORICO DELLO STUDIO DELL'UOMO 1. Storicamente si sono delineate tre prospettive di studio: cosmocentrica, teocentrica, antropocentrita: i A a) la prospettiva coòmocentrica (Platone, Aristotele, Epicurei, Stoici, Neo- platonici) situa l'uomo nell'ordine dela natura e lo studiano in relazione ad esso; ® Ivi, p. 107.  J. DE FINANCE, Op. cit., p. 191. 88 b) la prospettiva teocentrica (filosofia cristiana dei Padri della Chiesa e degli Scolastici) considera l’uomo come « immagine di Dio» e lo studia in prospettiva teologica; c) la prospettiva antropocentrica è propria della filosofia moderna e con- temporanea (Umanesimo, Cartesio, Hume, Kant, Hegel, Comte, Freud, Nietz- sche, Heidegger, ecc.) e assume come punto di riferimento l’uomo stesso accen- trandone questo o quell’aspetto. 2. Le antropologie possono distinguersi anche in ordine al metodo: 1) an- tropologie metafisiche (Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tommaso, Carte- sio, Spinoza, Leibniz, ecc.); 2) le antropologie naturalistiche (Darwin, Comte, Spencer, Freud, ecc.); 3) le antropologie storicistiche (Vico, Marx, Croce, Ga- damer, ecc.); 4) le antropologie esistenziali (Scheler, Heidegger, Sartre, Ricoeur, Merleau-Ponty, Marcel, Gehlen, ecc.). 3. Nel panorama antropologico domina il problema della libertà: a) nel mondo classico essa è una vana aspirazione vinta dalle forze del Fato; b) nel mondo post-cristiano emerge come il dono di Dio all'uomo responsabile così della sua storia e del suo destino; c) nell'epoca moderna la libertà legittima il graduale distacco dell'uomo da Dio; d) nell'epoca contemporanea l’antropolo- gia oscilla tra arbitrarietà e condizionamento. 4. Il problema della natura umana è così determinabile: — problema della sostanzialità dell'anima — problema dei rapporti tra anima e corpo . — problema dell'immortalità dell'anima. Il pensiero contemporaneo ha progressivamente accentuato altri aspetti da cui derivano definizioni dell'uomo in base alla sua attività fondamentale: eco- nomico (Marx); sessuale (Freud); esistenziale (Heidegger); storico (Gadamer); fallibile (Ricoeur); dialogico (Buber); utopico (Bloch); religioso (Luckmann); mitologizzante (Eliade); alienato (Tillich); libero :(Sartre); problematico {Mar- cel); ludico (Fink). III. IL SIGNIFICATO DELL'AUTOTRASCENDENZA 1. Il comportamento umano supera quello degli animali. L’agire umano, inoltre, non esprime solo una trascendenza rivolta all’esterno, ma anche ri- volta verso l’uomo stesso. L'uomo è autotrascendente. 2. L'autotrascendenza dell’uomo è interpretata in tre direzioni: a) egocentrica (Platone, Aristotele, Stoici, Cartesio, Hegel, Nietzsche, Sar- tre): l'uomo tende a ritrovare se stesso mediante l'acquisto di un essere più vero, più autentico, attuando pienamente le proprie possibilità; b) sociocentrica (Marx, Comte, Bloch, Marcuse, Garaudy): l’autotrascendi- mento è uscita dall’egoismo e ha una dimensione sociale; c) ieocentrica (Blondel, Rahner, Marcel, Metz, Boros, De Finance): l’uomo esce incessantemente da se stesso e oltrepassa i confini della propria realtà sospinto da una forza superiore, Dio. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Perché l'uomo è un problema a se stesso? Sotto quali aspetti si presenta come un problema filosofico? 2. Quali sono le principali prospettive in cui si sono collocati i filosofi per risolvere il problema antropologico? 3. Quali sono i metodi usati dai filosofi nello studio dell'uomo? 4. Come interpretano i rapporti tra anima e corpo Platone, Aristotele, Agostino, Tommaso, Cartesio, Spinoza, Malebranche, Leibniz? 5. Perché secondo Kant il problema antropologico è insolubile? 6. Perché la morte del corpo non implica necessariamente la fine di tutto l’uomo? 89 7. A che cosa è riconducibile il problema metafisico e religioso come esi- genza peculiare della natura umana? 8. In che rapporto si trova il singolo con le strutture sociali, economiche, politiche? 9. Quali sono le principali opinioni sul significato di autotrascendenza del- l'essere umano? 10. Quale rapporto è possibile stabilire tra l’autotrascendenza e la dimen- sione etica e politica dell'uomo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Il problema filosofico dell'antropologia, Morcelliana, Brescia 1977. AA.Vv., Umanesimo cristiano e umanesimi contemporanei, Massimo, Mila- no 1982. AA.Vv., Antropologia e filosofia della religione, Benucci, Perugia 1982. 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Che cosa accadrebbe se esse scomparissero dal linguaggio umano? 1. L'origine del termine L'origine del termine metafisica è legata all'opera di‘ Aristotele e al destino dei suoi scritti dopo la sua morte. Aristotele morendo lasciò la propria biblioteca al discepolo Teo- frasto. Essa conteneva, oltre le opere pubbliche degli altri filosofi e di Aristotele, anche gli scritti privati del maestro, riservati alla stretta cerchia dei discepoli, tra i quali la Metafisica. A sua volta, morendo, Teofrasto lasciò con la propria biblioteca anche quella di Aristotele a Neleo, discepolo di ambedue. Questi la trasportò a Scepsi, nella Troade, sua patria. Qui i suoi eredi, per sottrarla alle ricerche dei sovrani di Pergamo e di Alessandria, che intendevano ar- ricchire le proprie raccolte acquistando tutte le opere importanti su cui riuscivano a metter mano, la nascosero in un sotterraneo, dove ri- mase poi abbandonata e quasi ignorata fino verso il 100 a.C., anno in cui il bibliofilo Apellicone la scoprì, l’acquistò e la portò ad Atene. Quando nell'86 a.C. Silla conquistò la città, fece portare i preziosi manoscritti a Roma, dove furono affidati ad Andronico di Rodi, affin- ché ne curasse l'edizione completa. Egli li suddivise e, poiché dopo avere ordinato le opere di fisica si era trovato davanti ad un gruppo di 14 libri senza nome, allora aveva deciso di chiamarli «i libri che vengono dopo la fisica » (tà metà tà physicà). Il nome, originato in modo così casuale, corrispondeva effettivamente al contenuto dei volumi: essi infatti trattavano di realtà, qualità, perfezioni, es- seri, che non si trovano oppure non si restringono al mondo fisico, ma vanno oltre, sono cioè « metafisiche »; tutto ciò costituiva per Aristotele la « filosofia prima ». Quindi il nome dato ad un gruppo delle sue opere è passato giustamente a designare quella parte della filosofia che si occupa delle cause ultime, dei principi costitutivi su- premi delle cose. 91 II problema delle cause ultime e dei principi supremi La scienza dell'essere in quanto tale Scetticisti, empiristi e materialisti: negazione della metafisica Il dibattito metafisico non è più controverso di quello scientifico La validità della definizione aristotelica 2. Oggetto della metafisica La metafisica è stata variamente definita: come « scienza suprema in assoluto, che studia l'essere in quanto tale e le proprietà che lo accompagnano necessariamente » ed è « la scienza che esplora le cause prime e i primi principi » (Aristotele); come « scienza dei principi primi della natura e della morale » (Kant); come « immer- sione della propria esistenza nelle possibilità fondamentali dell’esse- re considerato nella sua totalità » (Heidegger); come « riflessione sui principi primi » (Gilson). L'elenco delle definizioni potrebbe con- tinuare ancora, ma quelle riportate bastano ad indicare qual è la preoccupazione che dà vita all'indagine metafisica: è la preoccu- pazione di scoprire le ragioni supreme della realtà. La possibilità della metafisica è stata messa in questione ripetuta- mente per ragioni diverse. Prima dagli scettici a causa della loro sfi- ducia nelle capacità conoscitive dell'uomo, poi dagli empiristi a causa della loro riduzione della conoscenza umana all'esperienza sensitiva, più tardi dai positivisti, dai materialisti, dai marxisti a motivo della loro riduzione di tutta la realtà all'ordine materiale, e, infine, dagli analisti del linguaggio a causa della loro riduzione di tutti i pro- blemi, compresi quelli filosofici, a puri problemi linguistici. Però pare che nessuna delle suddette ragioni abbia valore pro- bativo. Anzitutto non è affatto vero che quando i filosofi discutono della realtà delle cose, della loro origine, del loro essere, della loro natura, del loro divenire, ecc., discutano soltanto sul significato dei termini « realtà », « origine », « natura », « essere », « divenire », per il semplice motivo che i dispareri tra i filosofi non sono di natura diversa da quelli che si incontrano tra gli scienziati. Ora nessuno vorrà affermare che quando i dotti della Sorbona non condividevano la teoria dei coniugi Curie a proposito del radium, il loro disaccordo riguardasse solamente la parola « radium ». Altrettanto si deve dire del disaccordo dei filosofi a proposito dei principi primi della realtà, della natura, dell'essere delle cose. Non sono semplicemente disac- cordi verbali; il disaccordo non verte sul significato delle parole ma sulle cose stesse. Neppure è vero (e la prova è stata fornita nel capi- tolo dedicato al problema epistemologico), che l'uomo è dotato sol- tanto di conoscenze sensitive. Noi possediamo anche una conoscenza superiore a quella sensitiva, di ordine intellettivo, capace di raggiun- gere la verità entro certi limiti. Vengono così a crollare le obiezioni mosse dagli scettici e dagli empiristi alla possibilità della metafisica. Ma, ammessa la legittimità dell'indagine metafisica, qual è l’og- getto al quale essa è diretta? Aristotele, come abbiamo ricordato, determina l’oggetto della metafisica con la celebre espressione: l'essere in quanto tale e le proprietà che l'accompagnano necessariamente. Quasi tutti i filosofi sono d'accordo sulla bontà di questa definizione: chi fa metafisica 92 scruta il mistero dell'essere degli enti al fine di scoprire che cosa sia che dà loro consistenza, che li riempie di realtà. Alla domanda « che cos'è l'essere dell'ente » si arriva così: si osserva anzitutto nelle cose una molteplicità di aspetti, che le ren- dono interessanti, meravigliose, spaventose, problematiche, ecc. A poco a poco, però, un aspetto attira con maggior forza la nostra attenzione, l'aspetto della loro esistenza, il loro essere: anziché non essere, le cose sono! Improvvisamente la mente avverte la fondamen- talità di tale aspetto a paragone di tutti gli altri e comincia ad in- terrogarsi sull'essere delle cose, sull'essere dell'ente e nell’ente. È a questo punto che l'indagine metafisica spicca il suo volo. Quindi l'indagine metafisica è indagine intorno all'essere del- l'ente 0, che è poi lo stesso, indagine intorno all'ente in quanto es- sere. La metafisica è essenzialmente ricerca intorno all'essere. Quan- do invece il filosofo abbandona la questione dell'essere, egli si al- lontana automaticamente dal terreno della metafisica. Da ciò che siamo venuti dicendo risulta che l'oggetto formale della metafisica non è questa o quella cosa, questa o quella qualità, questo o quel principio; oggetto formale della metafisica non è nep- pure l'ente, nessun ente: né l'ente materiale né quello spirituale, né l'ente necessario né quello contingente. Lo studio di questo o quel- l'ente particolare, di questa o di quella specie di ente non spetta alla metafisica ma ad un altro ramo della filosofia oppure ad una delle scienze sperimentali. L'oggetto formale della metafisica è l'essere in quanto tale. L'ente materiale non è il suo oggetto formale ma solo il suo punto di partenza. Solamente l'essere dell'ente (l’ente consi- derato nella sua qualità di essere, l'ente in quanto è, l'ente conside- rato dal punto di vista dell'essere) costituisce l'oggetto formale del- la metafisica. Naturalmente la metafisica non si accontenta di parlare dell'ente in quanto essere, perché il suo resterebbe un discorso puramente a- stratto. Essa deve parlare anche di tutto ciò che è implicato in una risposta esauriente all'interrogativo: « Che cos'è l'essere dell'ente? ». Però è bene precisare che non tutto appartiene al discorso metafisico allo stesso modo. L'essere dell'ente costituisce l'oggetto formale; il resto rientra nel discorso metafisico come risultato dell'indagine. Quindi se per spiegare l'essere dell'ente occorrerà parlare di Dio, questi non entrerà a far parte dell'oggetto formale della metafisica, ma dei suoi risultati. 3. Metodo della metafisica Dunque l'oggetto della metafisica è l'essere in quanto tale. Se- nonché dobbiamo constatare, come osserva giustamente Heidegger, che l'essere non è mai accessibile direttamente e immediatamente: l'essere non si manifesta mai da solo; non ci parla mai a tu per 93 L’essere oggetto della metafisica L’uomo: l’ente che si interroga sull’essere Metodo deduttivo e metodo induttivo Esigenza di tre metodi: fenomenologico, induttivo e deduttivo tu; ma è sempre velato, nascosto sotto la maschera di un ente par- ticolare. Perciò, si può arrivare all'essere soltanto passando attra- verso gli enti. Ma, attraverso quale ente? A quale dei moltissimi en- ti che affollano la grande scena dell'universo è più opportuno rivol- gersi per spiare la natura dell'essere? C'è qualche ente privilegiato che meglio di ogni altro possa svelarci i segreti dell'essere? Gli esi- stenzialisti hanno sottolineato il fatto che il nostro ente (quell’ente che noi chiamiamo « uomo ») ha per l’essere un interessamento del tutto particolare: è l’unico ente che si interroga sull'essere; gli importa molto di scoprire che cosa sia l'essere in quanto tale, e so- prattutto che cosa sia l’essere del nostro ente. Gli esistenzialisti tro- vano in questa singolare vicinanza del nostro ente all'essere un mo- tivo sufficiente per iniziare la metafisica con lo studio dell'essere dell'uomo, uno studio che essi conducono secondo il metodo fenome- nologico. Invece nel passato per risolvere il problema metafisico i filosofi ricorrevano generalmente o al metodo deduttivo oppure a quello in- duttivo. Platone, Plotino, Agostino, Avicenna, Bonaventura, Cartesio, Leib- niz e molti altri, movendo dal presupposto che la mente umana co- nosce a priori o per illuminazione divina i principi primi e le idee universali oppure considerando il conoscere non come un apprendere ma come un creare, hanno potuto procedere nell'indagine metafisica servendosi esclusivamente del metodo deduttivo. Altri filosofi, tra cui Aristotele, Tommaso d'Aquino e molti mo- derni, non ammettendo le idee a priori e neppure una illuminazione speciale da parte di un essere metaempirico e neanche concependo il conoscere come un creare bensì come un rappresentare, hanno im- piegato il metodo induttivo. A nostro avviso, l'indagine metafisica per essere seria, feconda e concreta, esige l’uso di tre metodi: quello fenomenologico, quello induttivo e quello deduttivo. I primi due servono ad assicurarle una solida base nel concreto, mentre il terzo va incontro all’esigenza del- la metafisica di offrire una visione sistematica del reale. 4. Sguardo storico Tracciare la storia del problema metafisico equivale sostanzial- mente a tracciare la storia della filosofia occidentale, ché la primà e massima preoccupazione di tutti i filosofi dei periodi antico, me- dioevale e moderno è sempre stata quella di fornire una spiegazione conclusiva dei fenomeni che noi esperimentiamo, scoprendo la cau- sa suprema, la ragione ultima del loro essere. L'intento metafisico è già chiaramente presente nei filosofi io- nici: è la causa ultima che essi ricercano, anche se poi in effetti 94 la situano in uno dei quattro elementi costitutivi della materia, l’acqua, l'aria, la terra, il fuoco. Con Parmenide la metafisica non è più una semplice aspirazione ma diviene un'autentica realtà. Infatti, additando l'essere quale prin- cipio unico e supremo d'ogni cosa, egli introduce la metafisica nel- l'ambito che le è proprio e che resterà tale per sempre. Platone approfondisce la ricerca dell'essere, distinguendo tra ciò che veramente è e ciò che invece è solo in modo apparente, finito, contingente. Ciò che veramente è egli io identifica col mondo delle Idee: esso è ingenerato, eterno, incorruttibile; mentre ciò che sem- plicemente appare lo identifica col mondo materiale: esso è finito, mutevole, contingente, corruttibile. Ovviamente, per Platone, il mon- do ideale è il fondamento, la causa di quello materiale. In che mo- do? È noto che su questo punto Platone non ha mai raggiunto una posizione definitiva. Egli ha formulato due ipotesi: quella della par- tecipazione delle cose nelle Idee, e quella della imitazione delle Idee da parte delle cose. Ma entrambe presentavano alcune grbsse diffi- coltà e questo gli impedì di ascrivere certezza assoluta alle sue ipo- tesi metafisiche.’ - Aristotele, l'abbiamo già detto e ripetuto, definisce il problema metafisico come « studio dell'essere in quanto tale e delle proprietà che l'accompagnano necessariamente ». Egli identifica tale studio con quello delle quattro cause: materiale, formale, efficiente, finale. Ma le quattro cause di che cosa? Ovviamente, del mondo materiale che ci circonda. È scoprendo i principi fondamentali che sorreggono questo mondo che si dischiude il mistero dell'essere. Peraltro, quan- do si tratta di determinare la natura specifica delle cose materiali egli rifiuta la teoria platonica delle Idee ritenendola come puramen- te fantastica e del tutto superflua. L'essenza delle cose, a suo giu- dizio, non sta fuori delle cose ma nelle cose stesse. E tuttavia, quan- do vuole rendere ragione del fondamento ultimo delle cose, anche Aristotele ritiene necessario postulare, come aveva fatto Platone, l’esistenza di una realtà spirituale, Dio. Questi però non lo conce- pisce come causa efficiente del mondo, ma come suo ‘fine ultimo: Dio è il movente supremo, che col suo fascino determina l’evolu- zione del mondo. L'impostazione e la soluzione data al problema metafisico da Pla- tone e da Aristotele esercitarono un influsso decisivo su tutta la speculazione posteriore. Le si ritrova sostanzialmente inalterate presso gli Stoici, i Neopiatonici, i Padri della Chiesa, gli Scolastici e anche presso la maggior parte dei filosofi moderni. Lo studio del- l'essere degli enti finiti e contingenti li porta tutti a postulare l'’esi- stenza di un Essere infinito, assoluto, necessario. Questi per gli Stoici, ! B. MONDIN, vol. I, pp. 82-85. 2 Ivi, pp. 124-136. 95 L'emergenza metafisica in Parmenide Platone: l'essere è il mondo delle idee Aristotele: l'essere e le sue proprietà Influenza di Platone e Aristotele sulla speculazione posteriore L’Essere sussistente nella filosofia cristiana Il graduale primato della gnoseologia sulla metafisica da Cartesio a oggi L’impossibilità della metafisica per Hume e Kant è il Logos, per i Neoplatonici l’Uno, per i Padri e gli Scolastici Dio, per Spinoza la Sostanza, per Leibniz la Monade suprema. Ma, nella filosofia cristiana, pur conservando essenzialmente l’im- postazione che gli avevano dato i due massimi esponenti della filo- sofia greca, il problema metafisico fa un notevole passo avanti e raggiunge un definitivo chiarimento su uno dei punti più difficili ed oscuri, quello concernente i rapporti che intercorrono tra gli enti finiti e l’Essere sussistente. Questo punto viene chiarito mediante l'introduzione della dottrina della creazione, la quale insegna che gli enti finiti (il mondo) devono tutta la loro realtà all'Essere sussi- stente, a Dio. Senza Dio il mondo è assolutamente nulla, e prima d’es- sere stato prodotto da Lui non aveva alcuna realtà. Ma anche do- po che è stato posto in essere, esso deve la sua consistenza alla presenza attiva di Dio. Tratto dal nulla, il mondo si muove continua- mente sull'orlo del nulla. E tuttavia proprio perché ha Dio per pa- dre e creatore, il mondo non sarà mai sopraffatto dalle insidie del nulla. Al contrario, sviluppando le possibilità che Dio gli ha con- ferito esso si allontana gradualmente dall’abisso del nulla e si avvi- cina al regno inespugnabile e indistruttibile dell'Essere sussistente.’ Il problema metafisico, s'è detto, abbraccia gran parte della spe- culazione filosofica fino agli inizi del secolo XIX. Occorre però preci- sare che già a partire da Cartesio esso cede il primato, che prima era sempre stato suo, al problema gnoseologico. Ciò che occorre affron- tare per primo è il problema del valore e della portata della nostra conoscenza. Solo se si risolve positivamente questo problema, è le- cito passare all'indagine metafisica. Diversamente si rischia di co- struire dei castelli in aria. Sappiamo che Cartesio, Spinoza, Pascal, Malebranche, Leibniz, Vico e, parzialmente, anche Locke, considerano obiettivamente valida la conoscenza della ragione umana e, conseguentemente, se ne val- gono per risolvere il problema del fondamento ultimo della realtà. Di esso Cartesio, Malebranche, Pascal, Vico, Leibniz offrono una soluzione che non si discosta gran che da quella degli autori cristia- ni che li avevano preceduti; mentre invece profondamente ‘innova- trice è la soluzione di Spinoza. Secondo questo autore la realtà ma- teriale non rimanda ad un piano superiore di ordine spirituale: i due piani, materiale e spirituale, a suo avviso, sono strettamente con- giunti tra di loro, e rappresentano le facce d'una unica Sostanza.* Ma, dopo che il problema metafisico ha ceduto il primo posto a quello gnoseologico, si intuisce facilmente come esso possa venire soppiantato del tutto da quest'ultimo e definitivamente soppresso: basta soltanto contestare il valore obiettivo e trascendente della ra- gione umana. È la posizione che adottano prima gli empiristi inglesi e poi Kant. Per i primi non si dà altra conoscenza fattuale al di ? Ivi, pp. 221-223; 283-286. ‘ B. MONDIN, vol. II, pp. 164-168. 96 fuori di quella dei sensi, i quali, ovviamente possono ben fornire catene di dati ma non garantirne l’obiettività e tanto meno proporre una spiegazione profonda ed esaustiva della loro esistenza. Per Kant la mente umana è sì in grado di fornire un'interpretazione ge- nerale, scientifica della realtà fenomenica, ma soltanto di questa, non della realtà in sé (la realtà noumenica). A proposito di quest’ul- tima è lecito sollevare degli interrogativi, ma non fornire delle ri- sposte valide e sicure. Il fondamento della realtà è irraggiungibile ed incomprensibile.’ Così con Hume e Kant la sorte della metafisica è definitivamente segnata. La situazione per la metafisica non migliora nel nostro secolo, quando, dopo aver esperimentato la sterilità dell’'impostazione cri- tica della ricerca filosofica, alcuni autori {ci riferiamo ai neo- positivisti e agli analisti) operano una seconda rivoluzione coperni- cana, affermando che l’unica via per risolvere i problemi metafisici non è quella che parte dall'essere e neppure quella che parte dal co- noscere, ma quella che muove dal linguaggio. La questione fondamen- tale, che dev'essere affrontata prima di ogni altra, è la questione del senso delle nostre parole. Risolta questa questione anche le più astruse questioni metafisiche non presentano più nessuna difficoltà. Questa impostazione linguistica dell'indagine filosofica di per sé non è ostile alla metafisica; di fatto però ha condotto alla sua negazione radicale, perché i filosofi del linguaggio per determinare quali parole siano sensate e quali prive di senso hanno assunto un criterio non meno rigorosamente empiristico di quello che i filosofi inglesi del secolo XVIII avevano usato per risolvere il problema del valore della conoscenza. Secondo tale criterio, detto della verifica sperimentale, una proposizione ha significato soltanto se è tradu- cibile in una serie di proposizioni sperimentali. Quando « una pro- posizione non è traducibile in proposizioni di carattere empirico [...] non è affatto un’asserzione; non dice nulla; non è altro che una se- rie di parole vuote; è semplicemente senza senso »$ Con questo criterio di significanza crolla ovviamente e voluta- mente qualsiasi metafisica. « È impossibile » dichiara Carnap « ogni metafisica che voglia inferire il trascendente, cioè ciò che giace al di là dell'esperienza, dall'esperienza stessa. [...] Non c'è affatto una filosofia come teoria, come sistema di proposizioni con caratteristiche proprie, che possano stare accanto a quelle della scienza ».” È per- tanto impossibile qualsiasi visione del mondo che abbia la pretesa di essere l’ultima risposta all'ultima domanda, che voglia fornire la 3 Ivi, pp. 345-347. $ R. CARNAP, Philosophy and Logica! Syntax, Londra 1935, pp. 13-14; trad. it., Sintassi e logica del linguaggio, Silva, Milano 1961. ? R. CARNAP, « Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache » (JI superamento della metafisica mediante l'analisi logica del lin- guaggio, pubblicato nel 1932 a Vienna), in Erkenntnis II (1931-1932), p. 240. 97 Linguistica e metafisica: il problema del senso delle parole Il crollo della metafisica per il criterio della significanza Oggi la metafisica riemerge costantemente chiave risolutiva del problema del fondamento dell'essere degli enti. Abbandonata la metafisica, ai giorni nostri si cerca di trovare una risposta agli interrogativi ultimi rivolgendosi o alle scienze positive o alla storia oppure, più recentemente, alle scienze umane (psico- logia, psicanalisi, etnologia, sociologia, ecc.). Ed oggi il dibattito sul rapporto metafisica-scienza nell’ambito della storia della scienza è tornato a svilupparsi in modo intenso (v. Kuhn, Lakatos, Feyera- bend, Strawson, ecc.). Ma le risposte che si ottengono da queste discipline, anche se di notevole interesse, non riescono neppure a scalfire il problema del fondamento ultimo della realtà. E allora la metafisica fa di nuovo capolino in uno dei due modi seguen- ti: o come esigenza di superare i confini angusti della storia, delle scienze positive, delle scienze umane; oppure, e questo è il modo più comune, mascherandosi dietro il paravento della visione gene- rale delle cose che ognuno porta necessariamente in se stesso e che, però, quasi mai si è disposti a riconoscere e tanto meno a concet- tualizzare rigorosamente. Così attualmente, nonostante la generale ostilità per la metafisica teoretica, c'è una metafisica esigenziale ed esistenziale che è più viva che mai. E questo conferma quanto avesse ragione Kant quando di- ceva che l'uomo è un animale essenzialmente metafisico. CONCETTI DA RITENERE — Essere; ente — Oggetto formale; metodo induttivo, deduttivo; fenomeno logico — Mondo delle Idee; Essere sussistente; enti finiti; creazione — Metafisica esigenziale, esistenziale SINTESI CONTENUTISTICA I. L'ORIGINE DEL TERMINE 1. L'origine del termine « metafisica » è legata all'opera di Aristotele e al destino dei suoi scritti dopo la sua morte. Essi, dopo alterne vicende, furono af- fidati ad Andronico di Rodi, il quale, ordinate le opere di fisica, si trovò davanti a un gruppo di libri senza nome che chiamò « i libri che vengono dopo la fisi- ca » (tà metà tà physicà). Il nome dato in modo casuale corrispondeva al con- tenuto relativo alle realtà che vanno oltre il mondo fisico. II. OGGETTO DELLA METAFISICA 1. Variamente definita, la metafisica esprime l'esigenza dell'uomo di sco- prire le ragioni supreme della realtà. Nel corso dei secoli la sua possibilità è stata messa ripetutamente in discussione da quegli orientamenti filosofici che tendevano a ridurre l'ambito conoscitivo dell’uomo (scettici, empiristi, positi- visti, marxisti, materialisti in genere, strutturalisti, ecc.). 2. La capacità propria della natura umana di esercitare, oltrela conoscenza sensitiva, quella intellettiva legittima tuttavia l'indagine metafisica. 3. L'indagine metafisica verte sull'essere dell'ente, è essenzialmente ricerca 98 intorno all'essere. Oggetto formale della metafisica è l’essere in quanto tale. L'ente materiale è solo il suo punto di partenza. III. METODO DELLA METAFISICA 1. L'essere non è mai accessibile immediatamente e direttamente, è sem- pre velato dall'ente. C'è allora qualche ente privilegiato che ne favorisca la rivelazione? 2. Nel nostro tempo gli esistenzialisti hanno colto nell'uomo, l’unico ente che si interroga sull’ente, il punto di partenza per l'indagine metafisica. 3. Nel pensiero classico la ricerca metafisica ha assunto ora il metodo de- duttivo ora quello induttivo. I filosofi di orientamento platonico e razionalistico sulla base dell'innatismo delle idee hanno accentuato la deduzione. I filosofi aristotelico-tomisti hanno usato invece il metodo induttivo. 4. Una completezza di indagine richiede tre metodi: il fenomenologico, l’'induttivo e il deduttivo. I primi due le danno una base nel concreto, il terzo offre la visione sistematica della realtà. IV. SGUARDO STORICO 1. Il problema metafisico nel mondo classico è caratterizzato dall’intreccio con la cosmologia nella filosofia ionica; dalla centralizzazione del problema dell'essere con Parmenide; dall’approfondimento di Platone che lo riconduce al mondo delle Idee; dalla definizione del problema in Aristotele: « studio del- l'essere in quanto tale e delle proprietà che lo accompagnano necessariamente ». 2. Platone e Aristotele influenzano la filosofia medioevale. Con san Tom- maso il problema metafisico risolve il problema del rapporto tra gli enti finiti e l’Essere sussistente in virtù dell’atto creativo. 3. Nell’età moderna con Cartesio questo problema cede il posto a quello gnoseologico ed entra in una grave crisi con il criticismo kantiano, che chiu- dendo la conoscenza nell’ambito dell’esperienza, nega la possibilità della meta- fisica come scienza. 4. Nel pensiero contemporaneo, dopo il passaggio dalla metafisica dell’es- sere a quella della soggettività, segnata dall'idealismo, con il positivismo la metafisica entra in una crisi ulteriore. I filosofi del linguaggio, in particolare, ne decretano la fine affermando la validità solo di quelle proposizioni che sono traducibili in proposizioni di carattere empirico. Nel nostro tempo la metafisica tende tuttavia a riemergere come metafisica esigenziale ed esistenziale. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Qual è il significato etimologico del termine « metafisica »? Da chi è stato introdotto? 2. Come viene definita la metafisica da Aristotele, Kant, Heidegger? 3. Qual è l'oggetto, il fine, il metodo della metafisica? 4. Perché molti filosofi hanno messo e mettono tuttora in dubbio la possi- bilità della metafisica? 5. Perché si dice che Parmenide è il « padre della metafisica »? 6. Che cosa si intende per creazione, emanazione, evoluzione, partecipa- zione? 7. Che cosa si intende per sostanza e accidente, materia e forma, atto e Potenza, essenza ed esistenza? 8. In che misura il problema metafisico coinvolge il problema gnoseo- logico? 9. Quali sono i punti di interazione e di contrasto tra metafisica ed epi- stemologia? 99 10. Quali rapporti si possono stabilire tra il problema metafisico e il pro- blema religioso? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Metafisica e ontologia, Gregoriana, Padova. AA.Vv., Metafisica e scienze dell'uomo, a cura di B. D'Amore e A. Ales Bello, 2 voll., Borla, Roma 1982. 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Si tratta peraltro di una manifestazione che, abbracciando l’intera umanità sia in ordine allo spazio che al tempo (e non soltanto quesito o quell'altro gruppo di un'epoca storica particolare), assume proporzioni notevolissime. Gli antropologi ci informano che l’uomo ha sviluppato una attività religiosa sin dalla sua prima comparsa sulla scena della storia e che tutte le tribù e tutte le popolazioni di qualsivoglia livello culturale hanno coltivato qualche forma di religione. D'alironde è cosa risapu- ta che tutte le culture sono profondamente segnate dalla religione e che le migliori produzioni artistiche e letterarie non solo delle civiltà antiche ma anche moderne si ispirano a motivi religiosi. È pertanto ragionevole affermare che l'uomo oltre che sapiens, volens, faber, loquens, ludens, ecc., è anche religiosus. Né il fatto che oggi la religione stia attraversando una crisi profonda e si in- contrino molti individui che si professano areligiosi, costituisce un argomento plausibile contro la rilevanza del fenomeno religioso. In effetti, noi consideriamo l’uomo ludens, loquens, faber, sapiens, ecc., anche se non tutti gli uomini giocano, lavorano, parlano, pensa- no. Altrettanto vale per la dimensione religiosa: essa si impone come una costante dell'essere umano, anche se non è coltivata da tutti gli individui della specie. La religione è quindi un fenomeno reale, tipico dell’uomo, ma è anche un fenomeno molto problematico, forse il più problematico di tutti. Infatti mentre le altre attività umane si rivolgono ad oggetti la cui esistenza è fuori di discussione, l’attività religiosa, per contro, si dirige verso un oggetto, di cui si vede messa in questione persino l'esistenza. — Iti queste poche pagine noi cercheremo di dare un'idea della na- 101 La religione dimensione universale ed esclusiva dell’uomo Problematicità del fenomeno religioso Nella storia la questione religiosa è sempre esistita Controversie interpretative dei filosofi degli ultimi secoli Riconoscimento del valore oggettivo della religione in Hume e in Kant tura e della complessità del problema religioso. A tal fine procede- remo secondo l’ordine seguente: anzitutto tracceremo una breve storia delle interpretazioni del fenomeno religioso così com'è stato visto dai filosofi; poi faremo un approfondimento teoretico del pro- blema, elaborando una definizione della religione ed esaminando i rapporti che essa mantiene con le altre attività umane. 2. Le principali interpretazioni filosofiche della religione La questione religiosa è stata sempre presente nella storia della filosofia. Nel periodo antico se ne interessarono Senofonte, Prota- gora, Platone, Aristotele, Lucrezio, Plotino; in quello medioevale Avicenna, Averroè, Maimonide, Tommaso d'Aquino, Scoto, Occam; agli inizi dell'epoca moderna, Giordano Bruno, Campanella, Spi- noza, Hobbes, Locke. Ma è stato soprattutto a partire da Hume e da Kant che la questione religiosa è divenuta uno dei punti cen- trali della riflessione filosofica, e possiamo dire che, a partire da questi, ha inizio una vera e propria « scienza delle religioni » che è andata sempre più sviluppandosi sino ad oggi. Fu Muller che usò per la prima volta nel 1877 il termine religionswissenschaft, cioè « scienza delle religioni », che ebbe uno sviluppo notevole, va- lendosi molto dell’antropologia culturale. Più tardi, alla « scienza delle religioni » fu dato l'apporto dei sociologi, soprattutto di Durk- heim che elaborò, nel 1912, una teoria generale della religione. “Sulla questione religiosa i filosofi moderni si sono schierati su due fronti opposti. Da una parte alcuni hanno cercato di mostrare che la religione è priva di qualsiasi fondamento oggettivo: essa sarebbe una più o meno astuta invenzione dell'uomo, dovuta alla paura (Feuerbach), alla prepotenza (Marx), all'ignoranza (Comte), al ri- sentimento (Nietzsche), alla sublimazione degli istinti (Freud), ad abusi linguistici (Carnap), ecc. Dalla parte opposta altri autori difendono il valore oggettivo della religione, in quanto essa si fon- derebbe su un rapporto dell'uomo con la realtà assoluta (Hegel, Croce, James, Bergson, Scheler, Otto, Jaspers, ecc.). I primi svilup- pano una critica negativa e demistificante; invece i secondi elaborano una critica positiva e costruttiva del fenomeno religioso. 2.1 Demistificazione della religione Hume e Kant, pur assegnando basi diverse al fenomeno religioso (Hume l'aveva fondato sull’istinto e Kant sulla ragione pratica), non ne avevano messo minimamente in dubbio il valore essenzialmente oggettivo. Tale valore, più tardi, venne nuovamente ribadito dagli idealisti, in particolare da Hegel. L'orizzonte culturale entro il quale Hegel interpreta la religione è quello della « religione nei limiti della pura ragione » di Kant. 102 Essa costituisce il secondo momento del sapere assoluto, quando lo spirito prende piena coscienza di se stesso e diventa « autoco- scienza ».! Feuerbach, discepolo di Hegel, partendo dal pensiero di questi, arrivò a negare il valore oggettivo della religione. Contro il postulato hegeliano il quale afferma che tutto procede dall’Assoluto e ogni cosa, l’uomo compreso, non è altro che un mo- mento del suo automanifestarsi, Feuerbach sostiene che le cose stan- no esattamente all'opposto: Dio è solo un'idea escogitata dall'uomo allo scopo di conseguire la piena realizzazione di se stesso; pertanto la realtà suprema non è Dio ma l'uomo. Nel famoso saggio L'essenza del cristianesimo Feuerbach argomenta che la religione trae origine da un processo di ipostatizzazione dei bisogni e degli ideali dell’uo- mo: l'uomo proietta tutte le qualità positive che ha in sé in una persona (ipostasi) divina e fa di essa una realtà sussistente, capace di sopperire ai suoi bisogni e alle proprie lacune? In Karl Marx, anche egli discepolo di Hegel, le critiche avanzate da Feuerbach al pensiero del maestro hanno certamente contribuito ad avviare anche lui alla contestazione del fenomeno religioso, alla negazione di Dio e alla condanna di ogni chiesa. Ma a fargli sposare la causa dell’ateismo, più che argomenti di natura filosofica e meta- fisica sono stati motivi di ordine storico e sociale? La sua identifica- zione della società ideale con la società senza classi e la ricerca della instaurazione di tale società mediante la demolizione delle strutture sociali vigenti ai suoi tempi, l'hanno portato necessaria- mente a confrontarsi con la religione. Ora, tutta una serie di circo- stanze storiche gli hanno fatto credere che la religione fosse uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione della nuova società e, per- tanto, concludere che la religione non può essere che un'invenzione delle classi privilegiate per meglio sfruttare le classi subalterne: essa è strumento di evasione per gli sfruttati e di giustificazione per gli sfruttatori. La religione è l'oppio del popolo. « La religione è il sospiro della creatura oppressa dalla sventura, l'anima di un'epoca senza spirito. È oppio per il popolo. [...] Il fondamento della critica religiosa è questo: l'uomo crea la religione, non è la religione che crea l’uomo ».* Nel XIX secolo la critica della religione di maggior riscontro non fu quella di Marx e Feuerbach, ma quella di Comte, il padre del positivismo. Secondo Comte tutto l'universo procede dalla materia per via di evoluzione. Anche l’uomo è un portato dell'evoluzione. Con la sua comparsa sulla scena del mondo ha inizio la storia, le cui fasi principali, secondo la celebre classificazione del padre del po- ! B. MONDIN, vol. III, pp. 67, 79-80. 2 Ivi, pp. 142-144. » Cfr. W GOLLWITZER, La critica marxista della religione e la fede cristiana, Morcelliana, Brescia 1970. ‘+ B. MONDIN, vol. III, pp. 153-156. 103 La crisi post- hegeliana: Dio autoproiezione dell'uomo Negazione di Dio e condanna della Chiesa in Marx La critica di Comte alla religione L'esperienza religiosa come stadio primitivo dell’umanità Nietzsche: la ‘morte di Dio” e l'autonomia del Super-uomo Il cristianesimo messaggio di debolezze e di mediocrità sitivismo, sono tre: religiosa, metafisica, scientifica. Le tre diverse fasi corrispondono a tre diversi modi di concepire e di spiegare le cose. Nell’epoca religiosa l’uomo si dà una spiegazione mitica defenomeni naturali escogitando cause soprannaturali; nell'epoca me- tafisica egli ottiene una spiegazione dei fenomeni ricorrendo a prin- cipi reconditi, quali sostanza, accidenti, essere, ecc.; nell'epoca po- sitiva infine egli elabora una spiegazione ragionata, scientifica delle cose per mezzo delle leggi naturali, le quali bastano da sole (senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio oppure a principi metafisici) a spiegare tutti i fenomeni che noi constatiamo. Tutte le attività e tutte le branchie del conoscere passano per questi tre stadi: la politica come il diritto, l'economia come la morale, la fisica come l’astrono- mia, ecc. All’inizio dell'epoca moderna, con lo sviluppo del metodo scientifico, l'umanità ha raggiunto finalmente l'età adulta e può, quindi, lasciarsi alle spalle sia la religione, sia la metafisica. An- ziché rivolgere la sua attenzione ad esseri soprannaturali o recon- diti essa può ora prendere cura di se stessa. Questo è l’unico culto (cioè il culto dell'Umanità) che essa deve promuovere. Un altro autorevole esponente della critica negativa del fenomeno religioso, nel secolo scorso, è Nietzsche. Di lui tutti conosciamo il famoso proclama: « Dio è morto ». Questa sentenza, che rappresenta il leit-motiv della predicazione di Zaratustra è anche il motivo do- minante della riflessione filosofica di Nietzsche. Questi vuole svi- luppare l’idea di un uomo (il Super-uomo) assolutamente autonomo, padrone di se stesso, sovrano della natura e della storia, affrancato dai vincoli e dalle costrizioni imposte dalla morale, dal diritto, dalla religione. Studiata alla luce dell'idea del Super-uomo a Nietzsche la religione appare una ingegnosa invenzione degli uomini, però non dei forti per tenere sotto il loro giogo i deboli, bensì dei deboli per di- fendersi dalla prepotenza dei forti, dei super-uomini. Di tale origine della religione il Nietzsche ritiene di trovare conferma nel cristia- nesimo. Qui i deboli, gli umiliati, gli oppressi elevano il loro ideale di debolezza, di vigliaccheria, di rassegnazione ad ideali universali e fanno di tutto per costringere anche gli uomini forti, i potenti, i su- per-uomini, ad accettarlo. « Solo il misero è buono, proclama il cri- stianesimo, il povero, il debole, l'umile solamente sono buoni; l’am- malato, il bisognoso, colui che fa ribrezzo soltanto è pio. Solo a co- storo viene promessa la felicità e la salvezza eterna. Mentre a voi potenti, aristocratici, a voi viene detto che siete per tutta l'eternità cattivi, perversi, ingordi, insaziabili nemici di Dio e che perciò siete eternamente infelici, condannati, maledetti »f Un'altra importante forma di critica della religione è stata intro- dotta all'inizio del nostro secolo da Freud mediante la psicanalisi. Da Freud l'infondatezza della religione è data per scontata in quanto 5 Ivi, pp. 178-181. $ Ivi, pp. 217-222. 104 a suo giudizio è cosa ovvia che fuori del mondo dell’uomo non esiste alcun altro essere. Allo studioso rimane perciò solo il problema di spiegare come sia sorta la « illusione religiosa ». A pa- rere del fondatore della psicanalisi essa non è sorta in conseguenza di una lotta di classe tra classi dominanti e classi dominate, come voleva Marx, e neppure in conseguenza di una lotta tra deboli e potenti come sosteneva Nietzsche, bensì attraverso un processo di sublimazione di una lotta primordiale tra i membri del focolare do- mestico, con la conseguente proiezione, fuori della psiche sul piano cosmico, dell'idea di padre. L'oggetto della religione — Dio — è appunto il risultato di tale proiezione. L'idea di questo Essere su- premo riflette, sul piano cosmico, la polarità affettiva amore-adio, che i figli sentono nei confronti del padre.” Altre forme di demistificazione del fenomeno religioso sono state sviluppate nel nostro secolo dagli esistenzialisti (in particolare da Sartre e da Heidegger) e dai neopositivisti. Mentre però il pensiero di Sartre è chiaro ed inequivocabile, non si può invece*stabilire con sicurezza quali siano le vedute di Heidegger riguardo alla religione. In effetti le sue opere più recenti contengono tracce inconfondibili di misticismo. Una cosa, peraltro, è fuori discussione: secondo l’autore di Sein und Zeit la filosofia non può dare che un giudizio negativo per quanto concerne l’idea di Dio. Infatti, a suo parere, tale idea è aberrante sia nei confronti della metafisica, in quanto fa decadere il problema dell'Essere nel problema di un ente; come pure nei confronti del problema della esistenza umana, perché la distoglie dal- le sue vere, autentiche possibilità.* L'ultimo importante tentativo di demistificare il fenomeno reli- gioso è stato compiuto dal neopositivismo. Per questo movimento, com'è noto, la filosofia consiste essenzialmente nell'analisi del lin- guaggio: solo in questo modo essa può determinare la verità o la falsità di una dottrina. Ma, per effettuare l’analisi del linguaggio occorre anzitutto un criterio per distinguere le proposizioni che hanno significato da quelle che ne sono prive. Ora, secondo i neo- positivisti per le proposizioni fattuali (non per quelle logiche) l’'u- nico criterio possibile è quello della verifica sperimentale. Vale, per- tanto, anche per la religione quanto abbiamo citato precedentemente da Carnap circa la metafisica” Da queste premesse i neopositivisti traggono la conclusione, logica e necessaria, che il linguaggio etico, estetico e religioso è privo di senso, non dice nulla: è privo di qual- siasi valore oggettivo. Pertanto « dire che Dio esiste è un'espressione metafisica che non può essere né vera né falsa. E, per lo stesso mo- tivo, nessuna proposizione che miri a descrivere la natura di un ? Ivi, pp. 224-221. ® Ivi, pp. 410-413. ° Vedi cap. VII, nota 7. 105 Freud: Dio proiezione dell'immagine paterna Ateismo e misticismo nelle filosofie esistenzialiste La negazione della reiigione nel neopasitivismo fl valore positivo della religione Kierkegaard: il primato della fede per giungere allo stadio religioso Bergson e il valore dell’esperienza mistica Dio trascendente può avere significato letterale... Tutte le espressioni riguardanti la natura di Dio sono prive di senso ».! 2.2 Difesa della religione Contro le opinioni espresse dai demistificatori del fenomeno re- ligioso hanno preso posizione molti ‘filosofi del secolo scorso e del nostro, affermandone il valore positivo e considerandolo anzi una delle manifestazioni più proprie, autentiche e genuine dello spirito umano. Qui non possiamo riferire le vedute di tutti coloro che si sono espressi in questo senso. Ci limiteremo a riferire il pensiero di alcuni autori più rappresentativi, cominciando da Kierkegaard. Contro la concezione hegeliana della religione, la quale vede in essa puramente un momento logico, naturale dell'evoluzione dello Spirito Assoluto e contro qualsiasi subordinazione della religione al- la filosofia, Kierkegaard proclama che la religione non può essere ridotta ad un momento logico d'un sistema generale di pensiero, perché essa appartiene alla sfera dell’esistenza, della vita. Allo stadio religioso non si giunge attraverso l'intuizione come sosteneva Hegel, ma mediante la fede. L'incontro con Dio non si dà nell’immediatezza della visione, ma nelle tenebre della fede. E questa non è la con- seguenza d'un ragionamento bensì un atto di decisione che com- porta un salto al di là di tutto ciò che poggia sulla sicurezza delle leggi scientifiche e dei codici morali. Quando l’uomo crede in Dio e avverte l’infinita differenza che separa la natura divina dalla pro- pria, allora si prostra davanti a Lui e Lo adora." Lo sforzo di Kierkegaard di riabilitare la religione nel suo signi- ficato autentico non ebbe successo. Durante la seconda metà del- l’Ottocento, come s'è visto, per opera di Marx, Engels, Comte, Niet- zsche, Freud, esplode la demistificazione della religione la quale incontra vasti consensi e moltissimi sostenitori nel momento in cui impera il positivismo e il materialismo. Ma quando questi sistemi cominciano a vacillare, anche la demistificazione della religione per- de terreno. Anzi è proprio l'impossibilità dell’accettazione di una simile interpretazione del fenomeno religioso che induce autori co- me Bergson, James, Scheler, Otto, Blondel a prendere posizione contro il positivismo e il materialismo. Bergson, nel celebre saggio Le due sorgenti della morale e della religione, prende in esame il fenomeno religioso in alcune delle sue manifestazioni più elevate, quali il misticismo greco ed orientale, il profetismo ebraico e il misticismo cristiano. Attraverso l’esperienza dei mistici egli arriva all'esistenza di Dio. Questa, già presentita nella speculazione filosofica dello slancio vitale (é/an vital), si impone ora in maniera incondizionata. In che modo? In base alla testimonianza 0 A.J. AYER, Language, Truth and Logic, New York (senza data), p. 115; trad. it., Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1961. ! B. MONDIN, vol. III, pp. 212-216. 106 di coloro che hanno l'esperienza delle cose divine. Bisogna credere ai mistici in queste cose così come si crede ai medici e agli ingegneri quando si tratta di problemi attinenti alle loro specializzazioni: gli uni e gli altri sono degli esperti; sanno quello che dicono." L'esempio di Bergson esercitò un grande influsso anzitutto in Francia e poi anche altrove. Tra i suoi seguaci si distinse in par- ticolare Maurice Blondel. Questi, tuttavia, nel difendere il valore oggettivo della religione, si colloca in una prospettiva diversa da quella del suo maestro. Mentre Bergson giustifica il fenomeno reli- gioso partendo dalle sue espressioni più autentiche, Blondel cerca di fondarlo sull'analisi del dinamismo umano considerato nella sua struttura essenziale. Secondo Blondel un esame attento e appro- fondito dell’azione conduce logicamente al riconoscimento dell’esi- stenza di Dio. Infatti « L'azione è in perpetuo divenire come trava- gliata dall’aspirazione di una crescita infinita. [...] Noi siamo costretti a voler divenire ciò che da noi stessi non possiamo né raggiungere né possedere. [...] È perché ho l'ambizione d'essere infinitamente che sento la mia impotenza: io non mi sono fatto, non posso ciò che voglio, sono costretto a superarmi. [...] Ora, questa spinta verso l'infinito, che dilata continuamente la mia azione, è Dio. Egli non. ha altra ragion d'essere per noi perché è ciò che noi non possiamo essere né fare con le nostre sole forze ».! Noi siamo la sproporzione tra l'ideale e il reale, ma tendiamo verso la loro identità: tale iden- tità è Dio stesso. Un'abile difesa del valore e del significato dell'esperienza reli- giosa è stata condotta anche dal filosofo americano William James, in particolare nell'opera Le varie forme dell'esperienza religiosa. La sua difesa è basata su motivazioni d'ordine mistico come in Bergson, piuttosto che su speculazioni d'ordine teoretico come in Blondel, James non crede che sia possibile trasformare la religione in un siste- ma di proposizioni scientifiche dimostrabili apoditticamente. A suo giudizio il fondamento della religione non è la ragione, ma la fede, il sentimento ed altre esperienze particolari come la preghiera, conver- sazioni con l'invisibile, visioni, ecc. Tutto questo però non significa che la religione sia priva di concetti e di dottrine. Anzi James rico- nosce che una religione che sia veramente autentica deve logicamen- te guardare ad un certo tipo di metafisica o di cosmologia teistica, e che perciò la fede in Dio, i cui attributi sono essenzialmente « mo- rali » o connessi con l’esperienza umana, può essere difesa come un elemento necessario dell'esperienza religiosa, sebbene non possa ser- vire come base di una teologia razionale." Ma i più autorevoli assertori del valore oggettivo dell'esperienza religiosa non sono venuti dalla Francia o dall'America, bensì dalla 12 Ivi, pp. 257-258. 4 M. BLONDEL, L'action, Parigi 1893, pp. 352-354; trad. it., L'azione, La Scuola, Brescia. “4 B. MONDIN, vol. III, pp. 348-349. 107 Blondel: esperienza religiosa e dinamismo umano James: la dimensione interiore della religione e l’esiysnza delle dotirine Il valore oggettivo dell’esperienza religiosa Scheler: la critica all’interpretazione evoluzionistica L'automanifestazione di Dio Otto: le differenti modalità dell'esperienza religiosa (il sentimento del numinoso) Germania. Si tratta di una vasta schiera di profondi pensatori di cui i più noti sono: Scheler, Otto, Schmidt, Guardini, Adam, Tillich, Dessauer, Lang. Per esigenze di spazio noi qui ci limiteremo a rias- sumere brevemente il pensiero dei primi due. Max Scheler pone il fenomeno religioso al centro della sua ricerca filosofica. In polemica coì positivismo, che come abbiamo visto riduce la religione ad un momento transitorio dello sviluppo pro- gressivo della storia dell'umanità, Scheler afferma il carattere asso- luto e perenne dell'esperienza religiosa. Egli respinge categoricamen- te la teoria positivistica della nascita della religione per un processo evolutivo che va dal feticismo, all'animismo, alla magia, ecc., al po- liteismo e finalmente al monoteismo. Rifacendosi per la parte storico- positiva agli studi di W. Schmidt, in particolare alla sua tesi del monoteismo primitivo, Scheler rileva come fenomenologicamente « anche il feticcio più primitivo presenta, per quanto rozzamente, l'essenza indeducibile del divino, quale sfera globale dell’essere as- soluto corredato con tutte le caratteristiche del santo ».5 In esso, e tramite esso, l'intenzione religiosa intende, sente, vede la totalità dell'essere assoluto e santo e non un semplice oggetto naturale in cui per entropia introduce una vita psichica. Per quanto concerne la sfera religiosa Scheler ritiene che il motivo ultimo della sua accet- tazione sia l'evidenza immediata dell'oggetto che si dà come tale in atti di conoscenza specifica, nel caso, negli atti religiosi. Pertanto il fondamento ultimo della religione non può essere che l’automani- festazione di Dio. Tale automanifestazione della realtà personale di Dio, secondo Scheler, può avvenire solo tramite gli uomini religiosi, culminanti nel « santo originario », che egli individua nella figura di Cristo.! Rudolf Otto, nel suo famoso saggio Das Heilige (Il sacro), de- scrive con acutezza straordinaria le differenti modalità dell’espe- rienza religiosa. Questa si configura anzitutto come sentimento del numinoso. Il numinoso è una categoria che fa parte della categoria più complessa del « sacro ». È una categoria del tutto sui generis, che è completamente inaccessibile alla comprensione concettuale e, in quanto tale, costituisce un arreton, qualcosa di indefinibile, ineffa- bile, proprio come il « bello » sul piano estetico. In questo senso appartiene al dominio dell’« irrazionale », e rappresenta l'elemento più intimo che è comune a tutte le religioni. Il numinoso a sua volta assume due aspetti che lo caratterizzano in modo inequivocabile: a} l'aspetto di mysterium tremendum e b) l'aspetto di miysterium fascinans. Il primo costituisce l'aspetto ripulsivo del numinoso, il se- condo ne rappresenta invece l'aspetto attrattivo e « affascinante ». Però il sacro oltre che un aspetto « irrazionale », rappresentato dalla categoria del numinoso, riveste anche un aspetto « razionale »; que- 5 M. SCHELER, L’eterno nell'uomo, Fabbri, Milano. i 4 Cfr. G. FERRETTI, Max Scheler. Filosofia della religione, Vita e Pensiero, Milano 1972. 108 sto trova espressione soprattutto nei « simboli » e nei « dogmi ». Grazie a queste categorie, attraverso « segni » stabili e universal- mente validi, il sacro acquista una struttura solida, che gli conferisce il carattere di « dottrina » rigorosa, oggettivamente valida, e l’op- pone per ciò stesso alle stravaganze dell’« irrazionalismo » fanta- stico e sognatore. 3. Definizione della religione e sua distinzione dall’arte, dalla filosofia e dalla morale « Tutti quelli che si occupano di scienza della religione — nota A. Lang — tutti quelli che della religione intendono favorire lo svi- luppo, tutti quelli che la vorrebbero estirpare, offrono una defini- zione della sua essenza »."” Noi proponiamo come definizione sufficientemente descrittiva la seguente: « La religione è l'insieme di conoscenze, di azioni e di strutture con cui l’uomo esprime riconoscimento; dipendenza, ve- nerazione nei confronti del ‘sacrò ».' Questa definizione, come si vede, comprende due elementi, uno riguardante il soggetto e l’altra l'oggetto. Quanto al soggetto essa indica l'atteggiamento che l’uomo assume quando si esprime religio- samente. In effetti non ogni‘rapporto col Sacro è attività « religiosa ». Se per esempio si studia il processo di trasformazione e di sviluppo delle religioni, i loro influssi e Manifestazioni, non si può fare a meno di occuparsi anche dell'oggetto dell'esperienza religiosa, tuttavia ci si muove sul piano della storia, non della religione. « Si può par- lare di un atto religioso, soprattutto d'un atto religioso fondamentale, solo quando l'uomo assume di fronte al Sacro e al Divino un atteg- giamento soggettivo del tutto particolare, cioè quando viene emoti- vamente colpito e attratto dall'oggetto ed entra in contatto DErR0: nale con esso. Questo è il lato psichico o interiore della religione ». Come s'è detto, l'aspetto soggettivo del fenomeno religioso è costi- tuito dal riconoscimento della realtà del Sacro, dal sentimento di to- tale dipendenza nei suoi confronti e dall’atteggiamento di venera- zione verso di esso. Dell’oggetto della religione la nostra definizione indica ciò che lo caratterizza in modo esclusivo, vale a dire di essere-sacro. Sacro è un concetto primario, fondamentale, come i concetti di essere, di vero, di bene, di bello, e pertanto non lo si può spiegare ulteriormen- te rifacendosi a categorie estranee alla sfera religiosa. Su questo punto mi pare che Scheler e Otto abbiano perfettamente ragione. Ma non per questo lo si deve considerare un concetto non suscetti- " A. LANG, Introduzione alla filosofia della religione, 2° ed., Morcelliana, Brescia 1969, p. 25. 4 Ivi, p. 48. 109 L'aspetto razionale del sacro: simboli e dogmi Una definizione della religione L’atto religioso fondamentale come atteggiamento soggettivo di fronte al Divino Il ‘Sacro’ è un concetto primario e fondamentale Le caratteristiche del Sacro: oggettività, assiologia, trascendenza, personalisticità L'elemento oggettivo distingue la religione dalla filosofia bile di qualche delucidazione. Infatti, all'interno della sfera reli- giosa il Sacro assume caratteristiche sue proprie, inconfondibili, che consentono di descriverlo in modo inequivocabile. Tra le carat- teristiche più perspicue ricordiamo quelle così bene evidenziate da Rudolf Otto: la numinosità (o sacralità), la misteriosità, la maestà, il fascino. Ma sue caratteristiche importanti sono anche queste al- tre: l'oggettività, l’assiologia, la trascendenza e la personalisticità. Anzitutto l’oggettività: il Sacro finché permane sacro e quindi og- getto della religione non può essere considerato una trovata della fantasia umana, una proiezione e ipostatizzazione dei bisogni, de- sideri, ideali dell'uomo. L'atto religioso è rivolto ad una realtà effettivamente esistente: « sempre i contenuti religiosi si presentano con la pretesa d'avere consistenza e validità anche al di fuori della coscienza e dell'esperienza religiosa ».” La trascendenza: anche se non è collocato fuori del mondo, il Sacro viene sempre conside- rato come qualcosa che supera infinitamente il mondo stesso e tut- to ciò che nel mondo è compreso, in particolare l’uomo. L'assio- logia: il Sacro rappresenta il valore supremo, cui fanno capo tutti gli altri valori. La personalisticità: l'uomo religioso non si colloca in rapporto con un oggetto, ma con un Tu, con una persona. « C'è qualcuno di fronte a lui. Io esperimento un Tu. E io me lo immagino sotto la forma di un dèmone o di un dio ».® Determinata in questo modo l'essenza della religione, risulta evi- dente in che cosa essa si distingua dalla filosofia, dall'arte e dalla morale. Ciò che la distingue dalla filosofia è soprattutto l'elemento soggettivo; infatti sia la religione che la filosofia si occupano del Sacro, del Divino, della « realtà ultima », ma fanno ciò in un modo totalmente diverso. La filosofia procede astrattamente e con fina- lità puramente speculative; invece la religione « è una presa di po- sizione personale che va oltre la semplice conoscenza della verità, è l'atteggiamento in cui tutto l’io si raccoglie nella sua singolarità »,% con un impegno supremo (ultimate concern)? Ciò che distingue la religione dall'arte è invece soprattutto l'elemento oggettivo: la re- ligione ha per oggetto il reale, l’arte l'ideale. Infine, anche religione e morale, nonostante siano legate l'una all'altra nel modo più stret- to, sono essenzialmente distinte. « La prima è incontro con Dio: contatto personale con Lui, riconoscimento umile e devoto del suo valore assoluto e della sua santità. Alla seconda spetta la cura e la realizzazione dei valori che corrispondono all'essenza dell’uomo ».# » Ivi, p. 79. i i 2° G. VAN DER LEEUW, L'uomo primitivo e la religione, Einaudi, Torino 1961, p. 144. 2 A. LANG, Op. cit., p. 110. ® P. TiLIcH, Systematic Theology, Chicago 1951, vol. I, pp. 22 ss. 3 A. Lanc, Op. cit., p. 118. 110 4. Fondazione teoretica della religione A questo punto, se si vuole passare dal piano formale della de- finizione della religione a quello della sua verità obiettiva, occorre affrontare il problema della verità dell’ oggetto della religione, un problema di capitale importanza ma anche estremamente arduo qualora ci si voglia affidare esclusivamente alle forze della ragione. Per risolverlo si possono battere due vie: la metafisica e l’erme- neutica storica; però né l'una né l'altra sono in grado di garantire il sicuro raggiungimento del traguardo e sono tutte due SOSpAFE di grosse difficoltà. La metafisica ha il pregio di far leva esclusivamente sulle forze della pura ragione; ma proprio per questo ha ben poche probabilità di risolvere un problema così difficile come questo. Anche nell’even- tualità che riesca ad elevarsi fino al piano religioso, la ragione spe- culativa non potrà mai fornire un quadro sufficientemente preciso, dettagliato, concreto ed esistenziale. La sua massima aspirazione è provare l’esistenza di Dio, la creazione del mondo e la possibilità della rivelazione. Ma queste verità non sono sufficienti ad alimentare la vita religiosa, una vita fatta di intimità, amore, devozione, ado- razione, preghiera. Da Leibniz in poi a quella parte della metafisica che si occupa del problema di Dio si è dato il nome di teodicea (difesa di Dio; dal greco theos = Dio; dikein = difendere). I limiti inevitabili che accompagnano questa disciplina sono ovvi per la natura sovrannaturale del suo oggetto: Dio, che rimane anche per il filosofo un mistero tremendo e fascinoso, il quale acceca qualsiasi intelligenza che pretende di catturarlo. Lo stesso san Tom- maso confessava che il modo migliore di parlare di Dio è quello x« per negazioni », perché « Dio rimane avvolto nella notte oscura del- l'ignoranza, ed è in questa ignoranza che noi ci avviciniamo a Dio durante la nostra vita. Infatti in questa fitta nebbia abita Dio ». Ma altra cosa è riconoscere i limiti di una disciplina, altra cosa conte- starne la legittimità e la possibilità. A partire da Kant sono state sollevate contro la teodicea tali dif- ficoltà da mettere in dubbio la sua stessa legittimità e possibilità. Kant ha sollevato obiezioni di ordine gnoseologico; Wittgenstein di ordine semantico; Heidegger di ordine metodologico. In breve, Kant confinando la conoscenza umana all'ordine dei fe- nomeni, concede alla ragione il potere di sollevare la questione di Dio ma le nega la possibilità di risolverla positivamente. Wittgen- stein, ritenendo che si possa parlare sensatamente soltanto di oggetti verificabili empiricamente, poiché Dio non appartiene a questo or- dine di oggetti, dichiara che di Lui non si può parlare: né sollevare questioni, né dare risposte. Infine, Heidegger ritiene che la meta- fisica abbia come oggetto proprio lo studio dell'essere degli essenti (« Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? ») e come metodo 111 II problema della verità dell'oggetto ‘religioso Il compito della “‘teodicea’’ Obiezioni contro la teodicea I limiti dell’ermeneutica e della ragione storica proprio la fenomenologia e di conseguenza sostiene che non c'è spazio per una riflessione autenticamente metafisica su Dio: la teo- dicea non può essere altro che una onto-teo-logia. Alle obiezioni di Kant, Wittgenstein e Heidegger non è difficile replicare: basta denunciare la loro pretesa di bloccare la conoscen- za umana dentro il mondo dei fenomeni, il linguaggio sensato den- tro la sfera delle cose verificabili, la metodologia appropriata per accostarsi alla realtà al solo metodo fenomenologico. Se tali pre- clusioni non vengono ritenute legittime, allora lo studio di Dio divie- ne per il filosofo non solo una possibilità ma anche un dovere, poiché esprime l’esigenza insopprimibile della natura umana di afferrare il senso della sua origine e del suo fine ultimo. L'ermeneutica, cioè l’arte della interpretazione, da parte sua, assumendo come punto di partenza un evento storico particolare (la rivelazione biblica, oppure quella cristiana, quella islamica, ecc.) si trova nella difficoltà di provare come un evento storico di carattere particolare (situato in un dato momento spazio-temporale) possa assurgere a valore universale, assoluto. Essa dovrebbe mostrare che è l'unico evento capace di rispondere alle istanze fondamentali della natura umana e di appagarle pienamente. Ma dove trovare argo- menti decisivi a sostegno di questa pretesa? La ragione storica non sembra in grado di scoprirli. Qualcuno potrebbe pensare di risolvere il problema unendo in- sieme le due vie. Ma questa è un'impresa irrealizzabile, perché la metafisica e l’ermeneutica storica si dirigono verso oggetti che non hanno nulla di comune tra di loro. Tutto ciò lascia intendere che la soluzione adeguata del problema religioso non si può ottenerla con la pura ragione, ma soltanto me- ‘ diante la fede, cioè mediante un'umile e completa sottomissione di tutto l'essere dell'uomo a colui che costituisce il centro, il cuore, l'anima della sfera religiosa, Dio. CONCETTI DA RITENERE — Stadio religioso — Numinoso; arreton; mysterium tremendum — Soggetto e oggetto della religione — Numinosità; misteriosità; maestà; fascino; oggettività; assiologia; tra- scendenza; personalisticità SINTESI CONTENUTISTICA I. I TERMINI DEL PROBLEMA a) La religione è una manifestazione tipicamente umana che ha caratteriz- zato tutti i tempi e tutte le culture. Essa si impone come una costante dell'es- sere umano, anche se non è coltivata da tutti gli uomini. b) :La problematicità della religione risiede nel fatto che l’attività religiosa è rivolta verso un oggetto di cui si vede messa in questione persino l'esistenza. ‘112 II. LE PRINCIPALI INTERPRETAZIONI FILOSOFICHE DELLA RELIGIONE 1) La questione religiosa ha interessato sia il pensiero classico che quello medioevale e moderno. Ma è a partire da Hume e da Kant che essa assume una connotazione centrale. Nella cultura contemporanea si delineano due orien- tamenti: uno tendente a demistificare la religione, l’altro a difenderla. III. DEMISTIFICAZIONE DELLA RELIGIONE Iniziatore di tale orientamento è Feuerbach che sottraendo alla religione ogni valore oggettivo la riduce a fenomeno in proiezione di alcuni bisogni fon- damentali dell’uomo: Dio èsolo l’idea che esprime ciò che l’uomo aspira ad essere. — Sulla scorta di Feuerbach, Marx radicalizza l’interpretazione affermando che la religione è una delle sovrastrutture prodotte da una determinata strut- tura economica e che di essa la classe egemone si è sempre servita per man- tenere lo stato di sottomissione della classe subalterna. — La soluzione della questione economico-sociale prospettata dal comuni- smo decreta la scomparsa della religione. — Comte, padre del positivismo, colloca l’esperienza religiosa nella fase primitiva della storia dell'umanità, che nella sua fase matura {quella del pro- gresso industriale e scientifico) è chiamata ad esprimere un unico culto, quello di se stesso: il culto dell'Umanità. — La religione viene considerata un fenomeno proiettivo e illusorio anche da Freud, che considera il fatto religioso come espressione dell'idea del padre che l'inconscio umano porta dentro di sé. — Nietzsche giunge perfino a decretare la « morte di Dio », con particolare riferimento al Dio cristiano, in un mondo in cui il Super-Uomo non lascia più spazio alla realtà dei miseri, dei deboli, degli umili, dei poveri. — Esistenzialisti (per esempio Sartre ed Heidegger) e neopositivisti (Car- nap, Ayer) negano alcun valore alla dimensione religiosa, i primi impegnati totalmente sulla dimensione dell’immanenza e dell’esistenzialità dell'uomo, i secondi perché ritengono valide solo le proposizioni il cui contenuto è speri- mentalmente verificabile. IV. DIFESA DELLA RELIGIONE — Kierkegaard attribuisce allo stadio religioso il grado più elevato del- l’esistenza umana che affida il proprio senso alla fede e all'adorazione di Dio. — Bergson arriva all'esistenza di Dio attraverso l’esperienza dei mistici, che egli considera gli esperti delle cose divine. — Blondel cerca di fondare il fenomeno religioso sull'analisi del dinami- smo umano considerato nella sua struttura essenziale; l’azione, che trova solo in Dio la giustificazione della sua spinta all'infinito. — James afferma che fondamento della religione sono la fede, il sentimen- to e la preghiera. Una religione autentica deve guardare a una certa metafisica o a una certa cosmologia razionale e la fede in Dio, i cui attributi sono « mo- rali », può servire da base ad una teologia razionale. Il valore oggettivo della religione è stato ribadito soprattutto da pensatori tedeschi: — Scheler afferma il carattere assoluto e perenne dell'esperienza religiosa. Il fondamento ultimo della religione è l’automanifestazione personale di Dio, che avviene attraverso gli uomini religiosi, culminanti nel Cristo, il « Santo originario ». — Otto configura il fenomeno religioso come sentimento del numinoso che assume due aspetti: il mysterium tremendum (aspetto repulsivo) e il myste- rium fascinans (aspetto attrattivo e affascinante). L'aspetto irrazionale si ac- compagna a quello razionale dei simboli e dei dogmi, che conferiscono al sacro il carattere di dottrina rigorosa, oggettivamente valida. 113 — Ricordiamo tra gli assertori del valore oggettivo dell'esperienza reli- giosa anche Schmidt, Guardini, Adam, Tillich, Dessauer, Lang. V. DEFINIZIONE DELLA RELIGIONE E SUA DISTINZIONE DALL'ARTE, DALLA FILOSOFIA E DALLA MORALE 1. La religione è stata definita da Lang come l'insieme di conoscenze, azioni, strutture con cui l’uomo esprime riconoscimento, dipendenza, venerazione nei confronti del sacro. 2. Soggetto della definizione è l'atteggiamento assunto dall'uomo nell’espri- mere la sua religiosità; oggetto è l'essere Sacro. Sacro è un concetto primario, fondamentale, come l'essere, il bene, il vero, ecc. Pertanto può essere spiegato solo attraverso le categorie dell'esperienza religiosa. 3. Le categorie del sacro sono state ben evidenziate da R. Otto: numinosità, misteriosità, maestà, fascino, oggettività, assiologia, trascendenza, personali- sticità. 4. a) La religione si distingue dalla filosofia in ordine all'elemento sogget- tivo: quest’ultima procede astrattamente e speculativamente, mentre la prima è un atteggiamento totale, personale .e singolare dell'io; b) la religione si di- stingue dall'arte in ordine all'elemento oggettivo: per la prima esso è il reale, per la seconda è l'ideale; c) religione e morale pur strettamente legate sono distinte: la prima è incontro personale e contatto con Dio, la seconda è realiz- zazione dei valori che rispettano l’uomo. VI. FONDAZIONE TEORETICA DELLA RELIGIONE 1 La fondazione è possibile attraverso due strade: a) la metafisica fa leva sulla forza della ragione. La sua aspirazione è di provare l’esistenza di Dio, la creazione del mondo, la possibilità della rivelazione; b) l’ermeneutica assume come punto di partenza un evento storico particolare (ad esempio la rivela- zione biblica). 2. Limite della metafisica è quello di non poter alimentare la vita religiosa (intimità con Dio, amore, adorazione, preghiera). Limite dell'ermeneutica è quello di poter provare come un evento storico particolare può assurgere a valore universale assoluto. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. In quale misura la dimensione del mistero circonda la vita umana e si sottrae al possesso della conoscenza e dell'indagine scientifica? L'uomo può veramente ignorare questa dimensione? 2. Perché la religione è un fenomeno problematico? 3. Come provano l’esistenza di Dio Aristotele, Agostino, Tommaso, Ansel. mo, Cartesio, Leibniz? 4. Che cosa si intende per prova ontologica? 5. Kant quale classificazione presenta delle prove dell’esistenza di Dio? Che valore assegna alle prove tradizionali? 6. Su quali ragioni basano la demistificazione della religione Feuerbach, Marx, Comte, Freud, Nietzsche, Sartre, Carnap? p 7. Che funzione assegnano alla religione Spinoza, Hegel, Croce? 8. Su che cosa fondano la religione Schleiermacher, James, Bergson, Otto, Scheler? © 9. Come ha avuto origine la religione? Che cos'è il sacro? Qual è la sua relazione col profano? | 10. In che rapporto si trovano religione e cultura, religione e cristianesimo, ‘religione e filosofia, religione e scienza, religione e mito, religione e morale, ‘religione e arte? 114 11. Fino a che punto il nostro tempo ha perso il senso del mistero e di Dio? Quati le conseguenze storico-culturali ed etiche più evidenti? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., L'ateismo: natura e cause, Massimo, Milano 1983. 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WINDELBAND W., Filosofia e filosofia della religione, Benucci, Perugia 1982. 115 Etica: studio dell’attività umana riferita al suo fine ultimo Prospettiva critica: indagine sui codici morali e le prescrizioni Capitolo nono | IL PROBLEMA ETICO O MORALE QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che cosa caratterizza il comportamento umano? In che misura libertà e capacità di scelta orientano l’azione? 2. Come si può definire il valore morale? L'etica o morale, secondo una delle definizioni più comuni, è lo studio dell'attività umana con riferimento al suo ultimo fine, che è la piena realizzazione dell'umanità. Il problema etico assume due aspetti principali: uno riguarda il fondamento e il valore dei codici, dei principi, delle norme, delle persuasioni morali già esistenti; è la prospettiva critica. L'altro ri- guarda le condizioni che rendono possibile l’azione morale in asso- luto; il criterio di ciò che è morale e immorale per l’uomo; il fine ultimo della vita umana e i mezzi più adatti per raggiungerlo. Que- sta è la prospettiva teoretica. Le due prospettive non sono disgiunte l'una dall'altra, ma intimamente connesse, in quanto la prima fa da preambolo alla seconda: infatti la teorizzazione sistematica della morale richiede la valutazione critica dei comportamenti comuni. 1. La prospettiva critica La prospettiva critica riguarda gli interrogativi suscitati dalle prescrizioni e dalle norme dei codici morali. Infatti, se tali codici non sono suffragati dall'autorità divina, è naturale che ci si domandi: Chi li ha stabiliti? Che valore hanno? Si possono cambiare? A chi spetta il diritto di sostituirli con altri? Tocca alla collettività, oppure ai singoli, o ai governanti? Nella storia della filosofia questi sono gli interrogativi che han- no dato il via alla riflessione morale. Essi sono già dibattuti vivace- mente dai Sofisti, ma poi sono ripresi anche dalla filosofia morale di Socrate, Platone, Aristotele e dagli Stoici. Il contesto politico e culturale dell'età di Pericle era particolar- mente propizio allo sviluppo della critica della morale tradizionale. Le guerre con i Persiani e il commercio con gli altri popoli avevano rivelato ai greci nuovi stili di vita, e di pensiero, costituzioni civili e consuetudini morali diverse dalle proprie. Questo induce i Sofisti, 116 che già avevano rinunciato alla riflessione sul mondo per concentrare la propria attenzione sull'uomo, ad interrogarsi sul fondamento del- le norme che regolano la condotta umana. La constatazione che tali norme presentano notevoli divergenze presso i vari popoli li induce a concludere che esse non si fondano sulla natura umana bensì su determinate convenzioni sociali. Gli stati fissano per i propri citta- dini le convenzioni che giudicano più opportune per il loro benessere individuale e sociale. Ovviamente i Sofisti ritengono che il popolo greco possegga le convenzioni morali più elevate di qualsiasi altro popolo barbaro. Ma poiché non si tratta di principi morali innati bensì acquisiti, occorre farli apprendere alla gioventù mediante una apposita istruzione ed educazione. Di qui l’importanza che assume l'insegnamento morale nella polis greca. I Sofisti dicono di assumersi la responsabilità di tale insegnamento e si presentano perciò come « maestri di virtù ». Il problema del fondamento dei codici e delle consuetudini mo- rali viene ripreso ed approfondito da Socrate il quale lo fa con tale originalità di vedute da meritare di essere considerato*il creatore della filosofia morale: « Socrate è il principale punto di partenza da cui si distaccano tutte le successive linee di sviluppo del pensiero etico greco; le speculazioni sulla condotta umana prima di Socrate, a nostro avviso, sono semplicemente un preludio alla effettiva rap- presentazione ».! Socrate prende nettamente posizione contro le due tesi basilari dei Sofisti. Contro la prima la quale dice che i codici morali, le per- suasioni etiche, i concetti fondamentali dell'etica (come buono, giu- sto, onesto, ecc.) sono frutto di convenzioni sociali, Socrate sostiene che essi trovano invece il loro fondamento nella natura stessa delle cose e dell’uomo. Parimenti contro la seconda tesi la quale afferma che le idee e i principi morali si apprendono mediante l’insegnamen- to, Socrate mostra che l'insegnamento presuppone il possesso di tali principi ed idee, e contribuisce tutt'al più alla presa di coscienza ri- guardo ai medesimi. Ma Socrate non si accontenta di respingere le tesi dei Sofisti contrapponendo ad esse altre tesi che si ispirano alla visuale filosofica opposta; egli sposta l'indagine morale ad un livello più profondo domandandosi come si possano giustificare le valuta- zioni morali. Certo, valutazioni morali se ne davano anche prima di Socrate. Per esempio Eutifrone (il personaggio dell'omonimo dia- logo di Platone) riteneva « empia » la condotta di suo padre e per questo aveva deciso di denunciarlo; ma l’incontro con Socrate gli impone in sostanza questo problema: « Perché giudico empia la con- dotta di mio padre? Che cos'è l’empio e che cosa invece il suo op- posto, il santo? ». Si badi bene, la domanda non è « che cosa è empio e che cosa è santo » — questo può indicarlo anche l'ordine E Outlines of the History of Ethics, Macmillan, London 1949, Pp. . 117 L'’interrogativo dei Sofisti sul fondamento della norma morale Socrate: critica al convenzionalismo e fondamento naturale della morale Il fondamento ultimo della moralità La nozione di bene e di male Prospettiva teoretica: le condizioni trascendentali dell’agire morale costituito (quell’ordine in base al quale Eutifrone aveva deciso di procedere contro suo padre) — bensì « che cos'è l’empio e i/ santo », ossia che cosa sono l’empietà e la santità, che cosa sono cioè quei valori in base ai quali si può dichiarare empia o santa una deter- minata azione, e giustificare questa valutazione. Come si vede, Socrate non si accontenta di prendere in esame i codici morali correnti e di verificarne la legittimità. Egli si spin- ge più avanti e si interroga sul fondamento ultimo della moralità in quanto tale. In tal modo egli oltrepassa il problema critico e si cimenta con quello teoretico. La sua soluzione di questo pro- blema è nota. Scavando sotto le apparenze le quali danno l’im- pressione che non esista nessun principio morale assoluto, univer- sale, Socrate mostra che l’uomo è in possesso di un criterio su- premo di moralità che lo aiuta a distinguere il bene dal male. È vero che gli uomini considerano buone cose diverse: uno pone il suo bene nella ricchezza, un altro negli onori, un altro ancora nella virtù; ma è anche vero che ogni uomo possiede la stessa nozione di bene e di male. Un uomo può amare le ricchezze e considerarle buone, un altro può considerare buoni gli onori, un altro i piaceri. Ma, osserva Socrate, nessuno dirà che il bene è male e che il male è bene; ognuno cercherà quello che egli considera bene e fuggirà quello che considera male. È evidente, dunque, che in ciascun uomo c'è la nozione o concetto di bene e di male, in se stessa sempre ugua- le, anche se la sua applicazione è diversa. Il problema critico del fondamento e del valore dei codici e delle consuetudini morali dopo Socrate viene ripreso spesse volte da molti altri filosofi, ma senza più uscire dall’alternativa già emer- sa nel dibattito tra Socrate e i Sofisti, l'alternativa tra convenzio- nalismo (la soluzione dei Sofisti) e naturalismo (la soluzione di So- crate). A favore del convenzionalismo si schierano gli epicurei, gli scettici, i nominalisti, Cartesio, gli empiristi, i positivisti, gli esi- stenzialisti, i marxisti e altri ancora. Si mettono invece dalla parte del naturalismo Platone, Aristotele, Plotino, i neoplatonici, la mag- gior parte degli scolastici, gli idealisti, i neorealisti e i neotomisti. 2. La prospettiva teoretica La prospettiva teoretica verte sulle condizioni trascendentali del- l'agire morale e sul criterio supremo per distinguere il bene dal male. Quanto alle condizioni trascendentali tutti i filosofi sono d’ac- cordo nel riconoscere che la prima di tutte le condizioni è la libertà. Essi potranno discutere sulla possibilità o meno di provare teoretica- mente che l'uomo possiede questa qualità, ma non sul principio che se l'uomo non è libero non si può assolutamente parlare di mora- lità. Questa verità già lucidamente illustrata da Aristotele nell’Etica nicomachea fu ulteriormente approfondita dagli Scolastici, in parti- 118 colare da san Tommaso, da Cartesio e da Kant. Questi considera la libertà la conditio essendi della morale e fa di essa il primo postu- lato della ragion pratica ossia della filosofia morale. A proposito della libertà Vanni Rovighi osserva giustamente che essa è non soltanto una condizione ma anche una componente co- stante dell'atto morale. Essa non precede la scelta e poi viene meno, ma accompagna la scelta dall'inizio alla fine. « La scelta è sempre libera, perché sempre il tradurre in azione un giudizio valutativo esige impegno. Il valore da attuare in concreto non ci determina mai necessariamente perché non incarna mai totalmente il valore, per- ché non è mai la pienezza del valore. Un’azione giusta e generosa è sempre abbastanza scomoda e faticosa per poter essere guardata sotto questi aspetti negativi, e quindi scartata, e il giudicare che hic et nunc è il mio vero bene, che l’autentica attuazione di me stesso è questa, anche se impone un sacrificio, esige sempre, come si diceva, un impegno, un atto di volontà »- Un'altra condizione trascendentale della morale è là consapevo- lezza o coscienza. Di per sé questa è già implicita nella condizione precedente:peressere veramente libera un'azione implica che si conosca ciò che si fa. Uno dei principi più elementari della morale cristiana dice giustamente che, per essere grave, un'azione cattiva dev'essere compiuta con piena avvertenza, ossia con consapevolezza. L'assenza di questa condizione può essere determinata da due motivi: a) errore riguardo a ciò che si fa (si sceglie una cosa per un'altra); b) mancanza della facoltà raziocinativa o impedimento del suo uso in chi agisce (per esempio, il bambino che non ha ancora l’uso di ragione, il pazzo, l'ubriaco, ecc.). La terza condizione trascendentale della morale è che la libertà sia guidata da qualche norma, da qualche principio direttivo. Una libertà assoluta che rifiuti di sottostare a qualsiasi legge, come quella affermata da Nietzsche e Sartre, diventa necessariamente una libertà amorale. Ma a quali norme deve sottostare la libertà? Qui tocchiamo già la questione del criterio supremo della moralità, una questione che vede i filosofi profondamente divisi. Da una parte si trova una va- stissima schiera d’autori che assegnano la funzione di criterio su- premo al fine ultimo verso cui si dirige l'uomo nelle sue azioni. Dall'altra si trova un gruppo abbastanza nutrito di filosofi che asse- gnano il ruolo di criterio supremo alla legge, al dovere. Le morali costruite sul principio del fine si chiamano teleologiche; invece quelle costruite sul principio del dovere si chiamano deontologiche, Dato, però, che tutt'e due i principi, fine ultimo e dovere, sono suscettibili di diverse interpretazioni (così, per esempio, il fine ultimo può essere identificato col piacere, oppure con l'interesse, 2 S. VANNI RovIGHI, « Il problema morale », in Studio ed insegnamento della filosofia, Ave, Roma 1969, vol. I, pp. 294-295. 119 Costante interazione tra libertà e scelta La consapevolezza 0 coscienza Morali teleologiche e morali deontologiche Le concezioni relativistiche o situazionali Edonismo: il bene morale è il piacere sensibile Epicuro: il piacere come assenza di dolore La virtù mezzo per conseguire il vero piacere l'utile o privato oppure della società, con la felicità, con i valori, ecc., e il dovere può essere fondato su leggi divine oppure naturali oppure civili, ecc.) ne consegue che si possono sviluppare vari tipi sia di morali teleologiche sia di morali deontologiche. Nel gruppo delle morali teleologiche i'tipi principali sono: edo- nismo, utilitarismo, eudemonismo e l'etica dei valori. Mentre nel gruppo delle morali deontologiche i tipi principali sono due: stoici- smo e formalismo kantiano. Ci sono però alcuni filosofi che rifiutano di costruire la morale su di un principio assoluto, sia esso il fine ultimo oppure il dovere. Ammettono senz'altro che l’uomo ha doveri da compiere, leggi da osservare, fini da realizzare, ma questi mutano da un'epoca all'altra, da un luogo all’altro, da una circostanza all'altra. Pertanto ritengono che si possano elaborare soltanto etiche relativistiche o situazionali. Nelle pagine che seguono esporremo brevemente questi tipi fon- damentali di morale teleologica, deontologica e situazionale, riferen- doci a qualcuno degli autori più rappresentativi. a) Edonismo - L'edonismo assume quale criterio supremo della moralità il piacere sensibile e, pertanto, identifica il bene morale con quest'ultimo. Esso è stato professato anzitutto da alcune cor- renti della filosofia greca: i Sofisti, i Cirenaici e gli Epicurei, e poi da vari autori dell'epoca moderna: Montaigne, Hobbes, Helvetius, Bentham, Stuart Mill, Freud. I più noti assertori dell'etica edonistica sono gli Epicurei, ai quali si deve senz'altro l'elaborazione più rigorosa di questo tipo di morale. Epicuro giustifica la scelta del piacere quale criterio supremo della morale nel modo seguente: « Noi diciamo che il pia- cere è principio e fine della vita felice, perché abbiamo riconosciuto che tra i beni il piacere è il primo e quello più connaturale a noi ». In effetti è sempre per il piacere che noi scegliamo di fare o di fuggire qualche cosa. a Il piacere in cui Epicuro fa consistere la felicità è la vita pacifica, l'assenza di qualsiasi preoccupazione (atarassia). Il piacere è quindi concepito come assenza di dolore piuttosto che come soddisfaci- mento di qualsiasi passione: « Quando diciamo che il piacere è il bene supremo non intendiamo riferirci ai piaceri dell'uomo corrot- to, che pensa solo a mangiare, bere e alle donne ». La virtù è il mezzo per conseguire il vero piacere. Virtuoso è colui che coglie il vero diletto secondo moderazione e misura, e limita il suo desiderio a quei piaceri che non turbano l’anima. Per il pieno raggiungimento dell’atarassia, della felicità, Epicuro raccomanda di liberarsi dalle tre preoccupazioni che maggiormente assillano l'uomo: gli dèi, la morte e la politica? L'etica edonistica teorizzata da Epicuro e propagandata dai suoi ' Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 176-177. 120 discepoli in tutte le regioni dell'impero ellenistico, aveva già trovato dei convinti assertori in alcuni filosofi del secolo V a. C., soprattutto tra i Sofisti e i Cirenaici (questi ultimi capeggiati da Aristippo). Le loro teorie avevano richiamato l’attenzione di Platone e di Aristotele, i quali elaborano le loro dottrine morali in costante polemica con le posizioni degli edonisti, mettendone in luce i gravissimi limiti. In- fatti la natura umana si caratterizza per la sua componente spiri- tuale, l'anima, e, quindi, non può avere per fine il piacere, bensì la virtù, in particolare la virtù della sapienza. Questa e non il pia- cere costituisce il criterio supremo della moralità, e per conseguire la sapienza l'uomo dev'essere disposto a compiere qualsiasi sacrificio. Una critica altrettanto perentoria dell’edonismo si ha col cristia- nesimo che esalta l’amore come superamento dell’egoismo e del- l’edonismo, e rivela i lati positivi del dolore, i quali lo rendono per- fino amabile, non in sé, ma come mezzo insostituibile di purifica- zione e di perfezione individuale, e di redenzione per gli altri. b) Utilitarismo - L’utilitarismo assume come criterio supremo della morale l’utile, l'interesse, il vantaggio. Di esso si danno due ver- sioni principali, dette utilitarismo egoistico e utilitarismo altruisti- co o sociale. Il primo fa valere come criterio l'utilità, l'interesse del singolo; invece il secondo fa valere l'interesse, il vantaggio della collettività. Il sostenitore più convinto dell’utilitarismo egoistico è Hobbes; mentre quasi tutti gli altri massimi esponenti della filosofia inglese (Bacone, Locke, Hume, Stuart Mill, Russell) sostengono l’u- tilitarismo altruistico e criticano severamente la posizione di Hob- bes. Così, per esempio, Hume osserva, contro Hobbes, che la lode e il biasimo che noi accordiamo ad azioni virtuose compiute lontano da noi (lontananza di tempo e di spazio) oppure da un nostro avversario e che possono anche nuocerci, provano l’esistenza, all’ori- gine dei nostri sentimenti, di qualcosa che sfugge all’istinto egoista e che non pretende di far appello nemmeno ad un interesse privato immaginario. Vi sono inoltre inclinazioni in noi, come la generosità, l’amore, l'amicizia, la compassione, la rettitudine, che hanno « cause, effetti, oggetti, operazioni » totalmente diverse da quelle delle pas- sioni egoistiche. L'ipotesi di una benevolenza disinteressata, distinta dall'amore proprio, è realmente più semplice e più conforme all'e- sperienza dell'ipotesi che pretende di risolvere ogni sentimento u- manitario attraverso l'egoismo. Vi sono esigenze naturali e passioni mentali che ci spingono verso l'oggetto senza alcuna considerazione di puo interesse. A Stuart Mill spetta il merito d'avere elaborato una forma sofi- sticata di utilitarismo in cui cerca di far coincidere il piacere indi- viduale (fissando una ingegnosa « scala dei piaceri ») con l'utilità della collettività. La coincidenza si realizza allorché si dà la prefe- renza ai piaceri del « cuore » (devozione e altruismo), inesauribili produttori di gioie incessantemente rinnovate per colui che dà come 121 L'utilitarismo egoistico di Hobbes Stuart Mill: piacere individuale e interesse collettivo Eudemonismo in Aristotele e Tommaso: la felicità come piena realizzazione dell’essere Contemplazione filosofica e contemplazione teologica per colui che riceve. Il traguardo di questa mirabile fusione non è frutto di calcoli egoisticamente sottili, ma piuttosto di un pro- cesso psicologico di associazione delle idee. Secondo Mill, grazie a tale processo, la nozione di interesse proprio e ia nozione di interesse altrui diventano così strettamente fuse che l'individuo non può più pensare alla propria felicità senza, automaticamente, pensare a quella degli altri: donde l’aspetto d'obbligazione e di spontaneità, allo stesso tempo, che assume la vita morale presso l’in- dividuo realmente virtuoso. c) Eudemonismo - Per l’eudemonismo (dal greco eudaimonia), il criterio supremo della morale è la felicità, cosicché un'azione è giudicata moralmente elogiabile oppure riprovevole a seconda che sia o no compiuta in vista della felicità, I massimi esponenti di questo tipo di morale sono Aristotele e Tommaso d'Aquino. Secon- do entrambi questi autori ogni azione è diretta ad un fine, ma que- sto non basta a renderla eticamente valida; ciò avviene soltanto nel caso che il fine particolare in vista del quale è compiuta sia in ar- monia col fine ultimo verso cui è orientato colui che la compie. Il fine ultimo d'ogni ente è la sua piena realizzazione, e questa si ottiene con lo svolgimento a pieno ritmo di quell’attività che gli è propria, ossia di quell'attività che attua la sua natura specifica. Dal raggiun- gimento dell'ultimo fine dipende la sua felicità. Quanto all'uomo, l’attività che lo distingue dagli animali è il pensiero, la cui espres- sione massima è la contemplazione. Perciò la felicità dell'uomo non consiste né nelle ricchezze né negli onori e tanto meno nel piacere (tutte cose che anziché contribuire alla piena realizzazione della men- te umana, la disturbano e persino l’offuscano interamente), bensì nella contemplazione. Ma contemplazione di che cosa? Su questo punto c'è una parziale divergenza tra Aristotele e Tommaso. Secondo Aristotele la contemplazione che assicura all'uomo la piena felicità è quella della verità assoluta nei tre campi della fisica, della mate- matica e della metafisica. Invece per san Tommaso la contempla- zione ha un senso eminentemente teologico: secondo il pensatore di Aquino l’unica contemplazione che può esaurire tutte le esigenze del pensiero e che perciò può ricolmare l’anima di felicità è la con- templazione di Dio. Per comprendere bene il pensiero di san Tom- maso su questo punto occorre però fare una precisazione: la cono- scenza di Dio in cui egli ripone la piena felicità dell'uomo non è certamente quella conoscenza analogica di Dio che la nostra mente può raggiungere durante la vita presente. Neppure la conoscenza metafisica più eccelsa può bastare a farci felici, dato che la rîfles- sione filosofica ci fa vedere più quello che Dio non è, che quello che egli è. Persino la conoscenza che otteniamo mediante la fede è insufficiente a farci felici: essa mette a disagio la nostra mente piuttosto che appagarla. La sola conoscenza in cui san Tommaso ri- pone la nostra felicità è la visione beatifica di Dio, una conoscenza 122 soprannaturale che possiamo ottenere solamente nella vita futura. S'è detto che la moralità d'una azione secondo Aristotele e Tom- maso dipende dal rapporto che intercorre tra il fine al quale essa è di fatto diretta e il fine ultimo. Ora, a questo proposito sorge spon- taneamente la domanda: come fa l’uomo a determinare la moralità delle proprie azioni? Chi lo istruisce sui rapporti esistenti tra le azio- ni che vuole compiere e il suo fine ultimo? Sia secondo Aristotele che Tommaso, questa è la funzione propria della legge, la quale è essenzialmente l’espressione della moralità d'una azione. Si danno però due tipi principali di legge. C'è anzitutto una legge naturale, la quale è conosciuta infallibilmente solo nei suoi principi più univer- sali, come, per esempio, « fa' il bene e evita il male ». Da questi principi generali della legge naturale l’uomo può procedere a deter- minare la moralità delle singole azioni mediante il ragionamento. E questo è il compito principale dell’etica e di chi fa filosofia morale cioè del saggio. Senonché questo è un lavoro che ben pochi hanno la possibilità e capacità di svolgere. Ecco allora che subentra la legge positiva (umana per Aristotele, anche divina per Tommaso), la quale ha la funzione di determinare la legge naturale e di applicarla ai casi concreti.‘ d) Stoicismo - Lo stoicismo assume come criterio supremo della morale la pratica della virtù. I tratti essenziali dello stoicismo etico sono già presenti in Platone. Questi nel Gorgia dimostra che merita più compassione chi commette ingiustizia che colui che la soffre; con lo stesso ragionamento nella Repubblica dimostra che è più fe- lice il giusto in croce che l'ingiusto che nuota in un mare di piaceri. Infine, nel Fedone insegna che per raggiungere la felicità è necessario rinunciare ai piaceri e alle ricchezze e dedicarsi alla pra- tica della virtù. Gli insegnamenti etici di Platone sono stati ripresi e sviluppati con maggiore organicità da Zenone e dai suoi discepoli (ossia dagli Stoici). Il loro principio fondamentale è che condotta morale significa condotta secondo ragione (vale a dire secondo il Logos). Condotta secondo ragione vuole dire pratica della virtù. Pertanto la virtù costituisce il criterio supremo della moralità. Ma che cosa intendono gli Stoici per virtù? La virtù è una dispo- sizione interna dell'anima per la quale essa si trova in armonia con se stessa, ossia col proprio Logos. La virtù non consiste come aveva creduto Aristotele nel giusto mezzo tra due difetti opposti, bensì in uno dei due estremi: e precisamente nell'estremo conforme alla ragione (mentre l’altro estremo è conforme alle passioni). Tra virtù e vizio non si dà via di mezzo; uno non è più o meno vizioso o più o meno virtuoso: o è virtuoso o è vizioso. E di fatto, chi vive secondo ra- 4 Ivi, pp. 139-141. 5 Ivi, pp. 92-93. 123 La funzione regolatrice della legge morale Il criterio morale supremo dello stoicismo è l'esercizio delle virtù La virtù: condotta secondo ragione La virtù è l'assoluto dominio della ragione La ‘‘apatia’’ degli Stoici: superamento dell’egoismo e immedesimazione nel Logos Il formalismo etico: l'esecuzione del dovere L’“‘imperativo categorico’’ di Kant come norma suprema della moralità gione, cioè il saggio, fa tutto bene e virtuosamente; invece chi è privo della retta ragione, lo stolto, fa tutto male e in modo vizioso. La pratica della virtù secondo gli Stoici consiste nell’apatia (a- patheia), cioè nell'annullamento delle passioni e nel superamento della propria personalità. Solo superando la propria personalità, che è l'indice estremo dell’egoismo, perdendo la propria individua- lità, è possibile congiungersi col Logos. Per questo è necessario liberarsi dalle passioni che sono le catene che legano l’anima al cor- po e le impediscono di unirsi al Logos. Per raggiungere questa libertà di spirito bisogna essere indifferenti alle contingenze della vita quotidiana, e a tutto ciò che non è in nostro potere. La morale stoica con i suoi spunti fortemente ascetici e con il suo impegno squisitamente interioristico e spirituale presenta una considerevole affinità con la morale cristiana. Questo spiega perché essa abbia incontrato il favore della chiesa primitiva e abbia indotto i padri della chiesa e molti scolastici ad incorporarla nella loro dottrina morale. Ciò è durato fino a quando san Tommaso, riabili- tando Aristotele, introdusse una nuova visione dell'uomo e delle cose in cui si esaltano non soltanto i valori dell'anima e del cielo ma anche quelli del corpo e di questo mondo. Il felice connubio du- rato tanti secoli tra stoicismo e cristianesimo fu allora interrotto. e) Formalismo etico - Il formalismo etico pone il criterio supre- mo della morale nella pratica della virtù, nell'esecuzione del dovere, nell’obbedienza alla legge, come lo stoicismo. Ma esso insiste ancor di più di quest’ultimo sulla non pertinenza dei contenuti al fine di determinare il valore morale di una azione: ciò che conta è esclusiva- mente la forma e questa è data dall’obbedienza alla legge per la legge, dall'esecuzione di un'azione solo per puro amore del dovere. Questa è la nota concezione della morale che Kant sviluppa nella Critica della ragion pratica. In quest'opera Kant sostiene che il cri- terio supremo della morale non può essere derivato dall’esperienza, perché in tal caso si avrebbe un criterio soggettivo e particolare, per- ciò variabile e contingente, che determinerebbe la volontà ad agire per un fine esterno ad essa e non per la legge morale che la volontà dà a se stessa: la volontà sarebbe eteronoma e non autonoma, come invece esige la moralità dell’azione. Perché il criterio supremo della moralità abbia validità assoluta e universale, è necessario che sia indipendente da ogni possibile oggetto particolare e si riferisca ad una forma a priori incondizionata. Come la conoscenza è universale e necessaria non per il contenuto fornito dall'esperienza, ma per la forma a priori che la riveste; così un'azione assume valore morale non in forza dell'oggetto a cui è rivolta bensì per una forma a priori, una legge pura. Tale forma a priori, tale legge pura, per Kant è l'im- perativo categorico: « obbedisci alla legge per la legge stessa e per ‘ Ivi, pp. 171-174. 124 nessun altro motivo ». L'obbedienza a questo imperativo costituisce l'essenza della morale. « L'essenziale d'ogni determinazione della vo- lontà mediante la legge è: che essa come volontà libera, quindi non solo senza il concorso degli impulsi sensibili, ma anche con l’esclu- sione di tutti quegli impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni, in quanto possono essere contrarie a quella legge, venga determinata solo mediante la legge ». Kant, però, è consapevole che la norma dell'imperativo categorico è troppo astratta e indeterminata per costituire una guida valida ed efficace della vita morale, e pertanto suggerisce alcune formule che consentono a chi agisce di verificare se la propria azione sia con- forme all'imperativo categorico o no. Le formule sono le seguenti: Prima: « Agisci in modo che la massima della tua azione possa sempre valere al tempo stesso come principio universale di con- dotta ». Seconda: « Agisci in modo da trattare l'umanità sia nella tua persona che negli altri come fine e mai come mezzo ». Terza: « A- gisci in modo che la tua volontà possa considerare se stessa come istituente una legislazione universale », ossia agisci secondo mas- sime tali che la volontà d'ogni uomo, in quanto volontà legislatrice universale le possa approvare. f) Etica dei valori o assiologia? - Da alcuni autori (Meinong, Hart- mann, Scheler, ecc.) il tentativo di Kant di uscire dal soggettivismo facendo appello ad un principio a priori non è ritenuto valido, e que- sto per due ragioni. Prima, perché deriva il criterio dell’imperativo categorico esclusivamente da un dettame della coscienza indivi- duale. Seconda, perché prescinde completamente dal contenuto delle azioni. Al fine di restituire obiettività al criterio supremo della mo- rale essi si richiamano alla tradizione classica, la quale come s'è visto, assegna la funzione di norma suprema della morale al bene. Questo però viene da loro concepito non tanto come fine ultimo quanto come valore. Di qui il nome della loro etica. Il massimo esponente di questa concezione del fondamento della morale è Max Scheler. Nell'opera Formalismo nell'etica e l'etica ma- teriale dei valori egli fa vedere che la critica kantiana all'etica ma- teriale può valere soltanto se riferita a dei beni particolari, ma non vale se riferita al bene inteso come valore. Questo infatti non è per nulla un dato empirico come pretende Kant, ma qualcosa di as- soluto. Il valore, precisa Scheler, è l'oggetto proprio dell'etica così come l’essere è l'oggetto della metafisica, il bello dell'estetica, il sacro della religione, il fatto della storia. E pertanto come per la percezione del bello, del sacro, dell'essere, ecc., si danno organi specifici, simil- mente l’anima possiede un organo particolare per la percezione del valore. Quest'organo non è né la fantasia, né il senso, né la ragione, ® I KANT, Critica deîla ragion pratica, Laterza, Bari 1924, p. 87. $ B. MONDIN, vol. 1I, pp. 320-326. ? L'etica dei valori (o assiologia) è trattata più ampiamente nel cap. XIV. 125 Le tre massime universali di Kant L’etica dei valori: recupero del contenuto delle azioni Scheler: il valore - oggetto della morale L’apprensione emozionale come sentimento intenzionale I valori della persona e i valori delle cose Relativismo morale e gnoseologia scettica ma qualcosa di diverso, che Scheler chiama « organo emozionale ». L'organo emozionale che ci pone a contatto col valore si articola in un « sentire » che coglie i singoli valori, in un « preferire » che ne stabilisce la gerarchia, e in un « amare » che precede il sentire e il preferire nella ricerca di nuovi valori, « come un pioniere e una guida ». Siffatta apprensione emozionale non ha nulla a che vedere con la sensibilità empirica, perché il valore è una qualità che sussi- ste del tutto indipendentemente, non una proprietà connessa sostan- zialmente con l'oggetto che ne è il portatore; tanto è vero, osserva Scheler, che la « sfumatura di valore » di un oggetto, ad esempio il carattere simpatico o antipatico di una persona, è colto prima an- cora che si colga distintamente l'oggetto stesso. E neppure si tratta di un sentimento psicologico, bensì di un sentimento intenzionale, che è « un originario riferirsi o indirizzarsi a qualcosa di oggettivo », qual è appunto il valore. Determinato il criterio fondamentale dell’etica e la facoltà co- noscitiva atta a riconoscerlo, Scheler passa a considerare quali sono di fatto i valori che l’uomo conosce e con quale ordine gerar- chico si presentano. Scheler distingue due classi di valori: valori di persona {Personwerte) e valori di cosa (Sachwerte). Ovviamente i valori di persona sono quelli che si riferiscono alla persona, e cioè anzitutto il valore dell'essere stesso della persona e poi i valori delle virtù. Invece valori di cosa sono quelli che contribuiscono a formare quelle unità axiologiche cosali costituenti i « beni », siano essi beni materiali (utili o piacevoli), beni vitali (come quelli economici), beni spirituali (come la scienza e l’arte), o siano in genere i beni culturali. Di queste due classi solo la prima abbraccia i valori propriamente etici, perché questi, come già osservava Kant, hanno per portatore essenzialmente la persona. Ciò significa che un'azione, che contri- buisce alla formazione e allo sviluppo della persona, in sede etica, merita d'essere giudicata positivamente; mentre invece un'azione che danneggia la persona va giudicata negativamente. g) Relativismo e situazionismo - Con questi due termini si designa una teoria etica, la quale si sforza di dimostrare che le esigenze morali sono determinate da condizioni mutevoli dalle quali derivano, per tali esigenze, contenuti non solo diversi ma anche in parte con- traddittori, cosicché è logico pensare che nessuna istanza morale può essere veramente vincolante. Il relativismo morale come pure il situazionismo si presentano in due forme principali. La prima forma è a base gnoseologica e ha avuto diffusione anche di là dal campo dell'etica filosofica e délla stessa scienza. I suoi principali sostenitori si trovano tra i sofisti, gli scettici, i nominalisti. La seconda forma è a base ontologica: è il relativismo proprio del materialismo storico elaborato da Marx e da Engels. In entrambe queste forme di relativismo, proprio perché si nega 126 l'esistenza di un criterio supremo della moralità, qualsiasi discorso etico diviene arbitrario e, in ultima analisi, privo di senso. A questa conclusione è giunta ultimamente anche la corrente filo- sofica del neopositivismo, in base a considerazioni che a prima vista sono di ordine linguistico, ma guardando a fondo, sono di ordine gno- seologico: si tratta sempre di una concezione empiristica e quindi relativistica della conoscenza umana. I neopositivisti e i loro discendenti, gli analisti del linguaggio, ritengono errata l'impostazione tradizionale della filosofia morale come del resto anche di tutte le altre parti della filosofia. La que- stione primaria e specifica della filosofia in ogni suo settore non è esaminare contenuti e tanto meno stabilirli, bensì studiare il lin- guaggio con cui vengono espressi. Pertanto, per quanto concerne l’e- tica, il compito del filosofo non è di ricercare il criterio supremo della moralità, ma di esaminare il linguaggio proprio della morale al fine di determinarne il vero significato. Secondo i neopositivisti il linguaggio della morale non può avere significato oggettivo, perché non si può controllarlo mediante la « verifica sperimentale »: esso esprime disposizioni soggettive di chi parla oppure è teso a suscitare determinate disposizioni sogget- tive di chi ascolta. È pertanto un linguaggio che ha un valore essen- zialmente emotivo. I filosofi della corrente analitica ritengono arbitraria e falsa la teoria neopositivista del linguaggio, in quanto privilegia indebita- mente un tipo di linguaggio, quello delle scienze sperimentali, ad e- sclusione di tutti gli altri. Il linguaggio modello a loro avviso non è quello scientifico bensì quello ordinario. Il significato e il valore degli altri linguaggi va determinato mettendoli a confronto col lin- guaggio ordinario. L'esito di questo confronto per quanto concerne il linguaggio morale varia da autore ad autore. C'è peraltro una tendenza a riconoscerne il valore oggettivo ed universale.! 3. Il problema etico ha delle soluzioni? Il quadro che ci presenta la storia della filosofia morale è indub- biamente uno dei più sconcertanti: all'uomo che ha bisogno di di- rettive sicure per le sue azioni e di un'indicazione precisa sul senso e il significato ultimo della sua esistenza esso offre i suggerimenti più diversi e contraddittori. Che significa tutto questo? Forse, che ci tro- viamo davanti a problemi insolubili? Molti filosofi, tra cui alcuni anche di ispirazione cristiana, pensano di sì. Noi non siamo di questo parere. Ammettiamo senz'altro che an- che per la morale come per je aitre parti della filosofia sia impossibile ottenere soluzioni dogmatiche, si tratta in effetti di problemi estre- 1° Per il problema del linguaggio vedi cap, III 127 Neopositivismo: determinazione del senso del linguaggio morale Analisi del linguaggio: l'assunzione del linguaggio ordinario come modello Impossibilità di una soluzione dogmatica Esigenza della correlazione antropologica, metafisica e teologica naturale Rapporto tra valore e volontà mamente difficili, la cui soluzione si raggiunge soltanto per la tor- tuosa via della speculazione. Ma ciò non toglie che tale speculazione possa avere esiti positivi e conseguire soluzioni valide. Per raggiungere questo traguardo però occorre sviluppare l'etica su basi teoretiche sufficientemente sicure, derivandole dall’antropo- logia, dalla metafisica e dalla teologia naturale. Una morale autono- ma, totalmente disgiunta dalla metafisica e dalla teologia naturale e indipendente dalla filosofia dell'uomo, così come la concepisce Kant, sfocia necessariamente nel soggettivismo e nel relativismo. D'altronde è inammissibile che si possa dare autonomia etica per un essere come l'uomo, un essere finito, creato da Dio, dal quale riceve oltre all'esistenza, anche lo scopo della sua vita e le regole e i mezzi per conseguirlo. Pertanto la morale è essenzialmente legata alla metafisica e tale nesso si coglie bene nel concetto di valore. La morale, come dicono molti autori, è la scienza dei valori e il suo obiettivo è di promuovere valori come la giustizia, la carità, la pace, la speranza, la sapienza, la modestia, ecc. Ma che cosa sono essenzialmente questi valori? Qual è il loro fondamento? Forse il capriccio individuale? È la volontà umana che stabilisce che cosa è bene, cosa è giusto, cosa è vero, cosa è puro, o è la realtà stessa che porta con sé questi caratteri? La riflessione metafisica può mostrare che è la realtà stessa che pos- siede questi valori. D'altra parte il concetto di valore dice rapporto ad una volontà (valore è la caratteristica per cui una cosa è degna d'essere voluta). Ciò significa che la realtà è in quanto tale voluta; « vuol dire che all'origine delle cose c'è una Volontà intelligente, vuol dire che il supremo Essere, quello da cui procede ogni realtà, è volontà intelligente ».!! Su queste basi metafisiche si può innalzare un edificio morale sufficientemente robusto, universalmente valido e, allo stesso tem- po, solidamente ancorato alla realtà concreta e alla storia. CONCETTI DA RITENERE — Problema critico; problema teoretico — Edonismo; utilitarismo; stoicismo; formalismo etico; etica dei valori o assiologia; relativismo o situazionismo — Apatia; imperativo categorico SINTESI CONTENUTISTICA . I. CARATTERI DEL PROBLEMA 1. L'etica o morale è lo studio dell’attività umana con riferimento al suo fine ultimo, ovvero la sua piena realizzazione. 2. Il problema riveste due aspetti o prospettive: a) critico (fondamento e 4! S. VANNI ROVIGHI, Articolo citato, p. 292. 128 valore dei codici, dei principi, delle norme); b) teoretico {condizioni che ren- dono possibile l'azione morale in assoluto). II. LA PROSPETTIVA CRITICA 1. Si impone da sé a partire dalle norme e dalle leggi che i membri di una società devono osservare. Si pongono i seguenti interrogativi: Chi le ha stabi- lite? Che valore hanno? Si possono cambiare? Chi ha diritto di farlo? ecc. 2. I Sofisti, a motivo delle diversità presenti nei vari popoli, ritengono che le norme etiche siano determinate dalle convenzioni sociali e che i giovani deb- bano essere educati ad esse. 3. Socrate, al contrario, afferma che le norme e i principi etici hanno il loro fondamento nella natura umana e l'educazione pertanto non è finalizzata all’ap- prendimento, bensì alla presa di coscienza di ciò che è innato. 4. Nel corso dei secoli il convenzionalismo avrà i suoi sostenitori negli epicurei, scettici, nominalisti, in Cartesio, negli empiristi, neopositivisti, esisten- zialisti e marxisti. Il naturalismo sarà invece condiviso da Platone, Aristotele, Plotino, dai neoplatonici, dagli scolastici, dagli idealisti, dai neorealisti e dai neotomisti, III. LA PROSPETTIVA TEORETICA 1. Prima condizione trascendentale dell'azione morale è concordemente ritenuta dai filosofi la libertà. La questione aperta da Aristotele «(Etica nico- machea), è stata approfondita da s. Tommaso, da Cartesio e da Kant. 2. Seconda condizione trascendentale è la consapevolezza o coscienza. L'assenza di essa può essere determinata da: a) errore circa ciò che si fa; b) mancanza di facoltà raziocinativa o impedimento momentaneo del suo uso. 3. Terza condizione trascendentale è che la libertà sia guidata da un princi- pio direttivo. Una libertà assoluta (Nietzsche e Sartre) diviene libertà amorale. 4. Circa il criterio supremo della moralità si prospettano due concezioni: la teleologica (basata sul principio del fine); la deontologica (basata sul prin- cipio del dovere) con delle diversificazioni al proprio interno; una terza posi- zione, dettata da orientamenti relativistici, è quella situazionale (leggi e fini mutano attraverso i tempi, i luoghi, le circostanze). Le specificazioni interne ai due criteri sono: — edonismo (Sofisti, Cirenaici, Epicurei, Montaigne, Hobbes, Helvetius, Bentham, Stuart Mill, Freud): criterio supremo è il piacere sensibile, con il quale si identifica il bene morale; — utilitarismo: criterio supremo è l’utile, l'interesse, il vantaggio. Esso si distingue in: a) utilitarismo egoistico (Hobbes) che fa valere come criterio l'utilità e l'interesse del singolo; b) utilitarismo altruistico (Bacone, Locke, Hume, Stuart Mill, Russell) il quale tende a far coincidere la realizzazione del- l'utile individuale con quello della collettività; — eudemonismo (Aristotele, S. Tommaso): criterio supremo è la Felicità: un'azione è morale nella misura in cui fa conseguire la felicità, che esprime la piena realizzazione della persona; — stoicismo: criterio supremo è la pratica della virtù. La prospettiva, già presente in Platone (Gorgia, Repubblica, Fedone) è maggiormente sviluppata dagli Stoici, secondo i quali la pratica della virtù consiste nell’apatia (annulla- mento delle passioni e superamento della propria personalità). L'ascetismo, che caratterizza la morale stoica, ha fatto sì che essa fosse ben accetta dalla Chiesa primitiva; — formalismo etico: il criterio supremo sta nell'esecuzione del dovere e nell'’obbedienza alla legge. Ciò che conta è soprattutto la forma, cioè l’obbe- dienza alla legge (cfr. Kant, Critica della Ragion pratica). — etica dei valori o assiologia {Meinong, Hartmann, Scheler): esprime anzitutto una critica nei confronti del formalismo etico kantiano e si richiama 129 alla tradizione classica, assegnando al bene Ja funzione di norma suprema. Il bene è concepito però come valore più che fine ultimo. Scheler in Formalismo nell’etica e l'etica materiale dei valori afferma che il valore è l'oggetto dell'etica così come l'essere lo è della metafisica, il bello dell’arte, il sacro della religione. L'anima possiede pertanto un organo specifico per percepirlo, che Scheler chiama « organo emozionale » che « sente » i singoli valori, li « preferisce » gerarchicamente e « ama », ovvero ricerca valori nuovi, come « un pioniere e una guida ». Scheler distingue inoltre i valori di persona e i valori di cosa. — relativismo e situazionismo: secondo tali concezioni le esigenze morali sono determinate da condizioni mutevoli dalle quali derivano contenuti non solo diversi ma anche in parte contraddittori: a) la forma a base gnoseologica (sofisti, scettici, nominalisti) ha avuto dif- fusione anche al di là del campo dell'etica e della scienza. b) la forma a base ontologica è quella propria del materialismo storico elaborato da Marx ed Engels. Il relativismo è oggi condiviso dai neopositivisti e dagli analisti del linguaggio. IV. ETICA E METAFISICA 1. È impossibile per il problema etico trovare soluzioni dogmatiche, ma è possibile avere esiti positivi e conseguire soluzioni valide. 2. È necessario pertanto reperire basi teoretiche sufficientemente sicure nell'antropologia, nella metafisica, nella teologia naturale. 3. Il nesso tra etica e metafisica si coglie nel concetto di valore. La rifles- sione metafisica, infatti, può mostrare che è la realtà stessa che possiede i va- lori, mentre il concetto di valore rivela che c'è un rapporto tra realtà e volontà (cioè che una cosa è degna di essere voluta: quindi la realtà in quanto tale è degna di essere voluta). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Come si configura il nostro orizzonte culturale in ordine all’antropolo- gia, alla metafisica, alla teologia e conseguentemente all'etica? 2. Che cosa studia la morale? 3. Che cosa si intende per prospettiva critica e teoretica della morale? 4. Qual è il compito del filosofo riguardo alla morale? 5. Su che cosa si fondano i codici morali? Qual è l'opinione dei massimi filosofi al riguardo? 6. Quali sono i principali tipi della morale filosofica? Che cosa si intende per edonismo, utilitarismo, eudemonismo, formalismo etico? 7. Che cosa rappresenta la libertà per la morale? 8. Quali sono le condizioni essenziali dell'atto morale? 9. Che cos'è l’etica dei valori? 10. Qual è il fine ultimo della vita umana secondo i massimi filosofi? 11. Quali dovrebbero essere i termini di una correlazione tra scienza ed etica? . 12. In che relazioni si trovano morale e religione, morale e metafisica, mo- rale e arte, morale e politica? