Grice e Mondin:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell ritorno
dell’angelo – la semantica filosofica – semantica pel sistema G –
interpretazione e validità – la scuola di Monte di Malo -- filosofia veneta --
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Monte di Malo). Filosofo
italiano. Monte di Malo, Vicenza, Veneto. Grice:“Trust an Aquino to provide a
systematic philosophy! Mind, I’ve been called a systematic philosopher, too!”
Grice: “At Oxford, we are very familiar with angels – but only Mondin takes
angeologia seriously! Trust an Italian!
Ponte Sant’Angelo comes to mind!” Dottore di Filosofia e Religione a Harvard. È
stato decano della Facoltà di Filosofia presso la Pontificia Università
Urbaniana di Roma. Mondin membro della Congregazione dei Missionari Saveriani. Nei
suoi studi, le principali figure di riferimento sono state AQUINO e Tillich, da
cui ha tratto l'ideale di un accordo e di un mutuo sostegno tra filosofia e
teologia. “Etica, Etica e politica,
Filosofia, Antropologia filosofica, Manuale di filosofia sistematica, La
Metafisica di Aquino e i suoi interpreti,” “Storia dell'antropologia
filosofica” Antropologia filosofica e filosofia della cultura e
dell'educazione; “Epistemologia e cosmologia; “Logica, semantica e gnoseologia;
Ontologia e metafisica Storia della metafisica, Storia della metafisica, Storia
della metafisica, “Ermeneutica, metafisica, analogia in Aquino; Storia della
filosofia medievale Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale Il
sistema filosofico di Aquino Corso Introduzione alla teologia Dio: chi è?
Elementi di teologia filosofica Scienze umane e teologia Cultura, marxismo e
cristianesimo I teologi della liberazione, “Il problema del linguaggio
teologico dalle origini ad oggi” Filosofia e cristianesimo I teologi della speranza
I grandi teologi Professore I grandi
teologi Professore I teologi della morte
di Dio Dizionario enciclopedico di filosofia, teologia e morale. Software
Filosofia della cultura e dei valori Le realtà ultime e la speranza cristiana
Religione Nuovo dizionario enciclopedico dei papi. Storia e insegnamenti
Commento al Corpus Paulinum (expositio et lectura super epistolas Pauli
apostoli) La chiesa primizia del regno. Trattato di ecclesiologia Mito e
religioni. Introduzione alla mitologia religiosa e alle nuove religioni L'uomo
secondo il disegno di Dio. Trattato di antropologia teologica Preesistenza,
sopravvivenza, reincarnazione Teologie della prassi L'eresia del nostro secolo
Società Storia dell'antropologia filosofica Antropologia filosofica. L'uomo: un
progetto impossibile? Philosophical anthropology Una nuova cultura per una
nuova società. In ricordo di M.. Un
tomista ed "oltre" del XX secolo: M. di PMontini, Congresso tomista
internazionale, Roma, nel sito "E-
Aquinas" Studium thomisticum. Grice: “M. attempts a systematic semantics. Rather he
has a section on ‘semantics’ --. The expressions have to be used carefully.
System itself, should be used alla Gentzen, or as Myro does with System G in my
gratitude. A semantics for System BATTISTA
MONDIN introduzione alla filosofia
(Problemi, Sistemi, Filosofi) M. INTRODUZIONE ALLA
FILOSOFIA PROBLEMI - SISTEMI - FILOSOFI Con guida alla lettura
di alcune opere fondamentali e glossario dei principali termini
filosofici MASSIMO - MILANO La prof. Rossana
Carmagnani ha collaborato alla revisione del pre- sente volume ed ha
curato i « questionari », le « sintesi contenutistiche » e le « chiose a
margine ». Massimo Corso di Porta Romana, Milano. Altre opere
filosofiche dello stesso Autore: Corso di storia della filosofia, Massimo,
Milano. L'uomo: chi è? (Elementi di antropologia filosofica), Massimo,
Milano. Introduzione alla teologia, Massimo, Milano.
Cultura, marxismo e cristianesimo, Massimo, Milano. Storia
della filosofia medievale, Pontificia Università 'Urbaniana, Roma.
Una nuova cultura per una nuova società (Analisi della crisi epocale
della cul- tura moderna e dei progetti per superarla), Massimo,
Milano. Il sistema filosofico di Tommaso d'Aquino (Per una lettura
attuale della filo- sofia tomista), Massimo, Milano. Il
valore uomo, Dino Editore, Roma. I Verori fondamentali (Definizione
e classificazione dei valori), Dino Editore, oma. In quale
modo contribuire alla trasformazione dell'uso di un testo per lo studio
della filosofia, affinché esso divenga lo strumento vivo di ricerca e di
riflessione? Questa quarta edizione di Introduzione alla filosofia,
completa- mente rinnovata rispetto alla precedente, risponde a questo
obiettivo, offrendo non solo una presentazione sistematica di contenuti,
ma anche indicazioni metodologiche atte a sviluppare un processo di
ri- cerca attivo e dialogico, alla luce della propria tradizione
culturale, attraverso l'esercizio della riflessione, per arrivare a
soluzioni con- formi alla ragione e alla natura dell'uomo.
L'Autore ha introdotto, nella prima parte dedicata ai problemi
filosofici, tre nuovi problemi, che durante l'ultimo decennio si sono im-
posti all'attenzione di tutti, quello culturale, quello epistemologico e
quello assiologico. Questi tre problemi suscitano oggi particolare in-
teresse perché ci si è resi conto che la grave crisi spirituale, che ha
colpito l'umanità intera, trova la sua ragione più profonda nella
disgregazione della cultura e dei valori e nella confusione che si fa tra
scienza e tecnica. E questo vale per chi vuole fare dello studio della
filosofia non un semplice esercizio accademico, ma, come già pensavano i
greci, uno strumento fondamentale e l’unico razional- mente possibile, per
la soluzione dei problemi della vita e della no- stra società.
Le parti seconda (dedicata ai sistemi filosofici) e terza (dedicata
alla presentazione dei principali filosofi) sono state ampliate con
l'aggiunta di altre « scuole filosofiche », specie quelle sorte negli ulti-
mi decenni e di numerose altre « schede » sui maggiori filosofi. Nella
quarta parte, dedicata alla presentazione di alcuni grandi testi filo-
sofici, è stata inserita l'opera: Introduzione alla metafisica, che è tra
le più significative e rappresentative di Heidegger, uno dei maggiori
filosofi. Infine, il volume è completato da una quinta (nuova) parte che
contiene un « glossario » dei principali termini filosofici, che sarà di
aiuto a chi si accosta per la prima volta alla filosofia. ì
Questa quarta edizione dell'opera è stata rielaborata seguendo an-
che le indicazioni di molti insegnanti che hanno usato il testo nel
passato e che sono stati da noi interpellati con « schede-inchiesta ».
Ogni capitolo del testo è corredato di questionari, di concetti da
ritenere, di sintesi contenutistiche e di chiose a margine, che, opportunamente
utilizzati, costituiscono un adeguato sussidio per un mi- gliore
approfondimento e una rapida consultazione. I questionari assolvono la
duplice funzione propedeutica e di verifica: a) i questionari
propedeutici sono finalizzati a suscitare il problema nei suoi aspetti
fondamentali; b) i questionari di verifica e discussione consentono il
controllo del processo di apprendimento in ordine ai contenuti, il
raccordo tra le successive fasi di lavoro e la discussione sui temi di
maggior rilievo. I concetti da ritenere sono finalizzati alla corretta
acquisizione del linguaggio tecnico e alla capacità di gestire con maggiore
facilità qualsiasi testo filosofico. Le sintesi contenutistiche,
elaborate alla fine di ogni capitolo, hanno lo scopo di favorire la
padronanza costante dei contenuti acquisiti. Le chiose, ai margini del
testo permettono di individuare su- bito i temi centrali presentati. Alla
fine di ogni capitolo una breve ed aggiornata bibliografia segnala,
secondo le necessità, opere per approfondire temi parti- colari.
Questa opera, oltre che per uso scolastico, date le sue caratteri-
stiche che ne fanno una piccola enciclopedia filosofica (da consul- tare
nelle più svariate occasioni), la riteniamo molto utile anche per tutti
coloro che vogliono conoscere gli elementi fondamentali della filosofia
come studio dei grandi problemi dell'umanità e vogliono aggiornarsi su di
essi. Ricordiamo, infine, che l'Autore ha curato presso la nostra
edi- trice un Corso di storia della filosofia, in tre volumi, con le
stesse caratteristiche metodologiche della presente opera e con
un'ampia antologia di testi dei maggiori filosofi di ogni epoca. Il terzo
volume del Corso suddetto, di pp. 616, presenta in modo esauriente la
filo- sofia degli ultimi due secoli e può diventare un o ttimo
strumento per far conoscere le maggiori correnti filosofiche
contemporanee ad ogni persona di cultura media superiore. QUESTIONARIO
PROPEDEUTICO Chi sono? Da dove vengo e dove vado? Che cosa è la vita? Sono
questi i « perché » fondamentali che l’uomo si pone. 2. Quali
risposte dare a questi perché? 3. Rispetto agli altri esseri
viventi, che cosa significa essere uomo? 4. Che cosa significa
essere dotato di intelligenza, di volontà, di capacità di amare?
5. Che cos'è il pensiero? Che cos'è la realtà? Che rapporto c'è tra la
capa- cità di pensaree la realtà? Che cos'è la verità? 6. Che cosa
significa essere libero? Che cosa significa essere condizionato? Qual è il
criterio che deve regolare il rapporto con i propri simili e con l’uso delle
cose? Che cos'è il bene? Che cos'è l'utile? Che rapporto c’è tra bene e utile?
. 7. Ciascuno di noi ha bisogno degli altri. Come e perché? L'uomo, si dice, è
naturalmente filosofo, cioè « amico della sa- pienza »; bramoso di sapere, egli
non si accontenta di vivere alla giornata e di accettare passivamente le
informazioni che l’esperien- za immediata gli offre, come fanno gli animali. Il
suo sguardo inquisitivo vuole conoscere il perché delle cose, soprattutto il
perché della propria vita. Che cos'è la filosofia 1.1 La conoscenza
intellettuale L'uomo è un essere che pensa: egli è dotato di una capacità cono-
scitiva superiore a quella degli altri esseri viventi appartenenti sia al regno
vegetale che a quello animale. Gli animali, ad esempio, pos- sono avere
coscienza ma non autocoscienza; essi sanno, ma non sanno di sapere; desiderano,
ma non sanno di desiderare; amano, ma non sanno di amare; crescono, diventano
adulti e muoiono, ma non sono consapevoli di queste trasformazioni del loro
essere. L'uomo non solo percepisce con i sensi gli eventi particolari, come
{(*) Come è accennato nella presentazione dell'Editore, i questionari pro-
pedeutici hanno lo scopo, attraverso l'esercizio della riflessione e
dell’autorifles- sione, di suscitare la partecipazione attiva degli allievi
alla costruzione previa della lezione, Superiorità della conoscenza umana
Conoscenza razionale e conoscenza simbolica Varie definizioni del termine
‘‘filosofia’’ gli altri esseri viventi, ma con la sua ragione è in grado di
acquisire idee generali o di formulare giudizi universali. Egli non conosce
solo i fatti ma anche i « perché ». La conoscenza intellettuale, di cui l'uomo
è dotato, assume due forme principali: quella razionale o logica (che opera con
i concetti) e quella simbolica o analogica (che opera con le immagini, i
simboli, i miti, le parabole, ecc.). La prima è di tipo speculativo e astratto,
mentre la seconda è di tipo figurativo, concreto. La conoscenza simbolica non è
necessariamente inferiore a quella razionale, anzi per alcune sfere della
realtà (per esempio: arte e re- ligione) essa è più congeniale della seconda.
me il valore della vita e della conoscenza umana, la libertà, la natura del
male, l'origine e il valore della legge morale. Di questi problemi si occupa
soltanto la filosofia. In secondo luogo, perché, mentre le scienze studiano
questa o quella dimensione della realtà, la filosofia ha per oggetto l’intero,
la totalità, l'universo preso globalmente. Ecco, pertanto, la prima
caratteristica che distingue la filosofia da qualsiasi altra forma di sapere:
essa studia tutta la realtà ò, co- munque, cerca di ottenere una comprensione
completa ed esauriente di ogni settore della realtà. Essa si preoccupa
soprattutto, di sapere, di comprendere; mentre la scienza si accontenta di
analizzare e di calcolare. 1.3 Natura della filosofia Ma ci sono anche altre
tre qualità che contribuiscono a dare al sapere filosofico un carattere proprio
e specifico: a) lo strumento di ricerca; b) il metodo; c) il fine o scopo. a)
Lo strumento di ricerca, di analisi di cui si serve la filosofia è la ragione,
la pura ragione, il « puro ragionamento », come dice Platone. Essa non dispone
di microscopi, telescopi, macchine foto- grafiche, ecc. Non può effettuare
controlli con strumenti materiali né affrettare le sue operazioni ricorrendo
agli elaboratori. Anche gli strumenti conoscitivi, di cui si serve ogni uomo e
ogni scienziato, i sensi e la fantasia, al filosofo servono solo nella fase
iniziale, per ottenere quelle cognizioni del reale, su cui poi indirizza lo
sguardo penetrante della ragione. Il lavoro vero e proprio dell'indagine filo-
sofica è compiuto dalla sola ragione, Ia quale per sottrarsi a qualsiasi
distrazione si chiude dentro il suo sacro recinto, lontana dal frastuo- no
delle macchine, dalla seduzione dei piaceri e dalla prassi, dalia confusione
dei sensi, in solitaria compagnia col proprio oggetto. b) Il metodo della
filosofia è essenzialmente raziocinativo, anche se non esclude qualche momento
intuitivo (sia nella fase iniziale sia in quella terminale). I procedimenti
raziocinativi sono però mol- 9 La filosofia può esaminare ogni cosa La
filosofia, a differenza delle singole scienze, studia ogni settore della realtà
Lo strumento di ricerca della filosofia è la ragione La fiiosotia nella su
ricerca ha un metodo e un fine La filosofia elementare è soprattutto narrativa:
si esprime attraverso i miti Con l’indagine razionale è sorta la filosofia
scientifica teplici, di cui i più importanti sono l’induzione e la deduzione.
La filosofia li adopera entrambi: il primo per risalire dai fatti ai prin- cipi
« primi », il secondo per ridiscendere dai principi primi ed illu- minare
ulteriormente i fatti, per comprenderli meglio. c) La filosofia si distingue
dalle scienze anche nel fine. La filo- sofia non è volta a fini pratici e
interessati, come la scienza, l’arte, la religione e la tecnica, le quali, in
un modo o nell'altro, hanno sempre di mira qualche soddisfazione oppure qualche
vantaggio. La filosofia ha per unico obiettivo la conoscenza; essa mira
semplicemente a ricercare la verità per se stessa, a prescindere da eventuali
utiliz- zazioni pratiche. La filosofia ha uno scopo puramente teoretico, ossia
contemplativo; non ricerca per nessun vantaggio che sia ad essa estraneo, ma
per se stessa; essa è quindi — come ha detto egregia- mente Aristotele nella
Metafisica (A, 2,982b) — « libera », in quanto non è asservita ad alcuna
utilizzazione di ordine pratico, e quindi si realizza e si risolve nella pura
contemplazione del vero. 2. Le origini della filosofia 2.1 Filosofia elementare
e scientifica L'uomo — l'abbiamo già visto — è per natura filosofo: in quan- to
essere ragionevole egli è portato ad interrogarsi su tutto ciò che c'è, tutto
ciò che accade, tutto ciò che compie e tutto ciò che vale. Le questioni ultime
non sono una riserva di caccia aperta soltanto ai dotti e ai letterati, ma è
aperta anche all'uomo della strada, an- che all'analfabeta. Esiste pertanto una
filosofia elementare che è comune a tutti gli uomini. a La forma letteraria
della filosofia elementare è quella del rac- conto: è essenzialmente filosofia
narrativa (non è filosofia argomen- tativa, raziocinativa, sistematica); la
filosofia elementare si esprime attraverso miti, presentati in racconti, poemi,
diari. Sotto queste forme essa è presente in tutte le civiltà, in particolare
nelle grandi civiltà orientali (cinese e indiana) e nelle antiche civiltà del vicino
Oriente (egiziana, assiro-babilonese, ittita ed ebraica). Ma, come abbiamo già
spiegato in precedenza, oltre alla filosofia elementare esiste anche una
filosofia scientifica, sistematica, spe- cializzata. Questa forma di filosofia,
storicamente, si è sviluppata soltanto in Occidente (al pari della scienza e
della tecnologia). Per quale motivo? Perché soltanto gli occidentali, a partire
dal popolo greco, sono riusciti a mettere a punto gli strumenti concettuali (la
logica, la dialettica, il puro ragionamento) che sono necessari per elevare la
filosofia dal livello elementare a quello scientifico. Infatti anche nelle
altre culture, specialmente in quelle derivanti dalle grandi civiltà
mediorientali ed orientali, elementi filosofici appaiono in contesti di
carattere prevalentemente religioso e pertanto non 10 possono essere definiti «
filosofia » in senso scientifico vero e pro- prio. Che i problemi ultimi si
possono affrontare e risolvere col puro ragionamento (controllato dalle regole
della logica) fu scoper- to da Parmenide, Eraclito, Platone e, soprattutto, da
Aristotele. Que- ste grandi intelligenze dell’Ellade cercarono la filosofia
come scien- za. La filosofia è quindi una conquista degli occidentali e, fino
ai giorni nostri, è rimasta una prerogativa del pensiero occidentale. È per
questo motivo che ogni storia della filosofia coincide pratica- mente con
l'esposizione delle teorie dei filosofi dell'Occidente. 2.2 Mito e filosofia
L'umanità primitiva (lo si può constatare presso tutti i popoli) per qualsiasi
problema si è accontentata di dare delle spiegazioni mitiche. Così alla
domanda: « Perché tuona? » ha risposto: « Per- ché Giove è adirato »; alla
domanda: « Perché tira vento? » ha ri- sposto: « Perché Eolo si è infuriato ».
A noi moderni queste soluzioni paiono semplicistiche e sbaglia- te. Tuttavia,
storicamente, esse hanno grandissima importanza, in quanto rappresentano il
primo sforzo fatto dall'umanità per render- si conto della natura delle cose e
delle loro cause. Sotto il velo fan- tastico c'è in esse un'autentica ricèrca
delle « cause prime » del mondo. Per questo motivo, riteniamo opportuno
spendere qui qualche parola sul mito, sulla sua definizione, sulle sue
interpretazioni prin- cipali e sul passaggio dalla mitologia greca alla filosofia.
Il Turchi, noto studioso della storia delle religioni, definisce così il mito:
« Il mito, nella sua accezione generale e nelia sua scaturigi- ne psicologica,
è l'animazione dei fenomeni delia natura e della vità, dovuta a qualche forma
primordiale ed intuitiva della conoscenza umana, in virtù della quale l'uomo
proietta se siesso nelle cose, cioè le anima e personifica dando loro figura e
atteggiamenti sugge- riti dalla sua immaginazione; esso è, insomma, una
rappresentazio- ne fantastica della realtà spontaneamente delineata dal
meccani- smo mentale ».! Di questa lunga definizione possiamo ritenere l’ulti-
ma parte: il mito è una rappresentazione fantastica, intuitivamen- te delineata
dal processo mentale dell'uomo, al fine di dare un'’in- terpretazione e una
spiegazione ai fenomeni delia natura e della vita. Come s'è detto, sin
dall'inizio l'uomo ha cercato di indagare l'origine dell'universo, la natura
delle cose e delle forze cui egli si sentiva soggetto. A questa indagine, sotto
la spinta cella fanta- sia creatrice e dell’intuizione, doti così vive ancor
oggi presso i po- poli primitivi, egli ha dato colore e forma, costruendosi un
mondo di esseri viventi (con sembianza umana oppure ferina), dotati di storia.
La loro funzione è di fornire una spiegazione per qualsiasi ! N. TURCHI, Le
religioni dell'umanità, Assisi 1954, p. 61. 11 Ii mito è ia prima riscosta
dell’umanità ai fenomeni delia naiura e delia vita Rivaiutazione del mito quale
risposta “‘prelogica’’ ai problemi dell’esistenza umana evenio della natura e
dell’esistenza umana: per la guerra come per la pace, per la quiete come per la
tempesta, per l'abbondanza come per la carestia, per la buona salute come per
la malattia, per la na- scita come per la morte. Tutti i popoli antichi, gli
assiri, i babilonesi, i persiani, gli egiziani, gli indiani, i cinesi, i
romani, i galli, i greci, hanno i loro miti. Però, fra tutte le mitologie, la
greca è quella che spicca maggiormente per ricchezza, ordine e umanità. Non c'è
quindi da essere sorpresi se fu proprio dalla mitologia greca che prese svi-
luppo la filosofia. Del mito sono state fornite le più svariate
interpretazioni, di cui le principali sono due: mito = verità, mito = favola.
Secondo l’interpretazione « mito = verità », il mito è una rappre- sentazione
fantastica che intende esprimere una verità. Secondo l'interpretazione « mito =
favola », il mito è un racconto immagi- noso senza nessun intento teoretico. I
miti, secondo la prima inter- pretazione, sono le uniche spiegazioni che
l'umanità, ai suoi primor- di, era in grado di fornire delle cose, ma sono
spiegazioni in cui credeva fermamente. I miti, nella seconda interpretazione,
sono raffigurazioni fantastiche in cui nessuno ha mai creduto, e meno degli
altri i loro creatori. I primi a considerare i miti delle pure favole furono i
filosofi greci. A loro più tardi si sono associati volentieri i Padri della
Chiesa, gli scolastici e la maggior parte dei filosofi moderni. Ma, a partire
dall'inizio del nostro secolo, vari studiosi di storia delle religioni
(Eliade}, di psicologia (Freud), di filosofia (Heidegger), di antropologia
(Lévi-Strauss), di teologia (Bultmann) hanno inco- minciato ad appoggiare
l'interpretazione mito = verità, indotti a ciò dall’argomento che l'umanità
primitiva, pur non potendo darsi del- l'universo una spiegazione « logica »,
cioè concettuale, ragionata e metodica, tuttavia deve aver cercato di darsi una
spiegazione più o meno intuitiva di fenomeni come la vita, la morte, il bene,
il male, ecc., fenomeni che colpiscono la mente di qualsiasi osservato- re, per
quanto poco istruito. Secondo molti studiosi contemporanei, i miti nascondono,
pertanto, sotto la maschera di immagini più o meno eloquenti, la risposta «
prelogica » fornita dall'umanità pri- mitiva a questi grossi problemi. Tale
risposta, a loro giudizio, me- rita d'essere presa in considerazione anche
oggi, perché l’umanità primitiva, semplice e attenta, in alcuni casi può aver
colto intuitiva- mente nel segno più dell'umanità progredita, troppo smaliziata
e distratta che si vale dei metodi raffinati della logica, della dialettica e
della scienza. Dall'analisi degli studiosi del nostro tempo risulta che presso
i popoli antichi il mito ha svolto tre funzioni principali: religiosa, sociale
e filosofica. Anzitutto « il mito è il primo gradino nel processo di compren-
sione dei sentimenti religiosi più profondi dell’uomo; è il prototipo 12 della
teologia »? Però, allo stesso tempo, esso è anche ciò che se- gnala e
garantisce l'appartenenza ad un gruppo sociale piuttosto che ad un altro;
infatti la diversa appartenenza dipende dai miti particolari che uno sposa e
coltiva. Infine il mito svolge anche una funzione affine a quella della
filosofia in quanto esso rappresenta il modo di autocomprendersi dei popoli
primitivi. Anche l’uomo del- le civiltà antiche è consapevole di certi fatti e
valori, e cristallizza la causa dei primi e la realtà dei secondi in quelle
rappresentazioni fantastiche che sono appunto i miti. Noi siamo del parere che
il mito sia denso di significato sia religioso che filosofico, sia sociale che
personale. Però non siamo disposti a rivalutarlo fino al punto. di stabilire
una equiparazione diretta tra mito e filosofia. Questa, pur proponendosi
essenzialmen- te lo stesso obiettivo del mito, ossia quello di fornire una
compren- sione esaustiva delle cose, cerca di conseguirlo in un modo comple-
tamente diverso. Infatti il mito procede con la rappresentazione fan- tastica,
con l'immaginazione poetica, con intuitive analogie suggeri- te dall'esperienza
sensibile; pertanto resta al di qua del /ogos, ossia al di qua della
spiegazione razionale. Invece la filosofia opera con la sola ragione, con
rigore logico, con spirito critico, con motiva- zioni razionali, con
argomentazioni stringenti’ basate su principi il cui valore è stato previamente
assodato in forma esplicita? 3. | problemi filosofici fondamentali Abbiamo già
detto che ogni cosa è suscettibile di indagine filo- sofica; si può, quindi,
dare una filosofia dell'uomo, degli animali, del mondo, della vita, della materia,
degli dèi, della società, della politica, della religione, dell’arte, della
scienza, del linguaggio, dello sport, del riso, del gioco, ecc. Di fatto, però,
coloro che si chiama- no filosofi hanno studiato di preferenza soltanto alcuni
problemi, quelli che vanno sotto il nome di logica, gnoseologia (o problema
del- la conoscenza), epistemologia, metafisica, cosmologia, antropologia,
etica, teodicea {o religione), politica, estetica, pedagogia, cultura,
linguaggio e assiologia, le quali costituiscono pertanto anche le parti
principali della filosofia. La logica si occupa del problema del- l'esattezza
del ragionamento; la gnoseologia della conoscenza; l'e pi- stemologia,
nell'accezione attuale del termine, della scienza, del suo fondamento e del suo
valore; la metafisica, del fondamento ultimo ? L. GILKEY, I! destino della
religione nell'èra tecnologica, Roma 1972, p. 163. ? Aristotele dice che la
differenza specifica tra scienza ed esperienza sta nel fatto che la seconda
testimonia che qualcosa è accaduto e ne rappresenta il come, mentre la prima
cerca di chiarirne il perché. A nostro avviso, anche la differenza tra mito e
filosofia sta proprio qui. Il mito ci dice come si struttura l'universo, ossia
il mondo degli dèi, degli uomini e delle cose. La filosofia invece vuole
spiegare il perché del mondo, dell'uomo e di Dio. 13 | fondamenti filosofici
sono le costanti della riflessione umana delle cose in generale; la cosmologia,
della costituzione essenziale delle cose materiali, della loro origine e del
loro divenire; l'antro po- logia, dell'uomo, della sua natura e del valore
della sua persona; la teodicea, del problema religioso ossia dell'esistenza e
della natura di Dio e dei rapporti che gli uomini hanno con lui; l’etica,
dell'origine e della natura della legge morale, della virtù e della felicità;
la politica, dell'origine e della struttura dello Stato; l’estetica, del
problema del bello e della natura e funzione dell’arte; la pedagogia,
dell’educazio- ne; la cultura del complesso delle conoscenze e dei comportamenti
dell'uomo; l'assiologia, dei valori. Essendo queste le costanti del filosofare,
che in forma più o meno accentuata sono presenti in tutte le epoche della
storia, prima di iniziarne lo studio sistematico è opportuno acquisire un'idea
abba- stanza precisa dei problemi che esse abbracciano e intendono risol- vere.
A tale esigenza si propone di rispondere il presente volume. Esso non è diretto
agli specialisti ma a chi inizia a studiare la filosofia. Per questo motivo, i
singoli problemi sono esposti e di- scussi in forma semplice, precisa,
essenziale. Di ogni problema si illustrano le origini e gli sviluppi storici,
le soluzioni prospettate dai vari filosofi attraverso i secoli e le questioni
tuttora aperte e pen- denti. CONCETTI DA RITENERE — Conoscere; filosofia;
filosofo — Intelletto; razionalità; logicità — Ricerca; metodo; finalità —
Scienza; tecnologia; scientificità — Induzione; deduzione — Mito; favola;
risposta « pre-logica » o intuitiva. SINTESI CONTENUTISTICA 1) Che cos'è la
filosofia — La conoscenza umana è superiore a quella degli altri esseri
viventi. A livello intellettuale essa assume due forme: razionale o logica e
simbolica o analogica. L'uomo è naturalmente « filosofo », egli cerca sempre il
perché delle cose. Vengono chiamati « filosofi » coloro che hanno come primo
scopo queste ricerche condotte in modo sistematico, per arrivare ad avere delle
risposte ai grandi interrogativi che da sempre si è posta l’uma- nità. La
filosofia ha una sfera particolare di competenza. Non è facile però stabilire
in modo specifico il campo di ricerca proprio della filosofia. In realtà i
filosofi si sono occupati non solo dello studio dell'uomo, ma anche del lin-
guaggio, dell'essere, della storia, dell’arte, della cultura, della politica,
ecc. Si può dire pertanto che la filosofia si occupa di ogni cosa, ricercandone
le cause e le ragioni fondamentali. Inoltre, mentre le singole scienze studiano
una par- ticolare dimensione della realtà, la filosofia ha per oggetto
l'universo preso nella sua totalità. . 2) La specificità della filosofia è data
dal fatto che essa si vale: a) di uno strumento di ricerca, che è dato dalla
ragione; b) di un metodo raziocinativo, valendosi dell’induzione e della
deduzione; c) dell'obiettivo specifico della co- noscenza. 14 3) Le origini
della filosofia — Filosofia elementare (comune a tutti gli uomini) e
scientifica (sistematica, specializzata). Rapporto tra mito e filosofia. Due
principali interpretazioni del mito: mito = verità, mito = favola. Mentre sino
al secolo scorso ha dominato il concetto del mito = favola, dall’inizio del
secolo XX molti studiosi hanno ripreso il concetto di « mito = verità » in
quanto l'umanità primitiva, non potendo dare una spiegazione « logica » del-
l'universo, ha cercato una spiegazione intuitiva ai grandi fenomeni come la
vita, la morte, il bene, il male, ecc. I miti, sotto la maschera di immagini
varie, danno una risposta « prelogica » a questi fenomeni. Dalla mitologia
greca prese sviluppo la filosofia. Funzione religiosa, sociale e filosofica del
mito. 4) I problemi filosofici fondamentali — La logica (studio dell'oggetto
del pensiero in quanto tale) si divide in formale, trascendentale e matematica.
Il « sillogismo » aristotelico; l'epistemologia (teoria generale del sapere
scienti- fico) e la gnoseologia (teoria filosofica della conoscenza); la
cosmologia (studio della forma e delle leggi dell'universo); l'antropologia
{studio dell’uomo); la metafisica (studio dell'essere in quanto tale); l'etica
o morale (studio dell'agire umano con riferimento all'ultimo fine); l’estetica
(studio dell'attività e della produzione artistica); la politica (studio
dell'origine e del fondamento dello stato); la teodicea {studio di Dio); la
storia (lo studio del senso della storia); la pedagogia (scienza dell'educazione);
la cultura (l'insieme di costumi, valori, ecc., propri di un popolo);
l’assiologia (studio dei valori). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1.
Animali e uomo: in che cosa consiste la differenza? 2. Quali forme assume,
nell'uomo, la conoscenza intellettuale? 3. Perché l’uomo è stato sempre
naturalmente filosofo? L'uomo come si differenzia dagli altri esseri viventi?
4. Che cosa sono la filosofia e il filosofo? 5. La differenza tra filosofia e
scienze consiste nell'oggetto o nel metodo? 6. Quali sono le principali
concezioni cosmologiche della scienza contem- poranea? 7. Che cosa è il mito?
Come è sorto? 8. Perché si dice oggi che il mito è una risposta « prelogica »
dell'umanità? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1. Sul concetto di filosofia: AA.Vv.,
Enciclopedia Garzanti di filosofia, Garzanti, Milano 1986°. AA.Vv., Scienza e
filosofia oggi, Massimo, Milano 1980. GENTILE M., Che cosa è il sapere, La
Scuola, Brescia 1948. MARITAIN J., Introduzione alla filosofia, Massimo, Milano
1986. Morra G.F., Filosofia per tutti, La Scuola, Brescia 1974. PIEPER J., Per
la filosofia, Ares, Milano 1966. RicoBELLO A., Perché la filosofia, La Scuola,
Brescia 1979. VERNEAUX R., Introduzione e logica, Paideia, Brescia 1956. 2. Sui
rapporti tra mito, religione e filosofia: ABBAGNANO N., Filosofia, religione,
scienza, Taylor, Torino 1960. CopLESTON F.C., Religione e filosofia, La Scuola,
Brescia 1977. MonpoLro R., Alle origini della filosofia della cultura, Il
Mulino, Bologna 1956. SERVIER J., L'uomo e l'invisibile, Borla, Torino 1967. 15
SNELL B., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi, Torino
1963. VERNANT J., Mito e pensiero presso i greci, Einaudi, Torino 1970. 3. Sui
problemi fondamentali della filosofia: AA.Vv., Studio ed insegnamento della
filosofia, A.V.E., Roma 1966, 2 voll. AA.Vv., Concetti fondamentali di
filosofia, Queriniana, Brescia 1982, 3 voll. AA.Vv., Storia antologica dei
problemi filosofici, collana diretta da Ugo Spirito, Sansoni, Firenze 1965 ss.
VOLKMANN-SCHLUCK, Introduzione al pensiero filosofico, Città Nuova, Ro- ma
1986. Per un aggiornamento generale segnaliamo la rivista quadrimestrale Per la
filosofia (Filosofia e insegnamento), dell'Ed. Massimo di Milano, con temi
monografici e una seconda parte di aggiornamento didattico per gli insegnanti.
(Si può chiedere lo « specimen » della rivista con i sommari dei vari numeri
usciti). 16 Parte prima: I PROBLEMI FILOSOFICI Capitolo primo IL PROBLEMA
LOGICO (*) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Esiste una relazione del pensiero con
se stesso? 2. Eventualmente, esso come si esprime e quale valore ha? 3. Quale
rapporto è possibile stabilire tra pensiero e, discorso? 1. Natura del problema
La conoscenza umana è un fenomeno complesso e misterioso. Al suo studio si
interessano particolarmente tre discipline filoso- fiche, la psicologia, la
gnoseologia e la logica: la prima ne esa- mina l'origine e i tipi principali;
la seconda ne accerta il valore, studiando il rapporto che intercorre tra la
conoscenza e gli oggetti conosciuti; la terza, infine, studia le condizioni
essenziali al co- stituirsi della conoscenza e fissa le regole per il suo retto
funziona- mento. La logica non presuppone la gnoseologia, di cui è piuttosto
uno strumento indispensabile per il raggiungimento della verità. ‘Pre- suppone
invece la psicologia, perché è da quest’ultima che essa viene a sapere quali
sono i tipi di conoscenza di cui è dotata la mente umana. Ottenute queste
informazioni (per l'appunto dalla psicologia), la logica procede allo studio
delle condizioni fondamen- tali che rendono possibili tali tipi di conoscenza
ed a stabilire le norme per il loro retto funzionamento. (*) Il termine greco
/ogos (dal verbo /égein = dire) presenta nella lingua originaria una pluralità
di significati, che esprimono però tutti una stretta con- nessione reciproca;
dal più semplice al più complesso sono i seguenti: parola, discorso,
ragionamento, mente, intelletto. Il termine indica quindi sia il sog. getto
pensante, sia il procedimento proprio del pensiero, sia il linguaggio nel suo
irisieme che la parola nel suo valore di comunicazione e di specchio astrat- to
delia realtà. La logica, di fatto, finisce per essere lo studio della retta
corre- lazione di tutti quesii elementi. 17 La logica ricerca le condizioni ed
il loro retto funzionamento per giungere alla gonoscenza La storia della
filosofia conferma la dipendenza della logica dalla psicologia Il problema
della logica si impone da sé. La logica: l’oggetto del pensiero in quanto tale
La logica è lo studio degli enti di ragione Tale dipendenza della logica dalla
psicologia è chiaramente con- fermata dalla storia della filosofia. Aristotele,
per esempio, distin- gue tre tipi di conoscenza intellettiva (apprensione,
giudizio e ra- gionamento) e così nella sua logica fissa le regole per il retto
fun- zionamento dell’apprensione, del giudizio e del ragionamento. Hu- me e
Stuart Mill pensano che tutta la conoscenza umana faccia capo alla fantasia e
pertanto nella loro logica stabiliscono delle re- gole per il retto
funzionamento della fantasia. Kant, da parte sua, distingue tre operazioni
conoscitive: sensazione, giudizio e ragiona- mento, e pertanto esplora le
condizioni trascendentali che rendono possibile il loro funzionamento. Il
problema logico, anche se a qualcuno può sembrare artificio- so, si impone da sé.