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Valori morali e democrazia, Massimo, Milano 1986. ARISTOTELE, Etica nicomachea, Laterza, Bari 1973. 130 BAUSOLA A., Filosofia morale: lineamenti, Celuc Libri, Milano. BourKkE V.J., Storia dell’etica, Armando, Roma 1972. CaLoceRo G., Etica giuridica, politica, Einaudi, Torino 1946. CAPOGRASSI G., Introduzione alla vita etica, Studium, Roma 1977. CHIaVvACCI E., Introduzione all'etica sociale, Studium, Roma 1966. CoMPostTA D., Morale fondamentale ed etica sociale, Urbaniana University Press, Roma 1983. CROCE B., Etica e politica, Laterza, Bari 1981. DE FINANCE J., Etica generale, Del Circito, Bari 1975. GREGOIRE F., Le grandi dottrine morali, Guida, Napoli 1969. 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WARNOCK G., Filosofia morale contemporanea, Armando, Roma 1974. 131 Educazione: esigenza dell’uomo di realizzare le sue infinite capacità Solo gli esseri umani possono acquisire mediante insegnamento e apprendimento: ciò è l'educazione Interazione tra discorso filosofico e quello sull'educazione Capitolo decimo a ee IL PROBLEMA PEDAGOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Qual è il significato etimologico dei termini « pedagogia » ed « educa- zione »? 2. Che cosa dovrebbe caratterizzare in modo particolare l'educazione? 3. L'educazione è un'azione o una relazione? 1. La pedagogia come teoria pratica Pedagogia è una parola di derivazione greca, che significa « arte di guidare il fanciullo » ed è generalmente usata come sinonimo di « scienza dell'educazione ». L'educazione è un dato di fatto che non ha mai cessato di esistere. Si tratta, in effetti, di un'esigenza fondamentale dell’uomo il quale nasce con sconfinate capacità di agire ma senza l'abilità di realiz- zarle. Egli deve apprendere dagli altri come esplicare le sue capa- cità: come nutrirsi, camminare, parlare, leggere, scrivere, lavorare, ecc. Il fenomeno dell'educazione è tipicamente umano. Solo l'uomo può e deve educarsi; nel mondo animale è possibile tutt'al più un addestramento. Questo perché, mentre l’animale è un essere già « specializzato » sin dalla nascita, dotato istintivamente di determi- nate abilità e soltanto di quelle, l'essere umano è, invece, inizialmen- te privo di qualsiasi specializzazione, ma con la capacità di acquisire, mediante l'insegnamento e l'apprendimento (vale a dire tramite l’e- ducazione) le specializzazioni più disparate: nel cibo, nel vestito, nel lavoro, nello studio, nello sport, nella religione, nell'arte, ecc. Mediante l’opera educativa esso si specializza e, conseguentemente, si individualizza, diventa un « io ». In tal modo acquista una per- sonalità che, tra l’altro, è in continua evoluzione e maturazione. Naturalmente la concezione che si ha dell'educazione dipende dal- la concezione che si ha dell’uomo e del suo destino, cioè, come af- ferma il Laberthonnière « esiste tra l'educazione e la concezione che si ha della vita un rapporto che dovrebbe essere impossibile contestare ».! È quindi evidente il necessario rapporto che esiste tra il discorso filosofico ed il discorso sull'educazione. Quest'ultimo è ! L. LABERTHONNIÈRE, Teoria dell'educazione, La Scuola, Brescia 1965, p. 3. 132 il logico coronamento dei discorso antropologico ed etico: dopo che sì è compreso chi è l'uomo e quai è il traguardo ultimo della vita umana, si pone necessariamente il problema di come guidarlo alla conquista di tale traguardo. La pedagogia è, dunque, una teoria pratica, € cioè « una teoria che ha per oggetto di riflettere sui sistemi e sui procedimenti di edu- cazione al fine di valutarne il valore, con ciò illuminando e dirigendo l’azione degli educatori ». La pedagogia è nata come esigenza delle persone e dei pcpoli per due motivi. In primo luogo, perché sarebbe rischioso lasciare l’edu- cazione esclusivamente all'istinto e alla tradizione. in secondo luogo, perché lo stesso pensiero, cercando di spiegare l’esistenza del- l'uomo ed il suo impegno etico, ha dovuto necessariamente incon- trarsi con la realtà educativa. 2. Autcnomia della scienza pedagogica e interdisciplina- rietà L'evoluzione della cultura ha contribuito alla configurazione an- che della pedagogia come scienza autonoma. Nelle civiltà antiche le varie cognizioni sulla realtà costituivano un sapere indifferenziato, identificato generalmente con la filosofia, di cui faceva parte anche la pedagogia. Nel Medioevo questa venne assorbita dalla teologia. Solo dopo la fine del Medioevo, con l’ap- profondirsi delie diverse conoscenze, le scienze acquistarono pro- gressivamente la loro autonomia rispetto sia alla filosofia che alla teologia. Nell'antichità vediamo pertanto che la pedagogia è considerata come parte della politica, la quale a sua volta è vista come ramo della filosofia morale. Infatti, l'ideale educativo dei greci e dei ro- mani era la formazione dell'uomo in quanto cittadino. Aristotele afferma che, essendo uno solo il fine della comunità politica, « è ma- nifesta la necessità che l'educazione sia una sola e identica per tutti, e che la cura di essa sia affidata allo Stato e non ai privati »? La rivoluzione intellettuale, morale e sociale operata dal cristia- nesimo portò in primo piano il problema etico-religioso. Per questo motivo, anche la pedagogia non fa più parte della politica, ma di- venta un capitolo della morale teologica durante tutto il Medioevo. Con l’umanesimo e il Rinascimento l'ideale educativo non è più il perfetto cittadino o il santo, ma l'uomo colto. Gli studi filosofici si approfondiscono e influenzano anche la pedagogia, che sente sempre più l'esigenza di un'impostazione di carattere filosofico evi- ? A. LALANDE, Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 620, 3 ARISTOTELE, Politica VII, c. 1. 133 La pedagogia come taoria pratica Con l'evaluzione della cultura la pedagogia è divenuta scienza autonoma Oggi la pedagogia, che rappresenta l'educazione dell’uomo, si vale di scienze ausiliarie (psicologia, etica, biologia, sociologia) Prospettiva integrale e autonomia della pedagogia Pedagogia e destino dell'uomo tando peraltro qualsiasi subordinazione ad altre discipline filo- sofiche. Oggi, l'affermarsi delle scienze positive sta influenzando anche il campo pedagogico. Si riconosce che se la pedagogia riguarda es- senzialmente l’uomo, è necessario un contributo di tutte le scienze; ma non per questo essa deve essere considerata una sintesi oppure un aggregato di varie scienze, « un ammasso più o meno incoerente di ricette », come afferma il Mialaret.* Senza dubbio, la pedagogia è una scienza dell'uomo, ma ha vn ambito -specifico diverso da quello delle altre scienze: l'educazione dell'uomo. Le scienze che maggiormente concorrono alla conoscenza dell'uomo e costituiscono pertanto il necessario presupposto della pedagogia sono la psicologia, l'antropologia, l'etica, la biologia e la sociologia. Queste, che sono chiamate « scienze ausiliarie » della pedagogia, sono importanti nella scienza della educazione perché, considerando l'uomo nella sua evoluzione verso una maturazione fisico-biologica, psicologica e sociale, affrontano problemi e acqui- siscono cognizioni che sono di importanza capitale per l’impostazio- ne dell’opera educativa. In effetti, se lo scopo dell'educazione è la liberazione totale dell'educando, il raggiungimento di tale fine si verifica tenendo conto delle situazioni biologiche, psicologiche, an- tropologiche, sociologiche e storiche vissute concretamente dal sog- getto. Inoltre, se l'educazione dev'essere integrale, cioè riguardante sia l'aspetto materiale che spirituale dell'uomo, deve mutuare prin- cipi, criteri, metodi dalla filosofia, dall’etica, dall’estetica, ecc., a se- conda dei problemi specifici che deve affrontare nel suo ambito. La pedagogia è quindi una scienza autonoma, pur esigendo un ap- prodo interdisciplinare. Di tutte le discipline, la filosofia è quella che dà il massimo con- tributo al costituirsi della scienza pedagogica. Perché? Abbiamo affermato precedentemente che la pedagogia è il logico coronamento dell'antropologia (la quale spiega chi è l'essere u- mano) e della morale (la quale stabilisce il fine ultimo della vita umana); conseguentemente l'educazione è sempre, necessariamente condizionata da una visione dell'uomo e del destino umano. Infatti, come già s'è detto, « specialmente riguardo all'uomo, di cui le scienze studiano molteplici aspetti, sono molti i problemi che nes- suna di esse affronta (mentre li suppone già risolti), come il valore della vita e della conoscenza umana, la natura del male, l'origine e il valore della legge morale. Di questi problemi si occupa soltanto la filosofia ». Esistono tuttora due posizioni opposte per ciò che riguarda il rapporto tra pedagogia e filosofia: coloro che identificano le due * G. MIALARET, Introduzione alla pedagogia, Armando, Roma 1970, p. 9. 5 B. MONDIN, vol. I, p. 8. 134 scienze, considerando la pedagogia una semplice appendice della filosofia e coloro che, al contrario, negano qualsiasi discorso filo- nell’ambito della pedagogia. Riteniamo queste posizioni er- rate, perché ogni corrente filosofica trae dai suoi principi una propria pedagogia ed ogni pedagogia ha come fondamento una data imposta- zione filosofica. Ma la pedagogia ha un campo di ricerca suo proprio, e dispone di metodi e criteri specifici che non sono quelli più gene- rali della filosofia. Ed è pertanto da considerarsi come ambito spe- cifico della ricerca filosofica, alla pari dell'etica e della politica. 3. Soggetto e finalità delia pedagogia La pedagogia moderna, capovolgendo il rapporto tradizionale tra maestro e discepolo, ha affermato il ruolo primario di quest'ultimo nel processo della sua educazione e di fronte al maestro stesso. Il moderno pensiero pedagogico ha coniato la espressione rivoluzione copernicana dell'educazione per indicare il sostanziale mutamento avvenuto nel rapporto tra educatore ed educando, derivando tale lo- cuzione dal capovolgimento della relazione Terra-Sole operata da Copernico. Che cosa significa « rivoluzione copernicana dell'educazione »? Come Copernico in campo astronomico aveva rivoluzionato la concezione tolemaica della centralità della terra nel sistema solare, affermando la centralità del sole rispetto a tutti i pianeti del sistema solare, così, in campo pedagogico, non è più il maestro il perno del- l'azione educativa, ma il discepolo, alle cui esigenze il maestro deve adeguarsi, cercando di scoprirle e facendo in modo che egli si auto- promuova. In questa prospettiva, l’attore e l'autore primario nel processo educativo è il fanciullo stesso (puerocentrismo). Il sogget- to quindi dell'educazione è certamente l'educando, come essere at- tivo, personale ed originale; ma è bene precisare che per « educando » non si deve intendere esclusivamente il bambino, il ragazzo, il gio- vane, ma l'uomo, perché l'educazione non ha mai termine, né limiti di età, ma continua per tutta la vita (da questo è derivato il con- cetto di educazione permanente). Soggetto allora dell'educazione è l’uomo, ma egli è persona ed è tale nella misura in cui realizza la propria personalità. Attingendo dalle affermazioni della scienza psicologica, soffermiamoci un mo- mento su quest'ultimo concetto. La personalità dell’uomo è la risultanza di elementi nativi, ere- ditari e di elementi acquisiti mediante la propria esperienza. Co- munque, tali strutture sono dinamiche e non rigidamente definibili e quindi la personalità è una realtà « plastica », dinamica, determi- nantesi con atteggiamenti differenziati a seconda delle situazioni che l'individuo incontra e vive concretamente. L'uomo non è determi- nato (almeno non lo è totalmente) dalla sua struttura originaria, 135 Nel rapporto ira filosofia e pedagogia questa ha un ambito specifico di ricerca La ‘‘rivoluzione copernicana” in pedagogia: l’educando come protagonista (puerocentrismo) Educazione permanente per la continua realizzazione della personalità umana L’educazione dura tutta la vita Promozione a autopromozione dell’individuo: aspetto personale Aspetto sociale: relazione interpersonale e convivenza con gli altri Aspetto culturale: trasmissione dei valori e custodia della civiltà dalla sua essenza, ma può anche migliorare, peggiorare o, comunque, cambiare. E se c'è sempre una possibilità di mutamento, allora è valido quanto già detto: l'educazione dura per tutta la vita. Ciò che si è detto a proposito del soggetto dell'educazione con- sente di esaminare le finalità di un certo tipo di processo educativo che permette ad ogni individuo di giungere allo sviluppo della pro- pria personalità. ‘4. I tre aspetti fondamentali dell'educazione L'educazione, dal punto di vista teoretico e scientifico, presenta tre aspetti fondamentali: personale, sociale e culturale. a) Personale: perché l’educando è una persona e non una cosa od un oggetto; è soggetto dotato di attività, di personalità e di creati- vità. Egli pensa ed agisce seguendo energie interiori. L'educazione dunque deve promuovere o meglio fare in modo che l'individuo si autopromuova. Rimandiamo qui al concetto di maieutica socratica già espresso nel Corso di storia della filosofia Come è la madre che genera il bambino e l’ostetrica l’aiuta soltanto a darlo alla luce, così il vero educatore non comunica la « verità », ma mette l’educando nelle condizioni di trovare la risposta da sé. Innanzitutto, quindi, l'educazione è autopromozione della personalità del soggetto che si educa... b) Sociale: e questo sia come fatto che come obiettivo. Anzitutto come fatto perché l'educazione è un evento eminentemente inter- personale e sociale, perché coinvolge quanto meno due persone, l’e- ducando e l'educatore. In secondo luogo, come obiettivo perché tra le finalità primarie che l’opera educativa si propone è inclusa quella di far conoscere gli altri e di abituare a vivere insieme con essi, in loro armonia, per la realizzazione di un bene superiore comune a tutti. L'educazione pertanto « socializza » il singolo, perché « la no- stra vita personale si esplica in una vita sociale. Certo ci può essere una vita sociale che al limite ignora o soffoca la vita personale ed è questo che va evitato ».’ Il fine primario dell'educazione lo si ottiene operando sui singoli soggetti e non sul gruppo. Però è necessario an- che l'apporto del gruppo, che spesso opera inconsciamente, per me- glio sviluppare l'educazione del singolo. Anzi in molti stati, oggi l'e- ducazione è attuata operando sul gruppo, e in tal modo si raggiun- gono anche i singoli. c) Culturale: perché l'educazione trasmette alla persona i valori culturali elaborati dall'umanità nel corso delle generazioni, tra- 6 Ivi, p. 70. ? C. PERUCCI, in Educare, U.C.L.I.M., Varese 1572, p. 67. 136 sformando un essere incolto in un essere che può contribuire al progresso della civiltà in cui è nato. È evidente che questi tre aspetti della educazione sono interagenti poiché formare la personalità del soggetto significa promuovere la socialità e, trasmettendo la cultura e la civiltà, l'educazione fa parte- cipe il soggetto dei progressi dell'umanità stessa. In conclusione, la finalità educativa consiste: in primo luogo nella realizzazione della personalità intesa come affermazione della individualità e originalità di ognuno; in secondo luogo nella capa- cità di partecipazione alla vita sociale. Tale centralità della persona e dell'individuo non ha sempre costituito l'ideale educativo in’ seno alle varie civiltà: Infatti, ciò che attualmente secondo un certo si- stema politico e filosofico si apprezza ed esalta come individuale, era per i greci un aspetto negativo. 5. Autoeducazione ed eteroeducazione Tenendo presente il fine da realizzare si possono distinguere due concezioni radicalmente opposte dell'educazione. Da una parte si afferma che educare un fanciullo vuol dire ren- derlo conforme ad un modello prestabilito, per cui il fine dell'educa- zione è posto fuori dal fanciullo (= eteroeducazione) e l'educazione si risolve in un adattamento delle disposizioni del fanciullo ad un ordine preesistente, di fatto o di diritto. Dall'altra parte si dice che educare significa permettere al fan- ciullo di sviluppare tutto ciò ch'egli ha in se stesso (autoeducazione), per cui il fine è il fanciullo stesso e l'educazione mira a favorire la realizzazione della sua personalità ed il suo armonico sviluppo. L'eteroeducazione si fonda sul presupposto che le strutture con- crete della civiltà attuale (sociali, economiche, morali, religiose, ecc.) impongano di adattare il fanciullo in modo che da adulto possa age- volmente integrarsi in esse, per cui un'educazione sarà ritenuta va- lida se riuscirà ad adattare l’uomo all'ordine stabilito, considerato come assoluto, sia esso la classe sociale, la chiesa, lo stato. In questo caso l’educatore rivelerà le sue doti nella misura in cui la sua abilità tecnica sarà capace di realizzare tale scopo, senza troppe preoccupa- zioni delle esigenze soggettive dei singoli educandi. Per contro, l’autoeducazione mira ad assicurare, per quanto è possibile, l’armonico sviluppo delle varie tendenze e capacità pre- senti nel fanciullo, senza fare appello ad ideali preesisienti. Educa- zione quindi che rifiuta ogni intervento autoritario esterno e lascia alla spontaneità naturale del fanciullo di sviluppare le naturali forze bio-psichiche che operano in lui; all'educazione inoltre è dato il ° A. AGAZZI, Problemi attuali della pedagogia e lineamenti di pedagogia sociale, La Scuola, Brescia, 1968, pp. 9-10. 137 Eterceducazione: confermità a un modello Autoeducazione: armonice sviluppo di tendenze e capacità Interazione di eteroeducazione e autoeducazione compito di preservare il fanciullo stesso dalle influenze che dall’ester- no potrebbero turbare l’armonico sviluppo della personalità. Che dire di queste due opposte concezioni dell'educazione? A nostro avviso un'educazione integrale non può essere né pura- mente estrinsecistica come ritengono i fautori della eteroeducazione, ma neppure semplicemente innatistica come affermano gli assertori dell’autoeducazione. Ma dev'essere l'una e l’altra insieme. Se è vero infatti che una valida educazione non può trascurare i condizionamenti dell'ambiente familiare, sociale, politico, religioso, ecc., è anche vero che il voler considerare tali fattori come assoluti, e riconoscerli come norme intangibili cui sottomettere gli elementi personali dell’educando, è un palese controsenso, date le variabilità e precarietà del cosiddetto « ordine stabilito ». D'altra parte, « che il fanciullo possa spontaneamente e con le sole sue forze, senza l'intervento di un'autorità esterna, disciplinare se stesso e diventare capace di libere scelte, è stato il paradosso di Rousseau, fondato sulla bontà naturale dell'uomo, al quale però lo stesso Rousseau sembrò non concedere molta fiducia quando con- sigliava agli educatori di lasciar credere all'educando di essere lui il padrone, ma di non permettergli di esserlo, di fatto. In definitiva, un sistema educativo che si limiti a rispettare nel fanciullo ciò che l'osservazione psicologica, scientificamente anche la più perfetta e accurata, permette di osservare in lui, non è sufficiente ad edu- carlo veramente »? Autentica educazione dev'essere quindi autoeducazione, perché non è concepibile una maturazione integrale inconsapevole e priva di impegno personale; e dev'essere inoltre eteroeducazione perché la presenza del docente non è solo auspicabile, ma necessaria. Oc- corre, peraltro, tener ben presente che nell'opera di educazione il do- cente non può né deve sostituirsi all’educando; egli è solo la guida e la forza stimolatrice delle energie che devono svilupparsi spontanea- mente dall’interiorità del soggetto (secondo i canoni della maieutica socratica). Nel rapporto educatore-allievo esiste, senza dubbio, un pericolo che occorre assolutamente evitare: quello di « manipo- lare », « foggiare » ed inoltre di distruggere la personalità dell’edu- cando per far emergere quella dell’educatore. Educare significa, in- vece, aiutare ad autodeterminarsi come essere libero, e ciò è possi- bile soltanto attraverso il libero esercizio delle proprie attitudini. 6. L’attivismo pedagogico Tra le tante teorie dell'educazione, l'attivismo è senza dubbio quella che ha suscitato maggior interesse durante il nostro tempo. * A. VALERIANI, « Il problema dell'educazione », in Studio ed insegnamento della filosofia, I, AVE-UCIIM, Roma 1966, pp. 315-316. 138 Essa però ha qualche riferimento nel passato. I Sofisti ritenevano che l'educazione deve essere sottratta ad ogni autoritarismo e dog- matismo. Nel Medioevo viene ripreso talvolta il concetto di sant'Ago- stino, il quale riteneva che l'educazione deve essere un processo au- tonomo di autoeducazione: il maestro comunica solo le parole, ma la vera educazione è « autoeducazione », data da Dio per illumina- zione. Con l’inizio del Rinascimento inizia il superamento delle vecchie tradizioni e con Bacone si ha la prima grande affermazione del carat- tere attivistico del sapere. Comenio, poi, con il suo « naturalismo » e la sua « pansofia » intende dare a tutto il sapere una connessione si- stematica, seguendo gli indirizzi della nuova scienza sperimentale. In Rousseau, infine, sono già presenti le varie motivazioni con cui l'attivismo di oggi giustifica l'introduzione del lavoro nella scuola. L'attivismo pedagogico si presenta come reazione alla pedagogia tradizionale, la quale era di tipo estrinsecistico e teoretico. L'ideale del mondo classico e, generalmente, anche del mondo cristiano, era la vita come attività teoretica, come conoscenza e come contempla- zione. L'educazione consisteva nell’insegnamento di principi, dottri- ne, ideali trascendenti e assoluti. La pedagogia contemporanea ha compiuto un rovesciamento radicale, risolvendo il conoscere nel- l'agire, la verità nel fatto. Ma è necessario subito riconoscere che in quel rovesciamento si ritrovano il valore ed, insieme, i limiti dell'at- tivismo pedagogico contemporaneo: il valore, perché l'ideale del mondo classico non poteva soddisfare la mobilità sociale e l'ansia di attività dell'umanità moderna; i limiti perché molto spesso l'agire viene ridotto ad un semplice fare meccanico, ad un fare per il fare, anche contro le attese degli stessi fautori dell’attivismo. :iA fondamento dell'attivismo sta, come s'è detto, un atteggia- mento di rifiuto del metodo tradizionale. Ma l’attivismo non è sol- tanto protesta: esso è anche proposta, e propone una educazione proiettata verso l'avvenire, quindi dinamica, centrata sul soggetto, quindi aperta ed esistenziale: una scuola attiva sostitutiva di quella passiva.! ‘Applicando i criteri dell'autoeducazione, l’attivismo si pone al servizio delle attitudini, dei bisogni, dei modi di sentire e di agire pro- pri del fanciullo che deve poter liberamente esprimere tutto se stesso ed apprendere quanto sarà utile per sé e per la società nella quale si troverà a vivere da adulto. Da parte sua, l’educatore, anziché in- tervenire per trasmettere un sapere dall'esterno o inculcare principi morali assoluti, è chiamato a fornire all’educando occasioni ed ali- menti al suo appetito di conoscere e di agire, ponendolo a contatto con l’esperienza che è la vera maestra della vita, ad aiutare lo svi- luppo spontaneo della intelligenza e della volontà dell'allievo, se- !° Cfr. A. AGAZZI, « Scuole nuove e attivismo », in Questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1963, p. 972. 139 L’attivismo pedagogico: reazione alla pedagogia tradizionale L’attivismo come educazione proiettata verso l’avvenire Attivismo e autoeducazione Psicologia, attivisma e scuola nuova Concezione ateo- materialista dell’attivismo guendo le linee dei suoi interessi scientificamente determinati. Ne- cessità, quindi, di muovere dal fanciullo, « ma non dal fanciullo in sé, considerato in astratto, ma dal fanciullo come individuo origi- nale ed unico, dalla ricchezza della sua spontaneità naturale da co- noscere e da dirigere. Lo studio della psicologia sarà pertanto a fon- damento della preparazione e dell’azione dell'educatore e la scuola su misura sarà il nuovo credo didattico del puerocentrismo ».! Le idee dominanti dell’attivismo sono, pertanto, le seguenti: azio- ne, spontaneità, vita. Delle prime due s'è già parlato. Quanto alla terza essa fa parte di un'espressione cara all’attivismo, l’espressione scuola-vita. Secondo l’attivismo la scuola deve preparare alla vita, deve essere essa stessa vita, adeguarvisi e strutturarsi secondo le forme reali della vita. Sulla legittimità dell’attivismo pedagogico ci siamo già implicita- mente pronunciati parlando dell’autoeducazione. Abbiamo escluso che si possa realizzare pienamente il processo educativo col solo me- todo dell'autoeducazione. È un metodo che si fonda su una visione troppo ottimistica dell’uomo, considerato esente da ogni debolezza e da ogni cattiva inclinazione e già intimamente incamminato verso il bene e la virtù. Ma troppo spesso l’attivismo è anche basato su una concezione materialistica ed atea dell’uomo. Questi è visto come creatore d’ogni valore e, allo stesso tempo come il prodotto ultimo dell'evoluzione della materia. Fondate su tali premesse, anche le tesi più interessanti e, in se stesse, legittime, dell’attivismo pedagogico diventano discutibili e sospette. Per acquistare piena legittimità occorre che siano fondate sul riconoscimento dei valori più auten- tici della persona (libertà, spiritualità, immortalità) e sulla realtà di Dio, creatore del mondo, padre di tutti gli uomini, termine ultimo delle nostre più profonde aspirazioni. CONCETTI DA RITENERE — Pedagogia come teoria pratica — Liberazione totale; educazione integrale — Rivoluzione copernicana dell'educazione — Aspetto personale, sociale, culturale — Autoeducazione (modo innatistico), eteroeducazione (modo estrinse- cistico) — Attivismo pedagogico SINTESI CONTENUTISTICA I. LA PEDAGOGIA COME TEORIA PRATICA 1. Il termine pedagogia (« condurre il fanciullo ») indica l’« arte» o la « scienza dell'educazione ». L'educazione esprime l'esigenza dell'uomo che na- ! A. VALERIANI, Op. cit., p. 324. 140 sce con molteplici capacità, ma ha bisogno di essere aiutato a realizzarle nel corso della sua crescita. 2. L'educazione è quindi un fatto propriamente umano. L'uomo si educa, l’animale si addestra. La concezione dell'educazione si ricollega alla concezione che si ha del- l'uomo: il discorso pedagogico è collegato al discorso antropologico e al di- scorso etico. La pedagogia è una teoria pratica, cioè ha per oggetto di riflettere sui si- stemi di educazione per aiutare l’azione degli educatori. II. ‘AUTONOMIA E INTERDISCIPLINARIETÀ DELLA PEDAGOGIA 1. Nelle civiltà antiche la pedagogia faceva parte dei diversi sistemi filo- sofici. Spesso essa è riferita alla politica, che a sua volta dipende dall’etica. L'ideale greco-romano è la formazione dell’uomo in quanto cittadino. 2. Nel Medioevo la pedagogia diventa un capitolo della teologia a motivo del primato assunto dal problema etico-religioso: dal cittadino al santo. 3. Nell'epoca dell'Umanesimo e del Rinascimento l’ideale diviene quello dell'uomo colto. La pedagogia avverte, pertanto, l'esigenza di una imposta- zione di carattere filosofico. ; 4. Nella cultura contemporanea l'affermazione delle scienze positive, ha collocato la pedagogia in una posizione interdisciplinare. La psicologia, l’an- tropologia, l'etica, la biologia e la sociologia si configurano come scienze ausi- liarie della pedagogia, offrendole elementi di integrazione e di approfondi- mento circa gli scopi che le sono propri. 5. L'educazione può avere come scopo: a) la liberazione totale dell’educan- do e necessita del contributo della biologia, della psicologia, dell’antropologia, della sociologia e della storia; b) l'educazione integrale e si dovrà rivolgere alla filosofia, all’etica, all'estetica, ecc. al fine di promuovere sia la dimensione spi- rituale che quella materiale dell’uomo. 6. Il rapporto tra pedagogia e filosofia è visto attraverso due posizioni: a) l’identificazione tra le due scienze; b) la dipendenza della pedagogia dalla filosofia. Una conclusione opportuna appare la seguente: la pedagogia gode di una autonomia nel campo di ricerca, dei metodi e dei criteri. Afonda comunque le sue radici in una determinata visione filosofica, di cui è una ramificazione al pari dell'etica e della politica. III. SOGGETTO E FINALITÀ DELLA PEDAGOGIA 1. La pedagogia moderna è orientata dalla cosiddetta rivoluzione coperni- cana dell’educazione: il perno dell'azione educativa non è più, come nel mondo classico-medioevale, il maestro, bensì il discepolo. 2. La prospettiva puerocentrica guarda all’educando come ad un soggetto attivo, personale e originale. Occorre però ricordare che in senso proprio l’edu- cando è l’uomo nelle diverse tappe della sua vita e che pertanto l'educazione è un fatto permanente, un cammino continuo senza meta terminale. 3. Poiché la persona è la protagonista dell’azione educativa, l'educazione avrà come scopo la formazione della personalità. La personalità è la risultanza di elementi originari, ereditari e acquisiti. Essa è quindi una struttura dinamica e in perenne trasformazione. Compito dell'educazione è di orientare la trasformazione sempre verso la positività. IV. I TRE ASPETTI FONDAMENTALI DELL'EDUCAZIONE1. Aspetto personale dell'educazione: l’educando è una persona, soggetto dotato di attività, personalità e creatività. L'educazione deve promuovere la persona e renderla capace di autopromozione. 2. Aspetto sociale dell'educazione: a) è un fatto perché l'educazione è un 141 evento interpersonale e sociale {rapporto educatore-educando); b) è un obiet- tivo perché l'educazione si propone di formare gli individui alla conoscenza reciproca, alla vita in comune, all'armonia sociale, al bene comune. 3. Aspetto culturale dell'educazione: l'educazione trasmette di generazione in generazione i valori elaborati dall’umanità, facendo di ogni individuo un essere capace di dare il proprio contributo alla civiltà. I tre aspetti sono interagenti; infatti sono propri della finalità educativa sia la realizzazione della personalità e dell’originalità dell'uomo, sia la forma- zione della sua capacità di partecipazione alla vita sociale. V. AUTOEDUCAZIONE E ETEROEDUCAZIONE 1. L'autoeducazione mira ad assicurare l’armonico sviluppo delle varie ten- denze e capacità presenti nel fanciullo senza riferimento ad ideali preesistenti. Rifiuta l'intervento autoritario, promuove la spontaneità e preserva dalle in- fluenze esterne. Tale concezione può anche essere definita innatistica. 2. L'eteroeducazione vuole adattare il soggetto umano alle strutture con- crete sociali, economiche, morali, religiose, ecc. Il processo educativo raggiunge il suo scopo se l'educando saprà adattarsi all'ordine stabilito, considerato come un assoluto {concezione estrinsecistica). 3. Alla concezione innatistica e a quella estrinsecistica si può opportuna- mente opporre quella integrale, per cui il processo educativo fonde le esigenze della libertà e dell'originalità della persona con l’ineliminabile presenza del condizionamento ambientale. L'autoeducazione, pertanto, favorisce una matu- razione integrale e consapevole attraverso l'impegno personale, mentre l’etero- educazione forma nell’educando il senso del limite e gli dà la misura di ciò che significa vivere con gli altri. VI. L'ATTIVISMO PEDAGOGICO 1. La pedagogia contemporanea ha compiuto un rovesciamento radicale, risolvendo il conoscere nell’agire, la verità nel fatto. 2. Il valore dell’attivismo pedagogico, la teoria dell'educazione che ha tro- vato maggiore risonanza nel nostro secolo, sta nel fatto che, puntando sul. l'autoeducazione, stimola la partecipazione attiva dell'educando nell'esperienza scolastica. L'educatore fornisce all'’educando occasioni di esperienza al suo de- siderio di conoscenza e orienta le sue attitudini ed i suoi interessi, individuati scientificamente. 3. Azione, spontaneità e vita sono le idee dominanti dell’attivismo pedago- gico. L'espressione scuola-vita indica, inoltre, la convinzione che la scuola deve adeguarsi e strutturarsi secondo le forme reali della vita. 4. L’attivismo pedagogico si fonda: a) su una antropologia ottimistica che ignora in realtà la debolezza della natura umana; b) su una visione essenzial- ‘mente materialistica ed atea, QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa si intende per pedagogia? Qual è il significato etimologico di questo termine? 2. Perché l'educazione è un fenomeno tipicamente umano? 3. Quando la pedagogia si è costituita come scienza autonoma? Prima, în quale disciplina era incorporata? 4. Che rapporti intercorrono tra pedagogia e filosofia? 5. Quali sono gli aspetti fondamentali dell'educazione? 6. Che cosa si intende per autoeducazione e per eteroeducazione? 7. Che cosa si esige per una educazione integrale? 142 8. Che cos'è l’attivismo pedagogico? Quali sono i pregi e i limiti di questo metodo educativo? 9. Quali contraddizioni pedagogiche e strutturali ostacolano nell’ordina- mento scolastico attuale una educazione integrale della persona? 10. Quali implicazioni si possono individuare tra pedagogia e formazione della coscienza democratica? 11. Nel nostro tempo quali sono le esigenze emergenti per una individua- zione di opportuni obiettivi educativi in vista di un progetto-uomo aperto al secondo millennio? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1963. ABBAGNANO N.-VISALBERGHI A., Linee di storia della pedagogia, Paravia, To- rino 1959, 3 voll. AGAZZI A., Problemi dell'educazione e della pedagogia, Vita e Pensiero, Mi- lano 1979. BARONI A., Pedagogia moderna, Studium, Roma 1960. BERTOLINI P., Pedagogia e scienze umane, C.L.U.E.B., Bologna 1983. Boy W., Storia dell'educazione occidentale, Armando, Roma 1960. CaRBONI-ZEPPA-MONDIN, Pedagogia, storia e problemi, 3 voll., Massimo, Mi- lano 1975. CasoTTI M., Scuola attiva, La Scuola, Brescia 1962. DE BARTOLOMEIS F., Pedagogia come scienza, La Nuova Italia, Firenze 1976. DEWEy J., Il mio credo pedagogico, La Nuova Italia, Firenze 1950. FLorES D'ARCAIS G., Discorso educativo e discorso pedagogico, 2 voll., Li- viana, Padova. FoERSTER F.W., I compiti essenziali dell'educazione, Herder, Roma 1961. GIUGNI G., Significato e dimensione dell'educazione nella società contem- poranea, SEI, Torino 1974. MARITAIN J., Educazione al bivio, La Scuola, Brescia 1966. 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I termini del problema L'uomo è un essere vivente atto a una vita sociale e politica, come aveva già osservato Aristotele nella sua Politica. Nelle condi- zioni delle età precedenti, queste caratteristiche hanno trovato un'’at- tuazione ristretta; allora era perfino possibile condurre una vita ri- tirata, eremitica, lontano dalle vicende del mondo e considerarsi una monade « senza porte e senza finestre », secondo la nota espressione di Leibniz. Oggi tutto questo è impensabile, oltreché impossibile. Il più piccolo atto umano e qualsiasi realtà per quanto minuscola sono coinvolti in un regime sociale e politico che li dirige e li compenetra da ogni parte. Così, nel nostro tempo i problemi politici e sociali hanno acqui- stato importanza capitale. 'Nel presente capitolo tratteremo anzitutto del « problema po- litico », che è quello di cui i filosofi si sono occupati da sempre. Poi nella seconda parte studieremo quello che è stato chiamato « pro- blema sociale », un problema che i filosofi hanno cominciato ad af- frontare sistematicamente soltanto nel secolo XVIII al sorgere del- la questione sociale derivante dalla rivoluzione industriale determi- nata dall'introduzione della macchina nell’attività produttiva. Il problema politico è il problema relativo all'origine e al fon- damento dello Stato (polis), alla sua organizzazione, la sua forma migliore, la sua funzione e il suo fine specifico, alla natura della azio- ne politica e ai suoi rapporti con l'azione morale, ai rapporti tra Stato e individui, tra Stato e Chiesa, tra Stato e partiti. Questo problema così vasto e complesso, è stato studiato nei suoi aspetti diversi quando le istanze storiche l'hanno richiesto. Così per esempio la questione dell'origine dello Stato, della sua struttu- razione e della sua forma migliore è stato dibattuto quando guerre 144 o rivoluzioni hanno messo in questione o posto termine ad uno Stato oppure ad una forma di governo per sostituirli con altri. Ciò è avve- nuto, in Grecia, nel secolo V in conseguenza delle guerre con i Per- siani, delle guerre tra Atene, Sparta e Tebe e delle guerre civili all’interno di queste tre città-stato. Furono tali congiunture storiche ad indurre i Sofisti, Platone e Aristotele ad esaminare il problema del- l'origine dello Stato, della sua funzione e della sua forma ideale. Al- trettanto accadde nel secolo XVII, al tempo delle guerre religiose, della guerra dei Trent'anni, delle rivoluzioni e delle guerre civili del- l'Inghilterra e della Francia. Questi eventi determinarono le spe- culazioni politiche di Hobbes, Bacone, Locke, Campanella, Hume, Rousseau. In tempi recenti hanno trattato del problema dello Stato Hegel, Marx, Engels, Lenin, Gramsci e la Scuola di Francoforte, determinando larghe correnti di pensiero e attuazioni ispirate alle loro ideologie; va inoltre ricordato il contributo particolare ad una soluzione cristiana di tali problematiche dato da Jacques Maritain e da Luigi Sturzo. î Trattando il problema politico nei suoi vari aspetti non si può dimenticare quello dei rapporti tra Stato e Chiesa che ha acquistato rilevanza soprattutto nel Medioevo, allorché la Chiesa assunse una strutturazione sociale da far concorrenza a quella dello Stato. Di qui le teorie politiche di Innocenzo III, san Tommaso, Bonifacio VIII, Occam, ecc. Il problema dei rapporti tra politica e morale ha potuto svilup- parsi soltanto nell'epoca moderna, nel momento in cui le varie forme di sapere e di operare si sono affermate nella loro autonomia rispetto alla teologia e alla filosofia. Questo ha consentito prima a Machiavel- li e poi a Hobbes e a tanti altri di proporre una concezione dell’a- zione politica come qualcosa di assolutamente distinto da qualsiasi altro tipo di attività. Il problema dei rapporti tra lo Stato e i partiti, tra lo Stato e i suoi membri è diventato d'attualità nell'epoca contemporanea, quan- do alle forme monarchiche e assolutistiche di governo sono suben- trate quelle parlamentari e democratiche, e ai sistemi capitalisti si sono opposti quelli socialisti e comunisti. 2. Natura sociale dell’uomo L'uomo — come è stato già detto — è essenzialmente socievole: da solo non può venire al mondo, non può crescere, non può edu- carsi; da solo non può neppure soddisfare i suoi bisogni più ele- mentari; né realizzare le sue aspirazioni più elevate; egli può otte- nere questo solo in compagnia con altri. Perciò sin dalla sua prima comparsa sulla terra troviamo sempre l'uomo collocato in gruppi so- ciali, inizialmente assai piccoli (la famiglia, il clan, la tribù) e poi sempre più vasti (il villaggio, la città, lo stato). Man mano che il 145 Dagli eventi storici ha origine lo studio del ‘‘problema Stato” Rapporti tra: — Stato e Chiesa — Politica e morale — Stato e partiti La socialità come condizione originaria Riflesso sociale delle azioni umane Oggi c’è il primato della dimensione sociale livello culturale dell'umanità si innalza, anche la dimensione della socievolezza si espande e si arricchisce. Oggi essa ha raggiunto un orizzonte sconfinato: da nazionale è diventata, prima, internazionale, poi, intercontinentale e ormai sta assumendo proporzioni planetarie. I moderni mezzi di comunicazione hanno messo ciascuno di noi in contatto con ogni vicenda (importante o insignificante) che ac- cade in qualsiasi parte del mondo. La vita di ciascuno di noi, ora, « può essere sconvolta da cima a fondo a causa di un avvenimento che capita in una parte del mondo ove egli non ha mai messo piede e di cui forse si fa un'immagine alquanto vaga ».' « Il più piccolo atto umano e qualsiasi realtà per quanto minuscola sono coinvolte in un regime sociale che le dirige e compenetra da ogni parte. Non posso compiere il più piccolo atto commerciale, pretendere il più modesto salario, regolare il contratto più elementare senza sentirmi immediatamente accerchiato da ogni parte — anche sostenuto — dalla solidarietà economica, sociale, giuridica, che costituisce la base stessa del mio contratto, del mio lavoro, del mio commercio, indipen- dentemente e al di fuori delle mie intenzioni. E questo in un interse- carsi che, da un capo all'altro del mondo, moltiplica senza fine una rete inestricabile ed invincibile: un colpo della borsa di New York accresce, oggi, senza che io me ne interessi, il mio capitale, e domani la mia piccola impresa potrebbe crollare sotto la concorrenza tra- volgente dell'industria giapponese. Lo stesso si deve dire per qual- siasi altro settore ». Quanto l'intreccio sociale oggi sia vasto e pro- fondo l’ha mostrato negli anni ‘70 e '80 l'embargo del petrolio nei confronti dell'occidente attuato dagli Stati arabi nel conflitto arabo- israeliano. Questo espediente degli arabi è bastato a mettere in crisi l'immenso castello della civiltà dei consumi, il concetto stesso di progresso e il modello di sviluppo del mondo occidentale. 'La dimensione sociale durante il nostro secolo ha assunto tali proporzioni che può venire legittimamente considerata un fenomeno tipico del nostro tempo. La dimensione privata è praticamente scom- parsa. A stento possiamo occultare i nostri pensieri e i nostri desi- deri; ma appena questi si traducono in azione, essi diventano appan- naggio anche degli altri e grazie alla televisione e alla radio e alla stampa in un batter d'occhio vengono divulgati nei quattro angoli della terra. L'isolazionismo, oggi, non è più possibile. « Se dobbiamo in qualche modo sopravvivere, è chiaro che sopravviveremo solo come membri gli uni degli altri. La linea tra il privato e il pubblico diventa sempre più confusa. Bene o male, questa in cui viviamo è l'epoca della pianificazione: dell'assistenza sociale, della compro- prietà e, sul piano internazionale, delle organizzazioni soprannazio- nali. La capacità dell'individuo di agire, e persino di pensare, con una certa indipendenza dal suo ambiente sociale o in contrasto con ! G. MARCEL, L'uomo problematico, Borla, Torino 1967, p. 143. a MD. CHENU, L’évangile dans le temps, Du Cerf, Parigi 1964, pp. 89-90; trad. it., Il Vangelo nel tempo, A.V.E., Roma 1968. 146 esso si va costantemente riducendo [...] Ciò significa, tra l’altro, che il nostro ideale di libertà e di società libera non può essere semplice- mente definito in termini di in-dipendenza. Per l’uomo contempora- neo la redenzione coincide con la sua capacità di diventare non già un individuo — la cui indipendenza sarebbe, in realtà, impotenza di fronte alla gigantesca macchina dello Stato — bensì una persona che possa trovare (e non perdere) se stessa nell’interdipendenza del- la comunità. Il contenuto della sua salvezza in seno alla società consiste, per l’uomo moderno, nello scoprire se stesso come persona che deliberatamente decide a favore d'un rapporto d'interdipen- denza con gli altri; consapevole che la sua natura è fatta per mettersi in relazione con i simili, egli vuole positivamente questa interdipen- denza, anziché subirla per effetto delle pressioni della sua epoca. . L'alternativa al “loro” non è l’“io”, ma il “noi” ».? Nel momento attuale, mentre da una parte i diritti della persona umana e la sua esigenza di libertà ottengono riconoscimento uni- versale, dall'altra i sistemi politici, le strutture economiche e so- ciali, le scoperte della scienza e della tecnica, e l'apparato statale minacciano di soffocarli inesorabilmente. Questa situazione ripropone con particolare urgenza il problema tante volte dibattuto anche nelle epoche precedenti, circa l'origine, la natura e le funzioni dello Stato, e dei rapporti tra gli individui e la società. 3. L'origine dello Stato Lo Stato è una realtà empirica la cui esistenza è incontrovertibile, ma è anche una realtà estremamente mutevole: nasce, si sviluppa, sviluppandosi assume molte forme, e spesse volte e per ragioni varie si indebolisce e dissolve. Tutto questo fa dello Stato una realtà problematica. Anzitutto problematica per quanto concerne la sua origine. Da che cosa nasce lo Stato? Chi ne è l’autore, la causa, il fondamento? A questo interrogativo sono state date molte risposte, di cui le principali ci sembrano le seguenti: a) origine naturale dello Stato: sappiamo che l'uomo è socie- vole e da solo non può soddisfare i suoi bisogni né realizzare le pro- prie aspirazioni; può ottenere questo soltanto in compagnia con gli altri. Quindi è la natura stessa che induce l’individuo ad associarsi con altri individui e ad organizzarsi in comunità, in Stato. I princi- pali teorici dell'origine naturale dello Stato sono Aristotele, Hegel e Marx. Secondo Aristotele « è evidente che lo Stato è una creatura della natura e che l'uomo è per natura un animale politico. Colui che per natura è senza Stato è superiore oppure inferiore all'uomo, vale a dire o un dio oppure una bestia. Il motivo per cui nasce lo Stato 3 J.A.T. RoBINSON, /! corpo, Gribaudi, Torino 1967, pp. 20-21. 147 L'esigenza di riscoprire la propria persona: salvezza dell’uomo contemporaneo Le attuali strutture economico-politiche minacciano i diritti della persona Stato: realtà empirica e mutevole Origine naturale: l’uomo è essenzialmente politico Hegel: lo Stato come volontà dello Spirito assoluto Marx: lo Stato deriva dalla necessità di unirsi per soddisfare i bisogni dei singoli Origine convenzionale: autonomia originaria e logica della sopraffazione è quello di rendere possibile la vita e anche una vita felice. E poiché il traguardo della vita umana è la felicità, la ragion d'essere dello Sta- to è di facilitare il raggiungimento della felicità ». In Hegel la natura di Aristotele diviene lo Spirito Assoluto, per- ciò lo Stato ha origine per volontà dello Spirito Assoluto, di cui è anzi l'attuazione conclusiva. Infatti, secondo Hegel, lo Spirito Assoluto si esprime e si sviluppa nella storia, la quale è essenzial- mente storia dell'uomo. Questi come essere socievole si unisce spon- taneamente con gli altri. In tal modo sorgono le varie organizzazioni: anzitutto la famiglia poi la società civile ed infine lo Stato. La fami- glia è l'unione amorosa di almeno due persone. La società civile è una condizione in cui c'è una mutua dipendenza di tutte le persone da tutte le altre, essendo esse già una collezione di individui indi- pendenti. Essa poggia su di un sistema di bisogni. Lo Stato è una isti- tuzione concreta, che unifica e dà una realtà più alta alla vita etica dei suoi membri individuali. Pertanto lo Stato è « l’Idea dello Spirito Assoluto nella manifestazione esterna della volontà umana e della sua libertà ». Anche per Marx come per Aristotele (e linguaggio idealistico a parte come per Hegel), lo Stato deve la sua origine alla natura stes- sa delle cose (non a patteggiamenti convenzionali o a prevaricazioni contro qualche ordine soprannaturale): deve la sua origine alla na- tura stessa dell’uomo la quale è fatta in modo tale che le è consen- tito di soddisfare i suoi bisogni più elementari di sopravvivenza soltanto con l’aiuto, il concorso, l'assistenza di altri uomini. Non si può dire invece altrettanto delle varie forme concrete che lo Stato assume nella storia. Esse non sono dovute alla natura ma all’arbitrio umano: alla sua decisione di distribuire in un modo o in un altro i tre elementi costitutivi fondamentali della struttura fondamentale dello Stato che è quella economica: il lavoro, il capitale e gli stru- menti di produzione.‘ b) Origine convenzionale. Questa teoria dice che all'inizio, al suo primo apparire sulla faccia della terra, l’uomo, il singolo indi- viduo era pienamente autosufficiente e perciò per vivere e svilupparsi non aveva bisogno di unirsi agli altri. Senonché la presenza di tanti altri piccoli centri di potere (quali erano gli altri uomini) ha inevita- bilmente dato luogo a conflitti, per evitare i quali è stato necessario trattare con gli altri, mettersi d'accordo con loro, rinunciando a qualche diritto e assoggettandosi a qualche dovere. Così, sulla base di tale accordo, è sorto lo Stato. Questa teoria che era già stata avanzata dai Sofisti fu ripresa e sviluppata da molti filosofi moderni, in particolare da Spinoza, Hobbes, Locke e Rousseau. Ciascuno di questi autori ha presentato una versione personale della teoria convenzionalistica o contrattuale; per Spinoza e Hobbes il contratto sociale ha carattere irreversibile: * Cfr. B. MoNnDIN, vol. III, pp. 548-550. 148 una volta rinunciato ai propri diritti per costituire lo Stato non si può più ritirarli e tornare indietro. Invece per Locke e Rousseau il contratto sociale ha carattere reversibile. c) Origine preternaturale. Questa teoria considera lo Stato come conseguenza di una caduta dell'uomo da una condizione originaria di perfezione e di felicità dove non abbisognava di sostegno e di aiuto da parte degli altri. Già annunciata da Platone, la teoria del- l'origine preternaturale dello Stato è stata sviluppata in forma orga- nica da due grandi pensatori cristiani, Agostino e Vico. Agostino afferma l’esistenza di due grandi associazioni di spiriti: la civitas Dei (città di Dio) e la civitas terrena (città terrena o Stato). Tutt'e due sono fondate sull'amore. Ma mentre la città di Dio è fon- data sull'amore di Dio, un amore così altruistico che non teme d'ar- rivare fino al sacrificio totale di se stesso, della propria vita, la città terrena è fondata sull'amore di se stessi, un amore talmente cieco ed egoistico che arriva fino al disprezzo e al rinnegamento di Dio. « Ciò che anima la società terrena (civitas terrena) è l'amore di se stessi al punto di disprezzare Dio; ciò che anima la società divina (civitas coelestis) è l'amore di Dio al punto di disprezzare se stessi. L'una basa il suo orgoglio in se stessa, l'orgoglio dell'altra è in Dio; una cerca la gloria fra gli uomini, l’altra ritiene che la conoscenza di Dio sia la gloria più grande »% L'essenziale nel regno terreno così come in quello spirituale è il debitus finis, vale a dire lo scopo che deriva dall'intrinseca natura della cosa: dunque in questo caso la realizzazione di valori puramen- te terreni. Questi includono, per cominciare, « il corpo e i suoi beni, cioè una buona salute, sensi acuti, forza fisica e bellezza, parte di essi essenziali per una vita migliore, e quindi più desiderabili, parte di minor pregio. Poi, la libertà, nel senso che uno crede di essere libero quando è padrone di se stesso, cioè nel senso desiderato dagli schiavi. In terzo luogo i genitori, le madri, una moglie e dei bambini, i vicini, i parenti, gli amici, e, per coloro che condividono il nostro modo di vedere (quello greco-romano) l'appartenenza ad uno Stato, nonché gli onori, le ricompense e ciò che è chiamato favore popolare. Infine il denaro, intendendo con questo termine tutto ciò che posse- diamo legalmente, o che abbiamo il potere di vendere o di cui possiamo altrimenti disporre ».” Storicamente l'origine della civitas terrena risale alla caduta dei primogenitori; ma essa trova la prima espressione emblematica nel- la Torre di Babele. Come nella Torre di Babele, così nella civitas ter- rena regna costantemente la confusione, la violenza, la malvagità, la miseria. Ma, a parere di Agostino, l’espressione più mostruosa la civitas terrena l'ha raggiunta nell'Impero Romano, esempio supremo 5 B. MONDIN, vol. II, pp. 162-173 (Spinoza); 220-224 (Hobbes); 224-228 (Locke); 320-328 (Rousseau). € S. AcosTINO, De civitate Dei XIV, c. 28. ? S. AcostINO, De libero arbitrio, I, 15, 32, 149 Origine preternaturale: Agostino e Vico Agostino: regno terreno (‘civitas terrena’) e regno spirituale (‘‘civitas Dei””) Dal peccato originale ha origine la '‘civitas terrena” Vico: lo Stato come creazione provvidenziale di Dio Per Platone e Aristotele: — costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia, repubblica) di brutale conquista e sfruttamento, che si può definire come « brigantaggio su vasta scala ». Anche per il Vico lo Stato deve la sua origine al peccato, ossia ad un atto di ribellione dell'uomo nei confronti dei disegni di Dio. Tuttavia Vico non ha affatto dello Stato quell’opinione così negativa e pessimistica dataci da Agostino; in effetti l’autore della Scienza nuova, anziché un'invenzione degli uomini per meglio soddisfare le loro brame egoistiche, vede nello Stato una creazione provviden- ziale con cui Dio cerca di trar fuori gli uomini dalle loro miserie. « E sommamente da ammirare la provvidenza divina la quale, in- tendendo gli uomini tutt'altro fare, ella portògli in prima a temere la divinità (con il primo fulmine)... Appresso, con la religione me- desima, li dispose ad unirsi con certe donne in perpetua compagnia di lor vita: che sono i matrimoni, riconosciuti fonte di tutte le po- testà; di poi con queste donne si ritrovavano aver fondato le fa- miglie, che sono il seminario delle repubbliche. Finalmente, con l'aprirsi degli asili (per dare rifugio a quei giganti che non si erano piegati alla religione), si truorono aver fondato le clientele onde fussero apparecchiate le materie tali che poi, per la prima legge a- graria, nascessero le città sopra due comuni di uomini che le com- ponessero: una di nobili che vi comandassero; l’altra di plebei che ubbidissero ».* 4. Le forme di governo Lo Stato può assolvere la sua funzione essenziale di garantire pace, giustizia e benessere per tutti soltanto se dispone di un governo, e di un governo autorevole e giusto, il quale sappia far rispettare i diritti e far osservare i doveri da parte di tutti i cittadini. Di go- verni capaci di realizzare queste funzioni se ne possono ipotizzare molti. Però tutte le ipotesi possibili si trovano già chiaramente for- mulate in Platone ed Aristotele, i primi due grandi maestri del pen- siero politico. Movendo dal principio che scopo dello Stato è facilitare il rag- giungimento del bene comune, sia Platone che Aristotele dividono le costituzioni possibili (ossia le forme di governo ipotizzabili) in due categorie: giuste ed ingiuste, e affermano che si danno tre forme di costituzioni giuste e altrettanto di ingiuste. Sono costituzioni giu- ste quelle che servono il bene comune e non solo quello dei gover- nanti. Tali sono: la monarchia, ossia il comando di uno solo che cura il bene di tutti; l'aristocrazia, ossia il comando dei virtuosi, dei mi- gliori, che curano il bene di tutti senza attribuirsi alcun privilegio; la repubblica o politia, ossia il governo popolare che cura il bene di tutta la città. Sono invece costituzioni ingiuste quelle che servono * G. Vico, Scienza nuova, ed. Nicolini, p. 629. 150 il bene dei governanti e non il bene comune. Tali sono: la tirannia ossia il comando di un solo capo che persegue il proprio interesse; l'oligarchia, ossia il comando dei ricchi che cercano il bene econo- mico personale; la democrazia, ossia il comando della massa popo- lare che vuole sopprimere ogni differenza sociale in nome dell’egua- glianza. Queste sono sostanzialmente anche le ipotesi che hanno avanzato nel Medioevo san Tommaso, Dante, Marsilio Ficino, Occam, e du- rante l'epoca moderna Spinoza, Hobbes, Locke, Montesquieu, Rous- seau, Fichte, Marx e molti altri ancora. Si nota però una diversità di opinione, anzi una vera e propria inversione di pareri tra i filo- sofi dell'antichità e del Medioevo da una parte, e i filosofi moderni dall'altra. Mentre i primi ritenevano, normalmente, che la forma ideale di governo fosse la monarchia assoluta e la forma più imper- fetta quella democratica, i secondi, in generale, giudicano l’'asso- lutismo monarchico la forma peggiore e invece ritengono che la for- ma ideale sia o quella della monarchia parlamentare oppure*quella della repubblica. La complessità delle strutture attuali della società, la diffusione della cultura in tutti gli strati sociali, l'esigenza di rendere tutti i membri della società direttamente partecipi dei benefici del potere, la consapevolezza dei rischi che corre la libertà individuale allorché il governo viene affidato ad uno solo, tutti questi motivi ci sembrano dar ragione ai filosofi moderni: essere cioè la forma repubblicana quella più adatta a tutelare i diritti di tutti e a procurare il bene comune. 5. Rapporti tra politica e morale a partire dall'epoca mo- derna Fino agli inizi dell'epoca moderna si pensava che la politica non disponesse di criteri di giudizio suoi propri e che dovesse mutuarli dalla morale e dalla religione. Perciò, quando un sovrano doveva pren- dere una decisione, suo primo compito era consultare la Bibbia e la propria coscienza. Se queste gli dicevano che una certa azione era moralmente illecita oppure contraria agli interessi della religione, egli doveva considerarla anche politicamente riprovevole. Il primo assertore dell'autonomia della sfera politica rispetto a tutte le altre, in particolare rispetto alle sfere della morale e della religione, in quanto disporrebbe di principi normativi suoi propri, è Niccolò Machiavelli. Per la prima volta, la politica viene indaga- ta dal Machiavelli nella sua cruda realtà, nella sua nudità; per la prima volta essa viene fissata nella sua logica interna spregiudicata- mente, fuori cioè da ogni preoccupazione d'ordine morale e teolo- ° Cfr. B. MonDIN, vol. I, pp. 78-97 (Platone); 120-143 (Aristotele). 151 — costituzioni ingiuste (tirannide, oligarchia, democrazia) Dall’epoca moderna si capovolge il concetto di governo ideale Garanzie della forma repubblicana Machiavelli: — l'autonomia della politica dalla morale — la politica come forza positiva e autonoma Kant: distinzione e interazione tra etica e politica gico; e, come risultato di questo metodo, per la prima volta essa viene affermata nella sua peculiarità. Il Machiavelli, attingendo es- senzialmente dalla lezione delle cose, « proclama che la politica non è né la morale, né la negazione della morale, ma una forza positiva, impossibile ad eliminare dal mondo, come ogni altra forza della na- tura, che contribuisce a tener su e far camminare il mondo. In quanto forza positiva, non riducibile quindi alla negatività del male ma insieme non identificabile, per l’invincibile resistenza delle cose a tale identificazione, con la moralità, essa sta per sé, è cioè una forma particolare dell'attività spirituale. La politica è la forza del mondo dello spirito, della forza “cruda e verde”, come si dirà più tardi, che, in quanto forza spirituale, non può essere che forza co- sciente, cioè volontà forte, solida, coerente, indirizzata risolutamente al fine. L'uomo politico, degno di questo nome, è dotato di questa forza, di questa volontà, senza la quale non sarà in grado né di fondare né di mantenere lo Stato: che è lo scopo della sua azione, a conseguire il quale egli calcola l'utilità di tutti i mezzi nella situazio- ne disponibili, tenendo fisso lo sguardo alla realtà effettuale, libero da pregiudizi e scrupoli, persino morali, e invece pronto a sfruttare, ove sia il caso, ossia ove ciò sia utile e necessario, le altrui preoc- cupazioni, credenze e scrupoli ».! Dopo Machiavelli, i filosofi della politica si dividono in due cor- renti, una favorevole a Machiavelli e l’altra contraria. Gli antima- chiavellici (Campanella, Vico) tentano di ricondurre la politica alla dipendenza dalla morale. Per contro, i machiavellici (Spinoza, Hob- bes e poi Marx e Lenin) ribadiscono la totale autonomia della politica dalla morale e dalla religione. La questione dei rapporti tra morale e politica viene per qualche tempo accantonata dagli illuministi (Rousseau, Montesquieu), i quali preferiscono concentrare la loro attenzione nella ricerca del governo più conforme ai lumi della ragione. Ma il problema del rap- porto morale-politica si ripresenta con forza in Kant. Questi, pur mantenendo una rigorosa distinzione tra le due sfere, afferma che né la politica può sottrarsi alla giurisdizione universale dell'etica, né l'etica può prescindere dalla politica, ossia dalla società civile, che è il mezzo e quasi il luogo ideale della sua espiicazione mondana: «La condizione formale sotto cui soitanto ia natura può raggiun- gere questo suo scopo finale (la moralità) è quella costituzione nei rapporti degli uomini tra loro, che in un tutto che si dichiara società civile, oppone una resistenza legale alle infrazioni reciproche della libertà, perché solo in tale costituzione si può effettuare il massimo sviluppo delle disposizioni naturali » (Kant). Qualsiasi distinzione tra etica e politica viene invece respinta !° A. ATTIANI, « Politica », in Enciclopedia filosofica, Sansoni, Firenze 1957, vol. III, col. 1497. 152 da Hegel, perché secondo questo filosofo la fonte suprema d'ogni moralità è lo Stato. Il pensiero di Marx sui rapporti tra etica e politica è ambivalen- te. Nella polemica contro l’idealismo e contro il capitalismo egli riduce l'etica e la politica a semplici sovrastrutture dei fatti econo- mici, i quali si svolgono e trasformano in diretta dipendenza rispetto a questi ultimi. Invece nella progettazione della società ideale in cui tutte le discriminazioni e le differenze di classe saranno tolte, Marx vede nell’etica uno dei valori fondamentali e nella politica uno strumento necessario per la sua realizzazione. « Marx crede nella so- vranità della coscienza morale, che condanna l'ingiustizia nel mondo e anela alla instaurazione della giustizia e della libertà spingendo a maturazione le condizioni che ne rendano possibile l'avvento. La po- litica, allora, sotto questo aspetto ha da servire alla instaurazione dell'ordine morale nel mondo e, questo instaurato, a mantenerlo, di- fenderlo e potenziarlo ».! Ma che cosa è questo « ordine morale » vagheggiato da Marx? In forza del principio che le trasformazioni economiche determi- in molte parti del mondo e che ha assunto una dimen- sione planetaria in base allo sfruttamento dei pochi paesi ricchi sul resto dell'umanità. Il motivo fondamentale della difficile situazione politica e so- ! A. ATTIANI, Art. cit., col. 1501. 153 Hegel: lo Stato fonte suprema della morale Giudizio ambivalente di Marx: lo Stato è regolatore delle condizioni morali per edificare la dittatura del proletariato L’ordine morale costringe l’individuo ad una unica volontà sociale Per Maritain la realtà morale deve ispirarsi ai principi morali evangelici Esigenza del recupero della morale cristiana che ha l’amore al centro della vita talmente assorbito nella dimensione religiosa ed ha cercato questa riabilitazione nel se- parare l'uomo da Dio. L'umanesimo che ne è nato e che si è svilup- pato nelle varie formule — capitalistiche, marxistiche, idealistiche — è un umanesimo antropologico, finalizzato all'uomo e realizzato dall'uomo attraverso la sua ragione, la sua coscienza, la sua tecnica, le sue violente reazioni contro le alienazioni emergenti dalla storia del suo tempo. Si tratta di un umanesimo naturalistico, che si chiude in un materialismo senza sbocchi. Volendo dimenticare che nell’uo- mo vi è una componente negativa, l’antropocentrismo naturalistico ha dovuto subire tutto il male che è nell'uomo senza poterlo spie- gare o spiegandolo erroneamente come imputabile a un « sistema » storicamente dominante, o all'’imperfezione del grado di progresso conseguito, o a oscure ragioni psicologiche del profondo. In particolar modo, sotto la spinta dell’interpretazione marxi- stica della storia, lo sforzo di liberazione dell'uomo si è incentrato nella lotta contro un sistema economico fondato sulla fecondità del denaro. Ma in questa azione di liberazione della classe operaia si è assunto come valore la forza dell'odio e la violenza, mentre la prospettiva da realizzare è posta in un materialismo che vuole solo procurare le maggiori quantità di beni materiali, ricopiando in tal modo lo schema della società neocapitalistica, che operando sui fat- tori tecnica, produzione e pubblicità ha prodotto la società consumi- stica. « Le realtà della vita sociale, economica e politica sono state ab- bandonate alla legge della carne, sono state sottratte alle esigenze del Vangelo. Ne è risultato che è sempre più difficile viverle. Contem- poraneamente, la morale cristiana, non essendo più praticata nella vita sociale dei popoli, s'è isterilita — non già in se stessa o nella Chiesa — ma nel mondo, nel comportamento pratico della civiltà, in un universo di formule e di parole ».! « Per vincere questa fatalità occorre il risveglio della libertà e del- le forze creatrici. E l'uomo ne diviene capace non in virtù dello 1 J. MARITAIN, Che cosa è l'uomo: discorso per la città fraterna, in « Vita e Pensiero », 1973 (LV), n. 1, p. XXV. 154 Stato o di una pedagogia di partito, ma nell'amore che pone il centro della vita infinitamente al di sopra del mondo e della storia tem- porale ».! 6. Rapporti tra Stato e Chiesa Lo « Stato » è per definizione una società perfetta con un fine ul- timo suo proprio (il bene comune degli uomini in questo mondo) e con mezzi adeguati per raggiungerlo. Ma anche la « Chiesa » si con- sidera una società perfetta, avente un suo fine ultimo da raggiungere (la salvezza eterna dell'uomo) e mezzi appropriati da utilizzare per conseguirlo. a dei due poteri: quello dello Stato e dei regni terreni e quello di Dio e della Chiesa, corpo mistico di Cristo: questi due poteri sono essenzialmente di natura diversa come diversi sono i loro fini: il primo si occupa della felicità terrena dell’uomo, il se- condo ha per fine la sua felicità eterna; secondo, anche il potere della società politica viene dall'alto: Omnis auctoritas a Deo. Con questa affermazione si vuol intendere che il potere terreno trova la sua giu- ” Ibidem. 155 Stato e Chiesa: due società perfette in teoria completamente separate Conflitto e interazione dal Medioevo ai giorni nostri tra Stato e Chiesa Le diverse soluzioni: — subordinazione indiretta delio Stato alla Chiesa (san Tommaso) — subordinazione diretta dello Stato alla Chiesa (Bonifacio VIII) — subordinazione diretta della Chiesa allo Stato (Marsilio da Padova) Età moderna: tendenza alla separazione Maritain: uomini liberi sotto la provvidenza di Dio stificazione non in sé ma in Dio, e quindi si afferma un nesso con il potere dato alla Chiesa. Ma Gesù non volle determinare le applicazioni concrete di questi principi universali. Questo deve essere il compito di tutti i cristiani inseriti nella propria epoca storica. olitica dalla morale e dalla religione le teorie di Bo- nifacio VIII, Marsilio e Tommaso cadono in disuso e si dà sempre maggior credito alla teoria della netta separazione tra Stato e Chiesa. Ma anche questa ipotesi, in pratica non è scevra di difficoltà, per la ragione che abbiamo ricordato più sopra: cioè che gli stessi indi- vidui fanno parte sia dello Stato che della Chiesa. Ora può accadere (e in effetti accade di sovente) che le decisioni dello Stato siano in contrasto con quelle delle varie Chiese. Così quella separazione che si era ipotizzata teoricamente, nella realtà quotidiana non è ‘facil- mente realizzabile. Su questo contrastato problema ha fatto delle acute considera- zioni Maritain, il quale analizzando la costituzione americana, os- serva che il suo spirito si oppone all'idea di una società umana che si tenga lontana da Dio e da ogni fede religiosa. In realtà la distin- zione tra Stato e Chiesa che la costituzione americana afferma è in funzione di una reale cooperazione, escludendo ogni privilegio nel- l'una e nell’altra parte. Si tratta di far vivere uomini liberi sotto la 156 provvidenza di Dio (under God). In questa linea lo Stato ha tutto da guadagnare riconoscendo alla Chiesa una influenza immateriale sulle anime attraverso l'insegnamento del Vangelo. Ma alla base del contrasto moderno che vuole l'opposizione to- tale tra Chiesa e Stato, sta il malinteso di chi non intende considerare la Chiesa se non in termini umani, non riconoscendole altro valore

che di istituzione umana, nata nella storia, come fatto umano che può come tutti i fatti umani esser modificata o distrutta. Chi consi- dera la Chiesa come fatto umano — prosegue Maritain — tende a riversare tutte le colpe, che gli uomini in essa viventi manifestano, alla Chiesa stessa. Bisognerebbe riconoscere che anche se il cristia- nesimo fosse tradito dai cristiani (ma in realtà vi sono sempre uo- mini che realizzano pienamente il cristianesimo in ogni epoca) ciò non infirmerebbe gli ideali e la realtà che la Chiesa porta nel mondo. Allo stesso modo che sul piano delle civiltà umane, queste non si giu- dicano dal comportamento dissennato di parte dei membri di esse.!* 7. Rapporti tra fede e politica Il problema del rapporto politica-religione oggi non si configura più solo come studio dei rapporti tra Stato e Chiesa, intesi come due associazioni autonome e complete in se stesse. Ogni Chiesa oggi è vista come una comunità spirituale che tiene uniti i suoi membri con il solo vincolo dell'amore, senza strutture temporali che possono farla apparire come uno !Stato in concorrenza con gli altri Stati. Ma non per questo si può estromettere la Chiesa o le Chiese dalle vicende di questo mondo e confinarle in un mondo impalpabile delle anime. Molti teologi in questi ultimi anni hanno sottolineato l’impor- tanza della dimensione politica del messaggio cristiano e, di conse- guenza, dell'impegno politico di ogni cristiano sia singolarmente che collettivamente. Si rileva, anzitutto, che destinatario della Pa- rola di Dio e della sua opera di salvezza è l'uomo. Ora, questi non è una monade, un angelo, un monaco, ma un essere essenzialmente socievole. Egli non si realizza nella clausura della sua anima, con- templando la verità, ma nella apertura intersoggettiva, nel rapporto recettivo e comunicativo con gli altri, inserendosi in una società e avvalendosi delle sue molteplici strutture. Questo aspetto politico dell'essere umano è al centro della rivelazione nella Bibbia (Antico Testamento), la quale sì occupa costantemente delle strutture so- ciali e politiche del ponolo ebraico, l’eletto dal Signore, sottraendolo * Cfr. J. MARITAIX, L'uomo e io Stato, Vita e Pensiero, Milano 1971, pp. 224- 227, passim. 157 Il contrasto moderno Il rapporto fede- politica oggi La dimensione politica del messaggio cristiano al dominio dei suoi nemici (v. Esodo), determinando la sua organizza- zione in tribù, assegnandogli determinate forme di governo, ecc. Reazione del potere Nel Nuovo Testamento l'attenzione alla dimensione politica è politico meno esplicita, ma si trova sempre presente. Pur non intraprendendo all'insegnamento di iniziative politiche, Gesù è coinvolto nella politica. La sua condotta Gesù e il suo insegnamento provocano la violenta reazione dei poteri po- litici costituiti. Egli diviene la loro vittima. Ma il « potenziale sov- versivo » della sua dottrina e della sua grazia non sarà soffocato. Esso opererà profondamente sui rapporti umani, sulle strutture sociali e a poco a poco li trasformerà radicalmente. Esiste quindi un impatto inevitabile della fede sulla politica. E Fede e liberazione —se questo può essere vero di qualsiasi fede, lo è in modo singolare totale della fede cristiana, che è fede nella liberazione dell'uomo: a ciò contribuisce il cristiano con la testimonianza della sua fede, la quale, di conseguenza, non è passiva accettazione né estatica contempla- zione della parola di Dio, ma è fattiva attuazione delle promesse divine in ordine alla piena realizzazione del regno di Dio che Gesù ha annunziato. 8. Lettura politica del messaggio evangelico Queste importanti ragioni (la natura dell'uomo e il processo sto- rico della rivelazione di Dio) autorizzano una lettura « politica » del messaggio evangelico. Questo, tuttavia, non può essere letto esclu- sivamente in chiave politica, come pretendono alcuni oggi. Quello politico, infatti, è soltanto un aspetto del messaggio cri- Una lettura politica —stiano. Questo ha di mira anzitutto la singola persona (e poi la so- del messaggio cietà) e in ogni persona considera in primo luogo la dimensione evangelico interiore: la conversione dello spirito, la trasformazione del cuore. I profeti dell'Antico Testamento e Gesù Cristo vogliono instaurare un nuovo tipo di rapporti, basato essenzialmente sull'amore, tra l'uomo e Dio e tra i singoli uomini. Ma non intendono realizzare tale obiettivo con la forza, con la violenza, con le armi, bensì con la tra- sformazione interiore delle anime, sollecitandole alla conversione con la testimonianza delle opere, con l'insegnamento della verità, con la pazienza, la carità e il sacrificio di se stessi. Il comandamento [L'amore per Dio e per il prossimo è il vero comandamento « po- dell'amore è il litico » di Gesù. Però non un amore romantico ma un amore critico, comandamento non inteso solo come aiuto caritativo al prossimo, ma come dedizione politico di Gesù. piena alla giustizia, alla libertà e alla pace. Questo comporta una cri- tica decisa contro ogni forma di potere puro e un impegno concreto: per trasformare ogni situazione politica oppressiva degli uomini. Impegno del Di fronte ai grandi temi politici, concretamente, il cristiano sa che cristiano per il bene la vita politica tende ad un bene comune che è superiore alla sem- comune e la plice somma dei beni individuali, un bene che deve riversarsi sulle promozione Umana —rersone umane cioè un bene che riguardi innanzi tutto il migliora-

158 mento della vita umana, non già sul solo piano degli squilibri eco- nomici, ma anche su quello dei valori spirituali, permettendo a cia- scuno di vivere sulla terra come uomo libero e di godere i frutti della intelligenza umana. Per il cristiano la libertà è una realtà di cui deve rendersi degno; l'uguaglianza con gli altri uomini si instaura soltanto in un clima di rispetto reciproco e di fraternità, e non già in una lotta per l’afferma- zione di una sola classe sulle altre; la giustizia è la forza di conserva- zione della comunità politica e la condizione indispensabile per per- mettere all’« amicizia civica » di prendere forma « conducendo gli ineguali all'uguaglianza ». Si potrebbe obiettare che il cristiano, secondo questa visione ideale, appare tutto proteso in una visione verticale, tutto rivolto all’affermazione di principi spirituali e morali, che lo disincarnano dal mondo attuale. È la nota accusa dell’alienazione del cristiano dalle responsabilità del mondo presente. In realtà nella natura uma- na è presente anche un movimento orizzontale, anch'esso determi- nante per la piena e totale realizzazione dell’uomo in se stesso. Tale movimento orizzontale riguarda l'evoluzione dell'umanità e rivela progressivamente la sostanza delle forze creatrici dell'uomo nella storia. È il movimento orizzontale della civiltà, che se è orientato ver- so fini temporali autentici, aiuta la tensione verticale dell'umanità. L'ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e sociale del- l'umanità è l'inaugurazione di una città fraterna, la quale non com- porta che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si ameranno fraternamente, bensì la speranza che lo stato esistenziale della vita umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione, la cui misura è la giustizia e la fraternità. « Questo ideale supremo è anche quello della democrazia au- tentica, l'ideale di una nuova democrazia che tutti attendiamo. Essa esige non solo il potenziamento di tutte le strutture tecniche e una organizzazione socio-politica salda’ e razionale nelle società degli uomini, ma soprattutto una filosofia eroica della vita e il fermento interiore vivificante dell’ispirazione evangelica ».” 9. Capitalismo o socialismo? Il mondo attuale si presenta diviso in due blocchi contrapposti: da un lato i paesi che gravitano nell'orbita della Russia governati da un regime politico-economico di tipo socialista; dall'altro i paesi detti « dell'Occidente », che comprendono l'America del Nord, l’Eu- ropa occidentale, il Giappone e l'Australia, a regime capitalista sotto la guida reale dell'altra superpotenza mondiale (gli Stati Uniti d’Ame- rica). Vi sono poi i cosiddetti « paesi non allineati » (o. del Terzo 4 Ivi, p. XXIX. 159 Libertà, uguaglianza e giustizia cristiana Visione verticale ed orizzontale del cristiano L'ideale di una città fraterna I due blocchi politici contrapposti Due sistemi economici, due scelte di civiltà Horkheimer: la società capitalista è una diretta conseguenza dell’Illuminismo Individualismo, liberalismo e Stato di diritto “Mondo) rappresentati dalla maggioranza dei paesi « poveri ». Ma anche questa distinzione non fa che ribadire la contrapposizione mon- diale dei « due blocchi ». Si tratta di una contrapposizione non soltanto di due sistemi economico-politici, ma di due concezioni di vita da cui derivano ri- percussioni profonde umane e sociali. Entrambi si pongono come « scelte di civiltà » affermando di possedere la garanzia del futuro individuale e sociale del mondo. Di fronte all’alternativa per quale dei due sistemi optare, è difficile pronunciare un giudizio sereno e spassionato. La propagan- da e la lotta politica hanno confuso e oscurato fatti e dottrine, fino al punto di radicalizzare la convinzione ideologica degli individui e delle masse che vivono nei due schieramenti contrapposti. Tutta- via per molti uomini d'oggi, all'interno dell'uno e dell'altro schiera- mento, si pone un urgente problema di coscienza: per quale dei due sistemi è giusto schierarsi? Prima di tentare di avanzare una risposta, è necessario richiama- re i punti essenziali su cui si fondano i due sistemi e le differenzia- zioni che si sono sviluppate nel loro seno. 9.4 Il capitalismo classico Giova innanzitutto avere delle idee chiare sulla ‘situazione sto- rica degli ultimi secoli, in cui si è sviluppata la società attuale. La società, infatti, non è un prodotto naturale, ma il risultato di un lungo processo storico. Ci sembra utile a questo proposito ricordare che, muovendo dai suddetti presupposti, Horkheimer e i suoi col- leghi della Scuola di Francoforte hanno condotto uno studio accu- rato sulle origini della società capitalista contemporanea, stabilen- do che essa affonda le sue origini nell’illuminismo e nelle sue distor- sioni. Con questi studi Horkheimer arriva a concludere che «la manipolazione, lo sfruttamento e l'oppressione che si registrano nella nostra società sono la diretta conseguenza della concezione illuministica del sapere e del ruolo che l’illuminismo ha preteso di assegnare al sapere ».” Il sistema economico chiamato capitalismo non può essere effet- tivamente compreso nella sua essenza se non come conseguenza di una concezione dell’uomo detta « antropocentrica »: l’uomo non ha altro fine all'infuori di se stesso. Egli è destinato a promuovere il proprio sviluppo nella storia, sotto la guida della ragione, nella to- tale espansione della propria libertà. In questa concezione dell’uomo si esalta l'individuo nei confronti della società (individualismo) e si proclama la sua libertà incondizionata (liberalismo). Lo Stato, e- spressione delle libertà individuali, si regge sulla democrazia rap- * B. MONDIN, vol. III, pp. 540-541. " Ivi, p. 541. 160 presentativa e sulle garanzie della Legge (stato di diritto). Sul piano economico la libertà dell'individuo (o dei gruppi) si estende quanto si estendono le sue possibilità economiche. All'iniziativa privata del capitale non vengono posti limiti né di natura legale né di ordine sociale. L'uomo, spinto dal suo esclusivo egoismo, mette in atto una sfrenata « lotta per il successo », e basandosi esclusivamente sulle leggi inevitabili della economia-libera concorrenza, concentrazione dei mezzi di produzione e dei capitali nelle mani di uno o di pochi (trusts, oligopòli, multinazionali, ecc.) esercita una forza di pressione su governi, partiti politici, opinione pubblica, allo scopo di assicu- rarsi copertura ideologica sugli intrighi utilitaristici. È questo il capitalismo classico !# che ha avuto il suo massimo svi- luppo nel secolo scorso e nei primi anni del nostro secolo; esso si fonda sul principio secondo il quale l’attività economica nasce nel li- bero gioco tra capitale e lavoro; due forze nel cui equilibrio non devono interferire né lo Stato né la morale, perché il solo rapporto economico è sufliciente a bilanciarne gli eccessi. In realtà il capitale, con l'enorme concentrazione di potere in suo dominio, riusciva ad arrogarsi ogni vantaggio, lasciando alle forze del lavoro (proletariato) appena di che mantenersi e ripro- dursi. La legge ineluttabile che si diceva essenziale all'ordine eco- nomico, continuava a mantenere ed accrescere la ricchezza in mano di pochi, mentre il lavoro, pur derivante dalla produzione di molti, li condanna allo sfruttamento e a una disumana condizione di vita. La critica a questo sistema scaturisce dalla sua insanabile ingiu- stizia e dalla inammissibilità di un sistema che mette le persone umane (i lavoratori) in balia di una cosa (il capitale). Ma anche sul piano strettamente economico l'errore su cui si fondava il capitali- smo non tardò a rendersi evidente: l’uomo non è sensibile esclusiva- mente a stimoli di ordine economico. Le tensioni sociali che si mani- festarono a partire dalla metà del secolo XIX nascono dalla presa di coscienza che l'uomo non può essere schiavo delle leggi econo- miche, ma queste devono servire al suo sviluppo sociale e morale. Questa presa di coscienza deriva soprattutto dalla nascita di asso- ciazioni di lavoratori sorte verso la metà del secolo scorso in Inghil- terra per la difesa dei propri diritti, inizialmente soprattutto di ca- rattere economico, soprattutto dei cosiddetti sindacati. 9.2 Il neocapitalismo Il crollo del rendimento produttivo dei lavoratori e la loro cre- scente avversione ai datori di lavoro condussero il capitalismo a profonde modificazioni. Con Frederick Winslow Taylor (1856-1915) X Il capitalismo nasce dalla rivoluzione industriale, in forza della quale la macchina, applicata alla produzione, assorbì gran parte della mano d'opera nelie fabbriche. Secondo Marx ciò ebbe inizio nel 1735 con l'introduzione del- la macchina per filare di Wyatt. 161 Capitalismo classico e sfruttamento del proletariato L’uomo non è schiavo delle leggi economiche Nel neocapitalismo c’è l'intervento condizionatore dei sindacati dei lavoratori e dello Stato La crisi del ’29 e il “Nuovo corso” Effetti sociali della tecnostrutiura che modifica i processi produttivi La ‘‘società dei consumi” e la manipolazione dei ‘mass-media’ nasce negli Stati Uniti il neocapitalismo che riconosce al lavoratore «dipendente, sia pure dopo dure e lunghe lotte dei sindacati operai, e allo Stato un intervento condizionatore dell'attività economica, non più lasciata ai soli automatismi di mercato. Riconoscendo al lavoratore il diritto a migliorare le condizioni di lavoro, il neocapita- lismo supera il gretto concetto di sfruttamento della mano d'opera. Si elabora una organizzazione scientifica di pianificazione del lavoro (scientific management) e al lavoratore vengono riconosciuti il di- ritto a tempi ragionevoli di lavoro, il diritto a un'istruzione specifica, il diritto alla cooperazione tra direzione manageriale e lavoratori. Dopo la grande crisi economica del 1929, con il New Deal di F.D. Roosevelt, il potere politico viene coinvolto sempre più decisamente nel processo economico e la nuova politica economico-sociale dello Stato rappresenta uno strumento di redistribuzione dei redditi della produzione economica a più larghi strati della popolazione, e- sercitando una forte pressione sugli automatismi economici. Soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, con l'avvento della tecnostruttura, l'automazione introdotta nei processi produttivi in- serisce nel processo economico gli scienziati e i tecnici, condizionan- do una volta di più la potenza del capitale e riducendo il proletariato tradizionale a sempre più esigue minoranze. Ma il neocapitalismo sa approfittare ancora una volta delle mu- tate condizioni di produzione con l’estendere su larga scala la pro- duttività di beni di consumo e favorire in tal modo i consumi di massa. Nasce la « società dei consumi » (affluent society) il cui ideale è di produrre sempre di più per rendere più umana la vita dell’indi- viduo, fornendogli un numero sempre crescente di beni di consumo. La critica a questo sistema emerge dal fatto che l'uomo viene stritolato nel rapporto produttività-consumi, rapporto che si confi- gura come una nuova e più sofisticata forma di sfruttamento di massa:. l’uomo della civiltà dei consumi vive costretto a produrre ciò che dovrà consumare. Di qui uno stato di insoddisfazione sempre crescente, cui s'aggiunge l'alienazione derivante dalla mercificazione della cultura e dallo svuotamento delle menti prodotto dai mass media. H. Marcuse ha tratteggiato amaramente l’uomo « unidimen- sionale » emergente dalla nuova società creata tanto dal consumismo dell'Occidente, quanto dall'industrialismo sovietico: « Una confor- tevole, democratica non-libertà prevale nella società industriale a- vanzata ».!? 9.3 Il labourismo e la socialdemocrazia Nel 1883 sorge a Londra la « Società Fabiana » (Fabian Society) che si pone come fine la elevazione della classe lavoratrice, in modo che essa possa arrivare ad assumere il controllo dei mezzi di produ- # H. MARCUSE, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 21. 162 zione. Questo fine doveva essere raggiunto in modo graduale, « tem- poreggiando ». Da qui il nome di questa società, derivante dal con- sole romano Fabio Massimo, detto il « temporeggiatore ». Dopo qual- che anno (nel 1900) dalla Società Fabiana e dalle Trade Unions (i sindacati operai, sorti agli inizi del secolo XIX come associazione di mutuo soccorso tra gli operai dell'industria metallurgica inglese) fu fondato il partito labourista inglese (Labour Party = partito del la- voro) che assume il programma del socialismo (per cui il controllo dei mezzi di produzione deve passare ai lavoratori) senza fare però un dogma dei suoi principi filosofici tratti dal marxismo. Esso diven- ne nel giro di alcuni decenni uno dei due partiti fondamentali della Gran Bretagna, andando al potere diverse volte a partire dal 1924. I mezzi di lotta adottati per raggiungere le mete prefissate sono stati: una imponente azione di propaganda tra le masse popolari per farle crescere culturalmente e renderle coscienti dei propri diritti di esseri umani sullo stesso piano di tutte le altre classi sociali; gli scioperi, attraverso il sindacato, anche a livello nazionale e di sostegno tra le varie categorie di lavoratori, per ottenere dallo Stato una legislazione sia di assistenza sociale (dalla culla alla tomba) onde migliorare le condizioni di vita, sia per sancire il passaggio allo stato o un suo di- ritto di controllo delle aziende di interesse nazionale (comunicazioni, miniere, energia, banche, ecc.), e per ottenere dal padronato adeguati miglioramenti salariali ed una partecipazione, sia pure indiretta, alla gestione dell'azienda. Come in Inghilterra, così anche in altri paesi dell'Europa occiden- tale come Germania, Olanda, Danimarca e in Scandinavia i partiti socialisti, sorti nei primi decenni del XX secolo, non fecero la scelta rivoluzionaria, ma presero la strada del riformismo e della gradualità per la trasformazione della società capitalista. :IIl nome di partiti « socialdemocratici », che essi assunsero, era una indicazione della loro scelta democratica, cioè del pieno rispetto della volontà dei cittadini. Alcuni di essi, che erano sorti basandosi sul marxismo, specie dopo il secondo dopoguerra, fecero una esplicita rinuncia al materialismo storico e dialettico di Marx, accettando nella pratica il sistema neocapitalista con cui convivere tranquillamente. Il partito socialdemocratico della Germania occidentale e quelli scandinavi sono gli esempi più significativi di questo socialismo in perfetta simbiosi con il capitalismo; anche i partiti socialisti france- se, italiano e spagnolo, pur restando in teoria marxisti, nella pratica sono da tempo dei partiti socialdemocratici che hanno accettato le tesi del neocapitalismo per il quale lo sviluppo massimo della pro- duzione con l'utilizzazione della tecnica moderna, permette la cre- scita di tutta la società e l'aumento dei consumi per ogni categoria sociale (v. il paragrafo sul neocapitalismo). 163 Dal fabianesimo alle ‘Trade Unions”’ inglesi e al labourismo Il socialismo riformista dell'Europa occidentale: la socialdemocrazia Marx: abolizione dello sfruttamento e comunismo Lotta di classe e collettivizzazione dei mezzi di produzione Il ‘Manifesto del partito comunista’’ e la coscienza di classe L'Internazionalismo socialista I partiti dei lavoratori italiani 9.4 Il socialismo marxista Karl Marx (1818-1883), fondatore del socialismo scientifico, si propone di fondare una società in cui sia abolito lo sfruttamento dell'uomo e a tutti venga assicurato il soddisfacimento dei loro bisogni materiali e spirituali (comunismo). Marx vede nel possesso privato dei mezzi di produzione il prin- cipio di ogni male, non solo economico, ma anche individuale e sociale. Da questa privatizzazione nasce il rapporto salariale per cui l'operaio vende il proprio lavoro per un salario sul quale l’im- prenditore lucra ingiustamente il « plusvalore », cioè il profitto. La lotta di classe, cioè la lotta per la conquista della proprietà collettiva dei mezzi di produzione da parte del proletariato sfruttato dai ca- pitalisti, è, secondo Marx, un fatto ineluttabile della storia che deve condurre all'eliminazione della classe padronale. Tolta di mezzo quest'ultima, nascerà un nuovo tipo di umanità, senza più classi né egoismi: uomini che vivranno in una società di uomini « comuni », solleciti al bene degli altri quanto e forse più che non al bene proprio. Nel 1848 Marx lanciò un appello a tutti gli operai, con il « mani- festo del partito comunista » firmato anche da Engels, in cui il pro- letariato veniva sollecitato a prender coscienza della propria con- dizione e della propria individualità, per diventare una forza sociale contro lo sfruttamento. Con la fondazione della I* Internazionale dei Lavoratori (Londra, 29-8-1864) le varie correnti socialiste sviluppatesi prima e durante la diffusione del marxismo si associarono, non senza contrasti pro- fondi. In Inghilterra prevalse il sindacalismo delle « trade unions » riformista e antirivoluzionario; in Germania il socialismo democra- tico mirava alla trasformazione dello Stato, mentre in Francia an- ziché alla conquista del potere il movimento operaio tendeva a or- ganizzarsi e a liberarsi dallo sfruttamento senza ricorrere alla rivo- luzione. Ma vi furono anche movimenti dichiaratamente anarchici, terroristici e rivoluzionari ispirati da Bakunin, fiero oppositore di Marx. In Italia, con la fusione dei movimenti operai preesistenti, nacque a Genova nel 1892 il Partito dei Lavoratori Italiani (l'anno seguente prese il nome di Partito Socialista Italiano), in cui ben presto si ma- nifestò la divisione tra socialisti riformisti e socialisti radicali, rivo- luzionari, i quali sotto la spinta della rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia finirono per separarsi e fondare a Livorno nel 1921 un nuovo partito denominato « Partito Comunista d’Italia », cam-° biando poi il nome nell'attuale Partito Comunista Italiano. 9.5 Il marxismo-leninismo-stalinismo Con la rivoluzione d'ottobre 1917, in Russia, ad opera di Lenin si ebbe la creazione di uno Stato collettivista, senza distinzioni di 164 classe. Lenin stabilì tutto il potere al vertice, non già nella classe — come avrebbe voluto Marx — ma nel partito. Stalin giungerà ancor più avanti: alla dittatura personale del capo unico. Il paese fu spinto con la forza alla collettivizzazione della terra, all'industrializzazione a tappe forzate, alla compressione continua e spietata dei consumi. Le libertà individuali o di gruppo furono abolite e con Stalin venne accentuato il regime poliziesco repressivo con continue « purghe » e con l'invio di milioni di persone nei famigerati campi di lavoro in Siberia. Questo terrorismo dispotico venne poi denunziato al XX Congresso del Partito Comunista da Kruscev nel 1956, dopo la morte del dittatore. Anzi, dopo questa denunzia, venne iniziata la cosid- detta fase di « destalinizzazione », in cui tutti gli errori e le deficienze del sistema vennero addebitate al dittatore scomparso. Sul piano dell'economia e dei diritti umani non cambiò pratica- mente nulla, pur con qualche accenno di liberalizzazione attuata in qualche settore e solo per brevi momenti. La rigida organizzazione centralizzata avente come perno il Partito Comunista, fonte di ogni potere e costituito da un gigantesco apparato burocratico, è rimasta invariata in questi ultimi 30 anni, in quanto il marxismo-leninismo è rimasto la filosofia ufficiale dell'Unione Sovietica. Questo sistema in cui praticamente domina lo sfruttamento delle masse da parte di una oligarchia costituita dall’apparato del partito e dalla macchina statale, è stato imposto a tutti i paesi del blocco dell'Europa orientale, caduto sotto il dominio comunista alla fine della seconda guerra mondiale. 9.6 L'esperienza del maoismo in Cina Una esperienza diversa si è attuata in Cina da Mao-Tse-tung, quando, dopo una lunga lotta rivoluzionaria contro il regime di Chiang-Kai-sheck, riuscì a conquistare il potere nel 1949, costituen- do la Repubblica Popolare Cinese su basi marxiste. Mao-Tse-tung — che era stato uno dei fondatori del Partito Comunista Cinese, sorto nel 1921 a Shangai — divenne il capo cari- smatico del comunismo cinese e dell'immenso paese asiatico, che ha ora 900 milioni di abitanti. Egli, dopo la morte di Stalin nel 1953, si proclamò unico difensore e interprete del marxismo-leninismo, accusando di revisionismo i paesi del blocco sovietico. In realtà il suo socialcomunismo si è differenziato da quello proclamato da Marx e Lenin, soprattutto per alcuni punti qualificanti: a) stretta unione tra teoria e prassi; b) legame completo e continuo con le masse; c) sviluppo dell’autocritica. In realtà, Mao ha creato un nuovo tipo di comunismo, in cui le verità universali del marxismo vengono ri- pensate per un popolo contadino, povero, fortemente socializzato attraverso un incessante indottrinamento — i « pensieri di Mao » — » B. MONDIN, vol. III, pp. 514-515. 165 La rivoluzione del ’17: dai marxismo- leninismo alla dittatura di Stalin Mao e ii ripensamento del marxismo per un popolo contadino Caratteri militari e monacali del maoismo: la rivoluzione culturale Il processo di revisione del maoismo a partire dal 1976 ‘‘Marxismi’’ e ‘‘postmarxismo”’: la devianza eterodossa in forza del quale si tenta di cambiare la natura degli uomini, il loro modo di pensare e di comportarsi, accentuando una forte tendenza nazionalistica e volontaristica. Accentuando il valore «teoretico » della prassi, più che Marx ed Engels, Mao è stato soprattutto un utopista pragmatico e per questo, vedendo diminuire nel quadro del partito la spinta ideale iniziale, si fece promotore nel 1966 della cosiddetta « rivoluzione cul- turale » con un appello diretto alle masse, specialmente ai giovani, per controllare l’attività dei dirigenti di partito che si erano im- borghesiti e burocratizzati e combattere chi non condivideva le sue tesi politiche riunite nel « libretto rosso ». Come risultato si ebbe una ventata di violenze con processi sommari e centinaia di mi- gliaia di vittime innocenti e l'anarchia in tutto il paese, con lo scardi- namento di tutto l'apparato produttivo. Solo dopo la morte del dittatore, nel 1976, i nuovi dirigenti, sotto la guida attenta di Deng Hsiao-ping, eminenza grigia del regime, hanno iniziato un graduale processo di revisione delle direttive maoi- ste, rivalutando i dirigenti vittime della « rivoluzione culturale » ed avviando una politica economica più duttile, aperta alle esperienze dei paesi capitalisti. Facendo un primo bilancio del maoismo, si può dire che esso, co- me il bolscevismo russo dei primi decenni, era incentrato sul partito come motore di tutta l’attività del paese, fondata sulla cieca ubbi- dienza di tutti i sudditi, trattati solo come strumenti di produzione. Una delle sue debolezze fondamentali, ereditate dal marxismo, è stata la sua incapacità di affrontare le realtà insopprimibili della vita e della morte. E questo perché ignorava le preoccupazioni fondamen- tali di ogni essere umano. 9.7 Crisi del marxismo ortodosso: i nuovi marxismi Dopo un settantennio di esperienza di comunismo sovietico e circa quarant'anni di quella, simile nei principi, della Repubblica Popolare Cinese e delle altre costituzioni « socialiste », si può tentare di formulare un giudizio di validità e di merito. Il pensiero di Marx che in questo secolo ottenne una grande dif-

fusione e fu assunto come dottrina di Stato, indiscutibile come un dogma, sia in Russia che in Cina e nelle altre « democrazie popo- lari », ebbe da parte di qualche eminente studioso marxista, spe- cialmente dell'Europa occidentale, delle nuove interpretazioni che . modificarono alcune delle sue tesi classiche. Tanto che da alcuni decenni non si parla più di marxismo ma di « marxismi » e di « post- marxismo ». Naturalmente queste nuove interpretazioni furono su- bito condannate come eterodosse dagli organismi culturali ufficiali dei governi comunisti. L'elemento che distingue maggiormente il marxismo non orto- dosso o revisionistico da quello ortodosso è che per quest’ultimo la 166 dialettica regola con leggi inderogabili tutti gli eventi della natura e della storia, mentre per i nuovi marxismi la dialettica non ha leggi e non riguarda affatto la natura bensì il soggetto singolo nei suoi rapporti con la storia. Anche nelle società a regime comunista occor- re lottare contro la disumanizzazione e l'alienazione delle singole personalità. Inoltre mentre per i marxismi ortodossi la religione è soltanto « oppio del popolo » e perciò da distruggere, per i nuovi marxismi la religione è considerata come un importante fattore di superamento e di liberazione dalle presenti situazioni di oppres- sione e di sofferenza in cui si dibatte l'umanità ed anche di sostegno delle aspirazioni per un mondo migliore. (I più qualificati rappresen- tanti di queste nuove correnti di pensiero marxista sono stati An- tonio Gramsci, Max Horkheimer, Herbert Marcuse ed Ernst Bloch, i quali hanno esercitato un notevole influsso nei movimenti culturali del nostro tempo). ‘Assolutizzando l'influsso che le strutture esercitano sull'uomo e sulla società Marx scorge nella base economica il peccato d’origine che determina l’uomo, la sua coscienza, le sue alienazioni. Ciò com- porta una visione materialistica dell'uomo, la quale ne autorizza la strumentalizzazione e la manipolazione, subordinandolo alla ideolo- gia, né più né meno di quanto avviene ad opera del capitalismo. Anche per il capitalismo l’uomo conta soltanto in quanto è iavoro, senza alcun riferimento superiore o trascendente. Non si può quindi credere ingenuamente e acriticamente che una semplice scelta capitalista o socialista sia in grado di eliminare, automaticamente, i molteplici mali, ingiustizie, discriminazioni, op- pressioni che affliggono la società attuale. I mali della società non derivano tanto dai sistemi, quanto dagli uomini. L'origine dello sfrut- tamento sociale e dell’oppressione risale alla volontà dell'uomo di ser- virsi egoisticamente e brutalmente di un altro uomo. Occorre dire poi che queste critiche di ordine teoretico (filoso- fico o scientifico) non avevano mai fatto grande impressione a molti altri studiosi, ammiratori di Marx e non avevano scalfito minima- mente la fede di milioni di comunisti militanti dei vari partiti comu- nisti dell'Europa occidentale. Per tanti anni, neppure le pesanti conseguenze di ordine pratico (sociale, economico, politico) che accompagnarono il marxismo, specie in Russia, erano bastate ad intaccare la convinzione delia intrinseca bontà di tale sistema. Anche quando gli innumerevoli cri- mini di Stalin divennero di dominio pubblico, la grande intelligentsia dei paesi occidentali continuò ad aderire al marxismo, sottovalutan- do o facendo finta di non vedere gli stermini, le oppressioni, le pur- ghe, i campi di concentramento che avevano flagellato il popolo rus- so da quando i comunisti conquistarono il potere. Senonché, a partire dagli anni ’60, sia in Russia che nei paesi occidentali, cominciò a serpeggiare un senso di sfiducia nella capa- 167 de Marxisma revisionistico: la dialettica e ii soggetto singoio nella storia; îa religione come fattore di liberazione La subordinazione dell’uom& all’ideologia Le colpe dell’ ‘‘intelligentsia’’ occidentale filomarxista Le crisi di fede nel marxismo e l'““arcipelago Gulag” L’interesse del cristianesimo per il problema economico-sociale cità del marxismo di creare quella nuova società perfetta, senza di- seguaglianza, senza ingiustizie, senza divisioni di classe, promessa da Marx. Le ragioni di questa crisi di fede nel marxismo sono molteplici. Ma quella fondamentale, a mio avviso, è il vuoto culturale del marxi- smo stesso. Questo sistema, come ha mostrato Karl Popper, dove ha la pretesa di parlare « scientificamente » non può produrre che ipotesi falsificabili. Mentre per quelle dure realtà quali il male, il dolore, la morte, il senso della storia, non ha nessuna parola da dire. Un'altra ragione che ha messo in crisi la fiducia nel marxismo è stata la pubblicazione di Arcipelago Gulag di A. Solzenicyn. Per molti lettori di fede marxista questo libro è stato una rivelazione sensazionale, «decisiva, che li ha scossi profondamente e da fedeli e zelanti seguaci di Marx li ha trasformati, tutto d'un tratto, nei suoi critici più severi e nei suoi più violenti avversari. 10. Le dottrine sociali di ispirazione cristiana Sarebbe oltreché ingiusto, acritico, pensare che la soluzione alla questione sociale sia venuta soltanto dai movimenti socialistici del- l'Ottocento e, in modo particolare, dalla dottrina di Karl Marx. Il cri- stianesimo non si disinteressò mai, nel corso della sua millenaria storia religiosa e sociale, dell'uomo nei confronti del problema eco- nomico-sociale e delle ingiustizie conseguenti alle soluzioni impo- ste dall'egoismo umano. Le soluzioni cristiane possono ridursi a due tipi, spesso integran- tisi: da un lato una forma prevalentemente (anche se non esclusiva- mente) assistenziale-caritativa (cristianesimo caritativo) e dall'altro, una forma che proponeva la revisione delle stesse strutture econo- mico-sociali (cristianesimo sociale). La prima forma, che è essen- ziale al cristianesimo stesso, è presente in tutti i secoli dell’era cri- stiana e cerca di lenire con la fattiva carità le esasperate conseguen- ze della violenza, di qualsiasi tipo, che l'uomo e la società fa sul- l'uomo..È questo uno dei frutti più originali del Vangelo che ha a cuore i poveri, gli umili, gli oppressi, i diseredati. Sono innumerevoli le opere di efficace aiuto realizzate, nei secoli, dalla Chiesa in questo campo. Né si può dimenticare la precisa condanna nei confronti del- l'usura, del profitto ingiusto e speculativo, dell’ingiustizia economica derivata dallo strapotere della ricchezza. Il cristianesimo sociale si è preoccupato invece di individuare, accanto all'azione caritativa, anche il problema della giustizia. Di qui le sollecitazioni, specialmente da parte del magistero della Chiesa cat-, tolica, a interventi individuali, di categoria, statali per rimuovere le cause dell’ingiustizia sociale, derivante dalla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi. Il magistero della Chiesa cattolica ha elaborato, a partire dalla 168 seconda metà del secolo XIX," una sempre più precisa critica al prin- cipio di libertà — uno dei miti della società nata dall'Illuminismo — applicato sul piano della realtà sociale ed economica. Inoltre non si è abbandonata la tesi della legittimità del principio di proprietà pri- vata, « la quale è conforme alla natura umana e vantaggiosa per l’or- dine sociale »? ma ci si è sforzato di condizionarlo con le esigenze sociali, attribuendo allo Stato il diritto di determinare i limiti nel- l'uso del bene privato in vista del bene comune. Nella discussione tra legittimità delia proprietà privata e bene comune, spesso non si di- stingue tra proprietà e uso che se ne fa: nella mancata distinzio- ne tra proprietà e uso — e quindi, in certo senso, tra proprietà privata e destinazione universale dei beni — sta la radice sia dell'in- dividualismo capitalistico che del comunismo. Dal fatto che i beni sono fatti per tutti, il comunismo deduce la dottrina e la prassi che i beni devono essere di tutti; dal fatto che i beni devono essere ap- propriati e sono di fatto appropriati, l’individualismo capitalistico ricava che essi sono fatti solo per i singoli, i quali, quindi, possono disporne senza curarsi per nulla degli altri. Entrambe queste solu- zioni commettono lo stesso errore. . In questa linea di principio, le soluzioni proposte negli ultimi cento anni alla questione sociale riguardano soprattutto lo Stato, che deve promuovere l’uso dei beni, pur posseduti in privato, a effet- tivo vantaggio sociale, a promozione del bene comune. I sindacati dei lavoratori, per la rivendicazione dei loro diritti individuali, fami- liari e di categoria, nonché la loro partecipazione alla ripartizione delle ricchezze prodotte con il proprio lavoro a vantaggio non di alcuni, ma di tutti, devono egualmente svilupparsi e potenziarsi. 11. Îl cristiano e la promozione delia coscienza sociale e politica: la mediazione culturale e l'impegno politico Soprattutto nei tempi più recenti, si è sviluppata nella coscienza individuale del cristianesimo la consapevolezza che non si tratta più di vivere interiormente la propria fede, ma di esprimerla come “ I documenti principali sono: l’enciclica Rerum novarum del pontefice Leone XIII (1891); l'’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931); Radiomes- saggio per il 50° della Rerum novarum di Pio XII (1941); l’enciclica Mater et magistra di Giovanni XXIII (1961); l’enciclica Pacem in terris di Giovanni XAIII (1963); la costituzione Gaudium et spes del Conc. Vaticano II (1965); l'enciclica Popolorum progressio di Paolo VI (1967); la lettera apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI (1971); il documento su « La giustizia nel mondo » del III Sinodo dei Vescovi (1971); l’enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II (1981) e l’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Libertà cristiana’ e liberazione (1986). Si suggerisce come testo di consul- tazione il volume / documenti sociali della Chiesa (da Pio IX a Giovanni Paolo II, 1864-1982), Massimo, Milano 1983. © PIo XI, Quadragesimo anno, n. 73. ® G. BATTISTA GUZZETTI, L'uomo e i beni, Marietti, Torino 1956, p. 215. 169 La dottrina sociale della Chiesa dal sec. XIX a oggi H problema della proprietà privata in rapporto al bene comune Responsabilità dello Stato e promozione del bene comune Esperienza di fede e testimonianze di impegno di azione sociale Un nuovo modello di civiltà e l'appello all’immaginazione sociale Gli insegnamenti del Concilio Vaticano li La ‘‘mediazione culturale”: congiunzione e sintonia tra fede e coerenza politica impegno di azione sociale, testimonianza di una autentica volontà di rinnovare il mondo secondo l'ideale cristiano. Ma accanto a questa preliminare posizione del cristianesimo, anzi come conseguenza della conversione personale, nasce l'impegno di chi vuol vivere la sua fede cristiana in una azione politica. Verso questa testimonianza cristiana nel mondo politico-sociale contemporaneo sono orientati oggi i cristiani più sensibili e consa- pevoli dell'urgenza dei problemi che il mondo è chiamato a risol- vere. Il cristiano sa che non si tratta più di affrontare i problemi sociali emergenti dal conflitto capitale-lavoro, bensì di affrontare l’urgen- te problema di un nuovo modello di civiltà. « In nessun'altra epoca come nella nostra l'appello all'immagina- zione sociale è stato così esplicito. Occorre dedicarvi sforzi di inven- tiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli arma- menti e nelle imprese tecnologiche ».* Oggi si incomincia a vedere con chiarezza che nessuna delle ideo- logie dominanti porta con sé la proposta di un mondo veramente instaurato sulla democrazia, sulla giustizia e sulla non violenza. Le ingiustizie del capitalismo sono note ed evidenti. Ma anche là dove esso è stato debellato secondo la soluzione socialista-marxi- sta non mancano gravi problemi che si impongono a una coscienza umana sincera e non prevenuta. Una perenne tensione divide il mondo e pone « due continenti ideologici » in uno stato di guerra e di inconciliabile opposizione. L'urgenza e la consapevolezza di questi problemi impegnano de- cisamente i cristiani che nel corso dell'ultimo ventennio, soprattutto sulla scorta degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, si sono tro- vati a compiere lo sforzo di attuare una corretta modalità di pre- senza. Il cristiano, infatti, nell'impegno politico ha dovuto confron- tarsi e guardarsi sia dal rischio di attuare una presenza politica, in cui la scelta di fede e l'azione politica non siano sintonizzate da alcun legame di coerenza, arrivando a compiere scelte ideologiche di formulazione anticristiana, come dall'altro rischio che deriva dalla pretesa di attingere l'indicazione della teoria e della prassi politica direttamente dalla dimensione di fede e dal contenuto delle verità ultime. Possiamo dire pertanto che il cristiano deve operare per « co- struire la città dell'uomo a misura d'uomo; e questo lo impegna a superare stati d'animo di disinteresse, di diffidenza, talora di rifiuto della politica fino a forme di gretto qualunquismo ».® . Sorge così l'esigenza di pervenire all'elaborazione di una « me- diazione culturale » per operare in sintonia tra scelta di fede e * :PaoLO VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens del 14-5-1971, n. 19. * Questo concetto è preso dal volume La città dell'uomo di Giuseppe Laz- zati, scomparso recentemente, splendida figura di uomo politico cristiano, di studioso, che fu rettore dell’Università Cattolica di Milano. 170 coerenza politica. Le mediazione culturale si pone, inoltre, come la linea di confine lungo la quale realizzare il confronto ideologico e stabilire i termini di possibilità del dialogo nel pluralismo delle culture e degli orientamenti politici. 12. | nuovi problemi impongono una nuova concezione di società 12.1 La nuova società « post-industriale » o della comunicazione Come è stato detto nei paragrafi precedenti, l'immenso progresso negli ultimi decenni della scienza ha permesso l'applicazione delle tecnologie più avanzate, soprattutto la robotica e l'informatica, in ogni settore dell'attività produttiva. Per distinguere questa nuova fase della società industriale si è creato il termine di « società post-industriale » la quale pur avendo risolto molti problemi che a- vevano pesato sull’umanità nei secoli scorsi, si è trovata ‘a fronteg- giare altri nuovi gravi problemi, sorti soprattutto per effetto della nuova civiltà della comunicazione e dell'immagine che ha svilup- pato una serie di nuovi bisogni, dando origine alla « società dei con- sumi » e a nuove forme di potere disumanizzanti della vita indivi- duale, familiare e comunitaria. Nella società comunista come in quella capitalista sono nati i «nuovi poveri » che si sostituiscono a quelli creati nel secolo scor- so dalla rivoluzione industriale: i drogati, i disadattati, i deviati, gli emarginati d'ogni tipo; cresce la difficoltà del dialogo tra generazio- ni; si moltiplicano le forme di discriminazione razziale, culturale, religiosa, nonché quella meno apparente ma altrettanto grave del- l'emarginazione di coloro che sono improduttivi come i vecchi, i ciechi, gli handicappati. La civiltà dell'immagine, sorta soprattutto con la televisione, ha sviluppato la violenza ed ha contribuito anche ad una eccezionale crescita della criminalità organizzata che ha reso insicura la vita di tutti. Infine, lo sfruttamento irrazionale per i propri fini egoistici delle risorse terrestri minaccia l’ambiente na- turale e di conseguenza il contesto umano stesso. Sarebbe semplicistico ridurre tutti questi problemi — ed altri an- cora dello stesso genere — al semplice conflitto tra capitale e lavoro. È una società intera che, nonostante abbia iniziato da qualche ge- nerazione la soluzione dei suoi problemi in termini di « capitale- lavoro », oggi riconosce amaramente che la società tecnologica, sia essa a servizio del capitalismo o sia a servizio del proletariato, ha aperto il passo a conflitti umani che richiedono un superamento ra- dicale della concezione della società e dell'uomo. L'invocazione che emerge da questi gravissimi conflitti è che si debba al più presto sorpassare ogni sistema e ideologia attualmente vigenti, per trovare 171 Nella società post- industriale sorgono nuovi problemi sociali I nuovi poveri: gli emarginati, i devianti, i disadattati Occorre giungere ad una nuova concezione della società e dell’uomo Pesante costo sociale delia odierna societa tecnologica Gsisi dell’era tecnologica perché essa appare troppo pericolosa Il giudizio di Abbagnano {sa scensiderato delia tecnologia nuove forme di democrazia, libera e sociale, che sia un autentico con- trappeso alla invadenza della tecnocrazia.® 12.2 La « crisi epocale » della società nell'era tecnologica L'era tecnologica e dell'informatica ha determinato, come è stato detto, nella società trasformazioni di dimensioni tali da creare una « crisi epocale » della nostra società. Questo progresso, infatti, se da un lato ha portato immensi van- taggi all'umanità, dall'altro lato ha avuto un pesante costo, non solo in termini economici, ma soprattutto per quanto riguarda la difesa della natura, la salute e l'integrità della persona. Di questa « crisi epocale » segnaliamo qui appresso gli aspetti più rilevanti: a) Crisi tecnologica - « La crisi della tecnica è esplosa dopo anni di infatuazione per i risultati spettacolari che la tecnologia moderna è riuscita a conseguire: treno, auto, aereo, radio, televisione, trat- tore, carro armato, veicoli spaziali, missili, grattacieli, metropolitane, calcolatori elettronici, polmoni e reni artificiali. La crisi è scoppiata quando la gente ha cominciato ad accorgersi che il gioco tecnologico è troppo costoso e troppo pericoloso. «Davanti al costo enorme di certe armi (missili, bombardieri, sottomarini atomici, bombe atomiche, ecc.) e soprattutto dei viag- gi spaziali, molta gente ha cominciato a chiedersi se questo impiego della tecnologia sia lecito, morale, o se non sia invece più giusto indirizzare la tecnologia ad obiettivi ben più urgenti come il pro- blema della fame, la cura dei tumori, ecc. ».” « Oggi come oggi — nota Nicola Abbagnano — il senso di una insicurezza radicale che investe tutti gli aspetti della vita è assai diffuso e costituisce il carattere dominante del tempo. I capisaldi sui quali, da qualche secolo in qua, si fondava la certezza dell'uomo riguardo al suo destino non stanno più in piedi. Non si crede più al progresso ineluttabile della storia. La scienza e la tecnica hanno realizzato conquiste enormi e insperate, ma i contraccolpi negativi di esse, i costi enormi naturali ed umani, sono diventati evidenti ed appaiono sempre più pesanti ed insostenibili ».* « Oltre che per i suoi costi altissimi la tecnologia viene messa in crisi dai pericoli e dai danni assai gravi che essa procura sia alla natura sia all'uomo. « Nel mondo della natura l'uso sconsiderato della tecnologia ha provocato danni gravissimi forse irreparabili. [....] ì « Oltre che per i danni che sta provocando nella natura, la tecno- logia viene messa in crisi per gli effetti perniciosi che ha sull'uomo. * PaoLo VI, Ivi, par. n. 47. . Î ? B. MONDIN, Una nuova cultura per una nuova società, Massimo, Milano 1983, p. 169. 5 N. ABBAGNANO, L'uomo progetto 2000, Dino, Roma 1980, pp. 231-232. 172 Essi riguardano anzitutto l'ordine fisico, materiale, economico. [....] « Un altro effetto negativo della tecnologia è di produrre disoc- cupazione: essa, appena può, sostituisce l'uomo con la macchina e annulla moltissimi posti di lavoro. [....] « Ancor più grave è l’avvertimento che ci viene dalla tecnologia allorché essa viene impiegata per fare esperimenti sulla struttura genetica dell'uomo. È un'aberrazione gravissima, mostruosa. [...] Infatti intervenire sulla struttura genetica è far violenza all'uomo, alla sua libertà, la quale non è solamente quella qualità e quel diritto a cui noi moderni teniamo maggiormente, ma quella capacità che insieme all'intelligenza costituisce il vero nucleo essenziale del no- stro essere ».? b) Crisi morale - Anche sull'ordine morale le ripercussioni nega- tive della tecnologia sono allarmanti. « Una delle ragioni dello sfacelo morale del nostro tempo è stato il dimenticare che l'uomo diviene autenticamente uomo soltanto col- tivando se stesso, plasmando il proprio essere, disciplinando i propri istinti, tenendo lo sguardo fisso su certi valori fondamentali che for- mano la morale naturale: quelli già scoperti dal pensiero greco (bel- lezza, bontà, giustizia, prudenza, temperanza, amicizia, ecc.) e quelli aggiunti più tardi dal cristianesimo (amore, sacrificio, umiltà, pu- rezza, eguaglianza, solidarietà, ecc.). [...] « Con questo è chiaro che ultimo responsabile degli effetti per- versi della tecnologia e del suo cattivo uso è l'uomo. La responsabi- lità della “crisi epocale” ricade sulla società che ha introdotto la tecnologia e sugli uomini che l'adoperano. Essi hanno smarrito il cor- retto impiego della tecnologia dal momento in cui hanno smarrito la verità dell'uomo e della società ».® c) Crisi dei valori - « Storici e letterati, scrittori e giornalisti, filosofi e teologi, sociologi e psicologi, uomini politici ed ecclesia- stici, tutti riconoscono che la ragione fondamentale per cui la nostra società sta precipitando nel caos è il suo abbandono dei valori fonda- mentali che l'avevano informata e ispirata per secoli, cioè Dio, la Pa- tria, la Famiglia, lo Stato, la Chiesa, la Scuola, il Diritto, la Persona, la Solidarietà, la Filantropia, la Giustizia, ecc. ».* « Tutta la società è rimasta sconvolta dalla crisi dei valori tradi- zionali e dal loro capovolgimento. Ma la vittima principale, che pa- ga il prezzo più alto, è la gioventù, la quale spesso soffre di un vuoto interiore spaventoso che cerca di colmare rifugiandosi nei paradisi artificiali della droga oppure nell’inferno della criminalità e della violenza. Sono, però, soprattutto gli stessi giovani a restare delusi dalla cultura di oggi e a contestarne i risultati morali. Essi respin- gono assolutamente il principio base del consumismo, secondo cui * B. MONDIN, Una nuova cultura..., cit., pp. 169-172. ® Ivi, pp. 172-175. # Sul problema dei valori vedere il cap. XV. 173 Grave crisi morale della società attuale Grave crisi dei valori Una dura verità che deve essere annunciata Giovanni Paolo Il: occorre pensare non all'uomo astratto ma a quello reale, concreto Mediazione tra fede e cultura l'uomo tanto vale in quanto è un principio di produzione e di con- sumo ».® 12.3 È necessario un nuovo progetto culturale « Ciò che è urgente e inderogabile per trarre l'umanità fuori dalla barbarie è darle una nuova forma spirituale, ossia una nuova cul- tura, la quale, dopo Cristo, non può più essere una forma semplice- mente umana ma dev'essere una forma cristiana. [...] « Per i laicisti questa è una dura verità ma è la verità, e il cre- dente non può nasconderla sotto il moggio, per non offendere la loro miopia. La verità va annunciata, proclamata con coraggio, con chiarezza, non a mezzi termini, con circonlocuzioni più o meno oscu- re. E questo vale anche per la cultura. [....] « Il credente sa che solo Cristo (il quale fa parte della storia e l'ha anche profondamente trasformata) possiede la verità sull'uomo e sulla società e ce ne ha resi partecipi. [....] « Perciò per chi rifiuta il messaggio evangelico ed il suo insegna- mento equivale ad escludersi automaticamente dalle condizioni per rielaborare un progetto culturale adatto alla nostra società ».* L'ha proclamato in un modo estremamente chiaro il papa Gio- vanni Paolo II nella enciclica Redemptor hominis indirizzata alla u- manità intera: « Non si tratta dell'uomo astratto, ma reale, dell'uomo concreto, storico. Si tratta di ciascun uomo, perché ognuno è stato compreso nel mistero della redenzione, e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero. L'uomo così com'è voluto da Dio, così come è stato da lui eternamente scelto, chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio ogni uomo, l'uo- mo il più concreto, il più reale; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini vi- venti sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito » (Enc. Redemptor hominis, n. 13). « Con ciò non si intende identificare fede e cultura, perché la cultura non si deduce immediatamente, direttamente dalla fede, ma deve avvalersi delle varie mediazioni fornite dalla scienza, dalla filosofia, dalla sociologia, dalla politica, ecc. Ma il pilastro portante, a pietra angolare, storica, reale, è Cristo. Chi lo rifiuta non potrà mai produrre un progetto culturale atto a promuovere il bene reale della persona umana e della società ». * B. MONDIN, Una nuova cultura..., cit., pp. 176-179. ® Ivi, pp. 188-189. 174 CONCETTI DA RITENERE — Origine dello stato naturale, convenzionale, preternaturale — Civitas terrena; civitas Dei; debitus finis — Costituzioni giuste e ingiuste: monarchia; aristocrazia; repubblica o politfa; tirannia; oligarchia; democrazia — Autonomia della sfera politica — Ordine morale; volontà sociale — Stato; Chiesa; società perfetta; subordinazione diretta; subordinazione indiretta — Mediazione culturale — Città fraterna — Capitalismo; individualismo; liberalismo; stato di diritto; trust; oligo- poli; multinazionali; capitalismo classico; capitale; proletariato; sfruttamento — Neocapitalismo scientifico; management; New Deal; tecnostruttura; af- fluent society — Socialismo marxista; comunismo; salario; plus-valore; profitto; lotta di classe — Marxismo; leninismo; stalinismo; maoismo; labourismo — Marxismo revisionista; postmarxismo; neomarxismo — Cristianesimo caritativo; cristianesimo sociale; testimonianza; impe- gno; nuovo modello di civiltà; immaginazione sociale; continenti ideologici SINTESI CONTENUTISTICA I. I TERMINI DEL PROBLEMA 1. Il carattere essenzialmente politico e socievole della natura umana, già evidenziato da Aristotele nella sua Politica, ha assunto oggi una rilevanza quasi predominante. 2. Il problema politico investe l'origine e il fondamento dello Stato, la sua organizzazione, la sua forma migliore, la sua funzione, il suo fine specifico, la natura dell'azione politica e i suoi rapporti con l’azione morale, i rapporti tra Stato e Chiesa, tra Stato e partiti. 3. Le diverse istanze storiche hanno accentuato di volta in volta uno dei diversi aspetti: a) durante la crisi della polis (Sofisti, Platone, Aristotele) e durante le vi- cissitudini dell'età moderna e contemporanea (Hobbes, Bacone, Locke, Cam- panella, Hume, Rousseau, Hegel, Marx, Engels, Lenin, Maritain, ecc.) è emersa la questione dell'origine dello Stato; b) nel Medioevo e per taluni aspetti nell'età contemporanea (ad esempio, nel contesto dell’unificazione nazionale) si è affrontato il problema dei rapporti Stato-Chiesa; c) la relazione « politica-morale » ha trovato soprattutto riscontro nell'età moderna (Machiavelli e Hobbes); d) i rapporti Stato-partito sono oggetto soprattutto della riflessione con- temporanea. II. NATURA SOCIALE DELL'UOMO 1. Sin dall'origine della sua storia l'uomo è vissuto in relazione a un grup- po sociale (inizialmente la famiglia, il clan, la tribù, successivamente il villag- gio, la città, lo Stato). La dimensione sociale dell'uomo si perfeziona in rela- zione alla sua crescita culturale. 2. Oggi la socialità ha assunto una fisionomia planetaria favorita anche dai 175 mezzi di comunicazione di massa. A motivo di ciò la socievolezza ha assunto dimensioni tali da poter essere considerata un fenomeno tipico del nostro tempo. 3. ‘Per l'uomo contemporaneo la redenzione coincide con il diventare una persona capace di trovare se stessa in interazione con la comunità. 4. Caratteristica del momento attuale è il fatto che da un lato vengono affermati i diritti inviolabili della persona e la sua libertà e dall'altro alcuni sistemi politici, strutture economiche e sociali e il primato tecnologico-scien- tifico tendono a soffocarli. III. L'ORIGINE DELLO STATO 1. Lo Stato è una realtà empirica di natura incontrovertibile. Tre sono le interpretazioni che ne spiegano l’origine: a) Origine naturale: l’uomo, essenzialmente socievole, può soddisfare i suoi bisogni e realizzare le sue aspirazioni solo in relazione ai suoi simili. — Secondo Aristotele il traguardo della vita umana è la felicità e lo Stato ne facilita il conseguimento. — Secondo Hegel, lo Stato è originato dalla volontà dello Spirito Assoluto, principio metafisico della realtà, che nello Stato si attua compiutamente. Fami- glia, società civile e Stato sono le diverse tappe di questa attuazione che, par- tendo dall'unione d'amore di due persone, arriva alla realizzazione di una isti- tuzione concreta che organizza la vita etica dei suoi membri. — Secondo Marx, lo Stato nasce dal bisogno degli uomini di soddisfare i loro bisogni elementari attraverso l’aiuto reciproco. Le forme che successiva- mente lo Stato assume nella storia sono invece dovute all'arbitrio umano circa la distribuzione dei tre elementi costitutivi della struttura fondamentale dello Stato che è la struttura economica: lavoro, capitale, mezzi di produzione. b) Origine convenzionale: l'originaria autosufficienza degli individui sa- rebbe stata inficiata dal progressivo costituirsi di piccoli centri di potere. I con- seguenti conflitti hanno dato origine allo Stato come garanzia di stabilità e di accordo sulla base della rinunzia a qualche diritto e con l’assoggettazione a qualche dovere. I Sofisti avanzarono per primi questa ipotesi, sviluppatasi suc- cessivamente attraverso altri filosofi. — Secondo Hobbes e Spinoza il contratto sociale ha carattere irreversi- bile: la delega allo Stato dei propri diritti non può essere revocata. Per Locke e Rousseau, invece, il contratto è reversibile. c) Origine preternaturale: lo Stato è conseguenza di una caduta dell'uomo da una condizione di perfezione originaria, Avviata da Platone, tale concezione è sviluppata da Agostino e da Vico. — Agostino distingue la civitas Dei, fondata sull'amore di Dio e sulla ca- rità, dalla civitas terrena fondata sull'amore di se stessi fino all'egoismo e al rifiuto di Dio. L'essenziale di entrambi i regni è il debitus finis, l'uno ricerca la gloria di Dio, l’altro la gloria degli uomini. Secondo Agostino l’espressione più mostruosa della civitas terrena è stato l'Impero Romano. — Vico, pur attribuendo l'origine dello Stato al peccato, non ha la conce- zione pessimistica di Agostino. Egli vede però nello Stato un intervento prov- videnziale di Dio per trarre gli uomini dalle loro miserie. IV. LE FORME DI GOVERNO 1. Platone e Aristotele, considerando lo Stato in relazione al consegui- mento del bene comune, distinguono le costituzioni possibili in giuste ed in- giuste: 176 GIUSTE INGIUSTE — la monarchia: governo di uno so- — la tirannia: governo di uno solo lo che cura il bene di tutti che persegue il proprio interesse — l'aristocrazia: governo dei virtuo- — l'oligarchia: governo dei ricchi si che curano il bene di tutti sen- che cercano il bene economico za attribuirsi privilegio personale — la repubblica: governo popolare — la democrazia: governo della che cura il bene di tutta la città massa popolare che vuole sop- primere ogni differenza sociale Nei filosofi dell'età moderna le ipotesi hanno avuto una inversione di ten- denza rispetto a quelli dell'antichità e del Medioevo: mentre questi ultimi rite- nevano la monarchia assoluta la forma ideale di governo, i primi si sono fatti assertori della monarchia parlamentare e della repubblica. Oggi la forma repubblicana è considerata la più adatta alla tutela dei di- ritti e al perseguimento del bene comune. V. POLITICA E MORALE 1. Machiavelli fu il primo assertore dell'autonomia della politica sia ri- spetto alla morale che rispetto alla religione. Egli riteneva infatti che la poli- tica disponesse di principi normativi suoi propri. Essa è posta come una for- ma particolare dell'attività spirituale, non riducibile in quanto forza eminen- temente positiva rispetto alla negatività del male. 2. Dopo Machiavelli i teorici della politica si dividono tra coloro che sono favorevoli alla sua teoria e coloro che sono contrari: a) Vico e Campanella tendono a ricondurre la politica alla morale; b) Hobbes e Spinoza rivendicano la totale autonomia della politica. 3. Dopo una pausa segnata dall’interesse degli Illuministi solo sulla ricerca delle forme ideali di governo, il problema viene nuovamente approfondito: — Kant, pur distinguendo le due sfere, afferma che né la politica può sot- trarsi agli obblighi morali, né la morale può sottrarsi all'impegno nella vita civile. — Per Hegel la distinzione è inammissibile, poiché lo Stato è la fonte su- prema di ogni moralità. — Marx presenta una prospettiva ambivalente: a) polemica contro l'idea- lismo e il capitalismo: l’etica e la politica sono sovrastrutture dei fatti econo- mici; b) progettazione della società ideale: l'etica è uno dei valori fondamentali e la politica è uno strumento necessario per la sua realizzazione. Non diversamente da Hegel, nella seconda prospettiva, Marx attribuisce allo Stato il com- pito regolatore della volontà collettiva. — Nella prospettiva cristiana, Maritain riafferma non solo la stretta cor- relazione tra morale e politica (la morale orienta i fini della politica e ne giu- dica i mezzi di realizzazione), ma ribadisce inoltre l'ispirazione lievitante e liberante del Vangelo, capace di dirigere l’azione dell’uomo e il suo significato oltre i limiti della natura e della storia. VI. STATO E CHIESA 1. Stato e Chiesa sono entrambi caratterizzati dalla definizione di società perfetta, il primo finalizzato al bene comune terreno, la seconda finalizzata alla salvezza eterna e ai mezzi per conseguirla. 2. La legittima distinzione tra i due ordini non può comunque intendersi come una separazione poiché i soggetti delle due società sono gli stessi: i cit- tadini di uno Stato sono per lo più anche i membri di una Chiesa. Inoltre gli obiettivi si integrano: né il vero benessere della persona può disgiungersi dalla sua salvezza; né la salvezza è disgiunta dal benessere materiale. 177 3. La questione « Stato-Chiesa », acuta nel Medioevo a motivo dell’univer- salismo dell'Impero e della Chiesa di Roma, si ridimensiona nell'età moderna con gli stati unitari e le pluralità confessionali dopo la Riforma. Le linee risolutive principali restano comunque le seguenti: a) S. Tommaso: subordinazione indiretta dello Stato alla Chiesa (il fine della seconda è superiore a quello del primo); b) Bonifacio VIII: subordinazione diretta dello Stato alla Chiesa: 1) Lo Stato è al servizio della Chiesa. 2) Il Papa riceve di- rettamente l’autorità da Dio; l'Imperatore la riceve dal Papa; c) Marsilio da Padova: subordinazione diretta della Chiesa allo Stato, che provvede al benes- sere totale dei cittadini; il Papa e la gerarchia ecclesiastica sono funzionari incaricati del benessere spirituale dei cittadini; d) Età moderna-contempora- nea: progressiva netta separazione tra le due società. VII. RAPPORTO FEDE-POLITICA 1. È maturata oggi la consapevolezza che la Chiesa è essenzialmente una comunità spirituale vincolata dall'amore, senza strutture temporali che la fac- ciano apparire uno Stato in concorrenza con gli altri stati. 2. La concezione integrale dell'uomo e la fede in un Dio che si è incarnato ha fatto sì che la teologia contemporanea abbia sottolineato l’importanza della dimensione politica del messaggio cristiano, esplicitamente al centro dell’An- tico Testamento (in particolare nel libro dell'Esodo), ma presente anche nel Nuovo {la condotta e l'insegnamento di Gesù provocano la violenta reazione dei poteri politici costituiti). 3. La testimonianza del cristiano non è accettazione passiva né estatica contemplazione della parola di Dio, ma fattiva attuazione delle promesse divine per la piena realizzazione del Regno. VIII. LETTURA POLITICA DEL MESSAGGIO EVANGELICO 1. La legittimità di una lettura politica del messaggio evangelico non la giustificano come lettura esclusiva. Scopo fondamentale del messaggio cristia- no è anzitutto la conversione del cuore. 2. Il cristiano sa che la vita politica deve tendere al bene comune, che la libertà e l'uguaglianza sono diritti inalienabili della persona. 3. Il cristiano è consapevole del fatto che nella natura umana è presente un movimento orizzontale anch'esso determinante per la totale realizzazione dell’uomo in se stesso. In questa direzione l’ideale verso cui deve tendere l'opera politica è l'inaugurazione di una città fraterna (Maritain). IX. CAPITALISMO O SOCIALISMO? 1. Capitalismo e socialismo sono i due sistemi economici contrapposti che oggi si spartiscono le sorti del mondo. Entrambi sono caratterizzati al loro interno da alcuni punti essenziali e da alcune differenziazioni. CAPITALISMO A) Capitalismo classico: sistema economico conseguente ad una concezione antropocentrica dell’uomo: l’uomo non ha altro fine all'infuori di se stesso. e Affermazione prioritaria dell'individuo rispetto alla società (individua- lismo) e sua libertà incondizionata (liberismo). e Lo Stato (espressione delle libertà individuali) si regge sulla democrazia rappresentativa e sulla Legge (stato di diritto). e Economicamente la libertà dell'individuo si estende sulla base delle sue possibilità economiche. È e La lotta per il successo porta all'organizzazione di trust (oligopoli, mul- tinazionali, ecc.) che esercitano pressione sui governi e sull’opinione pubblica. e Accresce se stesso sulla base dello sfruttamento del proletariato. B) Neocapitalismo: nasce negli Stati Uniti con F.W. Taylor (1856-1915) a 178 motivo del crollo del rendimento produttivo dei lavoratori e del loro conflitto con i datori di lavoro. e Si riconosce allo Stato capacità di intervento condizionatore nell’attività economica e ai lavoratori di associarsi liberamente per difendere i propri diritti. e Lo scientific management regola i tempi di lavoro, di istruzione specifica e di cooperazione tra direzione manageriale e lavoratori. e Dopo la crisi del 1929, il « New Deal » di F.D. Roosevelt, lo Stato viene maggiormente coinvolto nel processo economico con un intervento di ridistri- buzione dei redditi attraverso una forte pressione sugli automatismi economici. e La tecnostruttura degli anni ’30 inserisce scienziati e tecnici nel processo economico per un'ulteriore riduzione dell’area proletaria. e Nel secondo dopo-guerra nasce la « società dei consumi », il cui scopo è il miglioramento delle condizioni di vita in base alla disponibilità sempre mag- giore dei beni di consumo. Ma l’uomo di questa società iperproduttiva finisce per vivere costretto a consumare sempre di più ciò che produce. SOCIALISMO A) Socialismo marxista: K. Marx (1818-1883) si propone di fondare una so- cietà in cui sia abolito lo sfruttamento e garantito a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (comunismo). e La proprietà privata è considerata l'origine di ogni male individuale e sociale. x e La privatizzazione fa generare il rapporto salariale sul quale l’impren- ditore lucra il « plus valore » o profitto. e iLa lotta di classe è il mezzo per risolvere lo stato di sfruttamento e av- viare la società verso il comunismo. e Con la I° Internazionale dei Lavoratori (Londra 28-9-1864) le varie cor- renti socialiste si associano seppure con profondi contrasti. e Dalle posizioni di Bakunin nasce l'orientamento anarchico. e In Italia, a Genova, nel 1892 nasce il partito dei lavoratori italiani (poi P.S.I.). B) Labourismo e socialdemocrazia: il primo (Labour Party) sorge in In- ghilterra all’inizio di questo secolo come naturale frutto politico della Fabian Society, fondata nel 1883 a Londra con lo scopo della elevazione della classe lavoratrice e delle Trade Unions, i sindacati operai che avevano iniziato la loro attività nei primi decenni del 1800 come società di mutuo soccorso tra gli operai metallurgici. Come it socialismo, il labourismo si è data la meta di arrivare a dare alla classe lavoratrice la proprietà dei mezzi di produzione, senza accogliere però i principi filosofici di quello. I mezzi di lotta per raggiungere le mete stabilite è l'educazione delle masse e lo sciopero attraverso il sindacato per ottenere dallo Stato e dal padronato migliori condizioni di vita, salariali ed una legislazione sociale a difesa del lavoratore. Sulla linea del labourismo sorgono in altri paesi dell'Europa occidentale (come Germania, Olanda, Danimarca, Scandinavia) partiti socialdemocratici i quali ripudiano la via rivoluzionaria per il riformismo, per attuare nel tempo le proprie mete. Entrambi questi due socialismi riformisti e democratici non combattono il capitalismo, trasformatosi nel contempo in neocapitalismo, ma convivono con esso, accettando la tesi dello sviluppo massimo della produzione come strumento per migliorare le condizioni dei lavoratori e rendendoli partecipi della vita sociale e politica del proprio paese. C) Marxismo-leninismo e maoismo: nel 1917 con la Rivoluzione d'ottobre 179 Lenin crea in Russia uno Stato collettivista, con un potere di vertice esercitato dal partito in modo assoluto. e :La terra fu collettivizzata; furono negate le libertà individuali e di grup- po. Con Stalin il regime assume un carattere dittatoriale estremo. e Nel 1956 al XX Congresso del Partito Comunista il dispotismo staliniano viene denunziato. e Nel 1949 in Cina Mao-Tze-Tung costituisce la Repubblica Popolare Cinese. Furono collettivizzate l'agricoltura, l'industria e i commerci. e I capisaldi del marxismo vengono ripensati per un popolo povero e con- tadino che viene indottrinato secondo una metodologia nazionalistica e volon- taristica. Il socialismo maoista ha caratteri militaristi. Dopo la morte di Mao- Tze-Tung il regime comunista cinese diviene meno rigido. D) Marxismo revisionista o neo-marxismo: dopo sessant'anni di marxismo sovietico e nonostante la notevole diffusione del marxismo in Occidente, vi è stato un evidente allontanamento nell’area degli intellettuali dalle tesi classiche. e Peri nuovi marxismi, ad esempio, la dialettica non ha leggi, non riguarda la natura, ma il soggetto singolo in rapporto con la storia. e La religione è considerata un fattore di liberazione e apertura alla speranza. e Tra i rappresentati del nuovo marxismo: Gramsci, Horkheimer, Mar- cuse, Bloch. X. LE DOTTRINE SOCIALI DI ISPIRAZIONE CRISTIANA 1. Le soluzioni cristiane alla questione sociale si distinguono in due tipi: — forma assistenziale caritativa {cristianesimo caritativo): la prima forma essenziale al cristianesimo è presente in tutti i secoli cristiani, come frutto dell'attenzione evangelica agli umili, agli oppressi, ai diseredati; — forma propositiva di revisione delle strutture economico-sociali (cristia- nesimo sociale): si è preoccupata di individuare accanto all'azione caritativa, il problema della giustizia a partire dalla seconda metà dell’800. e Il magistero della Chiesa ha elaborato a partire dalla fine del XIX se- colo una coraggiosa dottrina sociale che legittima la proprietà privata nel ri- spetto del bene comune, rivendica i pieni diritti del lavoratore e indica i com- piti dello Stato per un giusto equilibrio sociale ed economico. XI. IL CRISTIANO E L'IMPEGNO SOCIO-POLITICO 1. La testimonianza cristiana nel mondo socio-politico si traduce in un im- pegno capace di promuovere un nuovo modello di civiltà e di favorirne la realizzazione. 2. Il cristiano sente tutta la responsabilità di essere la coscienza critica dei « due continenti ideologici » del capitalismo e del socialismo e di dover offrire all'uomo del nostro tempo il terreno di una mediazione culturale sul quale egli possa recuperare la propria integrazione personale e sociale. XII. I PROBLEMI DI UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA SOCIETÀ 1. Tra i fenomeni emergenti del nostro tempo appaiono l’'urbanesimo e la civiltà dell'immagine e della comunicazione presenti sia nell’area comunista che nell’area capitalista. 2. Questi fenomeni hanno generato la realtà dei « nuovi poveri »: delin- quenti, drogati, disadattati, devianti, emarginati in genere. 3. Si sono acutizzate le discriminazioni razziali, culturali e religiose. Si ri- fiutano i deboli, i vecchi, gli handicappati perché improduttivi, 4. Il nostro tempo mostra l'urgenza del recupero di una mentalità che ri- trovi l'amore per l’uomo inventando nuove forme di democrazia libera e sociale. 180 5. « La « crisi epocale » della società attuale è soprattutto crisi tecnologica, morale e dei valori, 6. In questa situazione di « crisi epocale » emerge la necessità di un nuovo progetto culturale, ispirato dal Vangelo, che abbia come centro del suo inte- resse l’uomo concreto, storico. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE i. Che cosa si intende per politica? 2. A che cosa deve la sua origine lo Stato? 3. Quali sono le opinioni dei filosofi antichi e moderni riguardo allo Stato? 4. Qual è la costituzione politica ideale secondo Platone, Aristotele, Tom- maso, Hobbes, Campanella, Locke, Hegel, Marx? 5. Che rapporto c'è tra politica e morale? Qual è lo scopo dello Stato? 6. Come sono stati intesi i rapporti tra Stato e Chiesa da Agostino, Tom- maso, Bonifacio VIII, Marsilio da Padova, Machiavelli, Mazzini, Croce? 7. Politica e morale si distinguono tra di loro? Come? 8. Che rapporto intercorre tra fede e politica? C'è una funzione politica nel messaggio evangelico? 9. Cosa si intende per stato democratico, liberale e totalitario? 10. Quali sono le caratteristiche del capitalismo e del socialismo? Che cosa è il neocapitalismo? E il labourismo e la socialdemocrazia?* 11. Quali sono le caratteristiche del marxismo-leninismo-stalinismo rispetto al maoismo? Che significano i termini « nuovi marxismi » e « postmarxismo »? 12. Il neocapitalismo e il marxismo riescono a superare i mali della so- cietà odierna? Perché si dice società dei consumi? 13. Che cos'è il cristianesimo sociale? Il cristiano come deve operare in campo sociale e politico? 14. Quali possono essere considerate le cause determinanti che hanno pro- gressivamente subordinato il potere politico al potere economico? 15. È legittimo oggi parlare non solo di continenti ideologici ma addirit- tura di dittature planetarie? 16. In quale misura è possibile stabilire un rapporto tra il deterioramento attuale dell'orizzonte metafisico, antropoiogico ed etico e il disorientamento politico contemporaneo? 47. In quale prospettiva e perché una sana mediazione culturale può fare dell'esperienza religiosa la coscienza critica dei sistemi politici ed economici degenerati? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Fede e politica oggi, Massimo, Milano 1982. AA.Vv., Economia, politica e morale, Morcelliana, Brescia 1958. AA.Vv., Filosofia e impegno politico, Massimo, Milano 1982. AA.Vv,., Politica e filosofia, F. Angeli, Milano. ARANGUREN J., Etica e politica, Morcelliana, Brescia 1966. Biscione M., La filosofia politica del Novecento in Italia, Bonacci, Roma 1981. BruNELLO B., Dottrine politiche, La Scuola, Brescia 1955. CARMAGNANI R.-PALAZZO A., Mediazione culturale e impegno politico in Stur- zo e Maritain, Massimo, Milano 1985. CipoLLA C., La partecipazione politica, Città Nuova, Roma. 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Il problema estetico riguarda la natura dell'opera d'arte, il suo fine e i rapporti che intercorrono tra l’attività estetica e le altre attività umane. Questi tre aspetti capitali del problema estetico, già esplorati tante volte nel passato, continuano ad essere oggetto di discussione anche ai nostri giorni. Nel presente capitolo noi cerche- remo di determinare il senso di questi aspetti del problema estetico e presenteremo inoltre un quadro sintetico delle soluzioni più si- gnificative elaborate dai filosofi antichi e moderni. 1. Natura dell’opera d’arte Che cos'è l'opera d'arte in se stessa? Quali sono le ragioni per cui qualche cosa viene considerata artistica mentre altre cose no? Per esempio, perché lo scarabocchio d'un bambino non viene rite- nuto artistico, e invece se porta la firma di Picasso sì? Oppure, per- ché si giudica artistica una cattedrale gotica, ma non un palazzo in cemento armato? Ancora, quando un artista produce un'opera d’arte, che cosa fa di preciso: crea oppure imita, inventa oppure copia, e- sprime se stesso, i propri sentimenti, le proprie passioni, oppure dà corpo a valori universali intuitivamente percepibili da ogni uomo? Questi sono appena alcuni degli interrogativi che si affacciano alla mente quando ci si trova di fronte ad un'opera d'arte. Per prenderne coscienza non occorre nessuna preparazione speciale e nessun grado elevato di cultura. Ma la risposta non è affatto ovvia e molto spesso neppure le menti più acute e preparate sono riuscite a trovarne una soddisfacente. Il problema estetico è tra i primi che si presentano alla riflessione dei greci, per la necessità di intendere anzitutto come ad un mondo di poesia possa affiancarsi o anteporsi un mondo di idee, e come l'essere possa persistere nella sua assorbente sovranità, pur lascian- 183 La natura dell’opera d’arte, il suo fine, il suo rapporto con le altre attività umane I caratteri essenziali dell’opera d’arte Platone: l’arte imitazione della Bellezza La poesia come procreazione spirituale Aristotele: la bellezza è ‘‘un bene che piace” Filosofia cristiana e concezione mimetica: Dio, che è bellezza, è oggetto di imitazione do sussistere accanto e di fronte a sé la scialba e inconsistente realtà del mito e della poesia. Questo problema ha appassionato soprattutto Platone, il quale ha cercato di risolverlo nel contesto della sua teoria delle Idee, fa- cendo dell'estetica una specie di controprova di tale teoria. L'arte viene intesa da Platone come imitazione -della natura e questa, a sua volta, è concepita come imitazione delle Idee. L'oggetto della imi- tazione è la Bellezza. Nel Filebo Platone descrive la Bellezza come un preludio sensibile del Bene inaccessibile, quasi si trattasse del « portico » della casa del Bene. Nel Fedro egli parla del Bello come di un'idea corporea, l’unica tra le idee che ebbe in sorte il privilegio di rendersi visibile ai mortali, per poter essere da loro ardentemente amata. Nel Convito Platone oltrepassa la concezione mimetica del- l'arte e formula una teoria dell’arte intesa come creazione, una pro- duzione dall'interno, un « parto » (tokos). Eros, il simbolo divino del Convito, è fecondato dall’anelito verso la Bellezza oggettiva e asso- luta, quando si rende capace di generare e procreare nel Bello. Quand'uno già brama di generare e procreare, allora soltanto si lan- cia alla ricerca del Bello e, trovatolo, genera e procrea ciò di cui da lungo tempo era pregno. Poesia è questa procreazione spirituale, per cui nessun particolare requisito si chiede ai « buoni poeti », eccetto che siano generatori e inventori. Alla concezione mimetica dell’arte si attiene anche Aristotele, no- nostante il suo rifiuto della teoria platonica delle Idee: per lui l’arte è essenzialmente imitazione della natura. L'imitazione, però non è in- tesa come semplice riproduzione, ma piuttosto come emulazione della natura, considerata maestra. Dal punto di vista soggettivo, Ari- stotele definisce la bellezza come « un bene che piace » e la distin- gue, pertanto, sia dal bene che dal piacere. Infatti, mentre il bene è oggetto della volontà e il piacere delle passioni, il bello interessa le facoltà conoscitive: è un piacere suscitato nelle facoltà conoscitive. Gli elementi fondamentali che contribuiscono a rendere bella ossia artistica una cosa sono tre: l'ordine, la simmetria e la determina- tezza. La concezione mimetica dell’arte viene ripresa anche dai filosofi cristiani i quali peraltro la modificano su di un punto fondamen- tale: oggetto dell'imitazione non è più la natura oppure le Idee, ma Dio stesso. L'arte umana dovrà risultare imitazione dell'atto con cui Dio crea la natura. Si tratta di una modificazione profonda che non riguarda soltanto la maggior eievatezza della realtà imitata, ma anche la natura stessa dell'imitazione, perché questa diviene imi- tazione dell'attività creatrice di Dio, un'attività che i greci non ave- vano mai conosciuto. Ne consegue che « unità, armonia, proporzione, integrità, congruenza, convenienza della forma bella, tutti i concetti estetici insomma, che i cristiani avevano ereditato dalla classicità, acquistano un nuovo timbro nella loro riesecuzione: tutte queste sono note della bellezza, per loro in quanto appartengono all'atto -184 espressivo e manifestativo dello Spirito Assoluto che contiene il mon- do nella sua potenza creatrice e perciò lo rende bello. Nessuna cosa sarebbe bella, se non venisse da Dio: è il motivo che ricorre dalle Confessioni di S. Agostino all'Itinerarium di S. Bonaventura. Il Dio cristiano è il « genio della nuova estetica ».! Dal punto di vista soggettivo, i pensatori cristiani, seguendo Aristotele definiscono la bellezza come una relazione: « pulchrum est quod visum placet » (bello è ciò che piace alla vista). Come la bontà così pure la bellezza è una relazione di convenienza, di ar- monia, ma non più tra le cose e la facoltà appetitiva (come nella bontà), bensì tra cose e facoltà conoscitive. Tuttavia la bellezza si distingue anche dalla verità, in quanto pur essendo come quest’ulti- ma una relazione tra cose e facoltà conoscitive, diversamente da essa non è una relazione di corrispondenza, ma di eccitazione e di sod- disfazione. Dal punto di vista oggettivo anche gli autori cristiani, come Aristotele, fondano la bellezza sull’integrità, l'ordine e lo splendore (integritas, proportio, claritas). % Durante il Rinascimento, che è anche l’epoca d'oro delle arti figurative, non potevano mancare indagini intorno alla natura del- l'opera d’arte. Tali indagini in alcuni casi sono svolte dagli autori stessi di alcuni dei più celebri capolavori di pittura, scultura, archi- tettura di tutti i tempi; Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, Giorgio Vasari, ecc. Le loro considerazioni si rifanno oltre che ad Aristotele anche, anzi soprattutto, a Platone. Di lui si apprezzano in particolare ie dottrine sull'amore (eros), sulla generazione creativa (tokos) e sull’entusiasmo lirico (mania). Una svolta decisiva alla storia dell'estetica fa registrare Giam- battista Vico. Da lui l'arte non viene più concepita secondo la ma- niera mimetica, ma come un modo fondamentale ed originario di e- sprimersi da parte dell'uomo in una determinata fase del suo svilup- po. Secondo il Vico, com'è noto, tale sviluppo comporta tre fasi o età: del senso, della fantasia e della ragione. L'arte è il modo carat- teristico di esprimersi dell'età della fantasia: in quell'età l’uomo diede espressione al suo modo di intendere la realtà nelle creazioni della fantasia, nei poemi, nei miti, ecc. « La sapienza della gen- tilità dovette cominciare da una metafisica non ragionata e astratta qual è questa degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere da tali primi uomini ». La mente degli uomini antichi, incapace di usare la ragione logica e ribelle alla fatica dell’astrazio- ne e del ragionamento, è naturalmente portata a sostituire o antici- pare il processo astrattivo mediante la fantasia. E in tal modo an- ziché universali logici si foggia universali fantastici, fantasmi o im- ! L. STEFANINI, Estetica, Studium, Roma 1953, p. 19. 185 La bellezza: relazione di convenienza e di armonia tra cose e facoltà conoscitive Umanesimo- Rinascimento: amore, generazione creativa e entusiamo lirico Vico: l’arte come una delle espressioni fondamentali della natura umana L'accoglienza di Vico da parte dei filosofi idealisti Kant: l’opera d’arte nasce dai sentimento che esprime l’universale nel particolare Idealisti e neohegeliani: l’arte rappresentazione sensibile deli’Assoluto L'arte come meccanica psicologica e come sovrastruttura magini che tengono il posto di veri universali, ossia delle idee o con- cetti elaborati dalla ragione.” La concezione vichiana dell'estetica, corabattuta aspramente ai suo primo apparire, in quanto urtava contro il pregiudizio cartesiano allora imperante, secondo cui soltanto la ragione può attingere la verità delle cose, fu più tardi calorosamente accolta e ampiamen- te seguita dai romantici e dagli idealisti (Schelling e Hegel) i quali reagendo contro gli eccessi del razionalismo e dell'illuminismo, a- scrivevano grande importanza alle facoltà della fantasia e del sen- timento in ordine alla conoscenza della verità. Una singolare teoria della natura dell'opera d’arte, teoria in parte dettata da esigenze di sistema, viene elaborata da Kant nel- l'opera Critica del giudizio. In essa l'autore cerca di mostrare che l’opera d’arte non è né un'imitazione della natura e neppure un'inter- pretazione metafisica della realtà e che pertanto non è prodotta né dalla fantasia né dall’intelletto. Essa è invece essenzialmente frutto deì sentimento il quale nell'opera d’arte percepisce ed esprime l'’uni- versale nel particolare, l'intelligibile nel sensibile, ii noumeno nel fenomeno. E così fa sorgere il piacere estetico che appaga tutto l’uo- mo in quanto produce una profonda armonia tra le opposte facoltà dei sensi e dell'intelletto. Il problema estetico occupa un posto di singolare rilievo nelle speculazioni degli idealisti e dei neohegeliani (Croce, Gentile). Ii lorc obiettivo è fondere ì motivi più originali delle teorie di Vico e Kant. Dal primo riprendono la tesi secondo cui l’arte rappresenta un momento preciso e di capitale importanza nella storia dell'uma- nità; dal secondo mutuano la tesi secondo cui l’arte è una rappre- sentazione dell’Assoluto in forma sensibile. Il significato spirituale dell'opera d'arte è stato però ripetuta- mente messo in questione durante l’ultimo secolo da autori che si ispirano più o meno direttamente al positivismo. Alcuni come il Taine riconducono l’arte ad un teorema di meccanica psicologica, legata ai tre fattori concorrenti della razza, dell'ambiente e del mo- mento; altri, come Marx, vedono nell'arte una sovrastruttura de- terminata dai rapporti tra i mezzi di produzione all'interno di una particolare società; altri, come Freud, considerano l’arte una su- blimazione dell'istinto sessuale; altri infine, come Dvorak, conside- rano l’arte come criterio ermeneutico della storia della culiura e così identificano la storia dell’arte con la storia della cultura. Contro queste interpretazioni positivistiche dell’opera d’arte han- no preso posizione i filosofi della Gestaltschule (scuola della figura). Secondo questi autori la conoscenza delle condizioni storico-psico- logiche non giova affatto alla comprensione di una opera d’arte. La sola cosa che importa è la figura sensibile, cioè importano i valori ? B. MONDIN', vol. II, pp. 238-240. 3 Ivi, pp. 321-322. 186 tattili o quelli della pura visibilità oppure gli elementi contrappun- tistici e tonali dell'esecuzione musicale, presi globalmente, come un tutto, e non frammentariamente. Attualmente molti filosofi che si ispirano al neopositivismo e agli analisti del linguaggio, non affrontano più il problema della natura dell'opera d'arte in se stessa, ma in modo assai indiretto, cercando di stabilire quale sia il senso del linguaggio estetico e se esistano dei criteri validi per accertarne la presenza (come per determinare il significato oggettivo delle proposizioni scientifiche esistono i criteri della verifica sperimentale oppure della falsificabilità). La lezione che possiamo raccogliere alla fine di queste brevi note intorno alla storia del problema della natura dell'opera d’arte mi pare che possa essere la seguente. L'opera d'arte non è una semplice imitazione di idee archetipe o di fatti naturali. Per caratterizzarsi come esteticamente bella un'opera dev'essere qualcosa di più e di diverso da ciò che esiste già nel mondo della natura oppure della cultura. Per avere opera d'arte ci vuole originalità, creatività. L'ope- ra d'arte è in un certo senso (certo non proprio in senso letterale) una creazione, più esattamente una trasformazione radicale degli ele- menti che l’artista ha a sua disposizione: gli elementi fornitigli dalla. tecnica, dalla osservazione, dalla ispirazione. Ciò che ne risulta si qualifica come bello se presenta tratti d'assoluta novità. Il lavoro dell'artista può essere paragonato a quello dell’ape: egli non crea ma, assimilando elementi già preesistenti, produce una realtà asso- lutamente nuova.‘ 2. Il fine dell’opera d’arte Oggetto dell'attività estetica è il bello (così come oggetto di quella scientifica è la verità, di quella etica il buono, di quella reli- giosa il sacro). L'artista facendo un’opera d’arte si propone anzitutto di dare espressione sensibile alla bellezza. Ma oltre a questo fine specifico i filosofi generalmente assegnano all'opera d’arte anche altre finalità più o meno importanti. Così, per Platone, Agostino e Tommaso essa ha una finalità eminentemente pedagogica; perciò raccomandano solo le opere d'arte che giovano all'educazione e condannano quelle che favoriscono la corruzione. Platone nella Repubblica condanna la commedia e la tragedia so- prattutto per due motivi. Primo, perché i comici e i tragici rappre- sentano gli dèi e gli eroi attribuendo loro bassezze e passioni pro- prie della natura umana e in questo modo snaturano il senso reli- gioso. Secondo, perché, componendo le loro opere, non si fondano sulla ragione ma sul sentimento e sulla fantasia; e invece d'essere d'aiuto alla ragione agitano le passioni, provocando il piacere e il * Cfr. F. MEI, La filosofia del concreto, Marzorati, Milano 1961, pp. 101-104. 187 L'opera d’arte è creazione Il fine: esprimere sensibilmente la bellezza Da Platone a Tommaso: scopo pedagogico dell’opera d’arte Platone: la musica come educazione all’armonia interiore Scopo teoretico dell’opera d’arte: conoscenza delle verità ultime Idealisti tedeschi e neohegeliani: scopo metafisico dell’arte Pedagogico, catartico e metafisico: scopi secondari dolore. Secondo Platone, una sola arte merita d'essere coltivata as- siduamente: la musica. Essa educa al bello e forma l'anima all’ar- monia interiore. Per Aristotele, Plotino e Schopenhauer l’arte ha uno scopo es- senzialmente catartico: va coltivata in quanto aiuta l’anima a libe- rarsi dalle passioni, a purificarsi, a elevarsi verso la contemplazione.‘ Per Vico, Schelling, Hegel, Croce, Gentile l’arte ha una finalità eminentemente teoretica: ha di mira la conoscenza delle verità ul- time, della natura profonda delle cose, del mondo intelligibile, del- l'Assoluto. Vico respinge espressamente le opinioni di Platone e di Aristotele. A suo parere, l’arte non ha primariamente né funzione pedagogica né catartica: essa non è al servizio né dell'estetica né della pedagogia. L'opera d'arte ha anzitutto e soprattutto una fun- zione teoretica e metafisica in quanto costituisce una comprensione ed espressione profonda delle cose da parte di un essere intelligen- te, nel quale la ragione non ha ancora raggiunto la piena matura- zione e che, quindi, riesce ad esprimersi meglio per mezzo della fan- tasia e del sentimento. Questo intento metafisico dell’arte, com'è noto, è stato ribadito dagli idealisti tedeschi del secolo scorso e dai neohegeliani italiani (Croce e Gentile) del nostro secolo. Per tutti questi autori l’arte è una delle attività supreme dello Spirito Asso- luto. Il suo scopo specifico è esprimere l'Assoluto in forma sensi- bile. Pertanto un’opera è artistica soltanto e nella misura in cui è una manifestazione concreta dell’Assoluto. Oggi queste finalità secondarie dell’opera d'arte (pedagogica, catartica e metafisica) non riscuotono troppi consensi tra i filosofi. Generalmente si afferma, e a nostro parere giustamente, che l'arte ha una sua funzione autonoma, che è fine a se stessa, come la scienza, la religione, la morale, la politica, l'economia. Per quanto concerne l'autonomia si paragonano le opere d'arte alle opere della natura. Allo stesso modo come quest'ultime hanno una consistenza propria e una propria autonomia, altrettanto si deve pensare delle prime: an- che le opere d’arte devono essere considerate come aventi una fina- lità loro propria. La natura produce delle realtà (animali, laghi, fo- reste) che non vanno riferite a qualche cosa d'altro per essere com- prese, ma sono studiate direttamente in se stesse. Altrettanto si deve far anche per le opere d’arte. Producendo l’opera d'arte, l'artista in- tende creare qualcosa: vuole metterci davanti ad una realtà nuova, La sua creazione, questa nuova realtà, va guardata in faccia diret- tamente, per conto proprio, senza la pretesa o la preoccupazione di trovarvi dei significati reconditi, delle seconde intenzioni. Tutto quello che l'artista ha voluto dire è quanto egli è riuscito di fatto : Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 96-97. > Ivi, p. 142 (Aristotele); pp. 185-186 (Plotino); vol. III, pp. 208-209 (Schopen- hauer). * B. MONDIN, vol. III, pp. 79-80. 188 a manifestare. E quello ch'egli è riuscito a manifestare sta lì davanti a noi. C'è però una precisazione da fare riguardo all'autonomia del- l'arte. Quando si dice che l’arte è essenzialmente autonoma non si vuole escludere che essa venga adoperata anche per altri scopi, teo- retici o pratici. Si vuole solo affermare che se lo scopo teoretico e pratico per cui l’opera d'arte viene compiuta è innalzato a fine pri- mario, in tal caso si priva l'opera d'arte della sua autonomia e quindi della sua vita. Quindi se un’opera d'arte ha intenti pedagogi- ci, religiosi, politici, ecc. essa può ancora riuscire come opera d'arte alla sola condizione che tali intenti non siano quelli primari ma se- condari. In conclusione, il principio dell'autonomia delle singole attività e discipline, che è stata la grande conquista dell’epoca moderna, vale certamente anche per l’attività estetica. Quindi nell'esplicarla e nel valutarla non si deve tener conto d'altri criteri al di fuori di quelli che sono intrinseci alla natura stessa dell’opera d'arte. . 3. Arte e morale Alla questione dei rapporti tra arte e morale s'è già fatto cenno alla fine del precedente paragrafo. Questo problema è stato diversa- mente risolto dai filosofi a seconda della finalità ch’essi hanno rite- nuto giusto assegnare all'attività estetica. Sia gli autori che come Platone e Aristotele attribuiscono all'arte una finalità essenzialmen- te pedagogica e catartica, come pure gli autori che col Vico le ascri- vono una finalità metafisica sottomettono in modo più o meno di- retto, più o meno esplicito, l’arte alla morale, e, di conseguenza, condannano dal punto di vista estetico quelle opere che giudicano moralmente riprovevoli. Il riconoscimento dell'autonomia dell’arte dalla morale è una conquista piuttosto recente e va ascritta a merito degli idealisti, in particolare di Benedetto Croce. ‘Secondo Croce l’arte è assolutamente autonoma: non è soggetta né alla filosofia, né alla morale, né alla pratica. L'arte come arte è amorale, cioè al di qua del bene e del male. « L'arte per avere carattere d'arte, per essere vera arte, deve essere vera espressione. Espressione di che? Che volete che esprima l'artista se non le sue im- pressioni? i sentimenti che prova? ».* Per fare vera arte bisogna espri- mere ciò che si ha in sé: chi lo esprime bene, è artista. Ma l’uomo e l'artista sono due realtà distinte. Per essere artista basta esprimere bene i propri sentimenti mentre l’uomo deve essere anche morale, saggio, pratico. Quindi, pur non essendo soggetto alla morale come artista, l'artista è soggetto alla morale come uomo: « Se l'arte è al © B. CROCE, Breviario di estetica, Laterza, Bari 1933, p. 49. 189 Non è il fine secondario a determinare il valore dell’opera d’arte Autonomia dell’arte dalla morale: conquista recente Croce: amoralità dell’arte Arte e morale: subordinazione indiretta di là della morale, non è di qua né di là, ma sotto l'impero di lei è l'artista in quanto uomo, che ai doveri dell’uomo non può sottrarsi, e l'arte stessa — l’arte che non è e non sarà mai la morale — deve considerare come una missione, esercitare come un sacerdozio ».? Di capitale importanza è la precisazione contenuta nell'ultima citazione: « L'arte è al di là della morale... ma sotto l'impero di lei è l'artista in quanto uomo ». L'uomo infatti, nonostante la molte- plicità delle sue attività e delle sue facoltà, costituisce un'essenziale unità. Ora l’unità è possibile soltanto se le varie attività sono ordi- nate ad un unico fine ultimo. Ma, dato che il fine ultimo dell'uomo è la piena realizzazione di se stesso, qui sta il suo bene supremo, la sua felicità, e poiché spetta alla morale riconoscere tale fine e stu- diare i mezzi per conseguirlo, ne deriva una certa subordinazione dell'arte alla morale. Quindi tra arte e morale c'è un rapporto simile a quello che abbiamo registrato tra morale e politica: è un rapporto di subordinazione indiretta. Anche l'arte come la politica deve con- tribuire al raggiungimento del fine ultimo dell'uomo. Questo però è l'obiettivo primario e principale della morale. CONCETTI DA RITENERE — Unità; armonia; proporzione; integrità; congruenza; convenienza — Ordine; splendore — Eros, tokos; manìa — Rappresentazione dell’Assoluto; meccanica psicologica; sublimazione della pulsione istintuale; sovrastrutture — Figura sensibile; valori tattili; visibilità; elementi contrappuntistici e tonali SINTESI CONTENUTISTICA I. LA NATURA DELL'OPERA D'ARTE 1. Il problema estetico riguarda la natura dell’opera d’arte, il suo fine, i rapporti intercorrenti tra l’attività estetica e le altre attività umane. 2. Il problema estetico è tra i primi a presentarsi alla riflessione dei Greci: rapporto tra il mondo della poesia e il mondo delle idee (complementarietà o opposizione); rapporto tra la sovranità dell'essere, il mito e la poesia. 3. Platone (Filebo, Fedro, Convito) intende l’arte come imitazione della natura, che a sua volta è imitazione del mondo delle Idee. La Bellezza è il pre- ludio sensibile al Bene inaccessibile. In una fase ulteriore egli intende l’arte come creazione, « parto » (tokos): Eros, il simbolo divino del Convito, è fecon- dato dall’anelito verso la Bellezza oggettiva e assoluta, quando diviene capace di generare il Bello. La poesia è questa procreazione spirituale; ai poeti non si chiede altro che siano procreatori e inventori. 4. Aristotele ritiene che l'arte, imitazione della natura, sia emulazione. La bellezza è un « bene che piace », distinto sia dal bene morale che dal piacere. Tre elementi caratterizzano il bello artistico: l'ordine, la simmetria, la deter- minatezza. 9 Ivi, p. 33. 190 5. Per i filosofi cristiani l’arte è imitazione dell'atto con cui Dio crea la natura. Unità, armonia, proporzione, integrità, congruenza, convenienza della forma belia sono concetti ereditati dalla concezione classica che i cristiani ri- conducono all'atto di Dio che rende bello ciò che crea {S. Agostino, S. Bona- ventura). 6. Nel Rinascimento predomina la concezione platonica sull'amore {eros), sulla generazione (tokos) e sull’entusiasmo lirico. 7. Nell’età moderna fondamentale è l’estetica di G.B. Vico, secondo il quale l'arte è un mondo primario ed originario dell’espressività dell'uomo in quella fase del suo sviluppo che è dominata dalla fantasia. 8. Kant nell'opera Critica del giudizio afferma che l’opera d'arte è essen- zialmente frutto del sentimento, il quale in essa percepisce ed esprime l’uni- versale nel particolare, il noumeno nel fenomeno. Il piacere estetico è, per- tanto, l’appagamento che l’uomo riceve dall’armonia tra le opposte facoltà dei sensi e dell'intelletto. 9. L'idealismo e il neoidealismo, riecheggiando sia Vico che Kant, danno grande importanza al ruolo dell’arte nella storia dell'umanità e la considerano la rappresentazione sensibile dell’Assoluto. 10. Nella seconda metà del secolo XIX si sono succedute le seguenti inter- pretazioni dell’arte: a) Taine riconduce l’arte ad una meccanica psicologica regolata dai tre fattori della razza, dell'ambiente e del momento; b) Marx considera l’arte come una delie sovrastrutture dei meccanismi di produzione; c) Freud la considera prodotto del meccanismo di sublimazione della pul- sione sessuale; d) Dvorak afferma che l’arte è un criterio ermeneutico della storia della cultura e identifica la storia dell’arte con la storia della cultura; e) i filosofi della Gestalischule (scuola della forma) ritengono che a deter- mirare l’opera d'arte è la figura sensibile, i valori tattili, quelli visibili, gli elementi contrappuntistici e tonali, assunti nella loro globalità; f) oggi l'interesse è soprattutto rivolto alla ricerca del senso del linguaggio estetico e alla ricerca dei criteri validi per accertarne la presenza. II. IL FINE DELL'OPERA D'ARTE 1. Oggetto dell'attività artistica è il bello e fine dell'arte è quello di dare espressione sensibile alla bellezza. 2. Oltre al fine specifico, i filosofi hanno assegnato all’arte altre finalità: — Platone, Agostino e Tommaso le hanno attribuito scopi pedagogici; — Aristotele, Plotino, Schopenhauer le hanno assegnato uno scopo ca- tartico; — Vico, Schelling, Hegel, Croce, Gentile hanno attribuito all'arte una fina- lità teoretica e metafisica. Un'opera è artistica solo e nella misura in cui è manifestazione concreta dell’Assoluto. 3. L'estetica contemporanea tende ad affermare che l’arte ha una sua fun- zione autonoma, che essa è fine a se stessa. In tal senso l’opera d’arte è parago- nabile all'opera della natura. III. ARTE E MORALE 1. I filosofi che attribuiscono all'arte fine pedagogico o catartico o metafi- sico in modo più o meno diretto sottomettono l’arte anche alla morale. 2. Croce, invece, ha decisamente affermato l'autonomia dell’arte dalla mo- rale. L'arte in quanto tale è amorale, al di là del bene e del male. Ma anche se l'artista non è soggetto alla morale in quanto tale, lo è in quanto uomo. A motivo, quindi, della unità essenziale dell'uomo, anche per il rapporto tra arte e morale si può parlare di subordinazione indiretta della prima alla seconda. 191 QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali sono i principali aspetti del problema estetico? 2. Quali sono gli elementi costitutivi dell’opera d’arte? In che cosa consiste l’opera d’arte? 3. Qual è l'organo specifico che coglie la bellezza delle cose oppure di un’opera d'arte? 4. Come definiscono l’arte Platone, Aristotele, Kant, Vico, Schelling, Hegel, Croce, Freud, Marx? 5. In che cosa consiste il piacere estetico? 6. Qual è il fine dell’opera d’arte secondo Platone, Aristotele, Plotino, Vico, Kant, Hegel? 7. Quale ruolo ricopre l’arte nella cultura contemporanea? 8. La società a tecnologia avanzata conserva il senso della bellezza? 9. In quale misura e in quali contesti specifici della storia dell'umanità l’arte è stata asservita all'ideologia? 10. In che rapporti si trovano arte e morale? 11. È legittima la possibilità di rapporto tra messaggio artistico e messag- gio politico? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aporno TH.W., Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975; ANCESCHI L., Autonomia ed eteronomia dell’arte (1936), Garzanti, Milano 1976. AssuNTO R., Teoremi e problemi di estetica contemporanea, Milano 1960. BANFI A., I problemi di una estetica filosofica, Milano-Firenze 1961. Ip., Filosofia dell’arte, Editori Riuniti, Roma 1962. BaARATONO A., Arte e poesia, Bompiani, Milano 1966? BIGNAMI E., La poetica di Aristotele e il concetto dell’arte presso gli antichi, Sansoni, Firenze 1932. CaLogeERO G., Estetica, semantica, istorica, Einaudi, Torino 1947. CaraccioLO A., L'estetica e la religione, Urbaniana, Roma 1972. 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Che rapporto intercorre tra la propria realizzazione e il trascorrere del tempo? 2. Che definizione si può dare del tempo? 3. Consapevolezza, ricordo e attesa: che rapporto c'è tra queste parole e il tempo? Il problema storico riguarda il senso della storia: la storia, nella sua movimentata sequenza di avvenimenti, ha un senso? Quale? Dove si situa il fulcro della storia: nel passato, nel presente oppure nel futuro? E se la storia ha un senso ed un punto di riferimento decisivo, è possibile effettuare una ricostruzione scientifica delle vicende umane? Il carattere problematico della storia è stato riconosciuto dai filosofi di tutti i tempi. Ma mai come nel nostro secolo, durante il quale il succedersi degli eventi ha assunto un ritmo incredibile sco» nosciuto alle epoche precedenti, la problematicità della storia si è imposta all'attenzione degli studiosi. 1. Il concetto di storia 'La storia si definisce diversamente a seconda che per essa si intendano gli avvenimenti in se stessi (senso oggettivo) oppure la nostra conoscenza dei medesimi (senso soggettivo). La storia in senso oggettivo è la marcia dell’uomo attraverso il tempo. Invece la storia in senso soggettivo ‘è lo studio degli avveni- menti umani che accadono nel tempo, nelle loro cause e nei loro ef- fetti, ed inoltre nel loro significato ultimo.! La storia di cui ci occu- piamo in queste pagine direttamente è la storia come scienza (sen- so soggettivo) ed indirettamente anche la storia come vicenda (senso oggettivo). ! Si suole distinguere tra storia empirica e storia filosofica. La prima si occupa solamente delle vicende umane nelle loro cause e nei loro effetti. Invece la seconda si propone di scoprire il loro significato ultimo. 193 La storia ha un senso? Senso oggettivo e senso soggettivo della storia Scetticismo storico: — apparenza degli avvenimenti — casualità degli eventi — discordanza degli avvenimenti Realismo storico: è possibile una scienza degli eventi storici 2. Possibilità della scienza storica Una scienza storica è possibile? A questo interrogativo si posso- no dare e di fatto sono state date due risposte antitetiche. Si può rispondere negativamente e allora si ha lo scetticismo storico. Op- pure si può rispondere affermativamente e allora si professa il rea- lismo storico. 2.1 Scetticismo storico La negazione della scientificità della storia poggia sui seguenti argomenti: a) Gli avvenimenti sono solo apparenti. Il mondo della esperien- za quotidiana è un mondo illusorio, apparente, senza alcuna consi- stenza e perciò senza senso. La filosofia indiana, Eraclito, Schopenhauer e altri filosofi si sono appellati a questo argomento per negare la possibilità della scienza storica. b) Gli eventi non accadono secondo un piano ordinato. Gli eventi sono reali e non illusori. (Anzi per molti pensatori che si appellano a questo argomento i fatti sono l’unica realtà). Però essi non hanno un significato, perché non hanno una direzione. Un evento suc- cede all’altro senza che nulla vada mai avanti. La storia è un ca- vallo che mentre va per la strada improvvisamente si imbizzarrisce e allora si lancia per i campi o ritorna indietro o si butta nel pre- cipizio. c) Discordanza nella interpretazione dei fatti storici. L'interpre- tazione dei fatti è molto diversa secondo che la storia sia scritta da un positivista, da un laicista, da un marxista o da un cristiano, anche escludendo che si tratti di falsificazioni volute a scopo di propa- ganda o di errori dovuti a documentazioni o indagini insufficienti. Basti pensare alle interpretazioni tanto discordanti del Medioevo, della Controriforma e del Risorgimento. 2.2 Realismo storico ‘Per realismo storico s'intende quell’indirizzo filosofico che am- mette la possibilità di una scienza degli eventi storici. Questo può avvenire in due modi, a seconda che la possibilità della scienza degli eventi storici si fondi su una visione deterministica o non determini- stica della storia. Si dà quindi un realismo storico deterministico o un realismo storico non deterministico. Nel primo i fatti accadono necessariamente, nel secondo liberamente. Tanto nel realismo storico deterministico quanto nel realismo storico non deterministico si danno due interpretazioni principali. In quello deterministico c’è chi ritiene che nella successione dei fatti non ci sia nessun progresso, mentre altri ci vede un divenire, una 194 evoluzione verso mete sempre più alte. Il primo è il realismo storico deterministico statico; il secondo, il realismo storico deterministico dinamico. Tra i fautori del primo tipo vanno annoverati tutti i pen- satori greci; tra quelli del secondo molti filosofi moderni, soprattutto gli idealisti e i materialisti. Ciò che distingue i materialisti dagli idealisti è il punto di partenza del divenire storico: per i primi è la materia, per i secondi è lo spirito. Nel realismo storico non-deterministico c'è chi sostiene che gli eventi storici si svolgono secondo un piano esclusivamente naturale, mentre altri sostengono che essi accadono secondo un piano sopran- naturale. Sostenitori della prima teoria (che chiamiamo realismo sto- rico non-deterministico naturalistico) sono gli illuministi e soprat- tutto Kant. Sostenitori della seconda teoria (che chiamiamo reali- smo storico non-deterministico cristiano o semplicemente realismo storico cristiano) sono tutti gli storici cristiani e i filosofi cristiani della storia. Riducendo questa divisione a schema, essa si presenta così: statico (pensatori greci) materialistico (Marx) deterministico | idealistico (Hegel) È dinamico REALISMO STORICO naturalistico (Kant) non deterministico cristiano : (Agostino, Bossuet, Vico) a) Realismo storico deterministico statico - Secondo il pensiero filosofico greco la storia si svolge su un piano circolare, in cui l’in- dividuo ha una certa libertà (una libertà relativa) mentre l’universo è soggetto alle leggi matematiche di una eterna palingenesi. La stra- da del tempo è una pista rotonda su cui tutte le società, tutte le civiltà, tutte le istituzioni si succedono con un ritmo inesorabile e dopo un breve periodo di gloria scompaiono. Il tempo, e quindi la storia, « è l'immagine mobile dell’immobilità eterna », esso è « quel- l'immagine senza fine che si svolge secondo le leggi dei numeri » (Pla- tone, Timeo). « Dio guida l'universo nel suo percorso circolare, ma una volta compiuti i periodi del tempo che gli sono fissati, esso riprende il suo movimento in senso inverso » (Platone, Politica). Questa concezione circolare della storia è condivisa da quasi tut- ti i pensatori greci (cfr. Empedocle, Platone, Stoici, ecc.). b) Realismo storico deterministico dinamico - Non è possibile qui effettuare una esposizione soddisfacente delle complesse dottrine della filosofia della storia insegnate in questo ultimo secolo dai ma- terialisti e dagli idealisti. Del resto ne abbiamo già trattato distesa- mente nel terzo volume della nostra storia della filosofia, ora ci pre- me solamente indicare una caratteristica fondamentale comune tan- to al realismo storico degli idealisti quanto a quello dei materia- 195 Piano naturale della storia: Kant Piano soprannaturale: storici e filosofi cristiani — Realismo storico deterministico statico: assenza di progresso (pensatori greci) — Realismo storico deterministico dinamico: cammino evolutivo (materialisti, idealisti) Identificazione tra storia e realtà Il teleologismo storico di Kant e degli illuministi: ottimismo e progresso Rivelazione, ordine soprannaturale e libertà dell’uomo listi. In tutti e due la storia viene identificata con la realtà: tutta la realtà si esaurisce negli eventi storici: al di fuori della storia non c'è più nulla. Questa identificazione della storia con la realtà si chia- ma storicismo. A nostro avviso questa interpretazione della storia è insosteni- bile, per almeno tre ragioni. Anzitutto perché essa implica la nega- zione del trascendente, di Dio. La seconda ragione è la negazione della libertà umana. Negando all'uomo la libertà lo storicismo idealistico e materialistico condan- na alla disperazione l’uomo come persona singola, che invano cerca la salvezza dal male e dalla morte che lo stringono nel tempo. Que- sta filosofia della storia rappresenta la forma estrema della disper- sione dell'essere dell'uomo. Infine lo storicismo, nonostante le apparenze, svaluta la storia perché la considera uno sviluppo incessante nel quale tutto viene superato e mutato. I valori di ieri non sono quelli di oggi. I prota- gonisti della storia, gli uomini, sono prigionieri del presente, poiché negano il passato e negheranno a loro volta l'avvenire. Rimane una sola realtà: l'eterna legge della mutazione. c) Realismo storico non-deterministico naturalistico: Kant - Se- condo Kant e molti illuministi la storia si svolge su un piano ordi- nato ‘(teleologico) voluto dalla natura. « La storia è l'attuazione di un nascosto piano della natura ». « Il fine della storia è la realizza- zione di una società che universalmente viva secondo il diritto » (Kant, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopo- litico, pr. 5 e 8). Altrettanto si legge nel saggio Se il genere umano sia in continuo progresso verso il meglio: « Ora io affermo di poter predire alla stirpe umana, anche senza avere spirito profetico, il suo progresso verso il meglio, escludendo che questo progresso possa conoscere sostanziali pericoli di involuzione ». Questa visione ottimistica della storia, nata dal successo bor- ghese della seconda rivoluzione industriale e dall'entusiasmo per il progresso scientifico, ha verificato i suoi limiti davanti ad una umanità provata dall’orrore di due guerre mondiali, artefice del peri- colo dell’autodistruzione atomica, del disastro ecologico e vittima di un consumismo che antepone il valore delle cose a quello delle persone. d) Realismo storico cristiano - Secondo il pensiero filosofico cristiano la storia si svolge secondo un piano determinato dall’incon- tro di due volontà libere: quella di Dio e quella dell'uomo. Di qui l'estrema difficoltà ad interpretare un così complesso disegno che è possibile comprendere solo in virtù dell'intervento di Dio e della ri- velazione da parte sua del senso fondamentale della storia. Dalla Rivelazione sappiamo che la storia non si svolge secondo un piano circolare ciclico e tanto meno secondo leggi fatalistiche e 196 meccaniche, e nemmeno secondo un ordine puramente naturale. Dio ha voluto liberamente inserire l'uomo in un ordine soprannaturale; in tale ordine, cui l’uomo corrisponde liberamente, Dio continua ad intervenire per adattare il suo piano di grazia alla corrispondenza dell'uomo di modo che nonostante le deviazioni umane, la storia pro- cede verso destini sempre più alti. Il piano cristiano della storia si può raffigurare diagrammatica- mente con una linea ascensionale in cui ci sono varie deviazioni verso il basso, ma tutto sommato la parte terminale è più alta di quella iniziale. Dalla Rivelazione si viene a conoscere: a) il significato di tutta la storia che ci precede {attraverso i dogmi della creazione, del pec- cato e della redenzione); b) il punto della storia in cui ci troviamo at- tualmente (cioè tra la prima e l'ultima venuta di Cristo); c) che cosa ci riserva l'avvenire (cioè la fine del mondo e il ritorno trionfale del Messia dopo che il suo messaggio sarà stato annunziate a, tutti gli uomini). ‘Attraverso la Rivelazione conosciamo quindi il grandioso piano divino della storia: il piano generale, non i singoli momenti e i parti- colari di esso, sempre avvolti nel mistero. Sappiamo che la storia non è in regresso, non è un circolo su cui si ripetono eterni ritorni, ma è progresso verso la salvezza. Ampliiando le conoscenze dateci dalla fede mediante quelle che ci sono fornite dalia scienza sappiamo che l'umanità esiste sul pianeta da circa mezzo milione di anni. Però la serie delle civiltà è cominciata appena da 10.000 anni, mentre le generazioni future possono percorrere un altro mezzo miliardo di anni. Il Cristianesimo appartiene quindi all'infanzia della storia dell'umanità. La Chiesa non è che ai primi passi del processo che tende a fare di lei la provincia terrena del Regno dei cieli, motore e scopo della storia della umanità. Su questa concezione cristiana della storia sono state scritte pagine interessanti in tutti i tempi, in particolare da S. Agostino (De civitate Dei), Bossuet (Discorso sulla storia universale), Vico (La scienza nuova), Maritain (Sulla flosofia della storia), De Lubac (Cattolicesimo), von Balthasar (Teologia della storia), Toynbee (A study of history), Mouroux {I! mistero del tem po), Cullmann (Cristo e il tempo). 3. La storia è veramente una scienza? Molti filosofi pensano di poter accordare alla storia il titolo di scienza, definendo la conoscenza storica come sintesi di fatti e di idee, di particolare e di universale. Anche a noi pare che la storia sia una scienza, ma non secondo il concetto ciassico di scienza, bensì secondo il concetto moderno, secondo il quale la scienza non è una riproduzione precisa, ma solo una sistemazione approssimativa 197 il diagramma ascensionale del piano cristiano della storia La scienza storica come sistema approssimativo ‘‘Cognitio certa per causas”’: — “per causas’’ (il nesso che unisce due eventi) — “‘certa’’ (futuro: necessario e universale; passato: anche particolare e contingente) La ricerca dell’unità storica: l’universale che si realizza ripetutamente Carattere ipotetico dell’universale storico La Rivelazione come garanzia del senso della storia della realtà che è troppo complessa per essere pienamente intelligi- bile. Come la scienza sperimentale si chiama scienza sebbene sia soltanto una schematizzazione conveniente, perché permette all’uo- mo di intendere il mondo complicato della natura fisica, così la sto- ria si può chiamare scienza anche se non può vantarsi di riprodurre con fedeltà la connessione causale che lega le vicende umane tra di loro, perché permette all'uomo di avere una certa comprensione della successione di tali vicende. La storia, come la scienza sperimentale, può chiamarsi cognitio certa per causas. Il per causas va inteso in storia come nelle scienze sperimentali, non come il mezzo per conoscere un evento, ma come il nesso, la legge che unisce due eventi. Quanto al certa non v'è dubbio che anche in storia si può rag- giungere certezza. Nella visione cristiana della storia ci sono dei pi- lastri assolutamente certi, posti dalla Rivelazione, che permettono di costruire una storia universale di valore categorico almeno nel- le linee generali. In più si può dare certezza per molti fatti singoli non conosciuti per fede. Circa tali fatti si può dare certezza anche se non sono universali e necessari. Infatti, pur essendo vero che quando si tratta del futuro abbiamo la conoscenza « certa » solo del- l’universale e necessario, quando si tratta invece del passato ab- biamo certezza anche del particolare e del contingente, perché quan- to è accaduto nel passato ha per noi posteri la stessa necessità e immutabilità dell'universale e necessario che accadrà nel futuro. Qualche storico ha creduto che l'oggetto della storia non sia sol- tanto certo, perché necessario e immutabile, ma anche universale. Basandosi su questa convinzione, storici come Vico, Toynbee, Spengier sono andati alla ricerca dell'unità storica, dell'universale storico (la nazione, la civiltà, ecc.) che torna a realizzarsi ripetuta- mente, come l’idea universale di uomo continua ad avere ripetute realizzazioni, (con la sola differenza che mentre l'individuo umano ha una breve durata di 50, 100 anni, l’unità storica ha una durata di migliaia di anni). Che dire di questo universale storico? A noi pare che non sia una cosa impossibile, tuttavia rimane qualcosa di estremamente ipotetico, non esistendo nessun criterio certo per determinare quale raggruppamento di eventi abbia i ca- ratteri di universalità e ripetibilità. Possiamo infine domandarci se una storia universale vera sia raggiungibile. Come abbiamo precedentemente sottolineato, sono l’esistenza di Dio e il mistero della sua incarnazione a consentirci una autentica visione dei fatti, poiché la storia è comprensibile soio nella sua du- plice dimensione naturale e soprannaturale. 198 4. L’interpretazione della storia Nel nostro secolo la problematica della storia ha acquisito uno spessore del tutto sconosciuto ai nostri antenati. Nel passato l'uomo era abituato a guardare la storia dall'alto come uno spettatore. Certo lo spettacolo non era di facile comprensione, ma almeno si pensava di poterlo osservare pacificamente dal di fuori. Invece in seguito al cumulo di eventi che ci sono piombati addosso durante gli ultimi decenni e in conseguenza degli scossoni che hanno subito tutte le nostre cognizioni della realtà e tutte le nostre convinzioni morali e religiose, nonché i nostri rapporti con gli altri e con il mondo, ci siamo accorti che noi stessi siamo immersi nella storia, che faccia- mo parte dello spettacolo; in altre parole che il divenire storico non riguarda soltanto il mondo, ma il nostro stesso essere. Perciò anche l’uomo è un essere storico. La presa di coscienza della nostra storicità, dice giustamente Gadamer, è «-verosimilmente la più importante tra le rivoluzioni da noi subite dopo l'avvento dell’epoca moderna. La sua portata spiri- tuale sorpassa probabilmente quella che noi riconosciamo alle rea- lizzazioni delle scienze naturali, realizzazioni che hanno visibilmente trasformato la superficie del nostro pianeta. La coscienza storica, che caratterizza l’uomo contemporaneo, è un privilegio (forse perfino un fardello) quale non è stato imposto a nessuna delle generazioni pre- cedenti ».? Ora, la presa di coscienza della storicità del nostro essere implica una revisione profonda non solo della scienza storica ma anche della teoria generale della conoscenza umana. Questa non può più essere concepita né come diretto riflesso della realtà, come volevano i realisti antichi e moderni (compresi i positivisti) e neppure come creazione originaria dell'Io (come affermavano gli idealisti); ma va intesa come interpretazione (ermeneutica) di situazioni: un essere storico comprende se stesso, gli altri, la cultura e le vicende del passato soltanto interpretando. Egli fa necessariamente parte di un circolo ermeneutico: gli vengono offerte dal passato delle tradi- zioni che egli riceve interpretandole, e di nuovo le comunica agli al- tri, i quali a loro volta le fanno proprie interpretandole. L'uomo coglie la realtà storica soltanto interpretandola per due ragioni. Primo, perché la storia è essenzialmente movimento e nel movimento c'è sempre qualcosa che rimane e qualcosa che muta; perciò per risalire al senso originale delle tradizioni occorre passare attraverso i vari sviluppi. Secondo, perché il passato non ci è estra- neo ma entra a far parte del nostro essere, della nostra vita; però en- tra a far parte del nostro spessore soggettivo solo mediante l'inter- pretazione. Noi siamo eredi di tradizioni che non sono semplici ? H. GADAMER, Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli 1969, p. 27. 199 Gadamer: una rivoluzione fondamentale del nostro tempo è la presa di coscienza deila nostra storicità Gadamer: la storia come ermeneutica delle situazioni Due ragioni dell’esigenza interpretativa: — mutamento e permanenza nel movimento storico — appartenenza del passato al nostro essere I tre principi ermeneutici: — il conoscere è un interrogare — i documenti storici come risposta alle domande informazioni da registrare, ma fanno parte della nostra realtà, de- terminano le nostre prospettive e le nostre progettazioni, il riostro modo di vedere e di agire. « Comprendere è operare una mediazione tra il presente e il passato, è sviluppare in se stessi tutta la serie con- tinua delle prospettive attraverso cui il passato si presenta e si ri- volge a noi ».? Ma, accertata la verità del carattere storico del nostro essere e del nostro conoscere, come si sviluppa la nostra conoscenza intesa come interpretazione, ossia il pensare ermeneutico? Secondo Gadamer, che è il principale teorico della teoria della interpretazione (ermeneutica) storica, il pensare ermeneutico si sviluppa sulla base di tre principi. Il primo dice che ogni conoscenza è la risposta ad una domanda. Il che significa che il conoscere è anzitutto un interrogare, e que- st'ultimo, secondo Gadamer, è sempre determinato da una situa- zione particolare: « Non al giudizio, ma alla domanda spetta il pri- mato nella logica, come dimostrano storicamente il dialogo plato- nico e l'origine dialettica della logica greca. Ma il primato della domanda rispetto alla proposizione significa che la proposizione è, per sua natura, risposta. Non c’è proposizione che non sia una spe- cie di risposta e perciò non si può intendere una proposizione se non rifacendosi ai criteri intrinseci alla domanda di cui è una risposta... Certo non è facile trovare fa domanda, di cui una data proposizione è effettivamente la risposta, soprattutto perché una domanda non è mai qualcosa di semplice e primo, a cui si possa ar- rivare solo che lo si voglia: ogni domanda è ancora una risposta e questa è la dialettica in cui siamo impigliati. Ogni domanda è mo- tivata e anche il suo significato non è mai dato interamente in es- sa ». In conclusione, « l'orizzonte di ogni proposizione è il sorgere da una situazione problematica », e « una conoscenza si mostra fe- conda in quanto appiana una situazione problematica ».* Il secondo principio dice che qualsiasi documento storico, qual- siasi testo letterario e anche tutti i monumenti artistici, le istituzioni sociali, politiche e religiose sono la registrazione di certe conoscenze, le quali, come vuole la dialettica del conoscere, rappresentano le ri sposte alle domande che i loro autori si sono fatte in certe situa- zioni. Pertanto, per comprendere tali documenti occorre riportare le risposte che essi contengono nel coniesto, nell'orizzonte degli in- terrogativi da cui sono sorte, un orizzonte che conteneva la possi- bilità di molte altre risposte. In certo qual modo la formulazione conclusiva che esse hanno assunto deve essere ricondotta al movi- mento della conversazione. Questo è il compito dell'ermeneutica: « trarre il testo fuori dallo stato di alienazione in cui gtace (a causa della forma immobile che esso ha assunto nella composizione scrit- 3 Ivi, p. 93. * H. GADAMER, « Che cos'è la verità », in Rivista di filosofia 1956, pp. 261-262. 200 ta) e riportarlo al presente vivo del dialogo, Ia cui forma originaria è sempre quella della domanda e della risposta ».ò Il terzo principio afferma che nessuna conoscenza è « pura », « impregiudicata », ma è sempre « mista », accompagnata e condi- zionata da « pregiudizi ». Questo terzo postulato, nel pensiero del Gadamer, è la logica conseguenza della sua concezione dell'uomo come essere storico e, perciò, legato a certe tradizioni, prospettive, situazioni. Sono queste tradizioni, prospettive, situazioni a formare i pregiudizi. Come si vede, Gadamer dà al termine « pregiudizio » un signi- ficato che si discosta sostanzialmente da quello usuale per due ra- gioni. Anzitutto nel significato usuale il pregiudizio è una « cono- scenza errata » che impedisce di vedere e giudicare rettamente in certe situazioni. Ora, per Gadamer il pregiudizio non ha questa con- notazione negativa di falsità e falsificazione. ‘Per lui il pregiudizio è soltanto una « conoscenza previa », la quale può essere sia vera che falsa. La seconda ragione è che nella accezione comune il pregiudizio è qualcosa di contingente, qualcosa quindi che si può superare, neu- tralizzare. Invece per il Gadamer questo è impossibile, in quanto, come si è detto, i pregiudizi fanno parte della storicità dell'uomo e perciò accompagnano necessariamente la sua esistenza. Il che tut- tavia non significa che la conoscenza umana debba essere schiava dei pregiudizi. Questo no, anzitutto perché essa può prenderne coscien- za e, così, in certo qual modo li può dominare, e in secondo luogo erché di certi pregiudizi si può anche disfare. Ma come è possibile per l'interprete uscire dall’orizzonte dei suoi « pregiudizi » e mettersi in cumunicazione con l'orizzonte altrui, in particolare con quello di un testo che appartiene ad altri tempi lon- tani da lui? Non esiste forse tra passato e presente un abisso insor- montabile? Del resto, la storicità non richiude necessariamente l'in. terprete dentro il vicolo cieco del suo soggettivismo? Gadamer, pur riconoscendo e affermando l’alterità tra passato e presente, esclude che fra loro esista una scissura completa. La sto- ricità esige piuttosto il contrario: essa fa sì che la distanza tempo- rale sia « colmata dalla continuità delia tradizione e della trasmis- sione, grazie alle quali tutto ciò che ci viene trasmesso si rivela a noi ».$ Ma neppure il fatto che l'orizzonte conoscitivo dell’interprete sia circoscritto da « pregiudizi » è tale da rinchiuderle nel soggetti- vismo e «a impedirgli l’incontre con altri orizzonti. Infatti i « pre- giudizi » non sono tutti « egocentrici » e, soprattutto, i « pregiudizi » non sono la prima cosa: al di là e al di sotto dei « pregiudizi » esiste un accordo fondamentale, che Gadamer chiama « accordo portante ». Questo « punto di stabilità », questa solida piattaforma che rende 5 H. GADAMER, Wahrheit und methode, Mohr, Tiibingen 1960, p. 350. Ivi, p. 281. 201 — ogni conoscenza è mista al pregiudizio il pregiudizio come conoscenza previa e come contingente superabile La tradizione colma la separazione tra passato e presente L’‘accordo portante’ rompe il rischio del soggettivismo il linguaggio punto di stabilità e dì fusione La storia come tradizione: permanenza della forma e identità delia struttura La conoscenza del passato, del presente e del futuro come proiezione verso l'eternità possibile l’incontro e la fusione tra i vari orizzonti è fornita dal linguaggio. « Io credo che il linguaggio operi la sintesi perenne tra l'orizzonte del passato e quello del presente. Nci ci intendiamo reci- procamente, perché ci parliamo, perché, pur svolgendosi sempre il nostro discorso su piani diversi e non convergenti, alla fine, per mez- zo delle parole, riusciamo a metterci reciprocamente di fronte le cose dette con le parole ».' Come si vede, nella interpretazione gadameriana della storicità della conoscenza umana, si riscontra uno sforzo notevole di superare lo scoglio delio storicismo, del relativismo e del soggeitivismo in cui erano generalmente incappate le precedenti interpretazioni del- lo stesso fenomeno. In effetti, la proprietà della storicità non significa necessaria- mente queste interpretazioni scettiche del conoscere. Infatti, che cos'è la storia? È solo divenire senza permanere; sequenza di muta- menti senza alcuna costante? La natura della storia e conseguentemente della storicità non può essere diversa da quella del tempo. Ora, il tempo, ci dice Bergson, è essenzialmente durata. Perciò la storia più che successione di av- venimenti di natura diversa è tradizione di fatti, di azioni e, quindi, essa ha come suo connotato essenziale la permanenza della forma e l'identità di struttura, nonostante tutti i possibili mutamenti. La storia non è pura successione casuale di avvenimenti sconnessi e discontinui, ma un flusso, un trascorrere di una medesima sostan- za fondamentale; non è un divenire occasionalistico e frammentario, ma uno sviluppo organico e continuo. In conclusione, riconosciamo senz'altro che il nostro conoscere è segnato dal sigillo del tempo. Ma affermiamo che, come il tempo ha tre « estasi » (passato, presente e futuro), così il nostro conoscere ha una triplice estensione: quella in direzione del passato, quella in direzione del futuro e quella rivolta verso il presente. Inoltre il nostro conoscere gode di una considerevole padronanza rispetto a queste estasi, in quanto può protendere il suo sguardo oltre ogni orizzonte segnato dal passato e dal futuro e proiettarsi verso l’eter- nità. CONCETTI DA RITENERE — Senso oggettivo; senso soggettivo — Scetticismo storico — Realismo storico, deterministico, statico e dinamico — Realismo storico non deterministico naturalistico; realismo storico cristiano — Ermeneutica storica; pregiudizio; accordo portante; punto di stabilità * H. GADAMER, « Che cos'è la verità », cit., p. 265.202 SINTESI CONTENUTISTICA I. IL CONCETTO DI STORIA La storia si definisce a seconda che per essa si intendano gli avvenimenti in se stessi (senso oggettivo) oppure la conoscenza dei medesimi (senso sog- gettivo): a) il senso oggettivo indica il cammino dell’uomo attraverso il tempo; b) il senso soggettivo è lo studio degli avvenimenti umani che accadono nel tempo, nelle loro cause, nei loro effetti, nel loro significato ultimo. II. POSSIBILITÀ DELLA SCIENZA STORICA Gli orientamenti nei confronti della scienza storica si distinguono in scet- ticismo storico e in realismo storico. A. Lo scetticismo storico posa sui seguenti argomenti: 1. Gli avvenimenti sono solo apparenti: a) Il mondo dell'esperienza è un mondo illusorio e perciò senza senso; b) Assertori dell'argomento sono, ad esempio, la filosofia indiana, Eraclito e Schopenhauer. 2. Gli avvenimenti non accadono secondo un piano ordinato: a) Gli eventi sono reali ma non hanno significato poiché sono privi di direzione. b) Il loro susseguirsi non determina un progresso. 3. Discordanza nella interpretazione dei fatti storici: a) L’interpretazione dei fatti storici è soggetta. al filtro ideologico dello storiografo. B. Il realismo storico ammette la possibilità di una scienza degli eventi storici. Il realismo presenta due orientamenti: il deterministico e il non-determi- nistico. 1. Realismo storico deterministico afferma l'accadimento necessario dei fatti e si distingue in: a) Realismo storico deterministico | nella successione degli avvenimenti statico | non vi è progresso — Secondo il pensiero greco la storia si svolge su un piano circolare, in cui l'individuo gode di una libertà relativa e l’universo è soggetto alle leggi ma- tematiche dell'eterna palingenesi. Il tempo è l’immagine mobile dell'eternità immobile (Platone, Timeo e Politica). b) Realismo storico deterministico | il divenire storico procede verso me- dinamico te sempre più elevate — Tale concezione tipica della filosofia contemporanea accomuna materia- listi e idealisti. Viene affermata una sostanziale identità tra realtà e storia ‘(sto- ricismo). — Lo storicismo implica la negazione della trascendenza di Dio, nega la libertà della persona e sostiene la continua transitorietà dei valori. 2. Realismo storico non-deterministico afferma che i fatti accadono secon- do libertà e si distingue in: a) Realismo storico non-determini- }la storia si svolge su un piano ordi- stico naturalistico | nato voluto dalla natura — È la concezione kantiana secondo la quale fine della storia è una so- cietà che vive secondo il diritto e che il genere umano progredisca sempre verso il meglio. . | la storia si svolge secondo un piano deter- b) Realismo storico cristiano } minato dall'incontro di due libertà: quella ( di Dio e quella dell’uomo . — Il piano della storia può essere raffigurato come una linea ascensionale con deviazioni verso il basso, ma il cui punto terminale è più elevato di quello iniziale. 203 — La Rivelazione ci svela: a) il significato della storia che ci precede; b) il punto della storia in cui ci troviamo; c) che cosa ci riserva l'avvenire. — Appartengono a tale concezione: S. Agostino, Bossuet, Vico, Maritain, De Lubac, von Balthasar, Toynbee, Mouroux, Cullmann.III. LA STORIA È UNA SCIENZA? 1. La storia, come la scienza sperimentale, può chiamarsi cognitio certa per causas. Il per causas è il nesso, la legge che unisce due eventi. 2. Anche nella storia si può raggiungere certezza. Nella visione cristiana la Rivelazione pone dei pilastri assoiutamente certi, che permettono di costruire una storia universale di valore categorico almeno nelle linee generali. 3. Vico, Toynbee, Spengler, in base alla convinzione che l'oggetto della storia non sia soltanto certo ma anche universale, hanno ricercato l’unità sto- rica, l’universale storica che torna ripetutamente a realizzarsi (nazione, civiltà, ecc.). IV. L'ERMENEUTICA STORICA 1. La consapevolezza della storicità dell'uomo, come afferma Gadamer, è una delle più importanti rivoluzioni del nostro tempo. 2. La scienza storica subisce una profonda trasformazione, poiché diviene interpretazione (ermeneutica) di situazioni: un essere storico comprende se stesso. 3. L'uomo coglie la realtà storica interpretandola per due ragioni: a) la storia è movimento, perciò per risalire al senso originale delle tradi zioni occorre passare attraverso vari sviluppi; b) il passato non è estraneo all'uomo, ma fa parte del suo essere, entra quindi a fare parte della soggettività mediante l’interpretazione. 4. Secondo Gadamer il pensare ermeneutico si sviluppa sulla base di tre principi: a) Ogni conoscenza è la risposta ad una domanda. Il conoscere è anzitutto un interrogare e l'interrogativo è sempre determinato da una situazione par- ticolare. b) Qualsiasi documento storico è la registrazione di certe conoscenze. I documenti per essere compresi richiedono che le risposte, che contengono, siano riportate nell'orizzonte da cui sono sorte. c) Nessuna conoscenza è « pura », ma è sempre condizionata da pregiudizi. In Gadamer il termine pregiudizio significa « conoscenza previa », che in quanto tale può essere sia vera che falsa. I pregiudizi fanno parte della storia dell'uomo, vanno in ogni caso dominati e se necessario eliminati. Al di là dei pregiudizi esiste tra i diversi orizzonti interpretati la possibilità di un accordo fondamentale, che Gadamer chiama « accordo portante ». Questo punto di sta- bilità è fornito dal linguaggio che opera la sintesi tra l'orizzonte del passato e quello del. presente. 5. Caratteristica dell’ermeneutica storica è il tentativo di essere il supera- mento dello storicismo, del relativismo e del soggettivismo. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è la storia? Come si definisce in senso soggettivo e in senso oggettivo? 2. È possibile una conoscenza scientifica della storia? Quali sono gli argo- menti pro e contro? 3. Quali sono le principali interpretazioni del senso della storia? 4. Che cosa si intende per storicismo? 5. Che significa materialismo storico? 204 6. Qual è la concezione vichiana della storia? 7. È possibile una « filosofia » cristiana della storia? 8. Che cosa è l'universale storico È possibile identificarlo con sicurezza? 9. Quale rapporto è opportuno stabilire tra antropologia e concezione della storia? 10. In quale misura la concezione della storia contribuisce all'elaborazione di un progetto-uomo? 11. Che cosa si intende per ermeneutica storica? Quali sono i principi fon- damentali su cui essa si regge? 12. È legittimo ritenere che l’ermeneutica storica possa contribuire a un recupero dei valori morali da parte della coscienza personale e collettiva del nostro tempo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AcosTINO, La città di Dio, Città Nuova, Roma 1978. BERDJAEV N., Il senso della storia, Jaca Book, Milano 1977. CAPPELLO C., La visione storica in G.B. Vico, Einaudi, Torino 1946. CASTELLI E., I presupposti di una teologia della storia, Cedam, Padova 1968. Croce B., Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1949. Ip., La storia come pensiero e azione, Laterza, Bari 1954. 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L'uomo, nella sua storia, ha sempre fatto cultura poiché egli è un essere essenzialmente culturale oltre che naturale, ma questa verità è diventata oggetto della riflessione filosofica soltanto durante gli ultimi decenni. Ciò è accaduto per due ragioni principali: a) lo sviluppo dell'antropologia culturale come scienza, la quale ha messo in luce il valore e la funzione che ha la cultura nello sviluppo della civiltà e nella caratterizzazione dei popoli; b) la crisi epocale che sta attraversando da qualche tempo la cultura occidentale. È stata so- prattutto questa crisi radicale a sollecitare uno studio più attento e più approfondito di ciò che è la cultura in se stessa, per l'individuo e per la società. 1. Definizione « Cultura » è un termine plurisemantico che storicamente e attual- mente ha tre significati e tre usi principali che possiamo chiamare elitario, pedagogico e antropologico. Nel senso elitario cultura si- gnifica una gran quantità di sapere, sia in generale che in qualche settore particolare. Così, per esempio, quando si dice che una certa persona possiede una vasta cultura scientifica, filosofica, artistica, letteraria, ecc. o quando si dice semplicemente che è « molto colta ». Nel senso pedagogico cultura sta ad indicare l'educazione, la forma- zione, la coltivazione dell'uomo: è la paideia dei greci, ossia il pro- cesso attraverso il quale l’uomo (il bambino, il ragazzo, l'adulto) 1 J.G. FICHTE, La missione del dotto, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 86. 206 perviene alla piena maturazione e realizzazione della propria per- sonalità. Infine, nel senso antropologico, che è quello che si è andato consolidando nel nostro secolo, cultura significa quell'insieme di co- stumi, di tecniche e di valori che contraddistinguono un gruppo so- ciale, una tribù, un popolo, una nazione: « è il modo di vivere pro- prio di una società » (Taylor). i A noi, nel presente capitolo, interessano soltanto gli ultimi due significati di cultura, in particolare il terzo. Ma il secondo e il terzo sono strettamente legati tra loro: in effetti la cultura è dimensione di un gruppo sociale, di una società, perché è anzitutto dimensione, proprietà dell'uomo in quanto uomo. Premesse alcune informazioni sulla storia del problema culturale, gli argomenti di cui ci occuperemo sono i seguenti: l'uomo come essere culturale, la cultura come forma spirituale della società, i fondamenti della cultura, classificazione delle culture, rapporti tra cultura e religione, urgenza del rinnovamento della cultura. 2. Il problema della cultura nella storia della filosofia Fino ad un paio di secoli fa il problema culturale coincise sostan- zialmente con quello pedagogico. Fino all'Illuminismo si concepiva la cultura essenzialmente come paideia, come formazione della persona e non come struttura fondamentale della società. Di con- seguenza, il problema culturale veniva affrontato dalla prospettiva antropologica, ignorando totalmente quella etnologica. Quanto la filosofia è riuscita a dire della cultura come paideia l'abbiamo visto nel capitolo riguardante la pedagogia, e qui lo diamo per acqui- sito. Ora ci interesseremo degli ulteriori sviluppi che ebbe il pro- blema culturale allorché, a partire dal secolo XVIII, fu affrontato oltre che dalla prospettiva antropologica, anche da quella etnologica. A prendere coscienza della verità che la cultura è un feno- meno che interessa oltre che la singola persona anche il gruppo so- ciale in quanto tale, in quanto essa rappresenta il suo sistema di vita e costituisce il vincolo che unisce tra loro i membri di un determi- nato gruppo e li distingue dai membri degli altri gruppi, furono gli illuministi tedeschi Herder e Humboldt. Questi due filosofi con- cepiscono entrambi la cultura sia come vincolo spirituale che tiene strettamente uniti tra loro i membri di una nazione sia come realiz- zazione di un particolare progetto di humanitas. Secondo Herder l’obiettivo primario della cultura è l’uomo stesso, la coltivazione dell'uomo per renderlo sempre più uomo e avvici- narlo all'ideale della umanità, la humanitas. « A questo scopo evi- dente è organizzata la nostra natura; per esso ci sono dati sensi ed impulsi più raffinati, per esso ci è data la ragione e la libertà, una salute delicata e durevole, il linguaggio, l'arte e la religione. In ogni condizione e in ogni società, l'uomo non può avere altro in vista 207 Cultura: dimensione dell’uomo in quanto uomo Fino al secolo XVIII coincidenza di cultura e pedagogia Herder e Humboldt: cultura, vincolo spirituale di un popolo Humboldt: funzione principe del linguaggio nella cultura Dal XIX secolo si sviluppano l’etnologia e l’antropologia culturale né può costruire altro che l'umanità, così come la pensa in se stes- so »? La realizzazione dell'ideale dell'umanità varia da popo a po- polo, da individuo a individuo, ma progredisce incessantemente stro alla fine dei tempi. Anche per Humboldt, come per :Herder, la cultura è la forma spi- rituale di un popolo, di una nazione. Egli insiste soprattutto sulla funzione che compete alla lingua quale fattore principale della cul- tura. A suo parere la cultura è una forma spirituale dell'umanità caratterizzata da una determinata lingua, individualizzata rispetto alla totalità ideale. « L'individualità divide, ma in una maniera così meravigliosa che proprio mediante la divisione risveglia il senti- mento dell'unità, anzi appare un mezzo per costituire questa unità almeno nell’idea [...1. Qui, in modo davvero meraviglioso, gli viene in aiuto il linguaggio, che unisce anche quando isola e che, nella veste della più individuale espressione, racchiude la possibilità di universale intelligenza. Il singolo, dove, quando e come vive, è un frammento staccato di tutta la sua stirpe, e il linguaggio dimostra e mantiene questo eterno nesso che guida il destino del singolo e la storia del mondo »} Dopo Herder e Humboldt e per merito loro, la cultura come forma spirituale della società diviene un tema importante sia per l'indagine scientifica sia per la riflessione filosofica. Dalla seconda metà dell'Ottocento in poi gli etnologi e antropo- logi francesi, tedeschi, inglesi, italiani, americani che si dedicano allo studio delle civiltà antiche o dei popoli primitivi elaborano teo- rie generali intorno ai fenomeni della cultura e formulano ipotesi varie circa la sua origine, il suo sviluppo, i traiti universali, la classificazione, l'assimilazione, il collegamento fra le parti di una cultura, ecc. Altrettanto fanno i filosofi. Questi, normalmente {e logi- camente) affrontano e risolvono i problemi della cultura alia luce dei postulati generali della loro cosmovisione. Così gli idealisti (Cas- sirer, Croce, Gentile, Husserl) vedono nella cultura di un popolo le varie tappe della presa di coscienza dell’Assoluto; i vitalisti (Dil- they e Spengler) considerano la cultura come massima espressione della vita; i marxisti (Marx e iLenin e i loro seguaci) interpretano la cultura come rispecchiamento delle condizioni economiche di una società; gli strutturalisti fanno della cultura un prodotto del Pensiero inconscio (così Lévi-Strauss e Foucault). I filosofi hanno dibattuto con vivacità i rapporti della cultura con la politica, la religione e la tecnologia, giungendo alle soluzioni più disparate: di conflitto, di armonia, di inclusione, di esclusione, di correlazione, ecc. Ad analoghi risultati è approdato il dibattito in- torno alla priorità tra cultura scientifica e cultura umanistica (ma 2 JG. HERDER, /dee per la filosofia della storia dell'umanità, Il Mulino, Bologna 1971, p. 137 # W. v. HUMBOLDT, « Ueber die Verschiedenheiten des menschlichen Sprach- baues », in Gesammielte Schriften, Berlino 1904, vol. VI/1, p. 125 ss. 208 questo è un dibattito che toesa maggiormente il problema pedago- gico che quello etnologico). In questi ultimi anni — dopo che la cultura moderna o occi- dentale ha dato segni evidenti di una crisi profonda, forse irrever- sibile — l’attenzione dei filosofi si è concentrata maggiormente sui fondamenti della cultura, sui suoi elementi costitutivi, sulle sue funzioni, sui valori che animano una cultura, sulla progettazione di una nuova cultura. E se è vero, come perisano molti, che la cultura moderna ha ormai esaurito le sue risorse e va verso una completa dissoluzione, allora si deve ammettere che il compito più urgente a cui sono chiamati attualmente i filosofi è quello di elaborare un nuovo progetto culturale che risponda alle esigenze della nascente società che dovrà affrontare e risolvere non più problemi di interesse particolare e locale, ma problemi di interesse planetario e universale. Per una società planetaria occorre studiare un progetto di cultura planetaria.‘ 3. L'uomo come essere culturale Abbiamo già osservato più volte nei capitoli precedenti che l’uo- mo non è solo un essere naturale ma anche culturale: ciò significa che al momento della nascita la natura gli dà appena il mirimo ne- cessario, l'essenziale, per essere uomo e affida a lui stesso il compito di farsi, di formarsi, di realizzare pienamente il proprio essere me- diante la cultura. L'integrazione della dimensione naturaie dell'uomo nella dimen- sione culturale viene così teorizzata da J. Maritain: « Essendo l'uomo uno spirito animatore di una carne, ia sua natura è di per sé una natura progressiva. Il lavoro della ragione e della virtù è naturale nel senso che è conforme alle inclinazioni essenziali della natura umana, di cui mette in moto le energie essenziali. Non è naturale nel senso che sia dato bell'e fatto dalla natura. [...] La cultura è naturale per l'uomo nello stesso senso del lavoro, della ragione e della virtù, di cui è il frutto e il compimento terreno ». Mentre l’animale acquisisce tutto dalla natura e lungo l'arco della sua esistenza non fa altro che eseguire puntualmente, istiniiva- mente, meccanicamente, quanto sta iscritto nel suo DNA, l’uomo riceve dalla natura un DNA che gli spalanca immense possibilità: col DNA la natura consegna all'uomo un progetto, ed è compito di tutta la sua vita quello di tradurlo in realtà e di portarlo a compimento. La filosofia classica (Platone, Aristotele, Zenone, Plotino, ecc.) ‘ ‘Per un'analisi critica di vari progetti culturali laici e cristiani di rinnova- mento della cultura si veda B. Mondin, Una nuova cultura per una nuova società, (Analisi della crisi epocale della cultura moderna e dei progetti per superarla), 2° ed., Massimo, Milano 1983. 5 J. MARITAIN, Religione e cultura, Morcelliana, Brescia 1973, p. 15. 209 Crisi detta cultura e indagine sui suoi fondamenti per un nuovo progetto culturale Maritain: la cultura è naturale per l’uomo La concezione naturalistica dell’uomo nel mondo classico La concezione storicistica dell’età moderna Non tutto l’uomo è opera della cultura La cultura dimensione delia natura umana considerava l’uomo come essere naturale: costituito di un'essenza immutabile che gli viene data dalla natura, dalla quale egli deriva non soltanto le leggi biologiche ma anche i dettami morali: « Agisci secondo natura » era l'imperativo categorico della filosofia greca. Era chiaramente una concezione statica dell'uomo, fondata sul pri- mato dell'intelletto sulla volontà, della contemplazione sull'azione, della natura sulla storia. La filosofia moderna ha operato una svolta radicale. Essa non vede più nell'uomo un parto della natura, ma piuttosto un prodotto di se stesso. È la tesi di Nietzsche, Hegel, Sartre, Heidegger e della maggior parte dei moderni. È una concezione « storicistica » del- l'uomo, basata sul primato della volontà e della libertà sulla cono- scenza, della prassi sulla teoria, dell'esistenza sull'essenza, della storia sulla natura. Sul piano morale non esiste nessun altro impe- rativo al di fuori di quello di tradurre in atto le proprie possibilità (la propria potenza!). Tra queste due vie antitetiche c'è però una terza via: che è quella che considera l'uomo né come essere naturale né come essere sem- plicemente storico, bensì come essere culturale. Ciò significa che non tutto l’uomo è prodotto della natura e neppure della storia, ma in parte della natura e in parte della storia, e questo amalgama tra natura e storia si chiama cultura. Non tutto l’uomo, però, è opera della cultura. Molto di quanto c'è in lui proviene dalla natura. Tutta la sua dimensione somatica e bio- logica è prodotta direttamente dalle forze naturali. Quel piccolo esse- re umano che viene alla luce dopo nove mesi di gestazione nel grembo della madre è frutto delle leggi genetiche che la natura ha iscritto nei corpi dei genitori. Gli organismi e le facoltà di cui sono muniti il bambino e l'adulto provengono dalla natura. Anche gran numero delle attività somatiche e psichiche che noi svolgiamo dipendono dal- le leggi della natura. ‘Però gran parte di ciò che noi possediamo e che facciamo già da bambini di un anno non è frutto della natura bénsì della cultura. Questa è la caratteristica più rimarchevole, che distingue immedia- tamente l’uomo dagli animali e dalle piante. Diversamente dagli altri viventi il cui essere è interamente prodotto dalla natura, l’uomo è in larga misura l'artefice di se stesso. Mentre le piante e gli ani- mali subiscono l’ambiente naturale che li circonda, l'uomo è capace di coltivarlo e di trasformarlo profondamente, adeguandolo ai pro- pri bisogni. La cultura non è qualche cosa di accidentale per l’uomo, un passatempo, ma fa parte della sua stessa natura, è un elemento costitutivo della sua essenza. In passato per distinguere l’uomo dagli altri esseri ci si basava sulla ragione, sulla volontà, sulla li- bertà, sul linguaggio, ecc. Oggi si è compreso che un aspetto, una dimensione non meno specifica dell'uomo è la cultura. Questa carat- terizza l'uomo e lo distingue dagli animali non meno chiaramente della ragione, della libertà, del linguaggio. In effetti gli animali non 210 hanno culiura, non sono artefici di cultura: tutt'al più sono passivi ricettori di iniziative culturali compiute dall'uomo. Per crescere e sopravvivere gli animali sono muniti dalla natura di certi istinti e di determinati sussidi, sia a scopo di difesa sia a scopo di prote- zione; invece « l'uomo al posto di tutte queste cose possiede la ra- gione e le mani, che sono gli organi degli organi, in quanto col loro aiuto l'uomo può procurarsi strumenti di infinite fogge per infiniti scopi ».î L'uomo è un essere culturale in due sensi, anzitutto in quanto è artefice della cultura, ma anche, come s'è visto, in quanto è lui stesso il primo destinatario e il massimo effetto della cultura. La cultura, nelle sue due principali accezioni di formazione del singolo (acce- zione soggettiva) e di forma spirituale della società (accezione ogget- tiva), ha di mira la realizzazione della persona in tutte le dimensioni, in tutte le sue capacità. Scopo primario della cultura è coltivare l’uo- mo in quanto uomo, l’uomo in quanto persona, cioè il singolo uomo, in quanto esemplare unico ed irripetibile della specie umana. Obiettivo della cultura — in senso antropologico — è sempre stato quello di fare dell’uomo una persona, uno spirito pienamente svilup- pato, in grado di portare alla completa e perfetta realizzazione quel progetto-uomo che la Provvidenza gli ha consegnato. « Fare di se stessi, dal fanciullo che si è stati da principio, dall'essere mal diroz- zato che si rischia di rimanere, far nascere l’uomo pienamente uomo, di cui si intravede l'ideale figura: tale è l'opera di tutta la vita, l’uni- ca opera a cui questa vita possa essere nobiimente consacrata ».” L'uomo, in quanto essere culturale, non è prefabbricato: egli deve costruirsi con le proprie mani. Ma secondo quale progetto? Quale modello, se ce n'è uno, deve tenere davanti agli occhi? Pla- tone, gli stoici, i neopiatonici dicevano che il suo modello è l'uomo ideale. I Padri della Chiesa, richiamandosi al Vangelo, hanno pro- posto come modello l’imago Dei, cioè Gesù Cristo, il Figlio di Dio incarnato, il grande Pedagogo. Qui emerge l'importanza capitale dell'antropologia filosofica che è l'unica disciplina razionale in grado di determinare chi è l’uomo e di conseguenza di elaborare quel progetto su cui impostare la col- tivazione dell'uomo. Spetta infatti all’antropologia filosofica e non alle scienze particolari rispondere ai grandi quesiti relativi alla na- tura dell'essere dell'uomo, alla sua origine prima e al suo ultimo destino. L'antropologia filosofica ha la possibilità di evidenziare la dimensione spirituale dell'uomo e il suo destino eterno. Essa mette in luce il primato dello spirito sulla materia, dell'anima sul corpo: verità capitale questa per stabilire con esattezza le linee di un pro- getto culturale teso alla piena realizzazione dell'essere dell'uomo. Affinché sia valido, un progetto-uomo deve assegnare il primato alla $ TomMaso D'AQUINO, S. Theol., I, 76, 5 ad 4 m. ' H.I. MARROU, Storia dell'educazione nell'antichità, Studium, Roma 1966, p. 139. 211 L’uomo artefice destinatario ed effetto della cultura L'importanza dell’antropologia filosofica: delinea il primato della dimensione spirituale La cultura ‘forma spirituale della società” Elementi costitutivi della cultura: lingua, costumi, tecniche, valori dimensione spirituale, la dimensione interiore, la dimensione che riguarda la crescita nell'essere anziché nell'avere. 4. La cultura come forma spirituale della società L'accezione oggettiva del termine « cultura » esprime soprattutto la crescita e la creatività del gruppo umano e l'incidenza che esse assumono nel cammino della storia. « Invece del termine cultura, che si riferisce allo sviluppo razionale dell'essere umano considerato in generale, si può ugualmente usare quello di civiltà, che si riferisce a questo stesso sviluppo, considerato però in un caso eminente, cioè nella produzione della città e della vita civile, di cui la civiltà è come il prolungamento e lo sviluppo ».* J. Maritain ci offre con questa riflessione una intelligenza ade- guata della cultura come caratteristica che specifica, unificandoli e distinguendoli, i vari gruppi sociali. Così la cultura è ciò che di- stingue un popolo dagli altri popoli. ‘Intesa come proprietà della società, la cultura viene definita essenzialmente come « forma spirituale della società » e descrittiva- mente come quell'insieme « di oggetti materiali, di istituzioni, di mo- duli di vita e di pensiero che non sono peculiari dell'individuo ma che caratterizzano un gruppo sociale. [...] La cultura è la vita di un popolo, così come si formalizza in contatti, in istituzioni, in apparati tecnologici che sono tipici; essa comprende inoltre concetti, com- portamenti, costumi e tradizioni caratteristici. [...] La cultura quindi significa tutte quelle cose, istituzioni, oggetti materiali, reazioni ti- piche alle situazioni, che caratterizzano un popolo e lo distinguono da altri ».° Da un'accurata analisi della cultura come forma spirituale di una società risulta che dei molteplici elementi che la costituiscono (lingua, letteratura, arte, poesia, religione, istituzioni politiche, giu- ridiche, pedagogiche, sport, macchine, strumenti di lavoro, costumi, leggi, religioni, riti, miti, valori, ecc.) alcuni sono più essenziali, altri meno (per esempio la lingua è più essenziale della scrittura, della matematica; la religione dei riti; i valori morali delle leggi, ecc.) e così si può giungere alla conclusione che gli elementi costitutivi fondamentali essenziali per avere una cultura sono quattro: la lin- gua (che sorregge il pilastro simbolico), le abitudini o i costumi (che sorreggono il pilastro etico), le tecniche (che formano il pilastro tecnologico) e i valori (che rappresentano il pilastro assiologico).! * * J. MARITAIN, Op. cit., pp. 15-16. * W.D. WALLIS, Culture and Progress, McGraw-Hill, New York 1930, p. 32. * Secondo Malinowski e molti altri antropologi le componenti fondamen- tali della cultura sono tre: l'economia, la politica e l'educazione. Con queste attività ogni società riesce a far fronte ai propri bisogni: con l'economia pro- duce, conserva e usa i beni necessari per il proprio sostentamento; con la po- 212 Per acquisire un'idea più adeguata della cultura è necessario analizzare l'apporto dato da ciascuno di questi quattro elementi alla formazione della realtà culturale. 5. Gli elementi fondamentali della cultura Come s'è detto, gli elementi fondamentali della cultura sono quattro: la lingua, le abitudini, le tecniche e i valori. Il primo elemento fondamentale è la lingua. Dove non c'è una lingua non ci può essere una società, non ci può essere una nazione, e pertanto non si può sviluppare nessuna cultura. La lingua è il pri- mo elemento che fa uscire il singolo da se stesso e lo mette in comu- nicazione con gli altri. E il raggruppamento sociale avviene anzi- tutto e soprattutto sulla base di una lingua. Anche i blocchi etnici che si formano all’interno delle nazioni, per esempio, degli operai italiani in ‘Germania, dei portoricani negli Stati Uniti, ecc., hanno per prima causa la lingua. Gli italiani che vanno in Germania non sanno il tedesco e pertanto continuano ad associarsi con i conna- zionali che parlano italiano. In tal modo formano dei blocchi in cui si conserva la cultura e non soltanto la lingua italiana. Ma la lingua da sola non basta per dare origine ad una determi- nata cultura. Ci sono tanti popoli e nazioni che parlano la stessa lingua (per esempio, l'inglese è parlato dagli inglesi, dagli irlandesi, dai canadesi, dagli australiani, dagli americani, ecc.) ma posseggono una cultura diversa. Occorrono altri elementi. Uno assai importante oltre la lingua sono le abitudini. Queste possono riguardare tutto: il cibo, il vestito, il camminare, il gesticolare, l'educazione dei bam- bini, l'attenzione per gli anziani, le credenze religiose, ecc. Nelle abi- tudini si incarna e si esprime lo stile di vita di un popolo, il suo modo di concepire e di affrontare l’esistenza, la visione e l’atteggia- mento peculiare che assume di fronte alla realtà totale: la natura, la società, la sfera del sacro. Le abitudini riguardano il comporta- mento in generale e quindi solo in minima parte cadono sotto l’or- dine morale. Oltre che abitudini comportamentali ogni gruppo umano svi- luppa delle tecniche di lavoro sue proprie. Queste corrispondono alle esigenze dell'ambiente, alla capacità, alla creatività e al livello di civiltà di un popolo. Così gli stessi popoli cacciatori, pescatori, agricoltori, industriali inventano tecniche differenti per pescare, per litica regola i rapporti tra i membri del gruppo sociale; con l'educazione adde- stra e forma i suoi membri secondo gli ideali che sono stati consacrati dalla tradizione del gruppo. La classificazione del Malinowski è corretta se si con- sidera la cultura dal punto di vista funzionale (come insieme di attività volte a provvedere ai bisogni di un gruppo sociale). Se invece si assume il punto di vista ontologico, che intende cogliere ciò che la cultura come forma specifica di una società è in se stessa, allora risulta che i suoi elementi costitutivi es- senziali sono quanto meno quattro: lingua, tecniche, costumi e valori. 213 La lingua mezzo di comunicazione con l’altro Le abitudini: incarnazione della vita di un popolo Le tecniche: espressione delle esigenze dell'ambiente La sfera dei valori: “sapienza di un popolo’ La vita: valore primario di ogni popolo Dibattito sul rapporto tra cultura e altre espressioni simboliche cacciare, per arare i campi, per lavorare i metalli, ecc. Altrettanto fanno i sarti, i cuochi, i falegnami, i giocatori, i maestri, ecc. Ogni cultura porta con sé tutta una serie di stili di ordine tecnico e gli individui che né sono in possesso mostrano chiaramente di fare par- te del gruppo sociale che possiede tale cultura. Così dal modo di giocare, di cantare, di dipingere, di cucinare, ecc., si può facilmente arguire se uno è italiano, francese, russo, cinese, indiano, ecc. Un altro elemento costitutivo fondamentale di ogni cultura sono i valori. Ogni cultura si caratterizza per apprezzamenti speciali in ordine a determinate azioni, abitudini, tecniche, cose. Si tratta di a- zioni, abitudini, tecniche o cose che rivestono straordinaria im- portanza per il gruppo sociale, il quale le assume come criteri, come norme, come ideali. Tutti insieme essi costituiscono la serie dei va- lori. Ogni popolo possiede una coscienza dei valori, che forma anche ciò che si chiama « sapienza di un popolo ». Mediante tale « sapien- za » il popolo riconosce, più o meno intuitivamente, il valore posi- tivo o negativo della realtà, e sa quale deve essere il suo comporta- mento davanti ad essa. In tutte le culture il primo posto nella sfera dei valori è occupato dalla vita. La vita è ciò che conta maggior- mente: è il valore supremo. Gli altri valori come la pace, la giu- stizia, l'onestà, la bellezza, ecc., sono subordinati ad essa. Le abi- tudini, le tecniche e il linguaggio circondano la vita come sostegno, come difesa, come promozione, ecc. Lingua, abitudini, tecniche e valori sono pertanto gli elementi costitutivi fondamentali di ogni cultura. Sulla base di tali elementi ogni popolo sviluppa tutti gli altri aspetti che contribuiscono a conferirgli una sua forma specifica: l’arte, la filosofia, la religione, la scienza, la letteratura, la politica, ecc. 6. Rapporti tra cultura e religione Nel breve excursus attraverso la storia del problema culturale abbiamo visto che nell'ultimo secolo ci sono state vivaci dispute intorno ai rapporti tra la cultura e le altre espressioni simboliche {scienza e religione in particolare), economiche e politiche della società. In realtà molti di questi problemi sono stati mal posti e il loro conflitto è stato determinato dal fatto che essi erano espressioni di presupposti teorici e ideologici molto diversi, determinati proprio dall'ambiguità del termine cultura, ai quali abbiamo già fatto rife- rimento: cultura come erudizione, come formazione (educazione), come struttura (forma spirituale della società). ° Chi tiene conto della condizione piurisemantica del termine cul. tura si avvede immediatamente che mettere a confronto la scienza (oppure la politica) con la cultura è una cosa possibile e legittima se il termine cultura viene inteso nel primo oppure nel secondo sen- 214 so, perché si tratta di dimensioni o complessi totalmente distinti; mentre la cosa diviene impossibile e assurda se la cultura viene presa nel terzo senso; perché secondo questo senso essa ha un valore on- ninclusivo: abbraccia tutte le espressioni tipiche di un gruppo socia- le, tutti i suoi prodotti e quindi anche la scienza e la politica. In tal caso domandare che rapporti intercorrono tra scienza e cultura oppure tra cultura e politica come se si trattasse di due regni di- stinti o di due edifici separati è incorrere in un inutile sofisma. Con questo non intendo sostenere che quando il termine cultura viene usato in senso etnologico la questione risulti del tutto impro- ponibile. La questione è proponibile purché si tenga presente che essa riguarda i rapporti di una parte col tutto; in questo caso i rap- porti della politica oppure della scienza come parti della cultura. Posta in questi termini la questione ha senso e ha anche un peso non indifferente, perché tocca un problema assai importante, e cioè: quale ruolo compete alla scienza oppure alla politica o alla tecnologia in seno al vasto regno della cultura, È in questi termini che intendiamo sollevare qui una questione che ha diviso profondamente gli spiriti in Italia e altrove da oltre un secolo: la questione dei rapporti tra cultura'‘e religione. Nel capitolo dedicato al problema religioso abbiamo visto come dopo Kant la religione sia stata sottoposta a tutta una critica serrata: partendo da posizioni differenti, i materialisti, i vitalisti, gli psica- nalisti, gli esistenzialisti, i neopositivisti, gli strutturalisti hanno cercato di demolire tutte le basi razionali della religione, conside- randola un'interpretazione del mondo infantile, non scientifica, alie- nante e degradante. Queste interpretazioni marcatamente illuministe e razionaliste del fenomeno religioso non potevano non pregiudicare seriamente la questione dei rapporti tra cultura e religione. Così i pensato- ri che si occuparono di questo problema da Nietzsche in poi, men- tre non potevano negare che nelle culture tradizionali la religione aveva sempre occupato un posto importante e aveva svolto un ruolo fondamentale, sostenevano quasi tutti che essa aveva ormai esau- rito la sua funzione storica ed era giunto il momento di dare alla società una cultura senza religione. Questa tesi dei filosofi — favo- rita indirettamente dalle scoperte della scienza e dalle conquiste della tecnologia — fece presa su molti spiriti, che l'accolsero come il nuovo vangelo (il vangelo dell’ateismo). In breve tempo, la reli- gione, ignorata dalle manifestazioni pubbliche e sociali della vita, fu ridotta ad una questione personale, ad un affare privato. Così la religione è scomparsa dalla cultura come forma spirituale della so- cietà. Ma è proprio vero che il sodalizio tra cultura e religione si è di- sciolto per sempre e che, in futuro, la religione non troverà più posto nella cultura come sua componente fondamentale? Molti an- tropologi culturali e molti filosofi lo negano. Per citare soltanto 215 La cultura come valore onninclusivo La cultura e il ruolo delle diverse scienze Rapporto tra cultura e religione Cultura moderna e contemporanea: esaurimento della funzione storica della religione La religione: esigenza della cultura La religione come garante dei valori assoluti e fondamento della cultura la dignità che loro com- pete. Da ciò risulta che tra cultura e religione non si dà nessuna incom- patibilità e si comprende per quale motivo in tutte le culture tradi- zionali la religione rappresenta la dimensione primaria, dominante. È in effetti la religione che facendo da sostegno ai valori assoluti‘ garantisce un sicuro fondamento anche a tutti gli altri elementi del vasto edificio della cultura. Pertanto, per passare dalla filosofia alla storia dei giorni nostri, si può dire che la nostra società secolarizzata ed atea, se vuole uscire dalla crisi epocale che la divora, deve restituire alla religione quel 216 la nuova cultura non vuole ricadere nell'errore gravis- simo della modernità che ha coltivato l’immanenza con l'esclusione della trascendenza, allo stesso tempo non vuole neppure ricadere nell'errore della cultura cristiana medioevale e delle culture orientali che hanno coltivato la trascendenza a spese dell’immanenza. CONCETTI DA RITENERE — Significato elitario, antropologico, pedagogico di cultura — Accezione soggettiva e accezione oggettiva di cultura SINTESI CONTENUTISTICA I. DEFINIZIONE 1. Ii problema culturale si è affermato negli ultimi decenni per lo sviluppo dell'antropologia culturale e per !a crisi epocale che attualmente la nostra civiltà sta vivendo. 