Esso prende forma non appena ci si accorge che alcune conoscenze possono essere
interpretate in maniera diver- sa, oppure che la conclusione di un certo
ragionamento non può essere valida. Ecco due esempi. Primo: di notte ho la
sensazione d'essere colpito mortalmente da una fucilata e mi sveglio di so-
prassalto; in un primo momento non so se si tratta di una per- cezione
oggettiva oppure semplicemente d'un sogno. Cosa è che distingue queste due
forme di conoscenza? Secondo: dalle proposi- zioni: « tutte le oche sono bipedi
» e « tutti i galli sono bipedi », qualcuno potrebbe trarre la conclusione: «
tutti i galli sono oche ». Per quale motivo una simile argomentazione è errata?
La logica si propone, quindi, di fornire una risposta ai seguen- ti interrogativi:
Ciò che esprimo quando parlo, che cos'è? E quali sono le sue strutture? Quale
la sua organizzazione interna? Della logica sono state date molte definizioni.
Una di quelle su cui quasi tutti gli autori si trovano d'accordo è la seguente:
« è la scienza che studia il pensato in quanto pensato ». Che significa « il
pensato in quanto pensato »? Vuol dire che la logica studia un oggetto di
pensiero {il pensato) in quanto oggetto di pensiero (in quanto pensato) e non
in quanto rappresentazione di questa o di quella cosa. Per esempio, la logica
prende in esame l'idea di tavolo non in quanto è la rappresentazione più o meno
fedele di questo o di quel tavolo, oppure per spiegare in che modo tale idea è
entrata nella nostra men- te, ma considera il tavolo in quanto, diventato
pensiero, esso assume certe particolari caratteristiche (che come oggetto
fisico non ha), come l'universalità, la predicabilità, la definibilità, ecc.
Così, quando spiego che nella proposizione « il tavolo è quadrato » tavolo è
sogget- to e quadrato è predicato faccio un discorso che appartiene alla lo-
gica e non alla fisica. Spesso si dice che la logica non studia enti reali ma
enti di ragione. E questo è vero. Infatti le caratteristiche del pensato, delle
idee, come l'universalità, la predicabilità, ecc. sono entità che non esistono
nella natura delle cose (non sono entità fisiche), ma esistono solo nella
mente. La logica si divide in tre grandi branchie: logica formale, logica
trascendentale e logica matematica. 18 La logica formale esamina le
caratteristiche delle idee al fine di stabilire le norme del retto argomentare.
Si dice « formale », ap- punto perché ciò che l’interessa sono le
caratteristiche delle idee e non i loro contenuti. Ne consegue che le norme che
essa stabilisce garantiscono la correttezza del discorso ma non la sua verità.
La logica trascendentale tratta della validità delle nostre cono- scenze, ossia
delle condizioni alle quali esse devono la loro possi- bilità e verità, e
perciò del peculiare modo di essere del pensato in quanto pensato. La logica
matematica non parte da un determinato discorso al fine di determinare le
regole che ne garantiscono la verità, ma procede nel senso inverso: stabilisce
anzitutto un gruppo di regole sulle relazioni di certi termini tra di loro e
poi procede a determi- nare quale discorso sia possibile una volta accettato
tale gruppo di regole. La logica matematica viene pertanto costruita come un
puro calcolo. 2. Panorama storico Aristotele ci ha dato le prime norme della
logica formale: « La scienza della logica è stata scoperta dai Greci. Ciò non
significa che prima di essi non vi sia stato pensiero logico: questo infatti è
antico quanto il pensiero, poiché ogni ideazione fertile è con- trollata dalle
regole della logica. Ma una cosa è applicare tali regole inconsciamente nelle
operazioni del pensiero pratico, e un’altra for- mularle esplicitamente, in
maniera da sistematizzarle sotto forma di una teoria. Spetta ad Aristotele il
merito d'aver iniziato lo studio organico delle regole logiche ». Il merito
principale d’Aristotele è avere fissato con grande pre- cisione le regole
dell'argomentazione deduttiva, nella forma del sillogismo. Il sillogismo consta
di tre proposizioni di cui le prime due sono chiamate « premesse » e la terza «
conclusione ». Le tre propo- sizioni sono costruite soltanto con tre termini,
denominati « me- dio », « maggiore » e « minore ». Il medio è quello che
compare due volte nelle premesse ma non figura nella conclusione. Il mag- giore
e il minore figurano sia nelle premesse sia nella conclusione. Il maggiore è
quello che ricorre nella premessa maggiore e il mi- nore quello che ricorre
nella premessa minore. Per esempio, nel sillogismo: « Tutti gli uomini sono
ragionevoli; Socrate è un uo- mo; quindi Socrate è ragionevole », « uomo » è il
termine medio; « ragionevole » è il termine maggiore; « Socrate » è il termine
minore. ! H. REICHENBACH, La nascita della filosofia scientifica, Il Mulino,
Bolo- gna 1961, p. 208, 19 La logica si divide in: — formale — trascendentale —
matematica Aristotele fissa ie regole dell’argomentazione deduttiva (il
sillogismo): si ha la logica ‘‘formale’’ Le quattro figure del sillogismo
L’induzione: dal particolare all’universale Critica al sillogismo: da Sesto
Empirico, Cartesio, Stuart Mill Del sillogismo si danno quattro figure
principali, le quali si ca- ratterizzano per la diversa posizione assunta dal
termine medio nel- le premesse. La prima figura si ha quando il termine medio è
sog- getto della maggiore e predicato della minore; la seconda figura, quando è
predicato in tutt'e due le premesse; la terza, quando è soggetto in entrambe le
premesse; la quarta quando è predicato nella maggiore e soggetto nella minore.
Perché il procedimento sillogistico sia retto Aristotele ha fissato otto regole
fondamentali Oltre che dell’argomentazione deduttiva Aristotele s'è occupato
anche di quella induttiva. Il procedimento induttivo, o induzione, si ha quando
una proposizione universale viene inferita da due gruppi di proposizioni
particolari. Per esempio: a) il ferro è un me- tallo, il bronzo è un metallo,
l'oro è un metallo, il rame è un me- tallo, ecc.; b) il ferro è un buon
conduttore di elettricità, l'oro è un buon conduttore di elettricità, il rame è
un buon conduttore di elettricità, ecc.; c) dunque i metalli sono buoni
conduttori di elet- tricità. L'enumerazione dei casi non può essere completa,
perché i casi sono potenzialmente infiniti, ma dev'essere sufficiente a far co-
gliere la ragione del fenomeno (per esempio, che l’esser metallo è la ragione
della buona conducibilità). Lo studio della deduzione e soprattutto quello
dell'induzione fu ulteriormente approfondito da altri filosofi dopo Aristotele.
Gli Stoici e alcuni filosofi medioevali hanno sviluppato lo studio delle
deduzioni imperfette, vale a dire delle argomentazioni ipotetiche e
disgiuntive. Invece Bacone * e Stuart Mill5 hanno fissato alcune re- gole per
rendere l’induzione più feconda e sicura. Le tabulae di Bacone offrono metodi
di enumerazione dei casi; le regole di Stuart Mill precisano vari metodi di
ricerca della ragione di fatti sperimentali. L'utilità del procedimento
sillogistico è stata contestata da vari autori lungo il corso dei secoli, per
esempio, da Sesto Empirico, Cartesio, Stuart Mill. C'è però da osservare che le
loro difficoltà non muovono tanto dalla logica quanto dalla teoria della
conoscenza, la quale .viene concepita in modo diverso da quello di Aristotele.
? Le otto regole del sillogismo sono: 1. I termini debbono essere soltanto tre;
2. I termini debbono avere la medesima estensione nelle premesse e nella
conclusione; 3. Il medio non deve mai entrare nella conclusione; 4. Il medio
deve essere preso almeno una volta in tutta la sua estensione; 5. Due premesse
negative non danno nessuna conclusione; 6. Due premesse afferma- tive risultano
necessariamente in una conclusione affermativa; 7. Due premesse particolari non
danno nessuna conclusione; 8. La conclusione segue sempre la parte più debole,
ossia se una premessa è negativa la conclusione dev'essere negativa; se una premessa
è particolare, la conclusione dev'essere particolare. ? Sulla logica
aristotelica cfr. B. MONDIN, Corso di storia della filosofia, vol. I, pp.
122-123, Massimo; Milano 1983. ‘ Cfr. B. MONDIN, Corso di storia della
filosofia, vol. II, pp. 103-107, Massi- mo, Milano 1984. 5 Cfr. B. MONDIN,
Corso di storia della filosofia, vol. III, pp. 184-186, Massi- mo, Milano 1985,
20 Sesto Empirico e Stuart Mill negano i concetti universali, e quindi per loro
è assurdo pretendere di passare dall'universale al singo- lare come si fa nel
sillogismo. Invece Cartesio afferma la corioscenza intuitiva sia degli
universali che dei particolari, e pertanto per lui diviene superflua qualsiasi
argomentazione tesa a passare da un ordine all’altro. Invece secondo Aristotele
noi abbiamo la capacità di acquistare concetti universali, ma non per
intuizione, bensì me- diante l’astrazione dai particolari. L’astrazione però
non comporta la conoscenza di tuiti i particolari. Così nella deduzione si
vengono a conoscere nuovi casi singoli che nell'universale erano presenti sol-
tanto potenzialmente. Un altro tipo di logica, detta logica trascendentale,
volta a stabi lire le condizioni essenziali che rendono possibili i vari tipi
di cono- scenza, fu elaborata da Kant. Questi, convinto della validità della
scienza, ha esaminato quali siano gli elementi che fondano tale validità. A suo
giudizio, essi non possono procedere dall’espe- rienza che non è mai dotata di
necessità e universalità, ma dal sog- getto stesso: sono forme o categorie con
le quali il soggetto accoglie, interpreta e classifica l’esperienza. Nella sua
logica trascendentale Kant determina appunto le forme (di spazio e tempo) e le
categorie (dodici) che danno ordine all'esperienza. Secondo Kant l'intelletto
spontaneamente foggia gli oggetti dell'esperienza (per esempio, fa sì che essi
siano regolati dai principi di causalità, di ordine, ecc.), ma non li crea;
esso fornisce le condizioni a priori mediante le quali, sol- tanto, qualcosa
può essere pensato come oggetto. Queste condizioni sono l'oggetto della logica
trascendentale kantiana, la quale studia pertanto l'origine, la validità
oggettiva e l'estensione (sempre limitata all'ordine fenomenico) delle nostre
conoscenze a priori. La logica trascendentale non prescinde da ogni contenuto
come la logica formale, ma solo dal contenuto empirico (sensibile) delle
conoscenze. La teoria kantiana della logica trascendentale ha dato luogo ad
innumerevoli dispute. C'è chi l’ha salutata come la soluzione più adeguata al
problema della conoscenza scientifica; invece altri l'ha respintaoperchéprivadi
fondamento oppure perché non neces- saria. Alcuni ne hanno contestata la
validità, negando alla matemati- ca, alla geometria e alla fisica quelle
caratteristiche di certezza asso- luta che Kant ascriveva loro. Ora, se questa
obiezione è fondata, come i più recenti sviluppi della matematica e delle
scienze speri- mentali sembrano attestare, è evidente che crolla il terreno su
cui Kant ha costruito il suo edificio. Altri non mettono in questione la validità
della scienza, ma per spiegarla non ritengono necessario po- stulare elementi
conoscitivi a priori (forme e categorie). Seguendo Aristotele affermano che
l’universalità e la necessità delle idee e dei giudizi non è il risultato di
una sovrapposizione di queste caratteri- stiche sui dati dell'esperienza, bensì
di una lettura approfondita di tali dati: non sono frutto di una sintesi
dell'elemento a posteriori con 21 Kant elabora le condizioni essenziali della
conoscenza: si ha la logica ‘‘trascendentale”’ Dalla critica a Kant deriva il
recupero della logica aristotelica Nell'ultimo secolo si è sviluppata la logica
‘‘matematica’’ costruita come un calcolo di simboli La sintassi del linguaggio
comprende: — regole di formazione — regole di deduzione Il sistema assiomatico
deriva dai due tipi di regole quello a priori, bensì di un'astrazione
effettuata dall’intelletto sugli oggetti dell'esperienza. L'ipotesi
aristotelica rispetto a quella di Kant ha il vantaggio di salvaguardare meglio
l'obiettività del conoscere e, allo stesso tem- po, è in condizione di render
conto della mobilità delle scienze (fi- siche e matematiche).£ In Hegel la
logica formale di Aristotele e quella trascendentale di Kant non sono
abbandonate ma acquistano un senso nuovo: esse non si riferiscono più
semplicemente alla sfera del pensiero, ma an- che a quella della realtà,
perché, secondo Hegel, tra le due sfere c'è perfetta coincidenza: « tutto ciò
che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale ». Durante l’ultimo
secolo, per merito di Frege, Peano, Whitehead, Russell e altri, ha ottenuto
considerevole sviluppo un terzo tipo di logica, la logica matematica {detta
anche logica simbolica oppure logistica). Questa, come s'è detto, viene
costruita come un calcolo di simboli, i quali non hanno nessun altro senso che
quello assegna- to loro dalle rispettive regole. Il primo passo della logica
matematica è stabilire la sintassi del linguaggio: ossia fissare le relazioni
dei segni tra di loro, mediante alcune regole generali. Tale sintassi viene
costruita indipendente- mente dalla semantica del linguaggio, la quale si
occupa del rapporto dei segni con ciò di cui si parla. La sintassi comprende
due gruppi di regole: di formazione e di deduzione. Le regole di formazione
stabiliscono prima quali se- gni scritti (per esempio, q, p, v, -) sono
espressioni del linguaggio, e poi quali combinazioni di tali espressioni sono
formule ben for- mate ossia espressioni sensate, distinte dalle altre (non
sensate). Alcune di queste formule ben formate vengono assunte quali as- siomi,
ossia quali primi enunciati validi. Le regole di deduzione poi determinano
mediante quali procedimenti (per esempio, sostituzione di una espressione ad
un’altra) altri enunciati validi possono essere derivati, ossia dedotti, dagli
assiomi iniziali. Sia gli assiomi sia gli enunciati dedotti sono chiamati
teoremi del sistema. Il sistema che ne risulta è detto sistema assiomatico, in
quanto tutti i teoremi vi sono dedotti da pochi assiomi. Come s'è detto, i
sistemi assiomatici sono costruiti in modo del tutto indipendente dal
significato che potrà poi essere attri- buito ai loro teoremi, quando siano
applicati ad una scienza; ed i loro assiomi non hanno affatto la pretesa di
essere evidenti. Per- ciò «la deduzione non consiste nell’inferire da verità
evidenti altre verità, mediatamente evidenti (come nel sillogismo); ma consiste
solo nel trasformare date formule assunte come primitive (ossia gli assiomi),
in modo da ottenerne altre (le formule derivate): tutte ‘ Cfr. B. MONDIN, vol.
II, pp. 338-347. * Cfr. B. MoNDIN, vol. III, pp. 74-80. 22 queste formule —
ossia tutti i teoremi — risultano così tra di loro concatenati in un unico
sistema. I sistemi sono però usualmente costruiti in vista della loro
interpretazione, ossia applicazione ad una data scienza; sicché l'utilità di un
sistema sta tutta nella sua ca- pacità di fornire un criterio rigoroso di
distinzione di date formule — i teoremi, eventualmente interpretabili come
enunciati veri di una data scienza — dalle altre formule. L'interpretazione di
un sistema è data dalle regole semantiche che mettono ogni sua espressione in
rapporto o con un nesso logico (disgiunzione, implicazione, ecc.) o con una
delle entità (oggetto, proprietà, relazione, proposizione, ecc.) studiate in
una data scienza. Il sistema e la sua interpretazione sono costruiti in modo
tale che ad ogni teorema del sistema corri- sponda una proposizione vera di
quella scienza in cui esso viene inter- pretato »} Perché un sistema
assiomatico sia corretto e logicamente inter- pretabile si esige che sia
non-contraddittorio, tale cioè che due for- mule di cui una nega quello che
l’altra afferma, per esempio, « A » e « non A », non siano ambedue in esso
deducibili. Senonché nel 1931 Gidel fece una scoperta che ebbe del sensa- zionale:
dimostrò che la non-contraddittorietà del sistema non può essere dimostrata nel
sistema stesso: ossia espréssa in un enunciato che sia teorema o assioma del
sistema. Sicché per affermare valida- mente la non-contraddittorietà d'un
sistema occorre usare espressio- ni estranee al sistema stesso. Si prese così
coscienza dei limiti interni della logica matematica. Più tardi ci si accorse
che difficoltà ancora maggiori provenivano dall'esterno, nel momento in cui si
passava dal calcolo simbolico alla traduzione semantica dei sistemi assioma-
tici. E in effetti le difficoltà apparvero insormontabili allorché nella
traduzione dei sistemi assiomatici, in un primo tempo, si adot- tarono regole
semantiche come quelle del neopositivismo, regole troppo rigide e del tutto
inadeguate ad esprimere la ricchezza e varietà dell'esperienza umana. Si cercò
di superare tale difficoltà abbandonando il neopositivi- smo e sviluppando una
nuova filosofia del linguaggio, la filosofia analitica. Questa insegna che ogni
tipo di discorso deve avere una logica sua propria e che la logica matematica
si addice soltanto al discorso scientifico. Dalla filosofia analitica i logici
matematici hanno appreso l’impor- tante lezione di mantenere una rigorosa
distinzione tra la loro opera e quella dei semantici. In effetti i logici
matematici contempo- ranei (Carnap, Quine, Church) costruiscono dei calcoli
puramente formali, intesi cioè come sistemi di segni privi di significato. Solo
in un secondo tempo si chiedono se vi siano delle verità significate da * F.
RIVETTI BARBO', « Il problema logico », in Studio e insegnamento della posse,
Ave, Roma 1966, pp. 159-160. Cfr. B. 'MONDIN, vol. III, pp. 450-456. » Cfr.
Ivi, pp. 456-460. 23 L’interpretazione di un sistema: — nesso logico
(disgiunzione, implicazione, ecc.) — entità (oggetto, proprietà, relazione,
proposizione, ecc.) Il problema della non contradditorietà e i limiti della
logica matematica La filosofia ‘‘analitica’’ insegna che la logica matematica è
solo del discorso scientifico Logica ‘‘formale’’ e logica ‘’simbolica”’:
affinità e differenze Oggi risulta chiaro che la logica è una tecnica
ordinatrice del pensiero quei segni, e quali esse siano. Le risposte variano
dal nominalismo (Quine) al platonismo (Church). Al suo primo apparire, la
logica matematica parve a molti incom- patibile con la logica formale
tradizionale. Questo giudizio oggi non è più condiviso da nessuno. In effetti
tra le due discipline non esiste nessuna incompatibilità. Tant'è vero che in
uno dei testi più classici di logica matematica (quello del Quine), tutta la
prima parte non fa altro che riproporre, in forma simbolica, la logica formale
di Ari- stotele. Esistono tuttavia sicuramente alcune importanti differenze tra
logica formale e logica simbolica. In quest'ultima è più netta la se- parazione
tra il calcolo logico e l’interpretazione semantica; mentre in Aristotele
regole logiche e principi semantici sono spesso mesco- lati insieme. In secondo
luogo, l'apparato della logica matematica è assai più vasto e complesso di
quello della logica formale. Infine, mentre la logica tradizionale partiva
dalla definizione degli enti lo- gici (concetto, giudizio, ragionamento) e poi
ne ricercava le strut- ture, la logica matematica si limita a costruire i
sistemi formali la- sciando alla semantica di determinare, in un secondo tempo,
di quali enti si tratti. Grazie alla netta separazione tra logica e semantica
oggi risulta più evidente una verità che i filosofi del passato non hanno
sempre visto chiaramente: che, cioè, la logica, propriamente parlando, non è
una parte della filosofia (e tanto meno tutta la filosofia come pre- tendeva
Hegel) bensì una tecnica generale per ordinare rettamente il pensiero,
qualsiasi pensiero. Essa è pertanto un presupposto fon- damentale di tutte le scienze,
inclusa ovviamente anche la filosofia. CONCETTI DA RITENERE — Psicologia;
gnoseologia; logica — Logica formale, trascendentale, matematica — Sillogismo;
deduzione, induzione — Sintassi del linguaggio; regole di formazione; regole di
deduzione — Sistema assiomatico — Filosofia analitica SINTESI CONTENUTISTICA I.
IL PROBLEMA 1. La conoscenza umana è un fenomeno complesso e misterioso. Tre
disci- pline filosofiche si interessano ad esso: la psicologia {ne esamina
l'origine e i tipi); la gnoseologia (ne accerta il valore); la logica (ne
studia le condizioni essenziali e le regole del retto funzionamento). x 2. La
logica non presuppone la gnoseologia, di cui è strumento, ma presup- pone la
psicologia che le indica i diversi tipi di conoscenza. 3. Il problema logico si
pone da sé quando ci si rende conto che alcune conoscenze e alcuni ragionamenti
possono condurre a conclusioni diverse. Na- 24 scono allora questi
interrogativi: Ciò che esprimo quando parlo che cos'è? Quali sono le sue
strutture? Quale la sua organizzazione interna? 4. La logica studia un oggetto
di pensiero (il pensato) in quanto oggetto di pensiero (in quanto pensato) e
non in quanto rappresentazione della realtà. 5. La logica è così distinguibile:
a) logica « formale »: suo oggetto sono le idee e i loro contenuti; stabilisce
le regole del retto argomentare; b) logica « trascendentale »: tratta della
validità delle nostre conoscenze e della loro possibilità e verità; c) logica «
matematica »: è un puro calcolo che stabilisce un gruppo di regole sulla
relazione tra certi termini e determina quale discorso sia possibile. II.
PANORAMA STORICO 1. Aristotele ha fissato nel sillogismo le regole
dell’argomentazione dedut- tiva. Egli si è occupato anche dell’argomentazione
induttiva, che inferisce una proposizione universale da una particolare. 2. Lo
studio della deduzione e dell’induzione si è protratto nei secoli attra- verso
gli stoici, Bacone, Cartesio e Stuart-Mill. 3. La logica trascendentale deve la
sua paternità a Kant che attribuisce alle forme pure dello spazio e del tempo e
alle categorie il compito di organiz- zare l’esperienza. 4. In Hegel la
prospettiva aristotelica e quella kantiana assumono carat- tere metafisico: la
realtà è il pensato del pensiero. 5. Nel sec. XX Frege, Peano, Whitehead,
Russell, ecc. hanno elaborato la logica matematica o simbolica orientata a
stabilire la sintassi del linguaggio incentrata sulle regole di formazione e di
deduzione. Queste ultime portano alla individuazione dei sistemi assiomatici.
La correttezza del sistema assioma- tico sta nella sua non contraddittorietà.
Gòdel nel 1931 ha scoperto che il cri- terio di non contraddittorietà del
sistema è posto fuori dal sistema stesso. 6. Una nuova filosofia del
linguaggio, la filosofia analitica, insegna che ogni tipo di discorso deve
avere una sua logica e che la logica matematica si addice solo al discorso
scientifico. 7. Tra logica formale e logica simbolica vi sono importanti
differenze: nella prima sono spesso mescolate regole logiche e princìpi
semantici; nella seconda il calcolo logico e l’interpretazione semantica sono
più nettamente separati. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quale
relazione intercorre tra psicologia, gnoseologia e logica? 2. Che cosa
contraddistingue la logica e qual è l'oggetto del suo studio? 3. La logica in
quante branchie si divide e quale significato ha ciascuna di esse? 4. Che cosa
sono il sillogismo e l’induzione? 5. Quale rapporto intercorre tra la logica
formale e lo studio dell'analisi logica di una lingua? 6. C'è un campo di
applicazione specifica della logica matematica o simbo- lica nella nostra
cultura a tecnologia avanzata? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI BocHENSKI J., La
logica formale, 2 voll., Einaudi, Torino 1972. CAsARI E., La logica del
Novecento, Loescher, Torino 1981. Corpi I., Introduzione alla logica, Il
Mulino, Bologna 1982. 25 FucHs W.R., La nuova logica, Rizzoli, Milano 1982.
GRANA N,, Filosofia della logica, Loffredo, Napoli 1982. MORANDINI F., Corso di
logica, P.U.G., Roma 1971. PASQUINELLI A., Introduzione alla logica simbolica,
Einaudi, Torino 1953. PIageET J., Logica e psicologia, La Nuova Italia, Firenze
1971. ‘PropI G., Storia naturale della logica, Bompiani, Milano. QuINE W.V.0.,
Manuale di logica, Milano 1960. REICHENBACH H., La nascita della filosofia scientifica,
Il Mulino, Bologna 1961. SANGUINETI J.J., Logica e gnoseologia, Urbaniana Univ.
Press, Roma 1983. SELVAGGI F., Elementi di logica, P.U.G., Roma 1979. VANNI
RovIGHI S., Elementi di filosofia, I, La Scuola, Brescia 1963. VERNEAUX R.,
Introduzione e logica (Corso di filosofia tomista), Paideia, Brescia 1966. 26
Capitolo secondo IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO (o problema della conoscenza)
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che cosa si può ritenere necessario per la
conoscenza? 2. È possibile analizzare i caratteri del proprio modo di
conoscere? 3. Quale rapporto intercorre tra verità, errore e conoscenza? Il
problema della conoscenza, s'è osservato nel capitolo preceden- te, è un
problema complesso, i cui aspetti principali sono tre: primo, origine e
strutturazione; secondo, valore; terzo, retto funziona- mento. Il primo aspetto
è trattato dalla psicologia, il secondo dalla critica e il terzo dalla logica.
Nel capitolo precedente abbiamo esa- minato l'aspetto logico; ora, nel presente
capitolo, ci occuperemo sia di quello critico che di quello psicologico. I
principali problemi di ordine psicologico sono due, uno riguar- da le forme
della conoscenza umana e l’altro la loro origine. 1. Le forme della conoscenza
umana Per quanto concerne la conoscenza umana, è evidente che anche noi come
gli animali siamo dotati di alcune forme di conoscenza sensitiva: vista, udito,
gusto, odorato, tatto. 'Possediamo inoltre, anche un'altra capacità, la
memoria, la quale ci consente di richia- mare alla mente notizie che
appartengono al passato. Vi è infine la fantasia, che ci permette di
rappresentare le cose in modo originale, diversamente da come le abbiamo
ricevute dall'esperienza. Così, per esempio, possiamo immaginare un bue con la
testa di leone e la coda di coccodrillo, anche se di fatto un simile animale
non esiste nella realtà. Sul possesso di queste facoltà non esiste nessun
dubbio; perciò la filosofia non ha nulla da disputare al riguardo. Senonché la
conoscenza umana fornisce anche altri dati singo- lari, appartenenti all'ordine
scientifico, religioso, morale, estetico, ecc., che includono idee universali e
astratte, principi generali e asso- luti, leggi necessarie, e che presentano
quindi caratteristiche del tutto dissimili dalle conoscenze ottenute mediante i
sensi e la fanta- sia. Di fronte a tali dati sorge inevitabilmente
l’interrogativo: di che 27 Aspetti del problema della conoscenza: — orlginl e
strutturazione — valore — retto funzionamento Alcune forme della conoscenza: —
conoscenza sensitiva — memoria — fantasia Parmenide e i Pitagorici danno valore
assoluto alla conoscenza razionale Conoscenza sensitiva e conoscenza
intellettiva: orientamento platonico e orientamento aristotelico genere di
conoscenze si tratta? A quale sfera appartengono? Questo è un problema impegnativo
e spetta al filosofo risolverlo. Le soluzioni possibili, come ci insegna la
storia della fiiosofia, sono molte. Il problema fu già dibattuto dai
presocratici, i quali presentano subito una soluzione contrastata: Parmenide e
i Pitagorici ricono- scono apertamente oltre alla conoscenza sensitiva anche
quella ra- zionale, ma soltanto a quest’ultima ascrivono valore assoluto. In-
vece Protagora, Gorgia e gli altri Sofisti ammettono solo l’esistenza della
conoscenza sensitiva e in tal modo ritengono di riuscire a spiegare le profonde
divergenze che si incontrano tra gli orizzonti conoscitivi di membri
appartenenti a diverse società o anche allo stesso gruppo sociale. In generale,
però, durante il periodo classico, quasi tutti i filosofi riconoscono l’esistenza
di almeno due ordini conoscitivi: quello dei sensi e quello dell'intelletto. Ma
all’interno di questo ampio accordo di fondo, si danno alcune divergenze
significative tra i pensatori di orientamento platonico (Platone, Plotino,
Agostino, san Bonaven- tura) e quelli di orientamento aristotelico (Aristotele,
Averroè, Al- berto Magno, Tommaso d'Aquino). I platonici suddividono sia la
conoscenza sensitiva che quella intellettiva in due tipi: — conoscenza
sensitiva per immagine diretta, — conoscenza sensitiva per immagine indiretta,
ossia mediante una copia, — conoscenza intellettiva per ragionamento (che
Platone chiama dianoia e Agostino ratio inferior), — conoscenza intellettiva
mediante visione (che Platone chiama noesis e Agostino illuminatio)? Gli aristotelici
mantengono la prima distinzione, ma le assegna- no scarsa importanza;
respingono invece la seconda in quanto a lo- ro avviso la nostra mente non è
dotata di conoscenza intuitiva, ma solo astrattiva e raziocinativa.* Il
problema gnoseologico assume un'importanza singolare nel- l'epoca moderna a
partire da Cartesio. Questi comprende che dalla soluzione del suddetto problema
dipende la soluzione di tutti gli altri. Anche nel periodo moderno come in
quello classico, di fronte al problema dei tipi di conoscenza i filosofi si
dividono in due grandi schieramenti: alcuni ammettono sia la conoscenza
sensitiva che quella intellettiva; sono i razionalisti (Cartesio, Spinoza,
Malebran- che, Leibniz) e gli idealisti (Kant, Fichte, Hegel, Croce). Altri
ammet- tono soltanto la conoscenza sensitiva: sono gli empiristi (Berkeley, !
Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 60-61. ? Cfr. Ivi, pp. 62-64. ? Cfr. Ivi, pp.
85-87; 217-219. ‘ Cfr. Ivi, pp. 137-139. 28 Hume), i positivisti (Comte,
Spencer, Mill) e i neopositivisti (Russell, Ayer). Oggi, il problema delle
forme della conoscenza rimane ancora aperto e tutto lascia prevedere che
neppure nel futuro si arriverà ad una soluzione conclusiva. Ci sarà sempre
anche in seguito, come nel passato, chi basandosi su ciò che è immediatamente sperimentabile
affermerà che l’unica conoscenza di cui siamo dotati è quella di or- dine
sensitivo. Altri invece, prendendo seriamente in esame alcune espressioni della
nostra conoscenza che non sono riconducibili al- l'ordine sensitivo (come le
conoscenze scientifiche, religiose, etiche, estetiche, ecc.) riterrà necessario
ammettere che siamo dotati anche di una forma di conoscenza trans-sensitiva,
ossia intellettiva. 2. Origine della conoscenza Le idee di cui noi siamo in
possesso da dove provengono? Sono riproduzioni di oggetti esterni a noi o sono
invece creazioni della nostra mente? Anche per questo problema, come per quello
pre- cedente si possono dare varie soluzioni. Si può pensare che le idee siano
esclusivamente frutto dell’azione dell'oggetto su di noi, oppure che siano,
viceversa, il risultato dell’opera del soggetto solamente, oppure, infine, che
siano dovute all'azione combinata del soggetto e dell'oggetto. (Le divergenze,
però, non finiscono qui. Abbiamo visto che quasi tutti i filosofi riconoscono
almeno due forme di conoscenza: quella sensitiva e quella intellettiva. Ne
consegue che le tre ipotesi prece- denti vanno moltiplicate per due. E in
effetti si può pensare: 1. tutta la conoscenza (sia sensitiva che intellettiva)
viene pro- dotta dall'oggetto (Platone); 2. tutta la conoscenza (sia sensitiva
che intellettiva) è prodotta dal soggetto (Hegel); 3. la conoscenza
intellettiva è prodotta dal soggetto e quella sensitiva dall'oggetto (Occam);
4. la conoscenza intellettiva è prodotta dall'oggetto e quella sen- sitiva dal
soggetto (Berkeley); 5. la conoscenza intellettiva è il risultato dell'azione
combinata del soggetto e dell'oggetto, mentre invece la conoscenza sensitiva è
dovuta esclusivamente all’azione dell'oggetto {Aristotele); 6. la conoscenza
sensitiva e quella intellettiva sono entrambe il risultato dell'azione
combinata del soggetto e dell'oggetto (Kant). Storicamente le grandi linee di
sviluppo del problema dell'origine della conoscenza sono le seguenti. ‘Platone,
il quale è il primo filosofo ad affrontare questa questione in maniera
esplicita e sistematica, ritiene che tutta la conoscenza umana sia sensitiva
che intellettiva abbia la sua origine dall'oggetto. Dato però che nel mondo
fisico che esperimentiamo non esistono 29 Forme della conoscenza: è un problema
aperto Le idee: — riproduzione di oggetti esterni — creazione della mente —
relazione soggetto “oggetto Sei soluzioni al problema delle forme e delle
origini Sviluppo storico: — Platone: l’origine è nell’oggetto (reminiscenza e
anamnesi) — Aristotele: azione del soggetto In virtù dell’intelletto —
Sant'Agostino: le verità eterne e l'illuminazione — San Tommaso: l’azione
astrattiva dell’intelletto — Berkeley: Dio causa delle idee — Hume: il primato
della sensazione oggetti universali e necessari, Platone, per spiegare
l'origine della conoscenza intellettiva, ritiene necessario postulare
l’esistenza di un mondo ideale costituito appunto di oggetti universali,
necessari e pertanto immateriali. L'anima è stata a contatto con questo mondo
delle Idee prima di entrare nel corpo: è quindi preesistita al corpo.
Attualmente, quando conosciamo verità assolute noi non facciamo altro che
prendere coscienza (reminiscenza, anamnesi) di quanto ab- biamo già esperito
precedentemente, nell'Iperuranio.5 Aristotele considera la teoria platonica
dell'origine della cono- scenza intellettiva artificiosa, arbitraria e non
corroborata in alcun modo dall'esperienza. La conoscenza intellettiva a suo
parere, è do- vuta in larga misura all’azione del soggetto, il quale è dotato
di una potenza particolare (l'intelletto) mediante la quale elabora i dati
offertigli dall'esperienza così da cogliere in essi l'elemento universale e
necessario e pertanto essenziale. Sant'Agostino condivide la tesi platonica che
le idee universali (le verità eterne) sono prodotte in noi dall'esterno, perché
a suo giudi- zio se esse fossero causate da noi stessi non potrebbero avere
quei caratteri di assolutezza, certezza, universalità, immutabilità di cui sono
dotate, essendo noi esseri contingenti e fallibili; ma la modifica in un
aspetto importante: la causa della loro origine non sono le Idee ma Dio. Questi
le infonde nella nostra mente con la sua azione il- luminatrice (illuminatio).
San Tommaso ritiene che la teoria agostiniana misconosca l’auto- nomia
dell'uomo proprio in quella che è la sua facoltà più propria e specifica e che
lo innalza al di sopra del regno degli animali. Ripro- pone quindi la teoria
aristotelica: la conoscenza delle idee universali è dovuta all’azione dell'intelletto
umano, il quale le astrae dalle cose.! Sulla linea di Platone continuano a
muoversi alcuni eminenti filosofi moderni (Cartesio, Malebranche, Rosmini,
Gioberti); invece altri si muovono sulla linea di Aristotele (Locke, i
Neotomisti). Ma durante l'epoca moderna si affacciano soluzioni diverse da
quelle tradizionali. Così, per esempio, Berkeley afferma che le idee sono tutte
particolari, ma non hanno come causa della loro origine gli og- getti
materiali, bensì Dio stesso.’ Hume fonda tutta la nostra cono- scenza sulla
sensazione; ma non sa spiegare in che modo si formano in essa i dati iniziali
Ad ogni modo, presupposti tali dati, tutte le nostre conoscenze fattuali, a suo
avviso, sono frutto dell’azione della fantasia la quale le ottiene associando
oppure dissociando i dati pri- mari in base alla loro contiguità nello spazio e
nel tempo, alla loro 5 Cfr. Ivi, pp. 85-87. 6 Cfr. Ivi, pp. 137-139. ? Cfr.
Ivi, pp. 217-219. * Cfr. Ivi, pp. 286-290. * Cfr. B. MoNnDIN, vol. II, pp.
229-230. 30 somiglianza e dissomiglianza, e alla loro successione causale.!