2. Cultura è un termine plurisemantico con tre significati e tre usi prin- ‘cipali: — elitario: la cultura come quantità di sapere generale o specifico. — pedagogico: la cultura indica l'educazione globale e progressiva del- Yuomo. — antropologico: ba cultura è l'insieme dei costumi, tecniche e valori che contraddistiaguono un gnippo sociale, una tribù, un popolo, una nazione. Il. lL PROBLEMA DELLA CULTURA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA 1. Fino all’illuminismo si concepiva la cultura essenzialmente come paideia, formazione della persona. Il problema veniva quindi affrontato solo in pro- spettiva antropologica ignorando auella etnologica. 2. Herder e Humboldt, illuministi tedeschi, presero coscienza che la cul- tura è un fenomeno che riguarda anche il gruppo sociale: la cultura è sia il vincolo spirituale che tiene uniti i membri di una nazione sia la realizzazione di un particolare progetto di humanitas. 3. Dalla seconda metà dell’’800 in poi gli etnologi e antropologi, sia europei che americani, elaborano teorie generali sui fenomeni culturali e formulano ipotesi sull'origine, lo sviluppo, i tratti universali, la classificazione, l'assimila- zione, il collegamento tra le parti di una cultura. 217 Una nuova cultura della trascendenza 4. I filosofi affrontano e risolvono i problemi della cultura a partire dalla loro visione della realtà: — Idealisti (Cassirer, Croce, Gentile, Husserl): Ja cultura di un popolo è segnata dalle varie tappe del processo di autocoscienza dell'Assoluto. — Vitalisti (Dilthey, Spengler): la cultura è la massima espressione della vita. — Marxisti (Marx, Lenin, ecc.): la cultura è rispecchiamento delle condi- zioni economiche di una società. — Strutturalisti (Levi-Strauss e Foucault): la cultura è prodotto del Pen- siero inconscio. 5. Negli ultimi anni l’attenzione dei filosofi si è concentrata maggiormente sui fondamenti della cultura, sui suoi elementi costitutivi, sulle sue funzioni, sui valori che la animano, sulla progettazione di una nuova cultura. I caratteri planetari del nostro tempo prospettano l'esigenza di una cultura planetaria, III. L'UOMO COME ESSERE CULTURALE 1. La filosofia moderna ha integrato la concezione classica dell'uomo come essere naturale con l'affermazione che egli è anche essere culturale: diversa- mente dagli altri viventi, il cui essere è interamente prodotto dalla natura, l'uomo è in larga misura l'artefice di se stesso. La cultura è elemento costitu- tivo della natura umana. 2. La cultura nelle sue due principali accezioni di formazione del singolo (accezione soggettiva) e di forma spirituale della società (accezione oggettiva) ha lo scopo di realizzare l’uomo in tutte le sue dimensioni e capacità. 3. Esiste pertanto una profonda interazione tra cultura e antropologia filo- sofica, poiché è quest'ultima che fornisce alla prima le linee secondo le quali tracciare il suo progetto-uomo. IV. 'LA CULTURA COME FURMA SPIRITUALE DELLA SOCIETÀ E I SUOI ELEMENTI FONDA- MENTALI 1 La cultura è anche l'insieme di quei caratteri che specificano, unifican- doli e distinguendoli, i vari gruppi sociali. In questa prospettiva la cultura rap- presenta la vita di un popolo nella sua peculiare identità. 2. L'analisi degli elementi, che costituiscono la cultura come forma spiri- tuale, ha fatto giungere alla conclusione che gli elementi costitutivi fondamen- tali di una cultura sono quattro: la lingua {che sorregge il pilastro simbolico), i costumi (che sorreggono il pilastro etico), le tecniche (che formano il pilastro tecnologico), i valori (che rappresentano il pilastro assiologico). 3. La lingua è il primo elemento che fa uscire il singolo da se stesso e lo mette in comunicazione con gli altri. Il raggruppamento sociale avviene anzi- tutto e soprattutto in base alla lingua. 4. Le abitudini o costumi incarnano ed esprimono lo stile di vita di un popolo, il suo modo di concepire la vita, la sua visione della natura, della so- cietà, del sacro. 5. Le tecniche corrispondono alle esigenze dell'ambiente, alla capacità, alla creatività, al livello di civiltà di un popolo. Ogni cultura porta in sé una serie di stili di ordine tecnico e gli individui che ne sono in possesso mostrano chia- ramente di fare parte del gruppo sociale che possiede tale cultura. . 6. I valori sono caratterizzati da azioni, abitudini, tecniche e cose che rive- stono straordinaria importanza per il gruppo sociale, che li assume come cri- teri, norme, ideali. In tutte le culture il primo posto nella sfera dei valori è occupato dalla vita. 7. Sulla base degli elementi fondamentali ogni popolo sviluppa tutti gli altri aspetti che generano la sua identità: arte, filosofia, religione, scienza, let- teratura, politica, ecc. 218 V. RAPPORTI TRA CULTURA E RELIGIONE 1. Nel passaggio dalla cultura moderna alla cultura contemporanea la reli- gione, progressivamente soppressa dalle manifestazioni pubbliche e sociali della vita e relegata alla sfera della dimensione privata, è scomparsa dalla cul. tura come forma spirituale della società. 2. Tillich, Maritain, Dawson, Niebuhr, Croce, Berger, Luckmann, Guardini, Toynbee sostengono che la religione ricomparirà nell'orizzonte culturale del- l'uomo: infatti la scomparsa della prima determina la disgregazione del secondo. 3. La stessa essenzialità dei valori nella struttura costitutiva della cultura richiede uno stretto rapporto tra cultura e religione, poiché solo quest’uitima è in grado di garantire ai valori quella assolutezza e quella dignità che compete loro. La religione sostenendo i valori assoluti garantisce inoltre anche tutti gli altri elementi del vasto edificio della cultura. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è la cultura e quali significati gli si può dare? 2. Perché l'uomo è chiamato essere culturale? ù 3. Quali sono gli elementi fondamentali della cultura? 4. Quali possono essere considerati i caratteri più propri della cultura contemporanea? 5. Quale rapporto ci può essere ira cultura e storia e tra cultura e re- ligione? 6. Una cultura planetaria a quale progetto-uomo dovrebbe guardare? 7. Quali valori, che possono dirsi smarriti, l'uomo del terzo millennio do- vrebbe impegnarsi a riconquistare? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI ABBAGNANO N., L’uome progetto 2000, Dino Editore, Roma 1980. BARONE F. - Ricossa S., L'età tecnologica, Rizzoli, Milano 1974. BAUSOLA A., Natura e progetto uomo, Vita e Pensiero, Milano 1977. BoBBIo N., Politica e cultura, Einaudi, Torino 1977. CassIRER E., Saggio sull'uomo. 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Tuttavia la strada di ritorno verso i valori sembra essere ria- perta proprio dal malessere esistenziale provocato dalla loro per- dita, cosicché oggi l'assiologia,) ovvero la scienza dei valori, è colti- vata più che nel passato. Un tempo, infatti, il compito proprio dell'assiologia era svolto dalla metafisica, scienza delle « cause ultime », dell’« assoluto », dei « principi supremi », delle « questioni fondamentali ». Il tramonto della metafisica nell'orizzonte speculativo dell'età moderna e con- temporanea ha provocato il progressivo emergere dell’assiologia che, cercando di comprendere la natura dei valori assoluti e di verificarne la consistenza ontologica, realizza di fatto le stesse funzioni della metafisica. Essa si colloca pertanto tra le forme più elevate del sapere umano. In questo capitolo, dopo un breve excursus attraverso la storia dell’assiologia, ci occuperemo delle seguenti questioni: che cosa sono i valori in se stessi? Nell’universo che ci circonda che posto occupano? Quali sono le loro proprietà e le loro funzioni? Qual è la facoltà con cui percepiamo i valori? C'è una gerarchia nel mondo dei valori? Si può operare rina classificazione dei valori? Quali sono i valori che contano di più? Esistono anche valori assoluti? Quali sono? ' Il termine assiolcgia ritrova la sua etimologia nell’aggettivo greco acsios, che significa « valido », « degno ». Indica quindi in senso proprio la riflessione su ciò che è degno di pieno riconoscimento da parte della coscienza umana. 221 Importanza attuale de!lo studio dei valori L’assiologia al posto della metafisica Recente fondazione del problema: la transvalutazione di Nietzsche Lotze: regno dei fatti; regno delle leggi universali; regno dei valori Hartmann e l’ultrarealismo: sussistenza dei valori 1. Informazioni storiche sull’assiologia Dei grandi problemi filosofici quello dei valori è stato messo a tema per ultimo. ‘Esso è diventato oggetto di analisi sistematica ed approfondita — dando origine a quella nuova disciplina che porta il nome di assiologia — soltanto dopo che Nietzsche tentò la famosa operazione della trasvalutazione dei valori con la quale cercava di trasformare la gerarchia dei valori tramandata dalla cultura greca e dal cristianesimo. Nietzsche, infatti, cercò di demolire tutti i valori assoluti della logica (verità), della morale (virtù), della metafisica (essere) e della religione (Dio) facendo vedere che essi erano valori decadenti e alienanti: un vero blocco sulla strada che conduce l’uo- mo verso il traguardo del super-uomo. Al posto dei valori assoluti della logica, della morale, della religione e della metafisica collocò i valori dinamici e mutevoli della vita, una vita che accetta fatalistica- mente e innocentemente se stessa in tutte le sue espressioni. Si può quindi affermare che l’assiologia è nata con Nietzsche anche se il suo padre effettivo è un suo contemporaneo: Rudolf H. Lotze (1817-1881). Questi nel suo capolavoro, Microcosmo, distin- gue tre regni di ricerca: regno dei fatti, regno delle leggi universali, regno dei valori. I primi due riguardano soltanto i mezzi, il terzo i fini. I primi due sono studiati dalla ragione col metodo analitico e possono essere considerati in prospettiva meccanicista. Il terzo è appreso dal sentimento e implica necessariamente una prospettiva spiritualista. Infatti, fondamento ultimo di tutti i valori e valore assoluto esso stesso è Dio: « La realtà vera che è e dev'essere non è la materia e neppure l'Idea hegeliana, ma lo spirito vivente e per- sonale di Dio ». Sulla linea realista tracciata da Lotze si mossero Rickert, Eucken e Hartmann. Nicolaj Hartmann (1882-1950) per quanto concerne lo statuto ontologico dei valori professa una specie di ultrarealismo. I valori, a suo giudizio, non hanno fondamento né nell'uomo né in Dio, bensì in se stessi: sono sussistenti alla pari delle Idee di Platone; essi sono dotati di aseità (Ansichsein). Il valore sussiste indipendentemente ? La filosofia dei valori (l'assiologia) si costituì come disciplina autonoma solo dopo Nietzsche, ma spunti di filosofia dei valori si possono rinvenire lungo tutto il corso della storia della filosofia: in quella greca (Platone e Plotino in particolare), in quella medioevale (Tommaso e Bonaventura) e in quella moderna (Pascal e Kant). Quanto a Nietzsche, a giudizio di Heidegger, il suo pensiero è essenzialmente « una metafisica dei valori ». La metafisica nietzschiana comprende due momenti, negativo e positivo. Nel primo «i valori supremi vengono svalutati ». Quei valori che sono stati ritenuti dalla tradizione del pensiero occidentale come i più alti (l'essere, il vero, il buono, il bello, ecc.) vengono svuotati del significato fondamentale che avevano man- tenuto nel corso dei secoli. Il momento positivo è quello in cui Nietzsche opera il « capovolgimento ». Valore è per Nietzsche tutto ciò che contribuisce al mantenimento e all'aumento della durata della vita, la quale per svolgersi dispone di un solo mondo: il mondo materiale e storico. 222 dall'essere riconosciuto, così come due più due continua a fare quat- tro anche se nessun uomo ne avesse coscienza. Un altro argomento a favore della autonomia dei valori risulta dal fatto che ci si può sbagliare e anche riconoscere d'aver sbagliato nella valutazione dei valori: « Non il valore bensì la percezione del valore è variabile ». Hartmann però rifiuta di dar consistenza ontologica ai valori fon- dandoli in Dio, perché Dio non esiste né può esistere se l’uomo è li- bero. Secondo Hartmann l’esistenza di Dio renderebbe impossibile la libertà e la responsabilità dell’uomo, quindi il valore morale. Alla interpretazione « realista » dei valori si opposero Ehrenfels e altri filosofi tedeschi che sostennero la tesi contraria. Secondo Christian von Ehrenfels (1859-1932) i valori sono semplici stati soggettivi. In un primo tempo li identificò con il desiderio; succes- sivamente incluse come componente essenziale anche la « deside- rabilità »; cosicché il valore comprende sia il desiderio in atto di ciò che non si possiede sia la desiderabilità, cioè il desiderio poten- ziale che sorgerebbe se si venisse a conoscere un determinato oggetto o se se ne fosse privi. Pertanto « il valore — afferma Ehrenfels — è una relazione tra un oggetto e un soggetto, per cui il soggetto o desi- dera effettivamente l'oggetto, o lo desidererebbe nel caso che fosse informato della sua esistenza ». La tesi secondo cui i valori sono semplicemente degli stati soggettivi (gusti personali) — tesi soggettivista — fu categoricamente respinta e vigorosamente criticata da Max Scheler (1874-1928), mas-' simo assiologo del secolo XX. Discepolo di Eucken, Scheler subì so- prattutto l'influsso di Husserl, dal quale apprese il metodo fenome- nologico, di cui fece largo impiego nella elaborazione della sua filo- sofia dei valori. La sua opera principale si intitola Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (Il formalismo in etica e l'etica materiale dei valori), « l'opera di gran lunga più significativa apparsa da molto tempo » {Hildebrand). In effetti, l’analisi fenome- nologica della esperienza morale effettuata da Scheler assumendo la prospettiva assiologica è stata tra le più fertili del pensiero con- temporaneo. Mediante i’elaborazione di un'etica dei valori, in cui si rivendica a questa entità una dimensione ontologica che sfugge a tutte le minacce dello psicologismo, Scheler sottrae la morale a quelle visioni soggettiviste o positiviste che erano diventate di moda alla fine dell'Ottocento: nominalismo, psicologismo, pragma- tismo, formalismo kantiano, idealismo neokantiano, positivismo, ecc. Scheler definisce i valori come « oggetti autenticamente oggettivi, disposti in ordine eterno e gerarchico ». La sua assiologia si carat- terizza pertanto come realista è come gerarchica (in forza della stes- sa definizione che egli offre dei valori) ed inoltre come personalista e teocentrica. ‘Per fissare la gerarchia dei valori Scheler suggerisce i criteri se- guenti: durata, indivisibilità, fondamentalità, soddisfazione e grado di relatività. I valori sono tanto più alti quanto più durano e quanto 223 — Dio rende impossibile il valore morale Von Eherenfelds: soggettività dei valori e desiderabilità Scheler: — etica dei valori e fondazione ontologica — assiologia realistica, gerarchica, teocentrica — valori sensibili, vitali, spirituali, religiosi — modello personale — concretezza del valore — fondamento e garante dell’oggettività dei valori è Dio (teocentrismo) La diffusione dell’assiologia dalla Germania all’Europa sono indivisibili, cioè mentre la partecipazione di più individui a beni di carattere materiale (per esempio, una torta) è possibile sol tanto mediante la suddivisione di tali beni, vi sono opere di eultura e di arte per le quali la fruizione di più individui non richiede tale divisione. Ancora, i valori sono tanto più alti quanto è più profonda la soddisfazione da essi prodotta. Inoltre, il valore che fonda è ovviamente più alto rispetto al valore fondato. Infine, ci sono valori relativi a determinate sfere, come per esempio i valori vitali, e va- lori assoluti, cioè indipendenti da una determinata sfera, come per esempio i valori morali. Grazie a questi criteri Scheler fissa una gerarchia dei valori che comprende quattro livelli: valori sensibili (gradevole-sgradevole), valori vitali (salute-malattia), valori spiri- tuali (vero-falso, buono-cattivo, ecc.), valori religiosi (saero-profano, beatitudine-infelicità, ecc.). La terza caratteristica dell’assiologia scheleriana è di essere per- sonalista. Nella prefazione alla seconda edizione di Der Formali- smus ha scritto: « Il principio fondamentale secondo cui tutti i va- lori debbono essere subordinati al valore di persona [...] è così im- portante per l’autore che egli, nel titolo del libro, ha anche qualif- cato il suo saggio come un “nuovo tentativo di personalismo” ». Il carattere personalista della assiologia scheleriana emerge anche dalla teoria dei modelli personali. Secondo Scheler ai valori danno sostanza, concretezza, si potrebbe dire corporeità, i modelli perso- nali. Così, per apprezzare e seguire il valore-giustizia, occorre guar- dare al Giusto, per il valore-fortezza all'Eroe, per il valore-santità al Santo, ecc. La quarta caratteristica dell’assiologia scheleriana è di essere feocentrica. Per Scheler Dio occupa il primo posto sia come persona sia come valore e fa da fondamento e da sostegno di ogni altra per- sona come pure d'ogni altro valore. « Tutti i valori possibili — scrive Scheler — sono fondati sul valore di uno Spirito infinito e sul “mon- do dei valori” che gli sta di fronte. Gli atti, che comprendono i valori, in tanto comprendono valori assolutamente oggettivi in quanto ven- gono compiuti “in” Lui, e i valori sono valori assoluti soltanto in quanto compaiono in questo regno ». Dal purito di vista fenomeno- logico Dio fonda tutti i valori in quanto lui solo può assicurare loro quell’assoluta oggettività che non può essere garantita mediante una misura valutativa semplicemente umana: soltanto il valore del sa- cro fa sì che l’assiologia trascenda la sfera antropomorfica e a for- tiori quella vitalista. Gli sviluppi più importanti e più originali dell’assiologia ebbero dunque luogo in Germania per merito dei filosofi che abbiamo ricor- dato. Successivamente il problema assiologico destò l'interesse an- che di filosofi italiani (Stefanini e Prini), francesi (Lavelle e Le Senne), spagnoli (Ortega y Gasset), argentini (Derisi), inglesi (Moore), americani (Dewey), ecc. Qui noi riferiremo ancora brevemente sul 224 pensiero di Lavelle e Le Senne in quanto, a nostro avviso, offrond spunti interessanti per la soluzione del problema assiologico. Per Louis Lavelle (1883-1951) il problema assiologico ha un carattere essenzialmente metafisico. Il fatto contingente che talune filosofie dei valori abbiano assunto un carattere antintellettualistico, sentimentalistico e irrazionale, non deve interferire col genuino pro- blema del valore, il quale, al di fuori di ogni moda di tempi e di luoghi, è di competenza della metafisica. Il principio supremo della metafisica teorizzata da Lavelle è l’es- sere, la cui essenza è atto, inteso come perfezione assoluta, efficacia pura, sorgente di ogni determinazione e di ogni valore. Da questo principio si snoda la teoria assiologica del Lavelle. Se « l'essere alla sua radice è atto, cioè interno a se medesimo; se è un sé che è anche un per sé, è evidente che c’è identità fra l'essere e la sua giustifi- cazione. Di qui l'impossibilità di staccare l’ontologia ‘dall’assiolo- gia ». Non a caso la filosofia classica aveva accostato, fino a confon- derle, le due nozioni dell'essere e del bene. Approfondendo il concetto di valore, Lavelle osserva che il va- lore non si identifica col bene, tuttavia esso ha col bene un rapporto analogo a quello che ha l’esistenza con l'essere. Come l'esistenza è l'essere in quanto si incarna e diventa concreto, così îl valore è il bene in quanto riferito a un oggetto di cui facciamo uso, a una vo- lontà che si sforza di coglierlo; e come l’esistenza è l'essere in quanto riceve una forma interiore e individuale, così il valore è il bene, in quanto implica un'attività che tende a realizzarlo. Perciò, mentre il bene ha sempre un carattere assoluto, il valore ha un carattere re- lativo. Ma — avverte Lavelle — su questa relatività del valore oc- corre essere cauti: infatti il valore è nelle cose ciò che esprime la loro relazione all'assoluto; è ciò che permette di elevare all’asso- luto ogni cosa relativa. Pertanto il valore non è una proprietà statica ma fortemente dinamica: esso provoca il soggetto e lo tra- scina all’azione. « L'errore più grave — dichiara Lavelle — è pen- sare che il valore sia un oggetto che si contempla, mentre al contrario è sempre un'azione da farsi e una pratica da seguire ». Nel suo Breviario di metafisica assiologica René Le Senne (1882- 1954) respinge sia il naturalismo sia il nichilismo, e si oppone sia al sociologismo sia allo psicologismo per affermare ad un tempo tan- to la trascendenza quanto l'immanenza, sia il carattere oggettivo che soggettivo dei valori: « Il valore deve, per la sua origine, esserci tra- scendente », ma « tale estrinsecità resterebbe sterile se il valore non fosse fatto per discendere nella nostra esperienza: tale discesa può essere spirituale solo grazie al concorso degli spiriti umani per i quali il valore deve rendersi attuale. [...] Il valore universale deve rinfrangersi e persino frazionarsi secondo la diversità di sfu- mature e la profondità dei tagli consentiti dall'unità e dalla moltepli- cità relativa degli spiriti ». Della filosofia dei valori si sono occupati anche vari neotomisti: 225 Lavelle: — assiologia e ontologia: identità tra l'essere e la sua giustificazione (carattere metafisico) — rapporto analogico tra essere e bene Le Senne: trascendenza del valore I neotomisti: oggettività e fondazione ontologica del valore Difficoltà di definire il valore Il valore in economia, in etica, in ontologia Wittmann, Rintelen, De Finance, Derisi, ecc. Questi filosofi difendono l'oggettività dei valori e escludono sia l’interpretazione psicologistica che riduce i valori a meri sentimenti personali sia l’interpretazione ultrarealistica che fa dei valori realtà sussistenti analoghe alle Idee platoniche. Il valore ha carattere oggettivo in quanto si fonda sul- l'essere. Però, a giudizio di questi filosofi, il valore non costituisce una proprietà trascendentale dell'essere distinta dal bene: sostan- zialmente il valore si identifica col bene, anche se connota più del bene una relazione al soggetto, all'uomo. In effetti, « il valore, qua- lunque esso sia, non ci si rivela pienamente che nell'atto in cui è effettivamente amato, stimolato, desiderato, ecc. [...] Nel desiderio e nell'amore in atto, e lì soltanto, il bene — esercitando la sua causalità propria — si manifesta e diviene, per il soggetto, in “atto ultimo” un valore » (De Finance). 2. Definizione del valore Come tante altre parole dense di significato (ente, realtà, verità, tempo, onore, ecc.) anche la parola « valore » a prima vista sembra chiara, quasi ovvia; ma poi, ad una considerazione più attenta ed approfondita, essa risulta nebulosa, oscura, difficile a definirsi. « Il senso esatto di valore — osserva André Lalande — è difficile da de- finire rigorosamente perché il più delle volte questa parola esprime un concetto instabile, un passaggio dal fatto al diritto, dal desiderato al desiderabile » Nella lingua italiana essa possiede tre significati principali: eco- nomico, etico, ontologico. In economia significa « danaro »; in etica indica la virtù con cui si affrontano gravi pericoli e si compiono grandi imprese; in ontologia dice la qualità per cui una cosa possie- de dignità ed è, quindi, degna di stima e di rispetto: « valore — in questo senso — è ciò per cui un essere è degno di essere, un'azione è degna di essere compiuta ».* Di questi tre significati quello che interessa quando si affronta il problema assiologico è soprattutto l'ultimo, che è senza dubbio il più importante, ma anche il più oscu- ro, il più problematico, il più disputato. Il suo regno è vastissimo: infatti, tutto ciò che è ritenuto prezioso, e che in qualche modo può contribuire al perfezionamento dell'uomo o come singolo o come es- sere sociale, merita stima ed è perciò un valore. Dalla complessità delle questioni relative alla categoria del valore, come risulta anche dall’excursus storico precedente,.quello che ha dato luogo alle dispute più accese e alle soluzioni più di- sparate è il problema dello statuto ontologico dei valori. Per questo »? A. LALANDE, Dizionario critico della filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 977. ‘ R. GUARDINI, Libertà, grazia, destino, Morcelliana, Brescia 1957, p. 85. 226 e anche perché la sua soluzione condiziona praticamente la soluzione di tutti gli altri problemi, lo affrontiamo per primo. 3. Lo statuto ontologico dei valori La questione dello statuto ontologico dei valori si domanda che cosa sono i valori in se stessi: sono entità reali, oggettive come una casa, un tavolo, il Monte Bianco, la luna; oppure sono realtà fittizie, semplici aspirazioni soggettive o ideali astraiti, come una montagna d'oro oppure una società seriza classi? Qui vale la pena precisare che la questione riguarda la categoria del valore in generale e non valori singoli (come la bontà, la verità, la persona, ecc.). Ed è chiaro che si tratta di due problemi distinti come chiedere chi è l’uomo è certamente altra cosa dal domandarsi chi è ‘Pietro, Paolo o Giovanni. D'altronde la questione dello statuto ontologico espressa in forma generale ha senso solo con riferimento al valore in generale, perché solo ad essa si può dare una risposta univoca. Se si solleva con riferimento alle singole cose che sono dotate di dignità assiologica, si possono ottenere un'infinità di ri- sposte, perché ci sono valori reali e valori possibili, valori concreti e valori astratti, valori spirituali e valori materiali, ecc. Dall’excursus storico risulta che tre sono le principali soluzioni che sono state daie alla questione dello statuto ontologico dei valori. La prima afferma che sono entità oggettive, sussistenti in se stesse (Lotze, Windelband, Scheler, Hartmann). La seconda sostiene che i valori sono semplicemente dei sentimenti e perciò non hanno nes- suna realtà propria, ma esistono esclusivamente come fenomeni sog- gettivi, come disposizioni o aspirazioni della psiche (Meinong, Ehren- fels, Freud). La terza considera il valore né come una entità a sé stante né come un fenomeno soggettivo, bensì come una proprietà trascendentale dell'essere e lo identifica generalmente con il classico trascendentale del bene (De Finance, Lavelle, Hammer). A mio avviso nessuna di queste tre soluzioni è adeguata, anche se ciascuna esprime una parte di verità. La verità parziale sottolineata dalla prima è l’obiettività del valore; quella messa in luce dalla seconda è il suo rapporto col soggetto, l'uomo; quella indicata dalla ierza è il suo rapporto col bene. Si tratta effettivamente di tre pro- prietà dei valore, ma nessuna di esse esaurisce tutta la sua realtà. Ma, allora che cosa è il valore in se stesso? Il valore è un trascen- dentale, come afferma la terza teoria, cioè è una qualità che appar- tiene all'essere in quanto tale, e perciò è presente in ogni cosa come gli altri trascendentali (unità, bontà, verità, bellezza). È una pro- S Per le posizioni personali della maggior parte degli autori ricordati in questo capoverso si veda: C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia dei valori, Guida, Napoli 1973. 227 I valori: entità reali o fittizie? Il problema vale per il valore in generale Tre soluzioni: — entità oggettive- sussistenti — sentimenti — proprietà trascendentale dell'essere Il valore: proprietà dell’essere Il valore è un trascendentale a sé Proprietà comuni agli altri trascendentali: — coestensività — convertibilità prietà trascendentale e non predicamentale: è cioè una proprietà universale che accompagna tutte le cose e non è ristretta ad una sola classe di esseri, ad una sola categoria. Il valore è un trascendentale perché di tutte le cose si può chiedere sensatamente se è un valore: dell’aria come dell’acqua, del sole come delle stelle, di una bambola come di un pallone, di un libro come di un quadro, di una capra come di un elefante, di un fiume come di una montagna, ecc. Mentre non si può sensatamente chiedere se il fiume è una montagna, se la capra è un elefante, ecc. Nel regno dei trascendentali il valore occupa un posto a sé, distinto da quello occupato dal bene, dal vero, dal bello. Infatti il valore è la dignità di una cosa, non la verità, non la bontà e neppure la bellezza. Il valore è una facciata dell'essere distinta dalle altre tre grandi facciate; tant'è vero che in noi mette in moto una facoltà di- versa da quelle che sono interessate alle altre tre facciate: la verità mette in moto la conoscenza, la bellezza, l'ammirazione e il piacere; la bontà il desiderio e la volontà; mentre il valore, la dignità di una cosa ci provoca alla estimazione, alla valutazione. Come trascendentale il valore ha in comune con gli altri trascen- dentali alcune proprietà importanti. Anzitutto la coestensività con l'essere: là dove c'è essere c'è valore e dove c'è valore c'è essere. Il valore non si distingue dall'essere e dagli enti (cioè dalle incarna- zioni dell'essere) fisicamente, materialmente e neppure realmente; perché separare il valore dall'essere significa distruggerio, sprofon- dandolo nell'abisso del nulla. Il valore si distingue dall'essere concet- tualmente, logicamente, il che non vuol dire arbitrariamente, perché si tratta di una distinzione concettuale fondata nell'essere stesso, nel- la sua pluriprospetticità rispetto alle nostre facoltà e alle nostre

possibilità. Il valore esprime una modalità dell'essere che l’accom- pagna necessariamente e non accidentalmente; la sua dignità, una modalità che nel nome puro e semplice dell'essere o degli altri tra- scendentali rimane inespressa” Una seconda proprietà del valore, in quanto trascendentale, è di essere convertibile con l'essere e con gli altri trascendentali: verità, bontà, bellezza. Coestensivo con l'essere è necessariamente coesten- sivo con gli altri trascendentali che sono a loro volta coestensivi con l'essere. E, dato che anche tra gli altri trascendentali e l'essere si dà soltanto una distinzione logica e non una distinzione reale, ne segue che, per quanto concerne la realtà, tutti i trascendentali coincidono, pur restando logicamente e necessariamente distinti tra di loro. Per questo motivo, grazie alla convertibilità, nell'essere e negli enti tanto c'è di vero altrettanto c'è di buono, tanto c’è di buono altrettanto c'è di bello, e tanto c'è di buono, di vero e di bello e altrettanto c'è di valore. £ Su questa proprietà dei trascendentali vedi S. ToMmMASO D'AQUINO, De veritate, q. I, a. l. 228 Una terza proprietà che il valore ha in comune con gli altri tra- scendentali è la relazione bipolare: il valore ha due poli, un polo soggettivo e un polo oggettivo. Per quanto si dice che il valore è una correlazione: correlazione tra dignità ed estimazione, analoga alla correlazione tra verità e conoscenza, tra bontà e desiderio, tra bel- lezza ed ammirazione. Che il valore abbia bisogno di due poli e che si tratti effettivamente di una correlazione tra due poli, risulta dal fatto che è un trascendentale, cioè una modalità dell'essere (e non una fetta di essere), che non spunta dall'essere da sola come un ramo dal tronco di un albero, ma solo in rapporto ad una facoltà di un es- sere intelligente e grazie alla sua azione. E come il vero nasce dal rapporto dell'essere con la conoscenza, il buono dal svo rapporto con il desiderio o la volontà, il bello dal suo rapporto cor l'ammira- zione, così il valore nasce dal suo rapporto con la estimazione. Come tutti gli altri trascendentali, anche il valore possiede due dimensioni, una soggettiva ed una oggettiva. Tali dimensioni deri- vano immediatamente e direttamente dalla sua proprietà di essere una correlazione. Con questo si vede quanto siano infondate ed errate sia la teoria degli psicologisti, che riducono il valore al sen- timento, sia quella dei platonici che fanno dei vaiori delle realtà sussistenti. Anzitutto il valore gode della prerogativa dell’oggettività, e a provario ci vuol poco. Basta tener presente la verità che il valore è una proprietà trascendentale dell'essere (che è l’oggettività per essenza). il valore è radicato nell'essere; è una facciata dell'essere, è uno dei suoi aspetti fondamentali e più interessanti. Ti valore è og- gettivo come è oggettiva la verità, come è oggettiva la bellezza, come è oggettiva la bontà. Ma c'è anche un secondo argomento che con- ferma l'esattezza di questa assegnazione: dell’oggettività ai valore. In quanto trascendentale il valore è oggettivo perché non è una creazione e neppure un'arbitraria invenzione della psiche umana. Ci sono valori creati dall'uomo, ma non il valore come proprietà fon- damentale dell'essere. Non si può parlare seriamenie di creazione del valore da parte dell'uomo. L'uomo può produrre oggetti, cose, ma non il loro valore. L'attività creatrice dell'uomo è volta agli og- getti non ai valori; può produrre una bella statua, ma non il valore artistico; può compiere una buona azione, ma non generare il valore della bontà; può inventare la radio, ma non il valore delle comu- nicazioni. L'uomo può solo produrre oggetti di valore non il valore. Cosicché gli oggetti e le azioni di valore, per quanto concerne la di- mensione del valore, rinviano ad un fondamento diverso dall'uomo e a lui superiore. Del resto, quanto meno in rapporto a determinati valori, l’uomo ha la sensazione netta di non esserne l’inventore e il padrone, bensì il servo e il discepolo. Di fronte a valori quali la giustizia, la verità, la saggezza, la prudenza, l’amore, la bontà, ecc., l’uomo si sente più passivo che attivo: sono valori che agiscono su di lui; lo guidano, lo provocano, lo stimolano, lo attraggono, lo 229 — relazione sipolare Ls due gdimensioni diei valori: oggettiva e soggettiva Valore come proprietà trascendentale dell'essere I valori fanno crescere l’essere dell’uomo Il polo soggettivo: ia stima è valore senza l’uomo resta inespresso Necessità di un’educazione della facoltà dei valori elevano e lo arricchiscono. Non è l'uomo che comunica l'essere ai valori, ma viceversa sono i valori che contribuiscono a far crescere l'essere dell'uomo. L'uomo ha indubbiamente il potere di scoprire i valori ma non il potere di crearli. « Ogni vero valore porta in se stesso il suo significato. La “fortezza” è appunto fortezza e, in quanto fenomeno originario, non può essere derivato da nessun altro. Perciò l'uomo la può realizzare solo muovendo da essa, in quanto agisce “fortemente” e diviene “forte” ». Ma per avere il valore non basta il polo oggettivo: la dignità dell'essere; occorre anche quello soggettivo: la stima da parte del- l’uomo. Come non c'è bellezza senza ammirazione, né verità senza conoscenza, né bontà senza volontà, così non fiorisce la dignità dell'essere o di un ente senza l’estimazione. In effetti, il valore emerge nel momento in cui c'è un soggetto, l’uomo, che compie un atto positivo di valutazione, di estimazione e che, così, riconosce la dignità di una cosa, di una persona o di un'azione (analogamente alla verità: questa emerge nel momento in cui una intelligenza cono- sce una cosa). Il valore, senza l’uomo, rimane inespresso, occulto, celato: non risplende; è come un sovrano senza sudditi, vale a dire non esiste più come sovrano. Può rimanere il regno dell'essere, ma scompare il regno dei valori. Si può dire che il valore, in quanto trascendentale, è essenzial- mente dotato sia di oggettività sia di soggettività. Possiede oggetti- vità perché è fondato sull'essere. Il valore non è una chimera ma un aspetto primario, fondamentale, costante, perenne dell’essere e degli enti. Però il valore è oggettivo non alla maniera di una cosa, diuna sostanza e tanto meno alla maniera di un'idea sussistente, ma alla maniera di una relazione. Ed è oggettivo perché il primo termine della relazione assiologica è appunto l’essere. Ma il valore è anche dotato di soggettività, perché il secondo ter- mine della relazione assiologica è il soggttto: l'uomo o un altro es- sere intelligente. In forza del polo soggettivo il valore può sbocciare soltanto dove c'è predisposizione e preparazione per accoglierlo, per riconoscerlo. I colori sono oggettivi ma i sassi non li vedono. Ci vuole la vista per percepirli. Certi odori o profumi sono oggettivi ma ci vuole un particolare addestramento per avvertirli (cani da caccia, cani poliziotto, ecc.). Altrettanto accade per i valori. La dignità del- l'essere e degli enti, ia dignità della natura e degli animali, la dignità della famiglia e della patria, la dignità dell'uomo e la dignità di Dio è indubbiamente oggettiva ma per coglierla occorre un'adeguata educazione della facoltà dell’estimazione da parte del soggetto, da parte dell'uomo. Senza un'appropriata educazione della facoltà dei valori, in particolare quando si tratta di valori assoluti, trascendenti, pe- renni, si perde la capacità di percepirli. Allora i valori si offu- ? R. GUARDINI, Libertà, grazia, destino, Morcelliana, Brescia 1957, p. 85. 230 scano, si eclissano, scompaiono. È, purtroppo, quanto sta suc- cedendo nella nostra cultura e nella nostra società. 4. Gerarchia e classificazione dei valori Dopo avere chiarito che il valore è una relazione trascendentale dotata di un polo soggettivo e di un polo oggettivo e che il primo affonda le radici nell'uomo e il secondo nell'essere, possiamo risol- vere due complesse questioni assiologiche, che hanno visto i filosofi diversamente schierati circa le questioni delia gerarchia e delia classificazione dei valori. a) La gerarchia dei valori - Nel campo del valore, come nei campi della bontà, della bellezza e della verità vi è una varietà di gradi (rispetto al valore non tutte le cose e ie azioni stanno alla pari, ma ci sono quelle che hanno maggior valore e quelle che hanno minor valore) e c'è pertanto una gerarchia, ia quale presenta al ver- tice un valore massimo, con dignità piena, assoluta, totale, incon- dizionata, perenne, mentre alla base, cioè sui gradini più bassi, pre- senta valori con poca dignità: una dignità caduca, relativa, condizio- nata, parziale, provvisoria, evanescente. Che rispetto al valore, come rispetto al bene, alla verità e alla bellezza esistano dei gradi pare cosa abbastanza ovvia; perché se il valore è una proprietà trascendentale dell'essere, essendoci grada- zioni nell'ordine dell'essere, ci sono gradazioni anche in quello del valore, e certo nell'ordine dell'essere ci sone gradazioni: non c'è pa- rità di essere tra un lombrico e un cane, e ira un cane ed una donna! Il grado del valore corrisponde a quello dell'essere. Quanto più ele- vato è il grado di essere che una cosa possiede, tanto più grande è il suo valore. E che questo sia vero lo conferma anche il fatto che, obiettivamente parlando, noi riconosciamo maggior valore ad un animale che ad un pezzo di legno, ad un bambino che ad un cane, ad una persona che ad una cosa. Ma se il principio della gradazione dei valori risulta abbastanza ovvio, non si può dire altrettanto della ijoro gerarchia. In effetti, su questo punto, ancor più che altrove, non solo non si registra nessun accordo nella prassi quotidiana, ma neppure nelia speculazione degli studiosi. I filosofi dei valori hanno proposto scale gerarchiche molto disparate (basta confrontare la scala di Nietzsche cor quella di Scheler, o la scala di Marx con queila di Lavelie!}. Questo perché nel fissare le loro gerarchie hanno assunto prospettive spesso diametral- mente opposte. A mio avviso c'è un criterio valido per stabilire una gerarchia og- gettiva e completa dei valori. S'è visto che i valori non sono entità astratte, cose in sé, ma dimensioni della realtà, più esattamente re- lazioni, che hanno vitale, capitale importanza per l'uomo. I vaiori 231 Varietà di gradi 6 gerarchia i Corrispondenza ira grato cCell’essere e grad dei valore Disaccordo sulla Gerarchie dei valori Criterio di riferimento: il valore e la realizzazione del progetto-uomo Progetto-uomo e dimensione religiosa: Dio al vertice Valori economici, culturali, spirituali sono le guide, i mezzi che lo aiutano a realizzare il proprio progetto di umanità. Ecco, quindi il criterio per stabilire la gerarchia dei valori: il criterio è fornito dall’apporto che una cosa, una persona, un'azione può dare alla realizzazione del progetto-uomo e del valore- uomo. Una realtà occupa uno scalino tanto più elevato nella gerarchia dei valori, quanto maggiore è il suo apporto in tal senso, e tanto più basso quanto minore è il suo contributo. In effetti, le gerarchie dei valori sono state stabilite da quasi tutti gli studiosi con questo criterio. E se le gerarchie risultano disparate e contrastanti, lo si deve semplicemente al disaccordo che regna tra i filosofi intorno al progetto-uomo. Se si accetta il progetto nietzschiano si ottiene una gerarchia che ha al vertice la volontà di potenza; se si accoglie il progetto marxista il primo posto nella gerarchia dei valori tocca al lavoro; se si assume il progetto freudiano si elabora una gerarchia fondata sul primato del piacere. Invece, un progetto-uomo che — per essere fedele a tutti i dati della nostra esperienza — tiene conto anche della esperienza della trascendenza e perciò non trascura né soffoca la dimensione religiosa, non può non collocare al vertice della scala dei valori che Dio stesso. Lui — già degno della massima stima, rispetto e lode in se stesso — è anche degno della massima considerazione in rapporto al pro- getto-uomo, perché Egli solo è in grado di assicurare all'uomo l’at- tuazione piena del proprio progetto di umanità. Un progetto-uomo studiato sulla base di una visione globale di ciò che l'uomo è e di ciò che nel piano di Dio è chiamato a diventare, riesce non solo ad accertare che Dio è il valore sommo e che sta quin- di in cima alla scala gerarchica dei valori, ma è anche in grado di individuare, sempre in base al progetto-uomo, gli altri gradini più importanti, perché sa che l'uomo è costituito essenzialmente di tre dimensioni: corpo, anima e spirito. Dopo Dio, vengono pertanto altri tre ordini di valori, che sono quelli che contribuiscono alla realizzazione del progetto-uomo a livello somatico, a livello psichico e a livello spirituale: si tratta dei valori economici, dei valori cultu rali e dei valori spirituali. I valori economici o vitali sono quelli che contribuiscono alla pre- servazione della vita e alla conservazione, sviluppo, salute e piacere del corpo. I valori culturali, in senso stretto, sono quelli che con- tribuiscono immediatamente alla coltivazione, crescita, elevazione dell'anima o più esattamente della mente. I valori spirituali sono quelli che giovano alla cresciia, allo sviluppo e al perfezionamento dello spirito. Qui è opportuno notare — per non incorrere nell’accusa di' sog- gettivismo — che scegliere l'uomo come punto di riferimento nella determinazione della gerarchia dei valori è altra cosa dal fare del- l'uomo la misura, il metro dei valori o il loro creatore. I valori han- no la loro consistenza ed autonomia e si trovano ad un livello più o meno elevato rispetto all'uomo secondo la loro dignità intrinseca 232 e secondo il contributo che danno alla realizzazione del progetto- uomo. Certo, il riferimento al progetto-uomo spiega ancor meglio quella dimensione soggettiva che è propria del valore, di cui si è detto in precedenza: perché colui che coltiva e incarna i valori non è la natura in astratto, ma l'individuo concreto (Pietro, Paolo, Luca, Carlo, ecc.), la persona storica, la quale per la realizzazione del pro- prio progetto di umanità può essere maggiormente interessata ad alcuni valori (economici, spirituali, culturali) che ad altri. Né l'assunzione del progetto-uomo come criterio per stabilire la scala dei valori fa scomparire la distinzione fondamentale tra valori assoluti (che sono quelli che hanno dignità e sono meritevoli di stima e di rispetto in se stessi e non in ordine ad altri valori) e valori strumentali (che hanno dignità e sono meritevoli di stima solo in quanto giovano alla realizzazione dei valori assoluti). La distinzione rimane salva (anzi, più salva che mai), perché la realizzazione di un valore assoluto partecipato, qual è l'uomo, reclama l’esistenza di valori assoluti sussistenti, in particolare di quel valore assoluto sussistente, fondamento ultimo di ogni altro valore, che è Dio. b) Classificazione dei valori - Il regno dei valori è immenso: pra- ticamente abbraccia ogni pensiero, ogni azione, ogni cosa e ogni per- sona. È possibile allora effettuare una classificazione dei valori? Pare di sì e molti autori ci hanno provato. Una delle classificazioni più note è quella di Scheler, la quale riduce tutti i valori a quattro gruppi principali: valori edonistici, vitali, spirituali e religiosi. Questa classificazione è buona per distinguere, come in effetti voleva Scheler, i vari gradi dei valori, ma non serve per determinare le gran- di aree assiologiche. A tal fine credo che si riesca ad ottenere una classificazione più adeguata distribuendo i valori in dieci grandi gruppi. Si tratta di una classificazione empirica, ma abbastanza sod- disfacente in quanto riesce a trovare una sistemazione a tutto ciò che possiede una dimensione assiologica. I dieci gruppi sono: 1. valori ontici (il primo valore è l'essere); 2. valori personali (il primo è la persona); 3. valori sociali (il primo è la famiglia); 4. valori economici (il primo è il lavoro); 5. valori culturali (il primo è la cultura); 6. valori somatici (il primo è il corpo); 7. valori noetici {il primo è la verità); 8. valori estetici (il pri- mo è la bellezza); 9. valori morali (il primo è la bontà); 10. valori re- ligiosi (il primo è il sacro). Come si vede in ogni gruppo c’è un valore primario, un valore principe, un capofila. Intorno ad ogni valore primario si dispone una costellazione più o meno grande di altri valori che appartengono allo stesso ordine e partecipano alle qualità del valore primario. Così, tutto ciò che gode della perfezione dell'essere partecipa anche al suo valore e diviene pertanto un valore ontico. E quanto più grande è la perfezione di una cosa in rapporto all'essere tanto più elevato è il suo valore ontico. Sono dotate di valore ontico le piante, le 233 Progetto-uomo e dimensioni soggettive La classificazione dei valori secondo Scheler Valore primario e costellazione di valori Gruppo di valori e scienza principale Percezione dei valori: col sentimento o con i‘ intuizione? Percepire i valori con la facoltà estimativa case, i fiumi, i laghi, ie persone, la terra, il cielo, la natura..., Dio, Valore assoluto in tutti gli ordini e fondamento di ogni altro valore, Dio è il primo (non in quanto prototipo ma in quanto fuori serie) anche nell'ordine ontico. Per lo studio di ogni singolo gruppo di valori esiste una scienza principale, che è quella che si occupa direttamente del valore pri- mario, e tutta una serie di altre scienze, che sono quelle che studiano gli altri valori della stessa costeliazione. Così per esempio, per il primo gruppo c’è la metafisica, che si occupa direttamente e prima- riamente dell'essere. A fianco della metafisica per lo studio dei vari gradi dell'essere siedono la teologia (che studia Dic), l'astronomia {che studia i corpi celesti), la fisica (che studia la natura), la ma- tematica (che studia i numeri), l'antropologia (che studia l’uomo). 5. La facoltà dei valori Qual è la facoltà con cui percepiamo i valori? Anche questo è un problema che è stato molto dibattuto dai filosofi dei valori e le soluzioni che sono state proposte sono varie. Secondo aicuni la facoltà dei valori è il sentimento. Questo però viene inteso da alcuni come una disposizione totalmente soggettiva (come quella che percepisce il piacere, il dolore, la gioia, ecc.), men- tre da altri viene considerato come un sentimento del tutto speciale, che ha una intenzionalità squisitamente oggettiva. Secondo altri fi- losofi la facoltà dei valori è l'intuizione: una specie di visione in- tellettiva, che coglie immediatamente i valori, così come la visione sensitiva coglie immediatamente i colori. Noi siamo del parere che il valore sia, come gli altri trascenden- tali, oggetto di una facoltà particolare. Come la verità è oggetto della conoscenza, il bene della volontà e del desiderio, la bellezza dell’am- mirazione, così dev'essere anche del valore. Ma qual è la sua facoltà? Forse il sentimento, oppure l'intuizione? Non v'è dubbio che l’in- tuizione interviene in alcuni casi e un sentimento del tutto parti- colare (l’empatia) in altri. Ma in generale non direi che la facoltà che percepisce il trascendentale del valore o la dimensione assiolo- gica di una determinata cosa o di una certa azione sia il sentimento oppure l'intuizione, bensì la facoltà valorativa e cioè l’estimativa, che è altra cosa sia dal sentimento sia dall’intuizione, pur non esclu- dendoli. L'estimazione, cioè la percezione dell'essere o di un ente come va- lore, non è né una semplice intuizione (nuda riproduzione dell’og- getto come nella percezione della verità) né puro sentimento {cioè un rapporto affettivo ed emozionale come nella tendenza appetitiva verso un bene). L'estimazione, come s'è detto, li può comprendere en- trambi, senza tuttavia risolversi né nella prima né nel secondo e neppure nella simbiosi di tutt'e due. 234 Il valore è l'oggetto proprio dell’estimativa, così come il colore Io è della vista, il sapore del gusto, la verità della conoscenza, il bene della volontà, la bellezza dell’ammirazione. L’estimativa co- glie l'oggetto come più o meno degno, più o meno valido, così come il gusto lo coglie come più o meno gradevole, l'udito come più o meno rumoroso, l'intelligenza come più o meno evidente, la volontà come più o meno buono o utile, l'ammirazione come più o meno bello. E non può essere che così perché, come abbiamo mostrato in pre- cedenza, la dimensione dell'essere che viene alla luce attraverso il valore è una dimensione diversa da quelle che emergono attraverso la verità, la bellezza e la bontà, ed è logico che come queste tre ci inter- pellano ciascuna mediante una distinta facoltà, altrettanto accada per il valore: la sua facoltà è l'estimativa. ‘Per il costituirsi della categoria del valore l’estimativa è indi- spensabile. Dove non c'è apprezzamento, estimazione, si danno bruta facta, oggetti, cose; non affiorano ancora i valori. Alla pari della facoltà gnoseologica (che coglie la verità), etica (che coglie la bontà) ed estetica (che coglie la bellezza), anche la facoltà assiologica opera in diversi modi a seconda del livello (grado) dei valori che è in gioco. Ai diversi gradi di valore corrispondono dif- ferenti operazioni assiologiche. Nel caso dei valori materiali si può realizzare un’estimazione in base ad una semplice intuizione della cosa oppure di un'analisi ed un processo raziocinativo più o meno prolungato. Nel caso dei valori assoluti sussistenti (Dio, la Trinità, ecc.), l'estimazione è sostenuta dal ragionamento oppure dalla fede. Nel caso dei valori morali (prudenza, castità, coraggio, fedeltà, ecc. spesso interviene l’empatia, una specie di giudizio per connaturalità. Ciò succede quando tali valori sono avvertiti come rispondenti alle nostre più intime aspirazioni — in questo sta la loro connaturalità. Sono valori per i quali sentiamo una profonda sintonia, un’intima corrispondenza col nostro progetto di umanità e sono perciò in grado di condurlo verso una sua realizzazione più piena. La facoltà dell’estimazione che ci mette a contatto con i valori comprende tre funzioni: quella del capitare velorativamente che co- glie i singoli valori; quella del preferire che ne stabilisce la gerarchia e quella dell'aspirare che porta alla scoperta di nuovi valori e pre- cede il captare e il preferire come una specie di pioniere o di esplo- ratore. L'uomo è naturalmente dotato della facoltà valorativa, così come è naturalmente doiato della facoltà conoscitiva, appetitiva ed este- tica. Ma alla pari di queste facoltà anche quella valorativa va col- tivata. Come l'intelligenza perché possa conoscere la verità dev’esse- re istruita e come la volontà, perché possa scegliere il bene autentico, va educata, altrettanto l'estimativa, perché si apra all’apprezzamen- to e all'assimilazione dei valori dev'essere guidata ed ammaestrata. In tutte le sue facoltà l’uomo è essenzialmente educabile e col- 235 La facoltà estimativa coglie l’oggetto nel suo valore Valori materiali: estimazione per intuizione o per analisi Valeri assoluti sussistenti: estimazione e fede Valori moraii: estimazione ad La funzione deil’estimazione: — Captare valorativamente — preferire — aspirare Necessità di coltivare la facoltà valorativa Il ricorso all'esperto Necessità di una nuova assiologia tivabile. Ciò è dovuto al fatto che nasce più come un progetto aperto che come un’opera finita. E, dato che abbiamo visto che la realiz- zazione del progetto-uomo dipende soprattutto dalia scelta dei va- lori, l'educazione dell'estimativa, cioè della facoltà dei valori, as- sume capitale importanza. L'educazione non occorre per tutti i gradi di valore. Così, per esempio, per certi valori vitali (come l’aria, l’acqua, il pane) la valutazione è istintiva e non c'è bisogno di edu- cazione. Non così per la maggior parte dei valori appartenenti al li- vello culturale e al livello spirituale. Anche per essi ci può essere un impulso istintivo o empatico. Così l'uomo nasce con una specie di apprezzamento istintivo delia verità, della bontà, della giustizia, delia solidarietà, della castità, ecc. Ma senza un'adeguata coltiva- zione tale impulso facilmente si indebolisce e si perde. C'è di più. Nel campo degli apprezzamenti e delle valutazioni è molto facile errare e, così, molto spesso si trovano in circolazione pseudo-valori. Per questo motivo, per stabilire quali sono i valori autentici e quali quelli inautentici, è necessario ricorrere agli e- sperti, agli specialisti. Quando si tratta di perle preziose, di monete antiche, di francobolli rari non ci fidiamo di noi stessi e ricorriamo al giudizio di un perito. Perché non si deve fare altrettanto per quei valori che contano di più per la realizzazione del progetto-uomo, i valori spirituali, trascendenti, perenni? Già Aristotele diceva che, nel caso dei valori etici, è bene ricorrere al giudizio dell'uomo sa- piente. Ciò che urge maggiormente nella nostra società culturalmente di- sorientata è una nuova assiologia che sappia restituire il primato che loro compete ai valori assoluti, trascendenti, perenni e, conse- guentemente, una nuova pedagogia altamente umanistica che faccia risplendere la luce di tali valori alle menti dei giovani, menti che avvertono istintivamente la dignità dei valori perenni e sentono fortemente il loro fascino e sono pertanto naturalmente inclinati ad assumerli come guida della propria esistenza, come componenti essenziali del proprio progetto di umanità. CONCETTI DA RITENERE — Assiologia; trasvalutazione; sentimento; aseità — Statuto ontologico; ultrarealismo; tesi soggettivistica — Assiologia realistica, gerarchia, personalistica, teocentrica — Valori sensibili, vitali, spirituali, religiosi — Assiologia metafisica — Trascendentale; estensività; convertibilità; relazione bipolare — Sentimento; intuizione; empatia; estimativa — Captare valorativamente; preferire; aspirare SINTESI CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA E LE SUE CARATTERIZZAZIONI STORICHE 1. Il problema ha assunto particolare rilievo nel nostro tempo. La scienza dei valori ha sostituito la metafisica e i suoi interrogativi sulle ragioni ultime della realtà, ponendo l’accento sulla natura dei valori assoluti e sulla loro con- sistenza ontologica. 2. L'assiologia ha assunto dignità speculativa in tempi relativamente re- centi, dopo che Nietzsche ha teorizzato la sua trasvalutazione, demolendo i valori assoluti della logica (verità), della morale (virtù), della metafisica (esse- re), della religione (Dio). 3. Padre della assiologia è Rudolf H. Lotze (1817-1881). Nel suo capolavoro, Microcosmo, egli distingue il regno dei fatti, il regno delle leggi universali, il regno dei valori. I primi due riguardano i mezzi, il terzo i fini. I primi due sono suscettibili di interpretazione meccanicistica, il terzo è appreso dal sen- timento. Fondamento ultimo dei valori e valore assoluto per eccellenza è Dio. 4. N. Hartmann (1882-1950) è assertore di un ultrarealismo assiologico: i valori hanno il proprio fondamento in se stessi. Essi sono sussistenti, sono dotati di aseità. Hartmann, peraltro, nega l’esistenza di Dio, poiché secondo lui l’esistenza di Dio vanificherebbe la libertà e la responsabilità dell'uomo e quindi il valore morale. i 5. C. von Ehrenfels {1859-1932) è assertore al contrario del soggettivismo assiologico: il valore comprende sia il desiderio in atto di ciò che non si pos- siede sia la desiderabilità, desiderio potenziale di un determinato oggetto. 6. Max Scheler (1874-1928), massimo teorico dell’assiologia, influenzato dal- la fenomenologia di Husserl, elabora un'etica dei valori (I! formalismo in etica e l'etica materiale dei valori) a fondamento ontologico. L’assiologia di Scheler è realista, gerarchica, personalista e teocentrica: — Realista: i valori sono oggetti autenticamente oggettivi, secondo un ordine eterno e gerarchico. — Gerarchica: a) i criteri sono la durata, l’indivisibilità, la fondamentalità, la soddisfazione, il grado di relatività. b) i quattro livelli della gerarchia sono: valori sensibili, vitali, spirituali, religiosi. — Personalista: a) la persona è il valore ai quale debbono essere subor- dinati tutti i valori. b) i modelli personali danno concretezza ai valori: ad esempio il Giusto, l’Eroe, il Santo, ecc. — Teocentrica: tutti i valori sono fondati sul valore di uno Spirito infinito e sul « mondo dei valori » che gli sta di fronte. 7. L'interesse per l'assiologia si è diffuso successivamente in Italia (Stefa- nini e Prini); in Francia {(Lavelle e Le Senne); in Spagna (Ortega y Gasset), in Argentina (Derisi), in Inghilterra (Moore), negli Stati Uniti (Dewey). 8. L. Lavelle (1883-1951) elabora una assiologia di carattere metafisico: l'essere — la cui essenza è atto, perfezione assoluta, efficacia pura — è sorgente e determinazione di ogni valore. Ne consegue un legame inscindibile tra assio- logia e ontologia. Il valore ha, pertanto, con il bene un rapporto analogo a quello che intercorre tra l'essere e l’esistenza: così come l'esistenza è l’essere che si concretizza, il valore è il bene in quanto riferito a un oggetto di cui fac- ciamo uso, il valore è il bene in quanto implica un'attività che tende a realiz- zarlo. Il valore è una proprietà dinamica che trascina il soggetto all'azione. 9. R. Le Senne (1882-1954) afferma sia l'immanenza che la trascendenza del valore, sia il suo carattere oggettivo che quello soggettivo. 10. I neotomisti Wittmann, Rintelen, De «Finance, Derisi ed altri difendono 237 l’oggettività dei valori, che essi considerano fondati sull'essere. Il valore non costituisce però una proprietà trascendentale dell'essere distinta dal bene, ma si identifica con esso. II. DEFINIZIONE DEL VALORE 1. Nella lingua italiana la parola « valore » possiede tre significati princi- pali: economico, etico, ontologico. In economia significa denaro, in etica virtù, in ontologia indica le qualità che danno dignità a una cosa. 2. Il terzo significato è quello che interessa l’assiologia che riconduce im- mediatamente alla complessa questione dello statuto ontologico dei valori. LO STATUTO ONTOLOGICO DEI VALORI 1. I valori sono entità reali, oggettive; oppure sono realtà fittizie, aspira- zioni soggettive o ideali astratti? La storia dell'assiologia indica tre piste interpretative: a) oggettività e sussistenza dei valori (Lotze, Windelband, Scheler, Hart- mann); b) soggettività e fondazione sentimentale o psicologica dei valori (Meinong, Ehrenfels, Freud); c) il valore come proprietà trascendentale dell'essere, identificato con il bene (De Finance, Lavelle, Hammer); d) un'ultima interpretazione può essere elaborata a partire da elementi delle prime tre: il valore è un trascendentale, che nel regno dei trascendentali occupa un posto a sé: esso è la dignità di una cosa. In quanto trascendentale ha in comune con gli altri trascendentali alcune proprietà: — Coestensività con l'essere: dove c'è essere c'è valore e dove c’è valore c'è essere. Il valore esprime una modalità dell'essere che lo accompagna ne- cessariamente. — Convertibilità: poiché la distinzione tra l'essere e i suoi trascendentali è solo logica e non ontologica, tutti i trascendentali coincidono: tanto c'è di vero, altrettanto c'è di buono, di bello, di valore. — Relazione bipolare: il valore ha un polo soggettivo e uno oggettivo: a) oggettività: 1) il valore è radicato nell'essere; '2) il valore è scoperto dall'uomo, ma non è creato dall'uomo; b) soggettività: il valore emerge nel momento in cui l'uomo lo scopre. IV. GERARCHIA E CLASSIFICAZIONE DEI VALORI 1. Il grado del valore corrisponde a quello dell'essere: quanto più elevato è il grado «li essere che una cosa possiede, tanto più grande è il suo valore. 2. Il criterio per stabilire la gerarchia dei valori è fornito dall’apporto che una cosa, una persona, un'azione può dare alla realizzazione del progetto uomo e del valore uomo. Un progetto-uomo globale che tenga conto di tutte le dimensioni dell’uomo e del suo bisogno di Dio apre alla seguente gerarchia di valori: — valori economici o vitali: contribuiscono alla preservazione della vita e alla conservazione del corpo. — valori culturali. contrilsuiscono alla coltivazione, all’elevazione della mente. — valori spirituali. giovano alla crescita, al perfezionamento dello spirito. 3. La classificazione dei valori più nota è quella formulata da Max Scheler: valori edonistici, vitali, spirituali, religiosi. Questa classificazione distingue i vari gradi dei valori, ma non determina le aree assiologiche, in relazione alle quali è possibile produrre la seguente classificazione: Valori;- Primo valore ontici > essere personali persona — sociali famiglia — economici + lavoro — culturali -+» cultura — somatici «— corpo — noetici —verità — estetici — bellezza — morali  bontà — religiosi  sacro LA FACOLTÀ DEI VALORI 1. Secondo alcuni filosofi la facoltà che percepisce il valore è il sentimento, inteso secondo alcuni come una disposizione totalmente soggettiva, secondo altri come una intenzionalità oggettiva. Per altri ancora la facoltà dei valori è l'intuizione. 2. Il valore sembra comunque essere più propriamente oggetto dell’esti- mativa: infatti, dove non c'è apprezzamento, estimazione i valori non emergono. L'estimativa comprende tre funzioni: a) captare valorativamente: cogliere i singoli valori; b) preferire: stabilire la gerarchia; c) aspirare: scoperta di nuovi valori. 3. L'uomo è naturalmente dotato della facoltà valorativa, che al pari delle altre facoltà va coltivata. Se per i valori vitali la valutazione è istintiva, per i valori culturali e spirituali è necessario l'intervento dell'educazione. “ QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa sono i valori? Quando è sorta l'assiologia? 2. Chi è stato il massimo teorico dell’assiologia? 3. Perché l’assiologia viene chiamata realistica, gerarchica, personalistica e teocertrica? 4. Chi sono stati altri grandi studiosi dei valori? 5. La parola « valore » quali significati ha nella lingua italiana? 6. Qual è lo statuto ontologico dei valori? 7. Quali sono le gerarchie e la classificazione dei valori? 8. In che modo, con quali facoltà percepiamo i valori? 9. È legittimo stabilire delle correlazioni tra l’assiologia, il problema sto- rico, quello politico e la riflessione sulla scienza? 10. È possibile ritenere che l'assiologia possa restituire alla cultura tecno- logico-scientifica il senso del sacro e del mistero? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Il problema del valore, Atti del XII Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, Morcelliana, Brescia 1957. Aa.Vv., Il valore - La filosofia pratica fra metafisica, scienza e politica, Li- breria Gregoriana Editrice, Padova 1984. BATTAGLIA F., I valori tra la metafisica e la storia, Zanichelli, Bologna 1967. CAMPANALE D., Scienza, ontologia e valore, Bari 1963. FERRAROTTI F. {a cura di), Forme evolutive dei valori nel quadro della mo- bilità odierna di grandi gruppi umani, Angeli, Milano 1982. 239 HARTMANN N., Introduzione all'ontologia critica, Guida, Napoli 1972. ILAMBERTINO A., Max Scheler: fondazione fenomenologica dell'etica dei va- lori, Firenze 1977. MAGNANI G., Itinerario al valore in R. Le Senne, Gregoriana, Padova 1971. MARCHELLO G., Valori e tecniche di avvaloramento - Studi sull'etica dei valori, Giappichelli, Torino 1972. MonpIN' B., Il valore uomo, Dino, Roma 1983. Paci E., Pensiero, esistenza e valore, Principato, Milano 1940. Rizzo A,, Infinito e persona - Ermeneutiche cristiane di fronte alla crisi di senso, Iarma, Roma. Romano P., Ontologia del valore, studio storico critico sulla filosofia dei valori, CEDAM, Padova 1949. Rosso C., Figure e dottrine della filosofia dei valori, Guida, Napoli 1973. ScHELER M., L’eterno nell'uomo, Fabbri, Milano 1972. StoETZEL J., I valori del tempo presente. Un'inchiesta europea, SEI, Tori- no 1984. 240 Parte seconda: I SISTEMI FILOSOFICI PRINCIPALI * Come si vede qui di seguito i primi sistemi filosofici presentati sono quelli della Grecia antica. Ci si è posti il problema del perché la filosofia, come forma di sapere organizzata spesso in modo che possiamo chiamare scientifico e come ricerca di una spiegazione or- ganica ai problemi dell'universo, si sia sviluppata inizialmente pres- so i greci, e precisamente nei territori fuori della Grecia in cui si era trapiantata la civiltà greca. Perché non ci furono scuole filosofiche nelle altre più antiche ci- viltà medio-orientali, quali quella egiziana, assiro-babilonese, persia- na, o in quella ebraica? Esaminando queste civiltà si possono riscon- trare in ciascuna di esse elementi filosofici, inseriti specialmente in insiemi dottrinari di carattere religioso e che pertanto non possono essere definiti filosofici nel senso stretto della parola. Inoltre, per il mancato sviluppo di una vera mentalità filosofica, sono da sottolinea- re le differenti situazioni politiche in cui si sono sviluppate le varie civiltà, che normalmente avevano regimi autocratici o teocratici, con il dominio assoluto dei monarchi o dei loro rappresentanti sul resto della popolazione; e questo aveva impedito un libero sviluppo del pensiero individuale. Nel secolo VIII e VII la Grecia aveva sviluppato, a contatto con altri popoli del Medio Oriente, le sue particolari doti di intrapren- denza in attività commerciali ed industriali, creando un vero impero commerciale, con numerose colonie, specie nell'Italia meridionale (la Magna Grecia). L'aristocrazia terriera che aveva nella madre patria dominato sino ad allora, aveva perso pian piano potere a vantaggio degli artigiani e dei commercianti e tutto ciò aveva sviluppato una nuova forma di governo, quella repubblicana delle città-stato, in cui tutti i cittadini partecipano alla cosa pubblica. È l’inizio della democrazia. * Per notizie sulla vita e le opere dei filosofi, vedere la Parte terza. Per quanto riguarda le date di nascita e morte di gran parte dei filosofi dell'anti- chità, per mancanza di dati precisi, esse si devono ritenere approssimative. 241 Nelle colonie insediate e diffusesi fuori della Grecia, il sorgere della democrazia fu facilitato dalla mancanza di una aristocrazia terriera, padrona del potere politico; al suo posto dominavano in- vece coloro che si erano dati al commercio, traendone ricchezze e benessere. Questa fiorente attività commerciale li aveva messi in contatto con le grandi civiltà orientali, da cui avevano saputo attin- gere con intelligenza il meglio delle conoscenze scientifiche ed aveva permesso la fioritura delle arti e delle scienze. Si era perciò sviluppato in tutto il mondo greco il senso dell’osservazione, dello studio e della ricerca ed aveva portato ad un libero dibattito, nei vari campi. Pertanto le prime scuole filosofiche si erano sviluppate, prima che nella madrepatria, nelle città dell'Asia minore e della Magna Grecia. I filosofi che facevano capo a queste scuole in generale erano scienziati (matematici, astronomi, medici, ecc.) che però allo stesso tempo indagavano intorno a sé per cercare di trovare un principio unitario di tutte le cose, e per conseguire questo obiettivo ricorre- vano sia alla mitologia che alla speculazione razionale. 1. Scuola ionica o di Mileto Fondatore: TALETE (624-562 a.C.) Dottrine principali: La ricerca di questa scuola, che è stata la più antica scuola greca di filosofia, sorta a Mileto, sulla costa dell'Asia minore, verso il VII e VI secolo a.C., è volta a dare espressione filosofica al problema del- l'esistenza di una causa suprema di tutto. Il principio viene quindi individuato di volta in volta in un elemento naturale o materiale: acqua, aria, fuoco... Maggiori esponenti: TALETE, il quale pone l'acqua come principio da cui traggono origine tutte le cose per condensazione o rarefazione. :ANASSIMANDRO (610-546 a.C.), matematico e astronomo di Mileto, il quale va oltre Talete e pone come principio primo qualcosa di indeterminato (apeiron). Il suo eterno movimento determina nella materia, per separazione, i contrari. ANASSIMENE (585-527 a.C.), discepolo di Anassimandro, il quale ripone il principio primo nell'aria, eterna e in continuo movimento. 2. Scuola pitagorica Fondatore: PITAGORA (571-490 a.C.) Dottrine principali: La scuola pitagorica sviluppatasi a Crotone, nella Lucania, 242 era composta da discepoli di Pitagora (nato a Samo da cui do- vette fuggire per motivi politici) uniti insieme con uno scopo di vita comune. La ricerca scientifica era considerata come mezzo a servizio di questa comunità. Della prima scuola pitagorica si conosce solo il nome del fondatore Pitagora, e questo per la segretezza che circondava la vita di quella comunità che viveva con un codice mo- rale impegnativo. Anche i pitagorici, come gli ionici, sono impegnati alla ricerca del principio unitario, ma superano il primitivo prin- cipio unitario di natura. Per essi, il principio delle cose e la sostanza dell'universo è il numero. La monade (dal greco monàs = unità) è il termine usato dai pitagorici per indicare l'unità originaria dalla quale deriva la serie dei numeri. Dai numeri, con una serie di pas- saggi, si arriva alle figure solide; da queste derivano i singoli corpi i cui elementi costitutivi sono il fuoco, l'acqua, la terra e l'aria. Per Pitagora l'anima è immortale perché trae origine dall’etere che è incorruttibile; essa è composta dall’intelligenza, dalla ragione e dal- l'impulso passionale. 3. Scuola eleatica Fondatore: PARMENIDE (520-440 a.C.) Dottrine principali: Secondo Parmenide, l’unica realtà è l'essere; nessuna altra realtà è possibile, neppure il divenire come diceva invece Eraclito di Efeso, in Asia minore, vissuto nella stessa epoca. Infatti, o una cosa è o non è. Se è, non può divenire perché è già. Se non è, non può divenire perché dal nulla non si può ricavare che il nulla. In tal modo veniva rilevaia la correlazione tra l'essere e il pensiero. Maggiori esponenti: ‘PARMENIDE, di Elea, colonia greca in Lucania, scrisse il poema Della Natura. Egli è considerato il primo grande metafisico. ZENONE, di Elea (vissuto nel V sec. a.C.), scrisse il poema Sulla Natura. La dottrina dell’« è » parmenideo si trasforma in quella di una realtà, che non può essere molteplice e si presenta come l'« uno » assoluto. È stato un formidabile dialettico, noto per i suoi paradossi. 4. Scuola atomista Fondatore: DemocRITO (460-370 a.C.) Dottrine princi pali: Democrito di Abdera, in Tracia, sostiene sia l'immutabilità del- l'essere, sia la realtà del divenire. L'essere è costituito da atomi, 243 che sono particelle invisibili e immutabili, immerse nel vuoto. Dal movimento degli atomi derivano tutte le cose, secondo un meccanico determinismo. Queste particelle non hanno nessuna qualità eccetto l’impenetrabilità; differiscono fra loro solo per fi- gura e dimensioni. L'anima umana è costituita da atomi leggeri e sottili, di carattere igneo. Il fondatore della « scuola atomistica » di tipo fisico scrisse molte opere, andate tutte perdute. Per lui la felicità non consiste nel piacere dei sensi ma nell'armonia della ragione e nella pace dell'anima, la tranquillitas animi che deriva soprattutto dal non darsi troppo da fare, né per faccende private né per quelle pubbliche, dal sapersi accontentare di una condizione moderata. 5. Scuola sofista Fondatore: PROTAGORA (480-410 a.C.) Dottrine principali: I sofisti si caratterizzano come una corrente filosofica alla ri- cerca dell’arte del persuadere invece che della ricerca della ve- rità. Essi sollevarono per primi la questione se l’uomo avesse o no la capacità di conoscere l’intima natura delle cose e la legge morale assoluta. La loro risposta fu che l'uomo non le può conoscere, perché la realtà e la legge naturale stanno al di sopra delle capacità conoscitive dell'uomo. Quindi tutto quello che l’uomo conosce in filosofia e in etica è prodotto della sua coscienza. Da qui il famoso detto dei sofisti: « L'uomo è misura di tutte le cose ». Quindi: non è possibile una conoscenza vera, ma solo probabile; non c'è una legge morale assoluta, ma solo leggi convenzionali, In questa dimensione empirica della conoscenza umana il piacere si pone come unico traguardo per l’uomo. Maggiori esponenti: PRroTAGoRA di Abdera, in Tracia: sostiene che non c’è nessuna verità assoluta. L'uomo interpreta a suo modo e a suo vantaggio i dati della sensazione. Il sapiente, ossia il sofista, con l’arte della per- suasione, fa sì che appaiano migliori non le opinioni più vere, ma le più vantaggiose. Protagora insegna una morale convenzionale, ma non arbitraria, basata sui princìpi divini del rispetto e della giu- stizia che Giove ha comunicato a tutti gli uomini. Gorgia (484-375 a.C.) di Lentini, in Sicilia, spinge il relativismo di. Protagora verso il più radicale scetticismo. La sua filosofia so- stiene che: l'essere non esiste; una cosa è il pensare, altra cosa è l'essere; la parola detta è altro dalla cosa significata. Conclusione: bisogna rendersi conto che ciò che appare è solo probabile. Altri esponenti della scuola sofista sono: ProDpIco di Ceo ed IPPIA di Elide. 244 6. Scuola eclettica o fisico-pluralista Fondatore: EMPEDOCLE (483-423 a.C.) Dottrine princi pali: Questa scuola viene chiamata pluralistica o « eclettica » per- ché si propone di selezionare e raccogliere il meglio delle teorie sino ad allora conosciute. Empedocle, di Agrigento, sostiene che la causa ultima delle cose risiede in 4 elementi (terra, fuoco, aria e acqua), che sono originari e immutabili e che il divenire è causato dalla lotta tra due forze primordiali: Amore e Odio. L'altro grande rappresentante di questa scuola è Anassagora (500- 428 a.C.) il quale sostiene che l'essere è costituito da corpuscoli qua- litativamente diversi. Il divenire è causato dal moto rotatorio e dalla Mente Suprema che è costituita anch'essa di materia. 7. Scuola socratica Fondatore: SOCRATE (469-399 a.C.) Dottrine principali: Il convincimento fondamentale di Socrate è che si danno va- lori assoluti sia nell'ordine gnoseologico che in quelli metafi- sico ed etico. In questo egli si oppone ai sofisti, i quali sosteneva- no che tutto è relativo: le opinioni cambiano da individuo ad individuo, i costumi da città a città, da popolo a popolo. Invece, se- condo Socrate, esistono principi assoluti, verità eterne, leggi morali immutabili ed eguali per tutti. A suo giudizio la vita umana merita e dev'essere vissuta in obbedienza a tali valori etici e metafisici, an- che se questo può esigere enormi sacrifici, perché l'uomo è destinato a raggiungere la sua piena realizzazione soltanto dopo la morte, al- lorché l’anima si libera dal peso del corpo. Fermo oppositore dei sofisti, si occupa essenzialmente delle cose umane, ma raggiunge risultati ben diversi: l'immortalità dell'anima, la possibilità di giun- gere al concetto universale, l’uso efficace del metodo induttivo. Per Socrate è essenziale la distinzione di male e bene; la felicità consiste nella pratica della virtù. Maggiori esponenti: ‘SOCRATE nacque e visse ad Atene; si dedicò alla ricerca, volendo insegnare agli uomini la verità. Non ha lasciato alcuno scritto. ANTISTENE ( V-IV sec. a.C.), il quale esaspera l'ascetismo di Socrate esigendo un totale distacco dai beni materiali e l'assoluta indipen- denza dalle vicende di questo mondo. Da lui prese il via la scuola cinica. ArISTIPPO di Cirene (V-IV sec. a.C.), il quale accentua talmente l'assenza di valore per quanto concerne il mondo materiale, il corpo, 245 le passioni, i piaceri sensibili, da ritenere che sia perfettamente in- differente occuparsi di loro ed assecondarli. A lui fa capo la scuola cirenaica. EucLIDE di Megara (450-380 a.C.), il più fedele discepolo di So- crate: egli, che fu influenzato anche da Parmenide, considera il bene come l'unica realtà e fa consistere la felicità nella pratica della vir- tù. È il fondatore della scuola megarica. PLATONE, il quale è certamente il massimo esponente del socra- tismo, ma col suo possente ingegno gli conferisce una struttura fi- losofica più solida e soprattutto originale, dando origine ad uno degli indirizzi più significativi della storia della filosofia. 8. Scuola platonica Fondatore: PLATONE di Atene (427-347 a.C.) Dottrine principali: L’intuizione fondamentale del filosofo ateniese è la dottrina delle Idee, cioè la convinzione che, esistendo il mondo sensibile, deve esistere anche il mondo intelligibile, che di quello è la causa e il modello. A dimostrazione dell’esistenza del mondo intel- ligibile egli adduce tre argomenti: della reminiscenza, della vera conoscenza, della contingenza. Le principali proprietà delle Idee sono: semplicità, incorporeità, immutabilità, eternità. Non tutte le Idee hanno lo stesso valore ontologico. Circa la concezione di Dio Platone è convinto che Dio costituisce un grande mistero. L'origi- ne del mondo sensibile è attribuita al demiurgo (Artefice sovrano). La caratteristica dominante del pensiero platonico è il dualismo. Platone considera il mondo materiale come un mondo decaduto ed alienato, una riproduzione imperfetta, una imitazione malfatta, una partecipazione limitata di un mondo ideale, perfetto, eterno, incor- ruttibile, divino, il mondo delle Idee. Questo dualismo si riflette in tutti i settori della filosofia: in logica, dove si segue il procedimento dialettico; in gnoseologia, in cui si svaluta la conoscenza sensitiva riducendola alla funzione di ravvivare il ricordo delle Idee (teoria della reminiscenza); in psicologia, con la identificazione dell'uomo con la sola anima, spirituale ed immortale, considerando il corpo una prigione ed un ostacolo alle attività dell'anima; in etica, dove si or- dina un rigido controllo, anzi la completa soppressione degli istinti, delle passioni, onde rendere possibile il distacco dell'anima dalla prigione del corpo e la contemplazione delle Idee; in estetica, con la svalutazione della commedia, della tragedia e delle arti figurative, perché non giovano alla elevazione dello spirito; in politica, con la divisione della società in classi e l'assegnazione del governo al filosofo-re. 246 Maggiori esponenti: Il platonismo costituisce il massimo filone della storia della filo- sofia; esso ha avuto validi rappresentanti in tutte le epoche: in quelia ellenistica con la Vecchia e la Nuova Accademia e con il Neo- platonismo (PLoTINO [205-270]; in quella patristica (con CLE- MENTE ALESSANDRINO [150-215], OriceNE [185-254], BasiLIo [330- 379], S. AgcostINno [354-430], Pseupo-DioNIGI i[V sec.], Boezio [480- 524]; in quella scolastica (con S. ANsELMO [1033-1109], BoNAVENTURA [1221-1274], Cusano [1401-1464]; in quella moderna (con CARTESIO [1596-1650], MALEBRANCHE [1638-1715], Vico [1668-1744], LEIBNIZ [1646-1716], SCHELLING [1775-1854] e HegeL [1770-1831]). 9. Scuola aristotelica Fondatore: ARISTOTELE di Stagira, in Tracia (384-322 a.C.) Dottrine princi pali: La visione filosofica di Aristotele si caratterizza per lo sforzo di cogliere la realtà in modo unitario (contro il dualismo di Platone) e, allo stesso tempo, per il tentativo di ricondurre le cause ultime di tutto ciò che è mutevole e contingente ad un principio unico tra- scendente. A tal fine Aristotele postula quattro cause fondamentali: la materia e la forma (per spiegare la struttura intrinseca delle realtà corporee), l'agente e il fine (per spiegare l'origine delle co- se e il loro dinamismo). Egli si vale di questi principi per risol- vere tutti i massimi problemi: problema cosmologico (composizione ilemorfica delle cose, ossia esse sono costituite di materia e forma, le quali si trovano in rapporto di potenza e atto); problema teleologico (il dinamismo delle cose e il loro divenire sono causati dal Primo Motore Immobile, che è il loro fine ultimo); problema antropologico (l'uomo non è solo anima, come affermava Platone, ma è il risultato dell'unione sostanziale di anima e corpo, la prima concepita come forma e il secondo come materia; l’anima, tuttavia comprende un elemento spirituale, divino, immortale); problema gnoseologico (la conoscenza intellettiva si fonda su quella sensitiva, in quanto le idee si ricavano dalle sensazioni mediante il procedimento astrat- tivo); problema metafisico (la metafisica è il sapere più importante ed elevato, perché studia l'essere in se stesso e ha di mira la scoperta delle cause ultime delle cose); problema etico (la perfetta felicità e la piena realizzazione del proprio essere, per l'uomo, non può con- sistere solo nella contemplazione delle Idee, ma esige anche un adeguato soddisfacimento dei sensi, perché l'uomo è essenzialmente costituito di corpo oltre che di spirito); problema teologico (esiste un Essere supremo, che è la causa ultima d'ogni divenire in qua- lità di Motore Immobile). Aristotele ha realizzato una grandiosa costruzione filosofica. Ele- 247 menti validi di questa sono soprattutto un efficace metodo di ricerca (logica) e la forma espositiva, un'analisi acuta degli elementi costi- tutivi del mondo fisico, una visione realistica del mondo e dell’uomo, ed infine un'acuta concezione per il suo tempo della trascendenza di Dio. Maggiori esponenti: La scuola fondata ad Atene da Aristotele (e chiamata anche peri- patetica, perché Aristotele insegnava nel corridoio [peripatos] del lyceum, sacro ad Apollo Licio) in un primo tempo non ebbe nessun esponente di rilievo e così il pensiero del maestro cadde ben presto in oblio. Riemerse tuttavia prepotentemente durante il Medioevo, prima nel mondo arabo e poi in quello cristiano. Dall'incontro del pensiero aristotelico con l’islamico uscì la Scolastica araba (AVICENNA [980-1037] e AverRoÈ [1126-1198]); mentre dall'incontro col cristiane- simo sorse la grande Scolastica cristiana (ALBERTO Magno [1205- 1280], S. Tommaso [1225-1274], Ruscero BACONE [1214-1293], DUNS Scoro [1265-1308], OccaM [1290-1349]). Anche nel Rinascimento (con Pomponazzi [1462-1524] e TELESIO [1509-1588]) e agli inizi del- l'epoca moderna (con Locke [1632-1704]) questa scuola continuò ad avere validi rappresentanti. 10. Scuola stoica Fondatore: ZENONE di Cizio (336-274 a.C.) Dottrine principali: Lo stoicismo è il movimento filosofico più originale dell'epoca ellenistica, sorto dopo la nascita dell'impero di Alessandro Magno, e che ha avuto la:maggiore durata di tempo rispetto alle altre scuole filosofiche dell'antichità; è essenzialmente una dottrina morale, la quale fa consistere la felicità e quindi il fine ultimo dell’uomo nella pratica della virtù e nel rifiuto di qualsiasi concessione ai sensi e alle passioni. Però esso comprende anche alcune importanti dottrine sul- la conoscenza e sulla struttura del cosmo. Per quanto concerne il problema gnoseologico, gli sioici si allontanano sia da Platone che da Aristotele per il modo di concepire la verità. Mentre per Platone e Aristotele essa consiste essenzialmente nella perfetta corrispon- denza tra la rappresentazione mentale e la situazione reale delle cose, per Zenone e i suoi discepoli sta nella totale comprensione o catalessi dell'oggetto, per cui la mente è costretta all’assenso. Per quanto concerne il problema cosmologico, il mondo, secondo gli stoici ri- sulta costituito di due elementi primordiali, la materia ed il Logos. La prima, essendo indefinita ed inerte, rappresenta il principio pas- sivo; il secondo, essendo animato e pieno di energia, rappresenta il principio attivo. 248 Maggiori esponenti: Lo stoicismo, fondato alla fine del IV secolo a.C., continua a fiorire fino ad oltre il III secolo dopo Cristo. Altri esponenti di questa scuola, che si chiama stoica perché l'insegnamento era tenuto da Zenone sotto i portici (stoà) di Atene, sono: CRISPINO (281-208 a.C.), SENECA (4 a.C.-65 d.C.), EPITTETO (50-138) e MARCO AURELIO (121-180). 1i. Scuola epicurea Fondatore: EpPicuRo di Samo (341-260 a.C.) Dottrine principali: Davanti ai grandi problemi filosofici l’epicureismo assume una posizione di netto contrasto con lo stoicismo, rifiutandone il rigo- rismo etico e lo spiritualismo antropologico e metafisico. L'epicurei- smo sviluppa, pertanto, una concezione materialistica per quanto concerne i principi primi delle cose (tutte le cose, compresi gli dei e le anime, sono costituiti di atomi e vuoto); meccanicistica riguardo ai fenomeni della natura i quali sono ascritti esciusivamente al moto e alla sua legge; sensistica per il problema della conoscenza, che è tutta ricondotta alle facoltà sensitive, mentre il concetto viene con- siderato come semplice anticipazione (prolessi) del futuro; edoni- stica per quanto riguarda il problema morale: la felicità, il bene supremo dell'uomo consiste nel piacere (edoné). Maggiori esponenti: L'epicureismo ha avuto sempre dei seguaci, ma soprattutto nel mondo romane con Lucrezio (98-54 a.C.) e Orazio (65-8 a.C.) e nel mondo rinascimentale con VALLA (1407-1457) e MONTAIGNE (1533- 1592). 12. Scuola neoplatonica Fondatore: PLOTINO di Licopoli, in Egitto (205-270) Dottrine princi pali: Viene chiamato « neoplatonismo » il movimento filosofico che riprende e sviluppa, dal III al VI secolo dopo Cristo, le dottrine platoniche. Questa scuola, fondata ad Alessandria d'Egitto da Am- monio Sacca, fu sviluppata dal suo discepolo Plotino che poi si trasferì a Roma, dove aprì una scuola che ebbe grande successo. L'impegno maggiore della riflessione filosofico-religiosa di Plotino riguarda l'Assoluto e i nostri rapporti con Lui. Valendosi di sugge- stioni che gli venivano dall’ebraismo e dal cristianesimo, ch'egli bene conosceva, il pagano Plotino è in grado di superare i limiti 249 materia, che in tal modo si trova all'estremo opposto dell’Uno e del Bene e per questo si identifica col male. Al processo di emanazione fa riscontro un processo di ritorno e di riassorbimento delle cose nell’Uno. L'attuazione dell’epistrofé (ri- torno) spetta all'uomo, il quale la realizza percorrendo tre tappe: ascetica o catarsi (mediante l'esercizio delle quattro virtù cardinali), contemplazione (conoscenza dell’Uno mediante la filosofia) ed estasi (unione mistica, immediata, con l'Uno). Maggiori esponenti: ‘Profondo è stato l'influsso dei pensiero di Plotino su tutta la filo- sofia medioevale e moderna. Tra i maggiori esponenti ricordiamo i discepoli PoRFIRIO (232-303) e ProcLOo (410-485) (due filosofi pagani), PsEupo-DroNIGI (V sec.) e Boezio (480-524), l'arabo AvICENNA (980- 1037), NiccoLò Cusano (1401-1464) e MarsiLio FIcINO (1433-1499), e i moderni LEIBNIZ (1646-1716), ScuELLING (1775-1854) e HEGEL (1770-1831). 13. Scuola agostiniana Fondatore: AgostINo d'Ippona (354-436) Dottrine principali: La visione filosofica agostiniana è frutto della esigenza di trovare una base razionale per la fede cristiana. Per conseguire questo obiet- tivo Agostino fa ricorso alla filosofia di Platone e, in tal modo, ottiene una visione che viene giustamente qualificata come platonismo cri- stiano. In effetti in tutti i problemi fondamentali la matrice platonica è chiaramente riconoscibile: nel problema della conoscenza con la dottrina della illuminazione; nei problema antropologico con la so- stanziale identificazione dell'essere dell’uomo con l’anima; nel pro- blema metafisico con la teoria delle verità eterne (idee) e delle ragioni seminali cioè queile impresse sino dalla creazione; nel problema etico con la dura condanria di ogni piacere sensibile e delle passioni e di tutto ciò che appartiene al mondo naturale. Però, nella visione ago- stiniana, gli elementi platonici non costituiscono dei blocchi isolati, 250 ante e con- clusivo. Alla visione agostiniana resteranno fedeli tutti i medioevali sino a San Tommaso, e molti altri dopo di lui: basti ricordare i nomi di ANSELMO (1033-1109), Uco (1096-1141) e RICCARDO DI S. VITTORE (1123-1173), BERNARDO (1090-1153). Dominante è l’elemento agostinia- no nei pensatori francescani: BONAVENTURA (1221-1274), ALESSANDRO DI HALES (1180-1245), DuNnS ScoTo (1265-1308). Sulla scia di Agostino si muovono anche alcuni grandi filosofi moderni, in particolare CARTESIO (1596-1650) e Vico (1668-1744). Al vescovo di Ippona si ri- fanno infine LuTERO (1483-1546) e CaLvino (1509-1564). 14. Scuola tomista Fondatore: ToMMaso d'Aquino (1225-1274) Dottrine principali: ione dell'essere negli enti è dovuta ad una potenza, ossia all'essenza. Quindi negli enti si dà una distin- zione reale tra essere ed essenza; tra i singoli enti, come pure tra gli enti e l’Essere supremo, c'è analogia ossia semiglianza, perché sono tutti imparentati con la stessa perfezione. Alla luce della sua con- cezione dell'essere Tommaso risolve tutti i principali problemi filo- sofici: il problema epistemologico (la verità consiste nella corrispon- 251 denza tra il pensiero e l'essere); il problema teologico (Dio è l’ipsum esse subsistens); il problema cosmologico (il mondo trae origine per creazione mediante una comunicazione dell’essere da parte di Dio); il problema antropologico (l'anima umana è naturalmente immor- tale in quanto possiede un atto di essere suo proprio indipendente- mente dal corpo); il problema politico (come in Aristotele, viene affermata l'origine naturale dello Stato che è una società perfetta; però l'altra società perfetta, cioè la Chiesa, ha la preminenza, in quanto il fine di questa è il « bene soprannaturale » dell’uomo). Maggiori esponenti: Il pensiero tomista ha avuto poi rappresentanti di grande va- lore del secolo XVI (il Caretano [1468-1533], SUAREZ [1548-1617], DE VITORIA [1483-1546]) e nel secolo XX (card. MERcIER [1851-1926], GiLson [1884-1978], MARITAIN [1882-1973], RAHNER [1904]). 15. Scuola francescana Fondatore: BoNAVENTURA da Bagnoregio (1221-1274) Dottrine principali: Il pensiero dei maestri francescani, in particolare di S. Bona- ventura, che è il loro caposcuola, si caratterizza per una sintesi non sempre organica ma di grande respiro, di elementi desunti da varie fonti, soprattutto da Platone e Agostino, ma anche da Aristotele e da Avicenna, e ovviamente dalla rivelazione biblica. Le dottrine spe- cifiche della scuola francescana sono le seguenti: in epistemologia, la teoria della illuminazione e la conoscenza diretta e immediata sia di se stessi che delle singole cose (senza far ricorso al processo astrat- tivo); in ontologia, la concezione univoca dell'essere e ia negazione della distinzione reale tra essenza ed esistenza; in cosmologia, la dottrina dell’ilemorfismo universale (cioè tutte le cose, compresi gli angeli, sono costituiti di materia e forma) e la negazione dell’eter- nità del mondo; in antropologia, la teoria della pluralità delle forme (una per il corpo, un'altra per l’anima vegetativa e sensitiva ed un'al- tra ancora per l’anima razionale); in teologia naturale, la dottrina dell’evidenza immediata dell’esistenza di Dio, secondo alcuni autori (Alessandro di Hales e Bonaventura), oppure della sua indimostra- bilità, secondo altri autori (Duns Scoto e Occam). Maggiori esponenti: La scuola francescana ha avuto validissimi esponenti soprattutto nei secoli XIII e XIV {(BonavENTURA [1221-1274], ALESSANDRO di HaLEs [1180-1245], Duns Scoro [1265-1308], Occam [1290-1349], RucceRo BaconE [1214-1293] e PieTRO OLIVI [1248-1298]). 252 - 16. Scuola razionalista Fondatore: CARTESIO (1596-1650) Dottrine principali: Per svariate ragioni, a partire da Cartesio, la preoccupazione dominante del filosofo non riguarda più l'essere, la realtà in sé, le cause ultime delle cose, Dio, ma riguarda l'uomo, ia sua capacità di conoscere il mondo e di trasformarlo. Ciò che conta maggiormente è stabilire il valore della conoscenza umana e scoprire una metodo- logia appropriata per la ricerca filosofica. Cartesio, padre del razio- nalismo, affascinato dalla matematica e dalla geometria, ritiene che l'unica conoscenza valida sia la conoscenza che non proviene dai sensi ma si trova innata nell'anima. Quanto al metodo, Cartesio propone quello della messa in dubbio di qualsiasi conoscenza che non risulti immediatamente chiara e distinta. Chiarezza e distinzione infatti co- stituiscono per lui le proprietà essenziali d'ogni vera conoscenza. La conoscenza razionale ha per oggetto l’universale e il necessario, ed è, quindi, capace di afferrare la natura vera, immutabile delle cose. Così la metafisica diviene possibile: si può conoscere Dio (anzi la sua esistenza è praticamente evidente: per riconoscerla basta l'argomento ontologico) e si può provare l'immortalità dell'anima. L'uomo raggiunge la perfetta felicità facendo trionfare la potenza della ragione sugli istinti e le passioni e dedicandosi alla contempla- zione amorosa di Dio (amor intellectualis Dei, secondo la bella e- spressione di Spinoza). Maggiori esponenti: Le tesi razionaliste di Cartesio sono state riprese e sviluppate da MALEBRANCHE (1638-1715), SPINOZA (1632-1677), LEIBNIZ (1646-1716) e in parte anche dagli illuministi e dagli idealisti. 17. Scuola empirista Fondatore: FRANCESCO BACONE (1561-1626) Dottrine principali: Nel secolo XVII il punto di partenza della riflessione filosofica non è più il problema dell’essere, bensì quello del conoscere. Mentre, però, i filosofi continentali (Cartesio, Spinoza e Leibniz) lo affron- tano a partire dal modello delle scienze esatte (matematica e geome- tria) e questo li conduce ad evolvere una concezione razionalistica della conoscenza e delia realtà, i filosofi inglesi si trovano in una temperie culturale profondamente diversa: nel loro paese fioriscono non tanto le scienze matematiche guanto quelle sperimentali: la bo- tanica, la chimica, l'astronomia, la meccanica, ecc. ed è perciò logico che la loro preoccupazione sia volta alla ricerca d'una teoria della 253 conoscenza e di un metodo di ricerca che corrispondano alle esigenze di tali scienze. Ora, le scienze sperimentali muovono dalla costata- zione di eventi particolari, dall'esperienza di certi fatti concreti (non da idee astratte, da principi universali); loro obiettivo è il supera- mento dei fatti, con la scoperta di rapporti costanti, leggi stabili, così da rendere possibile l’anticipazione di ulteriori esperienze. La problematica epistemologica della filosofia inglese consiste essenzialmente in questo: com'è possibile, partendo dall'esperienza sen- sitiva risalire a leggi universali? Senonché proprio la tesi che tutta la conoscenza procede dall'esperienza (= empirismo) li induce a con- cludere che anche le idee astratte e le leggi scientifiche conservano la stessa incertezza, instabilità e particolarità della conoscenza sen- sitiva. La mente umana non afferra niente di universale e necessario. In tal modo la metafisica diviene impossibile: nulla si può sapere intorno alla esistenza e natura di Dio, sulla origine prima e sull'ulti- mo fine della vita umana, sulla essenza delle cose materiali. Nep- pure in campo morale si danno norme assolute: buono o cattivo è ciò che viene approvato o disapprovato dalla società. Maggiori esponenti: L'empirismo è la filosofia congeniale al popolo inglese. Nel se- colo XVII l'hanno professato FRANCESCO Bacone {1561-1626), HoBBES (1588-1679) e Locke (1632-1704); nel secolo XVIII BERKELEY (1685- 1753) e HUME (1711-1776); nel secolo XIX SPENCER (1820-1903) e MILL (1806-1873); nel secolo XX RussELL (1872-1970), AYER (1910), RYLE (1900-1976) e molti altri. 18. Scuola illuminista Fondatore: VOLTAIRE (1694-1778) Dottrine principali: L'illuminismo più che una scuola o un sistema filosofico è un complesso movimento culturale, tipico del secolo XVIII e caratterizzato da una sconfinata fiducia nella ragione umana, ritenuta capa- ce di diradare le nebbie dell'ignoto e del mistero, che limitano e oscurano lo spirito umano, e di rendere migliori e felici gli uomini illuminandoli ed istruendoli. L’illuminismo è essenzialmente un an- tropocentrismo, un atto di fede appassionato nella natura umana. È un nuovo vangelo di progresso e di felicità. L'illuminismo predica un messianismo nuovo, un'era nuova, in cui l’uomo vivendo in con- formità con la sua natura, sarà perfettamente felice. I caratteri fon- damentali dell'illuminismo sono: venerazione della scieriza, con la quale si spera di risolvere tutti i problemi che affliggono l'umanità; empirismo: tutto ciò che sta al di là dell'esperienza non mantiene alcun interesse e cessa di valere come problema; razionalismo: scon- finata fiducia nella ragione, il cui potere è ritenuto illimitato; anti 254 con BECCARIA (1738-1794) e GIANNONE (1676-1748). 19. Scuola idealista Fondatore: IMMANUEL KANT (1724-1804) Dottrine principali: Ii credo fondamentale degli idealisti è l'affermazione del pri- mato assoluto delia funzione conoscitiva rispetto a qualsiasi altra at- tività (estetica, economica, tecnica, politica, religiosa, ecc.). Secondo ii loro punto di vista il conoscere diviene un principio sussistente: la Coscienza, il Sapere, la Ragione, lo Spirito Assoluto, l'Io puro. E, logicamente, il principio conoscitivo non si attua come rappresen- tazione, bensì come creazione di oggetti. Dall'attività dello Spirito traggono origine la natura, la storia e l'umanità. Nel suo agire, lo Spirito non si propone altro fine al di fuori di quello di realizzare pienamente se stesso acquistando una perfetta autocoscienza. L'i- stanza dell’idealismo è già presente nel sistema kantiano, ma Kant la sviluppò soltanto parzialmente, affermando gratuitamente l'’esi- stenza di un mondo oggettivo, della cosa in sé, che esiste fuori di ogni esperienza {il noumer0). Ma tale postulato era possibile a prezzo d'una grave contraddizione: l'attribuzione del concetto di causa, il quale secondo i princisi kantiani di per sé è applicabile solamente ai fenomeni, anche alla cosa in sé. Ai discepoli di Kant (Fichte, Schel- ling e Hegel) riuscì facilmente il tentativo di raggiungere l’idealismo assoluto: fu sufficiente liberare il criticismo dall’applicazione inde- bita del principio di causalità, trascurare la cosa in sé, e condurre alle ultime conseguenze il cuncetto kantiano dell'Io come attività ordinatrice e unificatrice dell'esperienza esterna ed interna. Con que- sta ultima operazione l'io da unificatore diviene creatore di tutta la realtà; l’'autocoscienza diviene il principio assoluto di tutto il reale e di tutto ciò che è; ogni limite al pensiero non può essere posto che dal pensiero, e dal pensiero anche superato. In breve, l'io penso è 255 insieme il mondo e Dio, il fenomeno e il nowmeno, il soggetto e l’og- getto. In tal modo ogni differenza qualitativa tra Dio e la natura, tra l'Assoluto e la storia viene cancellata. La natura, la storia, l'umanità non sono altro che i momenti decisivi della manifestazione dell'As- soluto. Maggiori esponenti: L'idealismo è stato professato, anzitutto, dai tre grandi discepoli di Kant: FIicHTE (1762-1846), SCHELLING (1775-1854) e HEGEL (1770- 1831), i quali però lo svilupparono in modo diverso, in forma etica il primo, estetica il secondo, logico-storica il terzo. Alla fine del se- colo XIX e all'inizio del XX l’idealismo ebbe validi esponenti in Fran- cia (con RavaIsson [1813-1900], BrunscHvICG [1869-1944], HAMELIN [1856-1907]), in Inghilterra (con BrapLEY [1846-1924] e Mc TAGGART [1866-1925]), in America (con Royce [1855-1916]) e in Italia (con Croce [1866-1952] e GENTILE [1875-1944]). 20. Scuola volontarista Fondatore: ARTHUR SCHOPENHAUER (1788-1860) Dottrine principali: L'esaltazione del potere della ragione che con l'Illuminismo e l'Idealismo aveva toccato momenti di autentica follia, dopo la morte di Hegel (1831) scatenò tutta una serie di vivaci reazioni a favore della dimensione opposta dello spirito umano, la dimensione affettiva della volontà, delle passioni, degli istinti. Un gruppo di filo- sofi. di grande levatura contestò l’importanza che si ascriveva alla ragione e la sua abilità a condurre l’uomo verso la completa realiz- zazione di se stesso, ne evidenziò i limiti di fronte ai problemi più gravi e più profondi e l'incapacità di fornire un orientamento sicuro per l'avvenire. Secondo il loro punto di vista ciò che conta maggior- mente nell'uomo non è la ragione, la speculazione, la logica, la me- tafisica, bensì la volontà, l'istinto, la fede. C'è però chi (p. es.: Nietzsche) guarda alla dimensione volitiva dell'uomo con eniusiasmo, fiducia, ottimismo e, quindi, professa un velontarismo fatto di coraggio, potenza, azione, un volontarismo volto al superamento del- la condizione attuale dell'umanità e allo sviluppo di un uomo supe- riore (super-uomo). C'è invece chi (come Schopenhauer, Kierke- gaard) considera la situazione dell'uomo in modo pessimistico: l’uo- mo è alienato e oppresso da un male insanabile, governato da una volontà perversa, a cui con le sue forze non riuscirà mai a sottrarsi né potrà mai guarire. Egli potrà uscire da questa situazione in due modi: o sopprimendo la propria individualità (Schopenhauer) op- pure affidandosi alla grazia di Dio (Kierkegaard). 256 Maggiori esponenti: Oltre a Schopenhauer, KIERKEGAARD (1813-1855) e NIETZSCHE (1844 1900) che abbiamo già ricordato e che sono i massimi esponenti del volontarismo; da ricordare anche HERBART (1776-1841) e FREUD (1856-1939). 21. Scuola positivista Fondatore: AUGUSTE COMTE (1798-1857) Dottrine principali: Nel secolo XIX gli scienziati moltiplicavano le loro scoperte su aspetti della natura e dell'uomo per i quali nei secoli precedenti la filosofia aveva cercato invano di fornire spiegazioni valide. Tutto questo parve giustificare l’illazione che l'unica vera filosofia fosse la scienza stessa. E questa è precisamente la tesi centrale del positi- vismo, il quale è, pertanto, la logica conseguenza degli insuccessi della metafisica da una parte e dei trionfi della scienza dall'altra. Il positivismo si propone di rispondere alla istanza di estendere il dominio dell’uomo sulla natura per mezzo della scienza, e, insieme, all'esigenza di organizzare per mezzo della scienza lo stesso mondo umano; onde può, sotto tale aspetto, considerarsi una prosecuzione o una riaffermazione dei motivi illuministici contro le arbitrarie co- struzioni metafisiche e le aprioristiche filosofie della natura fiorite nell'età romantica. Oltre che con l'illuminismo, il positivismo è im- parentato anche con il materialismo: entrambi vedono nella materia il principio supremo, la causa ultima di tutta la realtà. Uno degli aspetti più originali ed interessanti del positivismo è la preoccupa- zione umanistica. Da una parte esso si propone di liberare l’uomo da tutte le alienazioni ideologiche a cui l'avevano precedentemente incatenato la religione e la metafisica. Dall'altra vuole acquisire una cognizione esatta dell’uomo come essere sociale, valendosi del metodo delle scienze sperimentali: come le scienze sono idonee a for- mulare le leggi relative al dispiegarsi della realtà naturale, così deb- bono essere idonee a formulare le leggi relative al dispiegarsi del mondo sociale umano. Maggiori esponenti: Come l’illuminismo anche il positivismo, il cui termine fu coniato da Saint-Simon e poi adottato da Comte, è un movimento filoso- fico di portata europea, anzi, si può dire, mondiale, avendo avuto sostenitori e seguaci in tutte le parti del mondo. Però i suoi espo- nenti più illustri appartengono alla Francia (SAINT-SIMmon [1760- 1825) e Comte [1798-1857], all'Inghilterra (DARWIN [1809-1882], SPENCER [1820-1903], STuART MiLL [1806-1873]), alla Germania HaEc- KEL [1834-1919]) e all'Italia (ArpIGÒ [1828-1920]). 257 22. Scuola materialista-marxista Fondatore: KarL Marx (1818-1883) Dottrine principali: I fattori che maggiormente concorsero alla formazione di una interpretazione materialistica della realtà in Karl Marx furono tre: lo sviluppo della scienza, la dialettica hegeliana e l’acuirsi dei pro- blemi economico-sociali. I trionfi riportati dalla scienza durante il secolo XIX favorirono l'affermarsi del materialismo perché fecero credere che l’unica spiegazione vera delle cose sia quella scientifica, non quella religiosa o quella metafisica. Anche l’acuirsi dei problemi economico-sociali con il progredire della civiltà industriale operò a favore del materialismo, in quanto ben presto uomini politici, so- ciologi e filosofi cominciarono a considerarli fondamentali, condizio- nanti rispetto a tutti gli altri. Ma la spinta decisiva per il trionfo del materialismo la fornì Hegel stesso con l'eliminazione della dico- tomia tra reale ed ideale, tra realtà pensante e realtà estesa, tra spirito e materia, e con la risoluzione di tutta la realtà nella storia. Facendo assurgere la storia a realtà assoluta, Hegel spalancò la porta al materialismo perché, partendo da queste premesse, era fa- cile trarre la conclusione che nello sviluppo storico pesano assai più i fattori economici che le teorie filosofiche e religiose: i primi costituiscono la struttura fondamentale, le seconde sono semplice- mente sovrastrutture. Il principale artefice della « conversione » del- l'idealismo nel materialismo fu Marx. Questi ha voluto dimostrare scientificamente che l’esistenza or- ganizzata degli individui, ossia la società, è il risultato della organiz- zazione dei mezzi di produzione e della loro distribuzione tra gli uomini; ha fornito una acuta e chiara diagnosi della società mo- derna come società basata sulla produzione e appropriazione pri- vata della ricchezza socialmente prodotta, come società che spacca la comunità dei soggetti in classi contrapposte, capitalisti e lavora- tori; da questa iniqua distribuzione della ricchezza prodotta ne de- riva inevitabilmente la lotta di classe e che questa a sua volta sfocerà nella rivoluzione dei proletari di tutto il mondo che porterà alla fine del capitalismo e al trionfo del comunismo. Maggiori esponenti: Il materialismo dialettico elaborato da Marx con la collaborazio- ne di EncELS (1820-1895) fu ripreso e sviluppato « secondo la lettera » da LENIN (1870-1924), STALIN (1879-1953) e Mao (1893-1976); secondo tendenze revisionistiche da GRAMSCI (1891-1937), MARcUSE (1898- 1979), BLocH (1885-1977) e GARAUDY (1913). 258 23. Scuola pragmatista Fondatori: WiLLiam JAMES (1842-1910) e CHARLES SANDERS ‘PEIRCE (1839-1914) Dottrine principali: Il pragmatismo è un indirizzo filosofico tipicamente americano, sorto negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso, ma si inquadra in quella temperie culturale che, a cavallo del secolo, domina l’Euro- pa: la reazione al positivismo e al materialismo positivista. Mentre in Europa la reazione viene condotta sotto l’insegna dello spiri- tualismo, in America percorre una via nuova ed originale, la via del successo pratico: questo viene assunto come criterio generale nel determinare la bontà di una conoscenza, di un sistema, di una norma di condotta. Il termine pragmatism fu coniato da Ch. S. PEIRCE (intorno al 1872) per indicare che la funzione del pensiero consiste precisamente nell’imporre una regola d'azione, un comportamento, una « credenza » (belief); ne deriva che il concetto di un oggetto si identifica con gli effetti pratici che se ne possono trarre. Le tesi del Peirce sono state riprese ed efficacemente propagandate da W. James nel celebre saggio Pragmatism (1907), dove il succo del nuovo indirizzo filosofico viene così espresso: « Il metodo pragmatico con- siste nello studio delle varie dottrine dal punto di vista delle con- seguenze pratiche. Quale differenza ci sarebbe, in pratica, se fosse vera questa dottrina anziché quella? Se non si può riscontrare nes- suna differenza pratica, allora le dottrine hanno in realtà la stessa importanza e qualsiasi discussione è superflua. Quando una discus- sione è seria, dovremmo essere capaci di mostrare le differenze pra- tiche che devono derivare dal fatto che una alternativa è vera e l’altra no. Tutta la funzione della filosofia è di accertare se l'accettazione di questo o quel sistema come vero implica una differenza nei miei o nei tuoi riguardi in un momento particolare della nostra vita ». Maggiori esponenti: Oltre a CH. S. PEIRCE e W. JAMES, che ne sono i fondatori, il prag- matismo è stato professato con qualche variazione da J. DEWEY(1859- 1952) e G.H. MEAD (1863-1931). Alle tesi del pragmatismo hanno par- zialmente aderito anche pensatori europei, in particolare J. ORTEGA Y GassET (1883-1955) e E. LE Roy (1870-1954). 24. Scuola neopositivista Fondatore: LUDWIG WITTGENSTEIN (1889-1951) Dottrine principali: Il neopositivismo è, essenzialmente, l'applicazione delle teorie classiche dell’empirismo inglese all'analisi del linguaggio. Non a caso esso si è sviluppato soprattutto nel mondo anglosassone (Inghil- 259 terra e Stati Uniti), anche se i suoi inizi ebbero luogo a Vienna, dove un gruppo di scienziati ebrei capeggiato da Wittgenstein e Schlick si propose di elaborare un linguaggio scientifico rigoroso sottoposto a criteri infallibili di verità. I motivi che hanno determinato la tra- sformazione dell’empirismo da teoria della conoscenza in teoria del linguaggio sono due. Primo, il convincimento che molte discussioni filosofiche siano dovute ad una insufficiente chiarezza e precisione di linguaggio. Secondo, il desiderio di scoprire un linguaggio univer- sale ed un criterio di significazione assoluto, validi per tutte le disci- pline scientifiche e filosofiche. I canoni fondamentali del neopositi- vismo, detto anche positivismo logico, sono i seguenti: a) i problemi filosofici possono essere risolti solo con l’analisi del linguaggio; b) so- lo le proposizioni sperimentali o fattuali, ossia le proposizioni che sono passibili della verifica sperimentale, hanno senso; c) le proposi- zioni della metafisica come pure quelle dell'estetica, della religione, della morale, ecc. non hanno un contenuto, in quanto ogni contenuto proviene dali’esperienza e, perciò, sono prive di senso. Su questi po- stulati si fonda la tesi centrale del neopositivismo: quella della as- surdità (più esattamente, della non-sensatezza) della metafisica, del- l'etica, dell'estetica e della religione. Maggiori esponenti: Nella forma rigida che abbiamo esposto il neopositivismo è stato sostenuto oltre che da Wittgenstein (il primo Wittgenstein) e SCHLICK (1882-1936), anche da NEURATH (1882-1945), REICHENBACH (1891-1953), CARNAP (1891-1970), RussELL (1872-1970) e Ayer (1910). Ma, allorché si riconobbe l'insostenibilità del principio della verifica sperimen- tale come criterio assoluto di significanza, la corrente neopositivista si trasformò in corrente dell'analisi del linguaggio. Questa cessa di privilegiare il linguaggio scientifico sopra tutti gli altri e adotta come linguaggio base il linguaggio ordinario. Quanto al criterio di significanza molti sono disposti ad accogliere quello proposto da K. PoPPER (1902), detto criterio di falsificabilità. 25. Scuola esistenzialista Fondatori: MARTIN HEIDEGGER (1889-1976) e KIERKEGAARD (1813-1855) Dottrine principali: La prima guerra mondiale mostrò la vacuità di tutti i sistemi filosofici, dall'idealismo al volontarismo, dal positivismo al materia- lismo, mettendo in scacco i valori da essi esaltati, e fece sentire l’ur- genza d'un rinnovamento sostanziale della filosofia. Interprete di tale istanza di rinnovamento e, allo stesso tempo, testimone della situazione di angoscia in cui il flagello orrendo della guerra aveva sprofondato l'umanità è l’esistenzialismo, un movimento di pensiero che — rifacendosi anche al pensiero di Kierkegaard — concepisce 260 la speculazione filosofica come una minuta analisi dell'esperienza umana quotidiana, in tutti i suoi aspeiti, teorici e pratici, indivi- duali e sociali, istintivi ed intenzionali, ma soprattutto degli aspetti ‘irrazionali della vita umana. I caratteri fondameniali deil’esistenzia- lismo sono i seguenti: a) il metodo fenomenologico: questo consiste essenzialmente in uno sforzo di chiarificagione della esperienza con- dotto non alla luce di principi metafisici ma nell’ambito dell’espe- rienza stessa mediante l'osservazione obiettivadella realtà così come essa si manifesta;! b) il punto di parienza antropologico: la ri- flessione filosofica comincia dall'uomo e si incentra sempre su di lui; c) il tentativo di integrare le dimensioni dell'uomo comunemen- te considerate irrazionali, come gli istinti, i sentimenti e ie passioni, in una visuale più comprensiva; d) la subordinazione dell'essenza al- l'esistenza: l'uomo non è concepito come un essere naturale com- pletamente configurato nella sua essenza sin dalla nascita, ma come un individuo che, esistendo, crea la propria essenza mediante l’uso della libertà; e) i criteri della condotta morale ron sono ricavati dal- la natura e neppure da Dio bensì dalla storia e precisamente dalle possibilità concrete che si presentano quotidianamente ad ognuno di noi. È autentica ossia morale la vita di coiui che sa tradurre in atto le proprie possibilità, mentre invece è inautentica la vita di chi le trascura. Maggiori esponenti: L'esistenzialismo attuale ha avuto i suoi rappresentanti più iliu- stri in Germania (con HFipEGcER e Jaspers [1883-1969]), dove tra l'ai- tro esercitò un influsso decisivo sulla teologia, dando origine al mo- vimento denominato teologia della crisi (BARTH [1886-1968], ILLICH [1886-1965], GocarTEN [1887-1967], BuLTtMANnN [i884-1976]), e in Francia (con SARTRE [1905-1980], CAMus [1913-1960], MarczL [1889- 1973], MERLEAU-PONTY [1908-1961] e LaveLLE [1883-1951]); in Italia con ABBAGNANO (1901). 26. Scuola personalista Fondatore: CHARLES RENOUVIER (1815-1903) Dottrine principali: Il personalismo è un importante movimento filosofico contem- poraneo che ha avuto per culla la Francia (già alla fine del secolo scorso), ma poi ha trovato molti seguaci sia negli altri paesi eu- ropei come in alcuni paesi dell'America sia del Nord sia del Sud. Si caratterizza per l’attenzione che rivolge alla persona. Contro tutti quei sistemi filosofici che trascurano la persona o facendone un mo- mento dell’Assoluto (idealismo) o della Storia (storicismo) o della Vita (vitalismo) o della Natura (materialismo) o subordinandola alla 1 Vedere più avanti la Scuola fenomenologica. 261 ori religiosi (cattolici, protestanti, ebrei). Ciò spiega come il loro discorso sulla persona si apra necessariamente verso la Trascendenza: Dio è il Tu supremo che chiama, interpella e porta a compimento la progettualità umana tesa all'infinito. Maggiori esponenti: Tra i cattolici: CH. RENOUVIER (1815-1903), E. MOUNIER (1905- 1950), J. QuiLEes, R. GUARDINI (1885-1968); tra i protestanti: P. Ri- COEUR (1913), E.S. BRIGHTMAN; tra gli ebrei M. BuUBER (1878-1975) e E. LÉvInAs (1906). 27. Scuola spiritualista Origine: È un vasto movimento di pensiero che si sviluppa in Europa (in particolare in Francia, Italia e Germania) negli ultimi decenni del- l'’Ottocento e nei primi del Novecento in contrapposizione al positi- vismo, allo scientismo e al materialismo. 4 Dottrine principali: Lo spiritualismo accoglie nelle sue file pensatori di svariate ten- denze che hanno in comune tra di loro tre cose: a) il rifiuto del ma- terialismo positivista e scientista che aveva dominato la scena cul- turale europea durante la seconda metà del secolo XIX; b) la riaf- 262 fermazione del primato della dimensione spirituale su quella ma- teriale della realtà; c) la critica della concezione positivista delle conoscenze che aveva identificato scienza e ragione e, allo stesso tempo, assolutizzato i poteri della scienza. Denunciando le assurde pretese scientiste del positivismo, gli spiritualisti riaprono la porta alla riflessione metafisica. Questa però viene realizzata in svariati modi: secondo il modo più interioristico ed antropologico di Agosti- no, oppure secondo il modo più oggettivo ed ontologico di san Tom- maso, oppure secondo il modo trascendentale di matrice kantiana, oppure secondo il modo dialettico di ispirazione pascaliana, ecc. Così si è avuto lo sviluppo di uno spiritualismo agostiniano (con Blondel, Lavelle, Sciacca, Lazzarini, Guzzo); di uno spiritualismo neoscolastico o neotomistico (Gilson, Maritain, Masnovo, Fabro, Bontadini); di uno spiritualismo neokantiano (Lotze, Rickert, Ca- rabellese, Martinetti). Divisi nelle vie da percorrere gli spiritualisti si trovano però uniti nel traguardo finale: la riaffermazione di Dio quale centro spirituale dell'universo, principio primo del possente dinamismo insito nell'uomo e nelle cose, valore supremo che assi- cura un solido fondamento a tutti gli altri valori (morali, religiosi, sociali, personali) in particolare al valore assoluto della persona. Maggiori esponenti: Tra i primi e principali esponenti dello spiritualismo, oltre i nomi di cui abbiamo riferito sopra, occorre ricordare F. RAVAISSON (1813-1900), CH. RENOUVIER (1815-1903), J. LACHELIER (1832-1918), E. BouTRoux (1845-1921), che, in certo modo, possono anche dirsi fon- datori di questo movimento. 28. Scuola di Francoforte Fondatore: M. HoRKHEIMER (1895-1973), che è stato il principale ani- matore dell'indirizzo di pensiero che ebbe nell'Institut fiir Sozial- forschung (Istituto per la ricerca sociale) di Francoforte il suo cen- tro di irradiazione. Storia e dottrine princi pali: L'Istituto, fondato nel 1924 e diretto da Karl Griinberg, fu do- minato poi dalla personalità di Horkheimer, che fu chiamato a di- rigerlo nel 1931. Horkheimer diede notevole impulso agli studi del- l’Istituto, proponendosi di promuovere la elaborazione di una « teo- ria della società esistente considerata come un tutto », avvalendosi di una ricerca interdisciplinare che contava soprattutto sull’apporto oltre che della filosofia, della psicanalisi, della antropologia, della sociologia. Nel 1932 nacque la rivista Zeitschrift fiir Sozialforschung (Rivista per la ricerca sociale), come organo ufficiale dell'Istituto. Questo, nel 1933, a causa dell'avvento del nazismo che ne aveva de- cretato la soppressione, fu trasferito prima a Parigi e successiva- 263 movimento di pensiero che, nello studio della realtà, assegna il primato alle strutture anziché ai contenuti. Dello strutturalismo si danno due versioni principali, guella lingui- stica e quella filosofica. Fondatore delia prima è F. De Saussure, della seconda C. Lévi-Sirauss. Poiché la versione filosofica dipende stret- tamente da quella linguistica, si può coglierne il significato soltanto tenendo presenti le tesi basilari di quest'ultima, che sono le se- guenti: nello studio strutturalistico di una lingua i isrmini non vanno trattati come entità indipendenti ma vanno considerati nelle loro reciproche relazioni, cioè l’analisi deve basarsi sulle relazioni fra i termini; la lingua va vista come un sistema, mostrande che ci sono sistemi fonologici concreti e scoprendo le loro strutture; in- fine si cerca di arrivare, sia con l’induzione sia con la deduzione, alla conoscenza di leggi generali e a formulare relazioni necessarie. Dal campo della linguistica Lévi-Strauss ha trasferito lo strutturalismo allo studio generalizzato dell’uomo e della società, ritenendo di poter trattare i membri della società alla stregua dei singoli termini di 264 logia, dalla macchina, e si vede sempre più gravemente lesa nella sua libertà e nella sua autonomia. Ciò che è accaduto, secondo ‘Foucauli, è la morte dell’uomo; e, in effetti, più che la « morte di Dio », lo strutturalismo « annuncia la fine del suo uccisore [...] l'assoluta dispersione dell’uomo ». Maggiori esponenti: I maggiori rappresentanti dello strutturalismo sono: C. LÉvI- STRAUSS (1908) che concepisce l'antropologia strutturale come inven- tario delle possibilità inconsce da cui emergono le strutture proprie di una società; M. FoucauLT (1926), studioso dell’epistema, ossia del- l’a priori storico di alcuni periodi della civiltà occidentale. 30. Scuola fenomenologica Fondatore: EDMUND HussERL (1859-1938) Dottrine principali: Come suggerisce il termine « fenomenologia » — che è quello che dà il nome a questa scuola — lo studio dei fenomeni costituisce l’obiettivo primo e principale della filosofia secondo Husserl e i suoi seguaci. Senonché il loro concetto di fenomeno ha ben poco in co- mune con il classico concetto kantiano, il quale rimanda necessaria- mente alla « cosa in sé », il noumeno. Secondo Husser! il fenomeno è il dato immediato ed ultimo, e la questione della cosa in sé non si pone neppure. Il fenomeno, si potrebbe dire, è la cosa in sé, e in effetti per Husserl e per i suoi seguaci studiare i fenomeni significa studiare la realtà quale essa si offre alla intelligenza al fine di evi- denziarne i contenuti essenziali. Per quesio è essenziale l’epoché (termine greco che significa « sospensione », « messa in parentesi »): vale a dire la sospensione di qualsiasi conoscenza previa intorno ai fenomeno preso in esame, compreso il presupposto deila coscienza naturale che al di là del mondo conosciuto (mondo eidetico, dei significati) esista anche un mondo esterno. Il metodo fenomenologico — di cui Husserl fu il geniale inven- tore — fu accolto con entusiasmo e fu ampiamente utilizzato da 265 molti filosofi del sec. XX, soprattutto dagli esistenzialisti, ma anche dai personalisti, dagli psicanalisti, dagli analisti del linguaggio, da- gli antropologi, dai sociologi, dai filosofi della religione, ecc., i quali, però si appropriarono della teoria husserliana con una buona dose di libertà, depurandola quasi sempre da quella venatura idea- listica che c'era in Husserl. Della fenomenologia salvaguardarono i due canoni fondamentali: l'epoché (cioè sospensione di ogni cono- scenza o precomprensione di ciò che costituisce oggetto di studio) e intenzionalità (che è il riconoscimento del carattere essenzialmente referenziale della coscienza e dei suoi contenuti), mentre lasciarono cadere gli altri elementi che avevano condotto Husserl sui sentieri dell'idealismo e del solipsismo. ; Maggiori esponenti: L'indirizzo fenomenologico ha avuto un largo seguito, e l’uso del metodo fenomenologico ha consentito a numerosi pensatori di conseguire importanti risultati: a SCHELER (1874-1928) di esplorare il mondo dei valori; a HEIDEGGER (1889-1976) il mondo dell’esistenza; a MERLEAU-PONTY (1908-1961) il mondo del corpo; a WITTGENSTEIN (1889-1951) il mondo del linguaggio; a RICoEUR (1913) il mondo del simbolismo religioso; a LÉvINAS (1906) il mondo dell'altro; a MARCEL (1889-1973) il mondo della fede, della speranza e della carità; a SARTRE (1905-1980) il mondo della libertà; a GADAMER (1900) il mon- do della storia. 31. Scuola epistemologica Una vera e propria scuola! che porti questo nome non è mai esi- stita e non esiste. Nella storia della filosofia invece si registra forte attenzione a numerosi problemi della conoscenza come la natura, i fondamenti, i limiti e le condizioni di validità del sapere scientifico nei vari campi delle scienze; ciò è avvenuto soprattutto a partire da Cartesio e con maggior impegno nell'ultimo secolo. Tale attenzione è il tratto comune di tutto il pensiero moderno ed è ciò che lo di- stingue dal pensiero antico e medioevale. Mentre questo aveva un orientamento marcatamente metafisico, il pensiero moderno ha pre- so un orientamento marcatamente gnoseologico o epistemologico: la discussione fondamentale e principale riguarda il conoscere e non più l'essere. Da questo indirizzo generale e comune si distaccano sva- P ! Per avere una scuola non basta un bel tema. La metafisica e l'etica, per esempio, sono temi bellissimi eppure non esistono né una scuola metafisica né una scuola etica. Perché si dia una scuola occorre anzitutto un maestro e poi un discreto numero di discepoli che per qualche tempo ne abbiano ripreso il pensiero. Sui grandi temi (e questo è anche il caso dell’epistemologia) sono state proposte, come è detto sopra, svariate interpretazioni ed elaborazioni da parte di numerosi maestri insigni che pertanto hanno dato luogo a molte scuole, non ad un'unica scuola. 266 riate ramificazioni: la scuola razionalista (con Cartesio, Spinoza e Malebranche) nel secolo XVII; la scuola empirista (con Locke, Berkeley e Hume); la scuola illuminista (con Voltaire, Rousseau, Lessing) e la scuola criticista (con Kant) nel secolo XVII; la scuola positivista (con Comte e Spencer) nel secolo XIX; la scuola neopo- sitivista o neoempirista (con Carnap, Popper, Wittgenstein, Russell, Ayer) nel secolo XX. I recenti sviluppi della riflessione epistemo- logica (di Bachelard, Popper, Kuhn, Agazzi) ha fruttato un ridimen- sionamento delle pretese della scienza e ha rimesso in luce questio- ni preliminari sulla natura stessa del conoscere e del soggetto che svolge l’attività scientifica che debordano i confini dell’epistemolo- gia e invadono il terreno della metafisica. 32. | « Nuovi Filosofi » Non rappresentano una scuola nel senso proprio del termine, ma rappresentano sicuramente una delle correnti‘ di pensiero più indicative della crisi. della coscienza contemporanea. Giovani intel- lettuali marxisti, ‘protagonisti del maggio 1968 in Francia, sono diventati progressivamente assertori di una critica radicale alla complessità teorica e pratica del marxismo nelle .sue formulazioni di principio e nelle sue attuazioni storiche. Le ragioni di questa crisi profonda nei confronti del marxismo sono state provocate soprattutto dalle tragiche vicende degli intellet- tuali sovietici del dissenso e dalla pubblicazione di Arcipelago Gulag (1978) di A. Solzenicyn. Maggiori esponenti: CHRISTIAN JAMBET (1949), Guy LARDREAU (1947), JEAN-MARIE BENOIST (1942), JEAN PAUL Dottè (1939), MicHEL GUERIN (1946), BERNARD- Henry LEvy (1949), ANDRÈ GLUCKSMANN (1937). Kk xk Abbiamo presentato i sistemi principali delle filosofie occiden- tali. Il motivo di questo è dato dal fatto che « soltanto gli occidentali, a partire dal popolo greco, sono riusciti a mettere a punto gli stru- menti concettuali (la logica, la dialettica, il puro ragionamento) che sono necessari per elevare la filosofia dal livello elementare a quello scientifico. Infatti, anche nelle altre culture, specialmente in quelle derivanti dalle grandi civiltà mediorientali ed orientali, elementi fi- losofici appaiono in contesti di carattere prevalentemente religioso e pertanto non possono essere definiti “filosofia” in senso scientifico 267 vero e proprio ».! Altrettando non si puè dire delia filosofia islamica, la quale approfondì e Sviluppo la filosofia scolastica prima ancora che essa si sviluppasse in Europa. I massimi rappresentanti della filo- sofia islamica sono AVICENNA, nato nell'Asia centrale nel 980 e morto nel 1037 duranie una campagna militare; AVERROÈ, nato a Cordova, in Spagna, nel 1126 e morto nel 1198. Anche nel mondo ebraico si di- stinsero, rel Medioevo, due filosofi che hanno tentato di approfon- dire le più importanti verità della fede, servendosi anche delia spe- culazione aristotelica e neoplatonica: AVICEBRON, nato a Malaga, in Spagna, verso il 1820 e morto a Valencia fra il 1058 e il 1069; MAIMONIDE, nato a Cordova nel 1135 e morto a Il Cairo nel 1204. Naturalmente, alla suddivisione delle Scuole illustrate nel pre- sente volume, specie per quanto riguarda quelle degli ultirni se- coli, si possono fare delle obiezioni. Non è possibile seguire un cri- terio rigido e uniforme. Molti filosofi appaiono in più di una Scuola, sia per l'evoluzione del loro pensiero che per i, multiformi contributi dati da numerosi filosofi a più di un indirizzo filosofico. Per questo, è utile consultare la ZII Parte, che presenta le schede dei maggiori filosofi, dall'antichità ad oggi. ! B. MONDIN, vol. I, p. 9. 268 Parte terza: I PRINCIPALI FILOSOFI" Abbagnano Nicola (1901) Filosofo italiano, nato a Salerno, fu allievo di A. Aliotta e docente in varie università. Distaccatosi dall’idealismo, in Italia fu tra i pri- mi a cogliere e segnalare l’importanza della nuova prospettiva esi- stenziale nello studio della realtà, che proveniva dalla Germania e dalla Francia, propugnando, peraltro, una sorta di esistenzialismo positivo, in contrapposizione a quello essenzialmente negativo di Heidegger, Jaspers, Sartre. Successivamente, dopo il 1945, approfon- dendo il pragmatismo e lo strumentalismo anglo-americano, divenne assertore convinto di una concezione del mondo che, pur afferman- do la dignità assoluta della persona e dei suoi diritti, allo stesso tempo riconosce apertamente i limiti della ragione umana, la quale deve rifuggire ogni tentazione di onniscienza ed onnipotenza e col- tivare la via del « limite ». Opere principali: La struttura dell’esistenza (1939); Introduzione all'esistenzialismo (1942); Esistenzialismo positivo (1948); Storia della filosofia, in 3 voll. (1946-1950); Possibilità e libertà (1956); Di- zionario di filosofia (1960). Abelardo Pietro (1079-1142) Filosofo e teologo francese nato a Nantes, fu una mente enciclo- pedica e un dialettico formidabile. Discepolo a ‘Parigi di Roscellino (nominalista) e di Guglielmo di Champeaux (ultrarealista), ben pre- sto prese posizione contro i suoi maestri, aprendo nuove strade sia in filosofia (con la teoria del realismo moderato), sia in teologia (col metodo dialettico del sic et non). Fu maestro prima di dialettica e successivamente di teologia a Parigi (nella scuola di Notre Dame * In questa Parte terza vengono presentate le schede dei filosofi delle grandi Scuole del periodo antico, medioevale e moderno; un maggior sviluppo è riservato ai filosofi dell’epoca contemporanea. Le date di nascita e morte di gran parte dei filosofi dell'antichità, per mancanza di dati precisi, si devono ritenere approssimative. 269 e nel monastero di san Vittore) ottenendo grande successo tra la folla dei suoi auditori. Ma incappò in due grossi infortuni: quello sentimentale a causa del suo sventurato amore per la sua giovane allieva Eloisa che aveva sposato in segreto e che gli costò l’evira- zione e la chiusura in convento a Chalons sur Saòne fino alla morte; quello dottrinale che gli attirò la condanna dei concili di Soissons (1121) e di Sens (1141). In teologia la tendenza di Abelardo è razio- nalistica: mira a sottoporre all'analisi critica della ragione anche le verità di fede. In filosofia hanno avuto vasta risonanza la sua so- luzione del problema degli universali secondo la linea del realismo moderato, e la dottrina della buona intenzione quale criterio unico della bontà di un'azione. Opere principali: Dialectica; De unitate et trinitate divina (in cui tenta di accostare le tre persone della Trinità alla triade neoplatonica Uno, Mente, Anima); Nostrorum petitioni sociorum; Ethica seu liber scito teipsum; Ingredientibus. A carattere teologico scrisse, tra l’al- tro: Introductio ad theologiam, Theologia christiana. Adler Max (187 1937). . È annoverato” tra È ‘tapiscuola dell’è ‘austromarxismo », la nuova scuola nata ‘da’ una « Comunità spirituale », frantumatasi, nel 1914, per le divergenze sorte in merito alla valutazione del problema della partecipazione alla guerra, dei nazionalismi e dei caratteri della rivo- luzione bolscevica. i Questione primaria dell’austromarxismo è la fondazione dei va- lori del socialismo e la verifica di quanta scienza sia presente nel marxismo o quanto meno derivabile da esso. La sua riflessione è polarizzata su tre questioni fondamentali: a) il concetto di pro- gresso; b) l'interrogativo circa l’interpretazione del materialismo; c) il carattere metafisico e metodologico della dialettica. Opere principali: l'opera nella quale Adler elabora le linee fonda- mentali della sua riflessione è Problemi marxisti (1920); altre sue opere sono: La condizione dello Stato nel marxismo; Democrazia e consigli operai; Socialismo e intellettuali. Adorno Theodor Wiesegrund (1903-1969) Filosofo, sociologo e musicologo, nacque a Francoforte, dove visse e lavorò sino all'avvento del nazismo, quando si trasferì negli U.S.A. insieme ad Horkheimer, dal ’34 al '50. Tornato in Germania, divenne condirettore dell'Istituto per le Ricerche Sociali, la famosa Scuola di Francoforte, che era stata fondata nel 1924, e dal 1931 al 1933 venne diretta da Horkheimer, di cui Adorno fu sempre il più sti‘etto collaboratore. Insieme a questi curò la stesura delle due opere fondamentali: Dialettica dell'Illuminismo e Lezioni di sociologia. Da marxista pienamente convinto, quale fu sino agli anni ‘’40, divenne un critico preciso del pensiero di Marx, sia come ideologia che come filosofia, impegnandosi, soprattutto negli ultimi anni, ad 270 analizzare criticamente i miti del progresso ed il loro sviluppo nelle società capitaliste avanzate. Nel contempo, come studioso della filosofia della musica, di cui può dirsi fondatore, indicò nell'arte il mezzo per riproporre in modo continuo la dimensione utopica per la risoluzione della crisi culturale moderna. Opere principali: Dialettica dell'illuminismo (1944); Lezioni di sociologia (1947); Personalità autoritaria (1950); Minima moralia (1951); Tre studi su Hegel (1963); Dialettica negativa (1966). Come musicologo è notevole La filosofia della musica moderna (1949); In- troduzione alla sociologia della musica (1962). Nel 1974 è uscita po- stuma ed incompleta la sua Teoria estetica. Agostino di Ippona (354-430) Nato a Tagaste (nell'attuale Algeria) da madre cristiana (la futura santa Monica), si dedicò a studi letterari e filosofici e poi all’insegna- mento. Aderì in epoche diverse a filosofie diverse. Passò a Roma e poi a Milano: qui, anche per l’incontro con sant'Ambrogio, si con- vertì al cristianesimo e ricevette il battesimo. Tornato in Africa, di- venne prete e poi vescovo di Ippona. Morì nel 430. Scrisse molte opere su svariati argomenti di interesse filosofico e teologico. Sant'Agostino è il massimo esponente della filosofia cristiana du- rante il periodo patristico. Egli ha operato una sintesi armoniosa di cristianesimo e di neoplatonismo. Egli dà alla sua filosofia una netta impostazione interioristica (« la verità abita nell'uomo interiore ») ed è essenzialmente attraverso l’interiorità umana che egli ascende a Dio. Nell'uomo, che è mutevole — osserva Agostino —, vi è la verità, che è immutabile: in ultima analisi, Dio è la Verità che si fa riconoscere nel cuore dell'uomo. Al problema se l'uomo possa conoscere la verità Agostino rispon- de con una serrata critica dello scetticismo, dimostrando che l'uomo conosce con certezza alcune verità. La conoscenza delle verità eterne, che è il vertice della conoscenza intellettiva, ha luogo attraverso la illuminazione divina. Il linguaggio ha funzione strumentale: la pa- rola serve per comunicare le idee. Momento centrale della sua riflessione è il tema della creazione del mondo messo in rapporto al problema dell'eternità e del tempo. Il tempo per Agostino è una dimensione propria dell'animo umano, è la durata di una natura finita che ha bisogno di tappe successive e continue per realizzarsi. Il tempo è un presente che passa, l'eternità, invece, è un presente che non passa. La mente è la misura del tempo: 1) la memoria è il presente del passato; 2) l'intuizione è il presente del presente; 3) l'attesa è il presente del futuro. Il mondo è stato creato da Dio nella sua intierezza, sin dall'inizio, con tutte quelle virtualità, che si sarebbero venute sviluppando nel- la storia (ragioni seminali). Inoltre, nell'affrontare il problema del male, comune alla tradizio- 271 ne del neoplatonismo, afferma che il male non deriva da Dio, ma dalle creature, in quanto non è una realtà positiva, ma una privazio- ne della realtà. Contro il manicheismo sostiene la libertà dell'uomo, contro il pelagianesimo il valore della grazia. La centralità riservata da Agostino all'interiorità dell'uomo fa sì che nel suo pensiero il problema dell'anima acquisti una particolare incidenza. Per Agostino l’uomo è « un'anima ragionevole che si serve di un corpo mortale terrestre ». Gli argomenti per dimostrare la spi- ritualità e l'immortalità dell'anima sono: 1) o l’anima esplica la sua attività (volere, pensare, dubitare, ecc.) senza il corpo e allora è spi- rituale, o ha sempre bisogno «del corpo e allora è materiale. (C'è un caso in cui l'anima non ha bisogno del corpo ed è quando conosce se stessa come sostanza che vive, ricorda e vuole, ecc.; 2) la prova del- l'immortalità è di ispirazione platonica: l’anima si trova in continua relazione con la verità; vi è pertanto un'intima unione tra la mente che contempla la verità e la verità che è contemplata. Con Agostino ha inoltre origine nel pensiero occidentale una vera e propria teologia della storia, innestata su una nuova filosofia della storia, ben diversa da quella del mondo classico. La storia non è più concepita come un susseguirsi di cicli che si ripetono periodicamen- te, ma un cammino in linea retta che sale dalla terra al cielo. Lo svolgersi della storia è la lotta tra la città terrena e quella celeste. La storia è divisa in tre grandi periodi (l'origine, il passato, il fu- ‘turo) rischiarati dalla luce della Rivelazione cristiana. Infine, per Agostino, i rapporti fra la « città celeste » (o Chiesa) e la « città terreno » (o mondo) sono chiariti ricorrendo alla dialettica dei due amori: l’amore di Dio; l’amore di sé. Opere principali: Contra academicos; De beata vita; De ordine; Soliloquia (quattro opere scritte tra il 386 e il 387); De immortalitate animae (387); De libero arbitrio (388); De vera religione (390); Con- fessiones (13 libri scritti tra il 397 e il 401); De Trinitate (15 libri scritti tra il 399 e il 419); De civitate Dei (22 libri scritti tra il 413 e il 426). Alberto Magno (1205-1280) Filosofo e teologo tedesco. Fece i suoi studi a Bologna e a Padova e nel 1223 entrò nell'ordine domenicano. Insegnò teologia a Parigi e poi a Colonia, dove morì. A Parigi ebbe come allievo Tommaso d'Aquino. Fu uno dei primi pensatori medievali a valorizzare la filo- sofia e la scienza aristotelica, dichiarandola compatibile con la fede cristiana; ne raccomandò l'assunzione da parte della Chiesa e diede egli stesso l'esempio di ome si poteva utilizzare le dottrine scientifi- che e metafisiche di Aristotele a vantaggio del cristianesimo. A tal fine cercò di liberare il pensiero del filosofo greco dalle distorsioni che gli aveva procurato l’interpretazione di Averroè. In tal modo egli spianò la strada al discepolo Tommaso d'Aquino, che riuscì ad operare 272 quella grande sintesi del pensiero aristotelico con la rivelazione cri- stiana, che costituisce una delle massime conquiste del Medioevo. Opere principali: Commentari alle opere di Aristotele; Tractatus de natura boni; Summa de creaturis; commento alle Sentenze di Pietro Lombardo; Summa theologiae. Althusser Louis (1918) Filosofo francese, nato ad Algeri e discepolo di Bachelard, ha insegnato a lungo all’« École Normale Superieure » di Parigi sino a quando fu colpito da una malattia mentale. Appartiene con Bloch e Garaudy al neomarxismo francese. Egli ritiene che la dialettica hegeliana sia funzionale in ordine alla prassi marxiana, leninista e maoista e pertanto vada o abbando- nata o ridefinita; asserisce, inoltre, che in Marx è presente una « rottura epistemologica » tra la nozione fondamentale di « modo di produzione » e l'umanesimo degli scritti giovanili. Assume, pertanto, il metodo strutturale come chiave di lettura dei testi marxiani con soluzioni opposte a Bloch e a Garaudy. Egli nega infatti che nelle opere giovanili di Marx esista la prospettiva di un « umanesimo socialista », attribuendo al concetto di umanesimo una valenza ideologica e al concetto di socialismo una valenza scien- tifica. Marx, secondo Althusser, si è impegnato in un affrancamento dai pregiudizi filosofici e, anche se non ha eliminato l'ideologia, ha creato le condizioni storiche per conoscerla, ponendosi così da un punto di vista scientifico. L'approccio scientifico all'ideologia avreb- be pertanto costituito il vero merito di Marx e del marxismo. Opere principali: Per Marx (1965) e Leggere il « Capitale » (scritto con i suoi allievi nel 1965); Lenin e la filosofia (1969), Umanesimo e stalinismo (1973), Elementi di autocritica (1974). Anassagora (500-428 a.C.) Originario di Clazomene, in Asia Minore, introdusse la filosofia ad Atene. Fu filosofo e scienziato. Ad Atene divenne maestro di Pe- ricle. Imprigionato a causa delle sue teorie astronomiche, fu liberato per intercessione di Pericle e morì in esilio. Anche per Anassagora, come per Democrito, l'essere è costituito da atomi qualitativamente diversi, le « omeomerie ». La diversità dei corpi è data dal prevalere di determinate omeomerie. Per primo Anassagora pone come causa del divenire una Mente Suprema (Nous), principio ordinatore delle cose. Così egli supera la spiega- zione naturalistica dell'universo ed apre orizzonti nuovi al pensiero greco. Della sua opera Sulla natura rimangono 12 frammenti. Anassimandro (610-546 a.C.) Matematico e astronomo di Mileto, oltre che filosofo. Successe a Talete nella guida della Scuola ionica. Pone come principio primo di tutte le cose qualcosa di indeterminato (àpeiron). Il suo eterno 273 movimento determina nella materia, per separazione, i contrari. L'àpeiron (infinito) di Anassimandro è un concetto nuovo e importan- tante perché introduce elementi metafisici, che trascendono cioè le co- se « finite ». Della sua opera Della natura rimane un solo frammento. Anassimene (585-528 a.C.) Nacque a Mileto, come Talete e Anassimandro, di cui fu disce- polo. Ripone il principio primo nell'aria, che è eterna e in continuo movimento, rifiutando così il concetto dell’àpeiron del suo maestro Anassimandro. È l’espressione più compiuta della filosofia ionica. Della sua opera Sulla natura rimane un solo frammento. Anselmo d'Aosta (1033-1109) Nato ad Aosta entrò, adolescente, nell'abbazia benedettina di Bec, in Normandia, nel 1086 ne divenne abate. Una decina d'anni più tardi fu nominato vescovo di Canterbury in Inghilterra. Anselmo è il massimo pensatore cristiano del secolo XI e dà l’avvio alla rinascita del pensiero filosofico e teologico medioevale. Egli studia, tra l'altro, due problemi di fondamentale importanza per la filosofia cristiana: il problema dei rapporti tra fede e ragione che risolve secondo la linea dell'armonia nella sottomissione della ragio- ne alla fede e il problema della esistenza di Dio, che risolve con la celebre prova ontologica (movendo cioè dal concetto che Dio è l’esse- re massimo che si possa concepire: id cuius maius cogitari nequit). Opere principali: Monologion; Proslogion; Cur Deus homo; De veritate; De grammatico. Ardigò Roberto (1828-1920) . Nato a Casteldidone (Cremona), mentre compiva gli studi classici a Mantova si sentì chiamato alla vocazione sacerdotale. Venne ordi- nato prete nel 1851 a Mantova, dove fu nominato canonico della cattedrale nel 1863. Dopo un lungo periodo di crisi, abbandonò il sacerdozio nel 1871. Nel 1881 fu chiamato alla cattedra di storia del- la filosofia nella università di Padova. Ricoprì tale incarico per quasi 30 anni. Morì suicida a Mantova dove si era ritirato. Ardigò fu il più illustre rappresentante del positivismo in Italia. Rifacendosi a Spencer, Ardigò insegna che tutta la realtà è una « for- mazione naturale » che va dal sistema solare alle più elevate espres- sioni del pensiero umano; pertanto egli considera la vita psichica quella che rivela nel modo più singolare la vita stessa dell'universo. Secondo Ardigò la differenza tra l’uomo e l'animale è soprattutto organica. Nell'uomo la più perfetta organizzazione del sistema rer- voso e specialmente del cervello, consente uno sviluppo psichico più perfetto. Tutta la realtà è omogenea; perciò non esiste l’inconosci- bile (Dio) ma soltanto l'ignoto. Quindi non esiste trascendenza ma pura e assoluta immanenza, per cui non si possono superare i confini della coscienza o del mondo umano. 274 Opere principali: La psicologia come scienza positiva {1870); La motale dei positivisti (1879); Relatività della logica umana (1881); Il fatto psicologico della percezione (1882); Sociologia (1886); La scienza dell'educazione (1893); L'unità della coscienza (1898). Aristotele (384-322 a.C.) Nato a Stagira (Tracia), visse ‘soprattutto ad Atene; fu discepolo di Platone e precettore di Alessandro Magno; fondò ad Atene il « Li- ceo » o Scuola peripatetica (335). Insieme a Platone, Aristotele è la figura dominante della storia della filosofia, dall'antichità sino al- l'epoca moderna. Ha scritto su moltissimi argomenti: sulle scienze, sulla logica, sulla filosofia. Mentre Platone preferisce il dialogo, Aristotele usa il trattato filosofico come espressione del suo pensiero. È il creatore della logica, cioè dello studio sistematico dei concetti e dei loro rapporti. Nel campo del ragionamento propone due metodi: la deduzione e.l’induzione. | ‘« Afistotele sostiene che la'scienza:è superiore all'esperienza, per- tte la*scienza è conoscenza medi nte lepanse. Là Metafisica è l’opera if cui i Aristotele : si occupa dei ‘principi. ‘primi delle cose. La verità prima e fondamentale è il principio. di non-contraddizione, principio noto, assoluto, indimostrabile. Quanto al costitutivo essenziale delle cose, Aristotele rifiuta la teoria platonica delle Idee perché essa, a suo avviso, non spiega né l'essenza delle cose, né il loro divenire, né il loro rapporto con le Idee, né in che modo l’uomo le possa conoscere. La spiegazione della realtà va ricercata nella realtà stessa, costituita di sostanze e di ac- cidenti ed i cui elementi costitutivi sono la materia e la forma. Materia e forma esistono soltanto insieme (« sinolo »): alla sostanza la forma conferisce i caratteri specifici; la materia conferisce le ca- ratteristiche individuali. Attraverso un'approfondita analisi del divenire, Aristotele giunge alla scoperta delle nozioni di potenza e di atto. È la « potenza » che rende possibile il divenire. Il divenire delle cose deriva dal passaggio della potenza all'atto. Solo Dio è Atto puro, unico, eterno. L'uomo, come tutti gli esseri, è costituito di materia e forma: la materia è il corpo, la forma l’anima che ha tre funzioni: vegetativa, sensitiva e intellettiva. La conoscenza umana ha come sua prima sorgente l’espe- rienza sensitiva. Secondo Aristotele la felicità dell’uomo consiste nel- l'attività della ragione mediante l'esercizio delle virtù dianoetiche o dell'intelletto e le virtù morali. Per lui lo Stato ha origine naturale e non convenzionale; esso deve facilitare la completa realizzazione delle capacità umane. Esistono tre forme di costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia, repubblica) e tre forme ingiuste (tirannia, oligarchia, « democrazia ». L'estetica di Aristotele è una filosofia dell’arte, cioè un'attività che mira a pro- 275 durre una cosa bella. La funzione dell’arte è duplice: pedagogica e catartica (cioè di purificazione teoretica delle passioni). Aristotele ha realizzato una grandiosa costruzione filosofica i cui elementi fondamentali sono: efficace metodo di ricerca (logica) e forma espositiva; analisi acuta degli elementi costitutivi del mondo fisico; visione realistica del mondo e dell’uomo; concezione alta (per i tempi) della trascendenza di Dio. Elementi caduchi sono invece: inadeguata analisi della natura; mancato riconoscimento della causa efficiente del mondo; eternità della materia; concezione di Dio come motore immobile; dualismo di fondo del sistema. Opere principali: Metafisica (14 libri); Fisica (8 libri); Etica nico- machea {10 libri); Politica (8 libri); De anima (3 libri); Poetica. (1 libro). i Averroè (il suo nome arabo è Ibn Rushd) (1126-1198) Filosofo e scienziato arabo spagnolo, nacque a Cordoba, e di quella città fu anche per vari anni gadì (giudice). Genio polivalente operò in molti campi: teologia, diritto, medi- cina, matematica, astronomia e filosofia. Ma egli è ricordato soprat- tutto come commentatore di Aristotele, tanto che è chiamato « il commentatore » per antonomasia: « Averrois che '1 gran commento feo », dice Dante nella Divina Commedia. Averroè contribuì in modo determinante alla diffusione del pensiero di Aristotele tra gli scola- stici cristiani. L'interpretazione letterale delle opere di Aristotele operata da Averroè lo poneva spesso in contrasto con alcune dottrine fondamentali del cristianesimo. Per questo fu criticata da Alberto Magno e san Tommaso, i quali promossero una nuova interpreta- zione che si armonizzava più facilmente con la loro fede. Di religione musulmana, Averroè pone invece una netta separazione tra fede re- ligiosa e pensiero filosofico. Opere principali: Commentari (grande, medio, piccolo) alle opere di Aristotele (1169-1180); La distruzione della distruzione; Esposi- zione dei metodi di dimostrazione relativi ai dogmi della religione. Avicenna (il suo nome arabo è Ibn Sina) (980-1037) Filosofo e scienziato persiano, nacque a Bukara nell'Asia centrale (Uzbekistan). Ragazzo prodigio acquistò una cultura enciclopedica. Si affermò soprattutto come medico e come filosofo. A 17 anni era già un medico famoso e durante il Medioevo, in Europa, egli godeva più fama come medico che come filosofo. Per quanto concerne la filosofia, Avicenna è il massimo rappresen- tante della filosofia araba. Su una base sostanzialmente neoplatonica e utilizzando ampiamente le categorie metafisiche di Aristotele (ma- teria-forma, atto-potenza, sostanza-accidenti, ecc.) egli creò una im- 276 ponente sintesi tra il pensiero religioso musulmano e il pensiero filo- sofico greco. Opere principali: della sua prodigiosa produzione letteraria che venne molto diffusa nell'Occidente cristiano, sono noti soprattutto: il breve Najat (un compendio di metafisica); il voluminoso Chifa (conosciuto dai medioevali sotto il titolo di Liber sufficientiae: un'o- pera che comprende trattati sulla logica, la fisica, la matematica, la psicologia e la metafisica); il Canone (una grande enciclopedia me- dica in cinque libri); Direttive e rilievi; Libro di scienza. Bachelard Gaston (1884-1962) Epistemologo francese, nato a Bar sur Aube, insegnante per molti anni alla Sorbona di Parigi; come rappresentante del raziona- lismo scientifico è impegnato a chiarire il senso dell’opus rationale che costituisce la scienza. Egli si oppone sia al positivismo che allo spiritualismo. Nella sua gnoseologia Bachelard pone la coppia esperienza-ragione alla base di tutta la conoscenza umana. L’elemen- to teorico però svolge il ruolo direttivo. Il procedimento scientifico si configura come « realizzante », cioè come realizzazione del razionale e del matematico. La posizione filosofica di Bachelard potrebbe essere definita co- me un « razionalismo applicato », in cui primeggia la direttrice che va dalla ragione all'esperienza e che corrisponde alla supremazia della fisica-matematica. Come Gadamer e Popper, anche Bachelard ritiene che l'osservazione scientifica si realizza sempre muovendo da una teoria precedente e preparatrice e non viceversa. Opere principali: I! valore intuitivo della relatività (1929); Il nuo- vo spirito scientifico (1934); La formazione dello spirito scientifico (1938); Il razionalismo applicato (1949); Il materialismo razionale (1953). Bacone Francesco (Francis Bacon) (1561-1626) Nato a Londra da una famiglia dell'alta borghesia, si diede alla carriera politica ottenendo onorificenze e cariche importanti. Nel 1621 fu accusato e condannato per corruzione nell'esercizio delle sue funzioni di lord cancelliere. La pena inflittagli gli fu risparmiata per la protezione di cui godeva presso il re. Bacone elabora il nuovo metodo induttivo: con gli esperimenti si deve raccogliere una sufficiente informazione e poi, per mezzo della ragione, si devono elaborare ipotesi generali che consentano di arri- vare a riconoscere la causa del fenomeno studiato. Il fine della scienza è pratico, l'oggetto è la causa delle cose naturali. Nella sua opera Novum Organon contrappone una nuova logica induttiva a quella aristotelica, essenzialmente deduttiva. Nella 1? parte, pars destruens, demolisce quegli ostacoli (idola tribus, specus, fori, theatri) che possono impedire la ricerca scientifica; nella 2°, pars costruens, indica il procedimento per arrivare ai risultati. 277 Bacone ha il grande merito di essere stato il primo a porsi in maniera sistematica il problema del metodo proprio delle scienze sperimentali, del loro oggetto e del loro fine. Pur non avendo dato nessun contributo concreto al progresso di qualche scienza, il suo apporto è fondamentale perché ha fatto progredire la scienza in quanto tale. Opere principali: Discorso in elogio della conoscenza (1592); De sapientia veterum (1609); Instauratio magna scientiarum (1609) (in sei parti, ma ne portò a termine solo due: De dignitate et augmen- tis scientiarum e Novum Organon); Saggi (1625). Bergson Henri (1859-1941) Filosofo francese, nato a Parigi. Nel 1900 ottenne la cattedra di filosofia al Collegio di Francia, dove le sue lezioni ebbero un gran- dissimo successo. Nel 1927 ricevette il premio Nobel per la lettera- tura. La sua influenza sui suoi contemporanei e sulle generazioni successive (tra cui è da ricordare Maritain) fu notevole. È stato uno . dei  niaggiori rappresentanti dello spiritualismo- francese, in forte polemica ‘cori. il positivismo. e-lo scieritismo della fine .del secolo XIX e gli inizi del XX: è stato la loro coscienza critica. Esercitò una grande influenza anche sull'esistenzialismo francese, sul pragma- tismo e sulla fenomenologia. Bergson ha elaborato una filosofia antimeccanicistica e anti- materialistica imperniata su due tesi fondamentali: 1) la realtà è durata; 2) la realtà è colta mediante l'intuizione. La realtà scaturisce da una evoluzione creatrice colma di possenti energie, differente- mente impegnate (torpore vegetativo, istinto, intelligenza) e orientate in due direzioni: ascensionale {verso la vita), discendente (verso la materia). Oggetto della filosofia è lo slancio vitale, che si manifesta nel continuo divenire degli esseri: dalla materia allo spirito e dallo spi- rito alla materia. L'applicazione alla morale della distinzione fra ragione e intuizione dà origine rispettivamente alla morale « chiusa » e a quella « aperta ». La medesima distinzione vale per la religione « statica » e la religione « dinamica ». La pratica della religione di- namica è la vita mistica (il cui vertice è il misticismo cristiano). At- traverso l’esperienza dei mistici, Bergson arriva all'esistenza di Dio. La mistica, però, esige la « meccanica »; come la meccanica esige la mistica. Opere principali: Materia e memoria (1896); Il riso (1901); Intro- duzione alla metafisica (1903); L'evoluzione creatrice (1907); L'intui- zione filosofica (1911); L'energia spirituale (1919); Le due fonti della morale e della religione (1932); Il pensiero e il movimento (1934). Berkeley George (1685-1753) Irlandese, fu professore al « Trinity College » di Dublino. Nel 1709 prese gli ordini sacri nella Chiesa anglicana. Viaggiò in Inghil- 278 terra, Francia e Italia. Nel 1721 si recò in America per erigervi un seminario, ma dovette rinunciare. Nel 1723 fu nominato vescovo. Berkeley, che era un'anima profondamente religiosa, fu molto sensibile agli argomenti che i materialisti portavano contro la re- ligione, per cui tutta la sua attività filosofica fu rivolta alla difesa del teismo e all'affermazione del primato dello spirito sulla materia. Sua tesi fondamentale è quella secondo cui l'essere delle cose si risolve nell'essere pensato (tutte le qualità sono secondarie). La materia è passività, lo spirito è attivo; ed è nella mente (umana o divina) che le idee esistono. La propria esistenza è conosciuta im- mediatamente; la conoscenza degli altri spiriti è mediata e indiretta; la conoscenza di Dio è mediata ed evidente. Contro Locke sostiene che non esistono idee astratte e generali. La filosofia studia le idee ed il linguaggio attraverso il quale Dio si manifesta (la filosofia reli- giosa berkeleiana si ispira al neoplatonismo). ‘Solo la fede rivelata, infine, è in grado di illuminare la vita e di avere effetti benefici su- gli uomini. ù Opere principali: Commentari filosofici (1707-1708); Teoria della visione (1709); Trattato sui principi della conoscenza umana (1710); tre Dialoghi tra Hylas e Philonus (1713); De motu (1721). Bernstein Eduard (1850-1932) Nato a Berlino e passato attraverso l’esperienza dell'esilio sviz- zero, fu il massimo teorico del revisionismo socialdemocratico. Col- laboratore di Marx ed Engels, fu particolarmente amico di quest'ul- timo e ne ottenne l'affidamento delle opere postume. Nel 1919 iniziò una dura polemica contro il leninismo e il sistema rivoluzionario russo. Bernstein, che rifiuta la dittatura del proletariato sulle altre classi, affida al socialismo il compito etico di favorire la collaborazione tra le classi, realizzando delle riforme in seno alle stesse istituzioni borghesi al fine di realizzare l'integrazione dei lavoratori nella strut- tura produttiva. Egli ritiene fallite le previsioni fondamentali di Marx e vede come limite del marxismo il dualismo tra economia e politica. Il revisionismo-riformista di Bernstein deriva dalla sua convinzio- ne che la democrazia è un inizio e un fine al tempo stesso: soppres- sione del dominio di classe e perseguimento di una società migliore, quale impegno costante, senza fine, attraverso passaggi graduali e progressivi. Opere principali: Per la storia e la teoria del socialismo (1901); Ferdinand Lassalle (1914); I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1919). Bloch Ernst (1885-1977) Filosofo tedesco, tra i massimi esponenti del marxismo revisio- nista. Nacque a Ludwigshafen. Durante la prima guerra mondiale si 279 ritirò in Svizzera, mentre durante il dominio nazista si rifugiò negli Stati Uniti. Terminata la seconda guerra mondiale si trasferì nel 1949 nella Germania orientale, a Lipsia, occupando la cattedra di filosofia. Ma nel 1961, accusato di revisionismo, abbandonò la Ger- mania orientale e si trasferì a.Tubinga per ricoprirvi una cattedra di filosofia. Bloch ha operato una revisione profonda del marxismo soprattutto in due punti: a) nell'abbandono del principio della dia- lettica, ch'egli sostituisce con quello della ‘possibilità (del « non- ancora »); b) nell’incentrare l’interpretazione della storia in una nuova concezione dell'uomo, invece che nello studio dei fenomeni economici, come aveva fatto Marx. Anima dell’antropologia blochia- na è la speranza e l'utopia; a questa dimensione Bloch assegna un primato assoluto nei confronti di tutte le altre: vita, volontà, amore, pensiero ecc. La religione è la sfera in cui l’uomo proietta la sua brama di una esistenza riconciliata. Dio non è altro che un tenta- tivo di dare un volto allo « spazio utopico ». La costruzione della sua filosofia della speranza però è fragile e insostenibile. Opere principali: Spirito dell'utopia (1918); Soggetto-oggetto. Commento a Hegel (1949); Il principio speranza (1954-1959); Diritto naturale e dignità umana (1961); Ateismo nel cristianesimo (1968); Il problema del materialismo: storia e sostanza (1972). Blondel Maurice (1861-1949) Nato a Digione, collaborò con l'organo del movimento moder- nista Annali di filosofia cristiana, fondato da Laberthonnière. Quan- do, nel 1907, Ia Chiesa condannò il movimento modernista, Blondel cessò la sua collaborazione alla rivista. Ispirandosi al metodo volontaristito di Agostino e Pascal, cerca di dare un fondamento sicuro al riconoscimento dell’esistenza di Dio, mediante la dialettica dell'azione. Infatti agire è volere e volere è volere qualcosa: ciò che è proprio dell’agire è il continuo risorgere in esso di uno squilibrio tra il potere e il volere, tra la volontà voluta e la volontà volente. Ne deriva una insoddisfazione che non si appaga fino a che la volontà voluta non abbia soddisfatto pienamente al de- siderio infinito della volontà volente raggiungendo un oggetto ade- guato al suo desiderio infinito, cioè Dio. Blondel vuole dimostrare che la natura umana è aperta verso l'alto ed è predisposta, sia pure in modo passivo, ad essere inserita in un ordine di realtà superiore alla sua natura, che è il solo che possa realizzare completamente le tendenze dell'uomo. Opere principali: L'azione. Saggio d'una critica della vita e d'una scienza della pratica (1893); Storia e dogma{(1904); Il pensiero (1934); L'essere e gli esseri (1935); La filosofia e lo spirito cristiano (1944- 1946). Boezio Severino (480-524) Filosofo ed uomo politico, nacque a Roma dalla nobile famiglia 280 degli Anici. Fu console e primo ministro del re ostrogoto Teodorico. Accusato di tradimento, fu imprigionato, processato e giustiziato a Pavia. Nella sua opera più celebre, De consolatione philosophiae, scritta in prigione mentre attendeva l'esecuzione capitale, egli cerca di risolvere il problema eternamente dibattuto della sofferenza degli innocenti, e dei problemi con esso connessi, quali la provvidenza di Dio e la libertà umana, il tempo e l’eternità. Boezio è considerato uno dei padri della Scolastica e questo per due motivi: per la tradu- zione in lingua latina degli autori (Platone, Aristotele, Porfirio ecc.) ai quali gli scolastici attingeranno molte loro dottrine; e per la de- finizione di alcuni concetti fondamentali quali quello di persona, eternità, felicità ecc. che saranno ripresi e costantemente adoperati dai filosofi medioevali. Opere principali: l’attività letteraria di Boezio fu eccezionale. Tradusse in latino e commentò molte opere di -Platone, Aristotele, dei neoplatonici, degli scrittori di matematica, geometria, astronomia, musica del periodo ellenistico. Scrisse inoltre piccoli trattati di filosofia (De Trinitate; De hebdomadibus), di teologia (De fide catho- lica; Contra Eutichen et Nestorium), di musica (De institutione musicae). Ma la sua opera più celebre è il De consolatione philo- sophiae. Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) Nato a Bagnoregio (Viterbo), entrò nell'ordine francescano an- cora molto giovane. Studiò teologia a Parigi e fu nominato maestro di teologia. Nel 1255, fu esonerato dall'insegnamento, assieme a san Tommaso d'Aquino, per opera dei maestri secolari dell'università di Parigi. Nel 1257 fu reintegrato nell'insegnamento e poco dopo fu nominato ministro generale dell'ordine francescano. Teologo, !filosofo e santo. È ricordato col titolo di doctor sera- phicus. S. Bonaventura sottolinea con vigore la coesistenza di ragione e fede e la subordinazione della prima alla seconda. L'oggetto della filosofia è l’esemplarismo, cioè la proprietà che le cose hanno di essere immagine di Dio. Egli considera assurda la dottrina di una creazione nel tempo; ritiene che la « materia » (che non è concepita come qualcosa di corporeo) eniri nella costituzione di tutti gli es- seri finiti. L'uomo, pur essendo una sola natura, è costituito di corpo e di anima. La conoscenza umana si vale sia dell’astrazione sia della il- luminazione. La volontà, nell'uomo, è più importante dell’intelletto. L'esistenza di Dio è evidente. In ‘Lui ci sono tre tipi di conoscenza: approvazione, visione, intelligenza. L'essenza divina è il modello di tutte le cose. ‘In una delle sue opere più importanti, il trattato mistico Itinera- rium mentis in Deum, afferma che il nostro processo di ascensione 281 dalle cose sensibili verso Dio avviene per gradi: per conoscenza dei vestigi della Trinità nel mondo sensibile, per conoscenza dell’im- magine che abbiamo della Trinità nella nostra anima; per conoscenza diretta di Dio. Opere principali: Commentario alle Sentenze (quattro volumi scritti fra il 1250 e il 1254); Quaestiones disputatae: De scientia Christi (1254), De mysterio Trinitatis (1254), De perfectione evange- lica (1255); Breviloquium (1254-1257); Reductio artium ad theolo- giam (1254-1255); Itinerarium mentis in Deum (1259). Bontadini Gustavo (1903) ‘.. Filosofo italiano, nato a Milano, professore di filosofia teoretica nelle università di Urbino e Pavia e poi all'Università Cattolica di Milano. È da annoverarsi tra i rappresentanti più significativi ed au- torevoli della neoscolastica italiana. Inizialmente seguace dell'ideali- smo gentiliano, ben presto l’abbandonò per orientarsi decisamente verso una visuale metafisica cristiana che assume come principio fondamentale la creazione del divenire o « teorema della creazione ». Secondo Bontadini la mediazione metafisica dell'esperienza è neces- saria per rimuovere quella contraddizione che si presenta sul piano fenomenologico: la contraddizione costituita dall’identità del posi- tivo e del negativo nel divenire. Opere principali: Saggio di una metafisica dell'esperienza (1938); Studi di filosofia moderna (1966); Metafisica e deellenizzazione (1971); Conversazioni di metafisica (1971). Boutroux Emile (1845-1921) Nato a Montrouge, studiò filosofia, matematica e fisica. Si laureò alla Sorbona. Insegnò all'università di Nancy e poi alla Sorbona. Boutroux fa una critica radicale al positivismo meccanicistico, in nome della libertà della natura e dello spirito, e di una nuova concezione della scienza. L'unica vera legge necessaria è quella del principio di identità che è una legge del pensiero e non delle cose. La scienza della natura deve accontentarsi di leggi contingenti. Le leggi del I gruppo (logiche, matematiche, meccaniche, fisiche) si prestano meglio al calcolo matematico, quelle del II gruppo ({biolo- giche, psicologiche, sociali) sono più vicine alla realtà. Oltre lo spi- rito scientifico, vi è la « ragione » che si occupa delle ragioni umane e divine. Opere principali: Sulla contingenza delle leggi della natura (1874), L'idea della legge naturale nella scienza e filosofia contemporanea (1895); La natura e lo spirito (1904-1905); Scienza e religione nella filosofia contemporanea (1908). Bruno Giordano (1548-1600) Nato a Nola, entrò nell'ordine domenicano e dopo essere stato accusato di eresia, lasciò l'abito talare. Dopo aver peregrinato in 282 Svizzera, Francia, Inghilterra e Germania, fu denunziato al tribunale dell’Inquisizione e, non volendo ritrattare, fu arso sul rogo a Roma. Per Bruno la realtà è costituita da due principi fondamentali: il principio attivo o anima del mondo, e quello passivo o materia. Dio si identifica con l’anima del mondo che genera eternamente un mondo infinito (panteismo). Dio non è conoscibile; lo spirito uma- no è spinto dall’'eroico furore a tendere sempre più in alto e ad avvi- cinarsi a Dio, disinteressandosi di ciò che prima lo teneva avvinto. Opere principali: De la causa principio et uno (1584); De l’infi- nito universo et mondi (1584); La cena delle ceneri (1584); Spaccio della bestia trionfante (1584); Eroici furori (1585); De monade (1590). Buber Martin (1878-1965) Filosofo tedesco nato a Vienna da famiglia israelita, ha insegnato etica ebraica a Francoforte e dal 1938 si è trasferito in Palestina; è il più importante rappresentante del personalismo religioso ispi- rato dalla tradizione ebraico-hassidica. È morto a Gerusalemme. Secondo Buber la persona è un essere in relazione, caratterizzato dall'esperienza dialogica /o-Tu. Il dialogo con Dio è la garanzia della comunione tra gli uomini. Buber contrappone il rapporto « Io-Tu » che è proprio della relazione dialogica al rapporto « Io-Esso » che è quello dell’affermazione individuale. L'individualità appare in quanto si distingue da altre individualità. La persona appare in quanto entra in relazione con le altre persone. La prima è il legame naturalizzato, la seconda è la forma spirituale della indipendenza na- turale. Il rapporto « Io-Esso » è caratterizzato dall'uso, dal possesso, dal dominio, dalla fatalità. Il rapporto « Io-Tu » è caratterizzato dal dia- logo, dall'incontro, dalla dedizione, dall'amore, dalla libertà, dal destino. Opere principali: La leggenda di Baal Shem {1908); la sua opera fondamentale Jo e Tu (1923); Gog e Magog (1941); I racconti dei chassidim (1949); Sentieri in Utopia (1950); Immagini del bene e del male (1952). Butler Joseph (1692-1752) Filosofo inglese, fu vescovo di Durham e cappellano della casa reale. Aperto avversario e critico intelligente del deismò radicale e dell'illuminismo antireligioso, Butler sostenne la complementa- rietà e convergenza tra natura e rivelazione, evidenziando tutta una serie di analogie che intercorre tra i due ordini. Ciò vale anche per l'ordine etico: in effetti la coscienza, voce naturale di Dio nell'uomo, mentre gli rivela la sua miseria e i suoi limiti, allo stesso tempo gli testimonia la sua vocazione soprannaturale. Opere principali: Quindici sermoni sulla natura umana (1720); Analogia della religione naturale e rivelata con la costituzione e il corso della natura (1736). 283 Calvino, nome italianizzato di Jean Cauvin (1509-1564) Nato a Noyon, in Francia, fu contemporaneo di Lutero e fu con lui il padre deila Riforma protestante. Di famigiia borghese, rice- vette dapprima una formazione umanistica a Parigi; poi per volontà del padre si dedicò agli studi giuridici nelle università di Orleans e Bourges, conseguendo il dottorato in giurisprudenza. Quando co- minciò a interessarsi della Riforma luterana si rifugiò nel 1534 in Svizzera, prima a Basilea e poi a Ginevra, dove fomentò e capeggiò la rivolta contro la Chiesa di Roma; fondò una nuova chiesa di cui divenne il leader indiscusso, onnipotente e intollerante. La sua opera principale è intitolata Institutiones religionis christianae (4 volumi). I punti chiave del suo sistema sono i seguenti: sovranità assoluta ed esclusiva della Parola di Dio, cioè della Scrittura; predestinazione di alcuni uomini alla salvezza e di altri alla dannazione eterna. La vera Chiesa è quella dei predestinati alla vita eterna e, in concreto, di coloro che aderiscono a Cristo con fede sincera; tale adesione si manifesta esteriormente con i sacramenti del Battesimo e della Cena e con le opere buone. Campanella Tommaso (1568-1639) Nacque a Stilo, in Calabria. Domenicano, nel 1599 preparò una insurrezione della Calabria contro la Spagna. Imprigionato, rimase in carcere per 27 anni. Liberato nel 1633, si rifugiò poi a Parigi, dove morì, sotto la protezione del re Luigi XIII. Campanella segue in parte la teoria di Telesio del sensismo e del naturalismo, ma lo supera per la sua teoria della conoscenza innata di sé (sensus inditus) che precede e condiziona ogni altra conoscenza. Nelle cose l’autocoscienza diventa sensus abditus cioè nascosto per- ché le cose subiscono un forte influsso dall'esterno. Nella Città del Sole Campanella formula il suo stato ideale, il cui governo è teo- cratico, con perfetta fusione del potere politico e religioso. Tenta di fondere il cristianesimo (religio addita) con la religione naturale (religio indita) dettata dalla ragione. Opere principali: Philosophia sensibus demonstrata (1591); La città del sole (1602); Philosophia rationalis (1606-1614); Theologia (1613-1624); Philosophia realis (1619); Metaphisica (1623). Carnap Rudolf (1891-1970) Filosofo tedesco, nato a Ronsdorf, tra i massimi esponenti del positivismo logico. Dopo gli studi a Jena, si trasferì a Vienna dove entrò a far parte del Wiener Kreis, ai cui lavori partecipò attiva- mente fino al 1935 quando, con l’avvento del nazismo, fu costretto a trasferirsi negli Stati Uniti, prima a ‘Chicago e poi a Los Angeles, sino alla morte. Lucido e convinto asseriore delle tesi de] positivismo logico o neopositivismo, Carnap afferma recisamente che compito della filosofia non è quello di elaborare teorie e costruire sistemi, ben- sì quello di sviluppare un metodo: il metodo dell'analisi logica o lin- 284 guistica e, con esso, vagliare tutto quanto viene affermato nei vari campi del sapere. Tale metodo ha una duplice funzione: togliere di mezzo le parole prive di significato e così pure le pseudo-proposi- zioni; chiarire i concetti e le proposizioni aventi significato, per dare in tal modo una fondazione logica alla scienza sperimentale, e alla fisica in particolare. Per decidere del significato delle propo- sizioni Carnap opta per il criterio della verifica sperimentale, per cui « se una proposizione significa qualcosa, può significare soltanto un dato empirico ». Con questo criterio di significazione ultraradi- cale egli elimina tutti gli enunciati metafisici, etici, religiosi, estetici. Questi non possono avere significato teoretico o conoscitivo, ma semplicemente emotivo, soggettivo. Opere principali: La costruzione logica del mondo (1928); La sin- tassi logica dei linguaggio (1934); Introduzione alla semantica (1942); Formalizzazione della logica (1943); Fondamenti logici della proba- bilità (1950). Carneade (219-129 a.C.) Filosofo greco nato a Cirene, è tra i maggiori esponenti della Se- conda Nuova Accademia, di cui ebbe anche per qualche tempo la direzione. Assertore di uno scetticismo moderato, ammette per l’uo- mo la possibilità di conoscere ciò che è probabile, anche se non gli riconosce il potere di raggiungere con certezza la verità. Per Car- neade il sapiente è colui che, pur sapendo che la verità è irraggiun- gibile, non desiste dal cercarla assiduamente. Nella vita pratica, sa- piente è colui che segue ciò che gli sembra più vicino alla verità e al bene. Non ha lasciato nessuno scritto; il suo pensiero ci è pervenuto attraverso le testimonianze trasmesse da Cicerone e Sesto Empirico. Cartesio (René Descartes) (1596-1650) Nacque a La Haye in Touraine. 'Studiò nel collegio dei gesuiti di La Flèche. Viaggiò in Germania, Olanda, Italia, Francia. Cartesio, che fa assumere alla filosofia una impostazione pretta- mente critica e gnoseologica, può essere considerato l’iniziatore della filosofia moderna, sia per l'orientamento epistemologico della sua filosofia, sia per il soggettivismo ed il razionalismo che sono impli- citi nel suo filosofare. Ritiene che l'indagine ‘filosofica debba comin- ciare con lo studio della mente umana per accertare la natura e la possibilità della conoscenza. Primo scopo che si propone Cartesio è quello della ricerca di un metodo adatto per la conquista del sapere. Scopre questo metodo prendendo in considerazione quello matema- tico, secondo il criterio di chiarezza e distinzione. Pone come prin- cipio fondamentale di tutta la conoscenza il « cogito ergo sum », cioè la certezza del proprio pensiero e della propria esistenza. In base ad esso ricostruisce tutto l'universo della metafisica clas- sica: prova che l'essenza dell'uomo (composto di materia e spirito) consiste nel pensiero (r2s cogitans); dimostra l'esistenza di Dio con la 285 prova ontologica; afferma che il mondo è essenzialmente estensione (res extensa). Opere principali: Discorso sul metodo (1637); Meditationes de pri- ma philosophia (1641); Principia philosophiae (1644); Trattato sulle passioni dell'anima (1649). Comte Auguste (1798-1857) Filosofo e sociologo francese, nacque a Montpellier da genitori cattolici, ma perdette la fede quand'era ancora molto giovane. Stu- diò all'École Polytecnique di Parigi. Per qualche tempo fu discepolo e collaboratore di Saint-Simon, dal quale apprese l'interesse per la sociologia e per la storia. Nel 1826 dette inizio a Parigi ad un corso di lezioni di filosofia positiva; ma le precarie condizioni di salute e le opposizioni ai suoi insegnamenti lo costrinsero prima a sospen- derlo e poi ad interromperlo definitivamente. Nel 1845 ebbe un'altra grave crisi nervosa e si unì a Clotilde de Vaux la quale morì nel 1846. Da questo legame ricavò l'ispirazione per una religione mi- stica umanitaria. L'intento primario della riflessione filosofica di Comte, che è con- siderato il fondatore del positivismo, è duplice: a) elaborare una filosofia della storia fondata non sul principio del divenire dialettico (come aveva fatto Hegel) ma sul principio della evoluzione progres- siva dell'umanità; b) costruire una teoria scientifica della società. Secondo Comte tutto l'universo procede dalla materia per via di evoluzione. Anche l'uomo è un prodotto dell'evoluzione della mate- ria. Quando l'evoluzione raggiunse lo stadio umano ebbe inizio la storia, le cui fasi principali sono tre: religiosa, filosofica e scientifi- ca. Attualmente l'umanità ha raggiunto la fase scientifica e si è quin- di lasciata alle spalle la interpretazione religiosa e filosofica della realtà. Il traguardo ultimo della ricerca scientifica è « giungere allo studio sistematico della umanità, sola sua stazione finale ». Opere principali: Piano di lavori scientifici necessari per riorga- nizzare la società (1822); Sistema di politica positiva (1824); Corso di filosofia positiva (opera in sei volumi scritta fra il 1830 e il 1842); Calendario positivista (1849); Sistema di politica positiva o trattato di sociologia che istituisce la religione dell'umanità (opera in quattro volumi scritta fra il 1851 e il 1854); Catechismo positivista (1852). Croce Benedetto (1866-1952) Filosofo e uomo politico, nacque a Pescasseroli (L'Aquila). Nel 1903 iniziò la pubblicazione de La Critica. Nel 1920, durante l’ultimo governo Giolitti, fu ministro dell'educazione. Quando Mussolini salì al potere, si ritirò dalla politica. . Croce identifica la filosofia con la storia (storicismo) per cui concepisce tutta la realtà come storia, cioè come opera dello spirito. Il compito dello storico è quello di capire i fatti storici; in senso as- soluto nella storia non c'è mai decadenza (storicismo assoluto). Lo 286 spirito nella ricerca della sua piena autocoscienza, esercita quattro attività: estetica, logica, economica ed etica. Le prime due sono attività teoretiche, le ultime due pratiche. Le attività estetica ed eco- nomica hanno per oggetto l’'individuale; le attività logica ed etica hanno per oggetto l’universale. Il rapporto fra le varie attività è regolato dal principio del nesso dei distinti che integra la dialettica hegeliana degli opposti, in quanto i termini non si annullano come gli opposti ma armonizzano fra loro come momenti dello spirito. Il rapporto fra i diversi gradi è chiamato « circolarità dello spirito ». Delle quattro attività dello spirito quella che Croce ha analizzato più acutamente è quella estetica. Definisce l’arte « intuizione lirica del particolare », cioè l'immagine estetica è una sintesi di intuizione e sentimento: il sentimento è l'elemento materiale, l'immagine è quello formale. Il valore dell'arte, che è autonoma, non può essere né pratico, né intellettualistico ma solo teoretico e conoscitivo. Opere principali: di carattere filosofico: La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte (1893); Materialismo storico ed economia marxista (1900); Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902); Logica come scienza del concetto puro (1905); Filo- sofia della pratica (1909); La filosofia di Vico (1911); Saggio sullo Hegel (1913); Etica e politica (1931); Il carattere della filosofia mo- derna (1940); Filosofia e storiografia (1949); Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Di carattere letterario: Ariosto, Sha- kespeare e Corneille (1920); La poesia di Dante (1921); Poesia popo- lare e poesia d'arte (1933); Poesia antica e moderna (1941). Cusano Nicolò (Nicola Crypffs) (1401-1464) Nacque a Cues (Germania), e fu matematico e astronomo. Nel 1450 fu nominato cardinale e vescovo di Bressanone. Sî propone la rinascita religiosa e concepisce il ritorno al platoni- smo (inteso come sintesi del pensiero religioso dell'antichità) come condizione di tale rinascita. Dalle teorie di Occam desume l’impossi- bilità di conoscere Dio per via raziocinativa. Tuttavia afferma che possiamo avere l’intuizione di Dio; quanto alla natura divina sostiene che è assolutamente inconoscibile (docta ignorantia). Opere principali: De concordantia catholica (1433); De docta ignorantia (1440); De coniecturis (1441); Apologia doctae ignorantiae (1449); Idiota (1450); De visione Dei (1453); De venatione sapientiae (1463); De apice theoriae (1464). Darwin Charles Robert (1809-1882) Biologo e naturalista inglese, nato a Shrewsbury e morto a Down. Dopo alcuni anni di studi di medicina che aveva iniziato a Edim- burgo e di teologia a Cambridge, si dedicò a quelli delle scienze naturali a Cambridge. Nel 1831 ebbe la possibilità di imbarcarsi in qualità di naturalista sul brigantino Beagle al seguito di una spedi- zione scientifica intorno al mondo. Il viaggio durò cinque anni e gli 287 consentì di raccogliere moltissimo materiale intorno alla flora e alla fauna di vari continenti e sulle formazioni geologiche della terra. Dallo studio di tale materiale, al suo rientro in patria, poté pubbli- care nel 1839 un diario col titolo Viaggio di un naturalista intorno al mondo e nel 1859 il famosissimo Sull’origine della specie per selezione naturale. In questo scritto Darwin getta le basi dell’evolu- zionismo scientifico. Secondo Darwin tutti gli esseri viventi traggono origine da pochi esemplari per evoluzione, secondo leggi ben precise, di cui le principali sono le seguenti: « Crescita (cioè moltiplicazione degli esseri) con la riproduzione; ereditarietà, che è quasi implicita nella riproduzione; variabilità in conseguenza dell’azione diretta e indiretta delle condizioni di vita e dell'uso o disuso degli organi; un aumento così grande da portare alla lotta per la vita e conseguen- temente alla selezione naturale implicante la diversificazione di tipi e l'estinzione delle forme meno sviluppate » (Origine della specie). La teoria darwiniana dell'evoluzione ha esercitato un'influenza im- mensa in tutti i campi, ed anche in quello filosofico, ed è diventata assieme alla psicanalisi di Freud e all'analisi socio-politica di Marx uno dei tre pilastri portanti della cultura occidentale dell'ultimo secolo. Da tempo, però, quello dell’evoluzione, alla pari degli altri due pilastri, mostra crepe allarmanti. Democrito (460-360 a.C.) Nacque ad Abdera, in Tracia. È il vero fondatore della Scuola atomistica, secondo cui l'essere è costituito da atomi, particelle indivisibili e immutabili, immerse nel vuoto. Dal movimento degli atomi derivano tutte le cose, secon- do un meccanico determinismo. È il primo filosofo che si occupa dell'origine del linguaggio. Opere principali: Mikròs diàkosmos (Piccolo ordinamento del mondo); Logikà (Canoni); Hypothékai (Consigli); Perì Ideon. Dewey John (1859-1952) Filosofo e pedagogista americano, nato nel Vermont (Stati Uniti), insegnò all’università di Chicago e poi alla « Columbia University » di New York. Passò dall’idealismo ad un evoluzionismo naturalistico influenzato dal pragmatismo e, nel 1896, diede vita alla « scuola- laboratorio », fondata sull'attivismo pedagogico. Fondò un partito di tendenza riformista e, nel 1937, denunciò i crimini dei processi staliniani. La funzione della mente umana e quindi della conoscenza è di ricercare le vie più sicure del progresso. Ne deriva che il pensiero ha per Dewey un carattere essenzialmente strumentale. L'uomo è inteso non come parte del meccanismo naturale, bensì come forza il cui agire possa modificare in meglio le condizioni del mondo. L'agire dell'uomo deve tendere dunque alla socializzazione, alla so- lidarietà, affinché si costituisca una società veramente democratica, 288 capace di realizzare il dominio completo della natura, sottometten- dola ai nostri fini. In campo pedagogico insiste sull’attivismo nell’apprendimento e sul fine sociale dell'educazione che può risolvere tutti i problemi sociali e realizzare la vera democrazia. ‘Opere principali: Il mio credo pedagogico (1897); Scuola e società (1900); Studi sulla teoria logica (1903); Etica (1908); Democrazia ed educazione (1916); Ricostruzione filosofica (1920); Esperienza e na- tura (1925); Filosofia e civiltà (1931); Logica, teoria dell'indagine (1938); Libertà e cultura (1939); Il conoscente e il conosciuto (1949). Dilthey Wilhelm (1833-1911) Filosofo e storico tedesco, nato a Biebrich, in Renania, è stato un oppositore del positivismo ed il massimo rappresentante dello sto- ricismo tedesco contemporaneo; studiò a Berlino e insegnò a Ba- silea, Kiel, Breslavia e Berlino. Morì a Siusi, in Alto Adige. Sulla scorta di Rickert, Dilthey sostiene che i fenomeni culturali o spirituali possono essere colti solamente attraverso l’Erlebnis, cioè l'esperienza vissuta. Dell'Erlebnis, Dilthey distingue tre aspetti inseparabili: 1) la vita (momento della soggettività, dell'immediatezza, della singolarità); 2) l’espressione e 3) l’intendimento (momento dell’universale e del- l'oggettività). Le scienze dello spirito si «distinguono pertanto dalle scienze «della natura sia per l'oggetto che per il metodo. Dilthey è inoltre preoccupato di determinare i rapporti tra storia e (filosofia, che finisce per identificare, poiché la vita è la realtà suprema e la storia (unica vera filosofia) è l’espressione unica e ge- nuina della vita. I principi che giustificano tale identificazione sono i seguenti: 1) l'uomo si conosce solo attraverso la storia; 2) un'epoca è compren- sibile solo se se ne conoscono i precedenti storici; 3) i sistemi filosofici riflettono la mentalità di un dato popolo e di un dato periodo, perciò sono comprensibili solo se studiati storicamente. Dilthéy distirigue tre sistemi filosofici fondamentali: a) il mate- rialismo {primato della categoria di causa); b) l'idealismo oggettivo (primato dell'idea di valore); c) l'idealismo soggettivo (primato dell'idea di fine). Causa, valore e fine rappresentano diverse relazio- ni dell'uomo con il mondo. Opere principali: Introduzione alle scienze dello spirito (1883); Idee per una psicologia descrittiva e analitica (1894); La nascita del- l'ermeneutica (1900); L'essenza della filosofia (1907); La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Eckhart Johannes (1266-1327) Domenicano della provincia tedesca, discepolo di Alberto Magno e contemporaneo di Occam, Meister Eckhart fu per oltre un decen- nio provinciale dei domenicani tedeschi. Accusato di eresia nel 1326 289 fu sottoposto a processo. Questo si concluse due anni dopo la sua morte con la condanna di 26 proposizioni tratte dalle sue opere. La visione filosofico-religiosa di Eckhart si caratterizza come un misticismo di tipo idealistico. Fine ultimo dell'uomo è l'unione con Dio. Questi è concepito come identità di pensiero ed essere, ma con la priorità del pensiero sull'essere, anziché dell'essere sul pensiero come aveva insegnato san Tommaso. Poiché l'essere di Dio si identifi- ca col conoscere, l'uomo ascende a Lui man mano che si avvicina al- l'intellettualità. Nell'intelletto e più precisamente nella contempla- zione si realizza l'unione e l'immersione dell'anima in Dio. Opere principali: gli scritti di Eckhart comprendono oltre ad un'opera sistematica di vaste proporzioni in lingua latina, intito- lata Opus tripartitum, alcuni saggi in lingua tedesca, che gli hanno meritato il titolo di « creatore della prosa tedesca »; Quaestiones de esse; Commento al Parmenide di Platone. Empedocle (fine V sec. a.C.) Nato ad Agrigento, fu medico ed ebbe la fama di mago. iLe dottrine principali della sua filosofia riguardano la causa prima di tutte le cose che è riposta nei quattro elementi (terra, ac- qua, fuoco e aria) assolutamente originali e immutabili e il mecca- nismo della conoscenza che è spiegato mediante la teoria dell'ana- logia. Il divenire consiste nell'unirsi e disunirsi dei 4 elementi ed è causato dalla lotta di due forze primordiali: Amore e Odio. Opere principali: Sulla natura; Carmen lustrale. Engels Friedrich (1820-1895) Filosofo tedesco nato a Barmen da una famiglia facoltosa che aveva interessi nell'industria tessile inglese, conobbe Marx a Parigi, in un viaggio nel 1844 e ne divenne intimo amico. Dopo i moti in Germania del 1848 a cui partecipò, si trasferì in Inghilterra e nel 1869 si stabili a Londra lavorando intensamente insieme a Karl Marx sul piano politico e intellettuale. Dalla visione idealistica passò a quella materialistica, dopo la lettura dell'opera L'essenza del cristianesimo di Feuerbach. In col- laborazione con Marx scrisse il famoso Manifesto del partito comu- nista e La sacra famiglia in cui si criticano le dottrine di Bauer e degli altri hegeliani di sinistra. Operando in stretta collaborazione con Marx, dopo il 1844 non è facile distinguere i tratti originali del suo pensiero. Comunque, si può stabilire con sicurezza che per la sua competenza in campo economico-commerciale e la conoscenza della situazione sociale inglese fu Engels a fornire a Marx il taglio economico e sociale del suo materialismo. In alcuni saggi Engels ha cercato di illustrare la diversità tra i materialismi precedenti e quello professato da lui e da Marx. La differenza fondamentale sta nel fatto ‘che, mentre i materialismi precedenti guardavano alla natura come un insieme di realtà sta- 290 tiche, « il materialismo moderno vede nella storia l'evoluzione stessa dell'umanità secondo un movimento, e il suo scopo è di riconoscerne le leggi ». In altre parole, il nuovo materialismo di Engels e di Marx non è più naturalistico ma storico e inoltre non è più statico ed im- mobilistico, bensì evolutivo e dinamico. Opere principali: La situazione della classe operaia inglese (1845); Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884); Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1888). Dopo la morte dell'amico condusse a termine il secondo e terzo vo- lume de // Capitale. Epicuro (341-271 a.C.) Filosofo greco, fondatore della scuola filosofica che da lui prende il nome e che ebbe largo seguito durante il periodo ellenistico. Nato a Samo da genitori ateniesi, Epicuro fu praticamente un autodidatta. Nel 310 fondò una scuola a Mitilene; nel 306 si trasferì ad Atene dove comprò una casa con un giardino (il famoso « giardino di Epicuro »), dove fissò stabilmente la sua scuola e che lasciò in eredità ai suoi discepoli. Intollerante e polemico verso gli altri filosofi, Epicuro fu verso i suoi discepoli di somma affabilità e generosità, guadagnan- dosi una venerazione che col tempo divenne vero e proprio culto. Scrisse molto, ma tutte le sue opere andarono perdute tranne al- cune massime, tre lettere e il Testamento che sono stati conservati da Diogene Laerzio nel libro X delle sue Vite. Alla conservazione, alla diffusione e quindi alla fortuna dell’epicureismo contribuì mol- tissimo Lucrezio col suo poema, De rerum natura, nel quale il poeta latino addita la dottrina di Epicuro come farmaco supremo ai mali umani, dovuti a superstizioni e a falsi timori. Davanti ai grandi problemi filosofici che angustiano la mente umana, Epicuro assume una posizione di netto contrasto con lo stoicismo. Epitteto (50-138) Era un liberto di Nerone, il quale lo emancipò. Andò alla scuola del filosofo Musonio Rufo. Quando Domiziano, nel 92, cacciò dal- l’Italia tutti i filosofi, si rifugiò nell'Epiro e lì fondò una sua scuola. È il più celebre rappresentante dello stoicismo. Il suo pensiero filosofico è contenuto nel Manuale e nei Discorsi. Più ancora che in Zenone e Crisippo (i fondatori della scuola stoica) in Epitteto lo stoicismo diviene un sistema di vita, una dottrina morale. Si tratta d'una morale molto rigida, che nulla concede agli istinti e alle passioni, nulla agli onori, alla ricchezze e ai piaceri, e punta tutto sulla interiorità, sull'amore per il prossimo e l'unione col Logos. Questi, sotto l'influsso del cristianesimo, in Epitteto acquista le caratteristiche del Dio persona, provvidente e paterna, dei cristiani. Secondo Epitteto tutto quello che accade all'uomo, accade per volere del Logos, il quale agisce sempre secondo ragione e mai arbitraria- 291 mente. Il Logos esercita sull'uomo e su tutte le creature una perfetta provvidenza, senza lasciare nulla all'arbitrio umano. L'uomo è libero in quanto si uniforma alle leggi del Logos. Opere principali: Manuale; Discorsi. Eraclito (550-480 a.C.) Nato ad Efeso, secondo la leggenda, fu uomo aristocratico ed eccentrico. Avversò la democrazia nella sua città e si rifiutò di colla- borare alla stesura della nuova costituzione. Sostiene che la realtà è in continuo divenire (pànta rèi) e pone come principio di questo divenire il fuoco, ricollegandosi agli Ionici. La forza che opera l'unificazione del molteplice è il Lògos. Opere principali: unica opera di cui si abbia notizia è Perì phy- seos (Sulla natura delle cose), che gli procurò la fama di pensatore enigmatico e oscuro. Feuerbach Ludwig (1804-1872) Nacque a Landshut (Baviera). Studiò prima teologia e poi filo- sofia. Frequentò, a Berlino, le lezioni di Hegel. Nel 1828 ottenne la libera docenza all'università di Erlangen. Riprende le critiche a Hegel sulla religione, proprie di Sturm e Bauer. Nega ogni valore al cristianesimo. La filosofia religiosa di Feuerbach è pertanto uno studio dell'origine dell'idea di Dio e dei suoi attributi. L'origine dell'idea di Dio ha il carattere di ipostatiz- zazione: l'uomo proietta le qualità positive che ha in sé in una per- sona divina e ne fa una realtà sussistente di fronte alla quale si sente schiacciato come un nulla. All'adorazione degli enti divini bisogna sostituire il culto dell'umanità. Per Feuerbach non è il pensiero che causa la materia, ma la materia a svilupparsi in pensiero, quando tocca i vertici della sua evoluzione. Opere principali: Pensieri sulla morte e l'immortalità (1830); Per la critica della filosofia hegeliana (1839); Essenza del cristianesimo (1841); Principi della filosofia dell'avvenire (1843); L'essenza della fede secondo Lutero (1844); L'essenza della religione (1846); Lezioni sull'essenza della religione (1851); Teogonia (1857). Fichte Johann Gottlieb (1762-1814) Nacque a Ramenau in Sassonia, studiò all'università di Jena. Fu discepolo di Kant. Nel 1807, durante l'invasione napoleonica della Prussia tenne presso l'università di Berlino i famosi Discorsi alla nazione tedesca. Fichte fu il primo ad avvertire le contraddizioni che minacciavano il criticismo di Kant e a risolverle in direzione dell'idealismo. Ne- gando l’esistenza della cosa in sé (noumeno), la realtà ha un unico fondamento che può essere solo di natura spirituale, ossia il pen- siero. Il pensiero è l'Io puro. Ma alla funzione del pensare non è292 sufhciente l'identità del pensiero con sé stesso: occorre un soggetto pensante e un oggetio pensato. L'io puro origina quindi il soggetto pensante o « io empirico » e l'oggetto pensato o « non io». Fra io puro, io empirico e non-io esiste una netta distinzione. L'io puro ha una priorità assoluta sull'io empirico e sul non io. Il fine ultimo del- l'io empirico sta nel raggiungimento dell'io puro; per raggiungere tale traguardo deve rimuovere tutti gli ostacoli frapposti dal non-io. L'uomo è in continuo progresso verso il traguardo della perfetta coerenza con sé stesso. Nell'ultima fase del suo filosofare Fichte offre una nuova consi- derazione dell’assoluto, che viene concepito come un Dio sussistente e, a suo modo, trascendente. Opere principali: Rivendicazione della libertà di pensiero (1793); Contributi per rettificare i giudizi del pubblico sulla rivoluzione fran- cese (1793-1794); Fondamenti dell'intera dottrina della scienza (1794); Alcune lezioni sulla missione del dotto (1794); Fondamenti del diritto naturale (1796-1797); Il sistema della dottrina morale {1798); La mis- sione dell'uomo (1799); Introduzione alla vita beata (1806); Discorsi alla nazione tedesca (1807). Filone Alessandrino (13 a.C.-40 d.C.) Nato ad Alessandria d'Egitto da una nobile famiglia ebraica della diaspora, fu rabbino di quella città, contemporaneo di Cristo e autore di numerosi commenti alla Sacra Scrittura. Filone è considerato da tutti come l’iniziatore di un nuovo modo di interpretare la Sacra Scrittura, il modo allegorico (0 metodo alle- gorico). Ma da molti oggi è ritenuto anche fondatore di un nuovo tipo di speculazione, chiamata filosofia religiosa. In effetti Filone ha ela- borato un sistema in cui si saldano armonicamente le dottrine fonda- mentali della fede biblica con le principali dottrine di Platone e degli Stoici: dottrina delle Idee, del Logos, dell'immortalità dell'anima, della contemplazione ecc. La filosofia religiosa iniziata da Filone esercitò grande influsso sui padri della chiesa e anche sugli scola- stici che la continuarono e perfezionarono. Opere principali: Commento allegorico sulle sante Leggi; Sul de- calogo; Sulle leggi particolari; Sulia migrazione di Abramo; Sulla provvidenza; Sull’eternità del mondo, Foucauli Michel (1926-1984) Filosofo e saggista francese, nato a Poitiers, ha studiato al- l’« École Normale Supérieure » di Parigi e poi in Germania, Polo- nia e Svezia. Di vasta esperienza culturale (medicina, filosofia, psico- logia, storia), si è ben presto affermato tra i massimi esponenti della rivoluzione culturale dell'ultimo ventennio. È stato professore al « Centro Universitario Sperimentale » di Vincennes e ha insegnato dal 1970 storia dei sistemi di pensiero al « Collège de France ». Dallo studio della storia della medicina, Foucault è passato, par- 293 tendo da Heidegger, ad una indagine epistemologica delle strutture fondamentali del conoscere che sono alla base dei vari momenti della storia della moderna civiltà occidentale. Foucault svilupperà l'analisi strutturalistica del linguaggio di de Saussure spostandola dal livello dei fonemi a quello degli enunciati e concentrerà la sua attenzione sulle società evolute moderne piut- tosto che su quelle primitive. Secondo Foucault ogni cultura ha il suo « a priori storico », sot- tofondo comune a tutte le arti, scienze e ideologie di un determinato periodo. In ordine al problema del linguaggio Foucault distingue l’analisi della lingua dall'analisi degli enunciati, così come distingue la storia del discorso dall'analisi del campo discorsivo. Infine, sotto- linea come l’analisi enunciativa sia soprattutto un'analisi storica, che si tiene fuori da ogni interpretazione. Opere principali: Malattia mentale e psicologia (1954); Storia della follia (1961); Nascita della clinica (1963); Parole e cose (1967); Archeologia del sapere (1969); Sorvegliare e punire (1975); La vo- lontà di sapere (1976). Freud Sigmund (1856-1939) Nato a Freiberg, in Moravia, da famiglia israelita, si laureò in medicina all'università di Vienna nel 1881; nel 1885 conseguì la li- bera docenza specializzandosi in neuropatologia e nel 1886 aprì un gabinetto privato per lo studio delle malattie nervose. Nel 1938, con l'annessione dell'Austria alla Germania di Hitler, fu costretto a emi- grare a Londra, dove morì, l’anno dopo, all'età di 83 anni. Secondo Freud, che fu il fondatore della psicanalisi, la nostra psiche è costituita da tre livelli (o topiche): un livello profondo o inconscio che si chiama Es (0 Id), sede della pulsione libidica e orien- tato alla soddisfazione del bisogno sessuale; il livello dell'/o o della coscienza razionale; ed infine, il livello del Super-Io, risultato dell’introiezione delle figure parentali e sede della legge morale. Il costante conflitto tra Es e Super-Io spesso provoca uno stato patologico, proprio delle diverse forme di nevrosi. La pulsione libidi- ca, che muove l’attività sessuale dell'individuo, trova pertanto una possibilità di sfogo nell'attività onirica, quando l'abbassamento tem- poraneo della soglia cosciente lascia libero spazio all'Es, ai suoi de- sideri, alla sua conflittualità repressa. Fondamentale per la cultura contemporanea come scoperta del dinamismo psichico e come terapia, la psicanalisi che negli scritti freudiani dell'ultimo periodo viene teorizzata come una weltan- schauung, ha finito per presentare i suoi limiti, che sono stati evi- denziati in questi ultimi decenni da molti studiosi. Opere principali: Le origini della psicanalisi (1887-1902); Studi sull'isteria (1895); Psicopatologia della vita quotidiana (1901); Tre saggi sulla teoria sessuale (1905); Totem e tabù (1912-1913); Introdu- 294 zione alla psicoanalisi (1915-1917); Al di là del principio di piacere (1920); L'avvenire di un'illusione (1927); Il disagio della civiltà(1929); L'uomo Mosé e la religione monoteista (1934-1938). Galilei Galileo (1564-1642) Nato a Pisa, fu matematico, fisico, astronomo. Nel 1589 ebbe l'insegnamento di matematica all'università di Pisa e nel 1592 passò all'università di Padova. Nel 1609 inventò il cannocchiale. Nel 1616 la sua teoria eliocentrica venne condannata dalla Chiesa. Processato una seconda volta, fu costretto, nel 1633, a rinnegare le sue teorie scientifiche. Morì ad Arcetri, nell'isolamento obbligato e colpito da cecità. È considerato il creatore della fisica moderna e il decisivo promotore del metodo sperimentale, avviato da Bacone, nelle sue applicazioni pratiche. Merito di Galileo è di aver provato la netta distinzione tra filo- sofia, scienza e religione, mostrando che il loro oggetto specifico è di- verso. Perciò lo studio scientifico dei fenomeni umani è libero. Per la scienza diverso è anche il metodo, « induttivo-deduttivo ». Tipico di questo metodo è l’uso della matematica. In sintonia con tale im- postazione vi è la riduzione della realtà materiale ai soli aspetti quantitativi (ma in Galilei più che di un meccanicismo filosofico si tratta di un meccanicismo metodologico e scientifico). Opere principali: De motu (1589); Sidereus Nuncius (1610); Di- scorso intorno alle cose che stanno în su l'acqua (1612); Il saggiatore (1623); Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632); Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica e i movimenti locali (1638). Galluppi Pasquale (1770-1846) Filosofo italiano, nato a Tropea, studiò all'università di Napoli, dove insegnò filosofia teoretica dal 1831 sino alla morte. La filosofia di Galluppi, che è uno degli esponenti maggiori del realismo critico italiano, vuole essere essenzialmente una risposta al kantismo che egli critica soprattutto per quanto concerne la inconoscibilità del- l'io e della cosa in sé, e la apriorità delle categorie. A proposito della inconoscibilità dell'io e della cosa in sé, egli afferma che la coscienza testimonia immediatamente la conoscenza sia del primo sia della seconda (il mondo) e che pertanto occorre ammetterli tutt'e due co- me assolutamente certi. Assodato il carattere obiettivo del cono- scere, Galluppi, contro Kant, mostra che anche l’esistenza di Dio risulta dimostrabile. Opere principali: Saggio filosofico sulla critica della conoscenza (6 voll. 1819-32); Elementi di filosofia (6 voll. 1820-27); Lettere filo- sofiche (1827); Lezioni di logica e metafisica (4 voll. 1832-34); Filo- sofia della volontà (4 voll. 1832-40); Considerazioni filosofiche sul- l'idealismo trascendentale e sul razionalismo assoluto (1841). 295 Garaudy Roger (1913) Filosofo francese, nato a Marsiglia, è un esponente prestigioso e originale del revisionismo marxista; si iscrisse giovanissimo al Partito Comunista francese e alternò l’attività sindacale all’insegna- mento della filosofia. Nel 1970 fu radiato dal partito per il duro atteggiamento polemico assunto nei confronti dell'U.R.S.S. per l'in- vasione della Cecoslovacchia. Caratteristica del pensiero revisionista di Garaudy è il ripen- samento del problema del socialismo nella società contemporanea e l'apertura al cristianesimo, presente però anche nei suoi primi scritti, quando egli attribuiva alla chiesa cattolica il merito di avere realiz- zato alcune fondamentali trasformazioni della società, come l’aboli- zione della schiavitù e l'uguaglianza della donna e di avere affermato il valere della persona, dell'amore, della libertà e della trascendenza. Per Garaudy la « trascendenza » è un umanesimo prometeico e faustiano che porta al superamento del limite; ed è convinto che solo nell’organizzazione politico-sociale del comunismo esso possa trovare la sua piena realizzazione. A seguito del rifiuto del modello sovietico, Garaudy approda alla convinzione che il socialismo possa trovare la sua pienezza aprendo un dialogo con il cristianesimo, al quale è accomunato dalla passione per l'uomo, dall'impegno di trasformazione del mondo, dalla dimen- sione profetica. Opere principali: La teoria materialista della conoscenza (1953); Karl Marx (1965); Marxismo del XX secolo (1966); Lenin (1968); Tutta la verità (1970); Riconquista della speranza (1971); L’alterna- tiva (1973); Parola di uomo (1974). Gentile Giovanni (1875-1944) Nacque a Castelvetrano (Trapani) nel 1875. Insegnò nelle uni- versità di Palermo, Pisa e Roma. Aderì al regime fascista e nel 1922 fu nominato ministro della Pubblica Istruzione. Nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale e fu trucidato dai partigiani nel 1944 a Firenze. La ‘filosofia idealista di Gentile si chiama attualismo, in quanto l'assoluto è concepito come atto puro. Le cose non sono altro che momenti di tale atto, sono l'atto puro stesso in un momento del suo generarsi. Realmente c'è solo il pensiero attuale che pone sé stesso (autoctisi). L'atto puro di Gentile, come l'idea di Hegel, svolge la sua attività secondo un processo triadico, che ha per momenti princi- pali l’arte, Ja religione e la filosofia. L'arte è il momento soggettivo; la forma immediata dello spirito assoluto. La religione è l'antitesi dell'arte, il momento oggettivo. La filosofia costituisce la sintesi del momento soggettivo con l'oggettivo, riconoscendo l'assoluto nell'atto che pone se stesso attraverso una dialettica eterna. Lo Stato è consi- derato l'incarnazione suprema dello Spirito, volontà sovrana e as- soluta da cui discende sia la morale che il diritto. La filosofia di Gen- 296 tile ha occupato un posto centrale nello sviluppo del pensiero specu- lativo italiano nei primi decenni del nostro secolo. Opere principali: Rosmini e Gioberti (1898); Sommario di peda- gogia come scienza filosofica (1912); I problemi della scolastica e il pensiero italiano (1913); Studi vichiani (1915); Fondamenti della fi- losofia del diritto (1916); Teoria generale dello spirito come atto puro (1916); Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1922); Le origini della filosofia contemporanea in Italia (quattro volumi, scritti fra il 1917 e il 1923); I/ pensiero italiano nel Rinascimento (1920); Studi sul Rinascimento (1923); Filosofia dell’arte (1931). Gilson Etienne (1884-1978) Filosofo e storico francese, nato a Parigi, si è addottorato in lettere e filosofia alla Sorbona; ha insegnato a Lilla, Strasburgo, Parigi. Trasferitosi in Canada, nel 1929 vi ha fondato l’« Institute of Medieval Studies » di Toronto che diresse sino alla morte avvenuta nel 1978 a Cravant. Con Jacques Maritain, Gilson è colui che ha maggiormente contribuito alla rinascita del tomismo nella prima metà del sec. XX e della sua diffusione nel mondo nord-americano. AI] centro della sua riflessione è il concetto di « filosofia cristiana » di cui Gilson sostiene la legittimità, affermando che la filosofia cri- stiana non comprende verità che appartengono essenzialmente al- l'ambito della fede e della rivelazione, ma solo di fatto, storicamente. Oggetto specifico della filosofia cristiana non è il « rivelato », ma il « rivelabile », cioè verità di per sé accessibili alla ragione come l’unità di Dio, l'immortalità dell'anima, il senso della storia, la per- sona, la libertà ecc. La filosofia cristiana è stata elaborata dai Padri della Chiesa e dagli Scolastici, che hanno conferito evidenza a verità attinte dalla Bibbia e alle quali i Greci non erano pervenuti quali l'unicità di Dio, la creazione, la libertà, la persona, la storia, la contingenza, la causalità delle creature e dell'uomo, la bontà della materia e del corpo umano, la provvidenza, ecc. I filosofi cristiani hanno conferito a queste verità una espressione razionale, filosofica, che gli storici non cristiani hanno attribuito alla filosofia moderna. Per Gilson questa è una falsificazione della storia, che ha dimostrato in modo preciso ne Lo spirito della filosofia medioevale e in altre opere. Sul problema della conoscenza dell'essere, Gilson dimostra che essa non si realizza mediante un’astrazione, ma mediante il giudizio di esistenza, che è un atto di composizione che la mente compie tra un soggetto e l’atto di esistere, attribuendoglielo. Opere principali: I/ tomismo (1919); La filosofia nel Medioevo (1922); San Bonaventura (1924); Sant'Agostino (1929); Lo spirito del- la filosofia medioevale (1932); Duns Scoto (1952). Delle sue opere a ca- rattere teoretico citiamo: Il realismo metodico (1934); Dio e la filo- sofia (1941); Realismo tomista e critica della conoscenza (1945); 297 L'essere e l'essenza (1948); L'essere e alcuni filosofi; Introduzione alla filosofia cristiana (1960); Il filosofo e la teologia (1960). Gioberti Vincenzo (1801-1852) Nato a Torino, fu ordinato prete nel 1825. Laureatosi in teologia, fu preso da una crisi di fede e si orientò verso il panteismo. Par- tecipò a circoli rivoluzionari per cui fu arrestato ed esiliato nel 1833. Si rifugiò in Belgio e in quel periodo si riconciliò con la Chiesa. Passò gli ultimi anni della sua vita a Parigi, dedito allo studio della filosofia, nella povertà e nella solitudine. Gioberti ha gli stessi motivi ispiratori di Rosmini: si vale del- l’idea dell'essere ma sostiene che per salvare l'oggettività dell'idea dell'essere bisogna darle materialità, realtà. Cioè bisogna porre l'a priori non nell’idea dell'essere ideale, ma in quella dell'essere reale, Dio (ontologismo). Dio crea il mondo e opera intrinsecamente allo spirito umano, mentre a Dio il mondo ritorna grazie al progresso umano (l'ente crea l'esistente, l'esistente ritorna all'ente). Gioberti ha anche studiato la realizzazione di un piano per l’unità e l’indipenden- za d'Italia. Opere principali: Teoria del sovrannaturale (1838); Introduzione allo studio della filosofia (1840); Del bello (1841); Del primato morale e civile degli italiani (1843); Del buono (1843); Del rinnovamento civile d'Italia (1851). Giovanni Damasceno (675-750) ‘Dottore della Chiesa (di lingua greca), santo. Nacque a Damasco e morì probabilmente a Gerusalemme. Discendente da una nobile e ricca famiglia arabo-cristiana (suo padre era ministro del tesoro presso la corte del Califfo) ebbe un'eccellente educazione letteraria e filosofica. Consacrato prete da Giovanni V patriarca di Gerusalemme si ritirò nel monastero di San Saba in Palestina e si dedicò soprat- tutto all'insegnamento della sacra Scrittura e della teologia e si adoperò sia con la parola sia con gli scritti per la difesa del culto delle immagini sacre (opponendosi coraggiosamente all’iconoclastia). È stato per lungo tempo uno dei pilastri della teologia della Chiesa cattolica orientale ed anche oggi è un riferimento nel dialogo ecu- menico fra le varie confessioni cristiane. Nella sua sintesi teologica vengono adoperati non pochi elementi filosofici da lui appresi in parte dagli arabi e in parte dai Padri greci. C'è in lui un influsso ari- stotelico nella concezione della logica e della metafisica, e c'è anche un influsso platonico e neoplatonico derivato dallo Pseudo-Dionigi. iLa sua opera maggiore è la Fonte della conoscenza che si suddi- vide in tre parti riguardanti la filosofia (Capitoli filosofici), le eresie (Libro delle eresie) e la fede (Sulla fede ortodossa). Glucksmann André (1937) Laureato in filosofia, fu maoista e partecipò ai movimenti rivolu- 298 zionari del '68. Attualmente lavora al « Centro nazionale per la ri- cerca scientifica ». Critico implacabile del sistema marxista, è im- pegnato in una denuncia sistematica dei crimini sovietici. Nelle sue ultime opere denuncia il carattere disumano del sistema marxista e accusa l’U.R.S.S. di essere una potenza capitalistica, violenta e ter- roristica, di cui il Gulag è l'espressione più terrificante. Tra le molte critiche che Glucksmann muove al marxismo la più radicale è quella con cui gli contesta di essere un sistema socialista. Opere principali: Il discorso della guerra (1967); La cuoca e il mangiauomini (1977); I padroni del pensiero (1978); L'atto antitota- litario (1983). Gramsci Antonio (1891-1937) Uomo politico e pensatore italiano; nato ad Ales (Cagliari) si tra- sferì successivamente a Torino, dove interruppe gli studi letterari per dedicarsi alla vita politica. Nel 1921 con Bordiga e Tasca fondò a Livorno il Partito Comunista Italiano, di cui divenne segretario nel 1924. Arrestato dai fascisti e condannato a 20 anni di carcere, morì nel 1937 in una clinica, dopo undici tormentati e dolorosi anni di prigionia. Il pensiero filosofico di Gramsci si articola intorno al superamen- to del dilemma idealismo o marxismo; alla fondazione della filosofia della prassi, in cui risalta il carattere storicistico del conoscere e il suo carattere pratico; e infine alla dimensione storica quale tratto qualificante della filosofia della prassi. Gramsci recupera inoltre la conoscenza come creatività e non solo come rispecchiamento della realtà. Riguardo al problema politico l'ideologia gramsciana si snoda lungo le seguenti direttrici: 1) il potere va conquistato attraverso una guerra di posizione che sottragga alla classe dirigente prima il consenso e poi il dominio; 2) la rivoluzione non è violenta ma cultu- rale; nel progetto rivoluzionario gramsciano il cristiano deve giun- gere ad abbandonare la sua religione per accedere a forme più ri- spondenti al divenire storico; 3) ogni nazione ha diritto di realizzare il proprio stato socialista conforme alla propria storia, cultura e tradizioni; 4) il Partito comunista è il Nuovo Principe: esso è la fonte di ogni potere, di ogni diritto, di ogni legge; la sua attività è essenzialmente morale. Realizzatori della guerra di posizione e successivamente del rap- porto tra il Nuovo :Principe e la base proletaria sono « gli intellet- tuali organici », prima interpreti della rivoluzione culturale e suc- cessivamente garanti del consenso ideologico. Gramsci appare sensibile al problema religioso che considera la grande utopia delle classi subalterne. Come la metafisica, essa è or- mai superata dal comunismo che ha pienamente compiuto il processo di secolarizzazione del mondo moderno. Opere principali: gli scritti di Gramsci sono distinti in due 299 periodi: a) Scritti giovanili (1914-1918); L'Ordine Nuovo (1912-1920); Socialismo e fascismo (1921-1922); La costruzione del Partito Co- munista (1923-1926); b) Quaderni del carcere, scritti durante la pri- gionia. Guardini Romano (1885-1968) Filosofo e teologo tedesco, di origine italiana (nacque a Verona), conoscitore profondo della storia moderna, fu il primo a coprire la cattedra di Weltanschauung cattolica all'università di Berlino. Allon- tanato -dall'insegnamento dal nazismo, lo riprese dopo la seconda guerra mondiale prima a Tubinga e poi a Monaco sino alla morte. In base al concetto di opposizione polare Guardini afferma che ogni concetto fondamentale è distinto da un aliro, ma al tempo stes- so lo presuppone e lo implica, poiché nessun elemento pilò essere pensato senza il suo opposto. Il mondo storico è concepito da Guardini come il concreto viven- te, ed è essenzialmente mondo della cultura, mondo dell’uomo. Convinto della crisi dell'età moderna, si impegna a riaffermare il principio cattolico della unità e collaborazione tra fede e ragione, convalidata dalla tesi della polarità. In base a tale tesi, Guardini ela- bora una serie di binomi capaci di descrivere la struttura della real- tà: atto-struttura, immanenza-trascendenza, unità-pluralità, affinità- distinzione, originalità-regola. Egli riscontra inoltre la crisi del mondo moderno in tre settori principali: quello della natura, quello del soggetto, quello della cul- tura. La natura viene percepita come estraneità, il soggetto è pri- gioniero della massa e delle macchine, la cultura ha perduto la sua credibilità per lo scacco storico delle sue convinzioni. Guardini abbozza, pertanto, il progetto di una « nuova società » e di una nuova cultura sulla base della riaffermazione del valore assoluto della persona; del controllo della potenza; del coraggio del- la verità; della libertà dello spirito. Opere principali di carattere filosofico: L'opposizione polare (Sag- gio per una filosofia del concreto vivente) (1925); La fede nella ri- flessione (1928); La morte di Socrate. Una interpretazione degli scrit- ti di Platone: Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone (1943); La fine del- l'epoca moderna (1951); Religione e soprannatura (1958). Habermas Jiirgen (1929) Filosofo e sociologo tedesco, nato a Gummersbach; dopo essersi laureato a Francoforte, si è dedicato a studi e ricerche nell’ambito dell'Istituto per le ricerche sociali di Francoforte fondato da Hork- heimer e di cui egli è il continuatore. Per Habermas, compito di una scienza sociale filosoficamente fon- data, è l'elaborazione del nesso tra teoria e prassi che penetri i meccanismi della comunicazione intersoggettiva, la sua struttura lin- guistica, i processi di creazione del consenso e della legittimazione 300 per raggiungere una Verità che è nel contempo illuminazione pra- tica e formazione di una volontà collettiva. Opere principali: Storia e critica dell'opinione pubblica (1962); Teoria e prassi (1963); Logica delle scienze sociali (1967); Conoscenza e interesse (1968); Tecnica e scienza come ideologia (1968); La crisi della razionalità nel capitalismo maturo (1973); Per la ricostruzione del materialismo storico (1976). Hartmann Nicolai (1882-1950) Filosofo tedesco, nato a Riga e morto a Gottinga. Assertore della filosofia dei valori e vigoroso critico del positivismo, aderì all'inizio della sua formazione culturale al criticismo e in seguito alla feno- menologia di Husserl. La sua concezione ontologica dei valori è caratterizzata da una sorta di ultrarealismo platonico: i valori non hanno fondamento né nell'uomo né in Dio, ma in se stessi, sono sussisienti al pari delle Idee di Platone e sono dotati di aseità. In nome dell'autonomia dei valori Hartmann giunge perfino a negare l’esistenza di Dio, poiché la sua esistenza sàrebbe incompa- tibile con la libertà dell'uomo. Opere principali: Principi di una metafisica della conoscenza (1921); La filosofia dell'idealismo tedesco (1923-1929); La costru- zione del mondo reale (1940); Filosofia della natura (1950); Estetica (1953, postuma). Hegel Georg Wilhelm (1770-1831) Nacque a Stoccarda e fece gli studi teologici nel seminario di Tubinga. Nel 1801 fu nominato professore presso l'università di Jena, poi insegnò ad Heidelberg e infine a Berlino dove ottenne gran- de successo. Morì di colera a 61 anni. Hegel è uno dei protagonisti della filosofia contemporanea ed elaborò l’idealismo logico e storico. Egli si inserisce nel recupero romantico del concreto e del reale, ma per attuarlo radicalmente. Si impegna a coniugare la valorizzazione della creatività del pensiero e della libertà con l'esigenza di fondare razionalmente la realtà, in- tesa come costruzione logica del mondo; perviene così all'esito fi- nale del processo storico culturale moderno: un umanesimo asso- luto che sfocerà, dopo Hegel, in un ateismo assoluto (l’uomo è il fon- damento immanente delle realtà). Scopo della filosofia hegeliana è, quindi, la comprensione razio- nale del mondo e della storia, caratterizzati dalla presenza del ne- gativo e dalla nostalgia dell'armonia perduta. La storia è caratteriz- zata dalla scissione: essere-non essere; bene-male; infinito-finito; Dio-mondo. La consapevolezza di queste realtà fa dell'uomo una « co- scienza infelice », che tende a liberarsi della contraddizione. Per Hegel la realtà è Idea (tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale). Da questa affermazione deriva il nome 301 dato alla filosofia di Hegel di idealismo logico. L'unico metodo ade- guato per lo studio di una realtà in perpetuo divenire è quello della logica speculativa o dialettica. Esso è costituito di tre momenti: tesi, antitesi e sintesi. La tesi è il momento dell'essere in sé, l’antitesi è il momento dell'essere extra sé, la sintesi è il momento del ricongiungimento delle due parti poste dalla tesi e dell'anti- tesi in un unico tutto che annulla le imperfezioni dei momenti pre- cedenti mentre ne conserva la positività. Lo studio della triade fondamentale riconduce alle tre parti principali del sistema hege- liano: logica o studio dell'idea in sé, filosofia della natura, filosofia dello spirito, forma in cui l'idea si attua pienamente, ritornando in sé dall’alienazione della natura. Anche la vita dello spirito si svolge dialetticamente in tre momenti: spirito soggettivo (o indi- viduale), oggettivo (o sociale) e assoluto (che si attua nelle opere artistiche, religiose, filosofiche). Per Hegel la religione è mito e la teologia è mitologia. Egli sva- luta la Rivelazione e afferma l’esigenza di una religione nazionale sul modello di quella della polis greca. In una fase successiva Hegel com- pie un'autocorrezione, rivalutando la prospettiva storico-filosofica del cristianesimo come espressione del «rapporto dialettico » tra universale-particolare, pensiero-vita, infinito-finito. L'amore cristia- no si presenta come il superamento di ogni dualismo. Supera in tal modo la « dialettica servo-signore » del giudaismo e si presenta come sintesi Dio-mondo. Hegel considera il suo pensiero come sintesi del pensiero occiden- tale da Talete a Schelling. La sua critica si rivolge in particolare al- l'impostazione kantiana della cosa in sé e alla scissione tra sfera teoretica e sfera pratica. Per Hegel la storia è lo studio delle manifestazioni dello spirito oggettivo. Essa è la manifestazione progressiva dell’assoluto; in es- sa tutto quanto avviene ha un carattere razionale. Il male è solo un momento della dialettica della ragione. Per manifestare se stesso nella storia, lo spirito si vale dello Stato e della nazione: la storia si esprime nelle successive egemonie dei popoli. Opere principali: Scritti teologici giovanili (Religione popolare e cristianesimo; La vita di Gesù; La positività della religione cri- stiana; Lo spirito del cristianesimo e il suo destino) (1797-1800); Fenomenologia dello spirito (1807); Scienza della logica (tre volumi scritti tra il 1812 e il 1816); Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817); Lineamenti di filosofia del diritto (1821). Infine quattro opere postume: Filosofia della storia; Estetica; Filosofia della religione; Storia della filosofia. Heidegger Martin (1889-1976) Nacque a Messkirch, in Germania. Si avviò verso la carriera sa- cerdotale che poi interruppe. Fu discepolo di Husserl. Nel 1928 ebbe la cattedra di filosofia all'università di Friburgo, come succes- 302 sore del suo maestro Husserl. Durante il periodo nazista si ritirò dall'insegnamento e lo riprese dopo la guerra. La prima speculazione di Heidegger, che è il massimo esponente del movimento esistenzialista, ed uno dei maggiori filosofi del nostro secolo, è diretta alla soluzione del problema dell'essere. Porta di accesso all'essere è l’uomo. Nell'uomo vi sono alcuni tratti fondamentali caratteristici del suo essere, o esistenzia- li: essere-nel-mondo, esistenza (essere fuori di sé), temporalità. Tra i primi due esistenziali, essere-nel-mondo e esistenza c'è aperto contrasto: l’uno incatena l’uomo al passato, l’altro lo proietta verso il futuro. A seconda che l'uomo si lasci guidare dal primo o dal secondo la sua vita sarà inautentica o autentica. La prima è quella di assuefazione al mondo, la seconda è quella interiore che conduce colui che vive in vista della morte. Secondo Heidegger la morte ap- partiene alla struttura fondamentale dell'uomo, perché è solo nella morte che l’uomo conquista la totalità della sua vita. L'uomo diventa consapevole della sua soggezione alla morte nell’angoscia che è un'al- tra disposizione fondamentale del suo essere. L'essere è ciò che fa presente l’ente e ciò che in esso si manifesta: ma l'essere è indicibile. L'uomo è « il custode dell'essere », ma non gli è dato sapere come avvenga il costituirsi dell'ente per mezzo dell'essere. La manifesta- zione dell'essere si realizza attraverso il linguaggio. Opere principali: Essere e tempo (1927); Kant e il problema della metafisica (1929); Dell'essenza del fondamento (1929); La dot- trina platonica della verità (1947); Introduzione alla metafisica (1953); Il principio di ragion sufficiente (1957); Nietzsche (1961); La tesi di Kant sull'essere (1963); Tempo ed essere (1968); Il trattato di Schelling sull'essenza della libertà umana (1971). Herbart Johann Friedrich (1776-1841) Filosofo e pedagogista tedesco. Discepolo di Fichte e Schiller si orientò nella linea di pensiero idealistica, che ben presto criticò e superò elaborando la sua concezione filosofica di un pluralismo rea- listico immobilistico, in cui riserva particolare attenzione ai pro- blemi pedagogici. Esercitò l'insegnamento universitario a Gottinga e poi a Kénigsberg, dove fondò un seminario di pedagogia e una scuola sperimentale. Herbart sostiene che la filosofia è analisi critica dell'esperienza e superamento delle sue coniraddizioni. L'esperienza ci dà una pluralità di esseri mutevoli, mentre l'essere è sempre se stes- so, unico e immobile. Alla base della sua concezione pedagogica vi è l’idea di istruzione educativa, tesa a promuovere la plurilateralità, il complesso delle tendenze e delle attitudini dell'’educando, senza al- terare le proporzioni e la forma dell’individualità, senza indebolire la forza del carattere. Opere principali: Manuale di psicologia; Pedagogia dedotta dal fine dell'educazione; Disegno di lezioni di pedagogia; Metafisica ge- nerale secondo i principi della filosofia della natura. 303 Herder Johann Gottfried (1744-1803) Filosofo, teologo e letterato tedesco, nato a Mohrungen e morto a Weimar. Studiò teologia a Kénigsberg, avendo come maestro Kant. Dopo essere stato alcuni anni a Riga, in Lettonia, come predi- catore, andò in Francia e di lì, per interessamento di Goethe, si tra- sferì come pastore di corte a Weimar, dove rimase sino alla morte, salvo il periodo di viaggio in Italia nel 1788-1789. Scrisse moltis- simo in vari campi e può essere ricordato come uno dei testimoni maggiori di quella stagione della cultura tedesca che costituisce il suo periodo aureo. In filosofia i campi che coltivò con maggiore successo furono l'estetica, la storia, la linguistica. Nell’estetica af- ferma la relatività della nozione di bellezza. Nella storia egli vede una rivelazione divina: natura e storia, a suo parere lavorano secondo il disegno di Dio per l'educazione dell'umanità. Infine, per quanto concerne la linguistica, Herder considera il linguaggio come espres- sione spontanea della soggettività: essa può essere intesa sia come prodotto della sensazione immediata, sia come opera della « rifles- sione ». Il linguaggio è quindi un fattore nella costruzione sintetica della coscienza, ed occupa un posto fondamentale sia nella costru- zione sia nella espressione della cultura di un popolo. Opere principali: Saggio sull'origine del linguaggio; Il conoscere e il sentire dell'anima umana; Idee per la filosofia della storia del- l'umanità. Hobbes Thomas (1588-1679) Nato in Inghilterra, conobbe Galilei e (Cartesio e ne subì gli influssi culturali. Fece lunghi viaggi in Francia e in Italia. Hobbes apre la serie dei grandi filosofi inglesi del XVII secolo, le cui principali caratteristiche sono empirismo e politicità. Per Hobbes l’unica sostanza è la materia: ad essa si riporta ogni essere come al puro e trascendentale principio del suo esistere. La cono- scenza si basa esclusivamente sull'esperienza. È bene ciò che causa piacere, male ciò che procura dolore. Nel Leviathan, apologia del- l'assolutismo, sostiene che lo Stato nasce da un volontario assogget- tamento degli uomini a un sovrano, in cui si accentrano tutti i di- ritti, per uscire dallo stato di natura, in cui regna una lotta sel- vaggia tra gli altri uomini (homo homini lupus). Opere principali: Elementi di legge naturale e politica (1640); Obiezioni alle « Meditazioni » di Cartesio (1641); De cive (1642); Le- viatano (1651); De corpore (1655); De homine (1658); Behemoth (1670). Horkheimer Max (1895-1973) Fondatore e animatore della « Scuola di Francoforte », il cui cen- tro principale è l'« Istituto per le Ricerche Sociali ». L'Istituto seguì Horkheimer quando questi emigrò a Parigi e, durante la seconda guerra mondiale, a New York. Fece ritorno a Francoforte insieme 304 col suo fondatore nel 1950. Il nucleo della Scuola di Francoforte era costituito oltre che da Horkheimer, da Adorno, Fromm e Marcuse. Per la sua formazione filosofica Horkheimer si colloca lungo l'e- redità del marxismo occidentale. Ma dal punto di vista politico la sua posizione era totalmente eccentrica, in quanto non intendeva avere rapporto alcuno con le organizzazioni di partito. Horkheimer e la sua scuola concentrarono le ricerche sulla società e sulle sue istituzioni, sviluppando una teoria critica anziché un progetto utopistico come avevano fatto Marx e Engels. La teoria critica si propone di smascherare le ingiustizie, i mali, le deviazioni, le lacune che affliggono la società in un determinato momento storico. Da Marx accetta le seguenti tesi: priorità della prassi; priorità della società sull’individuo; negazione della metafisica. In altri punti si discosta dal marxismo: socialismo e politica del partito comunista non coincidono; la dialettica ha un dominio più vasto; la religione merita un giudizio più favorevole. La società è un fenomeno storico e dinamico. La società contem- poranea affonda le sue radici nell’illuminismo; ma questo, nel com- battere il mito, prende esso stesso la forma di mito. La ragione è arte- fice e vittima dei mali provocati dall’illuminismo (manipolazione e dominio dell’uomo sull'uomo). L'ideale che Horkheimer assegna alla società è la felicità di tutti gli individui in questo mondo, in una concezione rigorosamente storicistica e immanentistica. Più tardi il filosofo accoglierà un'apertura teologica, verso la nostalgia di una perfetta e consumata giustizia. Opere principali: Autorità e famiglia (1936); Dialettica dell'illu- minismo (1944); Eclisse della ragione (1947); Studi sul pregiudizio (1950); Teoria critica (1968); La società di transizione (1972). Humboldt Karl Wilhelm von (1767-1835) Filosofo, linguista, letterato tedesco, nato a Postdam e morto a Tegel. Ebbe una educazione illuminista; si specializzò in giurispru- denza a Francoforte e a Gottinga. Dopo una breve permanenza a Parigi nel periodo della rivoluzione, si trasferì a Jena, dove divenne amico di Schiller e Goethe. Dal 1802 al 1809 fu a Roma come rap- presentante del re di Frussia presso il Papa. Rientrato a Berlino si occupò della strutturazione della nuova università. ‘Il nome di Humboldt è legato soprattutto alle sue profonde ricer- che nel campo della linguistica. Egli ha portato avanti le ricerche iniziate da Herder e con lui è il maggior rappresentante della filo- sofia romantica tedesca. Per lui il linguaggio è sintesi di dati ogget- tivi e di elementi soggettivi (tesi ripresa da Kant, che però l'aveva applicata al fenomeno della conoscenza); esso è, poi, parziale ri- flesso della totalità oggettiva nelle lingue particolari. La lingua, per Humboldt, non è opera compiuta, bensì attività: la sua definizione non può essere altro che genetica. Essa costituisce un importante 305 documento di identificazione per quelli che sono i tratti caratteri- stici di un popolo. Opere principali: Sull'origine delle forme grammaticali e il loro influsso sulle idee; Sulla differenza della struttura linguistica del- l'uomo e sulla sua influenza sullo sviluppo spirituale del genere umano. Hume David (1711-1776) Nacque ad Edimburgo, in Scozia. Nel 1735, si recò in Francia per continuare gli studi. Partecipò all'attività politica e fu segre- tario dell'ambasciata in Olanda, Italia, Austria. Nel 1756 tornò in Francia. Fu amico di Rousseau, con cui poi venne a rottura. Fu an- che sottosegretario di stato. Hume è sostenitore di un empirismo radicale. Principio fonda- mentale della sua filosofia è il principio di immanenza, interpretato empiristicamente: l’unica fonte di conoscenza è l’esperienza e l’og- getto dell'esperienza non è la cosa esterna ma la sua rappresenta- zione. In base a questo principio le rappresentazioni o impressioni costituiscono il dato ultimo della conoscenza umana. Hume trasfor- ma quindi l’empirismo in fenomenismo. Critica il rapporto di cau- salità in quanto la relazione tra causa ed effetto non è necessaria, ma nasce dall'esperienza. L'esistenza di Dio non è dimostrabile. Dio rimane un'ipotesi e un atto di fede. La morale è improntata a un utilitarismo altruista: è buono ciò che è utile e perciò approvato dalla società; è cattivo ciò che è dannoso e perciò condannato dalla società. Le passioni sono impressioni riflesse, connesse alle idee di sensazione. Le principali sono: orgoglio-umiltà, amore-odio. La virtù è un'attività conforme a quella particolare specie di passioni che causano piacere. Opere principali: Trattato sulla natura umana (1739-1740); Saggi morali e politici (1741); Ricerca sull’intelletto umano (1748); Ricer- ca sui principi della morale (1751); Discorsi politici (1752); Quattro dissertazioni (1757); Dialoghi sulla religione naturale (1779). Husserl Edmund (1859-1938) Nacque a Prossnitz, in Germania. Laureatosi in scienze matema- tiche a Berlino, si trasferì per alcuni anni a Vienna. Rientrato in Germania, insegnò filosofia all'università di Gottinga e di Friburgo fino all'avvento del nazismo. È il fondatore della Scuola fenomenologica. La fenomenologia studia l'oggetto quale si manifesta nella sua effettiva realtà, assoluta- mente puro. Il metodo fenomenologico consta di due momenti prin- cipali, negativo e positivo. Quello negativo, chiamato da Husserl epoché o riduzione fenomenologica è quello in cui si isola l’oggetto (fenomeno) da tutto ciò che non gli è proprio perché possa svelarsi nella sua purezza. Il momento positivo è quello in cui lo sguardo del- 306 l'intelligenza si dirige verso la cosa stessa e si immerge in essa e lascia che si manifesti. Mediante l'elaborazione del metodo fenomenologico, Husserl ha offerto un apporto decisivo allo sviluppo dell’esistenzialismo, for- nendogli un metodo di indagine che rispondeva perfettamente alla sua esigenza, quella di effettuare un'analisi minuziosa dell’esperien- za umana. Opere principali: Filosofia dell’aritmetica (1891); Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (in tre volumi, di cui il primo nel 1913 e gli altri due posiumi nel 1952); Logica for- male e trascendentale (1929). Molte opere postume: Meditazioni car- tesiane (1950); La crisi delle scienze europee e la fenomenologia tra- scendentale (1954); Mondo, io e tempo (1955); Filosofia prima (1956); Psicologia fenomenologica (1962); Analisi delle sintesi passive (1966). James William (1842-1910) Nato a New York, fu per molti anni titolare delle cattedre di filo- sofia e psicologia all'università di Harvard, dove fondò uno dei primi laboratori di psicologia sperimentale. Rappresentante del pragma- tismo, James dette a questa corrente di pensiero un carattere marca- tamente volontaristico. Nell'uomo la facoltà principale non è la ragione ma la volontà; perciò una dottrina viene accolta non perché la ragione la riconosce come vera, ma perché la volontà la trova utile al conseguimento di un determinato obiettivo (pragmatismo). Il mondo è costituito da un insieme di parti che non armonizzano perfettamente tra loro. In questa concezione è evidente il pluralismo di James il quale difende anche l’individualismo. Opere principali: Principi di psicologia (1890); La volontà di cre- dere e altri saggi di filosofia popolare (1897); Le varietà dell'esperien- za religiosa (1902); Pragmatismo (1907); Il significato della verità (1909); Un universo pluralistico (1909); Alcuni problemi di filosofia (1911, postumi); Saggi sull’empirismo radicale (1912, postumi). Jaspers Karl (1883-1969) Scienziato, psicologo e filosofo tedesco, Jaspers fu uno dei massi- mi esponenti dell’esistenzialismo. Nacque a Oldemburg in Germania. Insegnò per molti anni filosofia nell'università di Heidelberg. Costret- to dal regime nazionalsocialista ad abbandonare la cattedra, riprese l'insegnamento universitario nel 1945. Nel 1947 si trasferì a Basi- lea dove insegnò e risiedette sino alla morte. La sua filosofia ha come punto di partenza la distinzione tra esserci (Dasein) ed esistenza (Existenz). L'esserci è la realtà empi- rica, la vita naturale dell'uomo soggetia alle leggi del tempo e dello spazio e esposta allo studio preciso delle scienze sperimentali. L'esi- stenza è la capacità dell'uomo di superare costantemente la situa- zione, il suo trovarsi sempre sistematicamente fuori di sé, oltre se 307 stesso. L'esistenza autotrascendendosi non si dissolve nel nulla, ma si muove verso l'orizzonte dell'essere, il quale mi circonda da tutte le parti: è l'’onnicomprensivo (das Umgreifende). Senonché alla ra- gione umana resta impossibile determinare il senso di tale orienta- mento. Questo può esser svelato soltanto dalla fede. Opere principali: Psicopatologia generale (1913); Psicologia delle visioni del mondo (1919); Filosofia (1932); Ragione ed esistenza (1935); Nietzsche (1936); Descartes e la filosofia (1937); Filosofia del- l'esistenza (1938); Il problema della colpa (1946); Sulla verità (1948); La fede filosofica (1948); Introduzione alla filosofia (1950); I grandi fi losofi (1957); Ragione e libertà (1959); La fede filosofica di fronte alla rivelazione (1962). Jung Carl Gustav (1875-1961) ‘Psichiatra svizzero, fondatore della psicologia analitica, nato a Kesswil e morto a Kiisnacht. Conseguita la laurea in medicina, en- tra nel 1900 in qualità di assistente nell'ospedale psichiatrico di Zurigo. Dopo vari anni di ricerche giunge alla conclusione che per comprendere le manifestazioni psicotiche occorre soprattutto tener conto della storia individuale del malato. Nel 1907 pubblica la Psico- logia della demenza precoce nella quale formula l'ipotesi dell'origine psichica della schizofrenia, interpretando il comportamento e il linguaggio del malato come espressione di fantasie inconsce che hanno sostituito completamente l’attività della coscienza. Nel 1912 pubblica la Trasformazione e simboli della libido che segna la defi- nitiva differenziazione del pensiero di Jung da quello di Freud, dif- ferenziazione che riguarda tutti i punti fondamentali della psicana- lisi: il concetto di inconscio, la libido, la funzione dei simboli, il metodo terapeutico. Queste tesi, Jung le riprende e sviluppa ulterior- mente nelle opere successive: Tipi psicologici; Energetica dell'anima; L'io e l'inconscio; Psicologia e religione. In quest'ultima opera Jung, diversamente da Freud, riconosce l'importanza della religione nella vita dell'individuo e della società e vede in essa una profonda esi- genza della natura umana stessa: questa ha bisogno e si serve della religione per dare espressione simbolica alle sue ricchezze interiori. Ma a parere di Jung, « una dottrina intorno a Dio nel senso di un'esistenza non psicologica non può essere sostenuta ». Kant Immanuel (1724-1804) Nacque a Kénigsberg (Prussia). Studiò filosofia, matematica e teologia all'università della sua città natale. Fu precettore presso alcune famiglie patrizie. Nel 1755 ebbe la libera docenza e nel 1770 ottenne la nomina a professore ordinario di logica e metafisica all’uni- versità di Kònigsberg. Nel 1794 il re di Prussia gli proibiva, con una lettera, di insegnare le idee critiche nei confronti della religione. Kant si adeguò e non tenne più corsi sulla filosofia della religione. Morì nella sua città natale che non aveva mai abbandonato. 