Kant spiega sia la conoscenza sensitiva che quella intellettiva come il risul-
tato di una sintesi di elementi forniti in parte dal soggetto e in parte
dall'oggetto. L'oggetto fornisce la materia, il soggetto la forma. C'è pertanto
un elemento a posteriori (la materia) ed uno a priori (la forma). Kant
distingue pertanto vari elementi formali: nella cono- scenza sentitiva sono lo
spazio e il tempo; nella conoscenza intellet- tiva, le dodici categorie. In tal
modo Kant ritiene di aver superato l'impasse tra razionalisti ed empiristi e di
avere fornito una valida spiegazione dell'origine della conoscenza
scientifica." Ma la sua spie- gazione viene ben presto contestata dagli
idealisti; essi escludono qualsiasi apporto dell'oggetto nella formazione della
conoscenza, ritenendo che soltanto così si può salvare l'autonomia del
soggetto; e affermano che la conoscenza è creazione spontanea del
soggetto." Oggi si cerca di sbloccare il problema dell'origine della
conoscen- za facendo intervenire nella sua formazione molti altri fattori oltre
a quelli tradizionali (soggetto, oggetto, Dio). Gli psicanalisti danno rilievo
al fattore subcoscienziale ed istintivo; gli strutturalisti a quello sociale;
gli esistenzialisti, in particolare Heidegger, e i teorici della nuova
ermeneutica (Gadamer) al fattore storico; gli analisti a quello linguistico. A
nostro avviso, però, la soluzione conclusiva del problema della conoscenza non
va ricercata nell’affermazione di una sola di queste componenti ad esclusione
delle altre, bensì nella giusta armonizza- zione di tutti questi coefficienti
tra di loro e con quei due coefficienti indispensabili che sono il soggetto e
l'oggetto. 3. Valore della conoscenza Anche per quanto concerne l'aspetto critico
i problemi fonda- mentali sono due: a) che valore ha la conoscenza umana? b)
qual è il metodo più efficace per garantire alla nostra conoscenza il raggiun-
gimento della verità? Esaminiamo anzitutto il primo problema. Il valore della
nostra conoscenza diventa un problema nel mo- mento in cui facciamo esperienza
dell'errore. Allora ci domandiamo: possiamo fidarci delle nostre facoltà
conoscitive? Le conoscenze che esse ci procurano sono valide? Quando e in che
misura? Storicamente il problema del valore della conoscenza è uno dei primi
affrontati dai filosofi, i quali, poi, non hanno più cessato di dibatterlo,
fino ai nostri giorni. Per risolverlo, Parmenide traccia una netta distinzione
tra cono- ‘ Cfr. Ivi, pp. 234-236. " Cfr. Ivi, pp. 337-345. !? Cfr. B. MonDIN,
vol. III, pp. 31-32; 67-77. 4 Cfr. Ivi, pp. 222-227; 406-414; 456-460; 468472.
31 — Kant: la conoscenza come sintesi soggetto- oggetto Valore della
conoscenza: — i Sofisti: relativismo gnoseologico — Socrate: valore assoluto
della conoscenza intellettiva — Platone: immortalità, assolutezza e necessità
della conoscenza intellettiva — Aristotele: intelletto, essenza e verità —
Agostino: evidenza dell’esistenza scenza sensitiva ed intellettiva: solo la
seconda può attingere la verità; la prima al massimo può generare opinioni. I
Sofisti, i quali come s'è visto hanno una concezione sensistica della
conoscenza non le riconoscono in nessun caso valore assoluto: né nel campo
speri- mentale né in quello filosofico né in quello religioso né in quello
giuridico. Contro il relativismo e lo scetticismo dei Sofisti, Socrate fa
vedere che oltre alle conoscenze dei sensi l'uomo possiede anche altre
conoscenze che travalicano la sfera sensitiva come le idee di bontà, giustizia,
felicità, bellezza, verità; le quali hanno valore as- soluto." Platone
cerca di considerare la posizione di Socrate distinguendo due piani di realtà,
quello fisico e quello ideale ed assegnando all’in- telletto la conoscenza del
secondo mentre ai sensi appartiene la cono- scenza del primo. Ora, come il
piano ideale è immutabile, eterno, in- corruttibile, così anche la conoscenza
intellettiva è necessaria, im- mutabile e assoluta. Per contro, essendo il
piano materiale mutevole e corruttibile, anche la conoscenza sensitiva è
mutevole e soggetta ad errore." Aristotele condivide il pensiero di
Socrate e Platone circa l’essen- ziale validità della conoscenza intellettiva,
ma non la spiegazione fornita da Platone. Sono le cose stesse a suo giudizio a
contenere un nucleo fondamentale sempre identico a se stesso, l'essenza. Questa
non si trova al di fuori delle cose, separata, ma nelle cose. E l’intel- letto
umano attinge la verità afferrando per astrazione tale essenza. Dopo Platone e
Aristotele la filosofia greca attraversa un profondo travaglio, che sfocia
nell’abbandono dei loro poderosi sistemi meta- fisici e nel ripiegamento, con
gli Stoici e gli Epicurei, su specula- zioni di carattere etico e politico. Ma
la crisi della metafisica fornisce un ulteriore motivo per mettere in dubbio il
valore della ragione umana: così sorge lo “scetticismo”. Secondo questa
filosofia l’uomo non può mai raggiungere con certezza la verità." Durante
l’ultimo secolo avanti Cristo e nei primi secoli dell'era cristiana lo
scetticismo diviene la teoria di moda oltre che in Grecia anche a Roma. Persino
Agostino la condivide durante una fase della sua vita; ma poi, convertito al
cristianesimo, la respinge ferma- mente, mostrando che anche ammettendo di
cadere continuamente nell'errore, uno ha ciononostante e proprio per questo
motivo il possesso di almeno una verità: che esiste. Si fallor, sum. « Chi può
dubitare d'essere vivo, se ricorda, capisce, desidera, pensa, conosce e
giudica? Dal momento che egli ha questo dubbio, egli vive; se egli dubita,
pensa. Per quanti dubbi egli abbia, quindi riguardo ad altre cose, egli non
deve aver dubbi riguardo a questa; poiché se egli non * Cfr. B. MONDIN, vol. I,
pp. 49-51; 61-65; 70-74. * Cfr. Ivi, pp. 81-87. “ Cfr. Ivi, pp. 137-139. ” Cfr.
Ivi, pp. 177-179. 32 esistesse, non potrebbe aver dubbi riguardo ad alcuna cosa
»." Il valore della conoscenza umana, almeno di quella intellettiva, è
apertamente affermato e difeso da san Tommaso e dagli altri Scola- stici. Ma
col tramonto della Scolastica spunta nuovamente lo scetti- cismo. Alla fine del
Cinquecento esso fa presa su molti spiriti tanto che non è esagerato dire che
il « Que sais-je? » non è solo il motto di Montaigne ma di tutta la sua epoca.
Quando Cartesio decide di rin- novare l’edificio filosofico, la visione
imperante nel mondo dei dotti è ancora quella scettica. E così si comprende
perché il padre della filosofia moderna inizi la sua costruzione filosofica,
sottoponendo al vaglio della critica l’ordine della conoscenza, onde
verificarne il valore e la portata. Egli inizia, com'è noto, facendo le massime
con- cessioni allo scetticismo; ma questo non gli impedisce di cogliere una
prima fondamentale verità: dubito, quindi penso; penso, quindi sono: Cogito,
ergo sum. Da questa verità Cartesio deduce poi tutta una vasta serie di
proposizioni di ordine metafisico, religioso e anche fisico. Alla fine egli
ritiene di potere riscattare dal dubbio non sol- tanto le conoscenze di ordine
intellettivo ma anche quelle di ordine sensitivo, in quanto neppure queste
ultime sarebbero frutto del- l’esperienza bensì il risultato di un'attività «
innata ».!° A fianco di Cartesio e a difesa del valore della conoscenza intel-
lettiva si schierano alcuni grossi nomi della filosofia moderna, come Spinoza,
Malebranche, Leibniz, Wolff: è il gruppo dei filosofi razio- nalisti. Ma allo
stesso tempo si sviluppa anche una forte corrente contraria a Cartesio e alla
sua interpretazione ottimistica del feno- meno conoscitivo: è la corrente degli
empiristi (Locke, Berkeley, Hume) i quali o negano qualsiasi forma di conoscenza
intellettiva oppure ne contestano l'utilità. Secondo gli empiristi l’unica
cono- scenza che consente all'uomo di ottenere informazioni fattuali è quella
dei sensi, la quale tuttavia non può mai rivendicare per sé i caratteri
dell’universalità e della necessità. Pertanto la verità come sicura
corrispondenza tra le nostre idee e le cose non esiste. Come si vede, siamo di
nuovo ripiombati dentro lo scetticismo, anzi nello scetticismo più radicale.
Tale è in effetti la conclusione cui giunge la ricerca filosofica di Hume.®
Dalle posizioni assunte dagli empiristi e dai razionalisti, ma te- nendo allo
stesso tempo anche conto delle posizioni di prestigio ac- quisite dalla scienza
moderna, muove Kant quando affronta e pren- de nuovamente in esame il problema
critico. Questo a suo giudizio non può essere risolto che in modo positivo dati
i successi ottenuti dalle scienze sperimentali. Ossia si deve riconoscere la
validità della conoscenza intellettiva. Ma secondo Kant si deve circoscrivere
il suo ambito ad oggetti diversi da quelli che volevano assegnarle i ra-
zionalisti e gli empiristi. La conoscenza intellettiva non ha di mira #
AGOSTINO, De Trinitate, X, 10, 14. ' Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp. 137-139. ®
Cfr. Ivi, pp. 224-243. 33 — Cartesio: dall’'evidenza del pensare all’evidenza
dell’esistere — Kant: la soluzione critica Tendenze attuali circa il valore
della conoscenza: scetticismo che si basa sulla scienza e sulla prassi la cosa
in sé (ossia la realtà oggettiva), ma i fenomeni. Soltanto come conoscenza dei fenomeni
essa attinge la verità, cioè la necessità e l'universalità. Quando mediante la
ragione l’uomo vuole oltrepas- sare la sfera dei fenomeni per raggiungere
quella del noumeno, egli si perde necessariamente in una selva di antinomie.*
La soluzione indubbiamente geniale ma discutibile di Kant, la quale se per un
verso aveva il merito di chiarire la struttura della conoscenza scientifica,
per un altro verso aveva anche il demerito di precludere ogni soluzione
teoretica proprio per quei problemi che maggiormente interessano e tormentano
l’uomo (come la pro- pria origine, la natura del proprio essere, la
sopravvivenza dopo la morte, l’esistenza di Dio, la libertà, ecc.): tale
soluzione non viene ac- colta per molto tempo. Dopo qualche decennio i filosofi
ricadono nuo- vamente nelle due classiche alternative: quella
intellettualistica (spo- sata dagli idealisti, gli intuizionisti, i neotomisti)
e quella sensistica (accolta dai positivisti, gli empiriocriticisti, i
materialisti, i neopo- sitivisti). î Oggi, la tendenza generale per quanto
concerne il valore della conoscenza è contraria al razionalismo ed è favorevole
ad uno scetti- cismo più o meno oltranzistico. È, però, una tendenza che assume
toni e sfumature diverse, di cui le espressioni più significative sono due. Una
è rappresentata da coloro che ritengono che la verità si debba sempre ricercare
per via conoscitiva, ma sono convinti che è necessario escludere qualsiasi
forma di metafisica: per scoprire la verità bisogna affidarsi soprattutto alle
tecniche delle scienze umane, la psicanalisi, la nuova ermeneutica, lo
strutturalismo oppure alle scienze sperimentali. L'altra è rappresentata da
coloro che cercano la verità non attraverso la speculazione bensì attraverso la
prassi. Secondo un gruppo di pensatori del XIX secolo, che fanno capo a Marx e
a Engels, la validità di una concezione, d'una teoria, d'un sistema non si può
provare con argomenti aprioristici, ma emerge nella prassi, nell'azione. Ma a
questo punto il nostro discorso è scivolato fuori da quello che era l'argomento
specifico di questa sezione, il problema critico, ed è entrato in un altro
argomento, quello del metodo. Eccoci quin- di, ora, a trattare la questione del
metodo nei suoi sviluppi storici. 4. Il metodo Il problema del metodo, in quanto
si propone di trovare una via che dia sicure garanzie di attingere la verità,
coincide in larga misura col problema logico, ma non interamente, perché il
problema logico prescinde dai contenuti, mentre invece il problema critico si
rivolge soprattutto ai contenuti. 2 Cfr. Ivi, pp. 336-346. 34 Il problema del
metodo è già avvertito dalla filosofia greca (c’è il metodo maieutico di
Socrate, il metodo dell’ascensus e del descen- sus di Plotino, il metodo
dialettico di Platone, il metodo induttivo e deduttivo di Aristotele) e dalla
filosofia cristiana (c'è il metodo alle- gorico di Origene, quello
introspettivo di Agostino, quello analogico di Tommaso d'Aquino), ma acquista
importanza capitale soprattutto nella filosofia moderna. Sorpresi e abbagliati
dal successo delle scienze sperimentali i filosofi si persuadono che anche la
filosofia potrebbe aspirare ad analoghi risultati, qualora disponesse di un
buon metodo. E perciò si preoccupano o di trasferire direttamente alla ricerca
filosofica gli stessi metodi della scienza (Bacone, Galilei)? e della
matematica (Cartesio, Spinoza, Leibniz) oppure cercano di escogitare nuovi
metodi. I più noti sono: — il metodo del « cuore » di Pasca — il metodo della
verifica « storica » (verum est factum) di Vico ® — il metodo associativo di
Hume * — il metodo « trascendentale » di Kant 7 — il metodo dialettico di Hegel
* — il metodo positivo di Comte ” — il metodo pragmatico di James ” — il metodo
intuitivo di Bergson *! — il metodo fenomenologico di Husserl” — il metodo
della verifica sperimentale dei neopositivisti * — il metodo della
falsificabilità di Popper.* Oggi molti autori sono propensi ad abbandonare
tutti questi me- todi di tipo teoretico e ritengono che l'unico metodo valido
sia co- stituito dalla prassi. È la prassi, l’azione, la vita che rivela se una
teoria, un sistema sono validi. È nell'impatto con la storia, con la realtà
vissuta che emerge il valore di un'idea. A nostro avviso questo metodo della
prassi ha certamente dei pregi, perché la testimonianza dei fatti contribuisce
senza dubbio a decidere della bontà o meno di un'idea, una teoria, un sistema.
Ex fructibus eorum conoscetis eos, diceva Gesù. Ma non pensiamo che esso possa
essere assunto come criterio supremo di verità, come 1% ? Cfr. Ivi, pp.
103-110. ® Cfr. Ivi, pp. 134-137; 163-164. 2 Cfr. Ivi, pp. 203-204. * Cfr. Ivi,
pp. 273-275. * Cfr. Ivi, pp. 234-236. 2" Cfr. Ivi, pp. 336-344. * Cfr. B.
MonpIN, vol. III, pp. 77-78. 2 Cfr. Ivi, pp. 178-181. * Cfr. Ivi, pp. 346-348.
# Cfr. Ivi, pp. 253-254. ® Cfr. Ivi, pp. 389-392. ® Cfr. Ivi, pp. 450-453. *
Cfr. K.R. PoPPER, Logica della scoperta scientifica, Torino 1970. 35 Metodo
maieutico e metodo dialettico: Socrate e Platone Nuovi metodi di ricerca sotto
l'influsso dello sviluppo della scienza Il metodo della prassi La valutazione
critica di G. Reale guida infallibile delle nostre azioni. Qualsiasi azione,
per non essere cieca e stolta, ha bisogno di venire guidata, illuminata, e la
sua guida, ovviamente, non può essere l’azione. Su questo punto a noi pare che
abbia perfettamente ragione Giovanni Reale quando scrive: « Quando sulla scia
del pensiero marxistico o di estrazione marxi- stica si asserisce che la
filosofia non ha da contemplare ma da can- giare la realtà [...] non si
sostituisce semplicemente una visione filosofica ad un'altra, ma si uccide la
filosofia: il cangiare la realtà può infatti essere solo un momento conseguente
al vero ricercato e trovato, e più che filosofare è, al massimo, corollario del
filosofare. Il cangiare può essere solo impegno etico, politico, educativo e
non può mai essere, dal punto di vista filosofico, momento primario, per- ché
presuppone strutturalmente che si sappia e si accerti preliminar- mente perché,
come e in che senso e misura cangiare; dunque sup- pone sempre a monte il momento
teoretico (cioè propriamente filo- sofico) come condizionante. Né vale
obiettare, come coloro che, quasi sentendosi in colpa di fronte all’obiezione
prassistica, asseriscono che, sì, cangiare la realtà non è filosofare, ma che,
tuttavia, l'uomo di oggi deve filosofare per cangiare qualcosa. Anche questa
posizione è decettiva: infatti, chi filosofa con questo spirito perde la
libertà, e l'ansia del cangiare fatalmente condiziona e turba il momento del
contemplare; lo turba al punto che, rovesciati i termini, e aggiogatisi al
carro della prassi, la speculazione pura diventa ideologia e quindi cessa di
essere filosofia »,5 CONCETTI DA RITENERE — Conoscenza sensitiva; conoscenza
intellettuale — Relazione soggetto-oggetto — Scetticismo; metodo SINTESI CONTENUTISTICA
I. LE FORME DELLA CONOSCENZA UMANA 1. La conoscenza umana, complessamente
articolata, consta di una forma sensitiva (vista, udito, gusto, odorato,
tatto); della memoria che custodisce il passato; della fantasia che rappresenta
le cose in modo originale rispetto al- l'esperienza. Sull’evidenza di questa
conoscenza la filosofia non ha nulla da discutere. Problematiche sono invece le
conoscenze astratte che suscitano in- terrogativi circa il loro genere e la
sfera di appartenenza. 2. Il problema gnoseologico è stato dibattuto in modo
contrastante. Dalle origini del pensiero occidentale ad oggi si è verificata la
seguente alternanza di orientamenti: a) compresenza della conoscenza sensitiva
e di quella razionale (Parme- nide, pitagorici, platonici, aristotelici); * G.
REALE, I problemi del pensiero antico dalle origini a Platone, Celuc, Milano
1972, pp. 52-53. 36 b) primato della conoscenza sensitiva su quella razionale
(i sofisti, gli em- piristi, i positivisti, i neopositivisti); c) primato della
conoscenza razionale su quella sensitiva (i razionalisti e gli idealisti). 3.
Nell’età moderna il problema gnoseologico va acquisendo un graduale primato,
decisamente affermato soprattutto da Cartesio; nel nostro tempo re- sta un
problema aperto. II. ORIGINE DELLA CONOSCENZA 1. Le idee sono riproduzioni di
oggetti esterni a noi o sono creazioni della nostra mente, oppure esse sono il
risultato dell’azione combinata del soggetto e dell’oggetto? 2. Si sono
delineate per i tre interrogativi sei piste di soluzione: a) tutta la
conoscenza è prodotta dall'oggetto (Platone); b) tutta la conoscenza è pro-
dotta dal soggetto (Hegel); c) la conoscenza intellettiva è prodotta dal
soggetto e quella sensitiva dall'oggetto {(Occam); d) la conoscenza
intellettiva è prodotta dall'oggetto e quella sensitiva dal soggetto
(Berkeley); e) la conoscenza intel- lettiva è risultato dell'azione combinata
del soggetto e dell'oggetto; f) la cono- scenza sensitiva è dovuta all’azione
dell'oggetto {Aristotele). III. VALORE DELLA CONOSCENZA 1. Il valore della
conoscenza diventa un problema DS momento in cui fac- ciamo esperienza
dell’errore. 2. Storicamente il problema del valore è stato tra i primi ad
essere affron- tato: Parmenide: la conoscenza intellettiva attinge alla verità,
la conoscenza sensitiva genera opinioni; Sofisti: la conoscenza non ha mai
valore assoluto; Socrate e Platone: le conoscenze intellettuali hanno valore
assoluto, le cono- scenze sensitive sono soggette ad errore; Aristotele:
l'intelletto umano attinge la verità afferrando per astrazione l'essenza delle
cose; Agostino: inoppugna- bile verità dell’esistenza; San Tommaso: afferma il
valore della conoscenza intellettiva; Prospettiva scettica della filosofia del
’500; Cartesio: dal dubbio metodico al valore assoluto della conoscenza
intellettiva; Empiristi: primato della conoscenza sensibile e negazione della
verità; Kant: mediazione tra cono- scenza sensibile e conoscenza intellettiva;
Tendenza scettica della cultura con- temporanea. IV. IL METODO 1. Già avvertito
nel pensiero classico (Socrate, Platone e Aristotele), il pro- blema emerge
nell'età moderna con particolare riferimento al sapere scientifico (Bacone e
Galilei) e al sapere matematico (Cartesio, Spinoza e Leibniz). 2. Dal metodo
del « cuore » di Pascal al metodo della falsificabilità di Pop- per il pensiero
moderno e contemporaneo si è impegnato in una costante ri- cerca. Oggi,
abbandonata la strada teorica, si attribuisce validità di metodo alla prassi
(la storia e la realtà vissuta convalidano un'idea). QUESTIONARIO DI VERIFICA E
DISCUSSIONE 1. Qual è l'origine della conoscenza umana e quali le sue forme
fonda- mentali? 2. Quale valore ha la conoscenza umana? 3. Come si arriva al
raggiungimento della verità per la nostra conoscenza? 4. In che cosa consiste
il problema gnoseologico? Quali sono i suoi aspetti princi pali? 5. Qual è il
pensiero dei platonici, degli aristotelici, dei razionalisti, degli empiristi,
degli idealisti sulla divisione, l'origine e il valore della conoscenza? 37 6.
Come sorge il problema critico? Quale impostazione assume in Socrate, Agostino,
Cartesio, Kant e Husserl? 7. Che cos'è il metodo? Quali sono i metodi proposti
da Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Vico, Leibniz, Hume, Kant, Hegel,
Husserl, Wittgenstein, Mara? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI BLANDINO G., I!
problema della conoscenza, Abete, Roma 1972. FagRO C., Percezione e pensiero,
Morcelliana, Brescia 1961. HEEGGER M., Sull’essenza della verità, La Scuola,
Brescia 1977, MARCUSE H., L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967. MARITAIN
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gnoseologia e metafisica, L.A.S., Roma 1966. PENATI G.C., Problemi di
gnoseologia e metafisica, Vita e Pensiero, Milano 1979. Poppi A., La verità, La
Scuola, Brescia 1984. RINALDI G., Critica della gnoseologia fenomenologica,
Giannini, Napoli 1979. RIVETTI BarBò F., Dubbi, discorsi, verità. Lineamenti di
filosofia della cono- scenza, Jaca Book, Milano 1985. SAMEK Lopovici E.,
Metamorfosi della gnosi, Ares, Milano 1979. SANGUINETI J.J., Logica e
gnoseologia, Ed. Urbaniana, Roma 1984. VANNI RovIGHI S., Gnoseologia,
Morcelliana, Brescia 1979. 38 Capitolo terzo li PROBLEMA EPISTEMOLOGICO {o
problema della scienza) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO I. Che cosa si intende per
scienza oggi? E che cosa si intendeva nel passato? 2. Quale valore è da
attribuire al sapere scientifico? $. Evoluzione del concetto di scienza nei
corso dei seceli Da quando Comte negò alia filosofia una propria sfera di
oggetti e le affidò come compito specifico lo studio delle scienze, ia determi-
nazione dei loro oggetti e dei loro compiti, la loro divisione e coor-
dinazione, l’attenzione dei filosofi si è rivolta sempre più insistente- mente
in direzione della scienza, la quale è divenuta per molti l’ar- gomenta principale
e centrale della loro analisi. Del resto, un'inda- gine più attenia e
approfondita delle caratteristiche e delle funzioni del sapere scientifico era
richiesta, oltre che dall’orientamento posi- tivistico delia filosofia, anche
dagli enormi sviluppi e dall'importanza straordinaria che la scienza aveva
acquisito durante gli ultimi due secoli, un periodo in cui essa ha mostrato di
essere un sapere estre- mamente fecondo e pratico. Da tali istanze ha preso il
via quelia speciale disciplina che si chiama filosofia della scienza o
episiemologia. Questa si identifica « con la critica metodologica della
scienza, nelia misura in cui tale critica tende all’'esplicitazione consapevole
e sistematica del metodo e delle condizioni di validità dei giudizi — particolari,
o singolari, e universali — fatti propri dagli scienziati e persegue così una
“rico- struzione razionale”, convenzionalmente qualificata in senso empiri-
co-pragmatico, del concetto di conoscenza scientifica ». Gli interrogativi a
cui l'epistemologia si propone di rispondere sono i seguenti: « Cos'è la
conoscenza scientifica? In altre parole, in che cosa cohsiste propriamente il
lavoro dello scienziato? Cosa fa egli quando fa scienza? Interpreta, descrive,
spiega, prevede? Le sue sono soltanto congetture oppure asserzioni (generali e
singolari) rispecchianti fedelmente tratti (generali e singolari) dei fatti? E
quan- do lo scienziato spiega, cos'è che egli spiega dei “fatti”? La fun- FO A.
PASQUINELLI, Nuovi principi di epistemologia, Feltrinelli, Milano 946, p. 56.
39 La riflessione sulla scienza: caratieristiche s funzioni L'epistemotpgia:
critica metodologica della scienza Gli interrogativi fondamentali — induzione —
causalità — oggettività Presa di coscienza della problematicità del sapere
scientifico Trasformazioni nel tempo del concetto di scienza: — divisione
aristotelica: matematica, fisica, metafisica — età moderna: l’aspetto
denotativo ristretto ai fenomeni sperimentabili e calcolabili zione, l'origine,
la genesi, l'essenza, il fine? Qual è lo status logico delle leggi nella
scienza? Sono essi l'esito di procedimenti induttivi (e poi che cosa vuol dire
induzione nella scienza?), ovvero congetture della fantasia scientifica che
dovranno venir sottoposte ad una terribi- le lotta (prove empiriche) per
l’esistenza? Inoltre, in che senso si par- la di causalità (e di cause) nelle
scienze empiriche? Quand'è, poi, che possiamo dire che una teoria è “migliore”
di un’altra? E che cos'è che intendiamo allorché diciamo che le scienze
empiriche sono og- gettive? Qual è il ruolo dell'esperienza nella ricerca
scientifica? Sono questi tutti interrogativi che sgorgano dalla domanda
iniziale su che cosa sia la conoscenza scientifica »? Questi interrogativi
hanno cominciato ad imporsi all'attenzione dei filosofi verso la fine
dell'Ottocento con Boutroux, Poincaré, Duhem, Mach, ecc., allorché
all’atteggiamento di ottimistica fiducia e cieca esaltazione della scienza, è
subentrato un atteggiamento di pacato scetticismo e di critica penetrante nei
confronti della cono- scenza scientifica. Si deve appunto alla presa di
coscienza della pro- blematicità di tale conoscenza (coscienza che era ancora
assente in Cartesio, Newton, Kant, Comte, Spencer, ecc.) la nascita e lo
sviluppo della filosofia della scienza o epistemologia. Il concetto di scienza
ha subìto profonde trasformazioni lungo il corso dei secoli sia per quanto
attiene all'aspetto connotativo (il significato del termine) sia a quello
denotativo (il campo di applica- bilità). Aristotele, per primo, definì la
scienza come cognitio rei per causas: conoscenza di una cosa attraverso i suoi
principi (cause) costitutivi, o, più brevemente, « conoscenza ragionata,
argomentata, delle cose ». Aristotele divideva le scienze in tre grandi rami:
mate- matiche (scienze dei numeri), fisiche (scienze delle cose materiali) e
metafisiche (scienze delle realtà indipendenti dallo spazio e dal tempo).
Durante l'epoca moderna, a partire da Bacone, c'è stato un cam- biamento per
quanto concerne l'aspetto denotativo: perché l'ambito di applicazione del
termine « scienza » un po’ alla volta è stato ri- stretto allo studio di
fenomeni sperimentabili fisicamente e calcola- bili matematicamente; ma allo
stesso tempo interveniva anche un cambiamento concernente l'aspetto
connotativo, dato il nuovo si- gnificato che andava assumendo nel pensiero
moderno il concetto di causa. Per « causa » Aristotele ed in generale tutti i
pensatori dell'an- tichità e del Medioevo intendevano l'essenza, la natura
delle realtà (sia materiali che spirituali) e credevano che per spiegare ‘un
fatto, un fenomeno, bastasse conoscere l'essenza della cosa che lo pro- duce.
Così, per es., per spiegare il fenomeno dell'ebollizione del- l'acqua quando
viene messa sul fuoco, pensavano che fosse necessario ? D. ANTISERI, La filosofia
del linguaggio, Morcelliana, Brescia 1973, p. 95. 40 e sufficiente conoscere la
natura dell’acqua e del fuoco. Da tale con- cetto di scienza e di causa
derivava quell'interessamento per le es- senze delle cose tanto caratteristico
del pensiero antico. Nel pensiero moderno si registra un cambiamento radicale.
Da Bacone (1561-1626) in poi l'oggetto della scienza non è più l'essenza delle
cose che si nasconde dietro i fenomeni, bensì i rapporti co- stanti, le leggi
che legano i fenomeni fra di loro. Anche secondo la concezione moderna la
scienza studia la causa dei fenomeni ma, per causa, non si intende più
l’essenza e l'elemento qualitativo delle cose, ma solo gli aspetti quantitativi
e la relazione costante che lega i feno- meni fra di loro, cioè la legge. La
legge indica puramente una relazio- ne di fatto fra due termini. Anziché un
rapporto causale propriamente detto la legge esprime una certa regolarità
fenomenica. Per esempio, che ad una certa variazione di temperatura coincide
nel metallo una certa variazione di dilatazione. Questo però non dice nulla
riguardo alla natura ontologica del calore e del metallo o della causalità del
mondo materiale. Il problema che si pone lo scienziato non è più quello del
perché e dell'essenza delle cose, ma quello del come e del comportamento delle
medesime. Nasce così il concetto moderno di legge naturale che viene a prendere
il posto della natura, essenza, o forma aristotelica. La legge non è la
definizione dell'essenza della co- sa, bensì la formulazione del rapporto costante
tra due grandezze va- riabili, non è dunque che la descrizione del
comportamento di un fe- nomeno, espressa in forma matematica. Questo
cambiamento nella concezione dell'oggetto della scienza è avvenuto, come già
detto, nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. In tempi assai più recenti si è
effettuato un cambiamento non meno sensazionale riguardo alla concezione dei
rapporti tra scienza e realtà. Fino alla fine del secolo scorso si è sempre
concepita la scienza come una fedele riproduzione della realtà. Scienziati e
filo- sofi hanno universalmente ritenuto che la scienza riveli all'uomo la
struttura effettiva delle cose e gli manifesti esattamente la realtà. Secondo
tale concezione dei rapporti tra scienza e realtà, per esem- pio, le «
definizioni » di Euclide non indicano semplici costruzioni mentali nostre, in
certo modo convenzionali e che potrebbero perciò essere diversamente formulate,
ma designano essenze reali concepite di per sé esistenti. Allo stesso modo è
concepita la sostanza e lo spazio. Molti antichi credono non solamente in
questa fedele corri- spondenza tra scienza e realtà ma arrivano persino ad
identificare il razionale con il reale. Così, per esempio, poiché cerchio e
sfera, per l'equidistanza di tutti i punti dal centro e quindi la simmetria ed
ar- monia che presentano, sono figure « perfette », Aristotele e gli astro-
nomi antichi deducono che gli astri, che sono gli esseri materiali più «
perfetti », devono avere forma sferica e muoversi secondo orbite circolari. La
scienza moderna invece, fondandosi sull’osservazione di fatto, ha dimostrato
che la terra è schiacciata ai poli e che le orbite dei pianeti sono ellittiche.
La concezione classica di esatta 41 Oggi si studia Il comportamento delle cose
Daila scienza come riproduzione della realtà si passa alla scienza come
sistemazione dei dati dell'esperienza Dogi si ritiene che i cencetti filosofici
fon corrispondono esattamente alla realtà corrispondenza tra scienza e realtà è
durata per molto tempo anche nell'età moderna e non raramente si è spinta la
corrispondenza tra lo scientifico e il reale fino a tal punto da identificare
lo scientifico col reale, sicché è reale solo quello che è scientifico. È
famoso il caso delle proprietà primarie (figura, estensione e numero) e secon-
darie (colore, odore, sapore, ecc.). Secondo Galilei, Cartesio e mol- tissimi
altri scienziati e filosofi moderni, poiché la considerazione scientifica si
limita alle qualità primarie, queste sono ritenute ogget- tive e perciò reali,
mentre le qualità secondarie sono considerate sog- gettive e quindi irreali.
Estensione, moto e numeri, cioè i concetti che hanno preso il luogo prima
occupato dalle forme e essenze arista- teliche non sono concepiti da Galilei e
Newton meno realisticamen- te di quanto non lo siano state ie forme e sono
considerati l'essenza costitutiva della realtà naturale. Col crollo di molti
punti cardinali della scienza moderna, co- struita da Newton e ritenuta per un
paio di secoli infallibile come i dogmi rivelati, la concezione classica di esatta
corrispondenza tra scienza e realtà cominciò a vacillare. Oggi la maggioranza
degli scienziati ritiene che i concetti scientifici non corrispondano esatta-
mente alla realtà. Essi non concepiscono la scienza come una ripro- duzione
fedele della realtà ma come una semplice sistemazione dei dati dell'esperienza.
La scienza, quindi, non è valida in quanto rivela all'uomo la struttura
effettiva dei fenomeni ma in quanto permette all'eomo di orientarsi nella
congerie dei fatti che gli presenta l’espe- rienza, di prevederne la
successione futura e di poter quindi meglio attendere all'organizzazione della
propria vita. Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), paleontologo e teologo,
ha scritto a questo proposito: « Se prendiamo nel suo insieme l’edificio di onde
e di particelle costruito dalla nostra scienza, risulta chiaro che questa bella
architettura contiene di “noi-stessi” almeno quanto contiene delle “cose”.
Giunte ad un certo grado di ampiezza e di sottigliezza, le costruzioni della
fisica moderna lasciano intravedere distintamente la trama intellettuale dello
spirito del ricercatore sotto la marea dei fenomeni. Di qui il dubbio che
fotoni, protoni, elettroni e altri elementi della materia non abbiano né
maggiore (né minore) realtà fuori della nostra mente di quanto ne abbiano i
colori fuori dei nostri occhi. Di conseguenza il vecchio realismo dei
laboratori si incammina verso una specie di idealismo scien- tifico ».3 Sullo
stesso argomento il matematico Jules-Henri Poincaré (1854- 1912) si è espresso
nel modo seguente: « Le teorie matematiche (dei fenomeni fisici) non hanno lo
scopo di rivelarci la vera natura delle cose; questa sarebbe una pretesa
irragionevole. Il loro unico scopo è di coordinare le leggi fisiche che
l'esperienza ci fa conoscere, ma che senza il concorso delle matematiche non
potremmo neppure e- ? P. TEILHARD DE CHARDIN, L'énergie humaine, Parigi 1962,
p. 144. 42 nunciare. Interessa poco che l'etere esista effettivamente, questo è
un problema che interessa i metafisici: l'essenziale per noi è che tutto si
svolga come se di fatto esistesse ».* Le parole di Poincaré sono assai
autorevoli, perché è stato lui a provare che lo spazio di cui tratta la
geometria euclidea non è né la riproduzione esatta della realtà, come aveva
creduto la scienza classica, né una forma a priori come aveva sostenuto Kant,
ma è una costruzione mentale escogitata dall'uomo per riordinare i dati
dell'esperienza ed eliminare da essi il carattere complesso e contrad- dittorio
con cui si presentano. Anche il concetto di numero ha mutato significato per lo
scienziato moderno. Mentre per gli antichi il nu- mero era un elemento
essenziale della realtà materiale e per alcuni l'essenza stessa delle cose, per
gli scienziati del nostro tempo i nu- meri sono un simbolismo, come le parole,
introdotto dall'uomo per esprimere e riassumere certi caratteri dei fenomeni,
come la esten- sione, la molteplicità, la direzione, ecc. I principali
argomenti che si adducono a favore della nuova con- cezione della scienza e del
significato delle teorie scientifiche sono tre. Il primo e più importante è
quello che si fonda sulla verità che tutte le nostre idee hanno solo una
corrispondenza parziale con le cose. La realtà individuale è troppo complessa e
la mente umana per comprenderla deve sempre sottoporla a riduzioni,
semplificazioni, schematizzazioni che rappresentano le cose solo in modo
imperfetto e inadeguato. Per questo motivo gli scolastici affermavano che tra
conoscenze umane e cose non vi è relazione di univocità ma di ana- logia. E
tutti sanno che l'analogia comporta una piccola somiglianza là dove c'è grande
differenza. Un altro importante argomento 2 fa- vore della nuova
interpretazione è il fatto che il soggetto conoscerite è sempre coinvolto
nell'evento che sta osservando, e, per certi espe- rimenti, l'osservazione si
risolve sempre in una modificazione de! fe- nomeno. È questo il significato dei
famoso principio di indetermina- zione formulato dal fisico Werner Heisenberg,
che afferma l’impos- sibilità di determinare assieme la posizione e la velocità
di un elet- trone, perché la determinazione delia posizione richiede che
l’eiet- trons sia illuminato, il che ne altera inevitabilmente la velocità.