308 La filosofia di Kant non parte dal presupposto che ci sia una realtà esteriore preordinata, ma che la realtà è costruzione nostra, in quan- to soggetti intelligenti. L’atto conoscitivo è sintesi a priori di due elementi: contenuto e forma; la forma è fornita dal soggetto, il contenuto dalle cose. Vi sono tre gradi nel processo del pensiero: ap- prensione, giudizio e raziocinio. Il contenuto del I grado è il com- plesso dei dati sensoriali, la forma è l'ordinamento che ne facciamo nello spazio e nel tempo. Il risultato che è una sintesi di carattere sensibile, o apprensione, serve di contenuto del secondo grado di conoscenza, di cui la forma è l'elaborazione secondo alcuni criteri intellettivi che Kant chiama categorie. Ne derivano i giudizi o sintesi concettuali. Questi primi due gradi dell'attività conoscitiva si inte- grano a vicenda. Nel raziocinio si hanno tre idee regolatrici dell’atti- vità stessa: anima, mondo e Dio. Anche questa attività è unificatrice, anzi è quella che tende alla sintesi suprema: ma questa non è mai realizzabile obiettivamente. Pertanto la metafisica, tradizionalmente intesa, non è possibile come scienza positiva. La reale conoscenza u- mana è limitata all'esperienza sensibile. Per Kant i postulati della vita morale sono tre: l’esistenza-di Dio, l'immortalità dell'anima, la libertà. La prima formula del dovere morale o imperativo categorico è: Agisci sempre ed esclusivamente per amore della legge, prescindendo da qualsiasi risultato utile o dannoso. Nella terza opera fondamentale (Critica del giudizio) Kant tratta dei giudizi fondati sul finalismo, che riconosciamo nella nostra vita e nella natura e dei giudizi estetici, che sorgono spontanei dalla ripercussione nel nostro spirito di tale riconoscimento. I meriti maggiori della filosofia kantiana sono il tentativo di uscire dal ristagno del razionalismo e dell'empirismo, il riconosci- mento della ragione pratica e del « sentimento ». Inoltre è riuscito a dare espressione filosofica alla Weltanschauung del popolo germanico, che è caratterizzata da una profonda coscienza del dovere e dal culto per la legge e per la disciplina, dall'amore per la natura. Opere principali: Storia universale della natura e teoria del cielo (1755); Monadologia physica (1756); Studio sull'evidenza dei prin- cipi della teologia naturale e della morale (1764); Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764); Critica della ragion pura (1781); Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza (1783); Primi principi metafisici della scienza del- la natura (1786); Critica della ragion pratica (1787); Critica del giu- dizio (1790); La religione nei limiti della semplice ragione (1793); La fine di tutte le cose (1794); Metafisica dei costumi (1797). Kautsky Karl (1854-1939) Filosofo e uomo politico tedesco, nato a Praga e morto ad Amsterdam, compì i suoi studi a Vienna. Conobbe personalmente Marx e dopo avere diretto nel 1883 Neue Zeit (Tempo Nuovo), la ri- vista teorica della socialdemocrazia tedesca, redasse il Programma 309 di Erfurt (1891) e il suo commento al Programma del Partito social. democratico costituì la formulazione di piena ortodossia per gli aderenti alla Seconda Internazionale in contrasto con l’ala revisio- nista di Bernstein. Kautsky opera una sintesi tra l'evoluzionismo darwiniano e l’or- todossia marxista. Il suo socialdarwinismo è elaborato a partire dalla sua concezione di dialettica intesa naturalisticamente come intera- zione organismo-ambiente. Egli si interroga se la storia dell'umanità non sia in fondo un caso particolare della storia degli esseri viventi. Nonostante la sua pretesa ortodossia fu spietato critico del bolsce- vismo che accusò di dittatura personale. ” Opere principali: Le dottrine economiche di Karl Marx (1887); Etica e concezione materialistica della storia (1906); La rivoluzione sociale (1909); La concezione materialistica della storia (1927). Kierkegaard Sòren (1813-1855) Nacque a Copenaghen, nel 1840 si laureò in teologia a Berlino. Visse sempre a Copenaghen. Fu un filosofo ripiegato totalmente su se stesso, sulle riflessioni del suo intimo, incentrate soprattutto su tre grandi fatti: il suo rapporto con il padre; il tormento da lui chia- mato « pungolo della carne » e la sua breve relazione sentimentale con Regina Olsen. Fu critico efficace del sistema hegeliano e del cristianesimo uffi- ciale, da lui accusato di formalismo. Obiettivo della sua filosofia è quello di riabilitare i concetti di « esistere » e di « interiorità » facen- doli gravitare intorno alla categoria fondamentale di singolo, ovvero l'uomo nel concreto della sua specificità. Secondo Kierkegaard la drammatica complessità dell'esistenza non può essere giustificata al- l'interno di un sistema logico totalizzante, cui si sottraggono la pre- carietà e la sofferenza della persona, ma può trovare il proprio senso solo nella realtà di ogni singolo e nella dialettica delle sue scelte di vita, in una continua alternanza di scelte, dominate dall'angoscia, e regolate o dalla decisione per il piacere traseunte ed egoistico (stadio esistenziale estetico o del Don Giovanni); o dal senso del dovere e dell'impegno personale (stadio etico o del padre di famiglia) o dall'ab- bandono incondizionato all'imperscrutabile volontà di Dio con un atto di fede senza ritorno (stadio religioso o di Abramo). Dio è l’Es- sere ed ha due modi di manifestarsi: naturale e soprannaturale. Sulla scia di una radicale prospettiva luterana, Kierkegaard espri- me la consapevolezza che tra Dio e uomo, tra natura divina e natura umana vi è una infinita differenza qualitativa, cosicché la conoscenza religiosa finisce per manifestarsi come passione per l'infinito. La mancanza di garanzia oggettiva fa sì che la fede sia vissuta come un rischio, ma la sua accettazione non è irrazionale. Il salto dalla inno- cenza al peccato non è spiegabile con la dialettica « quantitativa » di Hegel; esso si spiega con la dialettica « qualitativa ». Nella storia di Adamo è delineata la sequenza dall’innocenza alla colpa. La coscienza 310 del peccato costituisce il singolo; ma Cristo ha liberato l’uomo dal peccato senza privarlo della individualità. Opere principali: Sul concetto dell’ironia con particolare riguardo a Socrate (1841); Aut-aut (1843); Timore e tremore (1843); La ripresa (1843); Briciole di filosofia (1844); Il concetto dell'angoscia (1844); Stadi del cammino della vita (1845); La malattia mortale (1849); Esercizio del cristianesimo (1850); Discorsi edificanti. Opere po- stume: Diari; Libro su Adler; La dialettica della comunicazione etica ed etico-religiosa. Korsch Karl (1886-1961) Filosofo tedesco nato a Tostedt, si laureò in giurisprudenza nel 1912. Si iscrisse al Partito Socialdemocratico tedesco indipendente di Kautsky. Nel 1920, alla scissione di questo, entrò nel Partito Comunista filosovietico. A causa del nazismo abbandonò la Germa- nia e più tardi si trasferì negli Stati Uniti dove morì a Cambridge, nel Massachussets. Le sue critiche colpirono soprattutto la teoria gnoseologica del rispecchiamento di Lenin, secondo la quale la coscienza di classe sa- rebbe estrinseca alla prassi proletaria. Ciò farebbe della dittatura di Lenin una dittatura sul proletariato e non una dittatura del pro- letariato. Korsch tende inoltre a recuperare la dimensione hegeliana della totalità, valutando criticamente la « scientificità » del Capitale, che tende a separare economia, politica è cultura. Opere principali: Marxismo e filosofia (1923; l’opera che ne decre- tò l'espulsione dal Partito); Il materialismo storico (1929); Karl Marx (1938). Labriola Antonio (1843-1904) Filosofo italiano, nato a Cassino, docente successivamente di filosofia morale e pedagogia e quindi di filosofia della storia a Roma, dove morì; introdusse lo studio del marxismo in Italia. Ebbe rap- porti diretti con Engels e fu critico di Bernstein e Sorel. In base al metodo genetico egli guarda alle cose non più come entità fisse, ma come funzioni. Inoltre, con un deciso atteggiamento di distinzione tra marxismo e naturalismo positivista, egli differenzia un « terreno naturale » da un « terreno artificiale »: gli uomini sono originariamente dipendenti dalla natura, ma la storia dell'umanità è la storia della società che varia ad opera del comune impegno del lavoro umano. Opere principali: il suo pensiero è elaborato in tre saggi fonda-' mentali: In memoria del manifesto dei comunisti (1895); Del mate- rialismo storico. Delucidazione preliminare (1896); Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898). Leibniz Gottfried Wilhelm (1646-1716) Nato a Lipsia, partecipò alla vita politica, ottenendo incarichi di- 311 plomatici. Studiò filosofia all'università di Lipsia e matematica a Jena. Scoprì ii calcolo infinitesimale contemporaneamente a Newton e inventò il regolo calcolatore. Dietro suo consiglio fu fondata a Berlino l’« Accademia della Scienza », di cui fu il primo presidente. Fu a Parigi, dove propugnò la riunificazione della Chiesa cattolica con quelle protestanti. Questa missione lo impegnò per tutta la vita. La sua fine fu solitaria e triste. La filosofia di Leibniz si presenta come reazione al dualismo car- tesiano e all'empirismo inglese. È reazione al dualismo cartesiano in nome dell'unità degli esseri (ogni essere è essenzialmente uno: una monade, centro di attività e di energia, che riproduce in se stessa la struttura di tutta la realtà); non esistono due sostanze, quella spirituale e quella materiale; ma una sola: quella spirituale. È inol- tre reazione all’empirismo inglese in nome dell'originalità della cono- scenza intellettiva che non è una semplice reazione passiva alle idee dei sensi, ma lo sviluppo di idee che l'intelletto ha già germinalmente presenti sin dalla nascita (idee innate). Le facoltà conoscitive del- l'uomo sono: senso, memoria, ragione. Le conoscenze della ragione si dividono in verità di ragione (principio di non contraddizione) e verità di fatto (principio di ragione sufficiente). L'esistenza di Dio è provata con il procedimento ontologico, par- tendo dal concetto di possibilità; da ‘Dio trae origine il mondo per folgorazione. La perfezione delle creature viene da Dio, l’imper- fezione dalla loro limitazione, in cui sta anche la causa del male. Opere principali: De arte combinatoria (1666); Discorso di meta- fisica (1686); Nuovo sistema della natura, della comunicazione tra le sostanze e dell'unione tra l'anima e il corpo (1695); Nuovi saggi sul- l'intelletto umano (1703); Saggi di teodicea (1710); Principi della na- tura e della grazia fondati sulla ragione (1714); Monadologia (1714). Lenin Nikolay (1870-1924) Pseudonimo di Vladimir Ilijc Uljanov, laureatosi in legge a Pietro- burgo, iniziò la professione legale, svolgendo nel contempo attività politica sulla scorta del pensiero di Marx. Passato attraverso l’espe- rienza dell'esilio, diresse l’ala avanzata del partito socialdemocratico russo chiamato bolscevico. Rientrato in patria allo scoppio della Rivoluzione del '17, dopo l’esperienza parziale della Rivoluzione del 1905, portò al potere il suo partito, le cui linee programmatiche sono contenute nelle cosiddette « tesi di aprile » del 1917: rivendica- zione della rivoluzione socialista (potere ai Soviet), costituzione di una repubblica dei Soviet, nazionalizzazione delle banche e della terra. Capisaldi del pensiero di Lenin sono: 1) il divenire dialettico della materia con la distinzione tra concetto filosofico e concetto scientifico di materia; 2) la partiticità della filosofia in base alla quale sono vere quelle dottrine che sono utili al partito; 3) la ditta- 312 tura del proletariato come forma necessaria per il passaggio dallo stadio del capitalismo a quello del comunismo. Opere principali: L'imperialismo fase estrema del capitalismo (1899); Stato e rivoluzione (1917); L’estremismo, malattia infan- tile del comunismo (1920). La sua opera filosofica più importante è Materialismo ed empirio-criticismo (1909). Lessing Gotthold (1729-1781) Critico drammaturgo e filosofo. Nato a Kamenz, in Sassonia, stu- diò a Lipsia e passò la sua vita fra le città di Breslavia, Berlino e Amburgo. Morì a Brunswick. È la figura più rappresentativa dell'illuminismo tedesco ed è il sostenitore di un radicale razionalismo religioso. Nei suoi scritti fi- losofici, in cui si uniscono motivi illuministici e senso storico, egli ri- prende i motivi comuni dell'illuminismo: critica di tutte le manife- stazioni della cultura, tendenza a « rischiarare le menti » ed a rea- lizzare la felicità dell'umanità; ottimismo, ossia fiducia nella con- tinuità del progresso umano sulla via del suo perfezionamento spi- rituale. Molto influsso ha esercitato la sua svalutazione dell'elemento storico della figura di Cristo e dei Vangeli. A suo parere una decisione di fede e la salvezza eterna non possono dipendere da eventi storici che sono necessariamente contingenti e difficilmente accertabili. Lessing ritiene che l'elemento storico non possa avere l'importanza che le chiese cristiane gli ascrivono e che la fede, considerata come inserimento dell'uomo in una determinata tradizione storica sia qual- cosa di accessorio. L'essenza della religione è comune a tutte le re- ligioni e prescinde dai dogmi delle varie tradizioni cristiane e non cristiane. Opere principali: Sulla genesi della religione rivelata (1735-1755); Il cristianesimo della ragione (1753); Laocoonte (1766); Sulla prova dello spirito e della forza (1777); L'educazione del genere umano (1780); Dialoghi per massoni (1780). Lévinas Emmanuel (1906) Nato in ‘Lituania, ha svolto parte dei suoi studi in Russia e suc- cessivamente a Strasburgo. A Friburgo entrò in contatto con Hus- serl e Heidegger. Naturalizzato francese, insegnò prima a Poitiers e poi alla Sorbona. Da Husserl Lévinas riprende il metodo fenomenologico come ri- chiamo a pensare ciò che è implicito e sottinteso. L’epoché viene utilizzata come superamento dell’ovvietà e ritorno all’originario « prima » del pensiero. L'intenzionalità viene vista da Lévinas nel suo aspetto assiologico, come intenzionalità dei valori morali e fondamento dell'etica. La fenomenologia trascendentale diviene, in- fine, lo strumento principe per l'elaborazione del personalismo etico proprio del filosofo lituano. 313 Tale personalismo è detto propriamente etico-metafisico, poiché l'etica non è, secondo Lévinas, fondata dalla metafisica ma è essa stessa metafisica, capace di fornire una spiegazione esaustiva della realtà umana. Per accedere all’Assoluto, Lévinas parte dalla contingenza della responsabilità, pilastro dell'etica. La via etica è eminentemente auscultazione dell’Assoluto, dell’Infinito, dell'Altro, di Dio, a cui si accede seguendo la traccia del volto dell'altro, il prossimo; quindi dall'altro (il prossimo) si accede al Totalmente-Altro (Dio). Nella nudità e povertà inerme dell'uomo risplende, infatti, la traccia di Dio, fondamento di ogni rapporto etico e di giustizia. L'etica è essenzialmente rapporto con l'altro, esercizio della propria libertà come assunzione della responsabilità dell'altro. La « responsabilità per gli altri » è il principio di individuazione della persona, Nella prospettiva della responsabilità Lévinas conferisce una so- vradeterminazione etica alle categorie ontologiche: essere, ente, to- talità, infinito, differenza divengono elezione, convocazione, sostitu- zione, espiazione, ostaggio, volto. Opere principali: Totalità e infinito (1979); Quattro lettere talmu- diche (1981); Altrimenti che essere o al di là dell'essenza (1982); Etica e infinito (1983); Dal sacro al santo (1984). Lévi-Strauss Claude (1908) Nato a Bruxelles da genitori francesi, dopo gli studi filosofici, a seguito dell'insegnamento presso la cattedra di sociologia di San Paolo, dopo l’esperienza di spedizioni scientifiche in Brasile, ap- prodò allo studio dell'antropologia di cui è uno dei maggiori studiosi. Lo strutturalismo di Lévi-Strauss si fonda sulle premesse lingui- stiche di De Saussure ed egli ritiene che la priorità dello strutturale sul contenuto significativo non sia proprietà esclusiva della lingua, ma è comune a tutte le manifestazioni culturali. Il linguaggio si ri- vela pertanto come il principale elemento della vita culturale. Il metodo strutturale conferisce così all’antropologia culturale un carattere rigorosamente scientifico consentendole di separare certe proprietà in una data serie di fenomeni e nel tentare di sta- bilire definite relazioni fra di loro. Attraverso lo studio dei « sistemi di parentela », Lévi-Strauss ne scoprì l'analogia con i sistemi fonologici. I felici risultati di questi studi indussero lo studioso ad elaborare una antropologia strut- turale completa capace di cogliere al di là della immagine cosciente le infinite possibilità inconscie. L'umanità è un continuo divenire, fondato su un sostrato inalte- rabile: compito dell'antropologia è far emergere questa struttura soggiacente inconscia, che determina anche il formarsi di tutte le diverse forme di società. L'inconscio non ha però una valenza metafisica, è piuttosto la 314 mente collettiva della società che si evolve e si trasforma con la società stessa. Opere principali: Tristi tropici (1955); Antropologia strutturale (1958); Il pensiero selvaggio (1962); Il crudo e il cotto (1964); L'ori- gine delle buone maniere a tavola (1968); Antropologia strutturale due (1973); La via delle maschere (1975). Lévy Bernard-Henry (1949) ‘Autore del libro La barbarie dal volto umano che ebbe grande fortuna e prestigioso rappresentante dei « nuovi filosofi », attacca con grande virulenza il marxismo, giungendo ad identificare lo sta- linismo con il socialismo in senso proprio. Ciò che lo ha indotto a lasciare il marxismo è stata la lettura dell’Arcipelago Gulag di Solzenicyn. A suo modo di vedere la radice delle aberrazioni del socialismo è l'utopia illuministica del progresso, fatta propria da Marx e dai suoi discepoli, eredi e continuatori dell'illuminismo. Lévy sostiene inoltre che il marxismo non è altro che una eari- catura del cristianesimo del quale « va assumendo nel meglio e nel peggio l’integralità della [...] vocazione ». Non diversamente da ciò che avviene nella Chiesa, anche il marxismo si distinguerebbe in un marxismo d'élite e in un marxismo di massa, non meno alienante del cristianesimo. Opere principali: Barbarie dal volto umano (1975); Il testamento di Dio; L'ideologia francese. Locke John (1632-1704) Nato a Wrington in Inghilterra, studiò a Oxford. Da concezioni politiche assolutistiche passò più tardi a posizioni opposte. Accusato di complicità in moti politici fu costretto a esiliare e si rifugiò in Olanda. Il suo pensiero è soprattutto riunito nell'opera « Saggio dell’in- telletto umano » in quattro libri che trattano rispettivamente delle idee innate, del processo della conoscenza, del linguaggio e del valore della conoscenza. Locke critica la dottrina cartesiana delle idee innate. L'anima umana al momento della nascita è una tabula rasa: la conoscenza umana incomincia con l’esperienza sensibile. Vi sono due tipi di idee: idee semplici e idee complesse. L’idea di sostanza è inconoscibile, in quanto supera i limiti della conoscenza sensibile. Quindi l'uomo può conoscere solo l’esistenza delle cose e non la loro essenza. In politica Locke nega lo stato di natura affermato da Hobbes, so- stenendo che gli uomini possono vivere in perfetto accordo. Ammette il contratto sociale da cui nasce lo stato, ma non è una abdicazione ai propri diritti, bensì una delega della loro difesa all'autorità. È an- che assertore della tolleranza e della libertà religiosa. 315 Opere principali: Saggio sulla tolleranza (1667); Epistula de tolerantia (1688); Trattati sul governo civile (1690); Saggio sull’in- telletto umano (1688); Pensieri sull'educazione (1693); Ragionevo- lezza del cristianesimo (1695). Lotze Hermann (1817-1881) Medico e filosofo geniale, nato a Bautze, professore di filosofia a Gottinga e a Berlino, è uno dei rappresentanti della filosofia dei valori sorta in Germania come reazione al positivismo che era sfo- ciato nella distruzione di tutti i valori (nichilismo). Sostiene che fra le leggi meccaniche e la natura dell'uomo non vi è alcun contrasto. Rappresentante del pensiero assiologico Lotze afferma che i valori assoluti hanno carattere trascendente e hanno come ultimo fonda- mento Dio stesso. Per Lotze, inoltre, la realtà di Dio risulta irrefu- tabile se solo si ammette che Dio è, per definizione, essere perfet- tissimo. Opere principali: Microcosmo. Idee sulla storia naturale e sulla storia dell'umanità (tre volumi scritti fra il 1856 e il 1864); Metafisica (1841); Logica (1843); Sistema di filosofia (due volumi scritti nel 1874 e 1879); Scritti minori (1885-1891, postumi). Lukéacs Gyérgy (1885-1971) Nato a Budapest, si presenta come il teorico più complesso e interessante del marxismo occidentale. L’Italia, Heidelberg e Vienna sono le tappe in successione del suo prestigioso itinerario culturale che si è svolto in un ambito etico-estetico. Il suo pensiero si articola su tre poli di interesse: l'etica, l’este- tica e l'adesione al comunismo. L'ortodossia marxista è per Lukécs una metodologia volta all'interpretazione della società e della classe operaia intese come totalità, i cui eventi vanno colti dialetticamente nelle loro connessioni più profonde. Circa l’arte, essa non può essere considerata come rispecchia- mento della realtà, ma a partire dal « tipo », lo strumento che con- sente la riflessione estetica. Il tipo è il risultato della convergenza dialettica delle contraddizioni sociali, morali e psicologiche più significative di un'epoca. La fantasia è la generatrice del tipo. Opere principali: Il dramma moderno (1908); L'anima e le forme (1911); Teoria del romanzo (1916); Goéthe e il suo tempo (1948); Il giovane Hegel (1948); Thomas Mann e la tragedia dell'arte moderna (1953); La distruzione della ragione (1954). Il suo capolavoro poli- tico è Storia e coscienza di classe (1923). Lutero Martin (1483-1546) Padre della Riforma protestante, teologo insigne, polemista, esege- ta della sacra Scrittura e possente oratore. Nacque ad Eisleben in Sassonia. Nei 1505 entrò nell'ordine degli agostiniani, dove compiuti celermente gli studi teologici fu ordinato sacerdote. Nel 1517 con la 316 pubblicazione delle famose Novantacinque Tesi, prese energica posi- zione contro l'abuso della predicazione delle indulgenze indetta dal pontefice Leone X, un male diffuso ovunque ma soprattutto in Ger- mania. Fu scomunicato. Alla Dieta di Worms (1521) ruppe definitiva- mente con la Chiesa di Roma, seguito da molti principi, vescovi, preti e laici tedeschi, essendo considerato come difensore del popolo tedesco. L'essenza del pensiero di Lutero sta in una nuova concezione della salvezza: questa non dipende dall'uomo, dalle sue opere buone, ma esclusivamente dalla misericordia di Dio. Per salvarsi occorre quindi un totale fiducioso abbandono in Dio. In tale prospettiva non occorrono più intermediari: papa, vescovi, preti, santi, sacra- menti, reliquie. E anche se si vogliono ammettere mutano completa- mente di importanza e significato. Opere principali: 95 tesi sulle indulgenze (1517); Alla nobiltà cri- stiana di nazione tedesca per la riforma del ceto cristiano (1520); De captivitate babylonica ecclesiae praeludium (1520); De libertate christiana (1520); De votis monasticis (1521); De abroganda missa privata (1521); Esortazione alla pace (1525); Piccolo catechismo (1529); Grande catechismo (1529). Luxemburg Rosa (1870-1919) Nata a Zamo$é, in Polonia, da famiglia ebrea, militò sin da gio- vane nel movimento socialista polacco, di cui divenne ben presto una dirigente. Nel 1897 si trasferì in Germania, di cui prese la cittadi- nanza e divenne collaboratrice di Karl Liebknecht nel 1914 alla fondazione della Spartakus-Bund (Lega di Spartaco) caratterizzata da acceso spirito internazionalista e rivoluzionario. Due capisaldi della sua teorizzazione sono il diritto di sciopero generale e la teoria della catastrofe, quale autodistruzione del ca- pitalismo in base allo sfruttamento e alla conquista indiscriminata di nuovi mercati. Rosa Luxemburg condusse inoltre una spietata accusa contro il bolscevismo di Lenin. Morirà a Berlino, uccisa dai soldati del go- verno socialdemocratico, durante uno scontro con gli spartakisti. Opere principali: Riforma sociale o rivoluzione? (1899); L'accu- mulazione del capitale (1913); Questione nazionale e sviluppo capi- talista; Tra guerra e rivoluzione (1921 postumo). Malebranche Nicolas (1638-1715) Filosofo francese nato a Parigi. Sacerdote della Congregazione del- l'Oratorio, si distaccò apertamente dalle posizioni della filosofia aristotelico-tomistica. Amico e discepolo di Cartesio accoglie le tesi fondamentali di questi in metafisica (anche per lui la realtà si divide in pensiero ed estensione) ed in epistemologia (il criterio supremo di verità è l'idea chiara e distinta). In due punti però oltrepassa il 317 pensiero di Cartesio: nel problema della conoscenza ed in quello della causalità. Per Malebranche in ‘Dio è fondato sia l'essere che l'agire, includendo nell'ordine dell'agire prodotto da Dio la stessa attività intellettiva della mente umana: le nostre idee sono le perfezioni di Dio che egli ci fa vedere nella sua infinita essenza. La visione delle idee in Dio è possibile perché Egli è immediatamen- te presente nel nostro spirito. Si avvale del principio dell’occasionalismo inoltre per risolvere il problema dei rapporti tra anima e corpo: essendo queste due realtà di genere diverso, non possono entrare in comunicazione di- retta né esercitare un influsso reciproco. Le disposizioni dell'anima e del corpo servono soltanto da occasione per l'intervento di Dio, il quale svolge direttamente ed esclusivamente tutte le azioni sia del corpo sia dell'anima. Opere principali: La ricerca della verità (1675); Trattato della na- tura e della grazia (1680); Colloqui sulla metafisica e la religione (1688); Trattato dell'amore di Dio (1698). Mao Tse-tung (1893-1976) Nato da famiglia contadina, fu tra i fondatori del partito comu- nista cinese sorto nel 1921 a Shangai. Sconfitta la Cina nazionalista di Chang Kai-shek (1949) dopo la « lunga marcia », da lui guidata attra- verso migliaia di chilometri, divenne il capo carismatico della Cina Popolare e antagonista della Russia sovietica. I punti qualificanti del pensiero di Mao sono: a) unione tra teoria e prassi; b) stretto legame con le masse; c) sviluppo dell’autocritica. Nel 1966 si fece promotore della « rivoluzione culturale » che appellandosi alle masse e ai giovani intendeva esercitare un controllo sui quadri del partito e stimolarli a mantenere intatta la carica ri- voluzionaria. Purtroppo questa operazione politica degenerò rapida- mente e ne derivarono delle stragi di centinaia di migliaia di persone, coinvolte senza alcun motivo. Obbligò gli intellettuali a impegnarsi periodicamente nel lavoro dei campi e in fabbrica per evitare il ri- schio di discriminazioni con le masse. Si oppose inoltre rigidamente alla cultura tradizionale, considerando incompatibili Marx, Lenin, se stesso con Confucio, di cui era impregnata da secoli la cultura e la tradizione del popolo cinese. Opere principali: Mao scrisse solo due opere a carattere filosofico: Sulla contraddizione (1937); Sulla prassi (1937). Da questi volumi furono tratti dei brani che formarono il famoso « libretto rosso », punto di riferimento dei giovani durante la rivoluzione culturale e che divenne di moda presso i giovani dell'Occidente durante la contesta- zione sorta nel 1968. Marcel Gabriel (1889-1975) Filosofo e scrittore francese, uno dei maggiori esponenti del- l'esistenzialismo cattolico. Fu professore nei licei, si occupò di gior- 318 nalismo e di critica letteraria. Compose numerosi drammi teatrali. Nel 1929 passò dall’ebraismo al cattolicesimo. La metafisica è « ricerca di ciò che è », dell'essere, compiuta da ciascuno per proprio conto alla ricerca della verità, assurta a valore vitale, qualcosa cioè di vissuto, frutto di una esperienza personale. Egli rifiuta di definire esistenzialista il proprio pensiero e lo qua- lifica come « socratismo cristiano ». Per Marcel, mentre la scienza può parlare del reale in terza persona, la riflessione filosofica è il regno della domanda e della risposta, dell'io e del tu, in cui domina la seconda persona. Fra tutte le realtà suscettibili di ricerca meta- fisica il primato spetta all'essere perché gode di una duplice prio- rità: nei confronti del pensiero e nei confronti dell’avere. L'uomo è un essere incarnato, itinerante (homo viator), animato dalla speran- za, in atteggiamento di adorazione davanti a Dio. Alla trascendenza si arriva per intuizione: l'uomo è fatto per Dio. Opere principali: Giornale metafisico (1927); Essere e avere (1935); Dal rifiuto all’invocazione (1940); Homo viator (1945); Il mi- stero dell’essere (1951); In cammino, verso quale risveglio? (1971). Marcuse Herbert (1898-1979) Nato a Berlino, frequentò l'università di Friburgo. Fece parte del- l'’« Istituto per la ricerca sociale » di Francoforte. Nel 1933 lasciò la Germania e si rifugiò negli Stati Uniti, insegnando in diverse uni- versità americane. ‘Per lo sviluppo del suo pensiero utilizza tre fonti principali: da Freud deriva la tesi che l'essere profondo dell'uomo consiste nel- l'istinto del piacere; da Hobbes proviene la distinzione di due stati nella vita umana: quello di natura e quello sociale. La terza compo- nente fondamentale della visuale filosofica marcusiana trae origine da Marx, da cui Marcuse deriva la prospettiva del materialismo sto- rico e dialettico e la tesi che tutte le lotte sociali sono dovute a ra- gioni economiche. Anche nella società contemporanea esiste una ten- sione tra stato, natura e società e tutto si risolve a favore della so- cietà, che si è trasformata in realtà autonoma, assoluta, onnipotente, fine a se stessa. L'uomo, schiavo della società industriale, non può liberarsi dallo stato repressivo in cui si trova. Solo gli inetti, gli emarginati, gli sfruttati, cioè coloro che restano fuori dal pro- cesso democratico, che si oppongono al sistema, sono una speranza di liberazione. Opere principali: L'ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità (1932); Ragione e rivoluzione (1941); Eros e ci- viltà (1955); Marxismo sovietico (1958); L'uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (1964); Critica della tolleranza (1965); La fine dell'utopia (1967). 319 Maritain Jacques (1882-1973) Filosofo e diplomatico francese, discepolo di Bergson. Nato a Parigi da agiata famiglia protestante, dopo aver aderito per un po’ di tempo al socialismo rivoluzionario, nel 1906, con l’aiuto di Léon Bloy, si convertì con la moglie al cattolicesimo. ‘Insegnò all'« Istituto cattolico » di Parigi e, in seguito, in alcune università degli Stati Uniti. Fu ambasciatore di Francia presso il Vaticano dal 1945 al 1948. Dal 1961 sino alla sua morte si ritirò presso la comunità dei « Piccoli fratelli di Gesù » di Tolosa. Ardente sostenitore della filosofia tomista, di cui è stato il più autorevole rappresentante nel nostro secolo, ne mise in rilievo l’ap- plicabilità ai problemi moderni: politica, arte, pedagogia, scienza. Particolarmente importante il suo contributo al pensiero politico. Maritain è il teorico di un tipo di democrazia di ispirazione cristiana, ch'egli chiama nuova cristianità, per distinguerla dalla cristianità medioevale. Mentre la cristianità medioevale non riusciva a mante- nere sufficientemente distinti ordine sacro e ordine profano, la nuova cristianità, pur facendo del sacro una categoria che ordina a sé la creatura per quanto concerne il fine ultimo, riserva allo spazio strut- turale del mondo una configurazione categoriale profana, ovvero di- stinta dal sacro. Maritain propone l'umanesimo integrale, assegnando alla de- mocrazia, ispirata in modo cristiano, cinque caratteristiche: plura- lismo, infravalenza del temporale, libertà della persona, autorità de- legata e collaborazione. Egli ha avvertito profondamente la decaden- za e la « miseria » della nostra civiltà ed era sicuro di una sua immi- nente fine apocalittica. Queste sue previsioni ed illuminazioni spie- gano il fiorire dopo la sua morte in varie parti del mondo di centri di studio del suo pensiero. Opere principali: La filosofia bergsoniana (1914); Arte e scola- stica (1920); Distinguere per unire o i gradi del sapere (1932); Sul re- gime temporale e sulla libertà (1933); Sette lezioni sull'essere e sui primi principi della ragione speculativa (1934); Scienza e saggezzà (1935); Umanesimo integrale (1936); Da Bergson a Tommaso d'£ quino (1944); Cristianesimo e democrazia (1948); L'uomo e lo Stato (1951); Ateismo e ricerca di Dio (1953); L’intuizione creativa nell'arte e nella poesia (1953); Il contadino della Garonna (1966); La Chiesa del Cristo (1973). Marx Karl (1818-1883) Nacque a Treviri, in Germania, studiò presso l'università di Ber- lino. Dopo la laurea si dedicò al giornalismo, rivolgendo aspre cri- tiche ai governi assolutisti del tempo. Nel 1843 e 1844 si rifugiò due volte a Parigi per sfuggire alla caccia della polizia tedesca. Nel 1848 pubblicò il Manifesto del partito comunista insieme a Engels, con cui ebbe una grande amicizia e dimestichezza di lavoro comune (an- che Il Capitale fu preparato valendosi dell'apporto dell'amico) e nel 320 1849 dovette riparare in Inghilterra. Nel 1864 convocò a Londra la Prima Internazionale per coordinare l’attività rivoluzionaria del proletariato di tutto il mondo. L'intuizione geniale di Marx consiste nell'aver scoperto nella natura e nella storia dei rapporti economici quella logica immanente, quella dialettica progressiva che regola la storia della coscienza in Hegel. L’unica realtà è quella della storia, la quale a sua volta non è altro che l'evoluzione della materia in tutte le sue fasi, compresa quella umana. Il materialismo storico è quindi quella concezione della storia la quale afferma che nelle vicende umane il fattore fon- damentale è quello economico. Un altro punto fondamentale della teoria marxista è quello che riguarda il plus valore, cioè il guadagno superiore all'investimento che il capitalista ricava dal prodotto. Per Marx la religione è una sovrastruttura contingente e fonda il suo ateismo su tre postulati: 1) il materialismo metafisico e dialet- tico; 2) il materialismo storico; 3) l'umanesimo assoluto che situa l’uomo al vertice del cosmo. Opere principali: Manoscritti economico-filosofici del 1844; Ideo- logia tedesca (1845-1846); Miseria della filosofia (1847); Manifesto del partito comunista (1848); Il Capitale (1867, insieme a Engels). Merleau-Ponty Maurice (1908-1961) È nato a Rochefort-sur-Mer, in Francia. Fu professore all'univer- sità di Lione, poi ordinario di psicologia pedagogica alla Sorbona. Prese il posto di Lavelle nell'insegnamento al « College de France ». Fondò, insieme a Sartre, il mensile Les temps modernes e lo diresse dal 1945 al 1953. La sua filosofia è di indirizzo fenomenologico. Essa si sviluppa su due linee: 1) come critica interna della psicologia sperimentale e convinzione che la riduzione fenomenologica ci riconduce ad una coscienza sempre più definita dal corpo, rapporto originario con il mond, e dalla situazione storica, rapporto originario tra soggetto e soggetto; 2) come riflessione sul marxismo: da una proposta di let- tura esistenzialistica degli scritti del giovane-Marx, ad una successiva interpretazione dello stalinismo come tragedia giustificata da una storia rivoluzionaria, il cui fine fondamentale è tuttavia il consegui- mento di rapporti comunitari, per giungere infine ad una concezione del marxismo come componente indispensabile, accanto ad altre, della cultura contemporanea e di Marx come di un punto di riferi- mento ormai classico ma inattuale. Opere principali: La struttura del comportamento (1942); Feno- menologia della percezione (1945); Umanismo e terrore (1947); Senso e non senso (1948); Le avventure della dialeitica (1955); Segni (1960); Il visibile e l'invisibile (1964, postumo). 321 Mill John Stuart (1806-1873) Nacque a Londra. Filosofo ed economista. Fu in Francia e in Inghilterra dove si dedicò alle scienze e alla giurisprudenza. Genio precocissimo, fu scrittore molto fecondo e per alcuni anni membro della Camera dei Comuni. Il problema speculativo che lo preoccupò maggiormente fu l'ela- borazione di una logica induttiva valida e completa, basata sulla gnoseologia dell'empirismo inglese, la quale non ammette concetti, idee universali. A tal fine egli escogitò vari metodi di cui i principali sono: metodo dell'accordo, metodo della differenza, metodo dell'ac- cordo e della differenza. Opere principali: Sistema di logica deduttiva e induttiva (1843); Principi di economia politica (1848); Sulla libertà (1859); Conside- razioni sul governo rappresentativo (1861); Utilitarismo (1863); Comte e il positivismo (1865); Tre saggi sulla religione (1874, po- stumi). Mounier Emmanuel (1905-1950) Ritenuto da molti il vero fondatore del personalismo, fu per un ventennio (1930-1950) una delle voci più autorevoli e più ascoltate del mondo cattolico europeo. Dopo aver iniziato gli studi alla facoltà di scienze di Grenoble dove era nato, passò a quella di filosofia della Sorbona, superando il disagio, provocatogli dalla filosofia ideali- sta, attraverso il rapporto con Maritain, Guitton e il teologo P. Payet. L'incontro fondamentale resta però quello con il pensiero di C. Péguy. Fondò la prestigiosa rivista Esprit (1932). Mounier colpisce con la sua critica sia il carattere oppressivo dell'economia capitalista sia il carattere generico, utopistico, ateo e collettivista del marxismo. Al capitalismo e al marxismo contrappone il personalismo (I/ Personalismo, 1949) le cui linee fondamentali sono: 1) la struttura psicofisica della persona umana; 2) la trascendenza della persona ri- spetto alla natura; 3) l'apertura verso gli altri e verso il mondo me- diante la comunicazione; 4) la dinamicità; 5) la vocazione; 6) la libertà. Secondo Mounier le difficoltà di carattere materiale e sociale che ostacolano la realizzazione della vocazione della persona possono essere ridimensionate da una democrazia che sia politica e socio- economica al tempo stesso. Opere principali: Rivoluzione personalista e comunitaria (1935); Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana (1936); Personalismo e cristianesimo; Manifesto al servizio del personalismo (1936); I cri- stiani e la pace (1939); Trattato del carattere (1946); Che cos'è il per- sonalismo (1947); Rottura fra l'ordine cristiano e il disordine stabili- to; Il lavoro; Il denaro; Tentazioni del comunismo; Aspetti del cor- porativismo. 322 Nietzsche Friedrich (1844-1900) Figlio di un pastore protestante, nacque a Rochen, in Germania. Studiò filosofia classica nelle università di Bonn e di Lipsia. Nel 1869 fu chiamato ad insegnare all'università di Basilea lingua e let- teratura greca. Nel 1879, per il suo precario stato di salute, lasciò definitivamente l'insegnamento e iniziò a soggiornare senza fissa di- mora in Svizzera, Italia e Francia, specie in riviera. Nel 1889 fu colto, a Torino, da un nuovo e più grave attacco di pazzia che, sia pure con brevi periodi di sosta, non lo lasciò più e lo portò alla morte, che avvenne a Berlino. Nietzsche si oppone criticamente all'idealismo di Hegel e al pessimismo di Schopenhauer e contesta aspramente ogni religione. La base del suo pensiero è il concetto che la realtà sia una esplo- sione di forze disordinate. Davanti a questa strepitosa esplosio- ne di potenza, che non può essere imbrigliata da nessuna legge della ragione, si può assumere un duplice atteggiamento: di debo- lezza (quello del gregge), di forza e potenza (del superuomo). Il gregge, di fronte alla potenza sregolata della natura, invènta la re- ligione. Contro la massa dei mediocri (il gregge) Nietzsche, per bocca di Zarathustra, il protagonista del suo famoso libro Così parlò Zarathustra, proclama che l’esistenza dell'uomo è completamente ter- rena e che Dio non esiste: « Dio è morto », L'etica del superuomo, l'uomo forte, « il leone », come egli lo chiama, è il trionfo della propria personalità, al di là del bene e del male, purché si affermi sugli altri; come è per il bambino, deve saper « dire di sì alla vita » in tutte le sue forme e deve creare nuovi ideali di esistenza, nuovi simboli sacri (Dioniso al posto di Dio). Nietzsche recupera la dottrina dell'eterno ritorno, che ha come proprio centro la volontà creatrice dell'uomo. Opere principali: La nascita della tragedia dallo spirito della mu- sica (1872); Considerazioni inattuali (1873-1876); Umano troppo uma- no (1878); Il viandante e la sua ombra (1880); La gaia scienza (1882); Così parlo Zarathustra (1883-1885); Al di là del bene e del male (1886); Genealogia della morale (1887); Il caso Wagner (1888); Cre- puscolo degli idoli (1888). Opere postume: L'Anticristo; Ecce homo; Nietzsche contro Wagner. Occam (di) Guglielmo (1290-1349) Francescano, studiò e insegnò ad Oxford. Per le sue dottrine so- spette nel 1314 fu invitato a presentarsi alla corte papale ad Avi- gnone per rispondere delle idee eretiche di cui era accusato. Fuggì da Avignone con un gruppo di francescani dissidenti e in seguito si rifugiò a Monaco di Baviera, presso l'imperatore Ludovico il Ba- varo, venendo così scomunicato. Egli afferma che gli universali esistono solo nella mente e non hanno nessun rapporto con le cose; sono solo puri concetti. Quindi bisogna eliminare le entità astratte {rasoio d’'Occam). 323 Tra fede e ragione non esiste armonia: non si possono conoscere le verità soprannaturali; sono solo oggetto di una fede cieca. Opere principali: Commento alle Sentenze; Summa logicae; Opus nonaginta dierum (1333-1334); De dogmatibus papae Johannis XXII (1334); Dialogus; Octo quaestiones; Breviloquium de potestate papae; De imperatorum et pontificum potestate. Parmenide (I metà del V sec. a.C.) Nacque a Elea (colonia greca in Lucania). Fondatore della Scuola eleatica, pone come unica realtà l’essere, negando il divenire considerato come illusione dei sensi. Secondo Parmenide l’unica realtà ‘è l'essere; nessun'altra realtà è possibile in quanto senza l'essere nulla è pensabile: « la stessa cosa è pensare e il pensiero che è ». Con questo Parmenide intende dire che l'oggetto del nostro pensiero è l'essere, e che il non essere non è pensabile. Coerente con questo postulato, passando dalle esigenze del pensiero a quelle dell'esperienza, conclude iogicamente che il nasce- re e il perire delle cose, ossia ogni forma di divenire, sono solo nomi, esprimenti le fallaci opinioni degli uomini. Parmenide è considerato il primo grande metafisico della storia perché è il primo filosofo che si preoccupa di chiarire la nozione fondamentale dell'essere. Opere principali: scrisse il poema Della natura. Pascal Blaise (1623-1662) Nacque a Clermont Ferrand. Di grande ingegno fin da ragazzo, studiò matematica e fisica. A 18 anni si trasferì con il padre, alto magistrato da cui aveva avuto la prima educazione, a Parigi e qui frequentò il circolo culturale guidato da Mersenne. Si distinse per le sue ricerche e scoperte di geometria e di ‘fisica. Questa sua vita completamente indirizzata agli studi rese la sua salute fragile e gli abbreviò l'esistenza, morendo a Parigi non ancora quarantenne. Nel 1646 aderisce al giansenismo, per cui attacca violentemente sia i gesuiti francesi, che accusa di predicare una morale lassista, sia i cosiddetti « libertini », ai quali rimprovera il mancato impegno per la salvezza finale. Abbracciò il misticismo del monastero di Port-Royal e nel 1654, dopo una breve crisi mondana, ebbe una specie di visione mistica (la famosa notte del 23 novembre) e si convertì definitiva- mente. Pascal critica il metodo geometrico di Cartesio che pretende di ridurre tutto ad idee chiare e distinte. Ad esso contrappone il metodo affettivo (esprit de finesse); alle idee chiare e distinte le idee emozio- nanti. Più che opporre la ragione al cuore, intende integrare la ra: gione col cuore: e valersi di entrambi nella difesa del cristianesimo di cui fu ardente seguace e abile apologista. Oltre che scienziato di grandissimo valore e forte polemista, fu dotato di uno spirito finissimo, l'esprit de finesse, di cui fu pieno il suo pensiero filosofico che partiva da una conoscenza penetrante, 324 quasi intuitiva, delia realtà umana nella sua condizione storica con- creta. Opere principali: Trattato sulle sezioni coniche (1639); Lettere provinciali (1656); Apologia della religione cristiana (del progetto rimasero solo alcuni frammenti raccolti poi nei famosi Pensieri). Peirce Charles Sanders (1839-1914) Filosofo e matematico statunitense, studiò alla « Harvard Uni- versity » e dal 1859 al 1891 lavorò presso il servizio geodesiaco e costiero degli Stati Uniti. Visse gli ultimi anni nella solitudine e nella povertà. Può essere considerato il fondatore del pragmatismo, corrente nata in America come reazione al positivismo e al materiali- smo positivistico e che risolve il criterio di verità delle diverse teorie nel loro successo pratico, operando induttivamente e poi veri- ficando. L'impostazione di Peirce è infatti empiristica e sperimenta- lista; egli però nega che la sua tesi abbia esiti soggeîtivistici e uti- litaristici. Opere principali: La grande logica; Raccolta di scritti di Ch. S. Peirce (in 8 volumi fra il 1931 e il 1958, postumi); Corne rendere chia- re le nostre idee (1878). Piaget Jean (1896-1980) Nato e vissuto in Svizzera è annoverato tra gli studiosi più ge- niali della psicologia contemporanea. Notevole il suo contributo an- che di carattere epistemologico. Nel 1954 foridò a Ginevra il notis- simo « Centro internazionale di epistemologia genetica ». A partire dall’osservazione del comportamento Piaget sottolinea che il pensiero del fanciullo differisce da quello dell'adulto non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente e ciò perché il pen- siero umano è evolutivo. Tappe dell'evoluzione del pensiero infantile sono: 1) l'intelligenza serisomotoria; 2) l’attività rappresentativa; 3) l’attività imitativa differita e il linguaggio verbale. Piaget ritiene, inoltre, di poter cogliere una stretta correlazione tra linguaggio e pensiero attraverso tre fasi fondamentali di svilup- po: 1) il pensiero egocentrico (il fanciullo attribuisce valore assoluto alla propria esperienza); 2) il pensiero realista (primato dei dati per- cettivi su quelli rappresentativi); 3) lo sviluppo intellettuale vero e proprio nelle due evoluzioni successive che vanno dai nove ai dieci anni e dai quindici ai sedici anni. Partendo dall'evoluzione del pen- siero umano, Piaget affronta due questioni fondarnentali di episte- mologia genetica: quelia relativa allo sviluppo della nozione e quella relativa alla cognizione della nozione. Opere principali: Il linguaggio e il pensiero del fanciullo (1923); Il giudizio e il ragionamento nel fanciullo (1925); La rappresentazio- ne del mondo nel fanciullo (1926); Il giudizio morale nel fanciullo (1932); La nascita dell’intelligenza (1936); La formazione del sim- bolo (1947); Introduzione all’epistemologia genetica (1950); Le trasformazioni delle operazioni logiche (1952). 325 Pitagora (571-490 a.C.) Nacque a Samo, isola greca del Mar Egeo. Fu un genio multi- forme che coltivò ad un tempo la matematica, l'astronomia, l’asce- tica e la mistica. Fondò a Crotone la scuola pitagorica, la cui dot- trina fondamentale è che il numero è l'essenza di ogni cosa. Da cui la derivazione della molteplicità dell'unità. Il concetto matematico con cui Pitagora spiega i fenomeni è superiore a quello degli Ionici, perché è astratto e più razionale. Per Pitagora l’anima è eterna e rinasce in altri corpi di uomini o animali (metempsicosi). Alla sua scuola diede un indirizzo spiccatamente religioso. I suoi membri vi- vevano in comunità, compiendo pratiche ascetiche molto elevate. Platone (427-347 a.C.) | Nacque ad Atene da una famiglia fra le più nobili della Grecia. È uno dei più grandi filosofi della storia. Fu discepolo di Cratilo e poi di Socrate. Dopo la tragica fine di questi, per evitare delle rappre- saglie, si allontanò da Atene e si rifugiò a Megara e più tardi iniziò a viaggiare, visitando varie città della Grecia e dell’Italia, sofferman- dosi a Siracusa, dove ritornò alcuni anni dopo. Tornato ad Atene, vi fondò nel 387 a.C. l'Accademia che può essere considerata la prima università a carattere scientifico. Per secoli questo prestigioso centro di studi attrasse le migliori intelligenze della Grecia. Scrisse moltis- sime opere, in parte andate perdute. Platone fu il primo filosofo meta- fisico: per spiegare il mondo sensibile sentì il bisogno di ipotizzare un altro mondo ideale, immateriale. Infatti, caratteristica dominante del pensiero platonico è il dualismo: esistono due mondi: uno intelligibile o mondo delle Idee, che sono le essenze eterne, divine e immutabili delle cose e il mondo sensibile, che è prodotto dal De- miurgo, l'artefice sovrano, plasmando la materia informe a immagi- ne delle Idee. Caratteristica della filosofia platonica è la tesi secondo cui il conoscere umano non è altro che un ricordare. Per Platone l'uomo è un'unità accidentale di anima e di corpo: essenzialmente l’uomo è soltanto anima. Tutta la sua filosofia ha un orientamento etico: l'uomo è sulla terra di passaggio, nel desi- derio dell'eternità. iPer raggiungere la felicità occorre rinunciare ai piaceri e alle ricchezze e dedicarsi alla pratica della virtù, per cui è meglio subire l'ingiustizia che commetterla. La filosofia è l’unica via sicura per giungere alla giustizia e al bene. All'incontro con le cose di questo mondo, copie delle Idee, nell'anima umana si risve- glia il ricordo delle ‘Idee che aveva contemplato in una vita prece- dente (mito della caverna). Anche la concezione politica di Platone è ideale e si fonda sulla divisione dei compiti e del lavoro tra le classi dei lavoratori, guerrieri e magistrati che corrispondono alle anime concupiscibile, irascibile e razionale dell'individuo. Dall'’armonia di queste tre classi nasce il raggiungimento del Bene, del Giusto, del Vero. Per lui lo Stato ha origine dal fatto che l'individuo non può bastare a se stesso. 326 Opere principali: a) Dialoghi giovanili (Apologia di Socrate; Critone; Ipparco; Protagora; Menesseno); b) Dialoghi della matu- rità (Gorgia; Menone; Cratilo; Repubblica; Fedone; Fedro); c) Dia- loghi della vecchiaia (Teeteto; Parmenide; Sofista; Timeo; Crizia); Lettere. Plotino (205-270) Nato a Licopoli (Egitto), entrò nella scuola di Alessandria diretta da Ammonio Sacca e partecipò a una spedizione bellica contro i per- siani. Poi si trasferì ad Antiochia e infine a Roma, dove fondò una scuola. Morì in Campania, nella sua villa. Fu l'ultimo grande espo- nente del pensiero classico e il principale esponente del neoplato- nismo, movimento che opera una sintesi tra la filosofia di Platone e le religioni pagane orientali. Per inclinazione naturale e dato una certa conoscenza dell'ebraismo e del cristianesimo in Roma, ha con- centrato la sua speculazione sul problema religioso, in particolare sul rapporto dell'anima con Dio. Plotino accentua i concetti di semplicità e di trascendenza ri- guardante l'Assoluto che chiama Uno. All’Uno quindi: non si può attribuire nessuna qualità positiva (teologia negativa). Dall'Uno trag- gono origine tutte le altre realtà mediante emanazione, secondo un ordine: il Nous o intelligenza, la vita, l’anima universale, le anime, la materia. La missione dell'anima umana è di ristabilire l'unità originaria delle cose, riconducendole all’Uno, attraverso tre tappe: ascetica e catarsi, contemplazione, estasi. Opere principali: i suoi scritti furono ordinati dal discepolo Porfirio e sono noti sotto il nome di Enneadi. Popper Karl Raimund (1902) Nacque a Vienna, dove studiò fisica, matematica e poi filosofia. Data la sua origine ebraica nel 1937 emigrò in Nuova Zelanda dove insegnò a Christchurch. Nel 1945 si trasferì a Londra, iniziando ad insegnare alla London School of Economy. Popper fu, in un primo tempo, uno degli esponenti più qualificati del Circolo di Vienna e del neopositivismo, ma poi abbandonò questo sistema e sviluppò una concezione originale dei fondamenti della scienza e del metodo scientifico, che può essere definita come razionalismo critico, in forte contrasto con la Scuola di Francoforte a cui rimprovera, oltre la dialettica, lo « storicismo », per cui si fan- no previsioni della storia nella totalità del suo corso che viene con- siderato essere diretto in modo ineluttabile verso una meta prefis- sata, come la società senza classi prevista da Marx. I punti qualificanti della sua concezione in campo epistemologico sono due: il carattere sostanzialmente deduttivo (anziché induttivo) della scienza; e il criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e non scientifiche, che viene chiamato criterio di falsificabilità. Que- sto stabilisce che una teoria può considerarsi scientifica soltanto se è falsificabile, ossia se si può indicare dei casi in cui risulterebbe 327 falsa, cioè smentita in linea di principio e non per essere stata consta- tata falsa di fatto. Notevole anche l'apporto di Popper alla filosofia politica con la sua appassionata difesa della « società aperta », vale a dire la difesa di una società che non solo tolleri, ma stimoli la cri- tica dei singoli e dei gruppi in vista della soluzione razionale dei problemi più gravi come quello delia fame e dell'ignoranza. Opere principali: La logica della scoperta scientifica (1934); Che cos'è la dialettica (1937); La ‘società aperta e i suoi nemici (1945); Miseria dello storicismo (1957); Congetture e confutazioni (1962); Conoscenza oggettiva (1972). Frotagora (490, morto tra il 410 e il 400 a.C.) Filosofo greco, massimo esponente della sofistica. Dalla sua natia Abdera (in Tracia), si trasferì ancora in giovane età ad Atene, dove insegnò ad una folta schiera di studenti entusiasti. Si guadagnò la stima e il favore di Pericle, il quale lo incaricò di stendere la costituzione della colonia di Thurii. Data e luogo della sua morte sono incerti, e ja causa sembra sia stata un naufragio. L'attenzione precipua della riflessione filosofica di Protagora non è più voita come nella maggior parte dei presocratici allo studio della natura e della causa o principio primo, bensì verso l’uomo ed è tesa, soprattutto, a scoprire quali sono le possibilità umane in or- dine alia conoscenza e alla morale. In entrambi i casi Protagora sposa una tesi sostanzialmente relativistica: non esistono verità asso- lute nell'ordine gnoseologico né leggi universali nell'ordine etico; sia le verità sia le leggi sono relative. Questa tesi è espressa nel ce- lebre detto di Protagora: « L'uomo è misura di tutte le cose; di quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perché non sono ». È la stessa condizione naturale dell’uomo, la sua struttura corporea a non consentirgli di raggiungere né il vero né il bene in maniera assoluta e definitiva: «La materia — afferma Protagora — è flut- tuante, e fluendo essa ininterrottamente, si verificano aggiunte al posto delle perdite, e le sensazioni mutano e variano secondo l'età e secondo le altre costituzioni dei corpi ». Opera principale: La verità o Discorsi sovvertitori. Renouvier Charles (1815-1903) Filosofo francese, nato a Montpellier e morto a Prades, nei Pirenei Orientali. Nella sua opera del 1903, I/ personalismo, ha fornito spunti fondamentali al personalismo contemporaneo offrendo addirittura la denominazione che lo caratterizza e che è desunta da una indagine filosofica centrata sull'uomo concreto e sulla sua dimensione dia- logica. ‘ Per Renouvier il carattere specifico della persona umana è Îa conoscenza da intendersi come apertura verso il mondo e verso l'as- soluto e capace di portare l’uomo a riconoscere l’esistenza di una Persona prima e creatrice. Il riconoscimento della sua esistenza è imposto al nostro assenso dal carattere di unità armonica delle leggi 328 che regolano l’intendimento degli esseri intelligenti e reggono il mondo. È favorevole ad una specie di religione filosofica. Opere principali: Saggi di critica generale (1854-1864); La nuova monadologia (con L. Prat, 1899); Il dilemma della metafisica pura (1901); Il personalismo (1903). Rickert Heinrich (1863-1936) Filosofo tedesco, nato a Danzica, fu docente di filosofia ad Heidel- berg dove morì e direttore delia scuola di Baden; sviluppò la « fiia- sofia dei valori », distinguendo la scienza delio spirito dalle scienze della natura. Critico del positivismo, distingue due forme di conoscenza e due logiche ad esse correlate: 1) la logica delle scienze spirituali o sto- riche da un lato; 2) la logica delle scienze naturali dall'altro. 'La realtà per Rickert è quella che ci rivelano le scienze spirituali o che i loro giudizi valutativi determinano. La natura, invece, è solo un'immagine astratta e abbreviata della realtà, creata per il bisogno che l'uomo ha di dominare, classificandola e uniformandola, l'infi- nita varietà degli individui, di cui consta l’esperienza., Le scienze naturali, pertanto, tendono all'astrazione; mentre le scienze spirituali o storiche tendono a determinare il valore dei fatti, che sono il presupposto stesso della storia. Opere principali: L'oggetto della conoscenza (1892); Scienze della cultura e scienze della natura (1899); La filosofia della vita (1920); Sistemi di filosofia (1921); La logica del predicato e il problema dei- l’ontologia (1930); Problemi fondamentali della filosofia (1934). Ricoeur Paul (1913) Filosofo francese, nato a Valence, docenie di filosofia ciella storia prima alla Sorbona e poi all'università di Parigi-Nanterre, può essere annoverato sia tra i fenomenologi che tra gli esistenzialisti e i personalisti. Assertore di una interessante visione antropologica, Ricoeur la fonda sul concetto di fallibilità, che la storia delle religioni docu- menta aîtraverso i simboli del male e dei peccato. La fallibilità è una prerogativa dell’uomo, realtà essenzialmente progettuale, che può fallire nella realizzazione dei proprio progetto. La persona per Ricoeur è un progetto di umanità. Attività fonda- mentali della persona sono il conoscere, il cui oggetto è il vero; il volere, il cui oggetto è il bene; il sentire, il cui oggetto è l’affettività. Alla sfera del sentimento appartengono l'amicizia (apertura verso i propri simili) e la deiezione (apertura verso il mondo delle Idee, la Trascendenza, Dio). Opere principali: G. Marcel e K. Jaspers (1947); K. Jaspers e la filosofia dell'essere (1947); Filosofia della volontà (1950-1960); Finitu- dine e colpa (1960); Il conflitto delle interpretazioni {1969); La sfida semiologica (1974); Metafora viva (1975). 329 Rosmini Antenio (1797-1855) Nacque a Rovereto e fu ordinato sacerdote nel 1821. Nel 1828 fondò la congregazione religiosa dei « rosminiani »; morì a Stresa sul Lago Maggiore; Nel 1848 fu ambasciatore a Roma di Carlo Al- berto presso Pio IX; suo compito era quello di cercare un accordo col Pontefice per una confederazione di stati italiani, ma la missione fallì. In quella stessa occasione, furono messe all'indice due opere in cui egli propugnava il rinnovamento della Chiesa. Amareggiato, si ritirò a Stresa, dedicandosi esclusivamente alla filosofia. Rosmini tentando di porre un freno all'estensione del sensismo e dell’empirismo, riconosce come elemento a priori oggettivo della co- noscenza l'idea dell'essere, che non è l’idea dell'Essere reale (Dio) ma dell'essere ideale, astratto, indeterminato che deriva dall’Essere reale. L'essere ideale è forma di ogni conoscenza, ma in se stesso non rappresenta nessun oggetto determinato. Deve incontrare e unire qualche dato della sensibilità. La conoscenza si sviluppa in diversi gradi: intuizione, affermazione, astrazione. Opere principali: Nuovo saggio sull'origine delle idee (1830); Principii della scienza morale (1831); Antropologia in servigio della scienza morale (1838); Trattato della coscienza morale (1839); Filo- sofia della politica (1839); Filosofia del diritto (1845); Teodicea (1845). Opere postume: Saggio storico-critico sulle categorie e la dialettica; Antropologia soprannaturale; Teosofia. Rousseau Jean-Jacques (1712-1778) Filosofo svizzero di lingua francese, nacque a Ginevra. Orfano di madre, a soli sedici anni iniziò una vita di vagabondaggi. A Parigi frequentò gli ambienti dell'Enciclopedia. Si attirò molti nemici. Fuggì in Svizzera e in Inghilterra. Rientrato in Francia, passò gli ultimi anni nella solitudine e nella povertà, continuando a scrivere fino alla morte. Massimo esponente dell'illuminismo francese, Rous- seau scrisse moltissimo occupandosi degli argomenti più disparati: dalla storia alla musica, dalla pedagogia alla politica, dalla metafisica alla religione. Nel Contratto sociale espone la sua concezione politica in cui, pur assegnando allo Stato un'origine convenzionale, non gli si ascri- ve mai poteri assoluti e definitivi, ma ogni decisione dello Stato sotto- stà all'approvazione dei cittadini. Altre due sue opere espongono la dottrina pedagogica. Questa si caratterizza per una completa fiducia nelle capacità autoeducative del fanciullo: alla scuola della natura egli ritiene di ottenere un'educazione assai migliore di quella che somministra normalmente la società ai suoi membri. Opere principali: Discorso sulle scienze e le arti (1750); Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini (1755); Lettera sulla provvidenza (1756); Lettera sugli spettacoli (1758); Emilio o dell'educazione (1762); Contratto sociale (1762); Lettera a 330 Christophe de Beaumont (1763). Opere postume: Dialoghi: Rousseau giudice di Jean-Jacques; Meditazioni di un viandante solitario. Russell Bertrand (1872-1970) ‘Nacque (e vi morì anche) nel Galles da famiglia nobile. A 23 anni entrò nel « Trinity College » di Cambridge, dove fece gli studi di ma- tematica e filosofia. Scienziato e filosofo tra i più celebri del no- stro secolo. Scrisse moltissimo. Russell fu uno spirito profondamente inquieto, mai soddisfatto delle soluzioni acquisite, in continua evoluzione di pensiero. Egli aderì successivamente all’idealismo, al realismo, al neopositivismo, alla analisi linguistica, al fenomenismo. Tuttavia, nonostante la perenne instabilità e icambiamenti, talora radicali, di vedute, di teo- rie, di sistemi, c'è una prospettiva di fondo cui egli ha mantenuto sempre fede durante la sua quasi centenaria esistenza: è la prospet- tiva empirista propria della filosofia inglese, la quale è caratterizzata da un forte attaccamento alla esperienza ed uno spiccato interesse per le questioni di ordine epistemologico e morale, anziché metafisico e teologico. In logica sono importanti le considerazioni svolte da Russell intorno alla definizione degli individui, delle classi, dei tipi e delle « descrizioni ». In gnoseologia finì per professare un empiri- smo radicale, riducendo la conoscenza ad un fascio di sensazioni, ch'egli preferisce chiamare « una classe di particolari »; il filosofo ha proposto sia una concezione « dualistica » della verità (corrisponden- za tra fatti e proposizioni) sia una concezione « umanistica ». Nella filosofia del linguaggio ci sono vari punti in comune con i neopositi- visti, dai quali si allontana circa il criterio di significazione, distin- guendo il senso dal significato. Russell nega alla morale la carat- teristica di vera scienza e circa la religione la sua posizione è agno- stica. Opere principali: Saggio sui fondamenti della geometria (1897); Principi della matematica (1903); Principia Mathematica (1910- 1913); Sulla conoscenza del mondo esterno (1914); Elementi di etica (1910); Analisi della mente (1921); Atomismo logico {1924); Perché non sono cristiano (1927); Libertà e organizzazione (1932); Educa- zione e ordine sociale (1932); Storia della filosofia occidentale (1945); Il mio sviluppo filosofico (1959); Autobiografia (1967-1969). Saint-Simon Claude-Henry de (1760-1825) Di famiglia nobile nato a Parigi, dove morì, è un filosofo e stori- co francese. Allievo del d’Alembert, seguì dapprima la carriera mi- litare. Poi, dopo essersi proficuamente occupato di affari, nel 1798 si dedicò totalmente alla filosofia, rovinandosi ben presto finanzia- riamente fino a cadere nella più squallida miseria, pur non cessando per questo gli studi. Rappresentante del positivismo, Saint-Simon fu tra i primi a sottolineare l’importanza del fattore economico nella costituzione e 331 nella trasformazione delia società. A suo parere il problema eco- nomico soverchia, per imporianza, tutti quanti gli altri, compresi quello palitico e quello religioso. La crisi profonda che sta attraver- sando ia società moderna è dovuta soprattutto a ragioni economiche, e non poeîirà essere superata se non ponendo a capo della società i grandi industriali e gli womini di scienza. Nei nuovo sistema d'orga- nizzazione della società ia direzione spirituale deve passare dal clero agli scienziati, Ia cura degli interessi materiali dalla nobiltà alla bor- ghesia, dalla corona alie banche. Queste teorie del Saint-Simor: eser- sitarono un profondo influsso su alcuni grossi nomi della filosofia dell'Ottocento, in particolare su Comte e su Marx. Opere principali: /miroduzione «i lavori scientifici del XIX se- celo (1808); Ricrganizzazione della società europea (1814); Nuovo cristianesimo (1825), che però fu incompiuto. Santeyana George {1863-1952} Filosofo e scrittore statunitense d'origine spagnola, nacque a Madrid. Fu professore alla università di Harvard dove aveva fatto gli studi di filosofia, fino al 1912. Cessato l'insegnamento si trasferì in inghilterra, quindi in Francia e infine in Italia dove morì a Roma. Santayana professa un realismo di ispirazione platonica, basato su un dualismo esasperato tra « essenze » ed « esistenze ». L'esistenza è la materia, i'essenza è lo spirito. L'anima è la vita di un organismo in cui è incarnato lo spirito e funge pertanto da mediatore tra la materia e le essenze. I due mondi delle essenze e delie esistenze co- stituiscono un dualismo irriducibile; ia vita è divisa, scissa tra questi due regni; e l’aitività umana non è che lo sforzo assurdo, grottesco e tragico di conciliare l'essenza (l’idea) con l’esistenza e l'esistenza con l'essenza (l’idea). Tutto quanto gli uomini fanno e pensano (istituzioni sociali, riti religiosi, sistemi filosofici ecc.) nen è che un immenso, vano tentativo di accordare la vita animale e la contemplazione spirituale, quasi una condanna imposta all'uma- nità. Opere principali: La vita della ragione (5 voll., 1905-1906); Soli- loqui in Inghilterra (1922); Scetticismo e fede animale (1923); Dia- loghi nel Limbo (1925-26); I regni dell'essere (4 voll., 1927-1940); Dominazioni e poteri (1951). Sartre Jean-Paul (1905-1980) Nacque e morì a Parigi, dove, all’« École Normale Supérieure », studiò filosofia che insegnò poi per diversi anni nei licei di Le Havre e Parigi. Iniziò la carriera letteraria come giornalista, romanziere, saggista, drammaturgo e sceneggiatore cinematografico. Dopo il 1945 viaggiò moltissimo, anche per motivi politici, data la sua mili- tanza nel Partito Comunista francese, di cui poi assunse dall'esterno il ruolo di critico. Negli anni del dopoguerra fu la personalità più popolare in Francia e più discussa in Europa. 332 Sartre, come Heidegger, concentra la sua analisi filosofica sul- l'essere ai fine di coglierne il significato profondo e di svelarne la natura. Però per Sartre l'essere, che egli chiama essere-in-sé per distinguerlo dalla coscienza (essere-per-sé) è una massa inerte, gon- fia, qualcosa di ripugnante. Ma la caratteristica sua particolare è l'assurdità: nell’assurdità sta la chiave della esistenza di ogni cosa. L'uomo si distingue dagli altri esseri perché ha la coscienza che è l'opposto dell'essere. Per vivere, la coscienza ha bisogno di nulli- ficare l'essere, in quanto è per sua natura il non-essere, il vuoto, il nulla. L'attività nullificatrice della coscienza ha come sbocco neces- sario la « nausea ». Questa nasce dal fatto che la coscienza trova sempre davanti a sé qualche cosa di troppo. Ma ciò che è il dato costitutivo essenziale dell'uomo non è la coscienza ma la libertà, senza limiti e non vincolata da nessuna legge morale. L'uomo desi- dera fondamentalmente di essere in sé, poiché il per sé (o essere della coscienza) è un puro nulla. Questo ideale è ciò che può essere chia- mato Dio, il quale perciò è una semplice ipostatizzazione di questo ideale. Opere principali: La trascendenza dell’Ego (1936-1937); L'imma- ginazione (1936); La nausea (1938); Abbozzo di una teoria delle emo- zioni (1939); L'immaginario (1940); L'essere e il nulla (1943); Il muro (1943); Le mosche (1943); A porte chiuse (1945); Materialismo e rivo- luzione (1946); Questioni di metodo (1957); Critica della ragione dia- lettica (1960); Le parole (1964); Kierkegaard vivo (1966); Conversa- zione sull'antropologia (1966); L'idiota di famiglia (1971-1972); Ri- bellarsi è giusto (1974). Scheler Max (1874-1928) Filosofo tedesco, nato a Monaco e morto a Francoforte. Già di- scepolo di Dilthey, Eucken e Simmel ed influenzato da Nietzsche, subì in seguito fortemente l’influsso di Husserl, dal quale apprese il metodo fenomenologico, di cui fece ampio uso nel suo studio del- l'uomo, della persona, dei suoi atti, della conoscenza (intenzionalità ed oggettività) ed in particolare della esperienza morale. Importante il suo tentativo di uscire dall’'etica formalistica di ispirazione kan- tiana, conferendole un contenuto materiale desunto dai valori. La sua opera principale porta per titolo // formalismo in etica e l'etica materiale dei valori (1916), « l'opera di gran lunga più signifi- cativa apparsa da molto tempo » (Hildebrand). Mediante l’elabora- zione di un'etica dei valori, in cui si rivendica a queste entità una dimensione ontologica propria che sfugge a tutte le minacce dello psicologismo, Scheler sottrae la morale oltre che al formalismo kantiano anche a tutte quelle visioni soggettivistiche e positivistiche che erano diventate di moda alla fine dell'Ottocento (nominalismo, psicologismo, positivismo, pragmatismo ecc.). Scheler definisce i valori come « oggetti autenticamente ogget- tivi, disposti in ordine eterno e gerarchico ». La sua assiologia si ca- 333 ratterizza pertanto come realistica, come gerarchica ed inoltre come personalistica (in quanto tutti i valori dei gradi inferiori sono subor- dinati alla persona) e teocentrica (in quanto al vertice di tutti i va- lori, come valore supremo, viene posto Dio). Scheler si sottrae al rischio immanentistico presente nel metodo fenomenologico distin- guendo la fenomenologia dei valori dalla filosofia della religione. Senonché questa distinzione viene abbandonata negli ultimi scritti, dove Scheler assume una visione immanentistica e pertanto pan- teistica della realtà. Opere principali: Il formalismo in etica e l'etica materiale dei valorî {1916); Essenza e forme della simpatia (1923); Le forme del sapere nella società (1926); La posizione dell'uomo nel cosmo (1927); La visione filosofica nel cosmo (postuma). Schelling Friedrich Wilhelm (1775-1854) Nacque a Leonberg, nel Wiirttemberg, studiò a Tubinga dove ebbe come condiscepolo Hegel. Nel 1799 fu chiamato a sostituire Fichte a Jena, poi passò ad insegnare a Wiirzburg, a Monaco e a Berlino. Schelling ha una concezione dell’assoluto come sintesi degli op- posti: dell'io e della natura, del soggetto e dell'oggetto, dello spi- rito e del mondo. L'assoluto origina la natura, forma oggettiva, per acquistare per mezzo di essa maggiore coscienza della propria sog- gettività. Quindi la natura è preistoria della coscienza, pensiero pie- trificato. L'uomo è l'essere in cui l'assoluto acquista coscienza di sé diventando spirito. La comprensione dell'universo in cui natura e spirito non sono più contrapposti ma armonizzati si attua nell'attività estetica. L'opera d’arte è manifestazione dell'infinito sotto forma finita. Opere principali: Sui miti, le leggende storiche e i filosofemi del mondo antico (1793); Lettere filosofiche sul dogmatismo e sul cri- ticismo (1795-1796); Nuova deduzione del diritto naturale (1796- 1797); Sistema dell'idealismo trascendentale (1800); Esposizione del mio sistema di filosofia (1801); Filosofia e ragione (1804); Ricerche’ filosofiche sull'essenza della libertà umana (1809). Opere postume: Filosofia dell'arte; Le età del mondo. Schlegel Friedrich (von) (1772-1829) Critico e filosofo tedesco, nacque ad Hannover e studiò giurispru- denza dedicandosi allo studio «della letteratura greca. Insegnò priva- tamente a Parigi e poi a Colonia. Fu a Vienna, dove si impegnò in un movimento tardo romantico fiancheggiato dalla rivista Concordia. Morì a Dresda. Dopo una fase in cui Schlegel si distinse per i suoi contributi di natura storico-filologica, egli cominciò a orientarsi verso gli studi filosofico-estetici. I suoi primi contributi in questo senso, appaiono, a partire dal 1797, nella rivista Atheneum, organo del Circolo di Jena, 334 raccolti più tardi col titolo Lezioni filosofiche del 1804-06. Dopo la conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1808, Schlegel orientò il suo pensiero verso un nuovo spiritualismo fondato sull'esperienza cristiana. Opere principali: Sul valore dello studio dei greci e dei romani (1797). Schleiermacher Friedrich Daniel Ernst (1768-1834) Filosofo e teologo tedesco. Nacque a Breslavia e morì a Berlino. Studiò teologia all'università di Halle, che era il centro dell’illumi- nismo tedesco. Come Kant, ricevette una formazione religiosa di stampo pietistico. Amico di Schlegel, si aprì per il suo tramite al romanticismo. Durante l'occupazione napoleonica con Fichte fu uno dei più ardenti difensori del nazionalismo tedesco. Dopo la ca- duta di Napoleone riprese l'insegnamento alla università di Berlino dove fu anche preside della facoltà di teologia per oltre un ventennio. Schleiermacher è più teologo che filosofo; i suoi argomenti pre- feriti sono la ‘Scrittura, la fede, il cristianesimo, la religione, ai quali si accosta da una prospettiva che fonde insieme istanze ra- zionalistiche, romantiche e idealistiche. Il suo apporto maggiore riguarda la natura della teologia e il metodo teologico e il suo inse- gnamento in questo campo avrà un influsso rimarchevole dando origine a quel movimento che porta il nome di protestantesimo li- berale. Notevole anche il suo insegnamento relativo all'essenza della religione. Due sono i principi su cui egli fonda il suo concetto della religione: 1) la religione è una determinazione del sentimento; 2) l'essenza della religiosità sta nel fatto di essere coscienti della propria dipendenza da Dio. Il sentimento, come lo concepisce Schle- iermacher è qualcosa di più della comune accezione dello stesso. È una facoltà che si colloca tra la ragione e la volontà. Per lui il cristianesimo è superiore alle altre religioni « non per il valore ra- zionale dei suoi contenuti dottrinali, ma per il maggiore grado di ade- guatezza con cui questi contenuti attestano e suggeriscono il senti- mento fondamentale della nostra dipendenza da Dio ». Opere principali:. Discorsi sulla religione (1798); Monologhi (1800); La fede cristiana (1821-1822). La maggior parte dei suoi corsi accademici vennero pubblicati postumi nell'edizione delle Opere complete (1834-1864). Schopenhauer Arthur (1788-1860) Nacque a Danzica da famiglia agiata. Costretto dal padre a se- guire la carriera commerciale, l’abbandonò nel 1805 alla morte del padre e studiò a Gottinga e poi a Jena, dove, nel 1813, si laureò in filosofia. Ottenne la libera docenza all'università di Berlino, ma le sue dottrine pessimistiche come risultavano nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicata nel 1819, non trova- 335 rono molta fortuna. Nel 1833 si stabilì a Francoforte ove risied&tte fino alla morte. Schopenhauer, opponendosi alla tesi idealistica della razionalità della storia, evidenzia gli elementi negativi della natura e della storia. Movendo dalla distinzione kantiana fra fenomeno e noumeno, ma rovesciandone i significati, identifica il mondo dei fenomeni (della rappresentazione) col mondo della ragione e il mondo noumenico (reale, vero) con quello della volontà, una volontà cieca e irrazio- nale, da cui traggono origine tutte le cose e tutti gli avvenimenti. Gli individui non sono altro che l’oggettivazione della volontà. Tutto nel mondo è volontà, desiderio di ciò che non si possiede, perciò l’u- manità è in preda a un continuo dolore nato dall’insoddisfazione dei suoi desideri. L'unico modo per liberarci da queste dolorose volontà di vivere è quello consistente nella noluntas, nella rinuncia alla pro- pria individualità. Essa avviene in tre momenti: arte, simpatia, a- scesi. Opere principali: Sulla vista e i colori (1816); Il mondo come vo- lontà e rappresentazione (1814-1818); Sulla volontà della natura (1836); Sulla libertà del volere (1839); Sul fondamento della morale (1840); I due problemi fondamentali dell'etica (1841); Quadruplice radice (1847); Parerga e paralipomena (1851). Scoto Duns (1265-1308) Nacque a Maxton in Scozia. Entrò giovanissimo nell'ordine fran- cescano. Fece gli studi ad Oxford e a Parigi. A Parigi ottenne il ti- tolo di magister theologiae. Nel 1298 tornò in Inghilterra dove com- mentò le Sentenze di Pietro Lombardo. Poi ancora a Parigi. Finì la sua vita nello studentato francescano di Colonia. Scoto si sforzò di operare una sintesi fra la corrente francescana e quella aristotelica. Le dottrine più originali della sua metafisica so- no l'univocità dell'essere, l’ecceità e la distinzione formale tra essenza ed esistenza. L'oggetto della metafisica è l'essere in quanto perfe- zione massimamente indeterminata. L'« ecceità » (0 « questità ») è una forma particolare che conferisce l’individuazione. Tra essenza ed e- sistenza non vi è distinzione reale, ma « formale ». L'esistenza di Dio deve essere dimostrata: la prova più convincente è quella della causalità. Sia in Dio sia nell'uomo la volontà ha priorità rispetto al- l'intelletto. L'uomo è essenzialmente composto di anima e di corpo. Intelletto e volontà sono formalmente distinte dall'anima, pur costi- tuendo con essa una sola realtà. Distanziandosi da s. Tommaso, Scoto afferma la priorità della volontà sull’intelletto. Opere principali: Commentari ad Aristotele; Opus oxoniense; Re- portata parisiensia; De primo rerum principio. Seneca Lucio Anneo (4 a.C.-65) Nacque a Cordova, ma si trasferì a Roma sin da fanciullo. Qui ebbe come maestri di filosofia gli stoici Attalo e Sozione. Assimilò 336 in modo personale le loro dottrine e divenne il massimo rappresen- tante dello stoicismo nel mondo latino. Diventò massimo consigliere di Nerone. Ma, caduto in disgrazia di questi, si ritirò dalla vita pub- blica. Accusato di aver partecipato ad una congiura contro Nerone, fu da questi indotto al suicidio. Secondo Seneca l'universo è composto di due principi: uno passi- vo, la materia, e uno attivo, Dio. Questi è l’anima dell'universo, ra- gione (logos) diffusa in tutte le cose, fonte immanente di vita, legge suprema che connette in un'unica catena di cause tutti gli eventi e condiziona l'unità organica del cosmo. Seneca è il filosofo pagano che maggiormente ha compreso il valore della libertà come diritto costitutivo fondamentale di ogni uomo. La lotta di Seneea eontro la schiavitù è incondizionata. L'uguaglianza è un diritto naturale. Fine ultimo della vita umana è l'autonomia della persona di fronte ad uo- mini ed eventi: è la libertà dello spirito da tutto ciò che può pro- fanare la divina serenità dell'animo. Opere principali: 9 Tragedie; De clementia; De beneficiis; Dia- logorum libri; 124 Lettere a Lucilio; Naturalium quaestionum libri VII. Socrate (469-399 a.C.Nacque e visse ad Atene nell'epoca del suo maggior splendore arti- stico e della maggiore potenza militare ed economica. Condusse una vita molto semplice e frugale. Nel 400 a.C. venne accusato di empietà e corruzione della gioventù. Non volle salvarsi andando in esilio pri- ma del processo. Condannato a morte, morì bevendo la cicuta. Eser- citò una grande influenza sulla filosofia greca. La missione a cui si sentì chiamato dall’oracolo di Delfi fu di in- citare gli uomini a preoccuparsi degli interessi della loro anima con l'acquisto della saggezza e della virtù. Contro i Sofisti si preoccupò di definire i concetti universali di bene, giustizia, felicità e virtù, iden- tificando la conoscenza con la moralità e la felicità con la pratica del- la virtù. Infatti per lui è essenziale la distinzione di male e di bene. Il metodo ‘da lui usato nelle conversazioni con i discepoli fu quel- lo dell'ironia che spinge l'interlocutore a porsi nuovi problemi (maieutica). Non ha lasciato alcuno scritto. Spencer Herbert (1820-1903) Nato a Derby, Inghilterra, compì studi scientifici e avanzò la tesi dell’evoluzionismo scientifico dalla iettura delle opere di Lyell. Successivamente, trasferendo l'evoluzione dal campo scientifico a quello filosofico, ne ha fatto una vera e propria visione del mondo sia cosmico che biologico, sia umano che sociale. Valendosi dell’evo- luzione anche per spiegare l'ordine dell'universo, Spencer ascrive a tale ordine un'origine meccanica e non intenzionale {o finalistica). Non per questo egli ritiene di dover negare l’esistenza di Dio, che 337 anzi egli ammette, perché sfugge alla ragione. Questa realtà assoluta è l’Inconoscibile, l'essere assoluto che l'uomo chiama Dio. Opere principali: Statica sociale (1850); Principi di psicologia (1855); Primi principi (1862); Principi di psicologia (1870-1872); Principi di etica (1879-1892); Individuo e Stato (1884); Autobiografia (1904, postuma). Spinoza Baruc (1632-1677) Nacque ad Amsterdam da una famiglia di ebrei profughi dal Por- togallo. Il padre lo avviò allo studio delle sacre Scritture e delle dottrine rabbiniche, ma Spinoza coltivò anche lo studio della filo- sofia e della teologia protestante. Asserendo che l’interpretazione tradizionale della sacra ‘Scrittura era errata, nel 1656 fu scomuni- cato dalla comunità israelita ed espulso per eresia. Abbandonò Am- sterdam e si trasferì a Leida dove visse nella riservatezza e nella povertà. Spinoza, quasi ignorato per oltre un secolo dopo la sua morte, avvenuta a l’Aia, fu messo poi in luce dai filosofi tedeschi come Lessing, Herder e gli idealisti che divennero suoi ferventi ammira- tori e gli assicurarono un posto tra i più grandi pensatori dell'uma- nità. Come Cartesio egli incentra tutta la sua riflessione filosofica su due realtà: Dio e l’uomo. Il suo obiettivo non è la conquista della verità ma il raggiungimento della felicità. Spinoza risolve il dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa considerandole come i due attributi conoscibili dell'unica so- stanza esistente, Dio, costituita da infiniti attributi. Il mondo è iden- tico a Dio (Natura sive Deus): Dio è natura naturans, cioè infinita attività produttrice e il mondo è natura naturata, infinito prodotto. L'etica di Spinoza si risolve nell’amor intellectualis Dei, cioè nella conoscenza della sostanza divina che si ha quando è raggiunto il trionfo della ragione e il dominio delle passioni. In politica Spinoza è uno dei primi assertori della teoria dell’origine contrattuale dello Stato. Opere principali: Breve trattato su Dio, l'uomo e la sua feli- cità (1660); Ethica more geometrico demonstrata; Tractatus de intel- lectus emendatione; Principia philosophiae cartesianae (1663); Trac- tatus theologico-politicus (1670). Spirito Ugo (1896-1979) L'itinerario filosofico di U. Spirito, filosofo italiano nato ad Arez- zo e morto a Roma, iniziò con un'adesione piena ed entusiastica al- l’attualismo di Gentile, che lo Spirito difese contro le obiezioni che da varie parti sorgevano contro di esso. Ma poi proseguì su una linea autonoma, dando all’attualismo una piega marcatamente anti- intellettualistica oltre che fortemente immanentistica ed atea, cui viene dato il nome di problematicismo. Come spiega lo stesso Spi- rito, il problematicismo è « una concezione della vita come ricerca, 338 che non ha scetticamente rinunciato alla verità e che anzi sa bene quanto dogmatica e contraddittoria sia tale rinuncia, ma che non si illude d'averla già in suo possesso ». « Esso non si presenta come una filosofia bensì soltanto come un'aspirazione alla filosofia: non pretende di avere valore assoluto [...] ma non si definisce nep- pure come relativismo, perché non comprende come si possa rinun- ciare alla speranza dell’assoluto ». Al termine del suo movimentato itinerario filosofico Spirito si attestò su una posizione sostanzialmente neo-positivistica, assumen- do la scienza come principio chiave per la comprensione del mondo e come criterio supremo per decidere di qualsiasi problema, inclusi i problemi di ordine etico ed assiologico. In tale prospettiva marcata- mente scientista, Spirito affida alla scienza — e non più alla meta- fisica e alla religione — il compito di fungere da strumento connet- tivo della società e di fissare una nuova tavola di valori. Opere principali: Il pragmatismo nella filosofia contemporanea (1921); Scienza e filosofia (1933); La vita come ricerca (1937); Il pro- blematicismo (1948); Dall’attualismo al problematicismo (1976). Stalin (1879-1953) Pseudonimo di Josif Visarionovic Dzugasvili, nato in Georgia, uomo politico russo, fondatore, con Lenin e Trotzsky, del Politburo del Partito Bolscevico russo e collaboratore di Lenin nella fase di ricostruzione della Russia; stroncò le opposizioni interne con dure repressioni, facendo assassinare persino Trotzsky quando già si tro- vava in esilio in Messico (1940). Lo stalinismo è il frutto più specifico del dogmatismo ideologico di Lenin. Nei suoi brevi scritti, Stalin segue la linea del suo maestro Lenin, sforzandosi di dimostrare che questi era il più diretto e orto- dosso seguace di Marx e che la dottrina derivante messa a punto da Lenin, il marxismo-leninismo, era la più completa teorizzazione fi- losofica per lo sviluppo dell'umanità. Il XX Congresso del Partito comunista russo del 1956, quando era salito al potere Kruscev, rinnegò e condannò l’opera di Stalin, avviando il cosiddetto processo di « destalinizzazione ». Opere principali: Sul! materialismo dialettico e sul materialismo storico, Principi del leninismo {1924); Questioni del leninismo (1926). Stein Edith (1891-1942) Ebrea di razza e di fede, nata a Breslavia in Germania, fu disce- pola e assistente di Husserl. Convertitasi al cattolicesimo nel 1922, nel '32 entrò nel Carmelo di Colonia, dove fu arrestata dai nazisti nel 1942. Morì nel lager di Auschwitz il 9 agosto dello stesso anno. Carattere centrale del suo pensiero è l'impegno di rivedere tutto l'impianto della metafisica aristotelico-tomista in chiave fenomeno- logica. Nella sua tesi di laurea Sul! problema dell'empatia sviluppa uno studio pregevole e originale sul sentimento dell’empatia, con cui l'io « percepisce condividendola » la realtà dell'altro. 339 ILa Stein intende approfondire la riflessione avviata da Lipps e Husserl: pur avendo quaicosa in comune sia con la percezione ester- na, sia con la memoria, sia con l'immaginazione, l’empatia è un'espe- rienza sui generis: è l’esperienza che un Io in generale ha di un altro Io. Con l’empatia, considerata come atto di compartecipazione, si entra nel « regno dello spirito », che è il regno dei valori. Opere principali: Su! problema dell'empatia (1917); La fenome- nologia di Husserl e la filosofia di san Tommaso d'Aquino (1929); Essere finito ed eterno (1950, postuma); La scienza della croce (1950, postuma). Suarez Francisco (1548-1617) Nacque a Granada. Fu filosofo e teologo. Mentre studiava nel- l'università di ‘Salamanca entrò nell'ordine dei gesuiti. Insegnò filosofia a Segovia e teologia a Valladolid. Tra il 1580 e il 1585 insegnò a Roma al « Collegio Romano ». Poi rientrò in Spagna e continuò a insegnare. Suarez è il pensatore più profondo e originale della Controri- forma. Col suo tentativo di conciliare il tomismo con le dottrine do- minanti dopo Occam e con le nuove teorie che lo sviluppo della scienza moderna andava evolvendo, egli inaugura un nuovo tipo di filosofia scolastica, il cui obiettivo principale è di operare una sin- tesi tra le posizioni di san Tommaso e il pensiero moderno. La sua opera principale, Disputationes metaphysicae, è la prima trattazione sistematica completa delle questioni discusse dalla filosofia scola- stica, in forma indipendente sia dalla teologia che dalle opere di Aristotele. In tal modo Suarez costituì la metafisica nella sua spe- cificità e totalità. In una prima parte tratta dell'essere in generale e delle sue cause, nella seconda dei vari enti esistenti: Dio, l’uomo e il mondo. Opere principali: De Verbo incarnato (1590); Disputationes me- taphysicae (1597); Varia opuscola theologica (1599); De vera intel- ligentia (1605); De legibus ac Deo legislatore (1612). Talete (624-562 a.C.) Matematico, astronomo e filosofo di Mileto. Fondatore della Scuo- la ionica. Descritto nell'antichità come una personalità poliedrica. A lui sono attribuiti numerosi teoremi di geometria e la scoperta del- la formula per misurare l'altezza delle piramidi attraverso la misu- razione dell’ombra da queste proiettata. Pone l’acqua come prin- cipio da cui traggono origine tutte le cose, per condensazione o ra- refazione. Telesio Bernardino (1509-1588) Originario di Cosenza, studiò fisica, medicina e filosofia a Padova dal 1527 al 1535. Si ritirò poi, per circa dieci anni, in un convento benedettino. 340 È il primo importante esponente di una nuova filosofia della na- tura che scorge in essa solo forze naturali che si devono spiegare con i suoi principi. L'indagine sulla natura deve procedere non dalla ragione ma dal senso. Ed è quest’ultimo a rivelare che nella natura non agiscono principi astratti come le forme o le cause finali, ma le forze, che sono cause meccaniche, principi agenti. I due principi agenti sono il caldo e il freddo. Dal loro contrasto deriva la realtà dei fenomeni fisici. Con questi due principi Telesio spiega anche la conoscenza umana, ridotta a sensazione. Telesio riconosce, comunque, la presenza nell'uomo anche di un'anima soprannaturale, divina e infusa da !Dio, la cui presenza non è testimoniata solo dalla rivelazione, ma anche dal bisogno innato che l’uomo ha di iDio e di una giustizia, ultraterrena. Conse- guentemente quest'anima è immortale. Opere principali: De rerum natura juxta propria principia (1586); Varii de rebus naturalibus libelli (1590, postumi). Tommaso d'Aquino (1225-1274) Nato a Roccasecca, presso Aquino (Frosinone), ricevette la pri- ma educazione dai benedettini di Montecassino. Studiò a Napoli ed entrò nell'ordine dei domenicani. Imprigionato dai fratelli perché contrari alla sua scelta religiosa, quando uscì di prigione lasciò l’Ita- lia e andò in un convento domenicano di Parigi, sotto la guida di Alberto Magno. Insegnò teologia alla Sorbona e fu teologo papale presso la corte pontificia. Passò gli ultimi anni nel convento di Na- poli componendo la Summa theologiae e predicando al popolo. Nel gennaio 1274, papa Gregorio X lo invitò al Concilio di Lione. Durante il viaggio si ammalò e fu trasportato nell'abbazia cistercense di Fossanova (in provincia di Latina) e qui morì il 7 marzo dello stesso anno. Tommaso d'Aquino, una delle maggiori figure della filosofia occi- dentale, portò a compimento quella straordinaria sintesi tra la gran- de eredità classica e la metanoia cristiana, che pone l’uomo al centro della creazione. Nella sua filosofia la conciliazione tra cristianesimo e aristo- telismo avviene in seno ad una altissima concezione dell'Essere se- condo cui l’Essere è la perfezione assoluta; l'origine degli enti è dovuta alla creazione; la creazione è una partecipazione per somi- glianza della perfezione dell'essere da parte degli enti; tra i singoli enti e l’Essere c'è solo analogia. In tale prospettiva, fede e ragione sono modi di conoscere diver- si, che non si contraddicono ma si completano reciprocamente: 1) la ragione accetta una verità nell'ordine delle cose naturali in base alla loro evidenza; 2) la fede accetta una verità nell'ordine del sopranna- turale sulla base dell'autorità di Dio rivelante. 341 Filosofia e teologia sono di conseguenza due scienze diverse, che non si contraddicono poiché Dio è il loro autore comune. (Circa la concezione antropologica, Tommaso considera l’uomo come un composto {sinolo) di anima e corpo, in cui l’anima è l'unica forma del corpo. La conoscenza umana è autosufficiente per cui non abbisogna di interventi straordinari per avere luogo. L'anima è im- mortale, di immortalità personale perché essa è « forma assoluta, che non dipende dalla materia ». Pur riconoscendo all'anima un più elevato grado di perfezione ri- spetto al corpo nella gerarchia degli esseri, egli crea una antropologia integrale, nella quale al corpo viene restituita tutta la sua dignità nell'ordine della creazione. Tommaso considera la conoscenza dell'uomo autonoma da un intervento diretto di Dio e risultato di un processo che l'intelletto compie a partire dall'esperienza. Definisce inoltre la coscienza quale « ritorno completo del soggetto in se medesimo »: la coscienza, in virtù dell'intenzionalità, pone se stessa in relazione con le cose e, confrontandosi con esse, conquista la propria identità. iLa consapevolezza di Tommaso della dignità dell’uomo è tale che sia l’esistenza di Dio (cinque prove) che l'immortalità dell'anima ven- gano dimostrate dalla ragione. In Tommaso trova spazio anche il problema politico, in relazione al quale egli asserisce l'origine naturale dello Stato, che considera una società perfetta poiché ha un fine proprio, il bene comune, e mez- zi sufficienti per realizzarlo. Nel conflitto tra i due poteri, tipico del suo contesto storico, egli fu assertore della dipendenza indiretta dello Stato dalla Chiesa, che è una società più perfetta in ordine ai fini e ai mezzi che le sono propri: lo Stato dipendente indirettamente dalla Chiesa nell'ordine dei fini soprannaturali dell’uomo. È opportuno sottolineare come oggi molti noti studiosi, ca- me ad esempio Jaspers, hanno riconosciuto che le analisi sulla volontà, la libertà e le passioni umane fatte da Tommaso sono pro- fonde e precise, valide anche per la filosofia contemporanea. Opere principali: De ente et essentia; Commentari alle principali opere di Aristotele; Summa contra gentiles (1269-1273); Summa theo- logiae (iniziata nel 1269 e rimasta incompiuta); De unitate intellectus contra averroistas (1270); De veritate; De potentia; De malo; De spiritualibus creaturis; Expositio super Job; De regimine princi pum; Compendium theologiae; De substantiis separatis. Vico Gianbattista (1668-1744) Nato a Napoli, studiò filosofia presso i gesuiti, sotto la guida di padre Rissi. Dal 1699 fu professore di retorica all'università della stessa città. Visse poveramente fra incomprensioni e ostilità. Nel 1732 gli fu conferito l’incarico di storiografo regio. L’intuizione fondamentale di Vico dal punto di vista filosofico è 342 espressa nella formula « verum est factum », cioè per conoscere ve- ramente una cosa è necessario essere in grado di farla. In base a questo criterio l’uomo non può conoscere la natura perché creata da Dio, non può conoscere il proprio essere in quanto non si è auto- creato. Oggetto della conoscenza umana è la storia in quanto opera dell’uomo. La legge universale che regola la storia è una legge di sviluppo attraverso la ritmica ripetizione delle tre epoche del corso storico (età degli dei, degli eroi, degli uomini). Questa legge della ripetizione dei corsi non sopprime la libertà umana, non è un ostacolo al proces- so della civiltà, è necessaria e voluta da Dio per riportare l’uomo cor- rotto dalla ragione alla religione. Oltre alla dimensione storica, Vico riabilita, in sede filosofica, quella estetica. Per lui l’arte ha una funzione metafisica, in quanto è l'espressione profonda delle cose da parte di un essere intelligen- te, in cui la ragione non ha ancora raggiunto la piena maturazione e che perciò riesce a esprimersi per mezzo del sentimento e della fantasia. . Opere principali: De nostri temporis studiorum ratione (1708); De antiquissima Italorum sapientia; Liber physicus; Liber moralis; Il diritto universale; De universi iuris uno principio et fine uno; De constantia iurisprudentis; Principi d'una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni (Scienza nuova prima, 1725; Scienza nuova seconda, 1730; Scienza nuova terza, 1744). Voltaire (soprannome di Frangois Marie Arouet) (1694-1778) Nato a Parigi, studiò presso i gesuiti della stessa città. Fre- quentò l’ambiente libertino di Parigi e si prese un anno di prigione per il suo spirito dissacratorio e anticonformista. Tra il 1726 e il 1729 fu in Inghilterra. Tornò in Francia per un decennio circa, riti- rato in un castello della Lorena, poi andò a Berlino alla corte di Fe- derico II. Trascorse gli ultimi venti anni a Ferney, in Francia, impe- gnato a far conoscere le sue idee sulla tolleranza religiosa e sulla libertà. Massimo esponente dell'illuminismo francese, tentò di operare una sintesi tra il razionalismo di Cartesio e l'’empirismo di Newton. Dalla contingenza del mondo egli argomenta a favore dell’esistenza di Dio, ma resta profondamente agnostico per quanto concerne la sua natura e i suoi attributi. Anche riguardo all’immortalità dell'ani- ma sostiene che bisogna credervi anche se non esistono argomenti probativi per dimostrarla. In conformità con le esigenze dell’illumi- nismo Voltaire è massimamente critico di ogni religione istituziona- lizzata, in particolare del cristianesimo. Egli attacca con critica spietata, ingiusta e beffarda tutte le dottrine e le strutture della Chiesa cattolica. Opere principali: Edipo (1718); Lettere filosofiche (1729-1732), Trattato di metafisica (1734); Elementi della filosofia di Newton 343 (1737); Il secolo di Luigi XIV (1753); Dizionario filosofico (1753); Candido (1759); Trattato sulla tolleranza (1763); Questioni sui mira- coli (1765); Filosofia della storia (1765); Filosofo ignorante (1766); Bisogna prendere partito (1772); Questioni sull’Enciclopedia (1776). Whitehead Alfred North (1861-1947) Matematico e filosofo inglese, nato nel Kent, a Ramsgate e mor- to negli U.S.A. a Cambridge, nel Massachusetts. Giunse tardi alla filosofia, dopo avere insegnato per molti anni geometria e mate- matica all'università di Londra. Dal 1924 al 1937 occupò la cattedra di teoretica all'università di Harvard. In collaborazione con Russell scrisse i famosi Principia mathematica, opera volta a dimostrare che le matematiche pure (compresa la geometria pura) sono un ramo del- la logica e le loro proposizioni sono analitiche e non sintetiche a prio- ri come aveva sostenuto Kant. Sulie orme di Peano e Frege, White- head pone come proposizioni iniziali pochi principi logici, rappresen- tati da simboli formali, da cui, con un calcolo logico, si deducono al- tre proposizioni. Con questo metodo vengono man mano introdotti e dimostrati principi e teoremi. Il processo è puramente analitico e a priori, indipendentemente dalle cose e dallo spirito. Non per questo Whitehead sposa una visione idealistica della realtà: il mondo non emerge dal soggetto come per gli idealisti, ma piuttosto il soggetto dal mondo. Ma questo non significa che il soggetto procede dalla ma- teria come insegnano i materialisti. La realtà è concepita come un processo, costituito da eventi in connessione reciproca. Oltre che dagli eventi il processo è costituito da forme e struiture ricorrenti che Whitehead chiama « oggetti eterni ». Al più alto grado gli og- getti eterni costituiscono i valori {il bene, il bello, il vero) che si rea- lizzano occasionalmente nel processo. Di qui la singolare concezione del divino proposta da Whitehead: Dio è insieme ia « natura origi- naria », in quanto contiene in sé la totalità degli oggetti eterni, e la « natura conseguente », come realizzazione progressiva, interna al processo, di tutti i possibili valori dell’esistenza. Dio, principio del bere e degli altri valori supremi, è in lotta con ii male. Egli soffre per iiberarsene insieme a quanti vivono e soffrono ia vicenda della vita. Alia filosofia del processo di Whitehead si è ispirato un impor- tante movimenio teologico statunitense, chiamato « teologia del processo » {Process theology). Opere principali: L'organizzazione del pensiero (1917); Ricerca sui principi della conoscenza naturale (1919); ii concetto di natura (1920); La scienza e ii mondo moderno (1525); Processo e realtà (1929); Avventure delle idee (1933); Modi di pensiero (1938); Scienza. e filosofia (1947). Wittgenstein Ludwig (1889-1952) Logico e filosofo del linguaggio, massimo esponente prima del neopositivismo e poi dell'analisi linguistica. Nato a Vienna, compì gli 344 studi in Germania e in Inghilterra. Qui svolse anche la sua attività accademica a partire dal 1939 operando con B. Russell, a Cambridge, dove morì. Le due opere Tractatus logico-philosophicus e Osserva- zioni filosofiche rappresentano due diverse concezioni della filosofia del linguaggio, per cui si è soliti parlare di un Wittgenstein I e di un Wittgenstein II. il primo (che è quello del Tractatus) concepisce il linguaggio come rappresentazione delle cose, privilegia il linguaggio scientifico su tutti gli altri e assume come criterio di significazione la verifica sperimentale. Il secondo (che è quello delle Philosophical Investigations) considera il linguaggio come un gioco le cui regole so- no fissate arbitrariamente. Riconosce molti giochi linguistici validi, purché siano regolati da un preciso e stabile gruppo di norme. Ri- tiene che la funzione di linguaggio-guida, criterio di verifica per ogni altro linguaggio, non spetti al linguaggio scientifico bensi al linguag- gio ordinario. Opere principali: Tractatus logico-philosophicus (1918); Osser- vazioni filosofiche (1964); Quaderno blu (appunti del 1933-34); Qua- derno marrone (1934-1935); Osservazioni sui fondamenti della mate- matica (1956); Grammatica filosofica (1969); Della certezza‘(1969). Wolff Christian (1679-1754) Nacque a Breslavia e nel 1706 fu nominato professore nell'uni- versità della stessa città. Il re Federico, convinto dai suoi avversari, gli tolse l'insegnamento per il suo razionalismo religioso. Il succes- sore Federico II, però, lo riconiermò nell'insegnamento. Discepolo di Leibniz, è l'autore di una sintesi poderosa tra il pensiero filosofico tradizionale di stampo razionalistico e le scoperte scientifiche del suo tempo. Egli divide tutta la filosofia in sette parti principali: /ogica, antologia, cosmologia, psicologia empirica, psicologia razionale, teo- fogia naturale, filosofia moraîe. Questa divisione verrà regolarmente seguita dalla maggior parte dei filosofi dei secoli successivi. Riguardo aì contenuto la filosofia di Wolff è sostanzialmente leibniziana. Come Leibniz, Wolff elabora una spiegazione della realtà partendo da tre principi: ragion sufficiente, armonia prestabilita, ottimismo. Offre, però, due importanti novità: abbandono del concetto della monade, come sostanza semplice costituente lo spirito e la materia; riduzione del principio di ragion sufficiente al principio di non contraddizione. Opere principali: Philosophia rationalis sive Logica (1728); Philo- sophia prima sive Ontologia (1729); Philosophia moralis sive Ethica {1750-1753); Oeconomica (1750). Zenone (336-274 a.C.) Nato a Cizio, nell'isola di Cipro, si trasferì ad Atene dove fre- quentò le scuole di diversi filosofi. Tenne ie sue lezioni sotto il Portico Dipinto (Stoà Poikilé) di Atene. Da qui prese il nome ia sua dottrina filosofica: lo « stoicismo ». La sua dottrina è essenzialmente di ordine morale, ma comprende 345 anche importanti elementi di metafisica e cosmologia. E i suoi inse- gnamenti morali, estremamente rigorosi (soppressione delle passioni e degli istinti, eliminazione del piacere, pratica della virtù) sono in perfetta armonia con la sua visione metafisica. Questa pone al vertice di tutte le cose il Logos (la ragione), il quale irradia la sua forza sulla materia a modo di semi (/ogoi spermatikoi); questi germi svi- luppandosi danno origine agli individui. I semi irradiati dal Logos non sono altro che frammenti del Logos stesso. Anche l'uomo, come tutti gli altri esseri, è costituito da un frammento del Logos (l’anima) e da una parte di materia (il corpo). L'uomo può essere immortale solo in quanto cerca di identificarsi col Logos, cioè in quanto cerca di superare la sua individualità, distaccandosi dalla materia. Opere principali: La repubblica; I segni; Il discorso; La natura; La vita secondo natura; Le passioni, 346 Parte quarta: GUIDA ALLA LETTURA DI ALCUNE OPERE DI FILOSOFIA" « Il Fedone », di Platone « Il discorso sul metodo », di Cartesio « La missione del dotto », di Fichte « Manifesto del partito comunista », di Marx- Engels « Introduzione alla metafisica », di Heidegger Non c'è via migliore alla conoscenza del pensiero dei filosofi della let- tura diretta delle loro opere. Ma è evidente che per uno studente di liceo (e non soltanto per lui) questa è un'impresa impossibile, dovendo egli, nel breve giro di tre anni, prendere contatto con tutta la folta schiera di pen- satori che va dal primo sorgere della filosofia fino ai giorni nostri. Cio- nondimeno, per ogni epoca della storia della filosofia, i programmi gover- nativi prevedono che lo studente effettui una lettura accurata e critica di almeno un'opera di un grande autore. La scelta dell'opera è general- mente affidata al professore. Quando insegnavo storia della filosofia in liceo ai miei studenti facevo leggere tre opere, le quali oltre che importanti e significative in se stesse, e per il nome dei loro autori, sono anche singolarmente adatte ad intro- durre lo studente alle tre grandi epoche della storia della filosofia: an- tica, moderna e contemporanea. Tali opere sono: — Il Fedone, di Platone — Il discorso sul metodo, di Cartesio — La missione del dotto, di Fichte Per venire incontro alle richieste di diversi insegnanti e per una mi- gliore completezza storica del pensiero filosofico contemporaneo, abbia- mo aggiunto poi due opere, che riteniamo significative, dei secoli XIX e XX: — Manifesto del partito comunista, di Marx-Engels — Introduzione alla metafisica, di M. Heidegger. * Le traduzioni di cui si siamo serviti sono le seguenti: PLATONE, Fedone, tr. di M. VALGIMIGLI, Laterza, Bari 1946. CARTESIO, Il discorso sul metodo, tr. di G. BONTADINI, La Scuola, Brescia 1957. FICHTE, La missione del dotto, tr. di C. MAZZANTINI, Società ‘Editrice Interna- zionale, Torino 1957. MARx-ENGELS, Il manifesto del partito comunista, tr. di E. CANTIMORI MEZZA- MONTI, Laterza, Bari 1974. HEIDEGGER, Introduzione alla metafisica, tr. di G. Masi, Mursia, Milano 1979. 347 Le accuse a Socrate Difesa di Socrate: educazione del giovani all'esercizio della virtù I. «IL FEDONE » Platone (427-347 a.C.) 1. Ambientazione storica dell’opera Nel 399 a.C. Socrate viene condannato a morte dai governanti di Atene sotto l'imputazione di empietà e corruzione delia gioventù, due accuse che gli erano state mosse da varie parti già da molto tempo. Ancora nel 423, nella commedia Le Nubi, Aristofane aveva attaccato Socrate proprio in quanto, col suo spirito critico, incitava i giovani a considerare con di- sprezzo la tradizione etico-politica della città, e in quanto con i suoi inse- gnamenti si metteva fuori della stessa tradizione religiosa seguita da tutti i cittadini. Alcuni anni più tardi ii poeta tragico Meleto aveva dichiarato: «Commette reato Socrate, non ritenendo dèi quelli che considera tali lo Stato e tentando inoltre di introdurre altri enti demoriaci nuovi; com- mette ancora reato corrompendo i giovani ». In questo clima si spiega la denuncia contro Socrate, che appariva a molti non soltanto l'avversario più accanito della cultura allora impe- rante (quella sofista) ma anche come l'esponente intellettuale più te- mibile per gli aristocratici che governavano la città. Probabilmente l'o-biettivo dei suoi avversari era che egli se ne andasse in esilio e in effetti gli proposero questa soluzione; ma Socrate volle affrontare il pro- cesso, in cui respinse entrambe ie accuse: il suo obiettivo non era quello di corrompere la gioventù, ma di sollecitarla alla pratica della virtù e al ‘perseguimento dei più elevati valori morali; quanto alla religione, egli non avversava affatto la tradizione, ma cercava di ‘adeguarla alle esi- genze di una maggiore razionalità. In tribunale, i più dovettero avere ia chiara impressione che Socrate non intendeva affatto modificare ii suo atteggiamento; ed i voti di coloro che si pronunciarono per la sua asso- luzione furono inferiori a quelli necessari. Quando si trattò di definire il tipo di pena che gli sarebbe stata inflitta, Socrate chiese ironicamente che gli venisse decretata una pensione a vita, come benemerito dello Stato. La cosa suonò come una provocazione e come un insulto alle isti- tuzioni cittadine; anche parecchi di quelli che avevano votato a favore della sua assoluzione gli furono infine contrari; ed egli fu condannato a bere la cicuta. L'esecuzione della pena capitale, che di per sé doveva aver luogo im- mediatamente, fu rimandata d'un paio di settimane, perché in quei giorni sì stavano celebrando le Delie (le feste in commemorazione della impresa di Teseo) e pertanto non si potevano eseguire pene capitali. In attesa dell'esecuzione della sentenza Socrate fu rinchiuso in prigione. È ap- punto questo il luogo e il momento in cui si svolge il dialogo tra Socrate e i suoi discepoli circa il destino ultimo dell'uomo, 348 2. Ii dialogo, metodo dell’opera La metodologia filosofica ai tempi di Platone è ancora in fase di gesta- zione e assestamento. Î primi pensatori greci avevano dato espressione poetica alle loro meditazioni filosofiche. Più tardi Aristotele introdurrà quelia che diventerà la forma definitiva: quella sobria e rigorosa del trattato. Per esporre il suo pensiero Platone si vale di una via di mezzo: meno libera ed alata di quelia poetica, ma anche meno arida e sistema- tica di quella del trattato, ia via del diaiogo. Il dialogo e il trattato perseguono lo stesso obiettivo ma cercano di raggiungerlo in maniera diversa. Tutt'e due svolgono una tesi; ma mentre nel trattato il discorso è sviluppato da una sola mente, la quale prima di accoglieria con certezza definitiva, vaglia tutti i pro e contro della tesi, i! cialogo è tun discorso tra due o più persone, le quali di fronte ad una tesi particolare, assumono ciascuna una posizione perso- nale, Diversamente che nel trattato, dove le obiezioni rimangono pure difficolrè. astratte da superare, nel dialogo le tesi contrastanti si inca: nano in personaggi vivi: esse rappresentano il loro modo di intendere le cose e di vivere ia vita. uesto è vero in rarticolare del Fedone, del quale il Valgimigli scrive a ragion veduia che « quì non abbiamo a che fare con un’opera filosofica pura e semplice, la quale possa essere considerata esclusivamente nella sua astrattezza razionale, sia pure nel vivo diaiettizzarsi del pensiero; qui abbiamo a che fare con un'opera ci filosofia che si concreta s si avvia in una vera azione, che anche dai punto di vista formale esterno si sviluppa in un vero dialogo, cioè in una scena che si muove tra persone vere, non tra simboli, tra persone le quali, sì, ragionano, ma anche sono agitaie e travagliate e conimosse e hanno un’ansia di ricerca che non ie interessa solc intellettualmente, ma ie prende e conquide nella loro più profonda umanità. Lo stesso Socrate avverte più volte, e scherzando se ne giustifica, che questo ragionare lo tocca assai da vicino; e ci sono intorno a lui il giovanetto Fedone e il vecchio Critone, e i due ospiti te- bani, e Apollodoro che meno degli altri, guando Socrate beve il far- maco, riesce a frenare il pianto; e tutti infine si velanc il capo e si traggo- no da parte, e nella stanza ormai fatta oscura e silenziosa biancheggia ii iettuccio dov'è disteso il maestro, il compagno e l’amico, con gli occhi e le labbra appena chiusi per sempre dal pio atto di Critone ».i 3. Divisione e sintesi dell’opera Ii dialogo si divide in due grandi parti (separate da un breve ma splendido intermezzo), costruite in perfetta simmetria tra di loro. La prima comprende i capiîci! 1-34; la seconda i capitoli 36-66. Entrambe le parti si articolano in tre tempi: primo, annotazioni biografiche (nella prima parte Socrate è seduto sui suo lettuccio, accanto a iui è Santippe, intorno gli amici, e Critone com ia sua premura affettuosa e le sue rac- comandazioni un poco inopporiune; nella seconda parte Socrate si trova nuovamente sul suo Jettuccio con intorno gli amici piangenti); secondo, ! M, VALGIMIGLI, intrcduzione a PLATONE, Fedone, Laterza, Bari 1946, pp. 1-2. 349 La metodologia platonica dei dialogo Distinzione tra dialoge e trattato Il ‘“Fedone’”: un’opera di pensiero e concretezza Struttura simmetrica del dialogo Un dialogo tra amici su Socrate Gli ultimi istanti della vita di Socrate La sopravvivenza dell'anima dopo la morte Filosofia e musica: aftinità tra mitologia e filosofia dimostrazione dell'immortalità dell'anima (nella prima parte con le pro- ve della reminiscenza e della affinità dell'anima con la sfera delle Idee: nella seconda parte con la prova dei contrari e della partecipazione del- l'anima al mondo delle Idee); terzo, miti (nella prima parte, il mito della metempsicosi; nella seconda parte, il mito della condizione delle ani- me dopo la morte). Il dialogo .tra Socrate e i suoi amici, in :particolare con Simmia e Cebete, due pitagorici, è collocato in un contesto più vasto, che ha come interlocutori Echecrate e Fedone. Questi, ritornando ad Atene dopo il volontario esilio che si era imposto dopo la morte del maestro, passa da Fliunte patria di Echerate, il quale coglie l'occasione per chiedere all'amico come Socrate avesse trascorso i giorni del carcere. PRIMA PARTE (cc. 1-34) SEZIONE PRIMA (cc. 1-5) 1. Introduzione ‘Echecrate domanda informazioni a Fedone riguardo agli ultimi mo- menti della vita di Socrate; più esattamente gli chiede due notizie: — Come mai passò tanto tempo tra ‘la condanna e l'esecuzione della pena? — Chi era presente alla morte di Socrate? ‘Alla prima domanda Fedone risponde che la ragione del lungo inter- vallo fu la coincidenza della condanna a morte di Socrate con la celebra- zione delle Delie, durante le quali non si poteva dare esecuzione a nes- suna pena capitale. Alla seconda domanda risponde che erano presenti alcuni ateniesi, tra cui Critone, due forestieri, Simmia e Cebete, che pro- venivano da Tebe {cc. 1-2), e la moglie di Socrate, Santippe. Poi Fedone passa a descrivere le prime vicende dell'ultimo giorno: l'allontanamento sofferto ma deciso di Santippe da parte di Socrate dalla prigione, e lo scioglimento di Socrate dalle catene. Quest'ultimo fatto offre a Socrate lo spunto per introdurre il tema che gli sta a cuore, la sopravvivenza dell'anima dopo la morte. Stropicciandosi la gamba indo- lenzita, Socrate pensa al singolare caso di due esseri i quali, pur essendo tra loro contrari, piacere e dolore, non possono stare separati; e chi fa per inseguire l'uno e lo prende, ecco che gli viene subito dietro anche l’altro, quasi ‘che fossero legati insieme a un unico capo: cosicché, dice, se Fisopo ci avesse posto mente, certo ne avrebbe composta una del. le sue favole. Allora si introduce Cebete il quale chiede a Socrate: a proposito, com'è che da quando sei qui, ti sei messo a musicare favole di Esopo e un poema ad Apollo? Me l’ha domandato più volte anche l’amico Eveno. E tu digli la verità, gli risponde Socrate: più volte nella vita passata mi apparve un sogno, ora in questo, ora in quell’aspetto, e sempre mi di- ceva la stessa cosa: — O Socrate, componi ed esercitati nella musica. — Ed io credevo in verità che il sogno mi incitasse a quello che già facevo, ossia a filosofare, ritenendo appunto che la filosofia fosse la più alta350 musica. Ma venuto qui sono stato assalito dal dubbio che il sogno volesse intendere musica proprio nel significato usuale e comune del termine; e allora mi parve bene obbedire comunque al sogno; e così composi un inno ad Apollo e ho messo in musica alcune favole di Esopo? Dì, dunque, all'amico Eveno, conclude Socrate, che questa è la ragione della mia applicazione alla musica e alla poesia; e digli inoltre che « se è savio, mi venga dietro al più presto ». Queste mie parole, insiste Socrate, non devono sorprendere nessuno, perché tutti i veri filosofi desiderano di morire, anche se non è loro consentito procurarsi la morte con ila propria mano. A questo punto Cebete obietta: « Come dici, o Socrate, che far vio- lenza a se stessi non è lecito, e d'altra parte che chi è filosofo possa avere desiderio di andare dietro a chi muore? » L'obiezione interessa molto Socrate, anche perché, a chi è sul punto di intraprendere il viaggio per il mondo di là, niente si addiceè meglio che meditare intorno a questo viaggio. SEZIONE SECONDA (cc. 6-13) 2. Immortalità dell'anima è Tesi di Socrate: Al filosofo è lecito desiderare la morte Prima formulazione della tesi — Socrate risponde all’obiezione di Cebete che per certi uomini e in certe circostanze è meglio morire che vivere, però è loro vietato procurarsi la morte da se stessi perché « noi uomini siamo come in una specie di carcere, e quindi non possiamo libe- rarci da noi medesimi e tanto meno svignarcela », infatti: « Dei sono coloro che hanno cura di noi uomini e noi siamo una delle cose in pos- sesso degli Dei » (c. 6). Obiezione di Cebete — Appunto perché siamo nelle mani degli Dei non è lecito al filosofo desiderare di morire. Si tratta infatti di una cosa assurda che una persona saggia come il filosofo desideri sottrarsi al ser- vizio di coloro che sono i migliori dominatori, dato che gli è impossi- bile provvedere meglio a se stesso divenendo libero (c. 7). Seconda formulazione della tesi — Socrate risponde a Cebete dando una formulazione più completa della sua tesi. Afferma che è lecito desi- derare di morire perché egli crede che dopo la morte si va presso altre divinità savie e buone, insieme a uomini morti migliori dei vivi. « Data questa speranza, io non ho ragione di rammaricarmi alla pari di chi eguale speranza non abbia; e anzi io sono pieno di fede che per i morti ? Platone accenna ad una teoria che gli è molto cara: quella delle affinità tra mitologia e filosofia: « C'è un “fare miti” o poetare che non contraddice propriamente al “fare logoi” 0 filosofare, e anzi sono ambedue, in vario senso, più compiuto o più limitato, un “fare musica”; e codesto far miti o poetare può dar luogo esso al filosofare, e anche concludere il filosofare, quando in questo far logoi il logos sia giunto a un punto estremo oltre il quale non può più avere svolgimento senza mutarsi in mito » (Ibidem, pp. 4-5). Questo spiega perché Platone accompagri sistematicamente le sue argomentazioni filosofiche con immagini mitiche. Nel Fedone alle dimostrazioni dell'immor- talità dell'anima, fa seguire il mito della metempsicosi e il mito della con- dizione delle anime dopo la inorte. 351 I veri filosofi desiderano la morte Non è lecito ad alcuno procurarsi la morte La vita Immortale in La vita ascetica del filosofo puro ragionamento si rivela la verità Astrazione e contemplazione La morte è indispensabile al raggiungimento della sapienza, verità e virtù qualche cosa ci sia, e come anche si dice da tempo, assai migliore per i b i che per i cattivi» (c. 8). Dimostrazione della tesi (cc. 9-13) — Al filosofo è lecito deside- rare la morte, anzi, durante tutta la vita non si cura di nient'altro se mon di morire ed essere morto, perché la morte è la separazione dell'anima dal corpo, e questa separazione è desiderabile per tanti motivi: Primo motivo. Durante la vita non vale la pena interessarsi del corpo, e questo per quattro ragioni: 1) I piaceri del corpo sono troppo caduchi. Perciò « il filosofo in tutte le cose sopra dette (mangiare, bere, vestire...) cerca di liberare quanto più può l’anima da ogni comunanza col corpo, a differenza degli altri uomini » {c. 9). 2) Il corpo impedisce l’acquisto della sapienza. Vista e udito, che sono i sensi più perfetti, non ci fanno conoscere niente di preciso e di sicuro, e invece di farci conoscere la verità ci tirano in inganno. È solo nel puro ragionamento che si rivela all'anima la verità. « L'anima ragiona con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensa- zioni. Né vista, né udito, né dolore e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa, dicendo addio al corpo; e, nulia più partecipando del corpo, né avendo contatto con esso intende con ogni suo sforzo la verità » (c. 10). 3) Le idee di giustizia, bontà, ecc. non possono essere percepite dal corpo; esse possono essere percepite solo da chi « con purità perfetta massimamente si adoperi di avvicinarsi a ciascun oggetto col solo pensie- ro, senza né aiutarsi, nel suo meditare, con la vista o con altro senso [...] anzi astraendo, per quanto può, da occhi e da orecchi e insomma da tutto il corpo, come quello che perturba l'anima e non le permette di acqui. stare verità e intelligenza, quando abbia comunanza con esso » (c. 10). « Fino a quando abbiamo il corpo e la nostra anima è mescolata e con- fusa con un male di tal natura, noi non saremo mai capaci di conqui- stare compiutamente quello che desideriamo e che diciamo essere la verità » (c. 11) o « sapienza » (cfr. c. 11 più avanti). 4) I) corpo stesso è causa delle inquietudini che lo tormentano: « Infinite sono le inquietudini che il corpo sì procura per le necessità del nutrimento [...] Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è cagione se non il corpo e le passioni del corpo? » (c. 11). Secondo motivo. La morte è desiderabile perché completa quella separazione tra anima e corpo che è indispensabile per il raggiungimen- to della sapienza; separazione che il filosofo ha cercato di attuare du- rante tutta la sua vita con l’ascesi di purificazione. La purificazione con- siste nell'adoperarsi « in ogni modo a tener separata l’anima dal corpo e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo » (c. 12). Se il filosofo non desiderasse la morte com- metterebbe una grande contraddizione, perché il filosofo è per ogni ri- spetto in discordia con il corpoe ha desiderio di essere solo con la propria anima e solo con la morte questo diviene possibile (c. 11; cfr. la bellis- sima finale). Terzo motivo. La morte è necessaria non solo per raggiungere la verità (o sapienza), ma anche per raggiungere le altre virtù: giustizia, fortezza e temperanza. Solo i filosofi considerano la morte un bene; tutti gli altri la mettono nel numero dei grandi mali. Per cui, fatta eccezione per 352 il filosofo, tutti gli altri sono coraggiosi perché sono vili e hanno paura, sono temperanti per la loro intemperanza, per paura di restar privi di certi piaceri... (c. 13). SEZIONE TERZA (cc. 14-34) 3. Argomenti a favore dell'immortalità dell'anima Obiezione di Cebete — Tutto quello che Socrate ha detto sulla desi- derabilità della morte è vero solo a patto che l’anima sia immortale, ma molti uomini temono che, « quand’ella sia distaccata dal corpo, non esista più in alcun luogo, e si guasti e perisca il giorno stesso in cui l’uomo muore » (c. 14). :Perciò affinché sia possibile accettare quello che Socrate ha detto sulla desiderabilità della morte e sulla vita futura è necessario che Socrate provi prima che l’anima seguita ad esistere quando l’uomo è morto, e poi che ella conserva potere e intelligenza (c. 14). Socrate accetta la richiesta e adduce vari argomenti a favore dell'immortalità dell'anima. 1) Il primo argomento è basato sulla dottrina dei contrari — I con- trari (piacere-dolore, buono-cattivo, vita-morte, caldo-freddo, etc...) si avvicendano in modo ciclico. Perciò i vivi si generano dai morti e i morti dai vivi. Aspetto religioso dell'argomento. Dottrina della metempsicosi: « C'è una antica dottrina che esistono colà anime giuntevi di qui e che di là nuovamente tornano qui e che si rigenerano dai morti nuovi esseri » {c. 15). Aspetto filosofico dell'argomento. Ogni essere che ha il suo contrario, non da altro si genera se non da quello appunto che è il suo contrario. « Ebbene, disse, al vivere c'è qualcosa di contrario, come all'essere sveglio è contrario il dormire? Certamente, disse. E che cosa è? L'essere morto, disse. E, dunque, questi due stati, se è vero che sono contrari fra loro, non si generano così l’un dall'altro? [...] Senza dubbio » (c. 16). « Dunque da ciò che è morto, o Cebete, si genera ciò che è vivo, e insomma dai morti si generano i vivi? » — È chiaro, disse. — Dunque le nostre anime sono nell’Ade. — Così pare (c. 16). Necessità di un perpetuarsi ciclico nel passaggio da un contrario al- l'altro. « Perché non ci fosse tra gli esseri, nel loro generarsi, una corri- spondenza perpetua degli uni con gli altri, come se ruotassero in cerchio; e invece il processo generativo si svolgesse esclusivamente da un essere al suo opposto, come in linea retta, e non girasse più all'indietro verso il primo punto e non compisse il suo giro, tu capisci bene che tutti gli esseri finirebbero con l'assumere la stessa forma e si troverebbero nelle stesse condizioni e insomma cesserebbero di generarsi » (c. 17). « Se tut- te le cose che muoiono rimanessero in tale forma e non più riprendessero il corso verso la vita, sarebbe necessario che alla fine tutto fosse morto e più niente vivesse » (ib.). 2) Il secondo argomento è tratto dalla dottrina della reminiscenza — Senza la preesistenza dell'anima la reminiscenza è impossibile. La remi- 353 Argomenti a favore dell’immortalità dell’anima I contrari si generano l’uno dall'altro Ciclicità della generazione dei contrari Resistenza e reminiscenza: prove di immortalità fl ricordo delle idee come criterio di giudizio Reminiscenza e perdita delle conoscenze alla nascita Tutto ciò che è vivo si genera da ciò che è morto x niscenza non « è possibile se l'anima nostra non esistesse già in qual. che luogo prima di generarsi in questa nostra forma umana. Cosicché anche per questa via appare che l’anima è qualcosa di immortale » (c. 18). Socrate distingue due modi di reminiscenza: a) reminiscenza per contiguità; per esempio, vedendo la lira dell’innamorato ci si ricorda del- la sua figura; b) reminiscenza per somiglianza; per esempio, vedendo i’im. magine di Simmia, ci si ricorda della sua persona. Poi, esaminando il se- condo tipo di reminiscenza {quello fondato sulla somiglianza) trova che non è possibile giudicare della somiglianza tra varie cose senza avere una idea universale di eguaglianza, dell’eguale in sé. Ma questa idea dell’egua- le in sé non può essere ricavata dall'esperienza. Infatti, nell'esperienza, le cose che giudichiamo eguali sono sempre difettose, non sono perfette come l’eguale in sé. Ora per giudicare di questa discrepanza tra l’eguale in sé e le cose eguali, colui che giudica « ha da essersi pur fatta dapprima in qualche modo un'idea di quel tale essere a cui dice che la cosa veduta s'assomiglia, ma rispetto alla quale è difettosa » (c. 19). « Dunque prima che noi cominciassimo a vedere e a udire, insomma a far uso degli altri sensi (cioè prima di nascere) bisognava pure che già ci trovassimo in possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che cosa realmente esso è, se poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, ripor- tarli a quello, e pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello, mentre poi gli rimangono al di sotto » (c. 19). Questo si- gnifica che « prima di nascere e subito dopo nati conoscevamo già non so- lo l’eguale e quindi il maggiore e il minore, ma anche tutte insieme le al- tre idee; perché non tanto dell’eguale stiamo ragionando ora, quanto anche del bello in sé e del buono in sé e del giusto e del santo [...] » (c. 20). Il meccanismo della reminiscenza viene spiegato nel modo seguente: « Acquistate delle conoscenze prima di nascere noi le perdiamo nascendo; e poi, valendoci dei sensi relativi a certi dati oggetti, veniamo recupe- rando di ciascuno di essi quelle conoscenze che avevamo già anche pri- ma » (c. 20). Poi Socrate mostra che la reminiscenza è l’unico modo di spiegare il fatto che noi non conosciamo immediatamente le idee appena nati (cfr. c. 21). In conclusione: la reminiscenza delle idee postula la preesistenza dell'anima. « Se veramente esistono questi esseri di cui an- diamo ragionando continuamente e il buono, e il bello e ogni altro si- mile e a ciascuno di questi riportiamo e compariamo tutte le impressioni che ci vengono dai sensi riconoscendo che essi sono gli esemplari prima già posseduti dal nostro spirito, non è necessario, per la stessa ragione onde questi esistono, che anche esista la nostra anima prima ancora che noi siamo nati? » (c. 22). Dimostrazione che l'anima continua ad esistere anche dopo la morte del cor po. All’argomentazione di Socrate Simmia obietta: « Che cosa vieta che ella si generi e si formi da qualche altra parte ed esista anche prima di giungere nel corpo umano; ma che poi, quando vi sia giunta e se ne distacchi, allora finisca anch'ella di esistere e si perda compiutamente? » (c. 23). Risposta di Socrate. « Ebbene, o Simmia e Cebete, disse Sacrate, è dimostrato fin d'ora anche questo: purché vogliate congiungere insieme il nostro presente argomento con l’altro sul quale già ci mettemmo d'ac- cordo prima, e cioè che tutto ciò che è vivo si genera da ciò che è morto. Infatti, se l’anima esiste anche prima, ed è necessario che, entrando 354 essa per la sua generazione nella vita, non da altro si generi se non dalla morte e dall'essere morti; come non è parimenti necessario che ella seguiti ad esistere anche dopo la morte, se è vero che deve poi nuova- mente rinnovarsi? Ed ecco dunque che anche questo secondo punto ri- mane dimostrato senz'altro » (c. 23). (Digressione sul fanciullo dentro di noi [la parte irrazionale dell'anima che non vede il bene e tende solo al piacevole], che si spaventa davanti alla morte) (c. 24). 3) Il terzo argomento a favore dell'immortalità dell'anima è basato sulla semplicità del suo essere — L'anima non è soggetta a decompo- sizione perché il suo essere non è composto, ma semplice. Ora solo gli esseri composti sono soggetti a corruzione. L'anima è semplice perché è costante, invariabile e invisibile. L'anima ha queste doti perché è « congenere alle idee che sono costanti, invariabili e invisibili ». Le idee sono invariabili. « L'eguale in sé, il bello in sé e insomma ogni data cosa che è in sé, l'ente, c'è mai caso che patisca mutazione veruna? — No » (c. 25). Le idee sono invisibili. « Quelle che rimangono costanti non c’è altro mezzo col quale le possa apprendere se non col pensiero e con la medita- zione: perché quelle di questa specie sono invisibili e non si possono per- cepire con la vista » (c. 26). Il corpo invece è mutevole e visibile perché è simile alle cose sensibili. Per cui l’anima soggeita al cotpo « va errando qua e là e si conturba e barcolla come ebbra » mentre l'anima indipen- dente dal corpo « se ne va colà dov'è il puro, dov'è l’eterno e l’immuta- bile e l’invariabile... e cessa dal suo errare, e rimane sempre invariabil- mente costante » (c. 27). fondato sulla fun- 4) Il quarto argomento a favore dell'immortalità è è padrona del corpo. zione dell'anima nei riguardi del corpo — L'anima Ora questa è una funzione divina {(c. 28). 5) Il quinto argomento si basa sul fatto che neppure il corpo, pure appartenendo alla sfera del corruttibile, si corrompe immediatamente, perciò tanto meno potrà essere distrutta l'anima dalla morte, che appar- tiene alla sfera dell'incorruttibile. « Ebbene dunque, se tale è l'anima, non se n’andrà ella a ciò che le è simile, cioè, dico, all’invisibile, al divino, al- l'immortale, all’intelligente, dove giunta potrà essere in realtà felice [....]? » (c. 29)? 4. Metempsicosi Dopo aver provato l'immortalità dell'anima del filosofo, Socrate espone la sorte che tocca ai filosofi e agli altri uomini dopo la morte. ? Gli studiosi sono in disaccordo circa il numero delle prove che Platone elabora nel Fedone: chi ne conta tre, chi cinque, chi otto. Però se si tiene conto della struttura dialettica dell’opera, la quale esige che si considerino le singole argomentazioni non come qualcosa di autonomo, completo e defi- nitivo, ma come elemento di un unico tutto, allora si può ‘dar ragione a chi ritiene che Platone, alla fin fine, sviluppi un'unica grande prova. Non figura peraltro nel Fedone la prova della semovenza (cioè la prova fondata sulla proprietà che ha l’anima di muovere se stessa e d’essere causa del proprio agire), a cui Platone dà ampio risalto nel Fedro (cfr. B. Monpin, Corso di storia della filosofia, cit., pp. 90-91). 355 Semplicità e immortalità dell'anima L’anima Incontaminata ritorna agli dei L'arnlma contaminata è nuovamente “incaîenata al corpo” La filesofia conduce agli dei La morte non è per Socrate una sventura L'anima che durante la vita non è stata contaminata dal corpo, cioè l'anima del filosofo, ritorna fra gli Dei. Quest'anima « si diparte pura dal corpo; nulla del proprio conpo traendo seco, come quella che nulla in vita, per quanto poté, volle avere in comune con esso e anzi fece di tutto per fuggirlo e starsene tutta raccolta in sé medesima » (c. 29; cfr. c. 32). L'anima che in questa vita è stata contaminata dal corpo, alla morte « si parte dal corpo contaminata e impura, come quella che fu sempre assieme col corpo e lo servì e Io amò e si lasciò affascinare da esso, e cioè dalle sue passioni e dai suoi piaceri » (c. 30). Quest'anima non può ritornare tra gli Dei, ma, vinta dalla sollecitudine del corpo, « sarà tratta di nuovo in giù verso la ragione visibile, per paura dell’invi- sibile, o, come dicono, dell’Ade; e se ne andrà girando intorno alle tombe e ai sepolcri [...] fino a che, per l’insaziabilità di quel corporeo che sempre l’accompagna, non è di nuovo incatenata in un corpo» (c. 30). « Queste anime che durante la vita furono contaminate dal corpo, si reincarneranno e assumeranno forme corporee diverse secondo le con- suetudini diverse che ebbero in vita: così per esempio, quelli che furono dediti a gozzoviglie o a violenze carnali, ecc. diventeranno asini e simili bestie; altri che furono ingiusti o rapaci, diventeranno lupi e sparvieri e così via » (c. 31). Conclusione. Per raggiungere gli Dei occorre mettersi sotto la guida della filosofia. « La filosofia, prendendo ad educare la loro anima in tali condizioni (la condizione di essere «incollata al corpo e costretta ad indagare la verità attraverso questo, come attraverso un carcere »), cerca a poco a poco di guidarla e addirittura si adopera di liberarla dal corpo » (c. 33). Sotto la guida della filosofia «l'anima cerca di conquistare la propria serenità da codeste passioni, seguendo il razio- cinio e in esso persistendo ininterrottamente, attendendo alla contem- piazione del vero, del divino e di ciò che non è soggetto all'illusione dei sensi » (c. 34). INTERMEZZO (c. 35) Quando Socrate ebbe finito di parlare domandò se ci fosse qualche manchevolezza nei suoi ragionamenti. Simmia risponde che ha dei dubbi, ma non osa manifestarli « per la preoccupazione che potesse riuscirgli fastidioso questo domandare in un momento così malaugurato ». Socrate protesta che se è così, cioè se è vero che hanno paura di fargli delle do- mande, vuol dire che non è ancora riuscito a convincere i suoi amici che egli non reputa sventura la sua condanna a morte, e che essi lo riten- gono da meno dei cigni, i quali, con un canto più lungo e più bello, sanno predire, quando si avvicina la morte, che andranno al Dio, di cui sono devoti. Ma « anch'io credo di essere compagno di servizio coi cigni e sacro al medesimo Iddio (Apollo) e di avere avuto dal Dio Signore non meno di loro l'arte della divinazione; e perciò anche credo di potermi allontanare dalla vita con non minore letizia » (c. 35). 356 SECONDA PARTE (cc. 36-66) SEZIONE PRIMA (cc. 36-40) 1. Le obiezioni di Simmia e Cebete Obiezione di Simmia — Simmia osserva che tutto quello che Socrate ha detto riguardo all'anima e al corpo si può ugualmente dire dell’ac- cordo e della lira; anche l'accordo, come l’anima, è invisibile, incorporeo, bello, divino; anche la lira come il conpo è visibile, corporea, terrena, e insomma congenere del mortale. Possiamo noi ammettere, secondo il tuo ragionamento, che, rotta la lira, possa seguitare ad esserci l'accordo? Ora, l’anima è una specie di accordo degli elementi che costituiscono il corpo; e dunque se il corpo, che è condizione indispensabile per l’esistere dell'anima, verrà meno, anche l’anima necessariamente, per quanto di- vinissima, dovrà venir meno; e anzi verrà meno prima del corpo, che durerà ancora per qualche tempo, fino a che non sia arso dal fuoco o consumato dalla putredine (c. 36). Obiezione di Cebete — Cebete dice che Socrate, con l'argomento della reminiscenza non ha fatto un passo avanti nella dimostrazione dell'immortalità. Ha dimostrato che l’anima esiste già prima del nostro nascere; ma che ella seguiti a vivere eternamente, questo non pare an- cora dimostrato. Non già che egli sia d'accordo con Simmia, perché crede che l'anima è più resistente del corpo: ma questo non basta a dimostrarne l'immortalità. Facciamo un esempio: chi dura più a lungo, il tessitore o il suo mantello? Chiaro, il tessitore. Infatti egli consuma diversi mantelli e rispetto a questi mantelli si può dire che egli è morto dopo. Però se il tessitore è morto non si può provare che egli è ancora vivo portando come prova che l’ultimo mantello che si era tessuto e portava non è ancora consumato. Applichiamo questo esempio alle relazioni tra l'anima e il corpo. L'anima può via via consumare e ritessere sopra di sé più corpi, come il tessitore più mantelli; e un giorno che ella venga a morire avrà sopra di sé l’ultima sua tessitura e morirà prima di questa. Si può quindi concedere che sopravviva a più corpi, ma chi potrà mai avere coscienza che il proprio corpo non sia precisamente l’ultima tessi- tura della propria anima, e con codesto, anzi prima, muoia anche la sua anima? Ecco perché io dico che sulla soglia della morte ognuno ha ragione di temere che in quel momento avvenga anche per la sua anima l'estrema dispersione e distruzione (c. 37). Gli argomenti di Simmia e di Cebete fanno molta impressione sugli astanti che sono presi da un certo senso di scoraggiamento e temono che la immortalità dell'anima non sia dimostrabile (c. 38). Allora Socrate li ammonisce contro la malattia della misologia (cioè dell’avversione al ragionamento) e raccomanda Îoro di « non diventare misologi come si diventa misantropi. Perché non può capitare a uno peggior guaio di questo, che gli vengano in odio i ragionamenti » {c. 39. Vedi la bellissima spiegazione dell’origine della misantropia). Se un argomento appare una volta vero e un'altra falso non è colpa sua: il ragionamento rimane sempre lo stesso, o vero o falso. La colpa è solo di chi ragiona o meglio della sua imperizia nell'arte del ragionare. E sarebbe molto pietoso se « per piacere di liberarsi dal tormento di si- 357 Argomento di Simmia: l’accordo e la lira come l’anima e il corpo Argomento di Cebete: l’anima è più resistente del Corpo, ma non necessariamente eterna; il tessitore e il suo mantello Sopravvivenza, ma non eternità Socrate contro la misologia che distrugge il sano ragionamento L’imperizia nell’arte di ragionare La tesi di Simmia non spiega il vizio e la virtù C'è contrasto tra anima e corpo Socrate e i naturalisti; come spiegare l’eguale esito dei processi contrari? mile alternativa, egli finisse col respingere da sé quella che è unicamente sua colpa e la gettasse addosso ai ragionamenti stessi, e così ormai seguitasse tutto il resto della sua vita, odiando e maledicendo ogni ra- gionamento, e si privasse della conoscenza e della verità di ciò che real- mente esiste » (c. 39). Quindi, conclude Socrate, le obiezioni di Simmia e Cebete « non devono scoraggiare più voi di quello che turbino me, e io non ne sono certamente turbato perché non mi preoccupo tanto di fare apparire vero a voi quel che dico, quanto che apparisca vero a me prima che ad ogni altro, diversamente dai sofisti che non si curano già dove sia la verità in ciò di cui stanno ragionando bensì di fare apparire vere a chi discute con loro le questioni che essi stessi pongono » (c. 40). SEZIONE SECONDA (cc. 41-57 e 63) 2. Risposta di Socrate alie obiezioni di Simmia e Cebete Risposta all'obiezione di Simmia (cc. 41-43) — Secondo Socrate l’obie- zione di Simmia, basata sulla concezione dell'anima come epifenomeno del corpo, non regge per tre motivi: a) Essa mette Simmia in contraddizione con se stesso, perché egli accetta l'argomento della reminiscenza e sostiene allo stesso tempo che l’anima non è altro che l'accordo degli elementi del corpo. Ora chi accetta l'argomento della reminiscenza deve ammettere che l’anima esi- ste prima del corpo mentre chi concepisce l'anima come accordo deve negare che l’anima esista prima del corpo (come l’accordo non può esi- stere prima delle corde della lira) (c. 41). b) L'anima non può essere concepita come accordo, perché in tal caso non si potrebbe spiegare cos'è il vizio e la virtù; perché, in tal caso si dovrebbe dire che la virtù è un accordo di un accordo ed il vizio un di- saccordo di un accordo. Se l’anima è per definizione un accordo, « nessu- na anima pcetrà avere più di un'altra né disaccordo né accordo [...] e an- cora se questa è la sua condizione, nessun'anima potrà avere più di un’altra né vizio né virtù, ammesso che vizio è il disaccordo e virtù è accordo » (c. 42). c) L'anima non può essere concepita come accordo, perché tra anima e corpo non c'è accordo, ma disaccordo, contrasto, lotta, guerra. « Per esempio, nel corpo c’è arsura e sete, e l’anima lo tira, ai contrario, a non bere; c'è fame, e l’anima lo tira a non mangiare, e così in mille aitri casi in cui vediamo che l’anima si oppone alle passioni del corpo » (c. 43). Risposta all'’obiezione di Cebete — Passando alla obiezione di Cebete, Socrate dice che in sostanza Cebete domanda che sia dimostrato che l'anima nostra è indistruttibile ed immortale {c. 44). « Non è cosa da poco, o Cebete, quello che cerchi; bisognerà rifarsi a ricercare in genere la causa della generazione e della corruzione delle cose. Ora io ti dirò a questo proposito, se vuoi, quello che è capitato a me e se qualche cosa di quello che sono per dirti ti sembrerà utile potrai usarne [...] » (c. 45). All’inizio Socrate seguì i naturalisti. « Quand’erc giovane fui preso da una vera passione per quella scienza che chiamano indagine della na- tura ». Ma poi « finii col persuadermi che a questa specie di indagini io 358 ero nato assai meno di ogni altro. E a persuadertene basterà questo. Che quelio che già prima sapevo con chiarezza [...] ecco che allora, per effetto di queste ricerche mi si abbuiò totalmente cosicché disimparai anche quello che prima credevo di sapere [...] » {c. 45). Il problema che tormen- tava Socrate e a cui i naturalisti erano incapaci di dare una risposta era come sia possibile con due processi contrari (per es., sottrazione e addi- zione) ottenere lo stesso risultato (per esempio si può ottenere con l'addizione di due unità e con la divisione di 4 in due parti eguali) e come una stessa cosa possa essere chiamata a volte grande e a volte piccola. Poi si entusiasmò per Anassagora. « Ma udito una volta un tale leggere da un libro, come egli diceva, di Anassagora, e dire che dunque c'è una Mente ordinatrice e causa di tutte le cose, io mi rallegrai di questa causa, e mi parve, secondo un mio modo, che questo porre Ja Mente come causa di tutto, convenisse sommamente. Presi con grande sollecitudine quei suoi libri, mi misi a leggerli con la maggior rapidità, perché volevo, con la maggior rapidità, conoscere il meglio e il peggio » {c. 46). Ma Socrate restò deluso da Anassagora, quando si accorse che anziché attribuire alla causalità della Mente l'origine delle cose, la attribuiva alle cose mate- riali. « Ed ecco, invece, o amico, che da così alta speranza io mi sentivo cadere giù e portar via man mano che, procedendo nella lettura, vedevo quest'uomo non valersi affatto della Mente, non assegnarle alcun prin- cipio di causalità nell'ordine dell'universo, bensì presentare come cause e l’aria e l'etere e l’acqua e altre cose, e tutte quante fuori di luogo; e mi parve fosse proprio lo stesso che se uno, pur dicendo che Socrate tutto quello che fa lo fa con la mente, quando poi si provasse a determi- nare.le cause delle cose che io faccio, incominciasse col dire che ora, per esempio, io sono qui seduto per il fatto che il mio corpo è composto di ossa e nervi [...] senza curarsi affatto di dire quelle che sono le cause vere e proprie: e cioè che, siccome agli Ateniesi parve bene votarmi contro, per questo anche a me è parso bene restarmene a sedere qui, e ho ritenuto mio dovere non andarmene via [ ...]}. Ma chiamar cause ragioni di questo genere non ha a che fare assolutamente. Ché se uno dice che io, senza avere di codeste cose e ossa e nervi e tutto quello che ho non sarei capace di fare quello che mi sembra di dover fare, sta bene, costui dirà il vero. Ma dire che queste sono la causa per cui io faccio quelio che faccio, e dire ai tempo stesso che io opero con la mente, ma senza che ci sia per mia .parte la scelta dei meglio, questo in verità è il più grossolano e insensato modo di parlare. Questo significa essere incapaci di discernere «che altro è la causa (aition) vera e propria, altro quella cosa senza cui la causa non potrà mai essere causa » (c. 47), ossia altro è la causa e altro è la condizione necessaria. Ora questa è precisamente una distinzione che Anassagora non era riuscito a vedere. La ricerca della vera causa condusse Socrate alla scoperta della dot- trina {ipotesî) delle « idee » — Disgustato di Anassagora, Socrate abban- donò la filosofia dei naturalisti e si mise alla ricerca della vera causa, e disse che per trovarla dovette rifugiarsi nei concetti (logoi) e « consi- derare in essi la realtà delle cose esistenti » {c. 48). «Io mi misi dunque per questa via; e assumendo caso per caso come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, ie cose che a questo concetto mi par- vero accordarsi, queste ritenevo come vere, sia rispetto alla causa, sia rispetto a tutte ie altre questioni; quelle che no, io ritenevo come non 359 Socrate come Anassagora: le cose sono originate dalle cose materiali e non dalla mente Distinziene tra causa e origine delta causa in quanto fale La ricerca della vera causa nei concetti La presenza 0 comunanza delle cose al suo concetto La dottrina delle Idee spiega l’essere e il divenire Apparente contraddizione della tesi sulla teoria delle idee con l'argomento contro Cetete Occorre distinguere i contrari nelle cose dai contrari in sé Le cose nartecipano dei contrari, ma non sono necessariamente contrarie in sè vere. Ma voglio chiarirti meglio ciò che intendo dire, perché penso che tu ora non capisca » (c. 48). Socrate passa quindi a dimostrare apertamente qual è la specie di causa che si è costruita. « Poniamo dunque che esista, (si tratta quindi di un'ipotesi) un bello in sé, un buono in sé, un grande in sé, e così via: le quali cose se tu mi concedi e ammetti che esistano realmente io ho speranza, movendo da queste di scoprire la vera causa e di dimostrarti che l’anima è immortale ». Infatti, ammesse le Idee, Socrate trova che esse sono la vera causa. « A me pare infatti che, se c'è cosa bella all'infuori del bello in sé per nessuna altra ragione sia bella se non perché partecipa di codesto bello in sé. E così dico naturalmente di tutte le altre cose [....]. Niente altro fa sì che quella tale cosa sia bella se non la presenza o comu- nanza di questo bello in sé (e ekeinu tu kalù eite parusia eite koinonia) o altro modo qualunque onde codesto bello le aderisce. Perché io non insisto affatto su questo modo, e dico soltanto che tutte le cose belle sono belle per il bello » (c. 49). La dottrina delle Idee spiega non solo l'essere delle cose finite, ma anche il loro divenire. Infatti, dice Socrate, una data cosa si genera in quanto viene a partecipare di quella essenziale realtà che è propria di quella data idea onde essa partecipa; e così nei casi sopraddetti, tu non hai altra causa da addurre di codesto diventar due, se non la parteci- pazione alla dualità, e che di questa dualità bisogna che partecipino tutte ie cose che sono per diventare due e dell'unità le cose che sono per diventare uno » {c. 49). C'è però una difficoltà: come si spiega con la teoria delle Idee che la stessa cosa è chiamata grande e piccola (ad esempio, Socrate è chia- mato grande rispetto a Cebete e piccolo rispetto a Simmia)? Socrate ri- sponde che ia difficoltà è puramente verbale. In realtà « non solo la grandezza non vuole mai essere grande e piccola al medesimo tempo, ma altresì la grandezza che è in noi non vuole mai accogliere la picco- lezza e tanto meno esserne superata: e allora delle due l'una o fugge o cede il posto, quando il suo contrario, la piccolezza, le si avvicina, o addirittura quella sopravvenendole perisce; ma di restar ferma aì suo posto e ricevere in sé la piccolezza, e essere diversa da ciò che era prima, questo non vuole assolutamente » {c. 50). Qui pare però che Socrate si contraddica con quello che aveva affer- mato prima riguardo ai contrari, cioè che un contrario genera l’altro e Cebete fa presente a Socrate la difficoltà. Socrate chiarisce la difficoltà facendo vedere che essa deriva da un semplice malinteso: « Prima non si ragionava dei contrari, ma delle cose che hanno in sé i contrari (alle quali per questo si dà pure il nome di contrari). Ora parliamo dei con- trari in sé che noi riteniamo non vorranno mai accettare di generarsi gli uni dagli altri » (c. 50). Ultima dimostrazione dell'immortalità dell'anima (cc. 52-56) — Ora Socrate applica la dottrina che due contrari non possono partecipare l’uno dell'altro, (perché si oppongono e si escludono; e nel caso che so- pravvenga l’altro contrario il primo deve allontanarsi o perire) a quelle cose che non sono contrarie (solo le Idee si possono chiamare propria- mente contrarie) ma partecipano essenzialmente dei contrari {per esem- pio la neve e il fuoco non sono contrari, ma partecipano essenzialmente del freddo e del caldo che sono contrari). Tali cose quando sopravviene l’altro contrario non possono riceverlo, 360 ma'devono 0 allontanarsi o perire. Così, per esempio, la neve partecipa essenzialmente del freddo. Se sopravviene il caldo essa deve o allontanarsi o perire. Infatti, poiché partecipa essenzialmente del freddo, essa non può più essere neve se perde il freddo. Ciò che è essenziale non può essere ab- bandonato senza perire. Questo è precisamente il caso dell'anima. L'anima non è un contrario (perché non è un'Idea) ma partecipa essenzialmente ad uno dei contrari (la vita). Per cui l’anima, quando sopravviene l’altro contrario (la morte), deve o allontanarsi o perire. Secondo Socrate l’anima non può perire perché incorruttibile. Cebete concede che bisogna am- mettere non solo che l’anima è immortale (cioè non soggetta al contrario della vita, la morte) ma anche che è imperitura, perché se si ammette che « l'immortale che è eterno si corrompa » sarebbe impossibile poter cre- dere che nel mondo esista alcunché di incorruttibile (cc. 52-55 a). 3. Conclusione Non solo Dio e l’Idea della vita sono incorruttibili e imperituri, ma anche l’anima. « E quindi se la morte si abbatte sull'uomo, la parte di lui che, come sembra, è mortale, muore: la parte che è immortale, se ne va via salva e incorrotta sfuggendo la morte » (c. 56). ; Simmia però non è completamente pago della dimostrazione di So- crate. Questi gli dà ragione perché « quelle nostre prime ipotesi (le Idee), se anche non sono a te e agli altri cagione di dubbio, gioverà in ogni modo, per ragione di sicurezza, riesaminarle da capo » (c. 56). Però Socrate ritiene che se anche le prove non sono del tutto convincenti, l’a- nima è senza dubbio immortale. Dopo l'esposizione del mito meraviglio- so del giudizio delle anime dei morti e la descrizione della terra ideale, Socrate conclude: « Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte non si addice a uomo che abbia senno; ma che sia così o poce diverso da così delle anime nostre e delie loro abitazioni dopo che s'è dimostrato che l’anima è immortale, sostenere questo mi pare che si addica e anche si possa avventurarsi a crederia » (c. 63). Quanto a sé. conclude Socrate serenamente e solennemente, egli non ha nulla da temere perché « timori per la propria anima non deve avere chi nella vita disse addio ai piaceri del corpo e ai suoi ornamenti, sa- pendo che gli sono estranei, e persuaso che più gli possono far male che bene; e si curò invece dei piaceri deli'apprendere, e l'anima adornando non di ornamenti a lei alieni, ma di quelli suoi propri, temperanza, giu- stizia, fortezza, libertà, verità, attende così preparato l'ora del suo viaggio all’Ade, pronto a pigliare la sua strada appena il! destino lo chiami » {c. 63). SEZIONE TERZA (cc. 57-66) 4. Il mito delle anirne dopo la morte « Ebbene, o amici, questo se non altro, sarà bene sia chiaro nella mente: che se l’anima è immortale essa ha il diritto che se ne abbia cura; né solo per questo spazio di tempo che chiamiamo vita, ma per sempre e che ormai, dopo quel che s'è detto, anche il pericolo, a chi non ne abbia 361 L’anima partecipa a uno dei contrari: la vita Incorruttibilità e immortalità Non teme ia moris chi ha vissuto bene la vita Avere cura per l’anima che è immortale Sosmogratia pitagorica, dicotomia plaionica e mito della caverna Ultime parole dii Socrate cura, dovrà apparire assai grave. Infatti, se la morte fosse una libera- zione da ogni cosa, gran fortuna sarebbe per i trisii, morendo, sentirsi liberi non solo dai corpo, ma, nello stesso tempo, insieme con l'anima anche delia loro tristezza. Ma ora che l’anima ci si è rivelata immor- tale, nessuno scampo essa potrà avere dai mali, né alcuna salvezza, se non in quanto diventa il più possibile virtuosa ed intelligente. Perché nient'altro l'anima ha seco, andando all’Ade, all'infuori della sua cul- tura e dei suo costume, che è ciò appunto come dicono che grande- mente giova o nuoce a chi muore, subito al principio del suo viaggio all’al di là » (c. 57). 5. Figura e dimensione delia terra (cc. 58-61) Questi capitoli sono importanti per tre motivi: a) sono un docu- mento molto interessante per la conoscenza cella cosmografia pitagorica: ia terra non è piatta (come dicevano gli Ionici), ma sferica; è molio gran- de ed è collocata nel mezzo dell'universo; b) Platone vi espone la distin- zione fondamentale tra mondo sensibile ed intelligibile, tra la nostra terra e la terra ideale; c) c'è infine una chiara allusione al mito della caverna (cfr. c. 58, 109c - ii0 Db). 8. La morte di Socrate (cc. 64-66) Ultime parole di Socrate: « O Critone, disse, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate » (c. 66). Il significato di questa ingiunzione è il seguente: chi guariva da una malattia, in segno di gratitudine usava offrire un gallo ad Asclepio (detto anche Esculapio), il dio della medicina. Ora, essendo per Socrate l’esistenza corporale una malattia e la morte una guarigione ed una liberazione, è quindi giusto che morendo si mostri grato ad Esculapio. Intanto la cicuta che Socrate aveva bevuto da poco, comincia a produrre il suo effetto letale. Tutti intorno scoppiano in lacrime. Socrate si corica sul suo lettuccio e poco dopo muore. Critone gli chiude le labbra e gli occhi. « Questa, o Eche- crate — soggiunse Fedone — fu la fine dell'amico nostro: un uomo, noi possiamo dirlo, di quelli che allora conoscemmo il migliore; e senza paragone il più savio e il più giusto ». QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE + Che senso ha la vita per Socrate? . Che valore assegna Platone alla conoscenza intellettiva? . Come giustifica il valore assoluto della conoscenza intellettiva? . Quali sono le principali prove dell'immortalità dell'anima? . Come formula la prova basata sulla reminiscenza? . Come formula la prova basata sulla « parentela » o affinità dell'anima con il mondo delle Idee? 7. Come formula la prova basata sulla partecipazione dell'anima all’Idea della Vita, ossia al contrario dell’Idea della Morte? 8. Quali sono le obiezioni di Simmia e Cebete alla tesi di Socrate? 9. Che valore annette Socrate alle sue argomentazioni? 10. Confrontare le prove del Fedone con quella del Fedro. SAAWwWNA 362 11. Che rapporto pone Platone tra immortalità dell'anima e la teoria delle Idee? 12. In che cosa consiste il mito della metempsicosi? Sviluppare la conce- zione platonica dei rapporti tra mito e filosofia. 13. Su quali ragioni fonda Platone la dottrina delle Idee nel Fedone? 14. Quali sono le implicazioni etiche della dottrina della immortalità del- l'anima? — Illustrare l'ascesi platonica: rapporti tra teoria e prassi.363 A Cartesio si deve l'impostazione della filosofia moderna Le quattro caratteristiche presentate nell’opera sono: autonomia, gnoseologia, metodo e antropocentrismo Obiettivo di realizzare una scienza universale e rigorosa li. IL « DISCORSO SUL METODO » Cartesio (René Descartes, 1596-1650) 1. Origine dell’opera Cartesio è universalmente riconosciuto come il padre della filosofia moderna. A lui in effetti spetta il merito d'aver dato a quest'ultima i li- neamenti che la caratterizzano: autonomia della filosofia rispetto alla teologia; orientamento spiccatamente gnoseologico anziché metafisico: il primo e massimo problema da risolvere è quello della conoscenza, del suo valore e della sua portata; preoccupazione per il metodo: per dare solidità e organicità alla ricerca filosofica occorre valersi di un metodo sicuro e rigoroso; attenzione per l’uomo, che ora viene posto al centro di tutte le ricerche e di tutte le cose: dal teocentrismo si passa all’antro- pocentrismo. Il « manifesto » della nuova filosofia è la prima importante opera filo- sofica di Cartesio, Discorso sul metodo. In questo breve e tuttavia ri- voluzionario saggio, si annunciano chiaramente i quattro lineamenti ca- ratteristici della filosofia moderna: autonomia della filosofia, orientamento gnoseologico, interessamento per il metodo, antropocentrismo. Cartesio aveva avvertito la necessità di rinnovare lo studio e l'insegna- mento della filosofia ancora quando frequentava la scuola dei gesuiti a Parigi. Ma un piano preciso di revisione gli si presentò alla mente per la prima volta nel 1619 durante una visione. Allora Cartesio, che si era arruolato con le schiere degli imperiali (era scoppiata da poco la Guerra dei Trent'anni), si trovava in Germania. All’inizio dell'inverno, dove si erano fermati a svernare, « non trovando alcuna conversazione che lo svagasse, e non avendo d'altronde né preoccupazioni né passioni che lo turbassero, restava tutto il giorno solo accanto ad una stufa, dove aveva tutto l’agio di intrattenersi con i suoi pensieri ». Ed ecco, appunto, a risultato della assidua e profonda meditazione, la visione. Gli comparve l'Angelo della Luce e gli fece comprendere che il metodo matematico che aveva adoperato con tanto profitto nelle studio dell'algebra e della geometria era un metodo valido per tutte le scierize, compresa la filo- sofia. Di qui la risoluzione di Cartesio di tradurre in realtà la « scoperta mirabile »: si propose di elaborare una scienza universale dotata di quella rigorosità, certezza e precisione tipiche della matematica. Per alcuni anni lavorò all'applicazione della matematica alla fisica, facendo vedere che « la fisica, la quale fino al suo tempo era ancora unita alla medicina e alla filosofia si poteva tradurre in numeri ». Più tardi cercò di compiere la stessa impresa anche per la filosofia: Dio e gli angeli, i misteri del tempo e dello spazio, delle piante e degli animali, le complicate relazioni sociali, anche quella creatura complessa e sfuggente che è l’uomo, dove- vano essere tradotte in idee chiare e distinte come se si trattasse di quan- 364 tità matematiche. « Tutte le scienze », scrive Cartesio, « sono legate tra loro da una catena; non è possibile afferrare alcuna di loro senza aver compreso le altre e pertanto senza abbracciare contemporaneamente tutta l'enciclopedia del sapere ». E ancora: « Tale scienza dovrebbe in- cludere tutti i primi rudimenti della ragione umana, e il suo dominio dovrebbe estendersi fino a comprendere la conoscenza di tutte le cose ». Pertanto, il mondo e qualsiasi conoscenza sono raggiungibili col nuovo metodo. Per quanto Cartesio ascriva la sua « mirabile scoperta » ad una visione (a qualcosa di imprevisto, subitaneo e in certa misura soprannaturale), in effetti non si trattava di un'idea priva di precedenti. Uno dei suoi pro- fessori al collegio dei gesuiti, padre Clavius, ch'egli stimava e apprezzava moltissimo se n'era fatto già da tempo convinto assertore. Nelle sue Opere matematiche; stampate nel 1611, aveva scritto: « Le discipline matematiche dimostrano e giustificano con le più solide ragioni tutto ciò che è oggetto di discussione, cosicché esse producono effettivamente la scienza e scacciano dalla mente dello studente qualsiasi dubbio. La stessa cosa non si può assolutamente affermare delle altre scienze, nelle quali molto spesso la mente resta incerta e dubbiosa circa il valore delle con- clusioni, talmente numerose sono le opinioni e contrastanti i giudizi [...]. I teoremi di Euclide come pure quelli degli altri matematici, oggi sono ancora così veri, sicuri nei loro risultati, solidi nelle loro dimostrazioni, come erano molti secoli orsono [...] Ora, siccome le discipline matema- tiche sono così completamente assorbite dall'amore e dal culto della verità, che nel loro ambito nulla di falso viene recepito e neppure ciò che è meramente probabile [...] non si dà alcun dubbio che tra le varie scienze il primo posto spetta alla matematica ». Queste teorie del padre Clavius erano certamente note a Cartesio, il quaie le fece sue. Un po’ alla volta esse fermentarono nella sua mente fino ad esplodere nella celebre visione del 1619. Come s'è detto, Cartesio in un primo tempo effettuò l’applicazione del metodo matematico alle scienze sperimentali e poi, in un secondo tempo, alla filosofia. Dopo una decina d'anni di ricerche ininterrotte un nuovo sistema cominciò a delinearsi con chiarezza nella sua mente, un sistema che si distingueva nettamente sia da quello di Platone come da quello di Aristotele e degli Scolastici. Nel 1628 Cartesio si sentiva ormai così sicuro di sé che non esitò a prendere parte ad una discussione pub- blica, tenuta a Parigi alla presenza del nunzio pontificio, il cardinale Berulle, e di padre Mersenne, con alcuni dei massimi filosofi e scienziati del tempo. Con le sue istanze di chiarezza, rigorosità e precisione in materia di metodo, Cartesio impressionò profondamente il Berulle, il quale lo invitò a mettere per iscritto le sue teorie per controbattere gli argomenti degli scettici e degli atei. Nel 1633 Cartesio aveva portato a compimento una vasta opera di fisica e di filosofia, intitolata /l Mondo, ma la notizia della condanna di Galileo lo indusse a non procedere alla sua pubblicazione. Da essa stralciò tre trattati (Diottrica, Meteore e Geo- metria), ai quali appose come introduzione il Discorso sul metodo, e li consegnò alle stampe nel 1637. Il piano di quest’ultima opera era già stato definito l’anno precedente. Nel marzo del 1636 Cartesio ne aveva dato l'annuncio all'amico Mer- senne con queste parole: « L’opera comprenderà quattro trattati, tutti in francese, e il titolo generale sarà: Progetto di una scienza universale che 365 La connessione tra le scienze Primato epistemologico delle discipline matematiche Metodo matematico dalle scienze sperimentali applicato alla filosofia La chiarezza cartesiana a servizio del dibattito teologico Il ‘‘Discorso’’ come proposta e come pratica Divisione dell’opera in sei parti possa elevare la nostra natura al più alto grado di perfezione. Più la Diot- trica, le Meteore e la Geometria: in cui le più curiose materie, scelte per prova della Scienza universale proposta dall’Autore, sono spiegate in modo che possano essere intese anche da coloro che non le hanno mai studiate ». Seguiva un sommario delle materie studiate nei tre saggi. Quando Cartesio così scriveva a Mersenne, non aveva ancora steso tale parte preliminare. La compose invece alcuni mesi dopo, nello stesso anno, in autunno, secondo l'attestazione ch'egli ci fornisce alla fine della III Parte del Discorso. 'In una sua lettera al padre Vatier confessa ch'egli finì di scrivere il Discorso mentre, essendo già composto tutto il resto, il libraio pressava perché gli mandasse quella parte. La quale, è da sup- porre, soltanto allora venne fuori col titolo, che poi mantenne, di Discorso sul metodo. Intanto, quando nel marzo del 1637 Mersenne ricevette il pacchetto delle bozze del volume completo, dovette meravigliarsi di non trovare il preannunciato « quarto trattato », ma semplicemente un « discorso » e ne scrisse a Cartesio, il quale così gli rispose: « Non capisco bene ciò che voi obiettate riguardo al titolo: io non ho messo Trattato, ma Discorso, ch'è come dire Prefazione o Avvertenza, e ciò perché fosse chiaro ch'io del metodo non pretendo di offrire una trattazione da insegnare agli altri ma soltanto di parlarne (come di esperienza personale): perché, come si vede anche da ciò che vi ho detto, esso consiste più nella pratica che nella teoria, e vi ho inserito qualcosa di metafisica, di fisica e di medicina per mostrare che tal metodo si estende a ogni sorta di materie ». Ottenuta l'autorizzazione del re per il libraio, il volume poté finalmente uscire recando nel frontespizio la dicitura stabilita: « Discours de la Méthode pour bien conduire la raison, et chercher la vérité dans les sciences ». 2. Divisione e sintesi dell’opera In apertura del Discorso Cartesio stesso fornisce al lettore una lucida divisione dell'opera. Essa consta di sei parti le quali trattano nell'ordine: I. L'esperienza scolastica di Cartesio e il suo giudizio sulle varie di- scipline studiate al collegio dei gesuiti. II. Le principali regole del metodo. III. I principi fondamentali della morale. IV. II dubbio metodico e i fondamenti della metafisica, Dio e l’anima umana. V. Il corpo umano, spiegazione del movimento del cuore, la differenza che passa fra l’anima umana e quella delle bestie. VI. Considerazioni sul progresso delle scienze e motivazioni per la pubblicazione dell’opera in lingua francese anziché in latino. 366 PRIMA PARTE L'ESPERIENZA SCOLASTICA DI CARTESIO E LA SCOPERTA DELLA NECESSITÀ DI UN METODO RIGOROSO 1. Necessità del metodo Gli uomini, che pure sono tutti eguali in fatto di intelligenza (che Car- tesio chiama « buon senso » o « ragione »), ottengono tuttavia risultati diversi a seconda del metodo adoperato. Di qui l’importanza capitale del metodo. Ma i metodi finora usati non sono affatto buoni; per questo i ri- sultati conseguiti sono stati quasi sempre meschini. Cartesio informa il lettore di avere scoperto un metodo particolarmente efficace e perciò ha deciso di renderlo pubblico, non con lo scopo di insegnare a tutti come devono condurre la propria ragione ma soltanto per mostrare agli altri come egli abbia condotta la sua (pp. 7-10). 2. La storia della propria educazione e l'utilità dello studio delle materie sco- lastiche (pp. 10-20) Cartesio racconta che aveva iniziato gli studi dai gesuiti con la per- suasione che per mezzo delle varie discipline scolastiche avrebbe potuto acquistare una cognizione chiara e sicura di tutto ciò che è utile alla vita. Ma dopo alcuni anni di studio si accorse che sebbene l'istruzione scola- stica gli avesse insegnato molte cose utili ed interessanti, perché tutte le discipline (storia, poesia, retorica, filosofia, teologia, ecc.) gli avevano fatto apprendere qualche cosa, non aveva tratto altro profitto... se non quello di aver scoperto sempre più la sua ignoranza (p. 10). Infatti nessuna disciplina è capace di insegnare tutto quello che è utile alla vita. Non la storia che ci dà del passato notizie sempre impre- cise e talora false e ci lascia completamente ignoranti della situazione presente e futura. Non la retorica e l’arte poetica, che sono del tutto su- perflue dato che la stessa cosa si può benissimo dire senza retorica e senza arte poetica. Non le matematiche, perché « non vedevo ancora il loro vero uso » (p. 16) sebbene lo dilettassero per la certezza ed evidenza delle loro ragioni. Non l'etica naturale degli antichi, perché « fabbricata sulla sabbia e sul fango » (p. 17). Non la teologia, perché non è necessaria per andare in cielo: « la via di esso non è meno aperta ai più ignoranti che ai più dotti» (p. 18) e non riesce a dissipare il velo del mistero. Non la filosofia, perché fino ad oggi non è riuscita a dirci niente di indiscu- tibilmente vero. Non le altre discipline, perché « siccome esse prendono i loro principi dalla filosofia, giudicavo che non si poteva aver fabbricato nulla di solido su basi così poco ferme » (p. 20). 3. Lo studio del mondo attraverso i viaggi (pp. 20-22) Per queste ragioni non appena l’età gli permise di uscire dalla sog- gezione dei suoi genitori, Cartesio abbandonò interamente lo studio delle lettere e si mise a viaggiare con lo scopo di imparare dal libro della na- tura quello che non aveva imparato sui libri di carta. Però, viaggiando trasse l'impressione che, per quanto riguarda la morale, le cose stessero come in filosofia: considerando «i costumi degli altri uomini [...] vi notavo quasi tanta diversità quanta ne avevo rilevata prima tra le opi- 367 . Esigenza del metodo per il conseguimento del fine Studio e consapevolezza della propria ignoranza Nessuna disciplina insegna tutto ciò che è utile alla vita Lo studio di se stesso riesce meglio che non attraverso viaggi e libri Un solo autore costruisce meglio Necessità della revisione della propria mente e della propria cultura nioni dei filosofi » (p. 22). Così « imparavo a non credere troppo ferny mente a ciò di cui non ero persuaso che a cagione dell'esempio e del. l'usanza; e così mi liberavo a poco a poco da molti errori che possono offuscare la nostra luce naturale e renderci incapaci di intendere la ra- gione » {(p. 22). 4. Lo studio di se stesso (p. 22) « Dopo che ebbi impiegato alcuni anni a studiare così nel libro del mondo e a procurare d’acquistare un po’ di esperienza io presi un giorno la risoluzione di studiare anche me stesso, e di impiegare tutte le forze della mia mente a scegliere le vie che dovevo seguire. Il che mi riuscì assai meglio, mi sembra, che se non mi fossi mai allontanato né dal mio paese né dai miei libri » (p. 22). SECONDA PARTE LA SCOPERTA DEL NUOVO METODO E LE SUE REGOLE PRINCIPALI 1. Ambientazione Terminati gli studi al « La Flèche » (il collegio dei gesuiti), Cartesio si era arruolato nell’esercito degli Imperiali. Questo tuttavia non gli impediva di continuare ad occuparsi di filosofia. In particolare, durante la sosta forzata che l'inverno imponeva alle azioni militari in quei tempi, aveva tutto l’agio di dedicarsi alla riflessione filosofica, trascorrendo il tempo accanto ad una stufa, immerso nei suoi pensieri. 2. Prima considerazione Le opere composte di molti pezzi e fatte da molti maestri sono spesso più imperfette di quelle cui ha lavorato uno solo. Così si vede che gli edifici che un architetto ha iniziato e compiuto da solo sogliono essere più belli di quelli che molti hanno cercato di riadattare, servendosi di vecchie muraglie, che erano state costruite per altri fini. Altrettanto si può dire delle scienze e della politica. La ragione per cui c'è tanta im- perfezione nelle scienze e nelle costituzioni è che esse :sono il prodotto di molte mani diverse (pp. 25-27). 3. Seconda considerazione È vero che non si buttano giù tutte le case di una città, allo scopo di rifarle in un altro modo e di rendere le vie più belle; ma si vede che molti demoliscono le proprie case per ricostruirle, e che anzi talvolta vi sono costretti, quando esse sono in pericolo di cadere da sé, e le loro fonda- menta non sono ben ferme. Da questo esempio Cartesio trae la conclusione che sarebbe stato completamente inverosimile proporsi di riformare tutto il corpo delle scienze e l'ordine stabilito nelle scuole per inse- gnarle; tuttavia avrebbe potuto riformare la sua mente e la sua culturà, togliendo via tutte le opinioni raccolte nel passato, per rimetterne in seguito delle altre migliori o anche le medesime, quando le avesse ag- giustate al livello della ragione {pp. 27-29). 368 4. Ammonimento Cartesio avverte il lettore che non intende consigliare a nessuno il suo esempio. Infatti ci sono due specie di ingegni ai quali non conviene affatto seguirlo: quelli che quando si sono presi una volta la libertà di dubitare dei principi che hanno ricevuto e di allontanarsi dal cammino comune non potrebbero mai tenere il sentiero che bisogna prendere per andare più diritti e resterebbero sviati per tutta la loro vita; e quelli che, essendo meno capaci di altri di distinguere il vero dal falso, hanno sufficiente modestia per mettersi alla scuola di altri. 5. Decisione di procedere alla ricerca di un nuovo metodo, essendo la logica e la matematica metodi insufficienti — Lalogica serve solo a spiegare ad altri quello che già sanno. — La matematica è troppo complicata. In entrambi i casi si tratta di discipline che si riferiscono a materie astrattissime appesantite da una montagna di regole che ne hanno fatta « un'arte confusa e oscura che imbarazza la mente, invece, che una scien- za che la coltivi ». 6. Le regole del nuovo metodo (pp. 35-36) Così finalmente Cartesio si decide a cercare un nuovo metodo, sem- plice, facile, basato su pochissime regole. E trova finalmente un metodo che consta solo di quattro regole. Ecco le quattro famose regole: a) Non accogliere mai nulla di vero, che non si conosca evidentemen- te come tale: « Non comprendere nei miei giudizi niente di più di quello che si presentasse così chiaramente e distintamente alla mia mente che io non avessi alcuna possibilità di metterlo in dubbio ». In questa regola Cartesio indica il criterio di verità che egli intende adottare: è il famoso criterio della chiarezza e distinzione. Nei Principia philosophiae esso viene così precisato: chiamo chiara un'idea che è presente e manifesta a uno spirito attento: come quando diciamo di vedere chiaramente gli oggetti, allorché essendo presenti agiscono assai fortemente sui nostri occhi disposti a guardarli. E distinta, quella che è talmente precisa e diffe- rente da tutte le altre, che non comprende in sé che ciò che sembra ma- nifestamente a chi la considera come conviene (Princ. phil. 1, n. 45). b) Dividere ciascuna difficoltà che si incontra in tante parti quante è possibile... per meglio risolvere le difficoltà stesse. c) Condurre con ordine i propri pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla cono- scenza dei più composti. d) Far dappertutto delle enumerazioni così complete e delle rassegne così generali, da non omettere nulla. 7. Fecondità del nuovo metodo (pp. 37-38) Col nuovo metodo si possono conoscere tutte le cose, purché soltanto ci si astenga dall'accoglierne alcuna per vera che non lo sia e si serbi sempre l'ordine che occorre per dedurre le une dalle altre. 369 Cartesio denunzia i rischi della sua scelta critica Le regole del nuovo metodo: — chiarezza e distinzione — divisione delle difficoltà — ordine nel pensieri — completezza delle enumerazioni 8. Applicazione del nuovo metodo alla matematica Cartesio fa la prima applicazione del nuovo metodo alla matematica per due ragioni. Anzitutto perché era necessario partire dalle verità più semplici e più facili. E poi perché tra tutti gli scienziati solo i matematici erano riusciti fino ad allora a trovare delle dimostrazioni convincenti, « cioè delle ragioni certe ed evidenti ». 9. ‘Primi risultati Esiti positivi del ‘L'esatta osservanza di questi pochi precetti che Cartesio aveva scelto, nuovo metodo gli procurò tale facilità di risolvere tutti i problemi a cui si estendono quelle due scienze (algebra e geometria), che nei due o tre mesi che impiegò ad esaminarli, non soltanto venne a capo di molti di essi, che altra volta aveva giudicato difficilissimi, ma gli parve anche, verso la fine, che poteva determinare in quelli stessi che ignorava, con quali mezzi e fin dove fosse possibile risolverli (p. 39). 10. Applicazione del nuovo metodo alla filosofia Cartesio allora si propone di applicare lo stesso metodo anche alle altre scienze. «Ma avendo notato che i loro principi dovevano essere at- tinti dalla filosofia, nella quale non ne trovavo ancora di certi, pensai che bisognava prima di tutto che io cercassi di stabilirvene LE MASSIME DELLA MORALE PROVVISORIA E L'ESERCIZIO DEL METODO 1. Necessità di una morale provvisoria Necessita una Come uno che, dovendo ricostruire in modo diverso la casa dove abi- morale provvisoria: ta, si provvede di un'altra casa dove abiterà mentre si lavora alla nuova, — diversità di così occorre al filosofo trovarsi una morale provvisoria con cui regolarsi comportamento circa fino alla scoperta della vera. Infatti non è possibile comportarsi verso le È opimiani porca azioni allo stesso modo come ci si comporta verso le opinioni. Si possono REAZIONE sospendere le opinioni, ma non si può essere irresoluti nelle azioni. « E così, giacché spesso le azioni della vita non tollerano nessuna dilazione, è x una verità certissima che, quando non è in nostro potere discernere le opinioni più vere, dobbiamo seguire le più probabili » (p. 49). ! Delle quattro regole: la prima fissa il criterio di verità. Le altre si riferi- scono al metodo, i cui momenti principali sono due: l’analisi {seconda regola); la sintesi (quarta regola). i L'originalità di Cartesio sta nella sua preoccupazione di dare ampio svi- luppo al primo momento, quello dell'analisi, in modo da preparare alla sin- tesi un terreno solido. Al momento dell’analisi appartiene la critica laboriosa di tutte le opinioni incerte, accettate dalla tradizione e dall'ambiente e la di- mostrazione di come si arriva ai primi principi e alle definizioni (Cartesio rimanda questa dimostrazione alle Meditazioni). Per Cartesio l'unica intuizione che ha valore è quella intellettuale; l’in- tuizione sensitiva è fonte di innumerevoli errori e perciò va scartata. 370 2. | principi della morale provvisoria Primo. Obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese, praticando la religione nella quale si è stati istruiti sin dall'infanzia, e regolarsi in ogni cosa secondo le opinioni più moderate. A giustificazione di questo principio Cartesio adduce la seguente ragione: « cominciando da allora a non contare per nulla le mie proprie perché volevo sottoporle tutte all'esame, ero sicuro di non poter far meglio che seguire quelle dei più assennati ». Egli sottolinea peraltro il carattere provvisorio di tale accet- tazione: « Fra parecchie opinioni ugualmente ammesse, io non sceglievo che le più moderate, e anche queste solo in modo provvisorio, e avrei pensato di commettere un grande delitto contro il buon senso, se, per il fatto che approvavo allora qualche cosa, mi fossi obbligato di prenderla per buona, anche dopo che avesse forse cessato di esserlo o che io avessi cercato di stimarla come tale » (p. 48). Secondo. Essere fermo e risoluto nelle azioni e opinioni a cui si fosse determinato. « Imitando in ciò il viaggiatore che trovandosi smarrito in qualche foresta non deve errare girando da una parte e dall'altra e ancora meno fermarsi in qualche posto, ma camminare sempre quanto più diritto è possibile in una sola direzione [...] almeno si arriverà così in qualche parte » (p. 49). : Terzo. Sforzarsi sempre di vincere se stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i propri desideri piuttosto che l'ordine del mondo; e gene- ralmente di abituarsi a :credere che non c'è nulla che sia interamente nostro tranne i nostri pensieri e perciò non bisogna affannarsi troppo per le cose esterne. Né questo riesce difficile se noi « consideriamo tutti i beni che sono fuori di noi come ugualmente lontani dal nostro potere ». Allora « non avremmo maggior rammarico di mancare di quelli che sembrano esser dovuti alla nostra nascita, allorché ne saremo privati senza colpa, di quel che ne abbiamo per non possedere i regni della Cina e del Messico ». « Ma confesso che c’è bisogno di un lungo esercizio e d'una meditazione spesso reiterata per abituarsi a guardare da questo punto di vista tutte le cose » (pp. 49-50). 3. Rassegna delle varie azioni per scegliere la migliore Cartesio trova che la cosa migliore è « impiegare tutta la vita a coltivare la ragione e progredire quanto più è possibile nella conoscenza della verità ». Questa è la migliore occupazione per due ragioni: a) Perché la vita intellettuale è piena di soddisfazioni. « Avevo provato così elevate soddi- sfazioni da quando avevo cominciato a servirmi di questo metodo che non credevo se ne potesse ricevere delle più dolci e delle più innocenti in questa vita » (p. 51). 9) Perché progredendo nella conoscenza si progre- disce nelle virtù, « infatti, siccome la nostra volontà non si determina a seguire né a fuggire alcuna cosa se non secondo il nostro intelletto gliela rappresenta buona o cattiva, basta ben giudicare per ben fare e giudicare meglio perché si possa fare anche tutto il proprio meglio » (p. 52). 4. Esercizio del metodo viaggiando e studiando Dopo essersi così rassicurato di queste massime e di averle messe da parte insieme alle verità della fede, Cartesio giudica che, per tutto il 371 — obbedienza alle leggi e ai costumi del proprio paese — scelta delle opinioni moderate — risolutezza nelle azioni e nelle opinioni determinate — vincere se stessi piuttosto che l’ordine del mondo — valore della vita intellettuale Distruggere per arrivare alla verità; conservare ciò che può dare cognizioni certe Il dubbio metodico come sospensione della conoscenza umana in generale resto delle sue opinioni, poteva liberamente cominciare a disfarsene. E poiché sperava di poter venire meglio a capo conversando con gli uo- mini... si rimise a viaggiare. Intanto, mette in pratica il nuovo metodo, guidato da due norme: a) non distruggere per distruggere (come gli scet- tici), ma per arrivare alla verità; b) non distruggere tutto, ma conservare quello che può servire per arrivare a cognizioni certe. Dopo nove anni di viaggi, per applicare il nuovo metodo alla filosofia si ritira nella solitudine in Olanda.? QUARTA PARTE I DUE PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA METAFISICA: IL COGITO E L'ESISTENZA DI DIO 1. Il dubbio metodico Per uscire dall’incertezza in cui era stato gettato dalla diversità delle opinioni e costumi, Cartesio decide di rigettare come assolutamente falso tutto quello in cui potesse immaginare il minimo dubbio, allo scopo di vedere se gli restasse dopo ciò qualche cosa che fosse interamente indubitabile. Così decide di scartare: tutta la conoscenza sensitiva, « siccome i no- stri sensi qualche volta ci ingannano »; tutta la conoscenza razionale, « poi- ché ci sono uomini che si ingannano ragionando »; tutta la conoscenza umana in generale: « considerando che tutti i medesimi pensieri che ab- biamo da svegli ci possono venire anche quando dormiamo, senza che ve ne sia allora alcuno che sia vero, risolvetti di fingere che tutte le cose che mi erano mai entrate nella mente non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni » (pp. 60-61).3 ? a) Morale provvisoria e morale definitiva - La morale definitiva, che Cartesio esporrà più tardi nel libro Les passions de l’àme è in sostanza iden- tica alla morale provvisoria. L'una e l'altra sono di marca stoica. Unica diffe- renza: la prima legge della morale definitiva non è di obbedire alle leggi e costumi del proprio paese, ma di obbedire alla ragione e adoperarla costan- temente per scoprire quel che è doveroso fare. Inoltre nella morale defini- tiva è aggiunta qualche precisazione alla terza legge con l'intento di indi- care quello che è necessario fare per vincere se stessi (e le proprie passioni) e rendersi completamente indipendenti dal mondo. Per raggiungere un com- pleto dominio sulle cose e su se stessi (cioè sulle passioni) serve molto medi- tare su due verità fondamentali: presenza e provvidenza di Dio e immortalità dell'anima. Facendo questo si può raggiungere il fine ultimo, la contempla- zione di Dio. b) Errore e male - Cartesio riduce la questione del male a quella dell'er- rore. Il male consiste nell'errore. Egli però risolve il problema dell'errore. adoperando i principi tomistici per la risoluzione del problema del male. Così l'errore come il male è una « carentia perfectionis debitae » (responsa- bile di tale carenza non è Dio, ma l'uomo). L'errore però non è causato dal- l'intelletto, ma dalla volontà. Infatti per Cartesio affermare, dubitare, negare non sono atti della ragione, ma della volontà. In definitiva l'errore è dovuto a un cattivo uso del libero arbitrio... :(cfr. E. GIiLson, La doctrine cartésienne de la liberté et la théologie, pp. 211-235). ? Il dubbio metodico - Il dubbio metodico di Cartesio non è un dubbio universale, ma è un dubbio parziale. Non è un dubbio universale anzitutto perché un dubbio universale non è possibile; di fatto poi risulta chiaro che 372 2. La prima verità indubitabile: il « cogito ergo sum » Ma, mentre cercava di dubitare di tutto, Cartesio s'accorge di una verità: « mentre in tal modo volevo pensare che fosse tuito falso, biso- gnava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualche cosa. E no- tando che questa verità: IO PENSO DUNQUE SONO era così ferma e così sicura che tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici non erano capaci di scuoterla, giudicai che potevo riceverla senza scrupolo come il principio della filosofia che io cercavo » (pp. 60-63).* Cartesio non intende adottare il dubbio universale. Nella parte terza ha detto che applicando il metodo del dubbio non bisogna scartare tutto e che esa- minando criticamente le proposizioni che costituivano il sapere del suo tempo, « non ne incontrava alcuna sì dubbia che non ne traesse sempre qualche con- clusione abbastanza certa, non fosse altro che questa: che non conteneva nulla di certo » (p. 54). Cartesio quindi non intendeva dubitare di tutto, ma solo tentare di dubitare quanto più fosse possibile per potere con più sicurezza raggiungere la verità. Così inteso il dubbio è legittimo. Si tratta infatti solo di una sospensione prov- visoria della nostra conoscenza ordinaria per arrivare ad una giustificazione critica della medesima; non è perciò negazione, svuotamento, annullamento del pensiero, ma solo sospensione dell’assenso. « Ciò che Cartesio già sa, ciò che forma il suo patrimonio mentale, ricco o povero che sia, è l'immediato, dal quale egli parte, come ogni uomo, ogni filosofo, parte dal suo. Egli è filosofo precisamente in quanto si propone di rivederlo criticamente, di discuterlo, di fondarlo, di meditarlo. L'atteggiamento implicito nel dubbio cartesiano, visto nelle sue giuste dimensioni, non esagerato, non fatto slittare sul viscido di qualche espressione del testo, è l'atteggiamento filosofico come tale: non SA cata del pensatore 'di La Haye » (G. BoNTADINI, Discorso sul me- todo, p V Nelle Meditazioni la fondazione del dubbio metodico prenderà molto più rilievo: essa occupa tutta la prima Meditazione. Anche la formulazione verrà radicalizzata per mezzo del genio maligno. Nelle Meditazioni il dubbio meto- dico rischia di diventare dubbio scettico. Sulla validità di un dubbio metodico spinto fino a questi punti l'ermeneutica cartesiana è discorde, Comunque se si può riportarla alla interpretazione che abbiamo data alla formulazione del Discorso sul metodo noi riteniamo che sia un procedimento valido. Se, invece, il dubbio diventa un autentico dubbio positivo (e non sem- plice negativo) universale, esso porta necessariamente allo scetticismo, e costituisce quindi un procedimento invalido. ‘ Significato del cocito — A proposito del Cogito è necessario notare che non si tratta di una dimostrazione ma di una intuizione. Il dunque (ergo) non ha valore di conseguenza, ma è semplicemente pleonastico. Se il Cogito fosse la conclusione di una dimostrazione, ossia un entinema, allora sarebbe neces- sario sottintendere una premessa universale (per esempio: dovunque c'è co- noscenza c’è esistenza) e non sarebbe quindi più possibile considerare il Cogito come la prima verità metafisica. Quanto all'esistenza provata dal Cogito non si può trattare che del. l'esistenza del pensiero, della realtà pensante (res cogitans) non già della realtà distinta dal pensiero. Così per la sostanza intuita nel Cogito, si deve dire che essa non è altro che il pensiero stesso e non già qualche cosa di di- stinto dal pensiero e soggiacente ad esso. Dicendo del pensiero che esso è una sostanza Cartesio viene ad affermare che il pensiero è qualche cosa che sta da sé, indipendentemente dalla realtà corporea. Infatti questo « star da sé » è la sostanzialità. Ecco il motivo della sostituzione alle espressioni « cogito » e « cogitatio » di queste altre: « Sub- stantia cogitans» o «res cogitans» («res cogitans» che è contrapposta alla « res extensa » 0 sostanza corporea). Non solo l'esistenza provata dal Cogito riguarda soltanto il pensiero ma ha anche carattere momentaneo, contingente, riguarda l’hic et nunc. Nulla è provato della sua esistenza nel passato e nel futuro. ‘Perciò il Cogito è un cri- terio universale di verità solo in un senso molto ristretto. Anzi più che criterio 373 Prima verità indubitabile: dal dubbio all'evidenza del pensare e dell’esistere Esame della natura del ‘‘sum’’ (l’esistenza) Chiarezza e distinzione come criterio di verità 3. L'essenza dell'uomo consiste nel pensiero Dal Cogito Cartesio passa a considerare la natura del « sum » (= l'esi- stenza) che vi aveva intuito e osserva che poteva fingere di non aver alcun corpo..., ma che non per questo poteva fingere di non esistere e che, al contrario, dal fatto stesso che pensava a dubitare della verità delle al- tre cose, seguiva evidentissimamente e certissimamente che egli era: laddove se appena avesse cessato di pensare, ancorché tutto il resto di ciò che aveva immaginato fosse stato vero, non avrebbe mai avuto nes- suna ragione di credere che esisteva; conobbe da ciò che era una sostanza della quale tutta la essenza o la natura non è che di pensare e che, per, non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna cosa materiale. « Di modo che questo io, vale a dire l’anima, per la quale io sono ciò che sono, è interamente distinta dal corpo ed anzi è più facile a conoscere di questo e dato pure che questo non fosse non cesserebbe di essere tutto quello che è» (pp. 63-64)5 4. Il criterio di verità: chiarezza e distinzione Conseguiti questi risultati sensazionali, Cartesio passa a considerare che cosa è necessario ad una proposizione per essere vera e certa; perché dal momento che ne aveva trovata una che sapeva essere tale, pensava che doveva altresì sapere in che cosa consisteva questa chiarezza. Edavendo notato che non vi è niente in questo « 10 PENSO DUNQUE SONO » che ci assicuri di dire la verità se non il fatto di vedere chiarissimamente che per pensare bisogna essere, ritenne di poter prendere per regola generale che le cose che noi concepiamo ben chiaramente e ben distin- di verità esso è una illustrazione del criterio di verità. Infatti per Cartesio il criterio di verità è la chiarezza e distinzione. Come esemplificazione, il Cogito ha valore, ma non un valore così esclusivo come credeva Cartesio. Ci sono molti altri principi (per esempio, il principio di non-contraddizione) in cui la verità risplende immediatamente e possono essere presi come illustrazione del criterio di verità. Spesso si paragona il Cogito di Cartesio al si fallor di S. Agostino. Tanto Cartesio come S. Agostino hanno fatto uso del dubbio metodico, ma in modo diverso e per questo il Cogito ha una portata diversa del si fallor. Il si fallor mira soprattutto al superamento dello scetticismo e per S. Agostino, esso non costituisce la prima e unica certezza. Il Cogito non mira tanto al supera- mento dello scetticismo quanto al fondamento della verità e costituisce la pri- ma certezza metafisica. 5 Dualismo di spirito e materia, anima e corpo - Questa distinzione è il ri- sultato di un paralogismo. Cartesio commette un passaggio illecito quando dal fatto che l'anima può essere conosciuta senza che sia richiesta la conoscen- za del corpo conclude che essa esiste senza che sia richiesta l’esistenza del corpo. Dalla constatazione che l’anima è distinta dal corpo è illecito concludere che essa è un ente diverso dal corpo e capace di esistere senza di esso. Cartesio « ha fuso e confuso il fatto gnoseologico col fatto ontologico, ha modificato il cogito nella res cogitans, ha sostituito alla proposizione vera « io sono nell'atto della mia coscienza » la proposizione non vera « io sono l’atto della mia co- scienza » (F. MEI, La filosofia del concreto, Marzorati, Milano, p. 48). Cartesio eviterà di ripetere questo paralogismo nelle Meditazioni, dove svolge una trat- tazione a parte per provare la teoria del dualismo tra spirito e materia. Ad ogni modo, il dualismo tra spirito e materia, anima e corpo è insostenibile non solo dal punto di vista ontologico (anima e corpo formano una unità sostanziale), ma anche dal punto Si vista’ psicologico, perché l'anima non conosce direttamente se stessa senza l'uso del corpo. 374 tamente sono vere, ma che vi è soltanto qualche difficoltà nel ben discer- nere quali siano quelle che concepiamo distintamente (pp. 65-68)$ 5. Dimostrazione dell’esistenza di Dio Trovato il principio fondamentale della metafisica e il supremo criterio di verità, Cartesio passa a dimostrare l’esistenza di Dio, e la prova in quattro modi: a) Dal fatto che abbiamo l'idea di perfetto e non possiamo essere noi la causa di tale idea — « Riflettendo sul fatto che io dubitavo e che per conseguenza il mio essere non era tutto perfetto, perché vedevo chiara- mente che era una più gran perfezione conoscere che dubitare, mi proposi di cercare donde avessi imparato a pensare qualche cosa di più perfetto che io non fossi, e conobbi con evidenza che doveva essere da qualche natura che fosse in realtà più perfetta [...j poiché non vi è meno ripu- gnanza che il più perfetto sia una conseguenza e una dipendenza del meno perfetto di quel che dal nulla proceda qualche cosa [...] di ma- niera che restava che essa fosse stata messa in me da una natura che fosse veramente più perfetta di quel che io non fossi e che anzi avesse in sé tutte le perfezioni delle quali potevo avere qualche idea, vale a dire per spiegarmi in una parola che fosse Dio » (pp. 68-69). b) Dal fatto che non mi sono dato io stesso la mia esistenza — Se è vero che io, pur avendo l'idea di perfetto, non sono perfetto, vuol dire che non mi sono dato l'esistenza da me, perché altrimenti mi sarei data un'esistenza perfetta; cioè conforme all'idea che posseggo; solo Dio dun- que, cioè l'essere perfettissimo, può aver creato me avente l'idea di per- fetto (p. 70). A questo punto Cartesio fa una breve digressione sulla natura divina: « Di tutte le cose di cui trovavo in me qualche idea (consi- deravo) se fosse perfezione o no il possederle, e ero sicuro che nessuna di quelle che denotavano imperfezione era in Lui, ma che tutte le altre vi erano » (p. 71). c) Dall'idea di perfetto — « Tornando ad esaminare l’idea che avevo di un essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa allo stesso modo che è compreso nell’idea di triangolo che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, o in quella di una sfera che tutte le sue parti sono equidistanti dal centro, ed anche più evidentemente; e che per conse- guenza è altrettanto certo che Dio, che è questo Essere perfetto, è o esiste, quanto potrebbe esserlo qualunque dimostrazione di geometria » (p. 72). d) Dalle conseguenze disastrose che la negazione dell'esistenza di Dio implica, cioè dal fatto che in tal caso qualsiasi certezza diviene impos- sibile. « Infatti donde si sa che i pensieri che vengono in sogno sono più falsi degli altri, visto che spesso non sono meno vivi e precisi? E anche se i migliori ingegni vi studino quanto più loro piacerà non credo che pos- sano dare alcuna ragione che sia sufficiente a togliere questo dubbio, se non presuppongono l’esistenza di Dio. Giacché [...] anche quella che io testé ho presa come regola, cioè che le cose che noi concepiamo in modo $ Il criterio di verità proposto da Cartesio suscitò aspre critiche da parte di molti autori, in particolare da parte di Pascal (che lo tacciò di raziona- lismo: «ci sono verità che soltanto il cuore può capire ») e del Vico (che lo accusò di soggettivismo e di superficialità. Al criterio cartesiano del verum est certum il Vico contrappose il suo verum est factum). 375 Dio causa dell’idea di perfezione Prova ontologica dell’esistenza di Dio Dio garante della conoscenza Dio garante della verità Dalla metafisica alla cosmologia chiarissimo e distintissimo sono tutte certe, non è accettata che dal fatio che Dio è o esiste, che Egli è un Essere perfetto e che tutto ciò che è in noi viene da lui » {p. 76) . Funzione psicologica dell’esistenza di Dio Dopo che la conoscenza di Dio e dell'anima l’ha reso certo di questa regola (chiarezza e distinzione), Cartesio dice di poter accettare con indu- bitabilè certezza tutte le altre idee che si presentano col carattere della chiarezza e distinzione, « perché non è possibile che Dio, che è somma- mente perfetto e verace » ce le abbia messe in mente per ingannarci (pp. 77-78).8 QUINTA PARTE VERITÀ DI ORDINE FISICO - NATURA DELL'ANIMA UMANA 1. Il corpo degli animali e dell’uomo Cartesio ora deduce dalle verità metafisiche dimostrate nella quarta parte (Cogito ergo sum, ed esistenza di Dio) alcune verità circa il mondo, adoperando sempre il criterio di verità della chiarezza e distinzione ed ? a) Dimostrazione dell’esistenza di Dio — La più conosciuta delle prove di Cartesio è la terza, che è spesso chiamata argomento ontologico. Si chiama argomento ontologico perché parte dal concetto di Dio per provarne l’esi- stenza. L'argomento ontologico di Cartesio come quello di S. Anselmo (Deus est esse cuius maius concipi nequit) è ritenuto invalido dalla maggior parte dei filosofi, perché l'uomo non ha un'idea adeguata del perfetto, ma solo un concetto negativo, ricavato dalle cose per viam mnegationis et eminentiae. Cartesio però sosteneva che l’idea di perfetto non è ricavata dalle cose, ma è un’idea innata, prodotta da Dio nella nostra mente, perciò capace di rappre- sentare Dio adeguatamente. Le prime due prove sono cogimolo siche, partono cioè da fatti che noi espe- rimentiamo. La prima è un’esemplificazione della prova agostiniana delle verità eterne. b) La natura di Dio — Una delle dottrine più caratteristiche di Cartesio circa la natura divina è quella che riguarda la volontà di Dio. Secondo Car- tesio in Dio non v'è alcuna distinzione tra intelletto e volontà, altrimenti la volontà dovrebbe dipendere dall’intelletto e non sarebbe più libera. La vo- lontà divina invece è assolutamente libera e tutto quello che essa fa è un pro- dotto della sua libertà. La conseguenza più grave di questa dottrina è che anche le verità eterne, per esempio, le verità matematiche, sono creazione della libera volontà di Dio. Esse tuttavia sono eterne e immutabili perché la volontà di Dio è eterna e immutabile. * Il circolo vizioso — Cartesio prima dimostra l’esistenza di Dio valendosi della regola della chiarezza e distinzione; poi dice che il valore di tale regola dipende da Dio. Chi garantisce la chiarezza e distinzione, cioè la verità del mio pensiero? L’esistenza di Dio. Ma chi garantisce l’esistenza di Dio? La chiarezza e distinzione. Si tratta chiaramente di un circolo vizioso. Cartesio ha certato di difendersi da questa accusa sostenendo che la veracità di Dio è invocata solo per dare valore alla memoria. Ma non pare che sia una risposta soddi- sfacente, perché, nella dimostrazione dell’esistenza di Dio, Cartesio deve ap- poggiarsi su vari principi che sono accettati adoperando il criterio della chia- rezza e distinzione (cfr. F. CopLESTONn, History of Philosophy, IV, pp. 105 e ss.; tr. it., Storia della filosofia, 5 voll, Paideia, Brescia). 376 il metodo geometrico. Si tratta però solamente di un riassunto del libro Il mondo o Trattato sulla luce. Le due dottrine più importanti esposte in quel libro sono quella della duce e quella della circolazione del sangue. Esse vengono riportate per esteso nella quinta parte del Discorso sul metodo. Dal punto di vista filo- sofico la cosa più interessante di questa parte è la dottrina della na- tura del corpo animale ed umano. Rispetto al corpo Cartesio afferma che non c'è alcuna differenza tra uomini ed animali: essi sono tutti degli automi o macchine semoventi. Il movimento è causato dagli spiriti ani- mali, « che sono come' un vento sottilissimo o piuttosto come una fiamma purissima e vivissima che, salendo continuamente in grande abbondan- za dal cuore nel cervello, si reca di lì attraverso i nervi nei muscoli e dà il movimento a tutte le membra ». Ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è l'anima. Gli animali non hanno l’anima, nessun’anima; l’uomo invece ha un'anima creata da Dio. In pratica, dato che l’anima è invisibile, l'uomo si distingue dagli animali per due caratteristiche: il linguaggio e la libertà. 1) Gli animali mai potrebbero usare parole né altri segni compo- nendoli come facciamo noi per comunicare agli altri i nostri pensieri (p. 98). 2) Anche se essi facessero parecchie cose bene o forse anche meglio di alcuni di noi, essi « sbaglierebbero infallibilmente in certe altre, me- diante le quali si scoprirebbe che non agiscono iper coscienza, ma solo per disposizione degli organi » (p. 99). 2. Natura dell'anima Al termine della quinta parte Cartesio indica brevemente qual è la natura dell'anima. Essa in nessun modo può essere tratta dalla potenza della materia, così come le altre cose delle quali aveva parlato, ma essa deve espressamente essere creata; e non basta che sia posta nel corpo umano come un pilota nella sua nave, se non forse per muovere le sue membra, ma bisogna che essa sia congiunta ed unita più strettamente con esso per avere, oltre a ciò, sentimenti ed appetiti simili ai nostri e così comporre un vero uomo (pp. 101-102)? ? a) L'universo cartesiano — L'universo cartesiano è costituito da due tipi di realtà profondamente diverse: realtà pensante (res cogitans), e realtà estesa (res extensa). La realtà pensante costituisce il mondo spirituale; quella estesa costituisce il mondo fisico. I due mondi si incontrano nell'uomo, ma senza compenetrarsi: essi si toccano appena nella glandola pineale. b) La definizione di sostanza — Tanto il mondo fisico come quello spi- rituale contengono molte sostanze, ma sono tutte imperfette, perché per esistere dipendono da Dio. L'unica sostanza perfetta è Dio e solo a Lui si può applicare in modo proprio la definizione che Cartesio dà di sostanza: Res quae ita existit ut nulla re alia indigeat ad existendum. c) Il mondo fisico — L'essenza del mondo materiale è l'estensione. Il mo- to dà all’estensione diverse forme. Così dall’estensione, per mezzo del moto, si ottiene l'origine di tutte le cose. Delle varie proprietà che noi attribuiamo alle cose solo quelle primarie (spazio, figura e numero) appartengono effettiva- mente ad esse; quelle secondarie sono dovute ai sensi. (Esempio di un pezzo di cera odorosa colorata messa sul fuoco: l'odore se ne va, il colore cambia... Resta solo qualche cosa che occupa spazio, ha qualche figura ed è capace di essere divisa) (cfr. /I° Meditazione, in Meditazioni filosofiche, Pa- ravia, Milano, p. 30). Nel Metodo questa dottrina è appena accennata (vedi Parte V, p. 83). 377 Meccanicismo e animismo | caratteri peculiari dell’uomo: linguaggio e libertà L’anima espressamente creata e strettamente congiunta al corpo cempone un vero uomo SESTA PARTE RAGIONI DELLA MANCATA PUBBLICAZIONE DE « J{ Mondo » In questa parte Cartesio dà le ragioni che lo hanno portato a differire la pubblicazione de Il Mondo già terminato prima del Discorso. Le ra- gioni principali sono due: timore che il libro potesse essere condannato dalla Chiesa; il fatto che l'opera non era molto progredita e poteva dare origine a molte controversie tra gli scienziati. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE I. Di quante parti si compone il Discorso sul metodo? 2. Cosa intende Cartesio per « buon senso »? 3. Che giudizio dà Cartesio della storia e della teologia? 4. Quali sono le quattro regole del metodo cartesiano? 5. Confronta il metodo di Cartesio con quelli di Aristotele, Galilei, Bacone e Hegel. Quali sono le somiglianze e le differenze? 6. Cosa intende Cartesio per « chiarezza e distinzione »? 7. Il criterio delle idee chiare e distinte che valore ha? 8. Cosa si intende per dubbio metodico? 9. Che differenza passa tra il dubbio metodico e il dubbio scettico? 10. Che cosa sono le idee innate? Quali sono le idee innate secondo Carte- sio? Che differenza c’è tra l'innatismo cartesiano e quello leibniziano? 11. Che funzione svolge il Cogito nel sistema di Cartesio? 12. Qual è la concezione cartesiana dell'uomo? Che rapporti pone Cartesio tra anima e corpo? Paragona la dottrina di Cartesio cor quelle di Platone, Ari- stotele, San Tommaso d'Aquino e Spinoza. 13. Quali sono i quattro argomenti con cui Cartesio prova l'esistenza di Dio? 14. Metti a confronto l'argomento vniologico di Cartesio con quelli di Sant'Anselmo e Leibniz e con la quarta via (quella dei gradi di perfezione) di san Tommaso d'Aquino. 15. Quale considerazione ha Cartesio per îa religione? Pone sullo stesso piano la religione « filosofica » e le varie religioni positive? 16. Quali sono i fondamenti della morale cartesiana? 17. Quale è l'essenza del mondo materiale secondo Cartesio? 18. Tra qualità primarie e secondarie che distinzione pone Cartesio? 19. Quali sono, a parere di Cartesio, gli elementi che distinguono il corpo dell'anima da quelio degli animali? 20. Perché si dice che Cartesio è un razionalista e quali sono i limiti di tale posizione? d) Relazione tra anima e corpo — L'anima muove il corpo mediante la volontà. Il corpo eccita le sensazioni dell'anima mediante gli stimoli mec- canici che arrivano al cervello (glandola pineale). Tuttavia le sensazioni sono atti della sola anima; esse sono innate, sono prodotte dall'anima stessa in cor- rispondenza a quanto avviene nel corpo. e) Facoltà dell'anima — Nelle Meditazioni Cartesio ascrive all'anima tre facoltà: sensazione, immaginazione (fantasia) e ragione. Inoltre divide le idee in tre classi: avventizie (quelle che dipendono dai sensi}; fattizie (quelle che dipendono dalla fantasia); innate (quelle che dipendono esclusivamente dalla ragione). Nei Principi Cartesio ritiene ancora verbalmente le tre facoltà del. l'anima, ma elimina la classificazione delle idee innate, fattizie e avventizie, a favore delle sole idee innate. Così però rende inutili anche due facoltà: la sensazione e l'immaginazione. 378 III. « LA MISSIONE DEL DOTTO » Fichte (Johann Gottlieb, 1762-1814) 1. Origine e importanza dell’opera La missione del dotto (Einige Vorlesungen iiber die Bestimmung des Gelehrten), composto nel 1794, allorché Fichte contava appena 32 anni, è uno dei suoi primi scritti. Fu preceduto soltanto da Kritik aller Offen- barung (1792), un saggio che, pubblicato anonimo, in un primo momento era stato attribuito erroneamente a Kant, ma poi, dopo la smentita e la rettifica di quest’ultimo, aveva fatto segnalare il nome di Fichte all’at- tenzione del mondo filosofico. La missione del dotto occupa un posto di capitale importanza non solo nello sviluppo del pensiero del suo giovane autore, ma.anche nello sviluppo della stessa storia della filosofia, in quanto segna il distacco di Fichte da Kant, e il superamento del criticismo in direzione dell’idealismo. A grandi pennellate Fichte vi traccia tutto il quadro della sua visione idealistica della realtà e vi enuncia chiaramente tutte le tesi fondamentali del suo idealismo: la negazione della cosa in sé, l'affermazione del pri- mato assoluto dell’autocoscienza, la derivazione della realtà materiale dall’Io assoluto come momento dialettico di quest'ultimo, il ruolo essen- ziale della scienza e della filosofia nello sviluppo della storia dell'uma- nità, l'impegno etico, politico e sociale del filosofo. La missione del dotto appartiene ad un gruppo di scritti abbastanza consistente, in cui Fichte si rivolge ad una vasta cerchia di lettori, con intento divulgativo. Di qui il suo stile semplice, chiaro, immediato, fa- cilmente comprensibile anche a studenti di liceo. L'opera comprende cinque lezioni (Voriesungen) che Fichte tenne agli studenti dell’Università di Jena, durante l'estate del 1794, ogni domenica mattina dopo il rito religioso. Gli argomenti trattati nelle cinque lezioni sono i seguenti: 1) la mis- sione dell'uomo in sé; 2) la missione dell'uomo in società; 3) la distin- zione fra gli stati sociali in società; 4) la missione del dotto; 5) critica della tesi di Rousseau circa i rapporti tra cultura e moralità. 379 Questa opera segna il distacco di Fichte da Kant Intento divulgativo dell’opera Senso della struttura dell’opera e il rapporto dotto- società Ciò che è e non è l’uomo Confutazione dei materialismo trascendentale L’uomo come fine a se stesso 2. Divisione e sintesi dell’opera PRIMA LEZIONE LA MISSIONE DELL'UOMO IN SÉ 1. Introduzione Fichte esordisce enunciando il programma delle sue lezioni. Esso comprende quattro argomenti principali: a) la missione dell'uomo consi- derato in se stesso; b) la missione dell'uomo in società; c) la missione del. l'uomo nelle singole classi sociali; d) la missione del dotto. Alla tratta- zione di questi quattro argomenti sono destinate le prime quattro lezioni. :In una quinta lezione esaminerà la teoria del Rousseau circa i rapporti tra cultura e moralità. A giustificazione dell'ordine indicato, che a prima vista potrebbe sem- brare poco opportuno, dato che l'obiettivo primario del breve corso di lezioni è illustrare la vocazione e la missione del dotto (ossia del filosofo), Fichte dice che siccome il dotto è pensabile soltanto in una società, oc- corre anzitutto chiedersi quale sia la missione dell'uomo nella società. E poiché a quest'ultima domanda non si può rispondere, se non si cono- sce qual è la missione dell'uomo in se stesso, è necessario premettere una lezione sullo studio della missione dell’uomo considerato in se stesso, come singolo individuo. Nella parte conclusiva dell’introduzione (pp. 76-77), Fichte mette in risalto l'importanza del suo argomento. Egli afferma che la missione del- l'uomo in generale è il primo problema della filosofia, e la missione del dotto « è l’ultimo problema d'ogni ricerca filosofica ». 2. Natura e missione dell’uomo in se stesso Prima Fichte spiega quello che l’uomo non è, poi quello che è. L'uomo, il suo principio spirituale, non è causato dal Non-io. Il materialismo tra- scendentale, che sostiene il contrario, è falso. Il principio spirituale del- l'uomo è invece causa del Non-io. Però il principio spirituale dell'uomo (l'Io puro) non può esistere senza essere qualche cosa (un Io empirico) e l'Io empirico non può essere qualche cosa senza essere determinato dal Non-io. Conclusione: « Dicendo perciò che si vuol considerare l’uomo in se stesso e isolato, non si vuol intendere di considerarlo [...] semplicemente come Io puro, senza rapporto alcuno con nessuna cosa che sia estranea a questo suo Io puro. S'intenderà soltanto pensarlo fuori di ogni rapporto con esseri ragionevoli simili a lui » (p. 79). Tuttavia la natura dell'uomo appare ben diversa a seconda che si consideri come ragione o come qualche cosa. L'uomo in quanto ragione è fine a se stesso, è indipendente e attivo: è assolutamente, è perché è. L'uomo in quanto è qualche cosa è passivo (senziente) e dipendente, non è fine a se stesso ma ha per fine l’Io puro. Rapporti fra ragione e sensi- bilità: ambedue devono sussistere l'una accanto all'altra. La ragione non dev'essere annullata dalla sensibilità. Ma a sua volta non deve sopprimere quest'ultima. 380 Conclusione: « L'uomo deve essere ciò che è soltanto per questa ra- gione, che egli è. In altri termini tutto ciò che egli è, deve essere riferito al suo Io puro, al suo semplice essere come Io, o Iità. Tutto ciò che egli è, dev'esserlo esclusivamente per questo, che egli è un Io; e ciò che egli non può essere per questa sola ragione, egli non deve assolutamente essere » (pp. 81-82). 3. La legge morale dell’uomo considerato in se stesso Dato che il fine dell'Io empirico è l'Io puro, da questo Fichte deriva le regole della condotta dell'Io empirico. Dalla natura dell'Io puro egli ri- cava la condotta dell'uomo considerato in se stesso e le seguenti leggi: a) L'uomo deve essere sempre uno (coerente) con se stesso, perché l'Io puro è perfetta e assoluta unità. Ossia, l’uomo non deve contraddirsi, non si deve mai lasciar determinare da qualcosa di estraneo, cioè dalle cose esterne, perché nell’Io puro non c'è diversità e perciò non può es- sere determinato da alcuna cosa estranea, ma è sempre uno ed identico con se stesso. In altre parole, che Fichte riprende da ‘Kant, l’uomo deve essere determinato in quel. modo, nel quale avrebbe potuto eternamente essere determinato, cioè senza nessun riguardo per le cose che lo circon- dano nel tempo, perché l'Io puro agisce come se non ci fosse il Non-io. Quindi, « agisci in modo che tu possa pensare la massima della tua volontà come legge eterna per te » (p. 83). b) L'uomo deve cercare di modificare le cose (che nella loro molte- plicità sembrano irriducibili all'unità e all'identità), e portarle ad accor- aarsi con la forma pura dei suo Io. Per questo non basta la sua volontà. Ci vuole anche una certa abilità, e questa si acquista solo con l'esercizio e la cultura. c) L'uomo deve estirpare le cattive inclinazioni, dovute all’influsso delia natura quando la ragione non si era ancora destata. Anche per questo non basta la sola volontà e occorre abilità, e, perciò esercizio e cultura. La cultura « è l’ultimo e più alto mezzo per il fine ultimo del- l'uomo, ossia, la sua perfetta coerenza con se medesimo » (p. 86). 4. Il fine ultimo, il sommo bene, ia perfezione Il fine ultimo dell'uomo, che Kant chiama Sommo Bene, e Fichte preferisce chiamare perfezione, è « la perfetta coerenza dell’uomo con se stesso, e, appunto perché egli possa raggiungere questa coerenza, anche la perfetta coerenza di tutte le cose esterne a lui (con la sua volontà) » (p. 86). Il fine ultimo, considerato come coerenza dell'uomo con se stesso {della sua volontà con la volontà dell'Io puro, cioè del suo vero essere), costituisce il bene morale. Il fine ultimo, considerato come accor- do delle cose fuori di noi con la nostra volontà, costituisce /a felicità. Però, osserva Fichte, l’ultimo fine è qualcosa di assolutamente irraggiun- gibile per l'uomo: è un Sommo Bene, una perfezione che rimarrà eter- namente irraggiungibile. La missione dell'uomo consiste in questo: avvi- cinarsi all'infinito, al suo uliimo fine, perfezionarsi all'infinito. « Egli esi- ste per divenire egli stesso sempre moralmente migliore, e per rendere tutto ciò che trova intorno a. sé riigliore sensibilmente e anche [...] moral. mente; e in questo modo fare se stesso sempre più felice. Questa è la missione dell'uomo in quanto lo si consideri isolato, e cioè senza relazione con nessun essere ragionevole simile a lui » (p. 88). 381 L’io come dover essere dell’uomo L’uomo non deve contraddire la sua identità La cultura come mezzo alla perfetta coerenza dell’uomo a se stesso ll bene morale come perfetta coerenza dell’uomo a se stesso Ls felicità: accordo delle cose fuori di noi con la volontà La missione dell’uomo: perfezionarsi sempre più La società: rapporto reciproco tra gli esseri ragionevoli | due presupposti della società: la presenza di esseri ragionevoli fuori di noi — la possibilità di distinguerli dagli esseri irragionevoli tra coscienza interiore e coscienza esteriore Finalità e libertà: criterio di distinzione degli esseri ragionevoli LEZIONE MISSIONE DELL'UOMO IN SOCIETÀ 1. Introduzione — La soluzione dei problemi filosofici non può essere basata sul buon senso come pretendono i filosofi popolari (Nicolai, Mendelsohn, ecc.), ma su ragionamenti rigorosi. — Scopo della seconda lettura: « stabilire quale sia la missione del- l'uomo nella società » (p. 95). — Definizione di società: « Col termine società intendo designare il rapporto reciproco di esseri ragionevoli tra loro » (p. 96). 2. Esistenza della società Fichte enumera anzitutto le cose che la società presuppone per poter esistere e poi formula i problemi riguardo all'esistenza della società, I presupposti della società sono due: 1) « Che vi siano esseri ragione- voli fuori di noi »; 2) Che « noi li possiamo distinguere da tutti quegli altri esseri che sono invece irragionevoli » (p. 96). Perciò due sono i pro- blemi che riguardano la società: 1) Problema del fondamento razio- nale della credenza nell'esistenza di altri uomini; 2) Problema del criterio per distinguere gli esseri ragionevoli dagli esseri privi di ragione. Quindi Fichte passa a risolvere il problema del fondamento razio- nale della credenza nella esistenza di altri uomini. Scarta anzitutto una soluzione ch'egli giudica errata, quella fondata sulla esperienza. Secondo Fichte tale soluzione è errata per due ragioni: 1) anche i solipsisti (gli egoisti) hanno l’esperienza di altri esseri ragionevoli, ma non credono alla loro esistenza; 2) l'oggetto dell'esperienza è la rappresentazione, non la cosa in sé (vedi pp. 96, 97, pagine chiarissime!). Al posto della soluzione fondata sull'esperienza, Fichte propone una soluzione basata sulla esigenza della esistenza di altri esseri ragio- nevoli perché l'uomo possa raggiungere il suo ideale di perfetta coe- renza con se stesso. L'uomo, argomenta Fichte, non può raggiungere l'ideale della coerenza interiore senza mantenere la coerenza esteriore. Ma, affinché ci sia perfetta coerenza esteriore, per « ciascun concetto che si trova nell’fo, deve trovarsi nel Non-io l'oggetto corrispondente ». Ora « nell'uomo si trova anche il concetto di ragione, e di un agire, e di un pensare alla ragione conforme ». Perciò per tale concetto è necessario che nel Non-io si trovi l'oggetto corrispondente, cioè è necessario che si trovino degli esseri ragionevoli. « Tra le sue esigenze (dell'Io) va anno- verata anche questa: che si trovino, nella realtà a lui esterna, esseri ra- gionevoli simili a lui » (p. 100). 3. Il criterio per distinguere gli esseri ragionevoli dagli esseri privi di ragione. Il criterio è duplice: finalità e libertà. Quello della finalità, da solo, è insufficiente e va integrato con quello della libertà. Primo criterio: finalità — « Il primo carattere che subito ci si presenta per riconoscere la ragionevolezza è quello della finalità ». Infatti, « tutto ciò che porta impresso il carattere della finalità può avere un autore ra- gionevole » (ib.). Però la finalità è un criterio insufficiente perché è equi- 382 voco. « L’unificazione del molteplice in un tutto coerente è certo carattere della finalità ma vi sono parecchie specie di unificazioni consimili che si lasciano spiegare con semplici leggi naturali (non certo meccaniche, ma organiche) (pp. 101-102) ». Dove c’è ordine, c'è finalità. Ma l'ordine può avere cause naturali. Secondo criterio: libertà — Questo è un criterio sicuro: « qualsiasi unificazione di un molteplice in un tutto coerente, la quale fosse operata mediante la libertà sarebbe una caratteristica sicura e non equivoca, che il fenomeno stesso ci offrirebbe della ragionevolezza » in quanto « la na- tura anche là dove opera secondo fini, opera però secondo leggi neces- sarie; la ragione invece opera sempre con libertà » (p. 102). Ma, in pratica, è possibile distinguere se un effetto si produce per mezzo della necessità o per mezzo della libertà? A questa difficoltà Fichte risponde che non è possibile avere esperienza della libertà perché la libertà è presupposta a qualsiasi esperienza. Si può avere esperienza del- l'assenza di costrizione e « questa non consapevolezza di una cosa esterna si potrebbe anche chiamare consapevolezza della libertà » (p. 103). Per- tanto, ogni volta che per una azione io non conosca altra causa, non riesca anzi a supporne nessuna ali'infuori di una volontà libera, che si decida per motivi ragionevoli corrispondenti a quelli che hanno guidato la mia volontà libera, allora :potrò concludere con certezza che si tratta di un'azione prodotta da un essere ragionevole come me, 4. Società e Stato Secondo Fichte, tra società e Stato vi è differenza profonda. Lo Stato è qualcosa di contingente e transitorio mentre la società è qualcosa di necessario e permanente. Quindi «la vita nello Stato... non può dirsi uno dei fini dell'uomo. Essa è piuttosto un mezzo... per la fonda- zione di una perfetta società » (pp. 105-106). Quando si arriverà alla costituzione di una società perfetta allora «saranno divenuti superflui tutti quei vincoli i quali costituiscono lo Stato » (p. 106). 5. Fine e missione della società La società è fine a se stessa (p. 107). Però più avanti (cfr. p. 113), riprendendo lo stesso tema, Fichte dirà che « l’ultimo e più alto fine della società è la totale unificazione e concordia di tutti i possibili suci membri ». La missione della società è il perfezionamento della specie umana per rendere sempre più vicino l'ideale della unificazione. Questo progressivo perfezionamento è inevitabile. Infatti, « ciascun individuo ha il suo proprio ideale dell’uomo in genere; tutti questi ideali sono di- versi non per materia, ma per grado. E ciascun individuo valuta ogni altro, che egli riconosca conìe uomo, secondo il proprio ideale dell'uomo. Ciascuno desidera in virtù di quella aspirazione fondamentale di trovare ogni individuo simile al proprio ideale dell'uomo; lo mette alla prova perciò e lo esperimenta in tutti i modi. Nel caso poi che lo irovi inferiore a quell’ideale cerca di sollevarlo alla medesima altezza. in questa iotta tra spirito e spirito vince sempre colui che è uomo in senso migliore e più elevato » {p-p. 107-108). Con- clusione: « L'uomo [...] ha la missione di vivere per la società [...]. Questa missione per la società in generale è [...], tuttavia, in quanto mero im- 383 La ragione opera secondo libertà Volontà libera: causa dell’azione dell’essere ragionevole Stato, mezzo per giungere ad una società perfetta Missione della società: perfezionamento della specie umana Rapporto tra morale sociale e morale individuale Coordinazione delle volontà Unità perfetta degli uomini come dell’uomo pulso, subordinata a quella legge più alta della stabile coerenza con noi stessi » (p. 109). 6. La morale sociale fondamentale è la coerenza dell’uomo con se stesso. Da questa legge su- prema della morale individuale Fichte deduce le seguenti leggi della morale sociale: a) L'impulso alla socievolezza non deve entrare in contraddizione con se stesso. Questo accadrebbe se l'uomo trattasse gli esseri ragione- voli da schiavi. Infatti la ragionevolezza consiste nella relazione reciproca, e quindi l'impulso alla socievolezza è rivolto alla relazione reciproca. Ma se ci comportiamo verso gli altri uomini da padroni « mettiamo il nostro impulso alla socievolezza in contraddizione con se medesimo » (p. 110). Quindi la nostra condotta non deve mirare alla subordinazione degli altri, ma alla coordinazione della nostra volontà con quella dei no- stri simili. « Chiunque si ritiene padrone degli altri uomini è egli stesso uno schiavo » (p. III). b) Non adoperare mai gli altri esseri ragionevoli come mezzi per i propri fini. « È lecito all'uomo usare le cose irragionevoli come mezzi per i suoi fini; ma non gli è lecito agire nello stesso modo con gli esseri ragionevoli » (p. III). c) Adoperarsi perché tutti gli altri uomini raggiungano l’ideale della perfezione. 7. Il fine ultimo e la missione dell'uomo nella società Il fine ultimo dell’uomo in quanto essere socievole è l’unità perfetta’ con gli altri individui. Però anche questo fine, come anche quello della perfetta coerenza con se stesso, è irraggiungibile. « Se tutti gli uomini potessero diventare perfetti e raggiungere così il loro più alto e supremo fine, essi sarebbero allora totalmente simili l'uno all’altro; formerebbero anzi un solo essere, un solo soggetto », cesserebbero di essere uomini per essere Dio (p. 113). La missione dell'uomo in società è il progressivo avvicinamento al- l'ideale dell'unità. Fichte chiama questo indefinitivo avvicinamento uni. ficazione. 8. L'educazione alla socievolezza Per realizzare la missione dell’unificazione occorre una duplice abi- lità: abilità nel dare ossia nell’agire sugli altri in quanto esseri liberi; abilità nel ricevere. LA DISTINZIONE TRA GLI STATI SOCIALI 1. Introduzione Dopo aver studiato la missione dell’uomo in se stesso e nella società, Fichte dovrebbe ora passare allo studio della missione del dotto. Però, 384 poiché il dotto non è solo uno dei membri della società, ma è altresì un membro di un determinato stato sociale, Fichte deve premettere allo. studio della missione del dotto, lo studio dell'origine della diseguaglianza tra gli uomini, che è il presupposto della distinzione tra gli stati sociali. 2. La diseguaglianza tra gli uomini Nella lezione precedente Fichte ha mostrato l’esistenza di fatto della molteplicità degli esseri ragionevoli, ma non la possibilità di tale fatto. Ora, nella terza lezione, egli mostra che la molteplicità e la diversità degli Io empirici si fonda, in ultima analisi, sull'influsso che il Non-Io finito esercita sopra gli esseri ragionevoli finiti: « Il Non-Io, come quel fonda- mento dell'esperienza che è indipendente da noi, e che può anche chia- marsi natura, è molteplice; nessuna sua parte è perfettamente simile a nessun'altra [...]. Quelle parti diverse agiranno perciò sullo spirito umano in modo diversissimo e non potranno mai sviluppare in egual modo le capacità e le disposizioni. Da questi diversi modi di agire della natura nascono gli individui, e vien formata quel che in ciascuno di essi so- gliamo chiamare la loro semplice natura empirica individuale » (p. 126). Si tratta perciò di una diseguaglianza inevitabile: 1) perché non dipende dalla nostra volontà essendo causata dal Non-Io; 2) perché l'ideale della coerenza, il quale, come s'è visto, riporterebbè gli esseri ragionevoli all'unità, è irraggiungibile. Tuttavia mediante la socievolezza si deve fare tutto il possibile per ridurre le diseguaglianze ed eliminare le differenze. « E qui si presenta l'efficacia dell'impulso alla socievolezza, il quale è diretto al medesimo fine e diventa mezzo per quell’avvicinamento all'infinito che la legge da noi pretende ». L'impulso alla socievolezza comprende sia l'impulso alla partecipazione, cioè l'impulso a dare, sia l'impulso a ricevere (pp. 128-129). Conclusione: « Così, per opera della ragione e della libertà viene corretto l'errore che la natura ha commesso » (p. 129). « La ragione si tro- va impegnata in una lotta senza tregua con la natura; né questa guerra potrà mai avere termine, se pure non dovremo diventare iddii. Tuttavia potrà e dovrà diventare sempre più debole l'influsso della natura e sem- pre più forte invece quello della ragione » (pp. 130-131). Questa lotta con- tro la natura fa nascere una nuova solidarietà tra gli uomini e li stringe assieme come a formare un nuovo corpo (p. 131). 3. La scelta dello stato [La natura fornisce ogni uomo di particolari impulsi, o attitudini. Si sceglie uno stato quando si sceglie di sviluppare una certa attitudine. Facendo questa scelta « io stabilisco una volta per tutte di non tener più conto da allora in poi di certe opportunità che la natura forse potrebbe fornirmi, e di applicare invece esclusivamente tutte le forze e le qualità naturali allo sviluppo di una sola, o magari di parecchie, ma sempre ben determinate attività » (p. 133). 4. La scelta dello stato non è obbligatoria, ma jibera La scelta dello stato non è obbligatoria, ma libera perché se fosse ob- bligatoria, allora dovrebbe essere possibile « dedurre dalla suprema 385 Molteplicità e diversità degli ‘‘lo’’ fondate sul “non-lo”’ Gli individui originati dai diversi modi di agire della natura La socievolezza come riduzione Libertà e ragione in lotta contro l’errore della natura Scelta di uno stato di vivere e sviluppo di determinate attitudini Scelta nella libertà Scelta di uno stato: atto di libertà e restituzione alla società di quanto Partecipazione al perfezionamento dell'umanità e immortalità legge razionale l'impulso il quale spinga alla scelta di uno stato allo stes- so modo con cui abbiamo dedotto riguardo alla società un impulso ana- logo ». Ma la legge suprema dice soltanto: « Educa tutte le tue attitudini completamente ed uniformemente per quanto ti è possibile. Essa non arriva a determinare se io debba esercitare quelle mie attitudini imme- diatamente sulla natura o solo attraverso la mediazione degli altri uo- mini: la scelta perciò si trova, a questo riguardo, interamente lasciata alla mia prudenza » (pp. 134-135). « La legge non vieta di scegliere uno stato; neanche però comanda [...]. Mi trovo sul terreno del libero arbitrio: mi è semplicemente lecito di scegliere uno stato » (p. 135). Tuttavia la scelta dello stato è consigliabile perché ogni uomo ha il dovere di restituire alla società quanto ha da essa ricevuto. Questo è facile se si sceglie uno stato. Nessuno ha diritto di lavorare per la propria soddisfazione soltanto. « Questo non è lecito. Egli deve almeno sforzarsi di pagare alla società il suo debito; deve occupare il proprio posto; deve fare almeno ogni tentativo per elevare in qualche modo il grado di perfezione della specie che tanto ha lavorato per lui » (p. 136). Per raggiungere questo fine, due vie gli si aprono davanti: o cercherà di elaborare la natura in ogni sua parte, ma questa è un'impresa impos- sibile. Oppure affronterà solo una porzione determinata della natura: quella della quale gli sia forse più accessibile tutta la elaborazione prece- dentemente compiuta, quella per la elaborazione della quale egli forse dalla natura e dalla società fu già nel tempo anteriore specialmente for- mato. Questa seconda via è senz'altro la migliore. Quando uno si dedica a questa speciale porzione, egli ha scelto il proprio stato. Conclusione: « La scelta di uno stato è una scelta per mezzo della libertà; perciò nessuno deve essere costretto ad abbracciare uno stato, come nessuno deve essere escluso da uno stato. È però una scelta consi- gliabile perché la particolare abilità che uno ha è in un certo senso un prodotto, un legittimo possesso della società, e ognuno ha il dovere di restituire alla società quello che da essa ha ricevuto secondo le proprie possibilità ». 5. La partecipazione al perfezionamento dell'umanità assicura come premio l'immortalità Qualcuno si chiederà: che vantaggio ha l'individuo a lavorare per il perfezionamento dell'umanità? Secondo Fichte ha due vantaggi: è di utilità agli altri: «il felice pro- gresso di un membro è infatti non meno felice progresso degli altri » (p. 140); è di utilità a se stesso: si assicura infatti l'immortalità. Ogni uomo è « un anello necessario della catena, la quale dalla generazione del primo uomo, avanza verso la piena consapevolezza della sua propria esi- stenza nell’eternità » (p. 140). Ogni uomo può avvicinare di più alla sua perfezione quel tempio di- vino che i suoi predecessori furono costretti a lasciare interrotto. È vero che ogni individuo morirà. Ma se egli partecipa a questa sublime im- presa non si estinguerà completamente, perché la morte non può inter- rompere la sua opera, giacché la sua opera, mentre deve essere terminata, non può essere terminata nel tempo. Egli è eterno. LA MISSIONE DEL DOTTO 1. Introduzione È ora necessario passare a parlare della missione del dotto, « una missione molto onorevole, molto elevata, nettamente superiore a quella degli altri stati » (p. 148). Forse, il fatto che sia un dotto innanzi a dotti in via di formazione, a parlare della missione del dotto, potrebbe causare imbarazzo (timore di offendere gli altri stati, di apparire superbo ecc.). Ma se questo ci trattenesse dal nostro compito, peccheremmo di falsa modestia. Non c'è infatti nessun pericolo di insuperbirsi, né di offendere gli altri se l'esposizione della missione del dotto viene fatta in modo oggettivo e si tiene presente che « non lo stato, ma la degna afferma- zione di esso, nobilita l’individuo ». Non lo stato, ma il perfetto compimento del proprio dovere è quello che importa. Dopo questo preambolo Fichte mostra la necessità di uno stato speciale, d'una professione particolare, quella del dotto, muovendo dalla definizione di società perfetta. A suo giudizio è perfetta quella so- cietà in cui si è provveduto « allo sviluppo e alla soddisfazione di tutti i bisogni, e anzi al loro uguale sviluppo e alla loro uguale soddisfazione » {p. 151). Questo non è possibile senza la professione del dotto. 2. La società perfetta richiede lo stato (la professione) del dotto La società perfetta ha bisogno di tre cose cui può provvedere una sola professione, quella del dotto: 1) Perfetta conoscenza dell'uomo nella sua interezza, delle sue atti- tudini, di tutti i suoi impulsi e bisogni (perché senza tale conoscenza è im- possibile provvedere allo sviluppo uguale di tutte le attitudini). Questo è l'oggetto della filosofia. 2) Conoscenza dei mezzi per sviluppare Ie attitudini e soddisfare i bisogni (perché la semplice conoscenza delle attitudini e dei bisogni, senza la conoscenza dei mezzi sarebbe vuota e inutilissima). « Con quella conoscenza dei bisogni deve dunque andare unita la conoscenza dei mezzi per soddisfarli; e questa conoscenza dovrà legittimamente essere posse- duta dal medesimo stato sociale, dato che una conoscenza senza l’altra non può mai arrivare ad essere perfetta, né tanto meno viva ed efficace » (p. 153). La conoscenza dei mezzi è l'oggetto della scienza filosofico- storica. 