Analoga conclusione si ricava dal famoso teorema di Gòdel,' il quale dice che «
di qualsiasi sistema logico è indimostrabile la non-con- traddittorietà con i
mezzi offerti dal sistema stesso ». Il terzo arga- mento è la constatazione che
tante teorie scientifiche ritenute incroi. labili in un non lontano passato,
recentemente sono risuitate se non proprio errate quanto meno insufficienti:
inapplicabili ai nuovi fe- nomeni che sono venuti alla luce con l'ampliarsi
dell'orizzonte delia scienza. ‘ H. PoINCARÉ, La science et l'hypothèse, Parigi
1902, p. 245. 5 Kurt Géodel (1906-1978) matematico statunitense di origine
morava, che, doro l'avvento del nazismo, andò negli USA ad insegnare
nell'università di rinceton. 43 Dal carattere essenziale 21 carattere simbolico
del numero Tre argomenti a favore delia concezione moderna della scienza: — if
concetto di analogia — ii principio di indeterminazione —- il priterie d!
falsificeditità Nozione non univoca di scienza La matematica e la geometria
come rappresentazioni formali Probabilismo e relativismo del sapere scientifico
Stando così le cose, si può ritenere filosoficamente valida la con- cezione
moderna della scienza e la nuova interpretazione della rela- zione tra scienza
e realtà, in termini di analogia (cioè di parziale cor- rispondenza tra teorie
scientifiche e mondo reale), perché si tratta semplicemente di un'applicazione
in un campo particolare (quello scientifico) dell'unica interpretazione
corretta del rapporto tra cono- scenza umana in generale e le cose materiali.
La nuova interpreta- zione sottrae definitivamente le scienze sperimentali al
pericolo al quale si sono trovate sistematicamente esposte in passato: il
pericolo di identificare il razionale col reale, lo scientifico col fisico, il
quan- titativo col qualitativo. Oltre che alla interpretazione dei rapporti tra
scienza e realtà, se- condo alcuni epistemologi (Maritain, Agazzi, Tonini,
ecc.) il concetto di analogia si addice perfettamente anche alla definizione
della no- zione di scienza. Questa non è una nozione univoca (che si applica
cioè esattamente allo stesso modo a tutte le scienze), bensì analoga. In
effetti il rigore e l'oggettività, che sono gli elementi specifici del sapere
scientifico, non si applicano allo stesso modo alle varie scienze, ma variano
da scienza a scienza: altro è il rigore e l’oggettività che si richiede nella
fisica, nella chimica, nell’anatomia, ecc. e altro il ri- gore e l’oggettività
che si esige in psicologia, sociologia, antropologia culturale, ecc.9 2.
Classificazione delle scienze e natura del sapere scien- tifico secondo gli
epistemologi contemporanei I primi risultati significativi di questa nuova
disciplina riguar- dano la matematica e la geometria, le quali non sono più
concepite come scienze reali, come rappresentazioni di situazioni obiettive,
bensì come costruzioni formali: come sistemi fondati su postulati scelti
arbitrariamente e costruiti con la tecnica della deduzione lo- gica delle
conseguenze che tali postulati comportano. Così, per opera di Hilbert,
Poincaré, Peano, Riemann, Frege, Russell e di altri stu- diosi, la matematica e
la geometria prendono coscienza della loro specificità come scienze del
possibile, distinte dalla fisica che è invece scienza del reale. Per quanto
concerne la fisica e le scienze sperimentali in ge- nerale si passa dalla
visione statica e meccanicistica ad una visione dinamica, probabilistica e
relativistica delle leggi della natura. Que- sto cambiamento fu motivato dalle
scoperte della entropia, della radioattività, della relatività, dei quanta,
ecc... In conseguenza di tali scoperte i concetti di uno spazio e di un tempo
assoluti come pure quelli di simultaneità persero ogni valore. L'idea dello
spazio curvo ‘ Cfr. E. AGAZZI, « Analogicità del concetto di scienza », in
Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979, pp. 57-76. 44 prende il
posto dell'idea euclidiana dello spazio rettilineo; l’idea di rapporti
necessari di causalità è sostituita dall'idea di indetermi- nazione. Nelle
scienze della natura, all'inizio del Novecento, acquista ri- lievo una serie di
questioni filosofiche relative al carattere e alla fun- zione della conoscenza
sperimentale. Le scienze naturali non figu- rano più nel campo del sapere come
conoscenza assoluta e onnipo- tente, ma come una forma singolare di conoscenza,
con caratteri- stiche e limiti propri. Il suo campo è la quantità. In tal modo
la fisica guadagna un profilo matematico, relegando in secondo piano le
intenzioni ontologiche e gli elementi sensibili. Di qui la tendenza di ridurre
la conoscenza sperimentale a puri dati metrici e allo sche- ma relazionale di
tali dati. Questo sforzo di quantificazione e mate- maticizzazione della fisica
accentua i tratti che la distinguono sia dalla conoscenza ordinaria che da
quella filosofica. ‘Per quanto concerne la filosofia della scienza propriamente
detta, essa ha avuto uno sviluppo considerevole nel nostro secolo, dando
origine a tre movimenti principali: il neo-positivismo, l’interpreta- zione
metafisica e il razionalismo scientifico. I sostenitori più qualificati del
neopositivisnio sono Schlick, Wittgenstein, Carnap, Ayer e Russell. I neopositivisti
dividono le scienze in due grandi gruppi: a) quelle logico-matematiche e b)
quelle sperimentali. Le prime sono costituite da proposizioni analitiche ossia
tautologiche, mentre le seconde sono composte di proposizioni fattuali. Le
proposizioni lo- giche e matematiche, prive di contenuto, non sono altro che
regole per l'utilizzazione dei simboli e per l'ordinazione delle proposi-
zioni. 'Le proposizioni sperimentali o fattuali sono quelle il cui conterfuto è
verificabile empiricamente. In contrasto radicale col neopositivismo si colloca
la concezione metafisica della scienza. Questa afferma che la scienza implica
una metafisica e soltanto in questa trova il suo ultimo fondamento. Se- condo
tale concezione l’opera della scienza si presenta o come la scoperta
progressiva della realtà oppure come l’automanifestazione dello spirito umano
attraverso la ricerca scientifica. Nel primo caso si tratta di una concezione
metafisica realistica; nel secondo caso di una concezione metafisica
idealistica. Uno dei più autorevoli esponenti del realismo metafisico è il
francese Emile Meyerson (1859-1933). Questi afferma che la scienza « non è
positiva e non contiene neppure dati positivi, nel senso pre- ciso che è stato
dato a questo termine da A. Comte e dai suoi se- guaci, ossia di dati
sprovvisti di qualsiasi ontologia. L'ontologia fa corpo con la scienza stessa e
non può esserne separata ».” È il reali- smo del senso comune, secondo
Meyerson, che si prolunga nella scienza senza soluzione di continuità. La
scienza, avanzando nella ? E. MEyERson, /dentité et réalité, Parigi 1926, pp.
438-439. 45 La filosofia della scienza oggi: — il neopositivismo: scienze
logico- matematiche e scienze sperimentali — la concezione metafisica: la
scienza come automanifestazione dello spirito — il ‘“selettivismo soggettivo”’
di Eddington: attività spontanea
dell'intelletto — il razionalismo
scientifico: la scienza come opera della ragione Esperienza e ragione: il ruolo
direttivo dell’eilemenio teorics direzione del senso comune, crea delle essenze
il cui carattere reale non solamente non viene eliminato ma si intensifica.
L'interpretazione metafisica idealistica della scienza ha avuto invece un
valido sostenitore nell’inglese Arthur S. Eddington (1882- 1944). L'idea
centrale di questo pensatore è la « selezione », che egli stesso designa come «
selettivismo soggettivo ». Nella sua epi- stemologia l'idea di selezione occupa
il posto che nell’epistemologia realista detiene l’idea di astrazione. La
selezione corrisponde ad una attività del nostro intelletto, sorta
spontaneamente e di cui lo scien- ziato inglese si compiace di accentuare la
soggettività. In tal modo, al concetto di scoperta egli contrappone quello di
creazione, intesa in senso idealistico, come apprensione del proprio lavoro
intellettivo nell'universo. Fra le leggi fisiche, Eddington distingue quelle
che egli chiama « leggi epistemologiche ». La loro caratteristica peculiare è
di essere deducibili mediante il solo studio dei nostri metodi di osservazione.
Queste leggi necessarie, universali ed esatte costituiscono l'elemento a priori
della fisica e delle altre scienze sperimentali. Secondo un altro gruppo
abbastanza nutrito di autori la scienza è opera della ragione umana, una specie
di macchina creata da essa, di cui si tratta di riscoprire le strutture e le
leggi interne. Mentre l'interesse dell’interpretazione metafisica si rivolgeva
alla infrastrut- tura ontologica della scienza e quello del neo-positivismo ai
suoi contenuti in quanto tali, appresi nel loro grado massimo di cristalliz-
zazione oggettiva, lo sforzo del razionalismo scientifico, per contro, è teso a
chiarire il senso dell'opus rationale che costituisce la scienza. Principale
esponente di questa interpretazione è il francese Gaston Bachelard (1884-1962).
Secondo questo studioso la filosofia della scienza dei nostri giorni non può accogliere
né la soluzione rea- listica né quella idealistica, ma deve collocarsi in una
via di mezzo ira realismo e idealismo, in cui vengono entrambi ripresi e
superati: « un realismo che si è incontrato col dubbio scientifico non può più
essere della stessa specie del realismo immediato [...] un razionali- smo che
ha corretto i giudizi a priori, come è avvenuto nelle nuove ramificazioni della
geometria, non può più essere un razionalismo chiuso ».3 Nella sua gnoseologia,
Bachelard pone la coppia esperienza- ragione alla base di tutta la conoscenza
umana. Non si tratta tuttavia di un condominio di potenze eguali, perché
l'elemento teorico si ma- nifesta con maggior forza. In effetti è l'elemento
teorico che svolge il ruolo direttivo: « Il senso del settore epistemologico ci
appare assai netto. Esso va certamente dal razionale al reale e non, nell’or-
dine inverso, dalla realtà al generale come professarono tutti i filo- sofi da
Aristotele a Bacone »/ ; Sd RSCHELARD, Le nouvel esprit scientifique, 5° ed.,
Parigi 1949, pp. 2-3. Vi, p. 9. 46 Il procedimento scientifico si configura,
pertanto, come « rea- lizzante », in quanto realizzazione del razionale e del
matematico. È così che un certo matematicismo si impadronisce del pensiero di
Bachelard, fino alla dissoluzione della realtà nella matematica, e il reale non
si presenta più al limite che come un caso particolare del possibile. In questo
senso la posizione filosofica di Bachelard si po- trebbe definire come un «
razionalismo applicato », in cui primeggia la direttrice che va dalla ragione
all'esperienza e che corrisponde alla supremazia della fisica- matematica.
Mentre l’empirismo, secondo Bachelard, è la filosofia della conoscenza volgare,
il razionalismo ri- sponde alle istanze della conoscenza scientifica. Anche
Bachelard, come Gadamer e l'ultimo Popper, ritiene che l'osservazione scien-
tifica si realizza sempre movendo da una teoria precedente e prepara- trice e
non viceversa. Una posizione analoga a quella del Bachelard è quella difesa da
Karl Popper. Anch'egli respinge decisamente l'empirismo in nome di una certa
forma di razionalismo. « L'epistemologia empiri- stica tradizionale e la
storiografia tradizionale della scienza — scrive K. Popper — sono ambedue
profondamente influenzate dal mito baconiano secondo cui l’intera scienza parte
dall'osservazione per poi lentamente e con cautela procedere verso le teorie
».!° Ma le cose non stanno così. Il primum {logico e genetico) nella costru-
zione della scienza sono i problemi e con essi le ipotesi, le conget- ture e
non le osservazioni. Noi osserviamo sempre da un punto di vista, sempre sotto
lo stimolo di un problema. Tutte le nostre cono- scenze sono risposte a
precedenti problemi. Noi acquistiamo le co- noscenze che si prestano a
risolvere i nostri interrogativi, i nostri problemi. Pertanto le teorie
scientifiche non sono cumuli di osser- vazioni, ma sistemi di azzardate e
temerarie congetture. La scienza è anzitutto invenzione di ipotesi;
l’esperienza svolge il ruolo di con- trollo delle teorie. Il controllo delle
teorie, la convalida delle proposizioni scienti- fiche, secondo Popper, non si
ottiene come vogliono i neopositivisti, direttamente, facendo ricorso alla
verifica sperimentale, bensì indi- rettamente mediante il processo della
fa/sificabilità. Questo criterio stabilisce che una teoria può considerarsi
scientifica soltanto se sod- disfa a due condizioni: a) essere falsificabile,
ossia poter venir smen- tita e contraddetta in linea di principio; b) non
essere ancora stata trovata falsa di fatto. Secondo Popper « una teoria che non
può venir confutata da nessun evento concepibile non è scientifica. L'in-
confutabilità di una teoria non è (come spesso si ritiene) una virtù, bensì un
vizio... Il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità
o confutabilità o controllabilità ».! Non la verifi- cabilità è il criterio di
demarcazione tra teorie empiriche e teorie non !° K. PopPER, Conjectures and
Refusations, 2* ed., Londra 1965, p. 137 {ora tradotta in Italia dall”Ed. Il
Mulino, Bologna 1974). # K, PopPPER, Scienza e filosofia, Einaudi, Torino 1969,
p. 130 s. 47 Il ‘‘razionalismo applicato”: — dalla ragione all'esperienza —
primato della fisica-matematica Popper: problemi- ipotesi e congetture sono il
“primum” logico e genetico Dal criterio di verificabilità al processo di
falsificabilità empiriche (per es., le metafisiche, le teologie della storia,
le utopie, ecc.), ma la loro falsificabilità. In effetti, una legge scientifica
non potrà mai essere completamente verificata, mentre invece può essere
totalmente falsificata. 3. Conclusione La nostra breve rassegna delle posizioni
degli epistemologi con- temporanei ha messo in luce come, anche in questo nuovo
settore della filosofia, la ragione umana non sia riuscita a raggiungere una
soluzione soddisfacente, su cui ci si possa trovare tutti d'accordo. Anche
nella filosofia della scienza si sono rinnovate le classiche al- ternative:
idealismo o realismo? razionalismo o positivismo? Nonostante la persistente
problematicità, il compito della filosofia è quello di non arrestare mai il suo
cammino di ricerca, ma di conti- nuare ad esprimere la profonda esigenza
dell'uomo di trovare una spiegazione radicale ed esauriente ai suoi
interrogativi. CONCETTI DA RITENERE — Epistemologia — Aspetto connotativo;
aspetto denotativo — Nozione di analogia; principio di indeterminazione;
criterio di falsifi- cabilità — Neopositivismo; interpretazione metafisica;
razionalismo scientifico SINTESI CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA DELLA FILOSOFIA
DELLA SCIENZA 1. Nel pensiero contemporaneo, sulla scorta del positivismo di
Comte, na- sce la filosofia della scienza, che si interroga su: che cos'è la
conoscenza scien- tifica? Qual è l’attività propria dello scienziato? Di che
natura sono le sue affer- mazioni? Che cosa egli spiega? Qual è lo status
logico delle leggi della scienza? 2. Nel tempo il problema della scienza si è
trasformato sia nell'aspetto connotativo (significato del termine) sia nel
campo denotativo (campo di ap- plicabilità). 3. Nel pensiero classico la scienza
aveva per oggetto l'essenza delle cose (Aristotele). Nel pensiero moderno
l’oggetto divengono i rapporti costanti, le leggi che legano i fenomeni tra
loro (da Bacone a Newton). Nel pensiero con- temporaneo si è ormai pervenuti
alla convinzione che la scienza è una costru- zione mentale dell'uomo per
ordinare e semplificare i dati dell'esperienza (Teil. hard de Chardin,
Poincaré, ecc.). 4. Ne consegue un ridimensionamento del valore del sapere
scientifico a cui si attribuisce la nozione scolastica di analogia, il
principio di indetermina- zione di Heisenberg e il criterio di falsicabilità.
II. CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE E NATURA DEL SAPERE SCIENTIFICO SECONDO GLI
EPISTEMOLOGI CONTEMPORANEI 1. Nel pensiero contemporaneo si passa dalla visione
statica della scienza alla visione dinamica, probabilistica e relativistica. 48
2. All’inizio del ’900 le scienze naturali si pongono come una forma singo-
lare di conoscenza con caratteristiche e limiti propri. 3. La filosofia della
scienza nel nostro tempo si orienta in tre direzioni: neopositivismo,
interpretazione metafisica, razionalismo scientifico: a) neopositivismo —
distingue le scienze in logico-matematiche (costituite da proposizioni
analitiche o tautologiche) e in sperimentali (il cui contenuto è verificabile
empiricamente); b) interpretazione metafisica — si configura in due
orientamenti: 1) meta- fisica realistica: la scienza, che ha il suo fondamento
nella metafisica, è consi- derata come scoperta progressiva della realtà (E.
Meyerson); 2) metafisica idealistica: la ricerca scientifica è
automanifestazione dello spirito {A.S. Ed- dington); c) razionalismo
scientifico — preoccupato di chiarire il senso dell’« opus rationale » che
costituisce la scienza {G. Bachelard e Popper). QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE
1. Che cosa è l’epistenwologia e a quali interrogativi risponde? 2. Oggi in che
cosa si differenzia l'epistemologia dalla gnoseologia? 3. L’epistemologia a
quali movimenti ha dato origine? . 4. Nella cultura del nostro tempo quale
rapporto intercorre tra scienza e religione? 5. In che misura il secolo XX ha
promosso un progetto uomo finalizzato alla scienza? 6. Quale rapporto
intercorre oggi tra scienza e potere politico? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI
AA.Vv., Epistemologia e scienze umane, Massimo, Milano 1979. AA.Vv., Scienza e
filosofia, Massimo, Milano 1980. AcassI J., Epistemologia, metafisica e storia
della scienza, Armando, Ro- ma 1978. 'ANTISERI D., Epistemologia e didattica,
L.A.S., Roma 1976. BALDINI M., Epistemologia e storia della scienza, Città di
Vita, Firenze 1974. BRAITHWAITE R.B., La spiegazione scientifica, Feltrinelli,
Milano 1966. FILIASI CARCANO P., Epistemologia delle scienze umane e
rinnovamento filo- sofico, Bulzoni, Roma 1977. GEIMONAT L., /l pensiero
scientifico, Garzanti, Milano 1954. HEMPEL C.G., Filosofia delle scienze
naturali, Il Mulino, Bologna 1968. LecourT D., Per una critica
dell’epistemologia, De Donato, Bari 1973. NAGEL E., La struttura della scienza,
Feltrinelli, Milano 1968. PANNEMBERG W., Epistemologia e teologia, Queriniana,
Brescia 1975. PASQUINELLI A., Nuovi principi di epistemologia, Feltrinelli,
Milano 1974. Popper K.R., Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino
1970. VAN STEENBERGHEN F., Epistemologia generale, SEI, Torino, 1966. VERNEAUX
R., E pistemologia generale, Paideia, Brescia 1967. 49 Il linguaggio umano
espressione della totalità della persona L’uomo-essere parlante Capitolo quarto
IL PROBLEMA LINGUISTICO (o filosofia del linguaggio) QUESTIONARIO PROPEDEUTICO
1. Quale valore ha la comunicazione nella vita della persona? Possiamo vivere
senza comunicare? 2. Nella comunicazione quale posto occupano la conoscenza e
l’amore? 3. Esiste un rapporto tra parola, persona e libertà? 1. Caratteri del
linguaggio Il linguaggio è una proprietà primaria, fondamentale dell’uomo, ed è
inoltre una proprietà che lo caratterizza nettamente nei con- fronti degli
altri esseri di questo mondo, viventi e non viventi. Anche gli animali sono
dotati di una forma elementare di linguaggio, ma possono servirsene solo come
strumento di sopravvivenza, per segnalare agli animali delia stessa specie
situazioni di vitale impor- tanza, come presenza di cibo, di pericolo, ecc.
L'uomo, invece, adope- ra il linguaggio per scopi e nei modi più svariati: come
strumento di espressione di se stesso, dei propri sentimenti, desideri, idee,
per co- municare con gli altri, per descrivere le cose, per domandare, per
educare, per pregare, per cantare, come strumento di lotta, di pro- paganda, di
divertimento, ecc. « L'uomo — scrive Martin Heidegger — parla sempre. Noi
parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sem- pre, anche quando non
proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggia- mo, ci dedichiamo ad un iavoro o ci
perdiamo nell’ozio. In un modo o nell'altro parliamo ininterrottamente.
Parliamo perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un
particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale
per acqui- sito che l’uomo, a differenza della pianta e dell'animale, è
l'essere vivente capace di parole. Dicendo questo non si intende affermare
soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del
parlare. Si intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere
vivente che egli è in quanto uomo ». Il linguaggio costituisce un problema per
i cultori di molte di- scipline: per lo storico che cerca di conoscerne
l'origine e lo svi- luppo, per il fisiologo che studia gli organismi
interessati alla emis- sione dei suoni, per lo psicologo che esamina
l'incidenza del lin- ! M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, Mursia,
Milano 1973, p. 27. 50 guaggio sulla sfera del conscio e dell'inconscio, per il
logico che stu- dia il linguaggio in vista di rimuovere da esso oscurità e
ambiguità e promuovere una sua intrinseca chiarificazione, per il critico
lette- rario che esamina lo stile che gli scrittori imprimono al linguaggio,
per il sociologo che si interessa all’influsso del linguaggio sui movi- menti
sociali, sulle dottrine, gli ideali, gli usi, i costumi di una società, ecc.
Per il filosofo il linguaggio fa problema quanto all'origine, alla natura, alla
funzione e al valore. Sono questi i punti della problema- tica linguistica che
prenderemo in esame nel presente capitolo e a questo scopo sarà opportuno
chiarire il significato di alcuni termini e di alcune distinzioni. Anzitutto lo
stesso termine linguaggio. Secondo una definizione molto comune « per
linguaggio si intende ogni sistema di segni che può servire come mezzo di
comunicazione » Esso comporta, quindi, una struttura essenzialmente intenzionale.
In effetti il linguaggio vuole segnalare intenzioni, idee, sentimenti, cose,
ecc. Si può dire a buon diritto che il linguaggio è lo strumento ideale della
intenziona- lità essenziale dell'uomo, che è un essere aperto e in continuo
movi- mento, orientato verso tutta la realtà che lo circonda e sovrasta. Tale
apertura dispone alla comunicazione, e la comunicazione si ef- fettua
principalmente mediante il linguaggio. Altri termini che ricorrono spesso nel
discorso linguistico sono lingua, parola, significante, significato.
Diversamente dal linguaggio, il quale indica la funzione generale delia
comunicazione, ia lingua significa il sistema linguistico usato da una
determinata società (lingua latina, italiana, greca, russa, da- nese, inglese,
ecc.). La lingua, pci, viene distinta a sua volta dalla parola. La lingua è il
sistema sovraindividuale di segni grazie ai quali gli uomini pos- sono
comunicare tra di loro: il sistema secondo le regole stabilite dalla grammatica
e dalla sintassi e secondo i significati generali regi- strati nel dizionario.
La parola, invece, è la forina concreta ed indi- viduale assunta dal sistema,
secondo i’uso di una determinata per- sona, secondo i significati personali,
soggettivi, emotivi da essa voluti. Abbiamo infine i termini significante e
significato. Il significante indica una realtà come essa è denotata e
strutturata dal linguaggio, mentre il significato indica il modo sempre
parziale e storico in cui la lingua parlata attualizza il significante. Per
esempio « padre » è un significante che ha il proprio senso grazie alle
relazioni all’interno della costellazione familiare. Il significato rappresenta
l'attuazione di questo significante in un determinato discorso e in una cultura
determinata. ? A. LALANDE, Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971,
p. 478. 51 Origine, natura, funzione e valore del linguaggio La lingua come
sistema linguistico di una società Significante e significato: denotazione di
una realtà e sua attualizzazione storica Linguaggio: origine naturale o origine
convenzionale? La teoria evolutiva è la tesi odierna: onomatopea — caso —
convenzione Preminenza di parole onomatopeiche nelle lingue europee 2. Origine
del linguaggio Sulla questione dell'origine del linguaggio le soluzioni
possibili, in definitiva, sono due: o il linguaggio è stato ricevuto (dalla
natura oppure da Dio), o è stato inventato dall'uomo (imitando la natura oppure
in un modo affatto convenzionale). Entrambe le soluzioni hanno incontrato il
favore di numerosi sostenitori sia nell'antichità sia ai nostri giorni. Mentre
però la prima soluzione era largamente seguita nel passato, oggi trova pochi
sostenitori. Secondo Humboldt, il linguaggio non può essere stato inventato
dall'uomo stesso, perché « l’uomo è uomo soltanto mediante il lin- guaggio,
ora, per inventare il linguaggio, egli dovrebbe essere già uomo ». Oggi, però,
la tesi più comune è che il linguaggio abbia avuto origine per evoluzione. Ma
ci sono modi diversi di interpretare que- sto evento. Alcuni ritengono che
l'evoluzione sia stata determinata dall'’onomatopea; altri invece assegnano la
parte principale al caso e alla convenzione. La teoria che il linguaggio nasce
formando suoni onomatopeici (ossia imitando suoni già esistenti in natura, per
esempio, il sibilo del vento, il mormorio dell’acqua, il canto degli uccelli,
ecc.) era già stata ventilata dagli stoici e più tardi da Leibniz, ma fu
proposta per la prima volta in modo scientifico solo da Herder, il quale già
nella sua tesi di laurea affermava: « Il primo vocabolario è costituito da
suoni raccolti da ogni parte del mondo. Da ogni natura emettente un suono si
ricava il suo nome: l’anima umana si vale di tali suoni quali segni per
indicare le cose ».* Recentemente la tesi dello Herder è stata ribadita con
dovizia di argomenti dal Bruni. Secondo questo studioso, « la tesi dell'origine
naturale del linguaggio, mediante l’onomatopea, è l’unica scientifica- mente
sostenibile ».5 « I glottologi e gli psicologi, che ritengono il linguaggio di
origine naturale, hanno sempre pensato che l’onoma- topea sia stata la madre
più feconda delle parole. Il Renan affermò che nelle lingue semitiche, e
specialmente nell'ebraico, la formazione della onomatopea è sensibilissima per
un grande numero di radici, e soprattutto per quelle che hanno un carattere
spiccato di antichità e di monosillabismo » Del parere del Bruni è anche il
Merlo. Questi afferma che « le prime parole create dall'uomo furono certo
onomatopeiche, imitative dei suoni risonanti al nostro orecchio; onomatopeiche
sono le prime parole che il bambino crea e che poi presto dimentica per le
eredi- tarie. Il lessico delle lingue europee è pieno di parole onomatopei- }
W. von HuMmBOLDT, Ueber das vergleichende Sprachstudium, par. 2. ER CIUO H.
ARENS, Sprachwissenschaft, K. Alber Verlag, Friburgo-Monaco » P. IUS. 5 F.
BRUNI, L'origine del Linguaggio, Studium, Roma 1958, pp. 6-7.. * Ivi, p. 7. 52
che; molte ne conosce di sue proprie il lessico della lingua latina; e perché
alle ereditarie non sarebbero venute ad aggiungersene altre, e molte altre, in
età latina tarda, e nelle singole lingue romanze? ».’ Secondo moltissimi
studiosi il linguaggio ha origine convenzio- nale. È l’homo sapiens che
escogita certi suoni per espletare deter- minate operazioni. A questa teoria ha
dato espressione autorevole il Wittgenstein nelle sue Philosophical
Investigatiovs. In quest'ope- ra egli sostiene che l'assegnazione di nomi alle
cose è arbitraria così come è arbitrario l'accordo sulle regole per fare un
determinato gioco. Il linguaggio stesso è concepito dal Wittgenstein come un
gioco (Sprachspiel). Come esempio del formarsi del gioco linguistico
Wittgenstein cita il caso dell'accordo che si stabilisce tra un muratore e un
manovale a riguardo di un certo arnese. « Supponi che un arnese adoperato da un
muratore per costruire porti un certo segno, un'etichetta. Quando il muratore
mostra al ma- novale il segno (l'etichetta), il manovale gli porta l’arnese che
porta quel segno. È press'a poco in questo modo che un nome significa e viene
assegnato ad una cosa. Si rivelerà assai utile in filosofia ripe- tersi di
tanto in tanto che denominare è una operazione simile al- l’affibbiare
un'etichetta ad una cosa ».? A nostro giudizio queste due tesi sull'origine del
linguaggio non sono necessariamente contraddittorie, ma si possono integrare
vi- cendevolmente. Dando per certo che il linguaggio è un'invenzione dell’uomo
e non un dono della natura o di un essere superiore, ci pare che questa
invenzione abbia avuto luogo inizialmente mediante l'imitazione dei suoni emessi
dagli animali e dalle cose. Così, per designare il cane, si ripete il verso del
cane; per designare il lupo, si ripete il verso del lupo; per designare il
vento, si ripete il rumore del vento, e così per tante altre cose. Questa
origine prima del linguaggio è confermata dalla larga quantità di suoni
onomatopeici presenti in tutte le lingue. Ed è pure confermata dal modo con cui
il bambino apprende a parla- re, imitando i suoni che sente dalla mamma. Su
questa base onomatopeica l’uomo ha in seguito manovrato con libertà e
genialità, escogitando suoni nuovi, oppure combinando in maniera diversa suoni
vecchi (per es., automobile, televisione, ae- roplano, ecc.). Per questo motivo
gran parte del linguaggio attual- mente in uso ha origine convenzionale. 3. Condizioni
essenziali del linguaggio Il linguaggio presuppone tre condizioni essenziali,
tre costanti o componenti assolute: ? Citato in ivi, p. 8. * L. WITTGENSTEIN,
Philosophical Investigations, n. 15. 53 L’“homo sapiens” e l'origine
convenzionale: la teoria di Wittgenstein Integrazione tra naturalismo e
convenzionalismo Tre condizioni essenziali del linguaggio: soggetto, oggetto,
interlocutore Divisione dicotomica: conoscenza et esistenza — soggetto che
parla (e si esprime parlando); ; — oggetto di cui si parla (e si rappresenta
mediante la parola); — interlocutore a cui si parla e al quale si vuole dare
una comu- nicazione parlando. « È chiaro che ci sono tre elementi in gioco: il
parlante, l’ascol- tante o gli ascoltatori, e la comunicazione che si stabilisce
tra loro. Un noto psicologo ha riassunto questo triplice aspetto del linguaggio
in una chiara formula: dal punto di vista del parlante, l'atto lingui- stico è
un sintomo, un'indicazione di ciò ch'egli ha in mente; dal punto di vista
dell’ascoltatore è un segnale, che lo stimola ad una de- terminata azione; dal
punto di vista della comunicazione è un sim- bolo, un segno cioè che sta per
qualsiasi cosa il parlante intenda trasmettere ».° A ragione, quindi, il
Macquarrie afferma che il linguaggio è un complesso di relazioni fondate su tre
termini: «i tre termini sono ovviamente la persona che dice qualcosa, la
materia di cui si parla e la persona o le persone alle quali si parla... È il
linguaggio che fa da intermediario per la relazione triadica, anzi è esso che
la costi- tuisce ».!° 4. Funzioni e valore del linguaggio iFino a qualche anno
fa si soleva presentare una divisione dico- tomica delie funzioni del
linguaggio. Vi si distinguevano, da una parte, una funzione descrittiva o
conoscitiva o denotativa o rappre- sentativa o simbolica, e, dall'altra, una
funzione emotiva, esisten- ziale o personale. Così Ogden-Richards, Carnap,
Ayer, Stevenson, e altri. Ultimamente però sono diventati sempre più numerosi
gli autori che propongono una divisione tricotomica, aggiungendo alie due
funzioni precederti quella comunicativa o intersoggettiva. Sono di questo
parere Schbkel, Polanyi, Barbotin, Ullmann e vari altri stu- diosi. Noi
troviamo quest'ultima divisione più giustificata della prima, in quanto essa
risulta dalle ire componenti essenziali costitutive del linguaggio, che abbiamo
visto essere ii soggetto che parla, ciò di cui si parla e ia persona alla quale
si parla. Iì linguaggio esercita una funzione diversa rispetto alle sue tre
componenti: — ha una funzione rappresentativa o descrittiva o denotativa ‘nei
confronti dell'oggetto; — ha una funzione espressiva o esistenziale o emotiva
nei con- fronti del soggétto; ? S. ULLMANN, La semantica, Il Mulino, Bologna
1966, p. 27. * J. MACQUARRIE, Ha senso parlare di Dio?, Borla, Torino 1969, pp.
66-67. 54 — ha una funzione comunicativa o intersoggettiva nei confronti della
persona cui si dirige il discorso. In connessione con la questione delle
funzioni dei linguaggio si affaccia anche la questione del suo valore, la quale,
fra tutte le que- stioni concernenti il linguaggio è quella oggi più
assiduamente e vi- vacemente dibattuta. Se ne occupano tutti i filosofi (sia
gli esistenzia- listi che gli strutturalisti, sia i neopositivisti che gli
ermeneuti, sia i tomisti che i marxisti) e anche i teologi e gli scienziati.
‘Le soluzioni di questa questione sono molte e assai disparate. C'è chi assegna
al linguaggio un valore puramente strumentale. Questa è la soluzione
tradizionale, tuttora largamente condivisa dai neopositivisti, dagli analisti,
dai tomisti, dai marxisti, e da tanti altri. C'è invece chi gli assegna un
valore fondamentale, di ordine esistenziale. 4. Funzione descrittiva Una folta
corrente filosofica del nostro tempo, la corrente neo- positivistica e
analitica ha riconosciuto valore conoscitivo alla fun- zione denotativa
(descrittiva, conoscitiva, oggettiva) e ha proscritto come insignificanti e
prive di senso le altre funzioni. Secondo tale corrente, solo la funzione
denotativa abilita l'uomo a raggiungere e a trasmettere la verità. Questa
funzione è svolta in modo eccellente dal linguaggio scientifico, il quale è
dotato della massima chiarezza, precisione e oggettività. Qualsiasi altro
linguaggio acquista più o me- no valore nella misura in cui si conforma al linguaggio
scientifico. La ragione dell'eccellenza di quest'ultimo sta nella semplicità
del suo criterio di significazione, che è la verifica sperimentale, il quale
prescrive di riconoscere significato descrittivo soltanto a quelle pro-
posizioni che sono traducibili in una catena di dati sensitivi. La teoria dei
neopositivisti e degli analisti inglesi ha suscitato fortissime reazioni da
parte di filosofi di tutte le scuole, i quali han- no potuto provarne
l'infondatezza appellandosi a vari argomenti, di cui i principali sono i
seguenti: a) ilcriterio della verifica sperimentale è un postulato metafisico
privo di qualsiasi fondamento, è una proposizione metafisica sensa- zionale che
si squalifica da sola perché è inverificabile." " Ecco alcune critiche
radicali al principio della verifica sperimentale. «Il principio di verifica
sperimentale significa ridurre all’assurdità sia la conoscenza che il
significato... Perché l'intenzione di riferire al trascendente l'esperienza
immediata è l'essenza della conoscenza e del significato ». (C.I. LEVIS « Experience and
Meaning », in Readings in Philosophical Analysis, P. . «Il principio della verifica è una dichiarazione
metafisica e, perciò, il positivismo logico deve essere considerato senza
significato ». (JoAD, A critique of Logical Positivism, p. 11). « Il principio
di verificabilità è una dichiarazione metafisica ‘sensazio- nale’ ». (J.
WIspom, Philosophy and psychoanalysis, Oxford 1953, p. 245). Cfr. anche: A.C.