3) Conoscenza del grado di cultura in cui si trova in un determinato momento storico una società e quale grado essa dovrà raggiungere per primo partendo da quello che ora occupa; e infine di quali mezzi essa possa disporre per questo fine. Questo è l'oggetto della scienza storica. Conclusione: «La sintesi di queste tre forme di conoscenza costi- tuisce quella che si chiama, o almeno ciò che esclusivamente dovrebbe chiamarsi dottrina » (pp. 154-155), e lo stato di coloro che si dedicano allo studio della dottrina, si dovrebbe chiamare stato (o professione) dei dotti. 3. Definizione del dotto « Dotto si chiama colui che all'acquisto di tali conoscenze (filosofica, filosofico-storica e storica) dedica la sua vita» (p. 155). 387 Lo stato del dotto e la società perfetta La missione del dotto e la dottrina: — filosofia — scienza filosotico- storica - — scienza storica Il dotto e le sue regole di vita: elevare il grado delle scienze; agire con piena moralità; sviluppo della socialità; essere maestro dell'umanità; essere guida nelle circostanze particolari; essere modello eccellente II dotto sacerdote della verità 4. La missione del dotto « Così ci si rivela finalmente la vera missione dello stato dei dotti; tale missione consiste nella suprema vigilanza sopra il progresso reale della stirpe umana in genere e nell'attività continuamente diretta a promuovere questo progresso » (p. 155), specialmente il progresso delle scienze: infatti « dal progresso delle scienze dipende in modo immediato il progresso del genere umano. Chi ferma quello, ferma questo » (p. 156). 5. La morale del dotto (La morale professionale) Le principali leggi che regolano la vita del dotto sono le seguenti: — « Sforzarsi per portare a un grado più elevato le scienze, e in parti- colare quel ramo della scienza che egli ha prescelto », altrimenti il dotto si mette in contraddizione con la sua missione che consiste appunto nel promuovere il progresso delle scienze. Questa legge è dedotta dalla suprema legge della morale individuale (non-contraddizione, unità- coerenza). — Nella propria attività non deve adoperare mai mezzi che non siano perfettamente morali; il dotto non cadrà mai nella tentazione di far ac- cettare agli uomini le convinzioni proprie con mezzi coercitivi, con l'uso della violenza fisica. Questa legge è dedotta dalla suprema legge della morale sociale (coordinazione e non-subordinazione). — « Sviluppare in se stesso quanto più gli è possibile le disposizioni socievoli, la capacità di ricevere e quella di comunicare » (p. 160), perché il dotto è destinato alla società, « esiste in virtù della società e per il vantaggio della società » (ib.). Questa legge è dedotta dalla missione del- l'uomo nella società (che consiste nel perfezionamento della società attra- verso la politica del dare e del ricevere). — « Deve portare gli uomini alla consapevolezza dei loro bisogni, alla conoscenza dei mezzi atti a soddisfarli » (p. 161). È possibile attuare que- sta legge? Sì, perché gli uomini hanno fiducia nella dottrina e abilità degli altri; inoltre tutti gli uomini hanno un certo senso di verità. Da questa legge il dotto è costituito maestro dell'umanità. Si può dunque affermare che il dotto, secondo quel concetto di lui che finora è stato sviluppato, è per la sua missione stessa maestro dell'umanità. — « Il dotto non deve soltanto istruire gli uomini sopra i loro bisogni e sopra i mezzi necessari per soddisfarli in generale. Deve anche guidarli, in particolare, in un determinato tempo e in un determinato luogo, a prendere coscienza dei bisogni che si presentano in quelle particolari circostanze e a scoprire quei mezzi particolari che servono per raggiun- gere i fini in certo modo imposti dalla situazione presente » (p. 163). Da questa legge il dotto è costituito educatore (guida) dell'umanità. — Il dotto infine deve dare buon esempio, deve essere un modello perché il dotto « deve essere l'uomo moralmente migliore della sua età » {p. 167). Da questa legge il dotto è costituito modello dell'umanità. Conclusione: Fichte conclude la quarta lezione col seguente pane- girico sulla missione del dotto: « Questo è l'ufficio a cui sono chiamato, a rendere testimonianza della verità. Nulla importano [...] la mia vita e la mia sorte, ma l'ufficio che io compio ha un'importanza infinita. Io sono un Sacerdote della verità. Appartengo alla sua milizia; ad essa ho prestato giuramento di fare, di osare, di soffrire tutto fedelmente per lei! » (p. 168). 388 QUINTA LEZIONE (CRITICA DELLE AFFERMAZIONI DI ROUSSEAU ÌNTORNO ALL'INFLUSSO DELLE ARTI E DELLE SCIENZE SOPRA LA FELICITÀ DELL'UOMO 1. ìntroduzione ‘Per la scoperta della verità, dice Fichte, la confutazione degli errori opposti non è di considerevole importanza. La critica degli errori, però, è sempre di grande utilità per mettere meglio a fuoco la verità già sco- perta: « Il confronto della verità con gli errori costringe ciascuno di noi ad osservare i caratteri distintivi dell'una rispetto agli aitri; e ci conduce a formare un concetto più perspicuo e meglio definito della verità stessa » (p. 136). 2. L'errore di Rousseau Secondo Rousseau il fine dell'uomo è raggiungibile solo nello stato di natura. La civiltà, la cultura (lo stato dei dotti) « costituiscono se- condo lui la sorgente e nello stesso tempo la espressione più completa della corruzione umana » (p. 177). Questo è in diretta e completa con- traddizione con tutto l'insegnamento di Fichte, che « ha riposto la mis- sione della umanità nel progresso continuo della cultura e nello sviluppo parallelo e continuo di tutte le sue attitudini e dì tutti i suoi bisogni » (p. 177). 3. Critica dell'errore di Rousseau Fichte fa dell'errore di Rousseau una duplice critica. Anzitutto egli rileva che, nonostante la sua dottrina secondo cui la felicità è raggiungibile solo nello stato di natura, Rousseau ha educato le proprie attitudini in un grado molto raffinato; e coll'educazione che ha ricevuto da questo alto grado di cultura egli si adopera quanto può a convincere l'umanità della giustezza delle sue affermazioni. Quindi, « le sue azioni contraddicono in modo flagrante i suoi principi ». Poi, fichte svolge una critica molto dettagliata della dottrina di Rousseau. Gli argomenti principali sono i seguenti: — La dottrina di Rousseau non è dedotta « per via meramente razio- cinativa, da un principio più fondamentale ». Infatti « su nessuna que- stione il Rousseau ha approfondito la sua ricerca fino a raggiungere gli ultimi fondamenti di tutto il sapere umano » (pp. 178-180). — Tutto quello che dice Rousseau si fonda sul sentimento e non sulla ragione e quella del sentimento è una conoscenza malsicura, in cui il vero si trova commisto al falso, « perché ogni giudizio fondato sul sen- timento greggio e immediato presenta come equivalenti cose che non sono punto tali » (p. 180). — Tuttavia la deduzione delle conseguenze non viene fatto da Rous- seau secondo le leggi del sentimento, ma secondo quelle della ragione: « Se egli avesse lasciato al sentimento un influsso anche sulla deduzione delle conseguenze, il sentimento l'avrebbe poi riportato sulla strada giu- sta, dalla quale prima l’aveva sviato » (p. 181). — La dottrina di Rousseau anziché avere una base razionale ha una motivazione psicologica: la constatazione che il suo alto ideale del dotto 389 Confutazione degli errori e focalizzazione delle verità scoperte Critica a Rousseau: — non raggiunge i fondamenti primi del sapere — deduce secondo le leggi della ragione e nor del sentimento La dottrina dello stato di natura ha conseguenze disastrose Due incompatibilità:stato di natura e indipendenza dai Bisogni Con il ‘’non-lo’’ si ha l’ideale di perfetta coerenza Rousseau: energia gel sopportare, fiuttosto che energia dell’agire non trovava alcuna attuazione nella realtà tra i suoi contemporanei; an- zi, i dotti del suo tempo mettevano il loro ingegno a servizio dei soldi, degli onori, e delle ricchezze, e cercavano di far passare come virtù la corruzione degli uomini. Questa dolorosa constatazione spiega la sua avversione per la cultura e il suo odio per l'umanità (pp. 180-185). « Ecco donde sorge nel Rousseau l'aspirazione allo stato di natura. Nello stato di natura, così come egli lo intendeva, le attitudini proprie della umanità non dovrebbero ancora essersi sviluppate; non dovrebbero anzi nep- pure essersi manifestate. L'uomo non dovrebbe avere nessun bisogno oltre a quello della sua natura animale; dovrebbe vivere come le bestie vivono nei campi sotto i suoi occhi. E certamente in uno stato simile non troverebbe posto nessuno di quei vizi che avevano acceso l'ira del Rousseau. L'uomo, in quello stato, mangerà quando avrà fame e berrà quando avrà sete. Una volta saziato non avrà nessun interesse a pri- vare gli altri di quel nutrimento che egli non può in quel momento utiliz- zare » (p. 186). — La dottrina dello stato di natura come stato ideale è inaccettabile per le sue disastrose conseguenze. « Certo il vizio viene in questo staio di- strutto totalmente, ma col vizio viene distrutta la virtù e senz'altro la ragione. L'uomo diventa allora un animale » (p. 187). — Lo stato di natura rende impossibile il conseguimento del fine che Rousseau si propone, quello di « riflettere sopra la sua missione e sopra i suoi doveri per poter così nobilitare se stesso e i suoi fratelli in uma- nità » (p. 189). — Rousseau vuole due cose incompatibili: a) il ritorno allo stato di natura; b) l'indipendenza dell'uomo dai bisogni della sensibilità. Queste due cose sono incompatibili perché si trovano in proporzione inversa. Infatti, «quanto più la ragione estenderà il suo dominio, tanto meno l'uomo avrà di bisogno » (p. 190). — ‘Rousseau si raffigura come qualche cosa che noi siamo già stati quello che invece dobbiamo diventare; si rappresenta il fine che noi dob- biamo raggiungere corne qualche cosa che noi abbiamo perduto (p. 191). — Rousseau dimentica che l'umanità si può, anzi si deve avvicinare a questo stato soltanto attraverso la sollecitudine, la fatica, il lavoro. È attraverso la progressiva, laboriosa conquista del Non-io (natura) che l’uomo realizza il suo ideale di perfetta coerenza, «l'aspirazione di essere simile a Dio » (p. 192). Ma l'uomo è, quanto alla sua natura, pigro e inerte. Ecco come nasce la dura battaglia tra il bisogno e la pigrizia naturale; il primo vince, ma la seconda si lagna amaramente, non il biso- gno è l'origine del vizio; il bisogno è invece lo stimolo che spinge alla attivita e alla virtù. L'origine del vizio è nell'inerzia naturale. « Non v'è per l'uomo nessuna salvezza, finché questa sua inerzia naturale non sia stata combattuta e sconfitta; finché l'uomo non riponga nell'attività, e soltanto nell'attività, tutte le sue gioie e tutto il suo piacere » (pp. 192-193). — «In definitiva lo sbaglio di Rousseau è il seguente: aveva anche lui urna certa energia, ma era piuttosto l'energia del sopportare che non l'energia dell'agire (l'energia di piangere invece di operare). Egli è l'uomo della sensibilità sempre sofferente, ma non è nello stesso tempo l’uomo dell’attività in lotta. « La lotta della ragione contro le passioni, la vittoria strappata a poco a poco [...] tutto questo egli lo nasconde ai nostri oc- chi » (p. 195). 390 Conclusione: Fichte conclude la quinta lezione con una infuocata esortazione a fuggire l'esempio di Rousseau: « Agire! agire ancora. Questa è Ja ragione per la quale noi esistiamo » {D. 196). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Per chi fu scritto La missione del dotto? 2. Quante e quali sono le parti di La missione del dotto? 3. Con quali argomenti Fichte respinge il materialismo e fonda l'idealismo? . Tra Io-puro e Io-empirico che rapporti pone Fichte? Confronta la dot- trina fichtiana con quelle di Schelling e Hegel. 5. Che cos'è il non-Io? Che atteggiamento assume Fichte nei confronti del non-Io? Metti a confronto il pensiero di Fichte su questo punto cor quello di Spinoza. 6. Quali sono secondo Fichte gli elementi caratteristici, essenziali del. l’uomo? 7. A parere di Fichte, è possibile esperire la libertà degli aitri? 8. Da che cosa deduce la necessità degli stati sociali, ossia delle vatie pro- fessioni? Confronta la dottrina fichtiana sull'origine della società con guelie di Aristotele, Hobbes, Spinoza, Rot:sseau. 9. Su che cosa fonda Fichte il progresso deila società? 40. Cosa intende Fichte per scienza filosofica, filoscfico-storica e storica? Cosa insegna sullo stesso argomento nelle altre opere? 11. Chi è il dotto e quali sono i suoi compiti? 12. Quali sono le principali leggi dell'etica individuale, sociale e professio» nale? Confronta i principi etici di Fichte con: quelli di Kant. 13. Secondo Fichte a quale immortalità può aspirare l'individuo? Può spe- rare nell'immortalità individuale? Paragona la dottrina jichtiana sull’immor- talità con quelle di Platone, Spinoza e Kant. 14. Quali sono le critiche più acute che Fichte muove a Rottsseati? LS 391 Rivoluzioni e trasformazioni socio- politiche agli inizi del XIX secolo L’opera nasce in occasione del primo Congresso internazionale della ‘Lega dei Giusti” (1847) Engels invita Marx a formulare l’opera come un catechismo IV. il « MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA » K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820- 1895) 1. Origine dell’opera Quando nel 1848, Marx e Engels scrissero il Manifesto tutta l'Europa sì trovava in stato di agitazione: una nuova ondata rivoluzionaria la scuoteva da capo a piedi dopo quelle del 1789, del 1821 e del 1830. In conseguenza delle precedeni rivoluzioni le strutture politiche della società avevano già subito profonde trasformazioni: in varie nazioni l'assolutismo aveva dovuto cedere il posto al parlamentarismo e alla de- mocrazia e quasi ovunque l'aristocrazia era stata soppiantata dalla bor- ghesia. Solo il proletariato continuava ad essere oppresso e sfruttato come per il passato, anzi più ancora che nel passato. In effetti verso la metà dell'Ottocento !e sue condizioni di sfruttamento e asservimento avevano toccato il punto estremo. Ma l'atmosfera rivoluzionaria che stava attraversando l'Europa fece credere a Marx e a Engels che l'ora fosse propizia anche per la libera- zione del proletariato, mediante la soppressione del capitalismo e l’avven- to del comunismo. Essi erano del parere che « la rivoluzione borghese in Germania, compiendosi in condizioni di grande progresso della civiltà europea e con un proletariato più progredito che non ci fosse stato nella rivoluzione inglese e francese, avrebbe rapidamente preparato la rivo- luzione proletaria » (E. Cantimori Mazzomonti), la quale si sarebbe conclusa con la conquista del potere da parte della classe operaia. La circostanza storica immediata che indusse Marx e Engels a com- porre il Manifesto fu il primo congresso internazionale della Lega dei giusti (un movimento operaio d'origine inglese, ma che contava seguaci in tutta l'Europa) ai primi di giugno del 1847. In quella occasione, Engels aveva proposto di cambiare la denominazione della Lega in « Lega dei comunisti ». Il suo suggerimento venrie accolto. Presidente della nuova comunità di Bruxelles fu eletto Karl Marx. Nella seconda metà di ottobre Marx fu invitato a partecipare personalmente al secondo congresso, nel quale sarebbe stata discussa anche la professione di fede politica della Lega. Di questa professione di fede, nei mesi che intercorsero ira i due ‘congressi si occupò soprattutto Engels, ma senza poriare a compimento la stesura del saggio. Poco prima della partenza per il congresso egli scriveva a Marx: « Pensaci un po’ tu alla professione di fede. Credo sia la miglior cosa abbandonare la forma di catechismo e intitolare la cosa: Manifesto comunista ». Verso la fine di novembre Marx raggiunse Engels a Londra per partecipare al secondo congresso della Lega. { principi pro- grammatici e tattici suoi e di Engels furono accettati, e il congresso in- caricò entrambi di stendere il Manifesto. Appena tornato a Bruxelles e cioè a metà dicembre del 1847, Marx si mise al lavoro. Verso la fine di gennaio il manoscritto era pronto e fu spedito a Londra. La stampa del 392 Manifesto si protrasse per quasi tutto il mese di febbraio. Pochi giorni prima dello scoppio della rivoluzione, il Manifesto del partito comunista uscì dalla stamperia di J.E. Burghard, in Londra, in 30 pagine di formato 8°. Sul frontespizio non figura nessuna indicazione dei nomi degli au- tori: solo il titolo, l’indicazione « febbraio 1848 » e il motto: « Proletari di tutto il mondo unitevi ». Il Manifesto, come del resto tutti gli altri scritti di Marx e Engels, ebbe poca diffusione e poca influenza in questi anni; cominciò a esser largamente letto, diffuso e tradotto solo dal 1870 in poi. 2. Divisione e sintesi dell’opera Il Manifesto si articola in quattro parti, precedute da una breve in- troduzione. Le quattro parti portano i titoli seguenti: 1) Borghesi e pro- letari; 2) Proletari e comunisti; 3) Letteratura socialista e comunista; 4) Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione. INTRODUZIONE :Nell’Introduzione Marx e Engels tratteggiano con brevi ma vigorose pennellate la situazione di guerra ingaggiata dalla « vecchia Europa » contro il comunismo. Contro questo sono scesi in campo « papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi » (p. 51). Ma la lotta, argomentano gli autori, è anche un indizio positivo: si- gnifica che « il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte Je potenze europee » (p. 52). Perciò, concludono Marx e Engels, « è ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito sîesso » (p. 52). PRIMA PARTE BORGHESI E PROLETARI In questa parte Marx e Engels enunciano i principi fondamentali della loro concezione della storia, una concezione in cui si assegna il primato assoluto alle strutture economiche; espongono la storia della borghesia e del proletariato; e, infine, mostrano che i tempi sono ormai maturi per l'abbattimento della borghesia e ia conquista del potere da parte del proletariato. JI punti più salienti della loro trattazione sono i seguenti: 1) La storia dell'umanità concepita come storia di lotte di classe. Muovendo dal postulato secondo cui « la storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi » (p. 54), e valendosi di tale postulato quale principio ermeneutico per ia comprensione delle vicende storiche, Marx e Engels ricostruiscono schematicamente la storia dell'umanità come una sequenza ininterrotta di antagonismi tra le classi 393 Prima edizione a Londra Nella ‘‘vecchia Europa’’ i nemici del comunismo Storia della borghesia e del proletariato La storia dell'umanità come di lotta tra le classi sociali politico e potere economico La concezione Qorghese dell’uomo la dignità deila persona Trasformazione sociale e irasformazione economica La sovrapproduzione la causa delîa crisi della borghesia il proletariato è una creazione del di classe e prospettiva : in Grecia tra liberi e schiavi, a Roma tra patrizi e plebei, nel Medioevo tra feudatari e servi della gleba, nell'epoca moderna tra borghesia e proletariato {pp. 54-55). 2) Storia della formazione della borghesia: i suoi inizi sono fatti risa- lire aila fine del Medioevo (pp. 55-56). Coincidenza dell’accrescimento del potere politico cella borghesia con l'aumento del suo potere econo- mico. Così alla fine dello sviluppo della classe borghese « dopo la crea- delle grandi industrie e del mercato mondiale, la borghesia si è con- quistata il dominio politico esclusivo nello Stato rappresentativo mo- derno. TI potere stataie moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta ia classe borghese » (p. 57). Anche la borghesia come qualsiasi altra classe sociale è salita al potere con la lotta, la rivoluzione (pp. 57-58). 3) Le aberrazioni della concezione borghese dell’uomo e della società: nella concezione borghese sono stravolti ia dignità personale, la libertà de} singolo (p. 58), il significato delle professioni, i rapporti familiari so- ciali e nazionali (pp. 59-62). 4) Il dinamismo di trasformazicne della società: un tipo di società si qualifica in forza dei rapporti economici esistenti tra i suoi membri, ossia secondo la distribuzione dei inezzi di produzione. Una società si trasforma allorché i rapporti economici subiscono un cambiamento so- stanziale. Così, alla società feudale è subentrata la società borghese allorché, «a un certo grado di sviluppo dei mezzi di produzione e di scambic, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scam- biava, l'organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in aitrettante ‘catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate. Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e ‘politico della classe borghese » (pp. 62-63). 5) Crisi della società borghese: « La società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, ras- somiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio » (pp. 63-64). La causa principale della crisi della società borghese è « l'epidemia della sovraproduzione » (pp. 64-65). 6) La svolta verso il comunismo: essa è preparata dallo stesso capita- lismo mediante la creazione di una nuova classe sociale, la classe del pro- letariato (p. 65). Questa classe sta ingrossando vieppiù mediante l'assor- bimento di tutte le classi intermedie (pp. 67 e 72). 7) Le cause della ribellione del proletariato: la disumanizzazione del lavoro, l'ingiusta retribuzione, lo sfruttamento, l’asservimento (pp. 66-67). 8) La dialettica della lotta di classe: da lotta di piccoli gruppi un po' alla volta essa si sta trasformando in lotta massiccia dell'intera classe operaia contro la classe dei padroni (p. 68); da lotta nazionale in lotta internazionale (p. 74). 9) Definizione del proletariato: « Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla di comune con il rapporto 394 familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento mo- derno al capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi » (p. 73). 10) La via al comunismo: consiste nella eliminazione dell’attuale si- stema di appropriazione e nella conquista delle forze produttive della società « attraverso il violento abbattimento della borghesia » e la sop- pressione della proprietà privata: «I proletari non hanno da salvaguar- dare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui » (p. 74). 11) Certezza della vittoria del proletariato sulla borghesia: perché quest’ultima contiene in se stessa i germi della sua dissoluzione. Essa e- sige infatti la moltiplicazione incessante del capitale, ma ciò non si può ottenere che con uno sfruttamento sempre più iniquo della classe operaia. E questo conduce inevitabilmente alla reazione violenta da parte del proletariato e alla rivoluzione PROLETARI E COMUNISTI In questa parte Marx e Engels, dopo una breve dilucidazione dei rapporti tra proletariato e comunismo, prendono in esame e respingono con fermezza, ad una ad una, tutte le critiche più gravi che vengono sollevate contro la visione comunista della società. 1) Distinzione tra proletari e comunisti: anche i comunisti sono dei proletari, ma non si identificano con essi; se ne distinguono come ii partito di punta del proletariato nella lotta contro i! capitalismo (p. 78). 2) Obiettivo immediato ‘del comunismo: « Abbattimento delia bor ghesia e conquista del potere da parte de! proletariato » {p. 78). 3) Obiettivo ultimo del comunismo: abolizione della proprietà pri- vata (p. 79). 4) Legittimazione della soppressione della proprietà privata: questa è un'istituzione che è essenzialmente incompatibile con la giustizia so- ciale. Infatti, nel sistema borghese, «il lavoro dei proletario crea il capitale, ossia quella proprietà che sfrutta il lavoro salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro salariato, per sfruttarlo di nuovo » (p. 80; ofr. anche p. 83). 5) Ingiustizia del lavoro salariato: nella società borghese esso è ap- pena sufficiente a garantire all’operaio « la sua nuda esistenza » (p. 81). 6) Funzione del lavoro nella società borghese e nella società comu- nista: « Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto ur: mezzo per mol. tiplicare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accu- mulato è soltanto un mezzo per ampliare, per arricchire, per far pro- gredire il ritmo d'esistenza degli operai » (p. 81). 7) Diversità tra concezione borghese e concezione comunista della libertà e della persona umana (pp. 82-84). 8) Diversa funzione della cultura, del diritto, della religione, della morale nella società comunista e nella società borghese {p. 85). Subordi- 395 Legge, morale e religione: pregiudizi borghesi La via al comunismo: sconfitta della borghesia, fine della proprietà Lo sfruttamento conduce alla rivoluzione del proletariato Alsune importanti affermazioni di principio risultano dall'esame delia situazione La tradizione del socialismo in Europa Adesione dei comunisti ad ogni forma di rivoluzione contro il sistema in atto. nazione della cultura, del diritto, della religione e della morale alla strut- tura economica (p. 85). 9) Storicità delle espressioni culturali (p. 85). 10) Subordinazione dell'educazione al sistema economico vigente in una determinata società. Superiorità dell'educazione comunista nei con- fronti di quella borghese (p. 86). 11) Le diverse concezioni della famiglia e della nazione (p. 86). 12) Approfondimento del tema dei rapporti tra struttura economica e sovrastrutture culturali (pp. 88-90). 13) Dieci provvedimenti riguardanti l’abolizione della proprietà pri- vata (pp. 91-92). 14) Abolizione della divisione della società in classi: «Il proleta- riato [...] facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abo- lendo con forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produ- zione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esi- stenza dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni di esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto clas- se » (p. 93). TERZA PARTE LETTERATURA SOCIALISTA E COMUNISTA In questa parte Marx e Engels presentano una rassegna critica della letteratura socialista e comunista del loro tempo, soffermandosi in par- ticolare sul « socialismo cristiano » dei romantici cattolici francesi (Lam- menais e Montalembert) (pp. 97-98), sul « socialismo piccolo borghese » di Sismondi {pp. 99-102), sul « socialismo tedesco » di Bauer e Hess (pp. 103-109), sul « socialismo borghese » di Proudhon (pp. 109-113), e sul «‘comunismo critico-utopistico » di Saint-Simon e iFourier (pp. 113-120). QUARTA PARTE POSIZIONE DEI COMUNISTI DI FRONTE AI DIVERSI PARTITI DÌ OPPOSIZIONE In questa parte conclusiva gli autori delineano brevemente la posi- zione dei comunisti di fronte ai diversi partiti operai già costituiti e ai movimenti rivoluzionari già operanti in Francia, Svizzera, Polonia e Ger- mania. Particolare attenzione riservano a quest'ultima nazione perché, a loro giudizio, la Germania offre le condizioni socio-politiche più pro- pizie per la lotta e per la vittoria del proletariato contro il sistema bor- ghese. Le linee direttrici indicate da Marx e Engels sono le seguenti: «I comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario diretto contro le situazioni sociali e politiche attuali. Entro tutti questi movimenti essi mettono in rilievo, come problema fondamentale del movimento, il problema della proprietà, qualsiasi forma, più o meno svi- luppata, esso possa avere assunto. Infine, i comunisti lavorano dappertut- to al collegamento e all’intesa dei partiti democratici di tutti i paesi. I 396 comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Rovesciamento Le classi dominanti tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista, Violento del sistema I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo anto: da guadagnare. PROLETARI DI TUTTI Ì PAESI, UNITEVI » (p. 124). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è la « Lega dei giusti » e dove sorse? 2. Quando e dove sorse la « Lega dei comunisti »? 3. Chi ne fu il primo presidente? 4. Il libretto « Manifesto del partito comunista» quando e dove venne pubblicato? 5. Marx come concepisce la storia dell'umanità? 6. Dalla concezione borghese della società che cosa deriva? 7. Quale era la crisi della borghesia che Marx intravvedeva? 8. Questa crisi, a distanza di un secolo, era reale? 9. Come vengono considerate da Marx le leggi, la morale e la religione? 10. Che distinzione c'è tra proletari e comunisti? . 11. Per quali motivi Marx giustifica la soppressione della proprietà privata? 12. Quale funzione ha il lavoro nella società comunista? 13. Quale è la posizione dei comunisti rispetto agli altri partiti operai sorti in Europa? 397 Obiettivo della metafisica: risposte esaustive agli interrogativi ultimi Nei secoli XVIII e XIX la scienza come sapere assoluto Attualità della metafisica, ‘‘inattualità’’ dei suoi risultati Denunciati gli errori del passato e nuove soluzioni per il futuro Organicità e maturità delia trattazione V. « INTRODUZIONE ALLA METAFISICA » Martin Heidegger (1889-1976) 1. Premessa I limiti della scienza, i pericoli della tecnologia, la caducità delle cose, la finitudine del mondo, il non-senso della storia, il nichilismo che ci circonda e assedia da ogni parte, hanno conferito nuova attualità (tanto da farne secondo alcune previsioni il sapere del futuro) a quella che già fu per molti secoli regina di ogni sapere, la metafisica. Definita già da Aristotele come studio delle cause ultime oppure come studio « dell’ente in quanto ente », l’obiettivo della metafisica è stato sempre quello di esibire una risposta esaustiva agli interrogativi ultimi, gli interrogativi che riguardano il senso della vita, l'origine del mondo, il valore della conoscenza, il problema del male e della libertà, la verità, la morte, ecc. Con l'avvento della scienza e con l'illusione che questa potesse affer- marsi come un sapere assoluto, si è creduto di poter dichiarare il tra- monto della metafisica. Il XVIII e il XIX secolo hanno espresso una cul- tura essenzialmente antimetafisica; ma la scienza, che si è sempre più perfezionata nel calcolare i fenomeni per poterli controllare e dominare, si è invece arrestata davanti alla porta dei problemi ultimi. Così il loro esame e possibilmente la loro soluzione sono oggi nuovamente demandati alla metafisica. L'uomo, diceva Schopenhauer, è essenzialmente un essere metafisico: lo è in forza della sua natura spirituale, lo è grazie al suo conoscere intel- lettuale. Come essere metafisico egli è da sempre chiamato ad interro- garsi su se stesso, sul proprio essere e sugli enti che lo circondano con l'obiettivo e la speranza di pervenire ad una risposta soddisfacente e conclusiva. Il suo oggetto e il suo compito rendono, pertanto, la meta- fisica sempre attuale, anche se i suoi risultati sono costantemente messi in crisi dall'inarrestabile tensione di ricerca della mente umana. 2. Origine e obiettivi dell’opera Dei filosofi del nostro secolo nessuno come M. Heidegger — che molti studiosi considerano il più grande di tutti — si è occiipato con altrettanto impegno e costanza della metafisica, denunciando, da una parte, gli er- rori in cui sono incorsi i filosofi del passato e proponendo, dall'altra, nuo- ve impostazioni e soluzioni per il futuro. Dei molti scritti in cui Heidegger affronta il problema della metafisica la Einfiihrung in die Metaphysik (Introduzione alla metafisica) si racco- manda in modo particolare per la organicità, completezza e maturità della trattazione. Questo saggio occupa « una posizione centrale e peculiare nel- lo svolgimento del pensiero di Heidegger [...] tanto che esso si può col. 398 locare accanto a Seiti und Zeit (Essere e tempo) come seconda cpera chia- ve per la comprensione dell’intero suo pensiero » {Vattimo). Concepita e scritta nel 1935 — a quasi dieci anni di distanza da Essere e tempo — nello sviluppo del pensiero heideggeriano Introduzione alla metafisica è il documento principale della grande svolta (Kehre) in dire- zione dell'essere. In Essere e tempo, per risolvere la questione ontolo- gica (quella dell'essere), Heidegger aveva seguito il cammino ascendente (dagli enti all'essere), assumendo come punto di partenza quell’ente pri- vilegiato che è l’uomo, che è colui in cui l'essere si interroga e si mette in questione. Ma questa strada Jo aveva condotto in un vicolo cieco: anziché alla sponda dell'essere approdava a quella del nulla. Così, in Introduzione aila metafisica, Heidegger segue il cammino inverso: dal- l'essere agli enti. L'essere è il punto di partenza, è il fondamento, la sor- gente da cui tutto discende. Gli enti o essenti sono le parole, il raccogli- mento, la non-latenza, la verità, l’epifania, il disvelamento dell'essere. In taì modo Heidegger ritiene di sfuggire alla trappola in cui — a suo avviso — è caduta tutta la metafisica tradizionale {greca, medioevale, moderna), che assumendo come punto di partenza questo o quell’ente o questa o quella modalità dell'essere non era mai riuscita ad oltrepas- sare l'orizzonte degli essenti ossia l'orizzonte della fisica e finiva rego- larmente nella identificazione dell'essere con l'Ente supremo. (Kehre), oltre che un nuovo cominciamento della comprensione dell'essere, comporta anche la ricerca di un nuovo lin- guaggio, « adatto », cioè adeguato al contenuto di un pensiero che non in- tende più avvalersi delle categorie metafisiche tradizionali e vuol met- terle in discussione nelia loro stessa radice. Anche di questo sforzo arduo e grandioso la Introduzione costituisce il primo importante documento e, fino a Cammino verso il linguaggio, resterà l'unico saggio di una certa ampiezza ed organicità. Introduzione alla metafisica consta di quattro capitoli che trattano 399 in ‘‘Essere e îempo’’ cammino ascendente: dail’ente al nulla in questa opera cammino discendente: dall'essere agli enti La storia dischiude l'essenza dell’essere Le quattro delimitazioni dell’essere: divenire, apparire, pensare, dovere La grande svolta: nuovo sominiciamento e nuovo linguaggio Le tre priorità della domanda metafisica fondamentale: ampiezza, profondità, origine La domanda fondamentale: evento, salto, non suscettibilità di verifica La filosofia come sapere: inattuale inutile ambiguo fecondo difficile rispettivamente di: 1) La domanda metafisica fondamentale; 2) Gram-. matica ed etimologia della parola « essere »; 3) La domanda sulla es- senza dell’essere; 4) La limitazione dell'essere. 3. Divisione e sintesi dell’opera LA DOMANDA METAFISICA FONDAMENTALE 1. La domanda metafisica fondamentale È la seguente: « Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? ». Questa è la domanda metafisica per eccellenza e gode su qualsiasi altra domanda di una triplice priorità: in ordine all'ampiezza « è la più vasta »; in ordine alla profondità: « è la più profonda »; in ordine all'origine: « è la più originaria ». L'interrogativo riguarda tutti gli enti senza nessuna distinzione: « In ragione della sua portata illimitata tutti gli enti per essa si equivalgono ». Perciò « bisogna evitare di porre in primo piano un ente particolare, anche l’uomo [...]. Non sussiste nessun motivo perché, per entro l’essente nella sua totalità, si debba porre in primo piano quel- l'essente chiamato uomo, alla cui specie noi stessi per caso appartenia- mo » (pp. 15-16). Ta domanda metafisica fondamentale, già singolare in se stessa, as- sume capitale e vitale importanza per colui che la solleva: è un evento nella sua esistenza. L'evento consiste in un salto, che comporta l’abban- dono di tutte le precedenti certezze; ma si tratta di un salto singolaris- simo, che si esplica più in maniera passiva che attiva, è un salto origi- nario (Ur-sprung). La domanda metafisica non è suscettibile di verifica; perciò non si può stabilire con certezza se essa è autentica oppure inautentica. Tuttavia, almeno una cosa è certa: non è autentica quando si presta a ricevere una risposta sicura, precisa, definitiva; per esempio, la risposta biblica: c’è l'essente perché Dio l’ha creato. D'altronde questa è una di quelle do- mande che si colloca fuori dall’orizzonte della fede: l’interrogarsi sul- l'essente in rapporto al suo fondamento per il credente è « una follia » (p. 19). 2. Caratteristiche della filosofia i- sica. Ma se si risale al significato originale del termine physis, il quale voleva dire « ciò che si dischiude da se stesso (come, ad esempio, lo sbocciare di una rosa), l’aprentesi dispiegantesi e in tale dispiegamento l’entrare nell’apparire e il mantenersi in esso, in breve: lo schiudentesi- permanente imporsi », allora si può ben dire che oggetto della filosofia è nient'altro che la physis, in quanto «la physis è lo stesso essere, in forza del quale soltanto l'essente diventa osservabile e tale rimane » (p. 26); « l'essente come tale nella sua totalità è physis, cioè ha come essenza caratteristica lo schiudentesi-permanente imporsi » (p. 28). Per- tanto studiare la physis e studiare l'essere è la stessa cosa. Senonché non è a questo studio dell'essere come tale che ha atteso la metafisica tradizionale: volendo scavalcare la physis essa ha fallito il suo obiettivo, l'essere, sin dall'inizio. « Per chiunque si ponga dal nostro punto di vista, diviene chiaro che l'essere come tale risulta in realtà na- scosto alla metafisica, resta obliato, e ciò in maniera così radicale che la dimenticanza dell’essere, col cadere essa stessa in oblio, viene a costi- tuire l'impulso, ignoto ma costante, che sollecita il domandare metafi- sico » {p. 30). 4. Il ricominciamento deila filosofia Per fare autentica filosofia occorre ricominciare da capo, sollevando di nuovo la domanda fondamentale: « Perché vi è, in generale, l'essente e non il nulla? ». Questa domanda ha ‘carattere fortemente personale. Per affrontarla non ci sono né maestri, né guide, né compagni, né sostituti: « è un andare avanti domandando [...] che non comporta nessuna com- pagnia » (p. 31). Essa ha, inoltre, carattere di ri-soluzione, di impegno: « interrogare significa voler-sapere. Chi vuole, chi pone tutto il suo es- sere in un volere, è risoluto » (p. 32). Infine, ha anche carattere di eser- cizio: l'atteggiamento interrogativo dev'essere sviluppato, fortificato con l'esercizio (p. 33). 5. Svolgimento della domanda fondamentale AI fine di chiarirne meglio il senso, Heidegger vi distingue tra l'inter- rogato {l'essente) e ciò su cui verte l'interrogazione: il fondamento (Grund) dell'essente. A prima vista, si ha l'impressione che la domanda sia tutta rinchiusa in « perché l’essente?» e che l'aggiunta « e non il nulla » abbia una funzione meramente pleonastica. Tuttavia, se si fa mag- 401 straordinario La ‘‘physis’’ oggetto della filosofia: è studiare l’essere Carattere personale e carattere di risoluzione della dumanda fondamentale sull’essente Il nulla è legato alla logica del pensare Priorità del sapere filosofico e dei psetare sui sapere scientifico Distinzione dell’essere dall’essente La crisi dell'Occidente: oblio dell’essere e frenesia dell’essente Ripetizione del cominciamento e ricollocazione dell’esistenza storica dell’uomo gior attenzione si vede che c'è almeno urna ragione storica per integrare la dorranda cor l'espressione « e non il nulia »: il fatto che la filosofia si è posta sin dall'inizio insieme alla domanda sull’essente anche la doman- da sul non-essente, sul nulla. Ma c'è di più: il divieto di interpellare il nulla, perché il nulla è nulla, è sì legato alla logica del pensare, ma si tratta di una logica che opera all’interno di una determinata precom- prensione dell'essente, e potrebbe essere che « ogni pensiero che obbe- disce solamente alle regole della logica tradizionaie si trovi fin da prin- cipio neli'impossibilità anche solo di comprendere, in generale, la do- imanda circa l’essente, e tanto più nella impossibilità di svilupparla real- mente e di pervenire ad una risposta » (p. 36). Solo la logica del pensiero scientifico vieta il discorso sul nulla. Ma (e questa è tesì assai cara a Heidegger) il sapere filosofico e il poetare godono di un'assoluta priorità sul sapere scientifico (pp. 36-37). Ci sono pertanto delle buone ragioni (storiche e teoretiche) per includere nella domanda fondamentale la frase «e non il nulla ». Questa aggiunta conferisce alla domanda un più ampio respiro e le apre un orizzonte diverso. Nella forma abbre- viata l'orizzonte e il respiro restano sempre quello dell’essente; così, si è tentati di rinvenire il fondamento nello stesso ordine {un essente su- periore}. Invece, includendo il riferimento al nulla, ciò che si vuol scoprire è la ragione deila ‘vittoria dell’essente sui nulla (pp. 38-39). 6. La differenza ontologica tra essente ed essere Di che natura è questa differenza basilare, primaria? Non è soltanto una differenza logica, concettuale, bensì una differenza reale. Anche se inafferrabile, l'essere rimane sempre distinto dall’essente, è altra cosa rispetto all’'essente. E ciò implica una qualche comprensione dell’es- sere: solo grazie a tale comprensione noi possiamo interrogare l’essente a proposito del suo essere (p. 43). L’essere non è incluso nella definizione dell’essente (del cavallo, del- l’uomo, del gesso, ecc.) eppure senza l'essere nessun essente è. E, tut- tavia, l’essente non è percepibile immediatamente, non è qualcosa che si vede (pp. 44-46). Ma tutto questo non giustifica la tesi nietzschiana secondo cui l'essere è « fumo, esalazione, errore ». Quella sull'essere è domanda estremamente seria, che tocca direttamente il destino del. l'Occidente. Dal rapporto che l'umanità assume nei confronti dell’es- sere ne va del suo destino, della sua storia. in effetti, l'oblio dell'essere e la frenesia per l’'essente sono la causa vera e profonda della crisi e della rovina dell'Occidente e del mondo intero {pp. 48 ss.). Del tutto singolare è la responsabilità del popolo tedesco che « è il popolo metafi- sico per eccellenza » (p. 49), nei confronti dell'essere. 7. La ripetizione del cominciamento, superando gli errori della ontologia Dopo la « morte dell'essere » sentenziata da Nietzsche, solo un co- minciamento nuovo, originario, può restituire all'interrogativo « che cosa è dell'essere », quella forza, quella rilevanza, quel peso che gli è proprio come interrogativo fondamentale. La ripetizione del fondamento riguarda anzitutto e soprattutto il concetto di « essere », sottraendolo a quell’appiattimento che l’ha ridotto a « concetto più generale di tutti », come è stato normalmente inteso dalla ontologia (pp. 49-51). Per realiz- 402 zare la ripetizione del cominciamento occorre « ricollocare l'esistenza storica dell'uomo [...] nella potenza dell'essere da rivelarsi in modo ori- ginario: tutto ciò, beninteso, solo nei limiti del potere concesso alla filosofia » (p. 52). Porre questo nuovo cominciamento è una « decisione storica » per l'Europa e per tutto il globo terrestre (p. 53). 8. Urgenza del ricominciamento Esso è indispensabile per vincere quel depotenziamento dello spirito che si registra ovunque oggi nel mondo (pp. 56 ss.). Definizione dello spiri- to come « dischiudimento (ent-schlossenheit) originario verso l'essere ». Ed è per questo che l'interrogarsi sull’essente come tale nella sua totalità, «il proporre la domanda sull’essere, costituisce una delle condizioni fondamentali, essenziali, per un risveglio dello spirito, per il porsi di un mondo originario dell'esserci storico, per arrestare il pericolo di un oscuramento del mondo e per una assunzione della missione storica del nostro popolo considerato come centro dell'Occidente » (p. 60). Il rico- minciamento — che ha luogo quando si instaura un autentico rapporto con l'essere — è anche condizione essenziale per restituire al linguaggio la sua funzione e il suo significato SULLA GRAMMATICA E SULLA ETIMOLOGIA DELLA PAROLA « ESSERE » 1. Condizioni preliminari all'esame grammaticale ed etimologico :Si impone anzitutto un'autentica rivoluzione del nostro rapporto con la lingua; anche se è vero che la determinazione dell'essenza del lin- guaggio e il nostro stesso modo di interrogarci si conformano alla nostra concezione dell'essenza dell’essente e dell'essere, tuttavia è pur vero che « l'essenza e l'essere parlano nelia lingua ». Di qui la necessità « di chia- rire l'essenza stessa dell'essere, per quanto riguarda la sua essenziale implicazione con la natura del linguaggio » (pp. 64-65). 2. La grammatica della parola « essere » « Come sostantivo “l'essere” deriva dal verbo. Per questo si dice che la parola “l'essere” è un sostantivo verbale. Con questa forma gram- maticale si può considerare esaurito quanto c'è da dire, sul piano lin- guistico, delia parola “essere” » (p. 66). E tuttavia rimane aperto e sco- perto un problema: «il problema di sapere se la forma originaria della parola come sostantivo e come verbo rappresenti effettivamente il ca- rattere originario del dire e del parlare. Tale questione include in sé, in pari tempo, quella dell’origine del linguaggio » {p. 66). Ma non ci si può accontentare di questa indicazione assai generica. Per verificare quale sia stato in origine il rapporto linguaggio-essere occorre esplorare come siano andate le cose nella lingua greca, la quale «è accanto alla tedesca la più potente ed insieme la più spirituale » (p. 67). Heidegger si sofferma anzitutto sulla distinzione tra onoma e rema: onoma è manifestazione ed espressione della cosa, rema dell’azio- ne; il primo corrisponde al sostantivo, il secondo al verbo. Ma questa 403 Lo spirito: dischiudimento verso l’essere Necessaria una autentica rivoluzione de rapporto con la lingua La parola ‘‘essere’' e l’origine del linguaggio Analisi dei termini greci: ‘“onoma”’ (manifestazione della cosa), ‘‘rema”’ (dell’azione) L’‘‘emergenza dell’essente come lotta: ‘“polemos”’ Essere come vivere: dischiudersi, permanere L’inafferrabilità dell’essere analisi dice ancora poco. Perché la ricerca approdi a qualche risultato apprezzabile occorre spingersi più avanti, e cercare di comprendere come i greci concepivano il linguaggio (pp. 68-69). Heidegger fa vedere che nella lingua greca l’essente è concepito come qualche cosa che si rende presente assumendo un limite (telos), una forma (morfé), un aspetto (idea), una natura (physis), una verità {a-letheia), cioè come « un fuoruscire dalla latenza » (pp. 70-72). L'emergenza dell’essente come qualcosa di distinto e determinato è concepita come polemos (lotta). Quando la lotta cessa l’essente perde la sua identità, e viene ridotto a mero oggetto di considerazione teorica, di calcolo, di produzione: « resta pur sempre l’essente [...] ma l'essere si è ritratto da lui » (p. 73). In conclusione, « per i greci “essere” significa stabilità (Stàndigkeit), e ciò in duplice senso: 1) Lo stare in sé nel senso del prodursi, del pro-cedere (Ent-stehen): physis. 2) Lo stare in sé come tale, come qual. cosa di “stabile”, che rimane, di permanente (Verweilen): ousia. Non-es- sere, per conseguenza, significa l’uscire da tale stabilità proceduta da se stessa: existasthai. “Esistenza” ed “esistere”, significano quindi per i Greci precisamente: non-essere » (p. 74). A questo punto Heidegger fa seguire una sottile disquisizione sulla forma infinitiva delle parole (pp. 77 ss.). 3. Etimologia della parola « essere » Le tre radici del verbo « essere » (che si possono cogliere nelle pa- role indogermaniche, greche e latine), determinano i tre significati prin- cipali che questa parola ha avuto sin dalle origini nella lingua greca: vivere, dischiudersi, permanere. « Ma a questo punto ci si presenta una domanda decisiva: come si accordano e in che cosa convergono le tre radici citate? Cosa è che regge e dirige il dire dell'essere? Su che cosa si fonda il nostro dire dell'essere secondo le varie flessioni della lingua? Questo dire e la comprensione dell'essere sono o no la stessa cosa? Come è presente (west), nel dire dell'essere, la differenza fra l'essere e l’essente? » (p. 82). 4. Questioni pendenti ‘A questo punto Heidegger segnala una serie di importanti questioni ancora aperte ed irrisolte, in particolare: 1) Quale tipo di « astrazione » era in gioco nella formazione della parola « essere »? 2) Qual è il signifi- cato fondamentale predominante (dei tre significati iniziali) che può avere presieduto alla fusione verificatasi? 3) Il senso dell'essere che, stando alle interpretazioni puramente logiche e grammaticali, ci si pre- senta come « astratto » e come qualcosa, per conseguenza, di puramente derivato, può essere in se stesso pieno e originario? (pp. 82-83). Conclusione: Quando si tenta di spiegare il significato della parola «essere » ci si trova subito in imbarazzo, perché è un voler cogliere l'inafferrabile. « Con tutto ciò, noi siamo continuamente attratti dall’es- sente, inseriti in esso, portati a considerare noi stessi come degli “es- senti”. “L'essere”, per ora, non è per noi che un semplice vocabolo, un termine frusto. Se non altro, bisogna che cerchiamo almeno di impadro- nirci di quest'ultimo resto rimasto in nostro possesso » (p. 83). È quanto 404 si è tentato di fare nel secondo capitolo mediante la ricerca grammati- cale e filologica intorno alla parola « essere ». CAPITOLO III :LA DOMANDA SULL’'ESSENZA DELL'ESSERE 1. La strategia da seguire per determinare l'essenza dell’essere Chi vuole realizzare un effettivo « cominciamento » ed ha constatato che l’essere è diventata la parola più generica e più vuota di tutte, può essere tentato a Jasciare in disparte questa parola e rivolgersi ai vari ambiti dell’essente. Senonché a questo punto sorge un grosso problema: come stabilire che qualche cosa è davvero un essente? « E come stabilire, d’altra parte, che in un certo tempo, in un certo luogo, un supposto es-. sente non è, se non siamo già in grado di distinguere con chiarezza fra essere e non essere? E come compiere questa decisiva distinzione, se non sappiamo, in modo altrettanto decisivo e determinato, che cosa signi- fichino l'essere e il non essere che vengono qui appunto distinti? Come può, nel caso specifico e in generale, un essente essere per noi un essente, se prima non comprendiamo che cosa significhino “essere” e “non esse- re”? » {p. 87). 2. Il significato della parola « essere » « Essere », questa parola apparentemente tanto vaga ed indeterminata, tuttavia è così densa di significato da fornire una sicura e decisiva linea di demarcazione sia nell'ordine del pensiero sia in quello del linguaggio. « Riflettendo più attentamente su questa parola risulta alla fine questo: malgrado ogni obliterazione, mescolanza, genericità del suo significato, noi pensiamo in essa qualcosa di determinato. Questo qualcosa di deter- minato è così determinato ed unico nel suo genere che occorre fare la seguente aggiunta: quell’essere che tocca a qualsiasi ente e che si sperde in ciò che vi è di più comune, è, per eccellenza, quanto vi è di più unico » (p. 88). Pertanto « proporsi di abbandonare l’“essere”, come parola vuota di senso, per rivolgersi all’essente in particolare, è cosa non solo avventata ma oltretutto eminentemente incerta » (p. 89). ‘Heidegger illustra questa tesi ricorrendo all'applicazione di un con. cetto generale (per esempio, albero) ai casi singoli e mostrando che questi sono identificabili (come alberi) solo grazie al concetto generale. Ma, si potrebbe obiettare che il caso dell'essere è molto diverso da quello del- l'albero, perché l’essere non è un genere. Tuttavia, risponde Heidegger, « la necessità di comprendere già in anticipo la parola “essere” è la più alta ed ineguagliabile » (p. 91). Ciò che ‘va approfondito (« erigere in sa- pere ») è la particolarità, unica nel suo genere, di questo nome. 3. Accertamento della conoscenza dell'essere Che si dia una certa cognizione dell'essere lo si può provare quanto meno indirettamente. ‘Infatti, senza una cognizione dell'essere risulte- rebbe impossibile qualsiasi dischiudersi dell’essente in quanto tale, e ri- sulterebbe impossibile anche il linguaggio, perché parlare è sempre dire 405 Capire ‘‘essere’’ e “‘non-essere'’ per giungere all’essente L’unicità dell’essere Parlare è sempre dire l’essere L'uomo è l’essere capace di ‘‘dire’’ La necessità di interrogare l'essere Il linguaggio luogo del dischiudimento dell'essere Determinazione del senso dell’essere: presenza presenzialità consistenza sussistenza permanenza avvenire e Il fatto che noi comprendiamo l'essere, anche se in modo indetermi- nato ed opaco, « ha per il nostro esserci il più alto valore, in quanto vi si manifesta una forza nella quale si fonda tutta la possibilità essen- ziale del nostro esserci. Non si tratta di un fatto qualunque, ma di qual- cosa che per il suo peso esige la più alta valutazione, a patto che il no- stro esserci, che è sempre qualcosa di storico, non rimanga per noi qual- cosa di indifferente. D'altronde anche perché il nostro esserci possa ri- manere per noi un'entità indifferente, occorre comprendere l'essere. Sen- za questa comprensione non saremmo neanche in grado di dire di no al nostro esserci » (p. 92). Interrogare l’essere (non il rispecchiarlo o rap- presentarlo c l'apprenderlo) è l'unica via da seguire per sottrarlo al suo nascondimento. E « il nostro interrogare risulta tanto più autentico quan- to più ci atteniamo con aderenza e costanza a ciò che più merita di essere investigato, e precisamente al fatto che l'essere è ciò che per noi risulta compreso in modo completamente indeterminato e tuttavia eminente- mente determinato » {(p. 93). L’interrogare verte sul senso dell'essere cioè sulla sua « apertura ». 5. La filosofia come accesso all'essere Il dischiudersi dell'essere è un evento ed un evento è anche la filosofia in quante cerca di ri-effettuare taje dischiudimento. La via però che la filosofia ha da percorrere nen è quella ascendente della metafisica tradi- zionale {dall'essente verso l'essere), bensì quella discendente: « dall’es- sere a ciò che si deve problematizzare della sua apertura » (p. 95). La « di- scesa » da seguire è quella tracciata dalia lingua, perché il dischiudersi dell'essere ha luogo nel linguaggio: « l'essere stesso è legato alla parola in un senso del tutto diverso e più essenziale di qualunque altro ente » (p. 97). 6. L'orizzonte del senso deli’essere . Mediante una vasta esemplificazione ed esplorazione dei vari sensi dell'essere, Heidegger perviene alla conclusione che essi si inscrivono tutti dentro un certo orizzonte, che corrisponde a quello del pensiero greco: « C'è una certa linea unitaria che li percorre tuiti. Essa orienta la com- prensione dell'essere verso un determinato orizzonte dal quale trae il suo significato. La determinazione dei senso dell’essere si circoscrive nell'am- bito della presenza (Gegenwartigkeit) e della presenzialità {(Anwesenheit), 406 della consistenza {(Bestehen) e deila sussistenza (Bestand), della perma- nenza (Aufenthait) e dell'avvenire (Vor-kommen) LA LIMITAZIONE DELL'ESSERE In questo capitolo Heidegger tenta un’altra via per raggiungere il di-schiudersi dell’essere (oltre a quella ciel linguaggio: grammatica ed eti- mologia), quelia di mettere a confronto e di contrapporre l'essere con slcune sue modalità fondamentali: l'apparire, il divenire, il pensare e il dever-essere, modalità queste che hanno trovato espressione nelia sto- ria della filosofia {per cui il dischiudersi dell'essere coincide, come vuole iIeidegger, con la storia della filosofia), le prime due modalità nella filosofia greca, le ultime due nella filosofia moderna. 1, Fsssre e divenire Storicamente questa è la prima distinzione e contrapposizione presa in considerazioni dai filosofi (Parmenide, Eraclito, ecc.). Contropposto al divenire « l'essere si mostra come la solidità propria dello “stabile in sé raccolto” » (p. 106). Qui Heidegger introduce una importante osservazio- ne concernente la storia della filosofia: che non è semplice altalena di affermazioni e negazioni, di tesi e antitesi, come si suol credere, bensì un discorso unitario intorno alla stessa cosa la quale « possiede in realtà come sua interna verità l’inesauribile ricchezza di essere ogni giorno come al suo primo giorno » (p. 107). 2. Essere e apparenza ro 407 Le modalità fondamentali deli’essere: apparire, divenire, pensare, dover essere La filosofia: discorso unitario intorno alia stessa cosa L’unità recondita di essere e apparenza L’apparenza come possibilità intrinseca dell’essere La lotta dei greci per la conquista dell’essere Tre vie per un giusto rapporto dell'essere con l’'essente: la via dell'essere, del nulla, dell'apparenza Il pensare: modalità dell'essere Carattere prospettico del pensare e valore prospettico del conoscere sembrare è conseguenza dell'essere stesso come sua possibilità intrin- seca in quanto — come physis — consiste nell'apparire, nell'emergere per prospettive (p. 114). a sperimentato, sulla via del- l'essere, la tempesta capace di trascinarlo via, a colui cui lo spavento della seconda via, quella che conduce all’abisso del nulla, non è rimasto estraneo, e che pure ha saputo accettare il rischio sempre incombente della terza via, quella della apparenza » (p. 122). vo del Dasein, è anzitutte modalità dell'essere. ia distinzione esse- re-pensiero va studiata con la massima attenzione, in quanto precede tutte ie altre distinzioni e, per intenderla rettamente occorre ricondurla alle origini: anche per essa è necessario il « ri-cominciamento », di modo che la verità primigenia venga restituita nei suoi propri limiti e con ciò nuovamente fondata (pp. 125-126). Occorre anzitutto prender nota del ca- rattere prospettico del pensare: esso accade sempre dentro un determina- to orizzonte, un determinato campo di osservazione. Non tenendo conto del valore prospettico del conoscere — assolutizzandolo — la gente in- 408 corre spesso in gravi errori e deviazioni, talché « non riconosciamo più guono tre tipi principali di a. predicativa: di attribuzione, di proporzionalità propria e di proporzio- nalità metaforica. L'a. è una categoria fondamentale per la verifica del linguaggio metafisico e religioso. Anima - Deriva secondo i filologi o dal greco anaigma (senza sangue) o dal greco dnemos (soffio, vento). Il termine viene universalmente ado- perato per significare il principio primo della vita. I pensatori antichi e medioevali solevano distinguere tre a. vegetativa, sensitiva e razio- nale. Secondo molti scolastici nell'uomo le tre a. sono formalmente di- stinte; invece secondo san Tommaso si dà nell'uomo soltanto l’a. razio- nale la quale svolge anche le attività delle a. inferiori. A. si distingue dalla parola spirito, sia in quanto contiene l'idea di una sostanza’ spiri- tuale, sia in quanto è più comprensiva, dal momento che la parola spirito si applica soprattutto alle operazioni intellettuali. Antropologia - È lo studio dell'uomo {dal greco anthropos = uomo, logos = studio). Si danno tre tipi principali di a.: culturale (o scienti- fica), filosofica e teologica. La prima studia l'uomo con criteri scienti- 416 fici e si propone di ricostruire gli elementi costitutivi delle culture pri- mitive o tradizionali. L'a. filosofica cerca di risolvere col puro ragiona- mento l'enigma umano in tutti i suoi molteplici aspetti: ontologico, etico, politico, religioso, storico, ecc. Infine l'a. teologica procura di ottenere un'intelligenza approfondita e sistematica del mistero dell'uomo alla luce della «Parola di Dio. Arte - L’a. è ogni produzione di bellezza da parte di un essere co- sciente. L'oggetto dell’attività artistica (o estetica) è la bellezza, come oggetto di quella scientifica è la verità, di quella etica la bontà, di quella religiosa il sacro, di quella tecnologica l'utile. Perciò l'a. si distin- gue dalla tecnica. L'artista facendo un'opera d'a. si propone anzitutto di dare espressione sensibile alla bellezza (in un disegno, un edificio, un quadro, ecc.). L'opera d'a. non è mai una semplice riproduzione di fatti naturali. Perché si dia opera d'a. occorre originalità, genialità, creatività. Aseità - Indica la condizione dell'essere che esiste di per sé. Il con- cetto di a. è presente nella patristica in relazione alla natura di Dio. In Cartesio e Spinoza riguarda la sostanza. Nell’assiologia di Nicolai Hart- mann l'a. è riferita alla sussistenza dei valori. Assiologia - È lo studio filosofico dei valori (dal greco arxios = degno, valido; e logos = studio). È una disciplina che deve le sue origini, al- meno indirettamente, a Nietzsche con la sua aspra critica dei valori tradizionali e il tentativo di capovolgerli in valori « mondani », terrestri. Ma il suo vero fondatore fu Rudolf H. Lotze {1817-1881), un contempo- raneo di Nietzsche. Egli distingueva tre regni di ricerca: regno dei fatti, regno delle leggi universali e regno dei valori. I primi due sono studiati dalla ragione con il metodo analitico e possono essere considerati in prospettiva meccanicistica, il terzo è appreso dal sentimento e implica necessariamente una prospettiva spiritualistica. Infatti, secondo Lotze, fondamento ultimo di tutti i valori e valore assoluto esso stesso è Dio. Astrazione - Denota l’attività con cui l'intelletto (agente) ottiene la conoscenza delle idee universali. La loro conoscenza, secondo la teoria dell’a. (che fu elaborata per primo da Aristotele e fu ripresa nel Medio- evo da san Tommaso), non avviene né per anamnesi, cioè il ricordo di quanto l'anima ha contemplato nell'Iperuranio prima di entrare nella prigione del corpo (Platone), né per illuminazione divina (Agostino), ben- sì mediante l’azione dell'intelletto, che ricava dai dati della fantasia ciò che è fondamentale, essenziale, trascurando ciò che è accidentale, pe- culiare di un fenomeno particolare. Così, per esempio, dal fantasma (immagine) di questo colore (bianco, verde, ecc.) l'intelletto ricava l’idea di verde. Ateismo - È la negazione di Dio (dal greco a-theòs = senza Dio). Fe- nomeno già noto nell’antichità, ha acquistato vasta diffusione soltanto dopo la rivoluzione francese. Si distinguono due forme principali di a.: teorico e pratico. Il primo è il risultato di una speculazione più o meno sistematica e rigorosa (e viene anche chiamato a. scientifico), il secondo corrisponde all’indifferenza religiosa, ed è la negligenza di ciò che riguarda Dio nella vita quotidiana. Atto - Categoria fondamentale della metafisica aristotelica insieme al 417 suo correlativo, la potenza. A. designa tutto ciò che è perfezione, com- pletezza, realizzazione, definizione, mentre la potenza indica ciò che è imperfetto, incompleto, indefinito. Nelle cose materiali l’a. non si iden- trascendentale dell'essere. Bene - Secondo la classica definizione di Aristotele, il b. è tutto ciò che è oggetto di appetizione, di desiderio. Il b. interessa sia la metafisica sia l’etica. Dalla prima è visto come una delle qualità trascenden- tali dell'essere (insieme all'uno, al vero e al bello). Dalla seconda è considerato come il fine a cui l'uomo indirizza costantemente le proprie azioni. Categoria - Significa classe di predicati (o predicamenti). Aristote- le, che fu il primo a fissarne la classificazione, definisce le c. come idee generali che non sono riconducibili a nessun'altra. Sono dieci: sostanza, «qualità, quantità, azione, passione, relazione, tempo, luogo, posizione e rivestimento (abito). Per Kant e la scuola kantiana, le c. sono i concetti fondamentali dell'intelletto puro, forme a priori della nostra conoscenza, che rendono possibili tutte le funzioni del pensiero discor- sivo. Causa - È tutto ciò che in qualche modo contribuisce alla produ- zione di qualche cosa. È di Aristotele la classica divisione delle c. in quattro specie: materiale, formale, efficiente e finale. Le prime due de- signano la materia e la forma, e per questo sono dette c. intrinseche, mentre la c. efficiente indica l'agente e la c. finale lo scopo per cui una cosa viene prodotta o un'azione compiuta. Non rientrando tra gli ele- menti costitutivi di ciò che viene prodotto, le c. agente e finale sono dette c. estrinseche. Molto si è disputato nella filosofia moderna sia intorno alla c. agente come a quella finale, 418 Concetto - Denota una conoscenza universale, astratta ed è pratica- mente sinonimo di idea universale. Le diverse scuole filosofiche differi- scono profondamente sia nella spiegazione dell'origine dei c. sia nell’as- segnazione del loro valore. Quanto all'origine, Platone propone la teoria dell’anamnesi, cioè del ricordo; Aristotele la teoria dell'astrazione; Ago- stino la teoria dell’illuminazione e Kant quella della struttura a priori dell'intelletto. Quanto al valore, si sono proposte tre soluzioni: i c. non hanno nessun valore, essendo dei puri nomi (flatus vocis); hanno valore totalmente oggettivo e rispecchiano realtà sussistenti in rerum natura: le Idee dell’Iperuranio; hanno un valore parzialmente oggettivo e par- zialmente soggettivo: oggettivo quanto al contenuto, soggettivo quanto alla forma (l'universalità esiste solo nella mente). La prima è la soluzio- ne dei nominalisti e degli empiristi; la seconda è la soluzione di Platone e dei suoi discepoli; la terza è la soluzione di Aristotele, di san Tom- maso e dei loro rispettivi seguaci. Conoscenza - Il termine è usato sia per designare l'attività con cui si diviene consapevoli di qualche cosa, di qualche oggetto, sia l’infor- è usato per quella parte che stu- dia la realtà materiale (dal greco cosmos = mondo e logos = studio). Aristotele questa parte l'ha chiamata Fisica. Il suo obiettivo non è sem- plicemente quello di spiegare la costituzione fondamentale dei corpi (ma- teria e forma), la ragione della loro individuazione, le condizioni del loro esistere (spazio e tempo), ma anche l'origine prima e il fine ultimo del mondo materiale. Creazione - In senso lato indica ogni genere di produzione; in senso stretto designa l'azione con cui Dio trae dal nulla tutte le cose. Secondo la definizione latina la c. è productio rei ex nihilo sui et subiecti: è pro- durre una cosa dal nulla rispetto sia alla forma, sia alla materia (su- biecti). Mentre gli uomini nelle loro « creazioni » traggono le cose dal nulla rispetto alla forma (in effetti l’uomo può soltanto trasformare ma- teriali già esistenti) e non rispetto alla materia; è privilegio di Dio trarre le cose dalla condizione di totale inesistenza. Insegnata dalla Bibbia (Gn. 1,1 ss.) questa verità è stata ripresa sul piano razionale dalla filosofia cristiana, della quale è divenuta una delle dottrine emblema- tiche. Cultura - Della c. si danno tre accezioni principali: elitaria, pedago- gica e etnologica. Secondo la prima accezione, c. significa erudizione (ha c. chi possiede molte cognizioni, o in generale o in un campo ristretto, come l’arte, la musica, la filosofia, ecc.). Secondo la seconda accezione, c. significa educazione: è la c. del corpo {c. fisica) o dell'anima (c. morale e spirituale), c. degli istinti o degli affetti, ecc. Di questa c. si occupa la pedagogia. Secondo la terza accezione, la c. è la forma spirituale di una società, tutto ciò che la unisce all’interno e la distingue dalle altre so- cietà all’esterno (come fa la c. italiana per gli italiani, quella francese per i francesi, quella cinese per i cinesi, ecc.). La c. intesa in questo ultimo senso costituisce l'oggetto sia dell’antropologia culturale sia della filosofia della c. Deduzione - È un procedimento raziocinativo con il quale da prin- cipi o proposizioni generali o universali si discende verso conclusioni meno universali o particolari. La forma ideale e perfetta della d. è il sillogismo, il quale è un ragionamento che consta semplicemente di due premesse e di una conclusione. Creatore della scienza della d., cioè della Logica, fu Aristotele. Kant denomina « deduzione trascendentale » il suo procedimento con cui cerca di stabilire quali sono i concetti a priori (cioè le categorie) che vengono applicati agli oggetti dell'espe- rienza nei vari tipi di giudizi. Definizione - Secondo Aristotele, la d. è « l'enunciato che esprime la quiddità, cioè l'essenza di una cosa ». La filosofia moderna si rifiuta di dare alla d. un senso così marcatamente ontologico e metafisico e per d. intende semplicemente un’operazione logica mediante la quale si de- zzo filosofico chiamato nuova ermeneutica (Gadamer, Ricoeur), il termine e. ha acquisito un significato più esteso e più profondo e sta ad indicare una prospettiva di pensiero che asse- gna sia alla filosofia che alla teologia il compito di interpretare, poiché l'uomo stesso è un essere che vive nella precomprensione e nell’inter- pretazione delle cose e della storia. Esistenza - Nel linguaggio più comune il termine denota semplice- mente il fatto che qualche cosa è. In filosofia ha acquisito valenze se- n sono distinguibili fisicamente ma sol- tanto metafisicamente. Secondo san Tommaso, e. ed esistenza si trovano nel rapporto di potenza e atto: in effetti è l’esistenza (più esattamente l'atto dell'essere, actus essendi) che conferisce attualità ad un'e. In Dio e. ed esistenza si identificano. Essere - Da sempre il termine e. è plurisemantico e, secondo i casi, varia da un minimo di comprensione (quando si limita a significare la presenza o posizione di una cosa, come dice Kant) ad una comprensione 422 sconfinata, che « abbraccia tutte le perfezioni », come afferma san Tom- maso. Secondo Aristotele, Tommaso e Heidegger studiare l’e., le sue proprietà e le sue manifestazioni è compito primario della metafisica. Estetica - Termine tratto dal greco aisthesis {= sensazione), e creato da Baumgarten come titolo della sua opera Aestetica (1750), che aveva per oggetto l’analisi e la formazione del gusto. Di solito la si adopera per denominare quella parte della filosofia che si occupa dell'arte: della sua natura, principi, funzioni e distinzione dalle altre attività dello spirito. Etica - Dal greco ethos = costume. È la scienza che ha per oggetto il fine della vita umana e i mezzi per raggiungerio. Storicamente la pa- rola e. è stata applicata alla morale sotto tutte le sue forme, sia come scienza del comportamento effettivo degli uomini, sia come arte di guidare il comportamento. Propriamente l’e. si dovrebbe occupare del bene quale valore primario da assumere dalla libertà come guida delle proprie scelte. Fede - In generale si intende la disposizione del credente ad abban- donarsi fiduciosamente nelle mani di Dio e ad accettare umilmente la sua parola. In modo ulteriore, la f. è definita come assenso della mente e della volontà alle verità rivelate da Dio e proposte dalla Chiesa come tali e accettate non in forza della loro intrinseca evidenza, bensì sull’au- torità di Dio stesso il quale non inganna né può ingannare. Come dice sant'Agostino, la f. consiste nel credere, nell'accettare ciò che non è manifesto alla ragione. Il suo oggetto proprio sono i misteri. Felicità - È la condizione di completo soddisfacimento di tutte le proprie aspirazioni, soprattutto di quelle che assecondano maggiormente la piena realizzazione del proprio progetto di umanità. A seconda dei ‘vari progetti di umanità proposti dai filosofi (eroe, ‘filosofo, gaudente, santo, ecc.), di volta in volta, la f. è stata riposta nella forza, nella con- templazione, nel piacere, nell'unione beatificata con Dio, ecc. Fenomeno - Dal greco phainomenai = apparire. Il termine è usato so- prattutto da Kant, Hegel e Husserl e dai loro seguaci, con valenze se- mantiche distinte. Per Kant il f. è l'oggetto del nostro conoscere, un pirito? 429 E in che rapporto si trova lo spirito con la materia? Il corpo è prigione dell'anima (Platone), strumento dell'anima (Agostino, Cartesio), compo- nente essenziale ma subordinata all'anima (Tommaso) o in qualche altro rapporto? Quello gnoseologico si preoccupa di verificare se questioni come questa, della natura profonda dell'essere dell'uomo e della sua pos- sibile sopravvivenza dopo la m. siano questioni alla portata della ragione umana o enigmi insolubili. Una cosa comunque è certa: anche per chi il problema di tutti i problemi, il problema principe della ricerca filosofica. È disci- plina importante anche per la teologia perché l'intelligenza della fede (che è l’obiettivo della teologia) si opera al massimo livello, quando si ricorre al più alto grado di intelligibilità, e questo è appunto quello onto- logico o metafisico. Pace - La p. è quella tranquillitas ordinis (ordine tranquillo) di cui 430 gode una società quando tutto funziona bene al suo interno e non pa- venta pericoli dall'esterno. Due sono pertanto le principali espressioni della p.: internazionale e sociale. La prima riguarda i rapporti di uno Stato con gli altri Stati, mentre la seconda riguarda i rapporti tra le classi e gli individui di uno stesso Stato (nazione). Passione - In generale significa una inclinazione veemente, un senti- mento forte, prepotente, difficilmente controllabile. Nonostante una certa connotazione negativa del termine, la p. può essere sia buona sia cattiva: è buona se è volta ad uno scopo, un oggetto moralmente buono; è cat- tiva nel caso contrario. Le p. hanno costituito argomento di studio da parte di moltissimi filosofi, in particolare di Aristotele, Tommaso d'Aqui- gli educatori » (Lalande). Pensiero - Comunemente si dice di tutti i fatti cognitivi, in oppo- vidua substantia incommunicabilis (una sostanza individua e inco- municabile di natura ragionevole). iPer i medioevali, fondamento della p. è l'essere, più esattamente il possesso di un proprio atto d'essere, in- vece per i moderni fondamento è l’autocoscienza, mentre per i contem- poranei fondamento è l’intersoggettività oppure l’autotrascendenza. In tutte queste tesi c'è qualche cosa di vero e, per questo, come definizione adeguata della p. si può proporre la seguente: un essere sussistente dotato di autocoscienza, intersoggettività e autotrascendenza. Politica - È lo studio dei fatti politici, cioè dei fatti che riguardano lo Stato e il governo, in opposizione ai fatti economici, culturali e so- ciali. La filosofia politica studia principalmente la questione dell’origine’ dello Stato, la sua strutturazione e la sua forma migliore, la questione dei rapporti tra lo Stato, le classi sociali, i partiti e la persona singola, la questione dei rapporti tra politica e morale, politica e cultura, poli- 431 tica e religione ecc. E in effetti, tutti questi problemi sono stati affron- tati dai filosofi nel corso dei secoli a partire da ‘Platone e da Aristotele. Potenza - Nel suo significato più comune il termine indica la ca- pacità e l'abilità di compiere un'azione. Denota pertanto l’idea di at- tività e di efficacia. Nella metafisica aristotelica e scolastica p. si Studiare e risolvere i p., cioè le questioni aperte, è compito sia della scienza (Popper) sia della filosofia. Compito specifico della filo- sofia è affrontare e risolvere i problemi ultimi (cfr. « Filosofia » e « Me- tafisica »). Prospettiva - È il punto di vista che si assume nel vedere, nel consi- derare, nello studiare una cosa. La filosofia contemporanea vede in tutte le conoscenze umane, compresi i sistemi scientifici e ‘filosofici, semplice- mente delle prospettive più o meno allargate; in tal modo rifiuta ogni forma di olismo, cioè di visione e spiegazione totale, completa, esaustiva perfetta della realtà. Prova - Operazione mentale con cui si cerca di stabilire la verità di un’asserzione o la validità di una tesi. Normalmente si tratta di qualche forma di ragionamento (induttivo o deduttivo), ma può trattarsi anche di semplice ostensione dei fatti, allora si chiama p. ostensiva. . Ragione - Comunemente oggi si intende la facoltà conoscitiva propria dell’uomo e di cui lui solo è dotato. Sostanzialmente questo è il senso che ha il termine anche nella filosofia scolastica e moderna fino a Kant. È una facoltà discorsiva, che raggiunge la verità non immediatamente,432 per intuizione (come fa invece l'intelletto), ma mediante qualche forma di ragionamento. Kant restringe l'uso del termine r. {Vernunft) alla co- noscenza dell'eterno e dell’assoluto, che però sortisce risultati estrema- mente deludenti, in quanto la r. in questo campo può soltanto avvertire e impostare dei problemi senza essere in grado di risolverli. Relazione - È sostanzialmente sinonimo di rapporto. :È un concetto fondamentale per molte scuole filosofiche. Nella filosofia hegeliana la r. è la categoria primaria; in effetti, per Hegel, tutta la realtà non è altro che una vastissima trama di r. Nella filosofia aristotelica è una delle dieci categorie, e di tutte sembra la più debole, fragile, povera, dato che non esiste in se stessa e neppure può vantare una consistenza ontologica analoga a quella della quantità, della qualità o dell’azione. Per acquisire consistenza ontologica la r. richiede quanto meno due real- tà, perché si tratta di una specie di ponte, che si regge soltanto quando ci sono almeno due enti a farle da sostegno. Eppure, la r. è un veicolo potentissimo di realtà, soprattutto quando si tratta della r. di causalità, cioè della r. tra causa ed effetto, perché l’effetto in quanto effetto deve tutta la sua realtà, tutto il suo essere alla causa: questa è causa soltanto nella misura in cui è in r. con l’effetto e gli comunica qualche cosa del proprio essere. Si è soliti distinguere tra r. reali e logiche: le prime sono quelle che influiscono sull'essere dei termini rapportati, le seconde non influiscono. La categoria di r. riveste, infine, una importanza fondamen- tale nel personalismo contemporaneo, che, centrato sulla struttura dia- logica della persona umana, ne coglie come costitutiva la r. io-tu, fonda- mento di ogni possibile forma di comunicazione. Una sintesi concettuale che accomuna i personalisti è quella relativa all'uomo come essere-di- relazione. Religione - Dal latino religare = legare insieme. È l'insieme dei miti (racconti, testi sacri) e dei riti (preghiere, azioni, sacrifici) con cui l’uo- mo esprime e attua i suoi rapporti con Dio. La r. è l’espressione spon- tanea, naturale della condizione di finitezza e creaturalità dell’uomo. Ogni popolo, sviluppando la propria cultura, si crea anche una r. (che nella maggior parte dei casi, storicamente, assume un carattere animi- stico, politeistico, mitologico, magico). Oltre alle r. « naturali » esistono anche tre r. « storiche » o rivelate: l’ebraismo, il cristianesimo e l’isla- mismo, a cui forse va aggiunto anche il buddismo, se lo si considera una r. e non una semplice filosofia. Riflessione - Vedi « Autocoscienza ». Rivoluzione - R. è «lo sviluppo di nuove forme di potere che divi- dano ed indeboliscano il vecchio ordine e facciano posto al sorgere del nuovo, e che nello stesso tempo siano in grado di stabilizzare il nuovo al suo sorgere in mezzo al vecchio » (R. Schaull). È una categoria che si applica a qualsiasi ordine di cose, così si può parlare di r. religiosa, filosofica, scientifica, letteraria, economica, politica, ecc. Ma più comu- nemente si usa per l'ordine socio-politico. In tutti i casi, la r. è un valore strumentale e non assoluto, ed è un valore positivo quando serve la causa dell'uomo {della società, della nazione, del popolo) non gli inte- ressi di una sola classe, di un partito e tanto meno di una sola persona. 433 Sacro - In senso generale e più proprio, questo termine denota un ordine di cose separato, riservato e inviolabile, che deve essere oggetto di rispetto religioso da parte di un gruppo di credenti. È correlativo di profano. Il s. è la qualità specifica che caratterizza la dimensione religiosa (questa è per definizione la dimensione del s.), come il vero è la qualità specifica della dimensione gnoseologica e il bene della dimen- sione appetitiva. È una qualità analogica che ha per analogato principale Dio (che è il s. per eccellenza) e per analogati secondari tutte le cose o persone che si trovano o vengono messe in rapporto con Lui: come libri (libri s.), attività (arte s., musica s., ecc.) persone (persone consa- crate). Scienza - Termine polivalente, la cui gamma semantica va dal conosce- re in generale alla conoscenza metodica più rigorosa e sofisticata. Di soli- to, comunque, si intende una conoscenza sistematica intorno ad un deter- minato oggetto, condotta con rigore ed obiettività. È un concetto essen- zialmente analogico, in quanto sia il rigore sia la obiettività variano da oggetto ad oggetto. Grazie alla sua metodologia assai precisa e al- l'obiettività facilmente verificabile nell'epoca moderna e contempora- nea non solo si è visto nella scienza sperimentale il tipo ideale del sapere scientifico, ma spesse volte si è identificato la s. con esso sic et simpli- citer (così l’illuminismo, il positivismo, il neopositivismo, il materiali- smo, ecc.). Oggi che le ambizioni della s. sono state fortemente ridimen- sionate sia quanto alla portata sia quanto al rigore e all’obiettività, si ritorna a riaffermare il valore analogico del termine s. Segno - Tutto ciò che ha il potere di richiamare l’attenzione oltre che su se stesso anche su un'altra cosa. Così, il fumo in quanto richiama l'idea del fuoco, le nubi in quanto richiamano l’idea dell’acqua, la co- lomba in quanto richiama l’idea della pace, un suono vocalico in quanto richiama l’idea di un determinato significato, ecc. Il regno dei s. è va- stissimo, infinito. Se ne distinguono molti generi: naturali e conven- zionali, iconici e arbitrari, vocalici e scritti, ecc. Area massimamente importante è quella dei s. linguistici. In effetti, il linguaggio non è altro che un insieme di s. volto alla comunicazione tra gli uomini. Due sono le discipline principali che si occupano dello studio del linguaggio: la linguistica che studia i s. dal punto di vista fonetico, grammaticale e sintattico e la semantica che studia il linguaggio dal punto di vista del significato. Simbolo - Dal greco symballo = comporre, mettere insieme. Il ter- mine si adopera per significare tutto ciò che si collega intenzionalmente con qualche altra cosa e perciò serve a richiamarla. In genere viene con- siderato come sinonimo di segno; ma qualche autore (per esempio, Tillich) assegna al s. una pregnanza semantica più forte, in quanto, mentre i segni possono essere prodotti puramente convenzionali, ciù non si avvera nel caso dei s., in quanto questi comportano una partecipa- zione nella realtà della cosa di cui sono simboli (così, per esempio, l’ac- qua battesimale, s. della purificazione dell'anima). Nel linguaggio eccle- siastico la parola s. è stata adoperata sin dalle origini per indicare una formula di fede ufficiale, che serve come carta di identità, come tessera distintiva anzitutto di appartenenza alla Chiesa e in secondo luogo di 434 ortodossia (per esempio, il Simbolo apostolico, il Simbolo costantino- politano, ecc.). Sintesi - In generale significa composizione: il mettere insieme ele- menti dapprima separati. In particolare e in senso tecnico, s. indica quel processo logico — tipico delle scienze sperimentali — per cui si passa da nozioni più semplici o da dati particolari per ottenere asserzioni più complesse e universali. Società - Qualsiasi gruppo di individui che si riuniscono per il con- seguimento di determinati obiettivi. In questo senso il termine s. ha un'estensione vastissima: si applica alla famiglia, alla Chiesa, allo Stato, ai gruppi sportivi, culturali, economici, ecc. In senso proprio, il termine designa un « insieme di individui i cui rapporti sono consolidati in isti- tuzioni nonché, per lo più, garantiti dall'esistenza di sanzioni, sia codi- ficate sia diffuse, che fanno sentire all'individuo l’azione e la costrizione della collettività » (Lalande). Sociologia - Termine di accezione recente nel linguaggio filosofico e delle scienze umane e risale alla filosofia positivistica di Augusto Comte (metà del sec. XIX), il padre della s. Egli l’ha considerata la forma di sapere positivo per eccellenza, essendo lo studio del predotto proprio della natura umana: la società. Anche successivamente il termine ha continuato a mantenere il significato di scienza dell’« attività sociale » e, poiché questa attività è sempre orientata a sistemi sociali, si può anche dire che la s. è la scienza dei sistemi e dei gruppi sociali (piccoli e grandi). Sostanza - In filosofia questo termine ha un significato tecnico ben preciso: secondo la classica definizione che ne ha dato Aristotele, la s. « è ciò che è in sé e non in un'altra cosa ». S. è qualsiasi realtà dotata di un proprio atto di essere e ha quindi una sua consistenza ontologica. È il contrapposto di accidente, che non ha un proprio atto di essere, ma per esistere, deve appoggiarsi, deve inerire (inesse) alla s. di cui è un frutto più o meno avventizio (per questo si distingue tra « accidenti propri» e « accidenti accidenti » o « accidenti puri»). Nella filosofia moderna, a partire da Locke, il termine s. è stato svuotato di questa densità ontologica e ridotto a mero sustrato, inattingibile dall'intelletto umano, in quanto questo, ristretto ai dati dell'esperienza sensitiva, non può andare oltre i fenomeni. Spazio - Nel linguaggio filosofico questo termine significa il luogo o ambiente illimitato e indefinito in cui gli oggetti reali appaiono collo- tati. Questo concetto è stato variamente inteso dalle scuole filosofiche antiche e moderne. Le soluzioni proposte si possono ridurre a tre: quel- la ultrarealistica o realistica che vede nello s. una realtà interamente oggettiva sussistente in se stessa, come un grande recipiente che con- tiene tutte le cose materiali (Platone, Newton); una idea puramente sog- gettiva, una forma a priori della sensibilità, che mette ordine ai feno- meni materiali (Kant); una costruzione mentale con fondamento nelle cose (Aristotele). Speranza - Il termine indica un atteggiamento fondamentale dello spirito umano: quello di fiducia verso il futuro, più precisamente di 435 attesa fiduciosa di qualche futuro evento. C'è una s. umana, quando è fondata su calcoli umani; c’è una s. cristiana o religiosa quando è fon- data sulla parola di Dio, le sue promesse, la sua grazia. Generalmente trascurata da tutta la riflessione filosofica antica e moderna, la s. è diventata argomento fondamentale nelle riflessioni e nei « sistemi » di Bloch (Il principio speranza), Marcel (Homo viator), «Pieper (Speranza e storia). SPIRITO. Con questo termine si denota qualsiasi realtà immateriale, cioè superiore alla materia e indipendente da essa, quanto meno nel- l'ordine ontologico. Con riferimento all'uomo si dice dell'anima, in con-trapposizione al corpo; con riferimento all'universo si dice di Dio in contrapposizione al mondo e alla materia. La parola s. viene adoperata spesso e volentieri anche da una cultura fortemente sensistica e mate- rialistica qual è la nostra. Pur negando Dio e tutto il mondo della tra- scendenza, che — in sede ontologica — è l'unico mondo che meriti effet- tivamente il nome di s., la cultura laica, e talvolta ostentatamente atea del nostro tempo, non esita a parlare con rispetto di « valori spirituali », ad esaltarne l’importanza e a invocarne la riabilitazione per salvare la nostra società. Ma è chiaro che tutto questo è vaniloquio se nell'uomo e al di sopra dell’uomo stesso non esiste una dimensione, una realtà effet- tivamente spirituale. Storia - È l'insieme degli eventi di cui l’attore principale è l'uomo. Analogicamente il termine si applica anche alla natura e perciò si parla anche di s. naturale. La s. nel senso che si è detto è un concetto squisi- tamente biblico e cristiano, ignoto alla filosofia greca, anche se come sequenza di eventi il concetto è già presente nei narratori greci (Tuci- dide, Erodoto). Sulla natura, senso, periodizzazione della s. e sulla co- scienza storica la riflessione filosofica s'è concentrata soltanto nell'epoca moderna a partire da Vico, dando luogo a tre soluzioni principali: cri- stiana (che fa intervenire nelle vicende umane anche la Provvidenza di- vina), idealista (che fa della s. una manifestazione diretta dello Spirito Assoluto), atea, che esclude totalmente Dio dal processo storico e lo con- sidera esclusivamente un'opera dell'uomo. I due orientamenti più re- centi circa l’interpretazione della s. sono quelli dell’Historie e della Geschichte: il primo considera la storia solo in relazione al fatto nella sua contingenza e relatività; il secondo considera la storia come « tempo- ralizzazione » dei valori (o degli anti-valori), che contrassegnano la condotta umana. Tecnica - È l'insieme di procedimenti ben definiti e trasmissibili de- stinati a conseguire un risultato utile. In altre parole: sono i procedi- menti e gli strumenti escogitati dall'uomo per dominare la natura e as- servirla ai propri bisogni. È una delle componenti.fondamentali della cultura insieme al linguaggio, ai costumi e ai valori: costituisce in un certo qual modo la sua esteriorizzazione. La t. rappresenta il risvolto pratico, applicato, della cultura: è l'applicazione al mondo della natura delle acquisizioni simboliche. Per questo, scienza e t. camminano di pari passo. Man mano che progredisce la conoscenza teorica delle leggi della natura, avanza anche la capacità dell'uomo di sfruttare le sue ri- sorse. Così la storia della t. coincide sostanzialmente con la storia della scienza. Alle conoscenze prescientifiche corrispondono t. estremamente 436 elementari di tipo manuale ed artigianale. Poi, col sopraggiungere della conoscenza scientifica, ha inizio l'invenzione di i. sempre più complesse, che trasformano l’uomo da semplice homo faber in homo tecnologicus (vedi anche « Lavoro »). Tempo - In generale per t. si intende una durata infinita di momenti, simile all'estensione spaziale, entro la quale durata trovano posto tutte le altre durate più o meno lunghe degli anni, delle stagioni, dei mesi, dei giorni, delle ore, ecc. La riflessione dei filosofi sul tempo ha camminato di pari passo con la riflessione sul t. e ha dato luogo sostanzial- mente alle stesse soluzioni: ultrarealistica o realistica (Platone, New- ton), concettualistica (Kant) e logico-realistica (Aristotele). È di Aristo- tele la celebre definizione: « Il tempo è la misura del movimento secondo il prima e il poi ». Intendiamo, infine, per « tempo cronologico » quello segnato dagli eventi inconsapevoli della natura e per « tempo storico » quello che è oggetto della coscienza riflessa dell’uomo, che contrassegna il t. cronologico con l'incidenza delle sue azioni consapevoli e libere. Teodicea - Termine coniato da Leibniz e che etimologicamente signi- fica « difesa di Dio » (dal greco dîìke = difesa e theòs = Dio). Si dice di quella parte della filosofia che si occupa dell’esistenza di Dio, della sua natura e dei suoi attributi. Questa parte si chiama anche « teologia na- turale ». Intorno alla possibilità di questa disciplina i filosofi sono di- visi in due grandi partiti: quelli che, assegnando alla conoscenza razio- nale un valore obiettivo, la ritengono possibile (e sono quasi tutti i filo- sofi antichi, medioevali e moderni fino a Kant) e quelli che, riconoscendo al conoscere un valore puramente soggettivo, la giudicano impossibile (questa è la tesi di molti filosofi dopo Kant). TEORIA. Dal greco theoria = visione di uno spettacolo, oppure visione intellettuale. Nel linguaggio filosofico ha due valenze semantiche prin- cipali, una in opposizione alla conoscenza volgare e l'altra in opposizione a quella pratica. Nel primo caso, significa una concezione metodica organiz- zata sistematicamente e rigorosamente (e ciò vale sia per il campo scienti- fico sia per quello filosofico); nel secondo, t. significa ciò che è oggetto di una conoscenza disinteressata, indipendentemente dalle sue applica- zioni. Tradizione - Comunemente il termine t. significa ciò che in una so- cietà, piccola o grande, si irasmette in maniera viva, sia per mezzo della parola sia della scrittura e dei modi di agire. In questo senso, la t. rappresenta la vita stessa di una cultura, la sua storia. Pertanto non ci può essere cultura senza t. né t. senza cultura. Il valore di una t. va controllato con la bilancia del valore-uomo. Questo controllo consen- tirà di constatare che, analogamente alle culture, nessuna tradizione è un valore interamente positivo sotto ogni aspetto in tutte le circostanze, perché in nessuna t. si realizza pienamente quel valore o quei valori in cui una cultura intende specializzarsi e tanto meno tutto l'universo dei valori. Per questo, nessuna t. dal punto di vista della ragione appare divina, assoluta, perfetta, sacra e intoccabile. Per contro, ci sono culture e anche t. molto povere e talvolta anche gravemente difettose ed er- rate. Colui che le possiede ha il diritto e il dovere di rivederle, criticarle, correggerle e, se necessario, anche abbandonarle. 437 Trascendentale - In filosofia questo termine conosce due usi princi- pali, quello aristotelico-scolastico e quello kantiano. Nella filosofia ari- stotelico-scolastica sta ad indicare le proprietà fondamentali dell'essere, che secondo alcuni autori sono tre: l'uno, il vero e il bene, secondo altri sono quattro (ai tre precedenti aggiungono anche il bello). Nella filosofia kantiana t. sta ad indicare le condizioni a priori del conoscere e il loro studio (estetica t., analitica t. e logica t.). Trascendenza - Dal latino trans-ascendere = salir su, valicare. Il con- cetto di t. è attinto dall'esperienza sensibile e in tale ambito denota una relazione spaziale: di superamento, sconfinamento, oltrepassamento, ecc. Successivamente questo concetto dalle cose materiali è stato tra- sferito a quelle spirituali e astratte. Così si è potuta, dire che il mondo dello spirito trascende quello della natura, che Dio trascende il mondo, ecc. In termini recenti in filosofia, ha acquisito un significato tecnico e sta ad indicare la realtà divina; la t. è Dio. Però, oltre che per parlare di Dio, il termine t. viene adoperato oggi anche per parlare dell’uomo e lo si adopera soprattutto per indicare la capacità che l’uomo ha di superare costantemente se stesso in tutto ciò che fa, che dice, che pensa e che è. È questa, dell'autotrascendenza, una delle proprietà specifiche dell'uomo e più ricche di significato al fine di una comprensione del suo essere profondo. Umanesimo - Questo termine è usato sia come nome proprio sia come nome comune. Nel primo caso indica quel movimento spirituale rappre- sentato dagli « umanisti » del Rinascimento (Ficino, Valla, Pico della Mi- randola, Erasmo, ecc.) e caratterizzato dallo sforzo di sollevare la dignità dello spirito umano e di rimetterlo in valore richiamandosi all’antichità classica greca e romana. Come nome comune significa qualsiasi dot- trina che esprime e sottolinea il valore dell'uomo. Ciò si può fare asso- lutizzando il valore dell’uomo con l'esclusione di Dio e allora si parla di u. ateo, o affermando il valore dell'uomo in coniugazione e subordina- zione al valore di Dio e allora si parla di u. religioso o cristiano. Univocità - È la funzione semantica propria di un termine che viene applicato a molti soggetti sempre con lo stesso significato. Per esempio, l'applicazione del termine « uomo » a Pietro, Paolo, Giovanni, Marco, ecc. Utopia - Dal greco ou = non e topos = luogo e pertanto significa una realtà che non esiste in nessun luogo. Il nome fu introdotto da Tom- maso Moro nel titolo della sua famosa opera De optimo reipublicae statu, deque nova insula Utopia, nella quale descrive un popolo perfettamente saggio, forte e felice grazie alle istituzioni ideali di cui gode, il quale abita appunto nell'isola di Utopia. Organizzazioni ideali ed immaginarie della società umana, sull'esempio di Moro, furono escogitate da Cam- panella, da Fénelon e, con pretese più scientifiche, da Comte e da Marx. Del ruolo dell’u. nella dinamica sociale e culturale la filosofia ha co- minciato ad occuparsi soltanto recentemente. A questo riguardo occorre evitare sia la posizione di rifiuto categorico come se l’u. fosse soltanto un fattore alienante, sia quello di approvazione incondizionata, come se l’u. fosse la panacea di tutti i mali. Valore - « Il senso esatto di valore è difficile da definire rigorosa- mente perché il più delle volte questa parola esprime un concetto in- 438 stabile, un passaggio dal fatto al diritto, dal desiderato al desiderabile » (Lalande). In italiano v. possiede tre significati principali: economico, etico, ontologico. In economia significa « danaro », in etica la virtù con cui si affrontano gravi pericoli e si compiono grandi imprese; in ontolo- gia la qualità per cui una cosa possiede dignità ed è quindi degna di stima e di rispetto. La scienza dei v. — cioè l'assiologia — si occupa del concetto di v. inteso secondo il terzo senso e cerca di comprendere qual è la sua natura effettiva, le sue caratteristiche essenziali, i suoi rapporti con gli altri trascendentali dell'essere e di fissare l'ordine e la gerarchia dei v. Verità - Questo termine assume in filosofia un significato veramente fondamentale, perché il sapere filosofico si configura anzitutto come amore e ricerca della v. Secondo la definizione più classica, la v. è la conformità della mente, cioè della conoscenza con la realtà. Questa si chiama anche v. logica. Ad essa si contrappone la v. ontologica, che è la corrispondenza delle cose alla mente divina, che le ha ideate. C'è anche una terza forma di v. ed è la v. morale che è data dalla corrispondenza delle proprie intenzioni con le esigenze della moralità. Non c'è dubbio che la v. è un valore fondamentale anzitutto nell'ordine noetico, perché essa costituisce l’obiettivo principale di detto ordine, ma è valore primario anche per altri ordini: pedagogico, epistemologico, onto- logico e culturale. Della v. i filosofi si sono occupati da sempre sia per definirne l'essenza, sia per scoprire le vie per raggiungerla, come pure per determinare i criteri per identificarla. Due sono i criteri per deter- minare ia v.i quello oggettivo dell'evidenza e quello soggettivo della certezza. L'integrazione dei due criteri è proprio delle filosofie intellettua- listico-realiste (da Aristotele a S. Tommaso a Maritain, ecc.). Il primato del criterio della certezza è proprio delle filosofie idealistico-dogmatiche (da Plaione a Cartesio ad Hegel, ecc.). Virtù - Con questo termine generalmente si intende un'abitudine, cioè una disposizione ferma e costante, ad agire bene: è un'’inclinazione al bene che si è consolidata, tanto che il virtuoso è portato ad agire bene (per esempio, ad essere casto, generoso, coraggioso, umile, ecc.) con spontaneità, anzi con veemenza. La v. è oggetto primario dell'etica, in quanto questa studia il fine dell'uomo e i mezzi per raggiungerlo e la v. è appunto il mezzo principale. La ‘v. si può dividere e classificare in tanti modi. Importante è la divisione tra v. etiche e v. dianoetiche: le prime sono le disposizioni ad operare bene nell'ordine morale; le seconde nell'ordine speculativo o intellettuale. Vita - È la qualità per cui un essere è capace di muovere se stesso. Dal punto di vista della biologia molecolare la v. consiste esclusivamente in una singolare e più complessa strutturazione delle molecole rispetto alla strutturazione che si incontra nella sostanza inorganica. Fenome- nologicamente la v. si manifesta come un movimento che diversamente da quello meccanico è immanente (cioè va a vantaggio del soggetto che lo produce) e spontaneo (è prodotto direttamente dal soggetto stesso grazie alla sua costituzione intrinseca). Le caratteristiche principali della v. sono: potere di crescere, di rispondere all'ambiente e di riprodursi. Si è soliti distinguere tre gradi di v.: vegetativa, sensitiva, razionale; la prima è propria delle piante, la seconda degli animali, la terza dell'uomo. 439 Vocazione - Con questo termine generalmente si intende la chiamata che una persona sente dentro di sé a svolgere determinate attività e ad assumere un certo ruolo nella società. Nella concezione secolarizzata della vita la v. è semplicemente siffatta inclinazione. Invece nella vi- suale cristiana, la diversità di attitudini fa parte del piano provviden- ziale che Dio ha concepito per ogni singolo uomo e la v. non è altro che il modo con cui Dio fa sentire a ciascuno la chiamata alla realizzazione del suo piano o progetto. Tema raramente trattato nella storia della filosofia, quello della v. ha acquisito rilevanza speculativa soprattutto per merito dei personalisti e degli esistenzialisti cristiani (Marcel). Volontà - È il nome che si dà alla facoltà che ha l'uomo di tendere verso il bene; si dice anche appetito razionale, per distinguerlo dall’ap- petito sensitivo che è proprio degli animali. Mentre l'appetito sensitivo è una tendenza istintiva, quello razionale cioè l'inclinazione della v., è un appetito guidato, calcolato, libero. Il privilegio della v. è in effetti quello di essere libera: cioè padrona dei propri atti e quindi anche degli oggetti verso cui si porta con le sue decisioni. In filosofia due sono le grosse questioni che sono state dibattute in ogni tempo a proposito della v.: una riguarda proprio la libertà. La questione è di sapere se, nono- stante tutti i condizionamenti cui viene sottoposta la v. umana, essa può dirsi veramente libera (è la controversia tra i deterministi e gli inde- terministi). La seconda è se nell'uomo conta maggiormente la cono- scenza o la v. {è la controversia tra intellettualisti che assegnano il primato alla conoscenza e volontaristi che per contro assegnano il pri- mato alla v.). Abbagnano Abelardo Adler Adam K., 108 Adorno Agazzi Agostino Alberto Magno, 28, 248, 272, 276, 341 Alembert (d’) J.B., 331 Alessandro di Hales, 251, 252 Aliotta A., 269 Althusser L., 273 Ammonio Sacca, 249, 327 Anassagora, 245, 273 Anassimandro Anassimene, 242 Anselmo d'Aosta (sant’), 247, 251, 274 Antistene, 245 Aristippo Ardigò Aristotele Attalo Averroé Avicebron Avicenna Ayer Bachelard Bacone Bacone Bakunin Balthasar Barbotin Barth Basilio Bauer Baumgarten Bautain Benoist Berger G., 216 Bergson Berkeley Bernardo di Clairvaux, 251 Bernstein E., 279, 311 Bloch Blondel M., 86, 106, 107, 263, 280 Bloy L., 320 Boezio Bonaventura da Bagnoregio (Bonifacio VIII, 145, 156 Bontadini G., 263, 282 Boros Boutroux Bradley Brentano Bruni Bruno Brunschvicg Buber Bultmann Vio Calvino Camus Carabellese Carnap Carneade, 285 Cartesio Cassirer E., 208 Chiang-kai-sheck, 165, 318 Church A., 23, 24 Cicerone M.T., 8, 285 Alessandrino Comte Copernico N., 67, 135 Cratilo, 326 Crisippo, 291 Crispino, 249 Croce Cullmann Cusano N., 67, 247, 250, 287 Damiani P., 424 Dante Alighieri, 151 Darwin Dawson C., 216 De Finance De Lubach H., 197 Democrito Deng Hsiao-ping, 166 De Saussure F., 264, 294, 314 Descartes (v. Cartesio) Derisi, 224, 226 Dessauer Vitoria Dewey Diderot D., 255 Dilthey Dollè Duhem P., 40 Durkheim E., 102 Eckhart J., 289 Eddington Einstein Eliade Epicuro, 66, 120, 249, 29/ Eraclito di Efeso, 11, 194, 243, 292 Erasmo da Rotterdam, 438 Eròdoto, 436 Esiodo, 64, 65 Eucken R., 222, 223, 333 Euclide, 41, 246 Fabro C., 263 Fénelon F., 438 L., 81, 102, 103, 290, 292 Feyerabend Fichte Ficino Filone Alessandrino, 79, 293 Fink E., 77, 425 Foucault M., 208, 265, 293, 421 Frege F.L.G., 22, 44, 344 Freud Gadamer Galluppi P., 295 Garaudy Gehlen A., 75, 77 Giannone P., 255 Gilson Gioberti Giovanni Damasceno, 298 Giovanni Paolo II Glucksmann A., 267, 298 Gbdel K., 23, 43 Goethe Gogarten F., 261 Gollwitzer H., 85 Gorgia, 28, 244 Gramsci Guardini Guerin M., 267 Guglielmo di Champeaux Guitton Guzzo Haeckel E.H., 257 Hammer, 227 Hamelin O., 256 Hartmann Hegel Heidegger Heisenberg W., 43 Helvetius C.A., 119 Herbart J.F., 257, 303 Herder J.G., 52, 207, 208, 304, 305, 338 Hilbert D., 44 Hildebrand D., 223 Hobbes Horkheimer Humboldt Hume Husserl di Elide, 244 Innocenzo III, 145 Illich I, 261 Ch., 267 James Jaspers K., 102, 261, 269, 307, 342 Jung C.G., 308 Kant Kautsky K., 309, 311 Keplero G., 67 i KierkegaardKorsch K., 3// Kruscev N., 339 Kuhn Th., 98, 267 Laberthonnière Labriola A., 3/1 Lachelier J., 263 Lakatos I., 98 Lalande Lamennais H.F.R. (de), 424 Lang Lardreau G., 267 Lavelle Lavoisier A.L., 67 Lazzarini, 263 Leibniz Lenin Le Senne Lévinas Lipps T., 339 Litt Lonergan B., 216 Lotze Luckmann Th., 77, 216 Lucrezio Lukacs Lutero Luxemburg R., 317 Lyell Ch., 337 Mach E., 40 Machiavelli N., 145, 151, 152 J., 54 Maimonide M., 102, 268 Malebranche Mao Marcel Marco Aurelio, 249 Marcuse Maritain Marsilio da Padova, 151, 156 Martinetti Marx Masnovo McTaggart Mead Meinong Mercier Merleau-Ponty Metz J.-B., 86 Meyerson E., 45 Mialaret G., 134 Mill Monod J., 428 Montaigne M., 33, 120, 249 Moore G.E., 224 Moro T., 438 Mounier E., 262, 322 Mouroux J., 197 Muller A., 102 Musonio Rufo, 291 Newton Neuraht O., 260 Niebuhr R., 216 Nietzsche Neleo Occam Ogden-Richards, 54 Olivi P., 252 Omero, 64,65 Orazio, 249 444 Origene Ortega Otio R., 102, 106, 108, 199, 110 Parmenide Pascal Payet Peano Péguy Ch., 322 Peirce Ch.S., 259, 325 Piaget J., 325 Pico della Mirandola, 67, 438 Pieper Pietro Lombardo, 336 Pitagora Platone Plessner Plotino Poincaré J.H., 40, 42, 43, 44 Polanyi K., 54 Pollock Pomponazzi Popper Porfirio Prini P., 224 Proclo Prodico di Ceo, 244 Protagora Pseudo-Dionigi Quine Quiles J., 262 Rahner K., 86, 252 Ravaisson Reale Reichenbach, 260 Reid T., 255 Reimarus, 255 Renan J.E., 52 Renouvier Riccardo di S. Vittore, 25î Rickert Ricoeur Riemann B., 44 Rintelen F.J., 226 Rissi (p.), 342 Rogers C., 421 Rosmini Roscellino, 269 Rousseau Royce J., 256 Russell Saint-Simon C.H., 257, 286, 33/ Santayana G., 332 Sartre Scheler Schelling Schiller Schlegel Schleiermacher F.D.E., 334 Schlick Schòkel L., 54 Schopenhauer Schmidt Sciacca Scoto Seneca Senofonte, 102 Sesto Empirico, 20, 21, 285 Silvestri, 78 Simmel Socrate Solzenicyn Sorel Sozione, 336 Spencer Spengler O., 198, 208 Spinoza Spirito Stalin Stefanini Stevenson Stein Strawson Sturm Sturzo Suarez Taine Talete Taylor Taziano Teilhard Telesio Teofrasto Tertulliano Tillich Tolomeo Aquino Tonini Toynbee Trotzsky Tucidide Turchi Ullmann Ugo di S. Vittore Valla Vanni Rovighi Vergote Vico Voltaire Whitehead Wittmann, Windelband Wittgenstein Wolff Zabarella Zenone Che cos'è la filosofia 1.1 La conoscenza intellettuale Riflessione filosofica Natura della filosofia Le origini della filosofia Filosofia elementare e scientifica Mito e filosofia I problemi filosofici fondamentali I PROBLEMI FILOSOFICI IL PROBLEMA LOGICO Natura del problema 2. Panorama storico IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO {o problema della conoscenza) 1. Le forme della conoscenza umana Origine della conoscenza Valore della conoscenza Il metodo ILPROBLEMAEPISTEMOLOGICO(0problema della scienza)1.Evoluzionedelconcetto di scienza nel corso dei secoli 2. Classificazione delle scienze e natura del sapere scientifico secondo gli epistemologi contemporanei IL PROBLEMA LINGUISTICO (o filosofia del linguaggio) Caratteri del linguaggio Origine del linguaggio Condizioni essenziali del linguaggio Funzioni e valore del linguaggio Funzione descrittiva Funzione comunicativa Funzione e valore esistenziale Rapporto del linguaggio col pensiero, con le cose e con gli interlocutori IL PROBLEMA COSMOLOGICO 1. Problematicità dell'universo 2. La cosmologia nel pensiero occidentale 3. La cosmologia nel secolo IL PROBLEMA ANTROPOLOGICO 1. Natura del problema 2. Panorama storico 3. Il significato dell'autotrascendenza IL PROBLEMA METAFISICO 1. L'origine del termine 2. Oggetto della metafisica 2. Metodo della metafisica 4. Sguardo storico IL PROBLEMA RELIGIOSO 1. I termini del problema 2. Le principali interpretazioni filosofiche della religione al Demistificazione della religione Difesa della religione 06) 3. Definizione della religione e sua distinzione dall'arte, dalla filosofia e dalla morale 4. Fondazione teoretica della religione IL PROBLEMA ETICO O MORALE 1. La prospettiva critica 2. La prospettiva teoretica 3. Il problema etico ha delle soluzioni? IL PROBLEMA PEDAGOGICO 1. La pedagogia come teoria pratica Autonomia della scienza pedagogica e interdisciplinarietà 3. Soggetto e finalità della pedagogia 4. I tre aspetti fondamentali dell'educazione 5. Autoeducazione ed eteroeducazione 6. L'attivismo pedagogico IL PROBLEMA POLITICO E SOCIALE 1. I termini del problema 2. Natura sociale dell’uomo 3. L'origine dello Stato 4. Le forme di governo 5 . Rapporti tra politica e morale a partire dall'epoca mo- derna 6. Rapporti tra Stato e Chiesa 7. Rapporti tra fede e politica 8. Lettura politica del messaggio evangelico Capitalismo o socialismo? Il capitalismo classico Il neocapitalismo Il labourismo e ia socialdemocrazia Il socialismo marxista Il marxismo-leninismo-stalinismo L'esperienza del maoismo in Cina (165) - 9.7 Crisi del marxismo ortodosso: i nuo- vi marxismi (166) 10. Le dottrine sociali di ispirazione cristiana 11. Il cristiano e la promozione della coscienza sociale e poli- tica: la mediazione culturale e l'impegno politico I nuovi problemi impongono una nuova concezione di so- cietà  ‘La nuova società « post-industriale » o della comunicazione La «crisi epocale » della società nell'era tecnologica È necessario un nuovo progetto culturale IL PROBLEMA ESTETICO 1. Natura dell'opera d’arte Il fine dell'opera d'arte 3. Arte e morale IL PROBLEMA STORICO Il concetto di storia Possibilità della scienza storica Scetticismo storico Realismo storico (194) 3. La storia è veramente una scienza? L'interpretazione della storia  IL PROBLEMA CULTURALE Il probleina della cultura nella storia della filosofia L'uomo come essere culturale 4. 5 6 Definizione La cultura come forma spirituale della società . Gli elementi fondamentali della cultura . Rapporti tra cultura e religione IL PROBLEMA DEI VALORI O ASSIOLOGICO 1. . Definizione del valore . Lo statuto ontologico dei valori . Gerarchia e classificazione dei valori . La facoltà dei valori U ASUWUN Informazioni storiche sull’assiologia I SISTEMI FILOSOFICI PRINCIPALI  UDAWNE . Scuola ionica o di Mileto Scuola pitagorica . Scuola eleatica Scuola atomista Scuola sofista . Scuola eclettica o ‘fisico-pluralista . Scuola socratica . Scuola platonica . Scuola aristotelica . Scuola stoica . Scuola epicurea . Scuola neoplatonica . Scuola agostiniana . Scuola tomista . Scuola francescana . Scuola razionalista . Scuola empirista . Scuola illuminista . Scuola idealista . Scuola volontarista. Scuola positivista . Scuola materialista-marxista Scuola pragmatista Scuola neopositivista Scuola esistenzialista Scuola personalista Scuola spiritualista Scuola di Francoforte Scuola strutturalista 30. Scuola fenomenologica 31. Scuola epistemologica  ‘Nuovi Filosofi I PRINCIPALI FILOSOFI Schede sui principali filosofi Abbagnano Abelardo Adler Adorno Agostino Alberto Mo Althusser Anassagora Anassimandro Anassimene Anselmo d'Aosta Ardigò Aristotele Averroè Avicenna Bachelard Bacone Bergson Berkeley Bernstein Bloch Blondel Boezio Severino FIDANZA Bontadini Boutroux Bruno Buber Butler Calvino Campanella Carnap Carneade Car- tesio Comte Croce Cusano  Darwin Democrito Dewey Dilthey Eckhart Empedocle Engels Epicuro Epit- teto Eraclito Feuerbach Fichte Filone Foucault Freud Galilei Galluppi Garaudy Gentile Gilson Gioberti Giovanni Damasceno Glucksmann Gramsci Guardini Habermas Hartmann Hegel Heidegger Herbart Herder Hobbes Horkheimer Humboldt Hume Husserl James Jaspers Jung  Kant Kautsky Kierkegaard Korsch Labriola Leibniz Lenin Lessing Lévinas Lévi-Strauss Lévy Locke Lotze Luk&cs Lutero Luxemburg Malebranche Mao Marcel Marcuse Maritain Marx Merleau-Ponty Mill Mounier Nietzsche Occam Parmenide VELIA Pascal Peirce Piaget Pitagora Platone Plotino Popper Protagora Renouvier Rickert Ricoeur Rosmini Rousseau Russell Saint-Simon Santayana Sartre Scheler Schelling Schlegel Schleiermacher Schopenhauer Scoto Seneca Socrate Spencer Spinoza Spirito Stalin Stein Suarez Talete Telesio Aquino Vico Voltaire Whitehead Wittgenstein  Wolff Zenone GUIDA ALLA LETTURA DI AL- CUNE OPERE DI FILOSOFIA . « IL FEDONE » - PLATONE . Ambientazione storica dell’opera . Il dialogo, metodo dell’opera . Divisione e sintesi dell’opera Immortalità dell'anima Argomenti a favore dell'immortalità dell'anima Metempsicosi Intermezzo Le obiezioni di Simmia e Cebete Risposta di Socrate alle obiezioni di Sim- mia e Cebete (358) - 3. Conclusione Il mito deile anime dopo la morte Figura e dimensione della terra La morte di Socrate IL « DISCORSO SUL METODO » - CARTESIO Origine dell’opera Divisione e sintesi dell’opera Prima parte: L'esperienza scolastica di Cartesio e la scoperta della necessità di un metodo rigoroso Necessità del metodo La storia della propria educazione e l'utilità dello studio delle materie scolastiche Lo studio del mondo attraverso i viaggi Lo studio di se stesso La scoperta del nuovo metodo e le sue regole principali Ambientazione Prima considerazione (368) - 3. Seconda con- siderazione Ammonimento Decisione di procedere alla ricerca di un nuovo metodo, essendo la logica e la matematica metodi insufficienti Le regole del nuovo metodo Fecondità del nuovo metodo Applicazione del nuovo metodo alla matematica Primi risultati Appli- cazione del nuovo metodo alla filosofia Le mas- sime della morale provvisoria e l'esercizio del metodo Ne- cessità di una morale provvisoria I principi della morale provvisoria : Rassegna delle varie azioni per scegliere la migliore Esercizio del metodo viaggiando e studiando I due principi fondamentali della metafisica: il cogito e l’esistenza di Dio Il dubbio metodico La prima verità indubitabile: il « cogito ergo sum L’essenza dell’uomo consiste nel pensiero Il criterio di verità: chiarezza e distinzione Dimostrazione dell’esistenza di Dio Funzione psicologica del’esistenza di Dio Verità di ordine fisico - Natura dell'anima umana Il corpo degli animali e dell'uomo Natura dell'anima Ga Sesta parte: Ragioni della mancata pubblicazione de « Il ondo » « LA MISSIONE DEL DOTTO » FICHTE Origine e importanza dell’opera Divisione e sintesi del- l'opera La missione dell’uomo in sé Natura e missione dell'uomo in se stesso La legge morale dell'uomo considerato in se stesso Il fine ultimo, il sommo bene, la perfezione Seconda lezione: La missione dell'uomo in società - Esistenza della società Il criterio per distinguere gli esseri ragio- nevoli dagli esseri privi di ragione Società e stato Fine e missione della società (La morale sociale Il fine ultimo e la missione dell’uomo nella società L’edu- cazione alla socievolezza Terza lezione: La distinzione tra gli stati sociali -La diseguaglianza tra gli uomini La scelta dello stato La scelta dello stato non è obbligatoria, ma libera La partecipazione al perfe- zicnamento dell'umanità assicura come premio l'immortalità Quarta lezione: La missione del dotto  ‘La società perfetta richiede lo stato (la professione) del dotto Definizione del dotto La missione del dotto La morale del dotto (La morale professionale) Critica delle affermazioni di Rousseau intorno all’influsso delle arti e delle scienze sopra la felicità dell'uomo L'errore di Rousseau Critica dell'errore di Rousseau IL « MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA MARX-ENGELS Origine dell'opera 393 2. Divisione e sintesi dell’opera Introduzione - Prima parte: Borghesi e proletari Proletari e comunisti Letteratura socialista e comunista Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione  INTRODUZIONE ALLA METAFISICA » - HEIDEGGER Premessa Origine e obiettivi dell’opera . Divisione e sintesi dell’opera Cap. I: La domanda metafisica fondamentale La domanda metafisica fondamentale Caratteristiche della filosofia Oggetto iniziale della filosofia e della metafisica Il ricominciamento della filosofia Svolgimento della domanda fondamentale La differenza ontologica tra es- sente ed essere La ripetizione del cominciamento, supe- rando gli errori della ontologia Urgenza del ricomincia- mento Sulla grammatica e sulla etimologia della parola « essere » Condizioni preliminari all'esame grammaticale ed etimologico La grammatica della parola « essere Etimologia della parola « essere Questioni pendenti La domanda sull’essenza dell'essere - 1. La strategia da seguire per determinare l'essenza dell’essere Il significato della parola « essere » Accertamento della conoscenza dell'essere Importanza e valore della compren- sione dell'essere La filosofia come accesso all'essere L'orizzonte del senso dell’essere La limitazione dell'essere -Essere e divenire Essere e apparenza Essere e pensare Essere e dovere Alcune osserva- zioni intorno alla « Metafisica » di Heidegger. GLOSSARIO DEI PRINCIPALI TERMINI FILOSOFICI Questa quarta edizione di Introduzione alla filosofia esce completamen- te rinnovata ed ampliata. Essa è stata anche aggiornata dal punto di vista didattico, secondo i criteri del Corso di storia della filosofia (in tre volumi) dello stesso autore, divenendo così uno strumento vivo di ri- cerca e di riflessione. Nella prima parte del volume sono trattati: il problema logico, gnoseo- logico, epistemologico, linguistico, cosmologico, antropologico, meta- fisico, religioso, etico, pedagogico, politico e sociale, estetico, storico, culturale e assiologico (o dei valori). L'autore, noto studioso di problemi di filosofia e chiaro divulgatore, illu- stra le origini e gli sviluppi storici di ogni problema, le soluzioni pro- spettate dai vari filosofi e, infine, il loro possibile sviluppo. Si tratta di «panoramiche essenziali, introduzioni in parte informative ed in parte suggestive e stimolanti ad uno studio più approfondito». Nella seconda parte vengono presentati, nei loro aspetti fondamentali, i più importanti sistemi (o scuole) filosofici. Di ogni sistema sono presen- tati: il fondatore, le dottrine principali e i maggiori esponenti. Nella terza parte sono raccolte, in ordine alfabetico, delle schede bio- bibliografiche che di ogni filosofo (dagli antichi greci ai contemporanei) e scuola, informano sulla vita, sulle opere e, per sommi capi, sul pen- siero. La quarta parte contiene una guida accurata e critica alla lettura di ope- re fondamentali per la storia della filosofia: Fedone di Platone; Discorso sul metodo di Cartesio; La missione del dotto di Fichte, Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels e Introduzione alla metafisica di Martin Heidegger. Infine, una quinta parte contiene un «glossario» dei principali termini fi- losofici. L'opera, data la sua chiarezza espositiva, oltre che come moderno testo scolastico, è utile per ogni persona di cultura che desidera approfondi- re la conoscenza della filosofia; essa può essere consultata come una piccola enciclopedia filosofica. Questo volume, sprovvisto del talloncino a fronte, è da considerarsi copia di SAGGIO- OMAGGIO esente da |.V.A. (D.P.R. n. 24, art. 2 sub d) ed esonerato dalla Bolla d'ac- compagnamento (D.P.R. 627, art. 4) e come tale non può essere messo in commercio ento (D.P.R. 627, art. 4) e come tale non può essere messo in commercio. -- Battista Mondin. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mondin” – The Swimming-Pool Library.

 

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