EwING, « Meaninglessness », in Mind 1937; MACQUERRIE, Ha senso parlare di Di0?,
cit. 55 Il vaiore del linguaggio: strumentale, esistenziale Neopositivismo:
valore conoscitivo e funzione denotativa Posizioni critiche al neopositivismo
Funzione espressiva e funzione comunicativa b) la preferenza per il linguaggio
scientifico è del tutto ingiusti- ficata, perché ci sono molti altri linguaggi
che per la esistenza uma- na sono altrettanto importanti quanto quello
scientifico, per es., il linguaggio ordinario, il linguaggio etico, il
linguaggio artistico, il linguaggio poetico, il linguaggio mistico." c) la
preferenza per la funzione descrittiva o conoscitiva del lin- guaggio è la
conseguenza di una tradizione intellettualistica e razio- nalistica che è stata
estremamente dannosa perché ha creato un'im- magine distorta e depauperata
dell'uomo.”* 4.2 Funzione comunicativa Da questi argomenti risulta che non si
può ascrivere valore sol- tanto alla funzione conoscitiva ma si deve
riconoscere anche l’im- portanza fondamentale che hanno le altre funzioni, sia
quella espres- siva, che quella comunicativa. Del resto è abbastanza facile
rilevare che il linguaggio umano non ha soltanto e neppure principalmente
valore a causa della sua fun- zione conoscitiva (descrittiva o denotativa). La
sua funzione princi- pale è infatti comunicativa e la comunicazione, in
moltissimi casi, non intende affatto offrire descrizione di oggetti, cose,
fenomeni, leggi della natura, ma affetti, sentimenti, desideri, comandi. È
soprattutto su questo punto che gli studi più recenti hanno gettato nuova luce.
Qui ci limiteremo a riferire alcuni risultati ac- quisiti dal Barbotin nel suo
saggio, profondo, ricco e illuminante, Humanité de l'homme. In quest'opera egli
mette in evidenza il valore comunicativo esistenziale e prassistico del
linguaggio. Il linguaggio è lo strumento privilegiato della‘comunicazione,
nonché della pre- senza e della socialità. L'uomo, diversamente dalle cose che
sono chiuse in e su se stesse, è aperto, si vuole dare agli altri e dagli altri
vuole ricevere; si vuole rendere presente... La parola trasforma la nostra
presenza puramente fisica e passiva — semplice giustapposizione nello spazio —
in presenza attiva che ci impegna reciprocamente. «Io sono presente a me stesso
nella misura in cui sono fuori di me, in un movimento di donazione che mi rende
libero. La parola, per la precisione, è donatrice; al di là dei propositi, essa
mira allo scambio dei due « Io »; nella preghiera mi dono, mi consegno a Dio,
mi getto nelle sue mani »." Questo potere esistenziale della parola,
questo potere di renderci presenti agli altri, e gli altri a noi stessi è stato
meravigliosamente rafforzato dalle moderne scoperte della radio, del telefono,
dei re- !? Cfr. H.G. GADAMER, « Che cos'è la verità », Rivista di filosofia,
1956, pp. 257-260. ) ! Cfr. ivi, pp. 253 ss.; P. RICOEUR, Finitudine e colpa,
Il Mulino, Bologna 1970 4 E, BARBOTIN, Humanité de l'homme, cit., p. 139. 56
gistratori, ecc. Riuscire, oggi, a registrare le voci di persone che ci sono
care, oppure di personaggi importanti modifica sensibilmente il salto, l'abisso
della morte e i nostri rapporti con i defunti: poter risentire la loro voce ci
dà la sensazione che la morte non abbia operato una separazione completa tra
noi e loro. La funzione fondamentale del linguaggio è quindi quella della comunicazione.
Tuttavia dobbiamo dolorosamente constatare che è una comunicazione che il
linguaggio non ci consente mai di realiz- zare pienamente. « La parola
scambiata, dice bene Barbotin, mette in comunicazione due persone tra di loro,
essa risveglia, mantiene e consacra l'apertura reciproca; ma allo stesso tempo
conserva qual- cosa di inesprimibile. E questo non è dovuto alla doppiezza,
bensì alla ineffabilità della persona, delle sue intenzioni, della sua libertà:
la parola lascia filtrare qualche raggio, ma ne conserva, per forza, se- greto
il focolare. Sempre ineguale rispetto a ciò che manifesta, la parola è di
conseguenza necessariamente molteplice — se fosse perfetta sarebbe invece unica
— e provoca nell'interlocutore interro- gativi a non finire; essa esaudisce lo
spirito, ma non lo sazia mai ».! Che il linguaggio abbia aspetti ambigui è cosa
evidente ed è stata ripetutamente rimarcata già dai filosofi dell'antichità, in
par- ticolare da Platone, Aristotele e Agostino. Esso è strumento di for-
mazione (educazione), ma si presta anche molto facilmente alla de- formazione e
alla corruzione, come rileva Socrate contro i Sofisti. In un capitolo celebre
di Sein und Zeit Heidegger ha mostrato come l’inautenticità degli individui è
dovuta soprattutto al linguaggio: la maggior parte degli uomini non pensa da
sé, non giudica con la pro- pria testa, non decide per proprio conto: ma pensa
giudica decide, ecc. secondo quanto sente dire dagli altri. 4.3 Funzione e
valore esistenziale Il linguaggio è importante non soltanto per la funzione
descrittiva e comunicativa, ma anche per la funzione esistenziale. Esso infatti
oltre che a descrivere oggetti e a comunicare sentimenti serve anche a
testimoniare agli altri e a noi stessi la nostra esistenza. Suppo- niamo, per
es., che uno si sia smarrito in una foresta oppure su una montagna. A chi
scrive capitò una volta scalando il Monte Rosa. Eravamo a quota 3.000 e, alle
dieci di sera, non eravamo ancora giunti al rifugio Quintino Sella. Era buio
fitto e ad un certo punto avevamo completamente smarrito la pista. Allora
abbiamo comin- ciato a gridare con la speranza che qualcuno dal rifugio ci
sentisse e ci fornisse qualche elemento per orientarci. In effetti fu così. Da
sopra ci risposero alcune voci d'uomo. Esse bastarono da sole a li- berarci
dall'angoscia e a restituirci fiducia in noi stessi e padro- 4 E. BARBOTIN, op.
cit., p. 141. Sui limiti del linguaggio vedi anche G. GuSsDORF, Filosofia del
linguaggio, Città Nuova, Roma, pp. 78-92. 4 M. HEIDEGGER, Essere e tempo,
Longanesi, Milano, pp. 140 ss. 57 La funzione fondamentale della comunicazione
Parola e determinazione dell’esistenza La densità esistenziale del nome
Funzione del nome nanza della montagna. Quelle voci improvvise invasero tutto
lo ssa- zio che stava intorno, conquistarone il mondo silenzioso delie cose e
lo trasformarono conferendogli un nuovo significato. Così avvenne che un
universo senza voci in cui ci trovavamo smarriti, divenne un universo in cui
l'uomo parla. Certo lo smarrimento non avviene soltanto là dove l'uomo non
parla; in certi casi ciò accade anche in luoghi dove sono troppi co- loro che
parlano, facendo fracasso e confusione. Eppure anche in questi casi, è di nuovo
una voce, una voce familiare che ci rassicura della nostra esistenza. Si pensi
al caso di un bambino che si smar- risce in mezzo alla folla... Basta che ad un
certo punto senta la voce del babbo o della mamma che lo chiama da lontano
perché riacquisti la serenità e la pace. Dunque la parola testimonia la mia
esistenza a me stesso e agli altri. E non si tratia di una testimonianza vaga,
indeterminata, gene- rica, ma determinata, precisa e qualificata. Infatti
quando sono adi- rato adopero un particolare tono di voce ed un certo tipo di
lin- guaggio, che sono del tutto diversi da quelli che uso quando insegno
oppure quando prego. Fare corrispondere perfettamente un certo linguaggio con i
vari modi di essere dei loro personaggi è una spe- cialità degli attori. Ma ciò
che questi ultimi sono in grado di fare per molti personaggi, noi lo facciamo tutti
i giorni per quel perso- naggio singolare che ciascuno di noi è naturalmente.
La parola acquista densità esistenziale soprattutto attraverso il nome. Avere
un nome significa possedere un'esistenza. Ma a causa della pubblicità del nome,
per mezzo di esso anche ia mia esistenza acquista una certa pubblicità. Lo nota
bene il Barbotin guando scri- ve: « Il nome è la parola che mi rivela, mi
esprime agli altri, aprendo loro l’accesso al mio essere. Io non esisto
veramente che per coloro che conoscono il mio nome; l'anonimato, l’incognito
sono alibi che aggiungono ai vantaggi della presenza fisica in un determinato
luogo il beneficio di una certa “assenza sociale”. [...] Però, se il mio nome
mi esprime agli altri, allo stesso tempo esso mi consegna a loro, mi mette in
loro potere. Dichiarando il mio nome, io rinuncio a parte della mia autonomia;
ormai gli altri mi dominano e mi posseg- gono. La prima preoccupazione del
direttore di un internato non è forse quella di imparare il nome dei suoi
ragazzi per controllare le iniziative e mantenere la disciplina? I servizi di
polizia non svolgono un'attività vigile per conoscere i nomi e i molteplici
soprannomi delle persone sospette e, in tal modo, poter controllare i loro
movi- menti? ».!” . Sta di fatto che il nome fa sempre da sostegno alla propria
pre- senza. Ovunque il nome di una persona è conosciuto, pronunciato,
ricordato, ha luogo la sua presenza intenzionale presso gli altri, e soddisfa
in qualche modo quel desiderio di ubiquità che è insito " E. BARBOTIN, Op.
cit., p. 155. 58 in ogni uomo. Ma oltre che a superare i limiti dello spazio,
il nome ci consente anche di scavalcare i confini del tempo: la nostra presenza
continua a perdurare anche dopo la morte, fintanto che il ricordo del nostro
nome permane vivo. Questo spiega il desiderio che noi tutti abbiamo perché il
nostro nome sia famoso, acquisti notorietà: è il nostro modo di conquistare
un'illusione di eternità. 5. Rapporto del linguaggio con. il pensiero, con le
cose e con gli interlocutori Passiamo ora a considerare la questione del valore
del linguag- gio dall'altro punto di vista: quello dei suoi rapporti col
pensiero, con le cose e con i due interlocutori. Al linguaggio si assegna
valore diverso a seconda del modo di- verso di come viene concepito questo
rapporto. C'è chi si preoccupa esclusivamente del pensiero; altri invece si
preoccupa soltanto degli interlocutori. Nell’analisi linguistica la
preoccupazione è centrata sulle cose; nell’esistenzialismo è centrata sul
soggetto pensante; nell'ermeneutica, nel personalismo e nello strutturalismo è
centrata sugli interlocutori. In tutti i tre casi si danno però due alternative
(e qualche volta anche tre). Per il rapporto pensiero-linguaggio, la soluzione
comune è di vedere nel linguaggio uno strumento subordinato e secondario del
pensiero. Oggi gli strutturalisti e gli ermeneuti tendono a sovvertire questo
rapporto e a mettere il pensiero al servizio e alle dipendenze del linguaggio.
La tesi di questi ultimi non può essere pienamente accolta, perché tutti abbiamo
esperienza di pensieri per i quali non riusciamo a trovare le parole adatte per
esprimerci. Tuttavia è una tesi che contiene della verità, in quanto tra
pensiero e linguaggio intercorre un rapporto assai profondo. Con un linguaggio
nitido an- che il pensiero guadagna in chiarezza e precisione.! Anche per
quanto concerne i rapporti tra linguaggio ed essere ci sono due opposte
tendenze. Generalmente al linguaggio si rico- nosce valore semantico,
indicativo, segnalatore dell'essere. Oggi strutturalisti ed ermeneuti vogliono
ascrivere al linguaggio una den- sità ontologica molto più profonda: l’essere
trova la sua manifesta- zione nel linguaggio; soprattutto l'essere dell’uomo ha
il suo soste- gno, il suo modello nel linguaggio. Anche a questo proposito ci pare
di non poter accogliere la secon- da tesi integralmente perché, se seguita fino
in fondo, essa sfocia inevitabilmente in una nuova forma di idealismo; tuttavia
è una tesi ! Ivi, pp. 133-144, 59 Il rapporto linguaggio-pensiero La
subordinazione del linguaggio al pensiero Linguaggio e intersoggettività: due
tesi opposte che contiene anche un importante nucleo di verità: essa esprime il
carattere storice e creativo dell’uomo.! Quanto al terzo tipo di rapporti,
quelli fra linguaggio ed interlo- cutori, si danno anche qui due tesi opposte:
una che afferma il valore capitale del linguaggio per l’intersoggettività,
valore tanto più grande in quanto oggi si vede nell'uomo un essere essenzial-
mente intersoggettivo; oggi la persona umana non è intesa in chiave
egocentrica, cartesiana, ma in chiave sociale. L'altra tesi assegna uno scarso
valore intersoggettivo al linguaggio, in quanto muove da una concezione
egocentrica, angelicata dell’uomo. Noi riteniamo che il linguaggio abbia
effettivamente importanza capitale per la funzione intersoggettiva. Tale
importanza risulta da quanto è stato detto in precedenza sulla funzione
comunicativa del linguaggio. Ma essa risulterà ancor più evidente in seguito,
quando ci occuperemo del problema politico e sociale e vedremo che il lin-
guaggio costituisce il mezzo necessario, principale ed ideale per rea- lizzare
la socievolezza umana. CONCETTI DA RITENERE — Linguaggio; lingua; parola —
Significato; significante — Origine naturale, convenzionale, evolutiva;
onomatopea — Soggetto; oggetto; interlocutore — Sintomo; segnale; simbolo —
Funzione descrittiva, emotiva, comunicativa SINTESI CONTENUTISTICA I. CARATTERI
DEL LINGUAGGIO 1. Proprietà primaria e fondamentale dell'uomo che lo distingue
dagli altri esseri viventi per l’uso che ne fa, in ordine a scopi e modi
diversi. 2. Il linguaggio è uno degli elementi che costituisce l'uomo in quanto
uomo. Esso ha una struttura intenzionale che lo fa mezzo della comunicazione
degli uomini tra loro. 3. Esiste una distinzione tra linguaggio (funzione
generale della comuni. cazione), lingua (sistema linguistico usato da una
determinata società) e parola (forma concreta e individuale assunta dal sistema
linguistico). Differenza tra i termini significante e significato: il primo
indica una realtà come è denotata dal linguaggio; il secondo indica il modo
parziale e storico in cui la lingua parlata attualizza il significante. II.
ORIGINE DEL LINGUAGGIO . Tre ipotesi: origine naturale (tesi ormai
abbandonata); origine conven- zionale; origine evolutiva (tesi più comune
oggi). La prima ipotesi annovera tra i suoi sostenitori Humboldt, Herder, Bruni
e Merlo che attribuiscono al- 4 Cfr. I. MANCINI, Linguaggio e salvezza, Vita e
Pensiero, Milano 1964, pp. 14 ss. 60 l'onomatopea la maternità delle parole. La
seconda è autorevolmente espressa da Wittgenstein: il linguaggio è un gioco di
cui l’uomo ha stabilito le regole. Come terza ipotesi si può dire che oggi
l’azione creativa e libera dell’uomo sul- l'’onomatopea ha prodotto un
linguaggio convenzionale che può essere chiamato evolutivo. III. CONDIZIONI
TRASCENDENTALI DEL LINGUAGGIO 1. I trascendentali o costanti del linguaggio
sono: — il soggetto che parla — l'oggetto di cui si parla — l'interlocutore a
cui si parla 2. L'atto linguistico dal punto di vista: del soggetto è un
sintomo, dell'og- getto è un segnale, dell'interlocutore è un simbolo. Il
linguaggio è l'intermediario di una relazione triadica. IV. FUNZIONE E VALORE
DEL LINGUAGGIO Si sono delineate tre connotazioni delle funzioni del
linguaggio: a) la fun- zione descrittiva (o conoscitiva, denotativa,
rappresentativa, simbolica); b) la funzione emotiva (o esistenziale,
personale); c) la funzione comunicativa o intersoggettiva. V. RAPPORTI DEL
LINGUAGGIO COL PENSIERO, CON LE COSE E CON GLI ‘INTERLOCUTORI (Al linguaggio si
assegna valore diverso in relazione al rapporto nel quale viene colto: —
rapporto pensiero-linguaggio: il linguaggio è uno strumento subordi- nato e
secondario del pensiero; — rapporto pensiero-cosa: a) in genere si attribuisce
al linguaggio un va- lore semantico; b) oggi strutturalisti e ermeneuti
considerano il linguaggio una manifestazione dell'essere; — rapporto
linguaggio-interlocutore: a) importanza fondamentale del lin- guaggio per
l'essere umano inteso come essere intersoggettivo; b) scarsa im- portanza del
linguaggio per l'essere umano inteso in senso egocentrico. QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali delle diverse forme del linguaggio umano
sembrano predominare nella nostra cultura? 2. In quale misura il linguaggio identifica
l’uomo come essere di relazione? 3. Che cosa si intende per linguaggio, lingua,
parola, significante, signi. ficato? 4. Quali sono le principali teorie
sull'origine del linguaggio? 5. Quali sono gli elementi costitutivi,
essenziali, trascendentali del lin- guaggio? ! 6. Quali sono le principali
funzioni del linguaggio? 7. Quale rapporto è possibile stabilire tra linguaggio
e concezione del- l'uomo? 8. Che rapporto intercorre tra pensiero, linguaggio e
cose? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI ANTISERI D., La filosofia del iinguaggio,
Morcelliana, Brescia 1973. BENVENISTE E., Problemi di linguistica generale, Il
Saggiatore, Milano 1971. BERRUTO G., Nozioni di linguistica generale, Liguori,
Napoli 1976. 61 BRuNI F., L'origine dei linguaggio, Studium, Roma 1958.
CASTELFRANCHI C.-PARISI D., Linguaggio, conoscenza e scopi, Il Mulino, Bo-
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Il Saggiatore, Milano 1968. RoBINS R.H., Storia della linguistica, Il Mulino,
Bologna 1971. ULLMANN S., La semantica, Il Mulino, Bologna 1966. WARTBURG
WALTER VON-ULMANN S., Problemi e metodi della linguistica, Il Mulino, Bologna.
62 Capitolo quinto IL PROBLEMA COSMOLOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Il
mondo ha un'origine e uno scopo? Quali? 2. È possibile individuare la struttura
dell'universo? In quale imaniera? ‘i. Problematicità dell’universo L'universo è
una realtà problematica sotto molteplici aspetti: la sua origine, i suoi
elementi costitutivi fondamentali, la sua durata, il suo fine ultimo. La branca
del sapere che si occupa della costitu- zione dell'universo per definirne la
forma e le leggi che lo gover- mano, viene denominata cosmologia {dal greco
kosmos,! che significa ordine, mondo e logos = discorso); quanto riguarda la
sua origine e il suo fine ultimo viene invece studiato dall'ontologia e dalla
tsleologia. i Intorno all'universo e in ordine alla soluzione dei suddetti pro-
blemi si può fare un duplice discorso, scientifico e filosofico. Nel primo caso
si propone una descrizione dei fenomeni, specialmente nelle loro relazioni
d'insieme e nel loro divenire, interpretandoli se- condo criteri logici,
tendenti a stabilire tra loro un ordine, una struttura, una legge di
conservazione e di evoluzione. Nel secondo si presenta un’interpretazione
generale dei fenomeni dell'universo, nella loro natura essenziale, nelle loro
proprietà, nel loro ultimo fondamento. Questa distinzione tra discorso
scientifico e filosofico è una con- quista piuttosto recente del pensiero
umano. Essa è divenuta possi- bile soltanto col sorgere delle scienze
sperimentali, vale a dire du- rante il secolo XVII. Prima si consideravano le
ricerche dei metafisici e gli studi degli astronomi e dei fisici come facenti
parte d'una unica grande disciplina, la filosofia. ‘ Il termine kosmos ìn greco
indica ìn senso proprio l'armonia universale regolata da leggi precise e
inviolabili. Contrapposto al termine kaos, che nella mentalità dei Greci era
espressione non solo di disordine indifferenziato, ma anche di tutto ciò che contiene
in sé la forza del negativo, il kosmos rap- presentava per gli antichi tutto
ciò che è positivamente conforme alla volontà degli dèi e che è pertanto vita e
bene. 63 La cosmologia studia la costituzione dell’universo {forma e leggi)
Discorso scientifico e discorso filosofico Una soluzione mitica ai primi
interrogativi sul cosmo Il problema dell’uno e del molteplice in Talete 2. La
cosmologia nel pensiero occidentale Il problema cosmologico è uno dei primi che
la mente umana si sia posto. Appena ha acquisito il potere di riflettere,
l'uomo ha cominciato ad interrogarsi sull'origine delle cose: qual è la loro
causa ultima? e in che modo tale causa ha prodotto tutto il comples- so sistema
dell'universo? Qual è il costitutivo fondamentale del mondo? A questi
interrogativi gli uomini hanno cercato di dare una ri- sposta molto tempo prima
di scoprire gli strumenti logici di ricer- ca propri della filosofia,
servendosi degli strumenti espressivi del mito. Documenti preziosi di alcune
spiegazioni cosmologiche di caratte- re mitico sono i poemi di Omero e Esiodo.
Nelle loro opere l’uni- verso è considerato come una grande città, di cui fanno
parte oltre gli uomini anche gli dei. Come la città così l'universo sta sotto
il governo di un grande monarca. Tutto ciò che accade nel mondo è opera sua e
degli altri dei; tutti i fenomeni naturali sono promossi dai numi: i tuoni e i
fulmini sono scagliati dall'alto da Zeus, i flutti del mare sono sollevati dal
tridente di Poseidone, i venti sono so- spinti da Eolo, e così di seguito.
Nella sua Teogonia Esiodo ha fissato con precisione il quadro cosmico, entro
cui in seguito si muo- verà la spiegazione cosmologica dei filosofi. Secondo la
spiegazione esiodea della genesi dell'universo, dapprima si generò il Caos, poi
si generò Gea (ossia la Terra), nel cui ampio seno sono tutte le cose. Nella
profondità della Terra si generò il Tartaro buio, e, da ultimo, Eros (l’amore)
che, poi, fece generare tutte le altre cose. Talete, vissuto a cavallo tra il
VII e VI secolo avanti Cristo, è il primo pensatore che si domanda
espressamente e sistematica- mente: « Qual è la causa ultima, il principio
supremo di tutte le cose? », e che per rispondere a tale interrogativo non fa
ricorso a raffigurazioni mitiche ma si vale di concetti filosofici. Talete si
domanda se, nonostante l’esperienza, la quale ci pre- senta il quadro
impressionante di una molteplicità infinita di fe- nomeni apparentemente
irriducibili, sia possibile derivare la realtà da un unico principio supremo. È
un problema colossale che oltre- passa i confini della cosmologia ed invade il
terreno della stessa metafisica: il problema dell'uno e del molteplice,
problema che tormenterà i filosofi d'ogni tempo. A questa domanda ardita ed im-
pegnativa, Talete offre una risposta ingenua e rudimentale. Gli sembra che tra
i quattro elementi che il buon senso considera pri- mordiali e costitutivi
d'ogni cosa, l’acqua abbia una priorità sugli altri. E conclude che l'acqua è
il principio da cui traggono origine tutte le cose. Dall'acqua per condensazione
deriva la terra, per rare- fazione derivano l'aria e il fuoco. ? Cfr. B.,
MONDIN,, vol. I, pp. 39-40. 64 Più che come una città, alla stregua di Omero e
Esiodo, Talete concepisce il mondo come una casa. In questa casa c'è movimento,
c'è mutamento, c'è caldo e freddo, fuoco e umidità, c'è fuoco al centro, e su
di esso una marmitta con acqua. La casa è esposta ai venti e alle correnti; ma
è una casa e questo significa sicurezza e stabilità. Per tre secoli il problema
cosmologico conserva l'impostazione che gli aveva data Talete, un'impostazione
ambigua, in cui il pro- blema metafisico del principio supremo d’ogni cosa si
confonde col problema cosmologico dell'origine e della strutturazione di questo
mondo. La distinzione tra problema metafisico e problema cosmologico viene
finalmente percepita e lucidamente formulata da Platone. Questi distingue due
piani di realtà, uno di ordine fisico (che è quello di questo mondo materiale)
e l’altro di ordine metafisico: è il piano delle idee. Della origine e strutturazione
del mondo mate- riale egli presenta una famosa spiegazione nel Timeo. Il mondo
è stato prodotto dal Demiurgo. Questi contemplando le Idee (ossia prendendo le
Idee come modelli), assistito e coadiuvato da altre Potenze, plasma la materia
informe, facendole assumere quelle qua- lità e caratteristiche che sono proprie
degli esseri che popolano questo mondo. Portata a compimento la formazione del
mondo, il Demiurgo vi infonde un'anima universale, la quale ha la funzione di
conservare in vita il mondo, senza bisogno di un continuo inter- vento da parte
del Demiurgo? Aristotele, in Metafisica, compie un esame ancora più approfon-
dito del problema cosmologico, almeno per quanto concerne l’aspet- to della
natura essenziale delle cose materiali e del loro divenire. Secondo Aristotele
il mondo non ha né origine né fine: è eterno. Ma non è affatto immobile,
statico, perché il divenire è uno dei suoi tratti più caratteristici. Ma a che
cosa è dovuto questo perenne divenire? C'è anzitutto una causa estrinseca: la
tensione delle cose verso il loro ultimo traguardo, Dio. Ma c'è anche una causa
intrinseca: la costituzione stessa delle cose materiali, le quali sono composte
di materia e forma. La materia è di natura corruttibile ed è quindi la ragione
intrinseca del continuo succedersi di nuove forme sulla sce- na di questo
mondo. La materia è inoltre il fondamento ultimo del- l'estensione e quindi
dello spazio. Invece il divenire è la ragione pro- fonda del tempo. Da parte
sua la forma è la ragione della distinzione delle cose in molte specie diverse.
Le specie fondamentali secondo Aristotele sono quattro, e, di conseguenza,
quattro sono anche i grandi regni degli esseri terrestri: minerale, vegetale,
animale e uma- no. Particolarmente interessante ed acuta è l’analisi condotta
da Aristotele intorno al divenire, di cui distingue e definisce quattro tipi
principali: quantitativo (crescita e diminuzione), qualitativo * PLATONE,
Timeo, 5 ss. 65 Platone e le due realtà: fisica e metafisica Aristotele e la
sua concezione sulla costituzione del cosmo: materia, divenire, forma
L'esistenza e la perfezione del Movente immobile La concezione atomista di
Democrito ed Epicuro Agostino e Tommaso: la temporalità del mondo e la sua
eternità (alterazione di qualità), sostanziale (generazione e corruzione) e lo-
cale (spostamento da un luogo ad un altro).* Ma come s'è detto, secondo
Aristotele, il divenire delle cose non ha soltanto una causa intrinseca ma
anche una estrinseca: le cose divengono per un fine ed è appunto il fine che le
induce a trasfor- marsi, ad acquisire ulteriori gradi di realizzazione. Ciò
porta Ari- stotele a riconoscere l'esistenza di un Movente immobile, che pro-
voca tutti i fenomeni, tutte le generazioni, tutti i movimenti di questo mondo.
Aristotele deduce la necessità del Movente immobile continuando la sua analisi
del divenire. Si deve dare un movente in ogni forma di divenire perché il
soggetto del divenire, non può darsi da sé ciò che non ha: « Tutto ciò che è
mosso, è mosso da un altro ». Dalla esistenza delle varie forme di divenire e
di movimento esistenti nel mondo Aristotele deduce l'esistenza di un Movente
immobile, non subordinato a nessun genere di movimenti, causa im- mediata del
movimento totale dell'universo, e causa mediata di tutti i movimenti particolari.
Il Movente immobile è, secondo Aristotele, eterno, unico, del tutto immobile
cioè talmente perfetto da non essere suscettibile di qualsiasi perfezionamento;
inesteso non però come sono inestesi di natura loro la materia o i punti, ma
perché superiore a tutto il mondo della materia e dell'estensione. Una
concezione profondamente diversa e sotto molti aspetti con- traria a quella di
‘Platone e di Aristotele hanno sviluppato alcuni loro contemporanei, detti
atomisti, i cui massimi esponenti sono Democrito ed Epicuro. Secondo questi
filosofi il mondo è composto di una moltitudine infinita di atomi o elementi
fisicamente invisibili, a causa della piccolezza delle loro dimensioni. Queste
particelle si muovono nel vuoto e unendosi producono la nascita dei corpi e se-
parandosi la distruzione. Fino a questo punto Democrito ed Epicuro sono
perfettamente d'accordo. Divergono invece nella maniera di concepire il moto
degli atomi. Mentre secondo Democrito tale moto assume una direzione
rettilinea, Epicuro ritiene che per spiegare il mutamento e la combinazione
degli elementi tra di loro occorre concepire il moto come passibile di
deviazioni spontanee (clinamen): è proprio grazie a tali deviazioni che gli
atomi danno origine a com- binazioni così molteplici e diverse, quali noi
osserviamo in questo mondo I pensatori cristiani per spiegare la struttura
intrinseca delle co- se materiali di solito si rifanno alla dottrina
aristotelica; mentre in- vece per spiegare l'origine del mondo ricorrono alla
nozione biblica di creazione: il mondo è scaturito dal nulla per volontà di
Dio. Ma quando è stato creato questo mondo? Per rispondere a questo in-
terrogativo gli autori cristiani hanno avanzato due soluzioni: una fa capo ad
Agostino ed è quella più comune; l'altra è quella di Tom- 4 Cfr. B. MONDIN,
vol. I, pp. 129-133. 5 Ivi, pp. 134-136. 6 Ivi, pp. 52-54; 174-177. 66 maso
d'Aquino. Secondo il Vescovo di Ippona il mondo è stato creato nel tempo, così
vuole la Scrittura e così esige anche la natura contingente e mutevole delle
cose materiali. Invece secondo l’Aqui- nate, in linea di principio (vale a dire
assolutamente parlando senza tener conto di quanto la ragione umana ha
acquisito dalla Rivelazione) non si può escludere l’esistenza eterna del mondo,
in quanto Dio ha potuto crearlo da sempre.” L'epoca moderna si apre con uno
spiccato interessamento per il problema cosmologico. L'’Umanesimo e il
Rinascimento sono carat- terizzati appunto da un interesse straordinario per il
mondo, per la natura. Gli uomini del Quattro e Cinquecento (Cusano, Telesio,
Pico della Mirandola, Ficino, Bruno, ecc.) sono incantati, abbagliati dalla
bellezza, grandezza, fecondità, potenza della natura e su di essa ap- puntano
il loro sguardo indagatore. Ma le loro spiegazioni di so- lito, sono pure fantasticherie,
che non possono vantare maggiore solidità di quelle di alcuni pensatori greci,
dai quali traggono ispi- razione. Eppure, ciononostante, le loro ipotesi
costituiscono il pro- logo essenziale allo sviluppo di una nuova cosmologia, la
quale assu- me la veste di ricerca scientifica anziché quella di indagine filo-
sofica.? Già con Galilei non ci si interessa più delle essenze delle cose
materiali e delle loro cause ultime, ma si concentra tutta l’attenzio- ne sui
fenomeni e sulle leggi che li regolano. Sono soprattutto le leggi che contano.
Si tratta di una rivoluzione che ha prodotto copiosi frutti. Un po’ alla volta,
per merito di Galilei, Keplero, Newton, Lavoisier, Einstein e tanti altri,
l'indagine scientifica è riuscita, almeno in parte a dipanare la complessa
voluminosa ed intricata matassa delle leggi che regolano i fenomeni
dell’universo. Tutte le cosmologie antiche, quella egiziana, babilonese e gre-
ca, mettevano sempre al centro dell'universo la Terra, circondata e sostenuta
da un oceano e sopra la volta del cielo. Nel secondo secolo dopo Cristo, il
matematico ed astronomo alessandrino Tolo- meo Claudio rielaborò tutti i
risultati delle ricerche precedenti e sviluppò un complesso sistema
geocentrico, basato su una serie di circonferenze, in cui la Terra era al
centro ed il sole e la luna le giravano intorno, mentre gli altri corpi celesti
avevano dei percorsi eccentrici. Questo sistema fu accettato per oltre un
millennio, sino a che Niccolò Copernico non elaborò il suo sistema eliocentrico,
nel 1507, secondo cui i pianeti si muovono intorno al sole su orbite com-
plementari. Si deve soprattutto agli studi di Galilei la diffusione del sistema
copernicano. Un altro elemento caratteristico della cosmologia moderna trae
origine da Galilei: il meccanicismo. Applicando allo studio dell’uni- ? Ivi,
pp. 221-223; 285. * B. MONDIN, vol. II, pp. 48-50. 67 Il naturalismo della
cultura rinascimentale Il cammino verso la scienza: da Galilei ad Einstein Il
‘‘meccanicismo’’ di Galilei Teoria cinetica e teoria molecolare: movimento
perpetuo e struttura atomica I corpi celesti e la distanza infinita Teoria
stazionaria e teoria evolutiva: creazione continua ed esplosione originaria
verso il metodo matematico, come aveva insegnato Galilei, i filosofi e gli scienziati
moderni non si interessano più delle qualità e delle forme, ma guardano
esclusivamente alla quantità e ai numeri. Viene in tal modo a cadere la
spiegazione vitalistica delle cose di questo mondo: le piante e gli animali non
svolgono determinate attività perché sarebbero dotati di un'anima ma
semplicemente perché sono forniti di elementi fisici capaci di svolgere
movimenti più o meno complicati Il meccanicismo peraltro non è mai riuscito a
sradicare il vitali- smo, il quale conta anche oggi molti validi sostenitori. È
comunque al meccanicismo che si ispirano alcune importanti ipotesi scientifiche
dell'ultimo secolo, come la teoria cinetica e quel- la molecolare. La teoria
cinetica constata un perpetuo movimento disordinato delle particelle dei gas, tanto
più rapido quanto maggio- re è la temperatura. In quésto disordine si possono
tuttavia applicare le leggi del calcolo delle probabilità, e trovare delle
relazioni tra grandezze macroscopiche direttamente misurabili. Secondo la
teoria molecolare la struttura della materia risulta da un'aggregazione di
atomi, tutti di una specie se si tratta di un corpo semplice, di tante specie
diverse quanti sono i componenti semplici, se si tratta di un composto o di un
miscuglio. Di ciascuna specie di atomi si conosce esattamente il peso,
indicabile con H per l'idrogeno, 238 H per l’ura- nio, ecc. 3. La cosmologia
nel secolo XX In questo secolo, grazie allo sviluppo di nuovi strumenti di ri-
cerca, è stato possibile penetrare sempre più a fondo nel cuore della materia e
individuarne gli elementi costitutivi più minuscoli, come le molecole, gli
atomi, gli elettroni, ecc. Anche del più piccolo organismo vivente, la cellula,
si è riusciti a decifrare in larga misura la complessa e meravigliosa
struttura. Dal lato opposto lo sguardo umano, sospingendosi sempre più lontano,
è riuscito a raggiungere corpi celesti che si trovano ad una distanza pressoché
infinita dalla terra. In tal modo l’uomo ha acquistato una coscienza più acuta
della vastità e della complessità dell'universo che lo circonda, un universo di
cui gli riesce sempre più difficile cogliere le ragioni del suo inizio, il
tempo della sua durata e il momento della sua fine. Per risolvere questi
problemi enormi oggi si avanzano varie ipotesi: le più note sono quella stazionaria
e quella evolutiva. Secondo la teoria stazio- naria, oggi meno accettata, vi è
una creazione continua di materia, che mantiene l'universo ad una densità
costante, nonostante la sua espansione, che si desume dall'ipotesi del moto di
allontanamento * Ivi, pp. 107-110; 143. 68 delle galassie. Secondo la teoria
evolutiva, vi fu un’esplosione origi- naria in un universo superdenso, il
cosiddetto « big bang », circa 10 o 12 miliardi di anni or sono. Oggi comunque
la parola definitiva è affidata alla ricerca che si vale di strumenti sempre
più perfezionati. Ma a parere di molti filosofi e scienziati moderni, i quali
riten- gono valida la distinzione kantiana tra realtà fenomenica e realtà
noumenica, cioè pensata, non è possibile trovare una risposta con- clusiva agli
interrogativi ultimi della cosmologia (origine del mondo per creazione o per
caso, durata finita oppure infinita, estensione li- mitata oppure senza limiti,
movimento teleologico oppure necessario, ecc.), in quanto ad ogni tesi è
possibile contrapporne un'altra di segno contrario. Ma qui sono la natura e il
valore della ragione umana e più spe- cificamente della speculazione filosofica
che sono chiamati in causa. E qualora si rifiuti di accogliere la prospettiva
kantiana, e si ascriva alla ragione il potere non solo di cogliere i nessi tra
i fenomeni ma la verità stessa delle cose, allora si può anche ritenere che il
pre: blema cosmologico non sia un problema insolubile. A nostro avviso esiste
una filosofia in grado di fornire una risposta valida anche a questo difficile
problema: è la filosofia dell'essere. Questa filosofia (lo vedremo meglio nel
capitolo dedicato al problema ontologico) muove dalla « intuizione » del valore
infinito della per- fezione dell'essere e dalla constatazione che nel mondo
tale perfezio- ne si realizza sempre e soltanto in modi limitati. Ora, la
finitudine e contingenza dell'essere di tali modi, ossia delle cose
dell'universo, fanno comprendere l'esigenza della realtà di un Essere infinito,
che ne segni l'origine e lo mantenga in vita, la necessità d'un Incondizio-
nato che regga tutta la serie delle condizioni. Pertanto l'universo trae
origine da Dio. Questi lo genera compiendo un atto singolare, che nessuna
creatura può compiere, l'atto della creazione. Crea- zione significa la
produzione di una cosa che prima non era in nessun modo, né in se stessa né
nella potenza d'un soggetto (o ma- teria). Il termine « creazione » quindi
evidenzia la totale inesisten- za dell'universo prima della sua produzione da
parte dell'Essere sussistente; esso pone l'accento sul nulla del punto di
partenza rispetto all'oggetto, l'universo. Con l’atto creatore l'Essere sussi-
stente comunica il suo essere all'universo. Il suo è un dono del tutto
straordinario, perché dal suo darsi nasce la realtà dell'universo là dove prima
c'era soltanto il puro nulla. Il termine « creazione » pone quindi l'accento
sull'inizio dell'universo, punto di partenza che è tutto nell'Essere
sussistente, nella sua generosa dedizione, una dedizione che non ha nulla a che
vedere né con l’emanazio- ne necessaria dei neoplatonici, né con l'alienazione
dell'Assoluto degli idealisti. Si tratta però, ovviamente, di una comunicazione
limitata. L'Essere sussistente non crea un altro essere sussistente, !° J. DE
FINANCE, Existence et liberté, Vitte, Paris 1955, pp. 152-207. 69 La risposta
della filosofia dell'essere L’atto creativo dell’Essere sussistente (Dio)
Insoluto il problema cosmologico della durata ma un ente contingente. Per
questo motivo l'universo non eguaglia la perfezione di Dio e tanto meno si
identifica con la sua realtà. Esso semplicemente partecipa alla perfezione
dell'Essere sussistente, os- sia possiede in modo particolare, limitato,
imperfetto, quella perfe- zione che nell’Essere sussistente si attua in modo
totale, illimitato e perfetto. C'è tuttavia una tensione permanente nel modo di
fare ritorno alla sua prima sorgente, all'Essere sussistente; e questo spiega
il profondo dinamismo che lo pervade, la costante trasformazione e la
meravigliosa evoluzione che lo animano: l’universo è in cammino verso Dio.
Questi è pertanto allo stesso tempo sia il punto Alfa che il punto Omega
dell’universo."! Abbiamo così chiarito, facendo appello ai principi della
filosofia dell'essere, i due principali problemi della cosmologia: origine e
fine dell'universo. Resta ancora insoluto il problema della durata. Qual è la
distanza temporale che deve percorrere l'universo prima di raggiungere il punto
Omega? ‘Per trovare una risposta a questo interrogativo non possiamo fa- re
appello a nessuna filosofia, neppure alla filosofia dell'essere. Si tratta
certamente di una distanza finita, come affermano oggi una- nimemente gli
scienziati; ma è una distanza che la ragione non riuscirà mai a misurare.
CONCETTI DA RITENERE — Teogonia — Condensazione-rarefazione — Materia; forma;
divenire — Motore immobile — Geocentrismo; eliocentrismo; meccanicismo — Teoria
cinetica, molecolare, stazionaria, evolutiva; creazione SINTESI CONTENUTISTICA
I. ‘PROBLEMATICITÀ DELL'UNIVERSO 1. ‘L'universo è una realtà problematica in
ordine alla sua origine, ai suoi elementi costitutivi, alla sua durata, al suo
fine ultimo. 2. La risposta al problema può essere scientifica o filosofica.
Nel primo caso si propone una descrizione dei fenomeni. Nel secondo una
interpretazione generale dei fenomeni dell’universo. 3. La distinzione tra i
due ordini di soluzione risale al sec. XVII. II. LA COSMOLOGIA NEL PENSIERO
OCCIDENTALE 1. Il problema cosmologico è uno dei primi che la mente umana si è
posto: "! B. MONDIN, Il sistema filosofico di Tommaso d'Aquino {Per una
lettura at- tuale della filosofia tomista), Massimo, Milano 1985. 70 qual è la
causa ultima delle cose? in che modo ha prodotto il sistema dell'uni- verso?
qual è il costitutivo fondamentale del mondo? 2. Le cosmogonie e le teogonie
del mondo antico (da Esiodo ad Omero) sono state i primi tentativi di
soluzione. 3. Il problema sta alla base della filosofia ionica {Talete,
Anassimene, Anassimandro) che prospetta ambiguamente il problema cosmologico
con il problema metafisico. 4. La distinzione tra i due problemi viene posta da
Platone con la sua di- stinzione tra il mondo fisico e il mondo metafisico
(natura e mondo delle Idee). 5. Aristotele approfondisce il problema
cosmologico: it mondo è eterno e il divenire è uno dei suoi caratteri, poiché
le cose tendono verso il proprio perfezionamento. Un Motore immobile provoca
tutti i fenomeni, tutte ie gene- razioni, tutti i movimenti del mondo. 6. Gli
atomisti (Democrito e Epicuro) pongono all'origine del mondo atomi invisibili
per le loro dimensioni che unendosi e separandosi provocano la na- scita o la
distruzione. Democrito afferma che il movimento degli atomi è retti- lineo;
Epicuro afferma che avviene per deviazione spontanea. 7. I pensatori cristiani
per spiegare la struttura intrinseca delle cose si rifanno ad Aristotele,
mentre spiegano l'origine del mondo come atto creativo deila volontà di Dio. 8.
L'Umanesimo e il Rinascimento privilegiano il problema cesmologico (Cusano,
Telesio, Pico della Mirandola, Ficino, Bruno). Le visioni sono spesso
fantasiose e animistiche. 9. Progressivamente, nel corso dell'età moderna e
contemporanea, la co- smologia passa dalla dimensione metafisica a quella
scientifica attraverso i traguardi segnati da Galilei, Newton, Lavoisier e
Einstein. Il meccanicismo so- stituisce il vitalismo rinascimentale, lasciando
successivamente il posto alla teoria cinetica e alla teoria molecolare. III. LA
COSMOLOGIA NEL SECOLO XX 1. I nuovi strumenti di ricerca hanno consentito di
penetrare i segreti del- la materia e di individuarne gli elementi costitutivi
fondamentali: molecole, atomi, elettroni. 2. La teoria stazionaria afferma la
creazione continua di materia; la teoria evolutiva afferma l'origine di un
universo superdenso da un'esplosione ori- ginaria. 3. La filosofia dell'essere
offre una valida soluzione al problema dell'origine dell'universo stabilendo
una relazione tra gli esseri finiti e contingenti e l’Es- sere infinito e
incondizionato. L'universo trae, pertanto, origine da Dio per atto creativo, in
virtù del quale l'Essere sussistente comunica il suo essere al- l'universo con
un atto di generosa dedizione. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali
rapporti intercorrono tra metafisica e cosmologia? 2. Che cosa caratterizza la
distinzione tra discorso mitico, scientifico e filo- sofico circa il mondo? 3.
Quali correlazioni è possibile stabilire tra scienza e cosmologia? 4. In che
misura il problema cosmologico si incontra con il problema religioso? 5. Quali
sono i principali aspetti del problema cosmologico? 6. Quali sono le
interpretazioni cosmologiche più significative del pensiero occidentale? 71 7.
Quali interpretazioni sono state date al problema dello spazio e del tempo? 8.
Che cosa sono il meccanicismo e il vitalismo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI ARCIDIACONO
G., Relatività e cosmologia, Veschi, Roma. AuBERT J.M., Cosmologia, Paideia,
Brescia 1968. BERTOTTI B., Lo cosmologia, Le Monnier, Firenze 1980. CRICK F.,
Uomini e molecole, Zanichelli, Bologna 1970. HOENEN P., Cosmologia, Università
Gregoriana, Roma 1956. JoLIVET R., Trattato di filosofia, vol. II: Cosmologia,
Paideia, Brescia 1957. MARCOZZI V., Caso e finalità, Massimo, Milano 1978.
MERLEAU PonTY J., Cosmologia del secolo XX, Il Saggiatore, Milano 1974. Monop
J., I! caso e la necessità, Mondadori, Milano 1970. OraISsoN M., I! caso e la
vita, SEI, Torino 1971. SELVvaGGI F., Filosofia del mondo fisico, PUG, Roma
1977. TEILARD DE CHARDIN P., Il fenomeno umano, Il Saggiatore, Milano 1968.
TONINI V., La scienza della vita, Jouvence, Roma 1983. TORALDO DI FRANCIA G.,
L'indagine del mondo fisico, Torino 1976. VAN Hacens B., Filosofia della
natura, Urbaniana ‘University Press, Roma 1983. 72 Capitolo sesto IL PROBLEMA
ANTROPOLOGICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Quali interrogativi l’uomo si pone
in relazione a se stesso? 2. Perché l'uomo ha bisogno di capirsi? 3. Di che
cosa si ha più bisogno per stare bene con se stessi? 1. Natura del problema La
filosofia ha sempre fatto dell'uomo argomento del suo studio e delle sue
ricerche. Però, lungo l'arco della sua storia plurimille- naria, ci sono
momenti in cui l’attenzione del filosofo s'è rivolta all'uomo in maniera
distinta e privilegiata. Così, nell'antichità, dopo che lo sforzo dei primi
filosofi greci, teso a scoprire la causa ultima delle cose era riuscito vano,
con Socrate e i Sofisti la ricerca filo- sofica si concentra tutta sull'uomo,
al fine di comprenderne la vera natura, determinarne le capacità e intenderne i
doveri e la missione. « Conosci te stesso »: ecco l'obiettivo preciso della
filosofia di Socrate e dei suoi contemporanei. Altrettanto è accaduto molti
secoli più tardi, alla fine del Medio- evo, dopo i vani tentativi degli
Scolastici di fissare in bell’ordine gli elementi molteplici che compongono
l'universo. Ancora una volta l'indagine filosofica torna a riflettere anzitutto
e soprattutto sul- l'uomo, per conoscerlo più profondamente. In seguito, tutta
la filosofia moderna ha assunto un indirizzo spiccatamente antropocentrico.
Oggi, anche chi crede nella possibi- lità della metafisica ossia nella
possibilità di un sapere filosofico in- torno all'essere assoluto, ritiene di
doverla sviluppare partendo dal- l'uomo. Attualmente persino i teologi
ritengono opportuno se non proprio necessario dare alla loro disciplina
un'impostazione antro- pocentrica. Ma questa tendenza dei metafisici e dei
teologi di portare l'uomo al centro delle loro considerazioni rende più acuto
che mai il pro- blema di sapere chi sia l'uomo. Infatti senza una soluzione
adegua- ta di questo problema ogni tentativo di elaborare dottrine metafi-
siche, etiche, politiche, religiose, sociali è inevitabilmente destinato al
fallimento. Chi è, dunque, l'uomo? 73 Nel secoli la filosofia ha sempre
studiato l’uomo L’interrogativo fondamentale: l’uomo chi è? La complessità
della realtà ““uomo”' definito ‘‘mistero’’ da sant'Agostino Il problema
antropologico si riferisce all'essenza propria dell’uomo Tre prospettive di
ricerca sull'uomo: Sant'Agostino, che è uno degli autori che hanno studiato più
at- tentamente la realtà umana, a questo interrogativo risponde di- cendo: «
Grande mistero è l'uomo ».! L'uomo, infatti, a causa della complessità del suo
essere, fisico e psichico ad un tempo, confinato in una piccola zona dello
spazio col suo corpo, ma in grado di scaval- care tutti i confini dell'universo
con la sua mente, è effettivamente una realtà di cui è impossibile ottenere una
comprensione e fornire una spiegazione sicura ed esaustiva. L'uomo è una realtà
estremamente complessa. Ciò è vero anzitut- to nell'ordine dell'azione. Egli
esplica attività d'ogni genere: cono- sce, studia, scrive, parla, lavora,
gioca, prega, canta, ama, soffre, gode, mangia, ecc. Ed ognuna di queste
attività solleva interrogativi e problemi di non facile soluzione. Ma la
complessità diventa ancora più accentuata quando si passa dal piano dell'azione
a quello dell’es- sere. Allora ci si domanda: chi è questo individuo singolare
che chiamiamo Io e che qualifichiamo come persona? Che cos'è che con- sente al
suo corpo di esplicare le suddette attività molte delle quali trascendono così
palesemente i confini della materialità? È mai pos- sibile decifrare l'essere
profondo dell’uomo? Il problema-uomo investe pertanto tutti i campi della
filosofia, dalla logica alla gnoseologia, alla cosmologia, alla metafisica,
all’eti- ca, alla politica, alla cultura, all'arte, alla psicologia, alla
religione. Una antropologia generale dovrebbe affrontarlo nella sua tota- lità
e trovare una risposta per ogni specifico interrogativo. Ma, di solito, quando
si parla di problema antropologico non si intende riferirsi al problema di
questa o di quella attività umana (per esem- pio al problema della conoscenza
oppure della libertà, del lavoro, ecc.) ma al problema della natura umana in
quanto tale: qual è l'essenza propria dell'uomo? quali sono i suoi elementi
costitutivi fondamentali? in che rapporto si trovano tra di loro? quale l’ori-
gine prima e il fine ultimo dell’uomo? È appunto di questa serie di
interrogativi che noi terremo conto tracciando il quadro storico del problema
antropologico. 2. Panorama storico Agli interrogativi: chi è quell’essere
vivente che chiamiamo uomo? quali sono gli elementi costitutivi della sua
natura? in che rapporto si trovano tra di loro? sono state date le risposte più
disparate, le quali tuttavia sono riducibili ad alcuni tipi fondamentali,
qualora si tenga conto della prospettiva in cui si sono collocati i filosofi
op- pure del metodo che hanno impiegato nell’elaborarle. Le prospettive
principali sono tre, cosmocentrica, teocentrica e antropocentrica. ! S. AcostINO,
Confessioni, IV, 14. 74 La prospettiva cosmocentrica assume come punto
d'osservazione il mondo. È la prospettiva della filosofia greca. Platone,
Aristotele, gli Epicurei, gli Stoici, i Neoplatonici quando studiano l'uomo lo
situa- no all’interno del mondo e lo considerano alla luce della visione che
hanno di quest’ultimo. La prospettiva teocentrica assume come punto
d'osservazione Dio. È la prospettiva della filosofia cristiana dei Padri e
degli Sco- lastici. Questi si accostano all'uomo in un contesto teologico ossia
tenendo conto di quanto Dio stesso ha fatto conoscere all'umanità riguardo alla
realtà divina, umana e cosmica. La prospettiva antropocentrica prende come
punto di riferimento l'uomo stesso, focalizzando questo o quell'altro suo
aspetto caratte- ristico. È la prospettiva propria della filosofia moderna. A
partire dall’Umanesimo tutte le antropologie, quella di Cartesio come quella di
Hume, quella di Kant come quella di Hegel, quella di Comte come quella di
Freud, quella di Nietzsche come quella di Heidegger, ecc., pur tra grandi e
profonde divergenze, concordano nell’assumere la stessa prospettiva
antropocentrica. Se, però, per classificare le antropologie, anziché la
prospettiva si prende come fondamento il metodo, allora si ottengono quattro
ti- pi principali: — antropologie metafisiche, le quali si valgono del metodo
me- tafisico. Sono quelle di Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tom- maso,
Cartesio, Spinoza, Leibniz, ecc. — antropologie naturalistiche, le quali
applicano anche allo studio dell’uomo il metodo positivo-scientifico. Sono le
antropologie di Darwin, Comte, Spencer, Freud, ecc. — antropologie
storicistiche, le quali adoperano il metodo sto- rico. Di queste le più
rappresentative sono quelle elaborate da Vico, Marx, Croce, Gadamer, ecc. —
antropologie esistenziali, le quali si servono del metodo fe- nomenologico. A
questo gruppo appartiene la maggior parte delle antropologie più recenti. Tra
queste ricordiamo le analisi di Scheler, Heidegger, Sartre, Ricoeur,
Merleau-Ponty, Marcel, Gehlen, ecc. Qui, a motivo dei limiti che ci siamo
imposti nel presente scritto, non ci è consentito di tracciare un panorama
completo delle antro- pologie che abbiamo ricordato. Illustreremo soltanto
alcune posi- zioni più rappresentative e storicamente più influenti. Sono posi-
zioni che si trovano già delineate nella filosofia greca. Nella cultura greca
la posizione dell'essere umano nell'universo assume indubbiamente maggior
rilievo che nelle altre culture ad es- sa contemporanee sia del Medio che dell'Estremo
Oriente (cultura babilonese, egiziana, ebraica, indiana, ecc.). E tuttavia
anche nella cultura greca la posizione dell'uomo rimane sempre una posizione
in- certa, contrastata, subordinata: egli non è padrone dell'universo e neppure
della sua storia. Tutti gli sforzi ch'egli compie per affermare se stesso, la
propria autonomia, la propria libertà, e per far valere i 75 — cosmocentrica:
l’uomo e la visione del mondo — teocentrica: l’uomo e la rivelazione di Dio —
antropocentrica: l’uomo a partire da se stesso Quattro metodi di ricerca
antropologica: metafisico, naturalistico, storicistico, esistenzialista
Soprattutto nella cultura greca emerge lo studio dell’uomo Visione
predominante: il fato incombe sull'uomo Altre visioni: — Platone: natura spirituale
con libertà assoluta — Aristotele: il limite della corporeità — Plotino: il
ritorno dell’anima all’Uno I quattro problemi fondamentali diritti della
propria intelligenza sono destinati al fallimento, perché egli rimane
inesorabilmente incatenato alle forze del Fato, della Natura e della Storia. La
libertà è una vana aspirazione, come pure vana aspirazione è quella di sfuggire
alla morsa della morte per rag- giungere l'eternità. Intelligente, coraggioso,
forte e astuto l’uomo greco si sente circondato da potenze soprannaturali che
sono più forti, intelligenti ed astute di lui. Prometeo incatenato è la figura
più emblematica della visione antropologica ellenica. Da tale visione si
staccano peraltro le concezioni dell’uomo ela- borate dai filosofi Platone,
Aristotele e Plotino. Platone afferma la libertà assoluta dell’uomo,
riconoscendogli una natura spirituale che non può in nessun modo essere incate-
nata dalle forze del mondo, del tempo e del fato. L'uomo per Platone è
essenzialmente anima, spirito. Perciò la sua sopravvivenza, la sua immortalità
è fuori questione e non presenta nessun problema. L'u- nico problema per l’uomo
è quello di riscattare la sua anima dalla prigione del corpo.’ Aristotele è
meno ottimista di Platone riguardo al carattere tra- scendente dell'uomo e
all’eternità del suo destino. A suo giudizio l'uomo non è puro spirito, non è
essenzialmente ed esclusivamente anima. Come tutti gli altri esseri di questo
mondo anche l’uomo è composto di materia (il corpo) e forma (l’anima). Ora, dato
che l'anima svolge il ruolo di forma, proprio per questo motivo, nono- stante
la sua evidente superiorità rispetto al corpo e alla sua capa- : cità di
dedicarsi ad attività sublimi come quella della contempla- zione, non pare
tuttavia in grado di sfuggire alla corruzione e di sot- trarsi al flagello
della morte. Plotino riprende e sviluppa ulteriormente la concezione plato-
nica. Afferma anch'egli la dicotomia tra anima e corpo ed assegna all'anima
un'attività che appartiene soltanto ad essa, la contempla- zione. L'anima che
conosce la verità può sottrarsi alla prigione del corpo e del mondo, può
ritrovare se stessa e ricongiungersi con l'Assoluto, l’Uno. Il ritorno
dell'anima alla sua fonte originaria è reso possibile da una tensione che le è
connaturale. È una tensione che all’inizio si afferma come impulso oscuro e
pressoché inconsa- pevole, ma è già sufficiente a determinare un senso di
disgusto per tutto ciò che è molteplice e diveniente. Le tappe del ritorno del-
l'anima all’Uno sono tre: ascesi, contemplazione, estasi. Oggi, queste tre
visioni antropologiche elaborate da ‘Platone, Ari- stotele, Plotino potranno
sembrare inadeguate. Esse hanno comun- que il merito singolare d'avere quanto
meno individuato i problemi fondamentali di qualsiasi indagine antropologica: —
determinazione di ciò che caratterizza essenzialmente l’uomo, ossia il problema
della natura umana; ? Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp. 88-91. ? Ivi, pp. 137-139. *
Ivi, pp. 185-186. 76 — funzione e consistenza dell'elemento psichico, ossia
proble- ma della sostanzialità dell'anima; — rapporti tra elemento psichico ed
elemento somatico, ossia problema dei rapporti tra anima e corpo; — destino
ultimo dell'essere umano: ossia problema dell’immor- talità dell'anima. Su
questi quattro problemi fondamentali si è incentrata l'atten- zione di tutti i
filosofi posteriori, del Medioevo e dell’epoca moderna, allorché hanno
affrontato il problema antropologico. Sul problema della natura umana, fino al
secolo scorso c'è stato un accordo costante tra i filosofi nel situarla
nell'elemento razionale, come avevano già indicato Platone, Aristotele e
Plotino: l’uomo è essenzialmente animale ragionevole (anima! rationale).
Agostino, Tommaso, Scoto, Occam, Cartesio, Spinoza, Locke, Leibniz, Kant,
Hegel, convengono tutti su questo punto. Ma da un secolo a questa parte si è
cominciato a rilevare che nell'uomo esistono altre dimensioni e manifestazioni
altrettanto ti- piche e fondamentali quanto quella del conoscere, come il
parlare, il lavorare, il giocare, l’amare, il pregare, ecc. Sono così sorte
nuove antropologie che definiscono l'uomo in base a queste altre sue at-
tività. Tra le definizioni che hanno suscitato maggior interesse ricor- diamo
quelle di Marx (essere economico), Freud (essere sessuale), Heidegger (essere ex-sistente),
Marcel (essere problematico), Fink (essere ludico), Gadamer (essere storico),
Ricoeur (essere fallibile), Buber (essere dialogante), Bloch (essere
utopistico), Luckmann (essere religioso), Eliade (essere mitologizzante),
Tillich (essere a- lienato), Sartre (essere libero). Per ultima riportiamo
quella di Scheler che definisce l'uomo « l'essere capace di dire di no all’im-
pulso istintivo ». Anche altri filosofi, come Plessner, Gehlen, Litt han- no
confermato il concetto che il tratto essenziale dell'uomo sia la rottura con
l’istinto, valendosi dei risultati delle ricerche biologiche. Naturalmente in
questa sede non possiamo esporre le ragioni con cui i vari autori giustificano
le loro definizioni della realtà umana. Possiamo tuttavia affermare che in
generale si tratta di ragioni valide. Essi fanno vedere che sotto l’aspetto
della tecnica, del linguaggio, del gioco, della cultura, della religione,
dell'amore, ecc., l'uomo sovrasta infinitamente tutti gli esseri che lo
circondano e che, pertanto, ci si può servire di ciascuno di tali aspetti a
modo di principio erme- neutico della natura umana. Occorre tuttavia
riconoscere che la com- prensione di tale natura riesce più chiara e profonda
se non la si ac- costa alla prospettiva di una sola attività, ma di molte. Le
antropo- logie pluriprospettiche sono quindi preferibili alle antropologie che
esplorano l'uomo da un solo punto di vista. Queste ultime riescono
difficilmente ad aggirare lo scoglio del riduttivismo. Il problema
dell’esistenza dell'anima e del suo carattere sostan- ziale è indubbiamente il
più difficile dei problemi antropologici. Pla- tone fu il primo ad affrontarlo
in modo esplicito e rigoroso. Nel 77 L’essenza razionale della natura umana La
pluralità delle dimensioni Validità delle antropologie pluriprospettiche
Platone: spiritualità e immortalità dell'anima Agostino, Cartesio, Leibniz: la
sostanzlalità dell’anima Lucrezio, Hobbes, Marx, Comte e altri: l’anima
epifenomeno della corporeità Fedone egli prende in esame l'obiezione di coloro
che negano al- l'anima il carattere sostanziale, dicendo che essa non è altro
che un epifenomeno del corpo: l’anima non sarebbe altro che uno splen- dido
accordo degli elementi che costituiscono il corpo. Platone re- spinge
l’obiezione rilevando che l’anima, lungi dall'essere in accordo col corpo, si
trova praticamente in costante dissidio con esso; infatti le esigenze
dell'anima sono in perenne contrasto con quelle del corpo. Per esempio « nel
corpo c’è arsura e sete, e l’anima lo tira al contrario a non bere; c'è fame, e
l’anima lo tira a non mangiare, e così in mille altri casi in cui vediamo che
l’anima si oppone alle passioni del corpo ».î Quindi per Platone non c'è nessun
dubbio che l'anima è una sostanza, una sostanza di natura spirituale, incorrutti-
bile e immortale. Essa stessa costituisce la vera autentica essenziale natura
dell'uomo. L'uomo è l’anima. Il corpo è la prigione in cui l'anima espia le sue
colpe. Dopo Platone il problema della sostanzialità dell'anima continua a
suscitare dispute assai vivaci, ricevendo soluzioni molto diverse e
contrastanti. Alcuni autori (Agostino, Cartesio, Leibniz) seguendo l'esempio di
‘Platone affermano che l’anima è una vera sostanza e che la sua sostanzialità
si identifica con quella dell’uomo. Le ragioni che adducono a sostegno di
questa tesi sono in parte di ordine mo- rale (come l'aspirazione dell'uomo ad
una vita di perfetta felicità, che non può trovare attuazione in questo mondo)
e in parte d'ordine gnoseologico (per esempio, il possesso di verità assolute
che non sembrano tratte dall’esperienza)£ Secondo un altro gruppo di filosofi
(Lucrezio, Pomponazzi, Hob- bes, Marx, Comte, i neopositivisti, gli
strutturalisti e molti altri pensatori contemporanei) l’anima non è affatto una
sostanza ma semplicemente una trasformazione inconscia ed immaginaria (un
epifenomeno) della corporeità. Le ragioni che adducono a sostegno della loro
posizione sono note. A loro giudizio la fonte unica d'ogni cosa è la materia.
Da essa si sviluppa tutto quello che noi osserviamo nell'universo, compreso
l’uomo. Anche ciò che c'è di più alto e di più sublime in lui, come la scienza,
l’arte e la morale, è tutto frutto della potenza inesauribile della materia.
Quindi anche l'insieme di quegli aspetti superiori dell'uomo per spiegare i
quali di solito si postula l’esistenza dell'anima non sono il frutto di « uno
spirito che abita nella macchina », ma il risultato più o meno casuale di un
alto grado di evoluzione della materia.” Secondo san Tommaso, il quale su
questo punto ritiene di inter- pretare il pensiero autentico di Aristotele, e
secondo la nutrita schie- ra di discepoli che l’Aquinate ha avuto durante la
Seconda Scolastica (Silvestri, Caietano, Suarez) e durante la rinascita
neotomistica (Mer- 5 PLATONE, Fedone, c. 43. * Cfr. B. MonpIN, ‘vol. I, pp.
226-227; vol. II, pp. 189-191. ? Cfr. J. Monop, Il caso e la necessità: saggio
di filosofia naturale e della biologia contemporanea, Mondadori, Milano 197 78
cier, Gilson, Maritain, Masnovo, De Finance, ecc.) il possesso da parte dell’uomo
di un'anima spirituale è una verità indiscutibile, ma essi non condividono la
tesi di Platone secondo cui l’anima si identifica con l'uomo, perché l'anima da
sola non è in grado di svol- gere tutte le attività che sono tipiche dell'uomo,
come sentire, par- lare, lavorare, giocare, ecc. E tuttavia essendo l’anima
dotata di al- cune attività proprie come il riflettere, il ragionare, il
giudicare, il volere liberamente, anch'essi affermano che l'anima è dotata di
un suo proprio atto di essere e che pertanto è una sostanza completa: è una
sostanza completa in ordine all'esistenza ma non in ordine alla specificazione.
Essa ottiene la propria specificazione nella scala de- gli esseri soltanto
unendosi al corpo. C'è infine un altro gruppo di filosofi che ha per
capostipiti Hume e Kant, il quale, per ragioni d'ordine gnoseologico, nega che
si possa risolvere il problema della sostanzialità dell'anima. Questo è un pro-
blema che riguarda « la cosa in sé », mentre la nostra mente è com- petente
soltanto su quanto concerne la sfera dei fenomeni? Oggi, con la crisi profonda
che sta attraversando la metafisica e con quello scetticismo che sta aggredendo
anche la scienza, la posizione, agno- stica di Kant e di Hume incontra un
numero sempre più grande di sostenitori. Strettamente connessi col problema
della sostanzialità dell'anima sono gli altri tre problemi principali
dell'’antropologia: origine del- l'anima, rapporti dell'anima col corpo, e
destino ultimo dell'essere umano. Per il problema dell'origine dell'anima i filosofi
hanno proposto le seguenti soluzioni: — traducianesimo, ossia derivazione
dell'anima dei figli da quella dei genitori (analogamente a quanto succede per
il corpo). Questa posizione è stata assunta da Tertulliano e Agostino per
rendere in- telligibile la trasmissione del peccato originale; — emanazione
dall'essere supremo: dal Logos secondo gli Stoi- ci, dall'Uno secondo i
Neoplatonici, dalla Sostanza secondo Spi- noza, dallo Spirito assoluto secondo
gli Idealisti; — creazione simultanea di tutte le anime prima oppure nel mo-
mento stesso dell'origine del mondo. Questa tesi è stata proposta da Platone,
Filone Alessandrino e Origene; — creazione individuale e diretta di ogni
singola anima da parte di Dio nel momento stesso della formazione del corpo. È
la tesi più diffusa tra i pensatori cristiani d'ogni tempo, condivisa anche da
quasi tutti i massimi esponenti della filosofia moderna (Cartesio, Vico,
Campanella, Locke, Berkeley, Leibniz, ecc.); * Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp.
289-290. * Cfr. B. MONDIN, vol. II, pp. 345-347. 79 Da Aristotele e Tommaso al
neotomismo: sostanzialità dell'anima e specificazione in unione al corpo
L’agnosticismo di Hume e Kant. La crisi scettica attuale Il problema
dell’origine: traducianesimo, emanazione, creazione, evoluzione Creazione ed
evoluzione Origine spirituale dell'anima: è creata da Dio Il rapporto anima-
corpo: a) unione accidentale — evoluzione dalla materia: è la tesi patrocinata
da tutte le cor- renti moderne di ispirazione materialistica. Di queste
soluzioni le prime tre oggi non trovano più sostenitori e il campo delle scelte
è pertanto ridotto a due: creazione individuale da parte di Dio e evoluzione
dalla materia. Qual è quella giusta? Le anime discendono direttamente da Dio o
sono invece derivate dal- la materia? A nostro avviso la seconda soluzione ha
un solo argomento dalla sua parte: la promozione della conoscenza scientifica a
metro esclu- sivo di qualsiasi verità e, conseguentemente, il rifiuto di
prendere in considerazione fenomeni che non sono suscettibili di verifiche
sperimentali, come il fenomeno della riflessione, della libera scelta,
dell'autotrascendenza, ecc. Ma per chi non vuole prestar fede al dog- ma dello
scientismo, la derivazione dell'anima dalla materia non trova nessuna
giustificazione e diviene, per contro, plausibile la tesi della sua origine per
creazione. Anzi, una volta che per spiegare fenomeni come la riflessione, il
giudizio, il ragionamento, l’auto- trascendenza, la libera scelta, ecc., si
ammetta nell'uomo l’esistenza di un elemento spirituale, l’anima, non è più
possibile derivare il suo essere dal basso, dal mondo fisico, dalla materia,
perché tra l’a- nima quale si rivela nella sua essenza e nelle sue proprietà e
il mondo fisico si spalanca un abisso che nessun processo evolutivo di ordine
materiale ha la possibilità di colmare. ‘Pertanto su questa questione ci pare
che abbiano perfettamente ragione quei filosofi i quali riten- gono che l’anima
abbia origine dall'alto, abbia cioè un'origine spi- rituale e non materiale. Il
loro argomento, ridotto all'osso, è il se- guente: l’origine dell'anima
dev'essere conforme al suo essere. Ora, essendo il suo essere di natura
spirituale, è necessario concludere che anche la sua origine abbia carattere
spirituale, vale a dire essa non può essere causata che da Dio; si deve
pertanto trattare di crea- zione, perché così si chiama l’azione con cui Dio
causa l'esistenza del- le creature. Quanto al problema dei rapporti tra anima e
corpo, anch'esso ha ricevuto soluzioni molto disparate, che tuttavia in
generale sono perfettamente coerenti con le posizioni che gli autori hanno
assunto sul problema della natura dell'anima e della sua sostanzialità. Le più
significative sono le seguenti: — unione accidentale. È una delle tesi che ha
trovato il più ampio coro di consensi; patrocinata anzitutto da Pitagora e
Platone è stata in seguito ripresa e sviluppata dai loro innumerevoli disce-
poli di cui i più illustri sono Agostino, Bonaventura, Cartesio, Mà- lebranche
e Leibniz. Tutti questi autori considerano l'unione tra anima e corpo un'unione
accidentale, ossia un'unione tra due so- stanze già completamente strutturate,
ciascuna dotata d'un proprio atto di essere, due sostanze assolutamente
eterogenee e pertanto aliene da qualsiasi saldatura profonda e duratura. Com'è
noto, Pla- tone paragona l'unione dell'anima col corpo a quella del nocchiere
80 alla nave o del cavaliere al cavallo. Malebranche parla di una unione
puramente occasionale; Leibniz di un'armonia prestabilita. Cartesio, infine,
fissa una localizzazione ben precisa alla saldatura tra l'anima e il corpo:
essa avviene nella ghiandola pineale;! — unione sostanziale. È la tesi che
Aristotele ha contrapposto a Platone e Tommaso ad Agostino. Secondo lo
Stagirita e l’Aquinate l'unione tra l’anima e il corpo è una unione profonda,
sostanziale, duratura, perché non è l'incontro fra due sostanze già dotate di
un loro essere autonomo prima di incontrarsi, bensì di due elementi sostanziali
di cui almeno uno, il corpo, non dispone di un suo proprio atto di essere. La
loro unione è simile a quella della materia con la forma sostanziale: due
elementi che si compenetrano da capo a fondo, così da formare una sola, unica
sostanza;! — identificazione dell'anima col corpo. È la tesi dei materialisti,
positivisti, neopositivisti, strutturalisti e di altri autori i quali negando
all'anima qualsiasi carattere sostanziale, risolvono il suo es- sere in quello
della corporeità; . — posizione agnostica. È la posizione di Hume, Kant e dei
loro rispettivi discepoli, i quali, ritenendo che nulla si possa dire del-
l'anima come « cosa in sé », concludono logicamente che non è neppure possibile
pronunciarsi sulla natura dei suoi rapporti col corpo.!? Anche il problema del
destino ultimo dell'essere umano segue la strada già segnata precedentemente
dalle soluzioni che i vari autori elaborano per il problema della natura
dell'anima e della sua sostan- zialità. Le soluzioni basilari sono tre: —
estinzione dell'essere dell'uomo con la morte: la morte non segna soltanto la
fine del corpo ma di tutto l'essere dell'uomo, anima compresa. Questa tesi che
fino agli inizi del secolo scorso aveva in- contrato il favore di pochissimi
pensatori, a partire da Feuerbach, Marx, Comte, Nietzsche, diviene la tesi
maggiormente seguita. Og- gi è sostenuta dalla maggior parte degli
esistenzialisti, dai neo- positivisti, dai materialisti, dai marxisti, dagli
strutturalisti e da molti altri ancora; — sopravvivenza dell'anima dopo la
morte del corpo. Questa te- si avanzata in sede filosofica per la prima volta da
Pitagora, Socrate e Platone è stata in seguito ripresa e sviluppata con ogni
sorta di argomentazioni da quasi tutti i filosofi del Medioevo e dell’epoca
moderna. Tra gli argomenti più suggestivi a favore dell'immortalità dell'anima
ricordiamo i seguenti: a) argomento di Platone. È basato sulla conoscenza che
l'anima ha delle idee del Bello, del Bene, del Vero, del Giusto, del Santo,
ecc. Ora, questa conoscenza si raggiunge non mediante i sensi, ma pi$t- tosto
con l’allontanamento da essi. Vi è quindi una vita propria dello !° B. MONDIN,
vol. I, ‘pp. 88 ss.; vol. II, pp. 1402142; 189-191. 1! Ivi, pp. 137-139;
286-290. !? B. MONDIN, vol. II, pp. 238-239; 345-347. B1 b) unione sostanziale
c) identificazione d) agnosticismo Il destino ultimo: estinzione o sopravvivenza?
Immortalità dell'anima secondo: — Platone: l’affinità dell'anima con il mondo
delle idee — Agostino: la conoscenza delle verità eterne — Tommaso: il
desiderio naturale della sopravvivenza — Cartesio: non si può provare la
corruttibilità dell'anima spirito, che si svolge tutta sola, indipendentemente
dal corpo. « Quan- do compie da sola la ricerca, l’anima si slancia verso ciò
che è puro, eterno, immortale e sempre uguale a se stesso; e, sentendo la pro-
pria affinità con esso, vi dimora per tutto il tempo che le è con- cesso, e
trova pace nel suo errare, e posta in contatto con tali realtà, permane essa
stessa costante e immutabile ».* L'affinità, la parentela con l'Idea, che è
eterna, è il perno dell'argomento platonico. In quanto spirito la nostra anima
è fatta per l’Idea e di essa si nutre e per essa vive della vita dello spirito.
Ora l’Idea è eterna, immuta- bile. Di conseguenza anche la nostra anima, che è
affine ad essa e vive di essa, è eterna ed immutabile; b} argomento di
sant'Agostino. È basato anch'esso sulla cono- scenza delle verità eterne. «
L'anima, dice Agostino, nella conoscen- za intellettiva attinge la verità. Ora,
in quanto sede della verità, l’a- nima è immortale allo stesso modo della
verità. Infatti se ciò che si trova in un soggetto è eternamente duraturo, è
necessario che lo stesso soggetto sia eternamente duraturo. Ma poiché ogni
scienza risiede sempre in un soggetto, è necessario che l’anima duri per sem-
pre. Ma dato che la scienza è verità e la verità dura per sempre, anche l’anima
dura per sempre, né si potrà mai dire che essa muore »;! c) argomento di san
Tommaso. È basato sul desiderio naturale che l'uomo ha di sopravvivere alla
morte e di non morire mai. Ecco come ragiona san Tommaso: « È impossibile che
una tendenza na- turale sia vana. Ora l'uomo brama per natura di durare in
perpetuo. E questo appare chiaro dal fatto che l'essere è ciò che da tutti è
desiderato; l’uomo poi mediante l'intelletto percepisce l'essere non soltanto
in un dato momento (come si trova realizzato hic et nunc), a modo degli animali
bruti, ma assolutamente. Dunque l’uomo con- segue la perpetuità nella sua parte
spirituale, vale a dire l’anima, per la quale percepisce l'essere assolutamente
e secondo ogni tempo »;! d) argomento di Cartesio. È basato sull'impossibilità
di provare che l’anima umana sia logorata dal tempo e destinata a perire: « Non
abbiamo nessun argomento e nessun esempio che ci persuada che la morte, o
l'annientamento di una sostanza quale lo spirito, debba seguire da una causa
così leggera come un cambiamento di figura, il quale non è altro che un modo, e
di più un modo del corpo e non dello spirito... Non abbiamo nessun argomento né
esempio che ci possa convincere che vi sono delle sostanze spirituali soggette
ad essere annientate »; — posizione agnostica. È la posizione di coloro che
ritengono che il problema della sopravvivenza dell’uomo dopo la morte del corpo
sia insolubile. Tracce di questa posizione si incontrano già 4 :PLATONE,
Fedone, c. 27. 4 S. AcosTINO, Soliloquia, II, c. 13. 4 S. TomMaso, Summa contra
gentiles, II, c. 79. * CARTESIO, Meditazioni, Laterza, Bari 1954, p. 156. 82 in
alcuni filosofi del Medioevo (Abelardo, Scoto, Occam) e del Rinascimento
(Valla, Zabarella, Caietano); ma diviene una posizione molto seguita dal
momento in cui essa ottiene il suffragio di due dei massimi esponenti della
filosofia moderna: Hume e Kant, i quali come sappiamo, in conseguenza dei loro
postulati epistemologici, ritengono che la sfera della realtà oggettiva (sia
essa materiale oppu- re spirituale) sia inaccessibile alla nostra mente. La
posizione agno- stica è molto diffusa anche ai nostri giorni. Ci sono, oggi,
tanti stu- diosi i quali non negano l'immortalità dell'anima ma ritengono che
non sia possibile risolvere questo problema mediante prove attinte dalla
metafisica. C'è poi un gruppo di teologi capeggiato da Barth e Cullmann, il
quale considera la teoria dell'immortalità dell'anima incompatibile con la
Rivelazione biblica e, pertanto, ritiene che il cristianesimo primitivo si sia
reso colpevole di un errore imperdo- nabile allorché ha tradotto la dottrina
biblica della risurrezione dei morti nella teoria greca dell'immortalità
dell'anima.” Tale è, a grandi linee, il quadro del problema antropologico così
come si è venuto delineando attraverso i secoli. Con la sua lunga serie di
tentativi di soluzione, tentativi quasi sempre insoddisfacen- ti, esso comprova
l'esattezza della affermazione di Agostino: « Gran- de mistero è l'uomo ». In
effetti, messi di fronte a noi stessi, per cercare di cogliere la vera natura
del nostro essere ed il nostro ultimo destino, dobbiamo riconoscere che non
riusciamo a realizzare que- sta impresa: capaci di risolvere complicati
problemi relativi alla fisica, alla matematica, all'astronomia, all'economia,
alla politica, ecc., non siamo però in grado di spiegare con sufficiente
chiarezza la problematicità del nostro essere, della nostra vita e del nostro
de- stino. 3. Il significato dell’autotrascendenza Una delle costanti del
comportamento umano è di superare, tra- scendere sistematicamente quello degli
animali: l'uomo sorpassa gli animali nel pensiero, nella libertà, nel lavoro,
nella parola, nel di- vertimento, nella tecnica ed in tante altre cose. ° Ma
ciò che è ancor più singolare è la presenza in tutte le espres- sioni
dell'agire umano di un altro tipo di superamento, di trascen- denza, la quale
non è più volta verso l'esterno, verso gli altri esseri viventi, bensì verso
l'interno, verso l’uomo stesso: questi in tutto ciò che fa, dice, pensa, vuole,
desidera, mostra di tentare costante- mente di superare se stesso. L'uomo è
essenzialmente segnato dal- l’autotrascendenza. .I filosofi del nostro tempo
ancor più che i filosofi dei secoli pre- ” O. CULLMANN, « Immortalità
dell'anima o risurrezione dei morti», in Protestantesimo, 1956, pp. 48-74. 83
Insolubilità del problema: l’agnosticismo da Abelardo a Kant Barth e Culmann:
incompatibilità tra immortalità e risurrezione Trascendenza e autotrascendenza:
la tensione oltre il limite Soluzione egocentrica: il perseguimento della
propria perfezione Ritrovare se stessi in pienezza cedenti vedono
nell’autotrascendenza il tratto più caratteristico del- l'essere umano e
ritengono quindi che si possa giungere alla com- prensione di quest'ultimo
soltanto chiarendo il senso dell'auto- trascendenza. Ma su questo punto le loro
opinioni sono discordi. Vo- lendo schematizzare si possono ridurre a tre.
Secondo alcuni l’auto- trascendenza ha come obiettivo il perfezionamento del
soggetto che si autotrascende (soluzione egocentrica). Secondo altri il suo
obiet- tivo è il perfezionamento della comunità, dell'umanità (soluzione
filantropica). Secondo altri ancora il suo obiettivo primario è Dio: chi si
autotrascende si distacca da se stesso per raggiungere Dio (soluzione
teocentrica). a) Soluzione egocentrica - In tutte le epoche della storia
troviamo filosofi insigni che interpretano l'autotrascendenza come supera-
mento di ciò che l'uomo è attualmente al fine di raggiungere uno stato
superiore di esistenza, di perfezione, di felicità. Tra i sosteni- tori più
rappresentativi di questa soluzione figurano Platone, Aristo- tele, gli Stoici,
Cartesio, Hegel, Nietzsche, Sartre. ‘Sul senso ultimo dell'esistenza umana
tutti gli autori citati ma- nifestano un sostanziale accordo. Secondo il loro
modo di vedere, l'uomo nella vita presente si trova in una situazione precaria,
piena di deficienze e di miserie. C'è però nell'uomo una tensione (più o meno
forte a seconda dei casi) di superare tale situazione e di libe- rarsi-dalla
schiavitù dell'ignoranza, dell'errore, della paura, delle passioni. Ma questo
sforzo di autotrascendenza non vuole essere un’alienazione da se stessi e
un'immersione in qualche altro essere diverso da sé. L'intento
dell’autotrascendenza è di ritrovare se stessi mediante l'acquisto di un essere
più vero, più proprio e più autentico, effettuando una attuazione più piena e
più completa delle proprie possibilità. A nostro parere questa interpretazione
dell’autotrascendenza è valida nei limiti di ciò che afferma. Essa riconosce giustamente
che l'uomo supera costantemente se stesso non per disfarsi della propria realtà
ma per realizzarla più pienamente. L'uomo vuole acquisire nuovi livelli di
conoscenza, nuovi gradi di cultura e di benessere, ma senza buttare a mare
quanto già conosce, può e possiede. L'auto- trascendenza non è una restituzione
della macchina vecchia per l’ac- quisto di quella nuova, ma è piuttosto una
revisione e un nuovo col- laudo della macchina vecchia. L'autotrascendenza non
è un'immola- zione di se stessi a vantaggio di qualche altro. Ma essa è
anzitutto e soprattutto ricerca d'un essere personale più perfetto. Però in
questa interpretazione dell’autotrascendenza rimane insoluto il problema di
come si possa portare a compimento questo processo di più completa autorealizzazione,
in quanto da tutti gli autori sopracitati questa impresa è affidata alla
iniziativa e alle forze dell'uomo. Ora, l’esperienza insegna che nella maggior
parte dei casi i nostri sforzi vengono sistematicamente frustrati: non acqui-
siamo mai né il sapere, né l'avere, né il potere, né l'essere che vor- 84
remmo. Ma allora l’autotrascendenza non diviene uno sforzo insen- sato e vano?
A questo interrogativò cruciale l’interpretazione ego- centrica non offre
nessuna risposta. Per avere una risposta dobbia- mo rivolgerci alle altre due
interpretazioni. b) Soluzione sociocentrica - A partire da Marx e Comte
numerosi autori hanno visto nell’autotrascendenza un movimento di supera- mento
dei confini dell’individualismo e dell'egoismo e un tentativo di dare origine
ad una nuova umanità affrancata dalle miserie indi- viduali e dalle
diseguaglianze sociali e quindi in grado di conseguire la perfetta felicità.
Recentemente questa concezione dell'autotrascen- denza ha trovato dei validi
interpreti soprattutto nei marxisti revisio- nisti, Bloch, Marcuse e Garaudy. A
nostro avviso questa interpretazione contiene un punto assai positivo: il
riconoscimento che il movimento di autotrascendimento ha anche una dimensione
sociale: è l'uomo come essere socievole che si autotrascende e non come una
monade senza porte e senza finestre. Del resto questo trascendimento a livello
sociale oggi è am- piamente testimoniato dalle contestazioni che le giovani
generazioni (ma non soltanto loro) sollevano contro le strutture attuali della
so- cietà (di qualsiasi società sia capitalista che socialista). Ma il
riconoscimento che l’autotrascendenza abbia una compo- nente sociale non
significa affatto che essa non comporti anche un elemento personale. Quanto è
stato affermato dalla concezione ego- centrica non può essere ignorato
completamente come fanno tutti i marxisti, sia quelli ortodossi che i
revisionisti. E pertanto la soluzione che Marx e discepoli offrono al problema
dell'autotrascendenza non può essere accolta. Pure ammesso (anche se ciò è
decisamente assai improbabile) che nel suo progressivo auto- trascendersi
l'umanità raggiunga uno stadio finale di perfetta rea- lizzazione di se stessa
e delle proprie esigenze, questo non offre nes- suna risposta al problema della
propria, personale autotrascendenza. In effetti nessuna comunità storica
organizzata, nessuna economia, nessuna politica, nessuna cultura umana riescono
ad esaurire l’esi- genza di totalizzazione delle persone che trova espressione
nell’auto- trascendenza. Per questo motivo assegnare al movimento di autotra-
scendenza traguardi affascinanti e spettacolari che potranno essere raggiunti
dall’umanità soltanto in un lontano futuro, come fanno Marx, Comte, Bloch,
Garaudy e altri, significa lasciare completa- mente disattese e deluse speranze
reali degli uomini d'oggi, che oltre che collettivamente e socialmente sperano
anche e soprattutto individualmente e personalmente, ciascuno per il proprio
essere, e non tanto per la realizzazione di una nebulosa « società senza clas-
si », di cui siamo ben poco sicuri di poter mai far parte.!? Ha ragione quindi
Helmut Gollwitzer quando scrive: « Tutti i o Cfr. J. DE FINANCE, Essai sur
l'agir humain, Gregoriana, Roma 1962, P. S. Ivi, pp. 185 ss. 85 Soluzione
sociocentrica: la realizzazione di una nuova umanità Componente sociale ed
elemento personale Contingenza dei fenomeni ed esigenza del significato
dell’uomo Soluzione teocentrica: Dio è l'Alfa e l’Omega dell’autotrascenden- za
L’autotrascendenza come prova dell’esistenza di Dio fenomeni di questo mondo
sono destinati a decadere col tempo; non possono quindi conferire un senso
permanente alle cose. Non rimane allora che l’uomo a dare un significato
all'uomo. Ma il prossimo che è altrettanto transitorio e imperfetto, non è
capace di fornire questa spiegazione — per quanto ci si possa, nel caso pratico
individuale, attaccare al prossimo nella speranza di trovare in lui il
significato dell’esistenza —. Sembra allora più qualificata a far ciò l'umanità
nel suo complesso, la cui durata supera di gran lunga quella dell’indi- viduo.
Essa però è un'astrazione di grado elevato e bisognerebbe chiudere gli occhi
per ignorare il fatto che anch'essa è un fenomeno passeggero nel cosmo. Per
trovare un significato, si deve presuppor- re un'istanza permanente. Mancando
questa, s'impone all'uomo e al- l'umanità un peso che non possono portare, un
compito che non possono svolgere ».® c) Soluzione teocentrica - Molti studiosi
all'autotrascendenza danno un senso teocentrico: l’uomo esce incessantemente da
se stesso e oltrepassa i confini della propria realtà, perché vi è sospinto da
una forza superiore, Dio. Questi grazie alla sua grandezza, bontà, perfezione e
onnipresenza polarizza su di sé tutte le creature, in particolare l'uomo. Dio è
il punto A/fa e Omega dell'autotrascen- denza. I più validi esponenti di questa
interpretazione dell'autotrascen- denza sono Blondel, Rahner, Marcel, Metz,
Boros e De Finance. Ma contro questo modo d'intendere l’autotrascendenza si
solleva una grossa difficoltà, che è la seguente: l’autotrascendenza teocen-
trica dà per scontata la realtà di Dio. Ora questa è una concessione che la
filosofia moderna non è affatto disposta a fare. Oggi c'è tutta una schiera di
filosofi i quali affermano che Dio è assolutamente in- conoscibile e
indimostrabile, oppure dicono che l’idea di Dio è sol- tanto una
ipostatizzazione dei bisogni e degli ideali dell'uomo, cioè Dio è una creatura
della mente umana. A questa grave difficoltà Blondel, Rahner, De Finance e gli
altri sostenitori del senso teocentrico dell’autotrascendenza replicano che la
loro interpretazione del movimento di autotrascendimento non presuppone nessuna
dimostrazione dell’esistenza di Dio, ma al con- trario essa fa vedere che è
questo stesso movimento a fornire un chiaro documento a favore della realtà
divina. Infatti l'autotrascen- denza, essendo un movimento, esige un senso, un
traguardo, una meta. Ma s'è già visto in precedenza che né l’io né l'umanità
possono fornire il senso richiesto. Perciò non resta altra possibilità che rico-
noscere che il senso ultimo dell'autotrascendenza è Dio. Perciò a nostro avviso
commettono grave errore quei filosofi (e sono molti) che contrappongono la
trascendenza orizzontale a quella verticale, come se si trattasse di due
tensioni antitetiche, quando ®* H. GOLLWITZER, La critica marxista della
religione e la fede cristiana, Morcelliana, Brescia 1970, p. 118. 86 invece ci
sono fondati motivi per credere che la trascendenza oriz- zontale acquista
senso e realtà soltanto mediante la irascendenza verticale. Lo stesso
Merleau-Ponty ha giudicato stolto il tentativo di opporre trascendenza
orizzontale e trascendenza verticale, attri- buendo alla prima quello che si
toglie alla seconda e concependo la Storia infinita e progressiva come « una
Potenza esteriore », di cui l'uomo non sarebbe che strumento senza sostanza
interna. « Non è mai stata tipica di nessuna filosofia, — assicura
Merleau-Ponty, — la scelta tra le trascendenze, per esempio quella di Dio e
quella del- l'avvenire umano; che anzi è sforzo costante di ogni filosofia me-
diare tali trascendenze ».? Questo incontro tra le due trascendenze è stato
ultimamente lu- cidamente esplorato da Antoine Vergote. Egli descrive in modo
e- gregio la trascendenza orizzontale (egocentrica) nei termini seguen- ti: «
L'uomo è corporalmente legato al mondo che lo porta. Ma ne è il centro movente.
Tutte le direzioni di senso, in avanti e all’in- dietro, in lontananza e in
vicinanza, a destra e a sinistra sono relative alla totalità del suo io
corporeo. Centro contingente e asso- luto, riferisce tutto a sé e, nel
guardare, toccare o semplicemente nel camminare, si muove nello spazio
ambiente. La dimensione oriz- zontale gli offre il campo che si estende davanti
a lui. Egli vi sfoggia la sua potenza, lo ordina e gli dà senso.
L'orizzontalità è il terreno delle sue possibilità e delle sue realizzazioni.
Egli vi mostra la propria vita nell'immediato. Vi si muove instancabile,
padrone di quanto lo circonda, dando forma ai suoi desideri e alle sue idee ».
Ma nell’uo- mo la trascendenza orizzontale si apre spontaneamente e chiaramen-
te verso la trascendenza verticale. Questa è felicemente illustrata dal Vergote
nel brano seguente: « Il desiderio dell’uomo, il suo pensiero e il suo
linguaggio si slanciano senza tregua al di là del mondo de- gli oggetti o si
volgono verso la loro origine, verso la sorgente ori- ginaria da cui
scaturiscono. La scissura verticale scava la sua pre- senza negli uomini e
nelle cose, perfino quando vuole recuperarsi tra- mite un ritorno orizzontale.
Ed è precisamente la presenza interiore di una liberatrice deiscenza verticale
che crea nelle cose un'apertura, salvaguardandole da ogni reificazione. È essa
che garantisce così al mondo ambiente la sua separazione e la sua autonomia,
nei limiti definitivi di un orizzonte del mondo in perpetua estensione ».? A
conclusione della sua penetrante analisi del senso della trascen- denza
verticale il Vergote scrive: « Il cielo non sovrasta l'uomo come un'oscura
trascendenza minacciosa. E non è neppure il miraggio di un paradiso che aliena
dai problemi della terra. Delimita invece la terra come dimora e regno
dell'umano. Esso è anche l’indizio di un ? M. MERLEAU-PonTY, Signes, 1960, pp.
88-89. Ro La teologia e la sua archeologia, Esperienze, Fossano 1974, pp. 79-80.
87 integrazione della trascendenza orizzontale e verticale Il cielo delimita la
terra ma non la nega L’Altro assoluto sorgente dell’ipseità e superamento del
limite superamento che non spezza mai il legame terrestre della condizione
umana ».# L'uomo non esce dai confini del proprio essere per sprofondare nel
nulla, ma esce da se stesso per buttarsi in Dio, il quale è l'unico essere
capace di portare l’uomo alla perfetta e perenne realizzazione di se stesso, «
Ciò che è necessario riconoscere, è che lo slancio verso l'Ideale non è
possibile e non ha significato che a causa della presen- za affascinante e in
certo qual modo aspirante dell’Ideale sussi- stente o, per dargli il nome sotto
il quale l’invoca la coscienza reli- giosa, di Dio. È lui e lui solo — l'Altro
assoluto e cionondimeno la sorgente della mia ipseità — che pur consegnandomi a
me stesso mi strappa al mio io; è la sua presenza che introduce in me un
principio di tensione interiore e di oltrepassamento ».* Così, lungi dal
fondare l’'Ideale, l'autotrascendenza dell’uomo tro- va il suo ultimo
fondamento. CONCETTI DA RITENERE — Cosmocentrismo; teocentrismo;
antropocentrismo — Antropologia metafisica, naturalistica, storicistica,
esistenziale — Traducianesimo; emanazione; creazione simultanea; creazione
indivi- duale e diretta; evoluzione; unione accidentale; unione sostanziale;
identifica- zione anima/corpo — Posizione agnostica — Estinzione, sopravvivenza
— Autotrascendenza; soluzione egocentrica, filantropica, teocentrica SINTESI
CONTENUTISTICA I. NATURA DEL PROBLEMA 1. Interesse costante della filosofia per
l’uomo fino a farne l’obiettivo pri- vilegiato con i Sofisti e Socrate. 2. La
filosofia moderna assume un indirizzo spiccatamente antropocentrico, Oggi
persino i teologi ritengono opportuno dare alla loro disciplina una impo-
stazione antropocentrica. 3. Diviene pertanto sempre più urgente rispondere
all'interrogativo chi sia l'uomo e confrontarsi con la complessità della sua
natwira e del suo mistero. Il problema antropologico investe il problema della
natura umana in quanto tale: qual è l'essenza propria dell'uomo? quali i suoi
elementi costitutivi? quale la sua origine e il suo fine? II. PANORAMA STORICO
DELLO STUDIO DELL'UOMO 1. Storicamente si sono delineate tre prospettive di
studio: cosmocentrica, teocentrica, antropocentrita: i A a) la prospettiva
coòmocentrica (Platone, Aristotele, Epicurei, Stoici, Neo- platonici) situa
l'uomo nell'ordine dela natura e lo studiano in relazione ad esso; ® Ivi, p.
107. J. DE FINANCE, Op. cit., p. 191. 88
b) la prospettiva teocentrica (filosofia cristiana dei Padri della Chiesa e
degli Scolastici) considera l’uomo come « immagine di Dio» e lo studia in
prospettiva teologica; c) la prospettiva antropocentrica è propria della
filosofia moderna e con- temporanea (Umanesimo, Cartesio, Hume, Kant, Hegel,
Comte, Freud, Nietz- sche, Heidegger, ecc.) e assume come punto di riferimento
l’uomo stesso accen- trandone questo o quell’aspetto. 2. Le antropologie
possono distinguersi anche in ordine al metodo: 1) an- tropologie metafisiche
(Platone, Aristotele, Plotino, Agostino, Tommaso, Carte- sio, Spinoza, Leibniz,
ecc.); 2) le antropologie naturalistiche (Darwin, Comte, Spencer, Freud, ecc.);
3) le antropologie storicistiche (Vico, Marx, Croce, Ga- damer, ecc.); 4) le antropologie
esistenziali (Scheler, Heidegger, Sartre, Ricoeur, Merleau-Ponty, Marcel,
Gehlen, ecc.). 3. Nel panorama antropologico domina il problema della libertà:
a) nel mondo classico essa è una vana aspirazione vinta dalle forze del Fato;
b) nel mondo post-cristiano emerge come il dono di Dio all'uomo responsabile
così della sua storia e del suo destino; c) nell'epoca moderna la libertà
legittima il graduale distacco dell'uomo da Dio; d) nell'epoca contemporanea
l’antropolo- gia oscilla tra arbitrarietà e condizionamento. 4. Il problema
della natura umana è così determinabile: — problema della sostanzialità
dell'anima — problema dei rapporti tra anima e corpo . — problema
dell'immortalità dell'anima. Il pensiero contemporaneo ha progressivamente
accentuato altri aspetti da cui derivano definizioni dell'uomo in base alla sua
attività fondamentale: eco- nomico (Marx); sessuale (Freud); esistenziale
(Heidegger); storico (Gadamer); fallibile (Ricoeur); dialogico (Buber); utopico
(Bloch); religioso (Luckmann); mitologizzante (Eliade); alienato (Tillich);
libero :(Sartre); problematico {Mar- cel); ludico (Fink). III. IL SIGNIFICATO
DELL'AUTOTRASCENDENZA 1. Il comportamento umano supera quello degli animali.
L’agire umano, inoltre, non esprime solo una trascendenza rivolta all’esterno,
ma anche ri- volta verso l’uomo stesso. L'uomo è autotrascendente. 2.
L'autotrascendenza dell’uomo è interpretata in tre direzioni: a) egocentrica
(Platone, Aristotele, Stoici, Cartesio, Hegel, Nietzsche, Sar- tre): l'uomo
tende a ritrovare se stesso mediante l'acquisto di un essere più vero, più
autentico, attuando pienamente le proprie possibilità; b) sociocentrica (Marx,
Comte, Bloch, Marcuse, Garaudy): l’autotrascendi- mento è uscita dall’egoismo e
ha una dimensione sociale; c) ieocentrica (Blondel, Rahner, Marcel, Metz,
Boros, De Finance): l’uomo esce incessantemente da se stesso e oltrepassa i
confini della propria realtà sospinto da una forza superiore, Dio. QUESTIONARIO
DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Perché l'uomo è un problema a se stesso? Sotto
quali aspetti si presenta come un problema filosofico? 2. Quali sono le
principali prospettive in cui si sono collocati i filosofi per risolvere il
problema antropologico? 3. Quali sono i metodi usati dai filosofi nello studio
dell'uomo? 4. Come interpretano i rapporti tra anima e corpo Platone,
Aristotele, Agostino, Tommaso, Cartesio, Spinoza, Malebranche, Leibniz? 5.
Perché secondo Kant il problema antropologico è insolubile? 6. Perché la morte
del corpo non implica necessariamente la fine di tutto l’uomo? 89 7. A che cosa
è riconducibile il problema metafisico e religioso come esi- genza peculiare
della natura umana? 8. In che rapporto si trova il singolo con le strutture
sociali, economiche, politiche? 9. Quali sono le principali opinioni sul
significato di autotrascendenza del- l'essere umano? 10. Quale rapporto è
possibile stabilire tra l’autotrascendenza e la dimen- sione etica e politica
dell'uomo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Il problema filosofico
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Tommaso d'Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1965. Ip., Uomo e natura. Appunti per
una antropologia filosofica, Vita e Pensiero, Milano 1980. 90 Capitolo settimo
IL PROBLEMA METAFISICO ‘QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che cosa c’è a fondamento
e a garanzia dell’esistenza? 2. Che cosa esprimono le parole « esistere », « essere
»? 3. Che cosa accadrebbe se esse scomparissero dal linguaggio umano? 1.
L'origine del termine L'origine del termine metafisica è legata all'opera di‘
Aristotele e al destino dei suoi scritti dopo la sua morte. Aristotele morendo
lasciò la propria biblioteca al discepolo Teo- frasto. Essa conteneva, oltre le
opere pubbliche degli altri filosofi e di Aristotele, anche gli scritti privati
del maestro, riservati alla stretta cerchia dei discepoli, tra i quali la
Metafisica. A sua volta, morendo, Teofrasto lasciò con la propria biblioteca
anche quella di Aristotele a Neleo, discepolo di ambedue. Questi la trasportò a
Scepsi, nella Troade, sua patria. Qui i suoi eredi, per sottrarla alle ricerche
dei sovrani di Pergamo e di Alessandria, che intendevano ar- ricchire le
proprie raccolte acquistando tutte le opere importanti su cui riuscivano a
metter mano, la nascosero in un sotterraneo, dove ri- mase poi abbandonata e
quasi ignorata fino verso il 100 a.C., anno in cui il bibliofilo Apellicone la
scoprì, l’acquistò e la portò ad Atene. Quando nell'86 a.C. Silla conquistò la
città, fece portare i preziosi manoscritti a Roma, dove furono affidati ad
Andronico di Rodi, affin- ché ne curasse l'edizione completa. Egli li suddivise
e, poiché dopo avere ordinato le opere di fisica si era trovato davanti ad un
gruppo di 14 libri senza nome, allora aveva deciso di chiamarli «i libri che
vengono dopo la fisica » (tà metà tà physicà). Il nome, originato in modo così
casuale, corrispondeva effettivamente al contenuto dei volumi: essi infatti
trattavano di realtà, qualità, perfezioni, es- seri, che non si trovano oppure
non si restringono al mondo fisico, ma vanno oltre, sono cioè « metafisiche »;
tutto ciò costituiva per Aristotele la « filosofia prima ». Quindi il nome dato
ad un gruppo delle sue opere è passato giustamente a designare quella parte
della filosofia che si occupa delle cause ultime, dei principi costitutivi su-
premi delle cose. 91 II problema delle cause ultime e dei principi supremi La
scienza dell'essere in quanto tale Scetticisti, empiristi e materialisti:
negazione della metafisica Il dibattito metafisico non è più controverso di
quello scientifico La validità della definizione aristotelica 2. Oggetto della
metafisica La metafisica è stata variamente definita: come « scienza suprema in
assoluto, che studia l'essere in quanto tale e le proprietà che lo accompagnano
necessariamente » ed è « la scienza che esplora le cause prime e i primi
principi » (Aristotele); come « scienza dei principi primi della natura e della
morale » (Kant); come « immer- sione della propria esistenza nelle possibilità
fondamentali dell’esse- re considerato nella sua totalità » (Heidegger); come «
riflessione sui principi primi » (Gilson). L'elenco delle definizioni potrebbe
con- tinuare ancora, ma quelle riportate bastano ad indicare qual è la
preoccupazione che dà vita all'indagine metafisica: è la preoccu- pazione di
scoprire le ragioni supreme della realtà. La possibilità della metafisica è
stata messa in questione ripetuta- mente per ragioni diverse. Prima dagli
scettici a causa della loro sfi- ducia nelle capacità conoscitive dell'uomo,
poi dagli empiristi a causa della loro riduzione della conoscenza umana
all'esperienza sensitiva, più tardi dai positivisti, dai materialisti, dai
marxisti a motivo della loro riduzione di tutta la realtà all'ordine materiale,
e, infine, dagli analisti del linguaggio a causa della loro riduzione di tutti
i pro- blemi, compresi quelli filosofici, a puri problemi linguistici. Però
pare che nessuna delle suddette ragioni abbia valore pro- bativo. Anzitutto non
è affatto vero che quando i filosofi discutono della realtà delle cose, della
loro origine, del loro essere, della loro natura, del loro divenire, ecc.,
discutano soltanto sul significato dei termini « realtà », « origine », «
natura », « essere », « divenire », per il semplice motivo che i dispareri tra
i filosofi non sono di natura diversa da quelli che si incontrano tra gli
scienziati. Ora nessuno vorrà affermare che quando i dotti della Sorbona non
condividevano la teoria dei coniugi Curie a proposito del radium, il loro
disaccordo riguardasse solamente la parola « radium ». Altrettanto si deve dire
del disaccordo dei filosofi a proposito dei principi primi della realtà, della
natura, dell'essere delle cose. Non sono semplicemente disac- cordi verbali; il
disaccordo non verte sul significato delle parole ma sulle cose stesse. Neppure
è vero (e la prova è stata fornita nel capi- tolo dedicato al problema
epistemologico), che l'uomo è dotato sol- tanto di conoscenze sensitive. Noi
possediamo anche una conoscenza superiore a quella sensitiva, di ordine
intellettivo, capace di raggiun- gere la verità entro certi limiti. Vengono
così a crollare le obiezioni mosse dagli scettici e dagli empiristi alla possibilità
della metafisica. Ma, ammessa la legittimità dell'indagine metafisica, qual è
l’og- getto al quale essa è diretta? Aristotele, come abbiamo ricordato,
determina l’oggetto della metafisica con la celebre espressione: l'essere in
quanto tale e le proprietà che l'accompagnano necessariamente. Quasi tutti i
filosofi sono d'accordo sulla bontà di questa definizione: chi fa metafisica 92
scruta il mistero dell'essere degli enti al fine di scoprire che cosa sia che
dà loro consistenza, che li riempie di realtà. Alla domanda « che cos'è
l'essere dell'ente » si arriva così: si osserva anzitutto nelle cose una
molteplicità di aspetti, che le ren- dono interessanti, meravigliose,
spaventose, problematiche, ecc. A poco a poco, però, un aspetto attira con maggior
forza la nostra attenzione, l'aspetto della loro esistenza, il loro essere:
anziché non essere, le cose sono! Improvvisamente la mente avverte la fondamen-
talità di tale aspetto a paragone di tutti gli altri e comincia ad in-
terrogarsi sull'essere delle cose, sull'essere dell'ente e nell’ente. È a
questo punto che l'indagine metafisica spicca il suo volo. Quindi l'indagine
metafisica è indagine intorno all'essere del- l'ente 0, che è poi lo stesso,
indagine intorno all'ente in quanto es- sere. La metafisica è essenzialmente
ricerca intorno all'essere. Quan- do invece il filosofo abbandona la questione
dell'essere, egli si al- lontana automaticamente dal terreno della metafisica.
Da ciò che siamo venuti dicendo risulta che l'oggetto formale della metafisica
non è questa o quella cosa, questa o quella qualità, questo o quel principio;
oggetto formale della metafisica non è nep- pure l'ente, nessun ente: né l'ente
materiale né quello spirituale, né l'ente necessario né quello contingente. Lo
studio di questo o quel- l'ente particolare, di questa o di quella specie di
ente non spetta alla metafisica ma ad un altro ramo della filosofia oppure ad
una delle scienze sperimentali. L'oggetto formale della metafisica è l'essere
in quanto tale. L'ente materiale non è il suo oggetto formale ma solo il suo
punto di partenza. Solamente l'essere dell'ente (l’ente consi- derato nella sua
qualità di essere, l'ente in quanto è, l'ente conside- rato dal punto di vista
dell'essere) costituisce l'oggetto formale del- la metafisica. Naturalmente la
metafisica non si accontenta di parlare dell'ente in quanto essere, perché il
suo resterebbe un discorso puramente a- stratto. Essa deve parlare anche di
tutto ciò che è implicato in una risposta esauriente all'interrogativo: « Che
cos'è l'essere dell'ente? ». Però è bene precisare che non tutto appartiene al
discorso metafisico allo stesso modo. L'essere dell'ente costituisce l'oggetto
formale; il resto rientra nel discorso metafisico come risultato dell'indagine.
Quindi se per spiegare l'essere dell'ente occorrerà parlare di Dio, questi non
entrerà a far parte dell'oggetto formale della metafisica, ma dei suoi
risultati. 3. Metodo della metafisica Dunque l'oggetto della metafisica è
l'essere in quanto tale. Se- nonché dobbiamo constatare, come osserva
giustamente Heidegger, che l'essere non è mai accessibile direttamente e
immediatamente: l'essere non si manifesta mai da solo; non ci parla mai a tu
per 93 L’essere oggetto della metafisica L’uomo: l’ente che si interroga
sull’essere Metodo deduttivo e metodo induttivo Esigenza di tre metodi:
fenomenologico, induttivo e deduttivo tu; ma è sempre velato, nascosto sotto la
maschera di un ente par- ticolare. Perciò, si può arrivare all'essere soltanto
passando attra- verso gli enti. Ma, attraverso quale ente? A quale dei
moltissimi en- ti che affollano la grande scena dell'universo è più opportuno
rivol- gersi per spiare la natura dell'essere? C'è qualche ente privilegiato
che meglio di ogni altro possa svelarci i segreti dell'essere? Gli esi- stenzialisti
hanno sottolineato il fatto che il nostro ente (quell’ente che noi chiamiamo «
uomo ») ha per l’essere un interessamento del tutto particolare: è l’unico ente
che si interroga sull'essere; gli importa molto di scoprire che cosa sia
l'essere in quanto tale, e so- prattutto che cosa sia l’essere del nostro ente.
Gli esistenzialisti tro- vano in questa singolare vicinanza del nostro ente
all'essere un mo- tivo sufficiente per iniziare la metafisica con lo studio
dell'essere dell'uomo, uno studio che essi conducono secondo il metodo fenome-
nologico. Invece nel passato per risolvere il problema metafisico i filosofi
ricorrevano generalmente o al metodo deduttivo oppure a quello in- duttivo.
Platone, Plotino, Agostino, Avicenna, Bonaventura, Cartesio, Leib- niz e molti
altri, movendo dal presupposto che la mente umana co- nosce a priori o per
illuminazione divina i principi primi e le idee universali oppure considerando
il conoscere non come un apprendere ma come un creare, hanno potuto procedere nell'indagine
metafisica servendosi esclusivamente del metodo deduttivo. Altri filosofi, tra
cui Aristotele, Tommaso d'Aquino e molti mo- derni, non ammettendo le idee a
priori e neppure una illuminazione speciale da parte di un essere metaempirico
e neanche concependo il conoscere come un creare bensì come un rappresentare,
hanno im- piegato il metodo induttivo. A nostro avviso, l'indagine metafisica
per essere seria, feconda e concreta, esige l’uso di tre metodi: quello
fenomenologico, quello induttivo e quello deduttivo. I primi due servono ad
assicurarle una solida base nel concreto, mentre il terzo va incontro
all’esigenza del- la metafisica di offrire una visione sistematica del reale.
4. Sguardo storico Tracciare la storia del problema metafisico equivale
sostanzial- mente a tracciare la storia della filosofia occidentale, ché la
primà e massima preoccupazione di tutti i filosofi dei periodi antico, me-
dioevale e moderno è sempre stata quella di fornire una spiegazione conclusiva
dei fenomeni che noi esperimentiamo, scoprendo la cau- sa suprema, la ragione
ultima del loro essere. L'intento metafisico è già chiaramente presente nei
filosofi io- nici: è la causa ultima che essi ricercano, anche se poi in
effetti 94 la situano in uno dei quattro elementi costitutivi della materia,
l’acqua, l'aria, la terra, il fuoco. Con Parmenide la metafisica non è più una
semplice aspirazione ma diviene un'autentica realtà. Infatti, additando
l'essere quale prin- cipio unico e supremo d'ogni cosa, egli introduce la metafisica
nel- l'ambito che le è proprio e che resterà tale per sempre. Platone
approfondisce la ricerca dell'essere, distinguendo tra ciò che veramente è e
ciò che invece è solo in modo apparente, finito, contingente. Ciò che veramente
è egli io identifica col mondo delle Idee: esso è ingenerato, eterno,
incorruttibile; mentre ciò che sem- plicemente appare lo identifica col mondo
materiale: esso è finito, mutevole, contingente, corruttibile. Ovviamente, per
Platone, il mon- do ideale è il fondamento, la causa di quello materiale. In
che mo- do? È noto che su questo punto Platone non ha mai raggiunto una
posizione definitiva. Egli ha formulato due ipotesi: quella della par-
tecipazione delle cose nelle Idee, e quella della imitazione delle Idee da
parte delle cose. Ma entrambe presentavano alcune grbsse diffi- coltà e questo
gli impedì di ascrivere certezza assoluta alle sue ipo- tesi metafisiche.’ -
Aristotele, l'abbiamo già detto e ripetuto, definisce il problema metafisico
come « studio dell'essere in quanto tale e delle proprietà che l'accompagnano
necessariamente ». Egli identifica tale studio con quello delle quattro cause:
materiale, formale, efficiente, finale. Ma le quattro cause di che cosa?
Ovviamente, del mondo materiale che ci circonda. È scoprendo i principi
fondamentali che sorreggono questo mondo che si dischiude il mistero
dell'essere. Peraltro, quan- do si tratta di determinare la natura specifica
delle cose materiali egli rifiuta la teoria platonica delle Idee ritenendola
come puramen- te fantastica e del tutto superflua. L'essenza delle cose, a suo
giu- dizio, non sta fuori delle cose ma nelle cose stesse. E tuttavia, quan- do
vuole rendere ragione del fondamento ultimo delle cose, anche Aristotele
ritiene necessario postulare, come aveva fatto Platone, l’esistenza di una
realtà spirituale, Dio. Questi però non lo conce- pisce come causa efficiente
del mondo, ma come suo ‘fine ultimo: Dio è il movente supremo, che col suo
fascino determina l’evolu- zione del mondo. L'impostazione e la soluzione data
al problema metafisico da Pla- tone e da Aristotele esercitarono un influsso
decisivo su tutta la speculazione posteriore. Le si ritrova sostanzialmente
inalterate presso gli Stoici, i Neopiatonici, i Padri della Chiesa, gli
Scolastici e anche presso la maggior parte dei filosofi moderni. Lo studio del-
l'essere degli enti finiti e contingenti li porta tutti a postulare l'’esi-
stenza di un Essere infinito, assoluto, necessario. Questi per gli Stoici, ! B.
MONDIN, vol. I, pp. 82-85. 2 Ivi, pp. 124-136. 95 L'emergenza metafisica in
Parmenide Platone: l'essere è il mondo delle idee Aristotele: l'essere e le sue
proprietà Influenza di Platone e Aristotele sulla speculazione posteriore
L’Essere sussistente nella filosofia cristiana Il graduale primato della gnoseologia
sulla metafisica da Cartesio a oggi L’impossibilità della metafisica per Hume e
Kant è il Logos, per i Neoplatonici l’Uno, per i Padri e gli Scolastici Dio,
per Spinoza la Sostanza, per Leibniz la Monade suprema. Ma, nella filosofia
cristiana, pur conservando essenzialmente l’im- postazione che gli avevano dato
i due massimi esponenti della filo- sofia greca, il problema metafisico fa un
notevole passo avanti e raggiunge un definitivo chiarimento su uno dei punti
più difficili ed oscuri, quello concernente i rapporti che intercorrono tra gli
enti finiti e l’Essere sussistente. Questo punto viene chiarito mediante
l'introduzione della dottrina della creazione, la quale insegna che gli enti
finiti (il mondo) devono tutta la loro realtà all'Essere sussi- stente, a Dio.
Senza Dio il mondo è assolutamente nulla, e prima d’es- sere stato prodotto da
Lui non aveva alcuna realtà. Ma anche do- po che è stato posto in essere, esso
deve la sua consistenza alla presenza attiva di Dio. Tratto dal nulla, il mondo
si muove continua- mente sull'orlo del nulla. E tuttavia proprio perché ha Dio
per pa- dre e creatore, il mondo non sarà mai sopraffatto dalle insidie del
nulla. Al contrario, sviluppando le possibilità che Dio gli ha con- ferito esso
si allontana gradualmente dall’abisso del nulla e si avvi- cina al regno
inespugnabile e indistruttibile dell'Essere sussistente.’ Il problema
metafisico, s'è detto, abbraccia gran parte della spe- culazione filosofica
fino agli inizi del secolo XIX. Occorre però preci- sare che già a partire da
Cartesio esso cede il primato, che prima era sempre stato suo, al problema
gnoseologico. Ciò che occorre affron- tare per primo è il problema del valore e
della portata della nostra conoscenza. Solo se si risolve positivamente questo
problema, è le- cito passare all'indagine metafisica. Diversamente si rischia
di co- struire dei castelli in aria. Sappiamo che Cartesio, Spinoza, Pascal,
Malebranche, Leibniz, Vico e, parzialmente, anche Locke, considerano
obiettivamente valida la conoscenza della ragione umana e, conseguentemente, se
ne val- gono per risolvere il problema del fondamento ultimo della realtà. Di
esso Cartesio, Malebranche, Pascal, Vico, Leibniz offrono una soluzione che non
si discosta gran che da quella degli autori cristia- ni che li avevano
preceduti; mentre invece profondamente ‘innova- trice è la soluzione di
Spinoza. Secondo questo autore la realtà ma- teriale non rimanda ad un piano
superiore di ordine spirituale: i due piani, materiale e spirituale, a suo
avviso, sono strettamente con- giunti tra di loro, e rappresentano le facce
d'una unica Sostanza.* Ma, dopo che il problema metafisico ha ceduto il primo
posto a quello gnoseologico, si intuisce facilmente come esso possa venire
soppiantato del tutto da quest'ultimo e definitivamente soppresso: basta
soltanto contestare il valore obiettivo e trascendente della ra- gione umana. È
la posizione che adottano prima gli empiristi inglesi e poi Kant. Per i primi
non si dà altra conoscenza fattuale al di ? Ivi, pp. 221-223; 283-286. ‘ B.
MONDIN, vol. II, pp. 164-168. 96 fuori di quella dei sensi, i quali, ovviamente
possono ben fornire catene di dati ma non garantirne l’obiettività e tanto meno
proporre una spiegazione profonda ed esaustiva della loro esistenza. Per Kant
la mente umana è sì in grado di fornire un'interpretazione ge- nerale,
scientifica della realtà fenomenica, ma soltanto di questa, non della realtà in
sé (la realtà noumenica). A proposito di quest’ul- tima è lecito sollevare
degli interrogativi, ma non fornire delle ri- sposte valide e sicure. Il
fondamento della realtà è irraggiungibile ed incomprensibile.’ Così con Hume e
Kant la sorte della metafisica è definitivamente segnata. La situazione per la
metafisica non migliora nel nostro secolo, quando, dopo aver esperimentato la
sterilità dell’'impostazione cri- tica della ricerca filosofica, alcuni autori
{ci riferiamo ai neo- positivisti e agli analisti) operano una seconda
rivoluzione coperni- cana, affermando che l’unica via per risolvere i problemi
metafisici non è quella che parte dall'essere e neppure quella che parte dal
co- noscere, ma quella che muove dal linguaggio. La questione fondamen- tale,
che dev'essere affrontata prima di ogni altra, è la questione del senso delle
nostre parole. Risolta questa questione anche le più astruse questioni
metafisiche non presentano più nessuna difficoltà. Questa impostazione
linguistica dell'indagine filosofica di per sé non è ostile alla metafisica; di
fatto però ha condotto alla sua negazione radicale, perché i filosofi del
linguaggio per determinare quali parole siano sensate e quali prive di senso
hanno assunto un criterio non meno rigorosamente empiristico di quello che i
filosofi inglesi del secolo XVIII avevano usato per risolvere il problema del
valore della conoscenza. Secondo tale criterio, detto della verifica
sperimentale, una proposizione ha significato soltanto se è tradu- cibile in
una serie di proposizioni sperimentali. Quando « una pro- posizione non è
traducibile in proposizioni di carattere empirico [...] non è affatto
un’asserzione; non dice nulla; non è altro che una se- rie di parole vuote; è
semplicemente senza senso »$ Con questo criterio di significanza crolla
ovviamente e voluta- mente qualsiasi metafisica. « È impossibile » dichiara
Carnap « ogni metafisica che voglia inferire il trascendente, cioè ciò che
giace al di là dell'esperienza, dall'esperienza stessa. [...] Non c'è affatto
una filosofia come teoria, come sistema di proposizioni con caratteristiche
proprie, che possano stare accanto a quelle della scienza ».” È per- tanto
impossibile qualsiasi visione del mondo che abbia la pretesa di essere l’ultima
risposta all'ultima domanda, che voglia fornire la 3 Ivi, pp. 345-347. $ R.
CARNAP, Philosophy and Logica! Syntax, Londra 1935, pp. 13-14; trad. it.,
Sintassi e logica del linguaggio, Silva, Milano 1961. ? R. CARNAP, «
Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache » (JI
superamento della metafisica mediante l'analisi logica del lin- guaggio,
pubblicato nel 1932 a Vienna), in Erkenntnis II (1931-1932), p. 240. 97
Linguistica e metafisica: il problema del senso delle parole Il crollo della
metafisica per il criterio della significanza Oggi la metafisica riemerge
costantemente chiave risolutiva del problema del fondamento dell'essere degli
enti. Abbandonata la metafisica, ai giorni nostri si cerca di trovare una
risposta agli interrogativi ultimi rivolgendosi o alle scienze positive o alla
storia oppure, più recentemente, alle scienze umane (psico- logia, psicanalisi,
etnologia, sociologia, ecc.). Ed oggi il dibattito sul rapporto
metafisica-scienza nell’ambito della storia della scienza è tornato a
svilupparsi in modo intenso (v. Kuhn, Lakatos, Feyera- bend, Strawson, ecc.).
Ma le risposte che si ottengono da queste discipline, anche se di notevole
interesse, non riescono neppure a scalfire il problema del fondamento ultimo
della realtà. E allora la metafisica fa di nuovo capolino in uno dei due modi
seguen- ti: o come esigenza di superare i confini angusti della storia, delle
scienze positive, delle scienze umane; oppure, e questo è il modo più comune,
mascherandosi dietro il paravento della visione gene- rale delle cose che
ognuno porta necessariamente in se stesso e che, però, quasi mai si è disposti
a riconoscere e tanto meno a concet- tualizzare rigorosamente. Così
attualmente, nonostante la generale ostilità per la metafisica teoretica, c'è
una metafisica esigenziale ed esistenziale che è più viva che mai. E questo
conferma quanto avesse ragione Kant quando di- ceva che l'uomo è un animale
essenzialmente metafisico. CONCETTI DA RITENERE — Essere; ente — Oggetto
formale; metodo induttivo, deduttivo; fenomeno logico — Mondo delle Idee;
Essere sussistente; enti finiti; creazione — Metafisica esigenziale,
esistenziale SINTESI CONTENUTISTICA I. L'ORIGINE DEL TERMINE 1. L'origine del
termine « metafisica » è legata all'opera di Aristotele e al destino dei suoi
scritti dopo la sua morte. Essi, dopo alterne vicende, furono af- fidati ad
Andronico di Rodi, il quale, ordinate le opere di fisica, si trovò davanti a un
gruppo di libri senza nome che chiamò « i libri che vengono dopo la fisi- ca »
(tà metà tà physicà). Il nome dato in modo casuale corrispondeva al con- tenuto
relativo alle realtà che vanno oltre il mondo fisico. II. OGGETTO DELLA
METAFISICA 1. Variamente definita, la metafisica esprime l'esigenza dell'uomo
di sco- prire le ragioni supreme della realtà. Nel corso dei secoli la sua
possibilità è stata messa ripetutamente in discussione da quegli orientamenti
filosofici che tendevano a ridurre l'ambito conoscitivo dell’uomo (scettici,
empiristi, positi- visti, marxisti, materialisti in genere, strutturalisti,
ecc.). 2. La capacità propria della natura umana di esercitare, oltrela
conoscenza sensitiva, quella intellettiva legittima tuttavia l'indagine
metafisica. 3. L'indagine metafisica verte sull'essere dell'ente, è
essenzialmente ricerca 98 intorno all'essere. Oggetto formale della metafisica
è l’essere in quanto tale. L'ente materiale è solo il suo punto di partenza.
III. METODO DELLA METAFISICA 1. L'essere non è mai accessibile immediatamente e
direttamente, è sem- pre velato dall'ente. C'è allora qualche ente privilegiato
che ne favorisca la rivelazione? 2. Nel nostro tempo gli esistenzialisti hanno
colto nell'uomo, l’unico ente che si interroga sull’ente, il punto di partenza
per l'indagine metafisica. 3. Nel pensiero classico la ricerca metafisica ha
assunto ora il metodo de- duttivo ora quello induttivo. I filosofi di
orientamento platonico e razionalistico sulla base dell'innatismo delle idee
hanno accentuato la deduzione. I filosofi aristotelico-tomisti hanno usato
invece il metodo induttivo. 4. Una completezza di indagine richiede tre metodi:
il fenomenologico, l’'induttivo e il deduttivo. I primi due le danno una base
nel concreto, il terzo offre la visione sistematica della realtà. IV. SGUARDO
STORICO 1. Il problema metafisico nel mondo classico è caratterizzato
dall’intreccio con la cosmologia nella filosofia ionica; dalla centralizzazione
del problema dell'essere con Parmenide; dall’approfondimento di Platone che lo
riconduce al mondo delle Idee; dalla definizione del problema in Aristotele: «
studio del- l'essere in quanto tale e delle proprietà che lo accompagnano
necessariamente ». 2. Platone e Aristotele influenzano la filosofia medioevale.
Con san Tom- maso il problema metafisico risolve il problema del rapporto tra
gli enti finiti e l’Essere sussistente in virtù dell’atto creativo. 3. Nell’età
moderna con Cartesio questo problema cede il posto a quello gnoseologico ed entra
in una grave crisi con il criticismo kantiano, che chiu- dendo la conoscenza
nell’ambito dell’esperienza, nega la possibilità della meta- fisica come
scienza. 4. Nel pensiero contemporaneo, dopo il passaggio dalla metafisica
dell’es- sere a quella della soggettività, segnata dall'idealismo, con il
positivismo la metafisica entra in una crisi ulteriore. I filosofi del
linguaggio, in particolare, ne decretano la fine affermando la validità solo di
quelle proposizioni che sono traducibili in proposizioni di carattere empirico.
Nel nostro tempo la metafisica tende tuttavia a riemergere come metafisica
esigenziale ed esistenziale. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Qual è
il significato etimologico del termine « metafisica »? Da chi è stato introdotto?
2. Come viene definita la metafisica da Aristotele, Kant, Heidegger? 3. Qual è
l'oggetto, il fine, il metodo della metafisica? 4. Perché molti filosofi hanno
messo e mettono tuttora in dubbio la possi- bilità della metafisica? 5. Perché
si dice che Parmenide è il « padre della metafisica »? 6. Che cosa si intende
per creazione, emanazione, evoluzione, partecipa- zione? 7. Che cosa si intende
per sostanza e accidente, materia e forma, atto e Potenza, essenza ed
esistenza? 8. In che misura il problema metafisico coinvolge il problema
gnoseo- logico? 9. Quali sono i punti di interazione e di contrasto tra
metafisica ed epi- stemologia? 99 10. Quali rapporti si possono stabilire tra
il problema metafisico e il pro- blema religioso? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv.,
Metafisica e ontologia, Gregoriana, Padova. AA.Vv., Metafisica e scienze
dell'uomo, a cura di B. D'Amore e A. Ales Bello, 2 voll., Borla, Roma 1982.
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ROVIGHI S., Elementi di filosofia. II, Metafisica, La Scuola, Brescia 1979. 100
Copiolo0Hovo riu IL PROBLEMA RELIGIOSO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Come si
spiega la presenza del fenomeno religioso in tutti i tempi e in tutte le
culture? 2. In che misura la dimensione religiosa fa parte della natura umana e
perché? 3. C'è differenza tra bisogno naturale di Dio e scelta religiosa? <
1. | termini del problema La dimensione religiosa è propria ed esclusiva
dell’essere uma- no, e non esiste presso gli altri esseri viventi. Si tratta
peraltro di una manifestazione che, abbracciando l’intera umanità sia in ordine
allo spazio che al tempo (e non soltanto quesito o quell'altro gruppo di
un'epoca storica particolare), assume proporzioni notevolissime. Gli
antropologi ci informano che l’uomo ha sviluppato una attività religiosa sin
dalla sua prima comparsa sulla scena della storia e che tutte le tribù e tutte
le popolazioni di qualsivoglia livello culturale hanno coltivato qualche forma
di religione. D'alironde è cosa risapu- ta che tutte le culture sono
profondamente segnate dalla religione e che le migliori produzioni artistiche e
letterarie non solo delle civiltà antiche ma anche moderne si ispirano a motivi
religiosi. È pertanto ragionevole affermare che l'uomo oltre che sapiens,
volens, faber, loquens, ludens, ecc., è anche religiosus. Né il fatto che oggi
la religione stia attraversando una crisi profonda e si in- contrino molti
individui che si professano areligiosi, costituisce un argomento plausibile
contro la rilevanza del fenomeno religioso. In effetti, noi consideriamo l’uomo
ludens, loquens, faber, sapiens, ecc., anche se non tutti gli uomini giocano,
lavorano, parlano, pensa- no. Altrettanto vale per la dimensione religiosa:
essa si impone come una costante dell'essere umano, anche se non è coltivata da
tutti gli individui della specie. La religione è quindi un fenomeno reale,
tipico dell’uomo, ma è anche un fenomeno molto problematico, forse il più
problematico di tutti. Infatti mentre le altre attività umane si rivolgono ad
oggetti la cui esistenza è fuori di discussione, l’attività religiosa, per
contro, si dirige verso un oggetto, di cui si vede messa in questione persino
l'esistenza. — Iti queste poche pagine noi cercheremo di dare un'idea della na-
101 La religione dimensione universale ed esclusiva dell’uomo Problematicità
del fenomeno religioso Nella storia la questione religiosa è sempre esistita
Controversie interpretative dei filosofi degli ultimi secoli Riconoscimento del
valore oggettivo della religione in Hume e in Kant tura e della complessità del
problema religioso. A tal fine procede- remo secondo l’ordine seguente:
anzitutto tracceremo una breve storia delle interpretazioni del fenomeno
religioso così com'è stato visto dai filosofi; poi faremo un approfondimento
teoretico del pro- blema, elaborando una definizione della religione ed
esaminando i rapporti che essa mantiene con le altre attività umane. 2. Le
principali interpretazioni filosofiche della religione La questione religiosa è
stata sempre presente nella storia della filosofia. Nel periodo antico se ne
interessarono Senofonte, Prota- gora, Platone, Aristotele, Lucrezio, Plotino;
in quello medioevale Avicenna, Averroè, Maimonide, Tommaso d'Aquino, Scoto,
Occam; agli inizi dell'epoca moderna, Giordano Bruno, Campanella, Spi- noza,
Hobbes, Locke. Ma è stato soprattutto a partire da Hume e da Kant che la
questione religiosa è divenuta uno dei punti cen- trali della riflessione
filosofica, e possiamo dire che, a partire da questi, ha inizio una vera e
propria « scienza delle religioni » che è andata sempre più sviluppandosi sino
ad oggi. Fu Muller che usò per la prima volta nel 1877 il termine
religionswissenschaft, cioè « scienza delle religioni », che ebbe uno sviluppo
notevole, va- lendosi molto dell’antropologia culturale. Più tardi, alla «
scienza delle religioni » fu dato l'apporto dei sociologi, soprattutto di Durk-
heim che elaborò, nel 1912, una teoria generale della religione. “Sulla
questione religiosa i filosofi moderni si sono schierati su due fronti opposti.
Da una parte alcuni hanno cercato di mostrare che la religione è priva di
qualsiasi fondamento oggettivo: essa sarebbe una più o meno astuta invenzione
dell'uomo, dovuta alla paura (Feuerbach), alla prepotenza (Marx), all'ignoranza
(Comte), al ri- sentimento (Nietzsche), alla sublimazione degli istinti (Freud),
ad abusi linguistici (Carnap), ecc. Dalla parte opposta altri autori difendono
il valore oggettivo della religione, in quanto essa si fon- derebbe su un
rapporto dell'uomo con la realtà assoluta (Hegel, Croce, James, Bergson,
Scheler, Otto, Jaspers, ecc.). I primi svilup- pano una critica negativa e
demistificante; invece i secondi elaborano una critica positiva e costruttiva
del fenomeno religioso. 2.1 Demistificazione della religione Hume e Kant, pur
assegnando basi diverse al fenomeno religioso (Hume l'aveva fondato
sull’istinto e Kant sulla ragione pratica), non ne avevano messo minimamente in
dubbio il valore essenzialmente oggettivo. Tale valore, più tardi, venne
nuovamente ribadito dagli idealisti, in particolare da Hegel. L'orizzonte
culturale entro il quale Hegel interpreta la religione è quello della «
religione nei limiti della pura ragione » di Kant. 102 Essa costituisce il
secondo momento del sapere assoluto, quando lo spirito prende piena coscienza
di se stesso e diventa « autoco- scienza ».! Feuerbach, discepolo di Hegel,
partendo dal pensiero di questi, arrivò a negare il valore oggettivo della
religione. Contro il postulato hegeliano il quale afferma che tutto procede
dall’Assoluto e ogni cosa, l’uomo compreso, non è altro che un mo- mento del
suo automanifestarsi, Feuerbach sostiene che le cose stan- no esattamente
all'opposto: Dio è solo un'idea escogitata dall'uomo allo scopo di conseguire
la piena realizzazione di se stesso; pertanto la realtà suprema non è Dio ma
l'uomo. Nel famoso saggio L'essenza del cristianesimo Feuerbach argomenta che
la religione trae origine da un processo di ipostatizzazione dei bisogni e
degli ideali dell’uo- mo: l'uomo proietta tutte le qualità positive che ha in
sé in una persona (ipostasi) divina e fa di essa una realtà sussistente, capace
di sopperire ai suoi bisogni e alle proprie lacune? In Karl Marx, anche egli
discepolo di Hegel, le critiche avanzate da Feuerbach al pensiero del maestro
hanno certamente contribuito ad avviare anche lui alla contestazione del fenomeno
religioso, alla negazione di Dio e alla condanna di ogni chiesa. Ma a fargli
sposare la causa dell’ateismo, più che argomenti di natura filosofica e meta-
fisica sono stati motivi di ordine storico e sociale? La sua identifica- zione
della società ideale con la società senza classi e la ricerca della
instaurazione di tale società mediante la demolizione delle strutture sociali
vigenti ai suoi tempi, l'hanno portato necessaria- mente a confrontarsi con la
religione. Ora, tutta una serie di circo- stanze storiche gli hanno fatto
credere che la religione fosse uno dei maggiori ostacoli alla realizzazione
della nuova società e, per- tanto, concludere che la religione non può essere
che un'invenzione delle classi privilegiate per meglio sfruttare le classi
subalterne: essa è strumento di evasione per gli sfruttati e di giustificazione
per gli sfruttatori. La religione è l'oppio del popolo. « La religione è il
sospiro della creatura oppressa dalla sventura, l'anima di un'epoca senza
spirito. È oppio per il popolo. [...] Il fondamento della critica religiosa è
questo: l'uomo crea la religione, non è la religione che crea l’uomo ».* Nel
XIX secolo la critica della religione di maggior riscontro non fu quella di
Marx e Feuerbach, ma quella di Comte, il padre del positivismo. Secondo Comte
tutto l'universo procede dalla materia per via di evoluzione. Anche l’uomo è un
portato dell'evoluzione. Con la sua comparsa sulla scena del mondo ha inizio la
storia, le cui fasi principali, secondo la celebre classificazione del padre
del po- ! B. MONDIN, vol. III, pp. 67, 79-80. 2 Ivi, pp. 142-144. » Cfr. W
GOLLWITZER, La critica marxista della religione e la fede cristiana,
Morcelliana, Brescia 1970. ‘+ B. MONDIN, vol. III, pp. 153-156. 103 La crisi
post- hegeliana: Dio autoproiezione dell'uomo Negazione di Dio e condanna della
Chiesa in Marx La critica di Comte alla religione L'esperienza religiosa come
stadio primitivo dell’umanità Nietzsche: la ‘morte di Dio” e l'autonomia del
Super-uomo Il cristianesimo messaggio di debolezze e di mediocrità sitivismo,
sono tre: religiosa, metafisica, scientifica. Le tre diverse fasi corrispondono
a tre diversi modi di concepire e di spiegare le cose. Nell’epoca religiosa
l’uomo si dà una spiegazione mitica defenomeni naturali escogitando cause
soprannaturali; nell'epoca me- tafisica egli ottiene una spiegazione dei
fenomeni ricorrendo a prin- cipi reconditi, quali sostanza, accidenti, essere,
ecc.; nell'epoca po- sitiva infine egli elabora una spiegazione ragionata,
scientifica delle cose per mezzo delle leggi naturali, le quali bastano da sole
(senza che ci sia bisogno di ricorrere a Dio oppure a principi metafisici) a
spiegare tutti i fenomeni che noi constatiamo. Tutte le attività e tutte le
branchie del conoscere passano per questi tre stadi: la politica come il
diritto, l'economia come la morale, la fisica come l’astrono- mia, ecc.
All’inizio dell'epoca moderna, con lo sviluppo del metodo scientifico,
l'umanità ha raggiunto finalmente l'età adulta e può, quindi, lasciarsi alle
spalle sia la religione, sia la metafisica. An- ziché rivolgere la sua
attenzione ad esseri soprannaturali o recon- diti essa può ora prendere cura di
se stessa. Questo è l’unico culto (cioè il culto dell'Umanità) che essa deve
promuovere. Un altro autorevole esponente della critica negativa del fenomeno
religioso, nel secolo scorso, è Nietzsche. Di lui tutti conosciamo il famoso
proclama: « Dio è morto ». Questa sentenza, che rappresenta il leit-motiv della
predicazione di Zaratustra è anche il motivo do- minante della riflessione
filosofica di Nietzsche. Questi vuole svi- luppare l’idea di un uomo (il
Super-uomo) assolutamente autonomo, padrone di se stesso, sovrano della natura
e della storia, affrancato dai vincoli e dalle costrizioni imposte dalla
morale, dal diritto, dalla religione. Studiata alla luce dell'idea del
Super-uomo a Nietzsche la religione appare una ingegnosa invenzione degli
uomini, però non dei forti per tenere sotto il loro giogo i deboli, bensì dei
deboli per di- fendersi dalla prepotenza dei forti, dei super-uomini. Di tale
origine della religione il Nietzsche ritiene di trovare conferma nel cristia-
nesimo. Qui i deboli, gli umiliati, gli oppressi elevano il loro ideale di
debolezza, di vigliaccheria, di rassegnazione ad ideali universali e fanno di
tutto per costringere anche gli uomini forti, i potenti, i su- per-uomini, ad
accettarlo. « Solo il misero è buono, proclama il cri- stianesimo, il povero,
il debole, l'umile solamente sono buoni; l’am- malato, il bisognoso, colui che
fa ribrezzo soltanto è pio. Solo a co- storo viene promessa la felicità e la
salvezza eterna. Mentre a voi potenti, aristocratici, a voi viene detto che
siete per tutta l'eternità cattivi, perversi, ingordi, insaziabili nemici di
Dio e che perciò siete eternamente infelici, condannati, maledetti »f Un'altra
importante forma di critica della religione è stata intro- dotta all'inizio del
nostro secolo da Freud mediante la psicanalisi. Da Freud l'infondatezza della
religione è data per scontata in quanto 5 Ivi, pp. 178-181. $ Ivi, pp. 217-222.
104 a suo giudizio è cosa ovvia che fuori del mondo dell’uomo non esiste alcun
altro essere. Allo studioso rimane perciò solo il problema di spiegare come sia
sorta la « illusione religiosa ». A pa- rere del fondatore della psicanalisi
essa non è sorta in conseguenza di una lotta di classe tra classi dominanti e
classi dominate, come voleva Marx, e neppure in conseguenza di una lotta tra
deboli e potenti come sosteneva Nietzsche, bensì attraverso un processo di
sublimazione di una lotta primordiale tra i membri del focolare do- mestico,
con la conseguente proiezione, fuori della psiche sul piano cosmico, dell'idea
di padre. L'oggetto della religione — Dio — è appunto il risultato di tale
proiezione. L'idea di questo Essere su- premo riflette, sul piano cosmico, la
polarità affettiva amore-adio, che i figli sentono nei confronti del padre.”
Altre forme di demistificazione del fenomeno religioso sono state sviluppate
nel nostro secolo dagli esistenzialisti (in particolare da Sartre e da Heidegger)
e dai neopositivisti. Mentre però il pensiero di Sartre è chiaro ed
inequivocabile, non si può invece*stabilire con sicurezza quali siano le vedute
di Heidegger riguardo alla religione. In effetti le sue opere più recenti
contengono tracce inconfondibili di misticismo. Una cosa, peraltro, è fuori
discussione: secondo l’autore di Sein und Zeit la filosofia non può dare che un
giudizio negativo per quanto concerne l’idea di Dio. Infatti, a suo parere,
tale idea è aberrante sia nei confronti della metafisica, in quanto fa decadere
il problema dell'Essere nel problema di un ente; come pure nei confronti del
problema della esistenza umana, perché la distoglie dal- le sue vere,
autentiche possibilità.* L'ultimo importante tentativo di demistificare il fenomeno
reli- gioso è stato compiuto dal neopositivismo. Per questo movimento, com'è
noto, la filosofia consiste essenzialmente nell'analisi del lin- guaggio: solo
in questo modo essa può determinare la verità o la falsità di una dottrina. Ma,
per effettuare l’analisi del linguaggio occorre anzitutto un criterio per
distinguere le proposizioni che hanno significato da quelle che ne sono prive.
Ora, secondo i neo- positivisti per le proposizioni fattuali (non per quelle
logiche) l’'u- nico criterio possibile è quello della verifica sperimentale.
Vale, per- tanto, anche per la religione quanto abbiamo citato precedentemente
da Carnap circa la metafisica” Da queste premesse i neopositivisti traggono la
conclusione, logica e necessaria, che il linguaggio etico, estetico e religioso
è privo di senso, non dice nulla: è privo di qual- siasi valore oggettivo.
Pertanto « dire che Dio esiste è un'espressione metafisica che non può essere
né vera né falsa. E, per lo stesso mo- tivo, nessuna proposizione che miri a
descrivere la natura di un ? Ivi, pp. 224-221. ® Ivi, pp. 410-413. ° Vedi cap.
VII, nota 7. 105 Freud: Dio proiezione dell'immagine paterna Ateismo e
misticismo nelle filosofie esistenzialiste La negazione della reiigione nel
neopasitivismo fl valore positivo della religione Kierkegaard: il primato della
fede per giungere allo stadio religioso Bergson e il valore dell’esperienza
mistica Dio trascendente può avere significato letterale... Tutte le
espressioni riguardanti la natura di Dio sono prive di senso ».! 2.2 Difesa
della religione Contro le opinioni espresse dai demistificatori del fenomeno
re- ligioso hanno preso posizione molti ‘filosofi del secolo scorso e del
nostro, affermandone il valore positivo e considerandolo anzi una delle
manifestazioni più proprie, autentiche e genuine dello spirito umano. Qui non
possiamo riferire le vedute di tutti coloro che si sono espressi in questo
senso. Ci limiteremo a riferire il pensiero di alcuni autori più
rappresentativi, cominciando da Kierkegaard. Contro la concezione hegeliana
della religione, la quale vede in essa puramente un momento logico, naturale
dell'evoluzione dello Spirito Assoluto e contro qualsiasi subordinazione della
religione al- la filosofia, Kierkegaard proclama che la religione non può
essere ridotta ad un momento logico d'un sistema generale di pensiero, perché
essa appartiene alla sfera dell’esistenza, della vita. Allo stadio religioso
non si giunge attraverso l'intuizione come sosteneva Hegel, ma mediante la
fede. L'incontro con Dio non si dà nell’immediatezza della visione, ma nelle
tenebre della fede. E questa non è la con- seguenza d'un ragionamento bensì un
atto di decisione che com- porta un salto al di là di tutto ciò che poggia
sulla sicurezza delle leggi scientifiche e dei codici morali. Quando l’uomo
crede in Dio e avverte l’infinita differenza che separa la natura divina dalla
pro- pria, allora si prostra davanti a Lui e Lo adora." Lo sforzo di
Kierkegaard di riabilitare la religione nel suo signi- ficato autentico non
ebbe successo. Durante la seconda metà del- l’Ottocento, come s'è visto, per
opera di Marx, Engels, Comte, Niet- zsche, Freud, esplode la demistificazione
della religione la quale incontra vasti consensi e moltissimi sostenitori nel
momento in cui impera il positivismo e il materialismo. Ma quando questi
sistemi cominciano a vacillare, anche la demistificazione della religione per-
de terreno. Anzi è proprio l'impossibilità dell’accettazione di una simile
interpretazione del fenomeno religioso che induce autori co- me Bergson, James,
Scheler, Otto, Blondel a prendere posizione contro il positivismo e il
materialismo. Bergson, nel celebre saggio Le due sorgenti della morale e della
religione, prende in esame il fenomeno religioso in alcune delle sue
manifestazioni più elevate, quali il misticismo greco ed orientale, il
profetismo ebraico e il misticismo cristiano. Attraverso l’esperienza dei
mistici egli arriva all'esistenza di Dio. Questa, già presentita nella
speculazione filosofica dello slancio vitale (é/an vital), si impone ora in
maniera incondizionata. In che modo? In base alla testimonianza 0 A.J. AYER,
Language, Truth and Logic, New York (senza data), p. 115; trad. it.,
Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1961. ! B. MONDIN, vol. III,
pp. 212-216. 106 di coloro che hanno l'esperienza delle cose divine. Bisogna
credere ai mistici in queste cose così come si crede ai medici e agli ingegneri
quando si tratta di problemi attinenti alle loro specializzazioni: gli uni e
gli altri sono degli esperti; sanno quello che dicono." L'esempio di
Bergson esercitò un grande influsso anzitutto in Francia e poi anche altrove.
Tra i suoi seguaci si distinse in par- ticolare Maurice Blondel. Questi,
tuttavia, nel difendere il valore oggettivo della religione, si colloca in una
prospettiva diversa da quella del suo maestro. Mentre Bergson giustifica il
fenomeno reli- gioso partendo dalle sue espressioni più autentiche, Blondel
cerca di fondarlo sull'analisi del dinamismo umano considerato nella sua
struttura essenziale. Secondo Blondel un esame attento e appro- fondito
dell’azione conduce logicamente al riconoscimento dell’esi- stenza di Dio.
Infatti « L'azione è in perpetuo divenire come trava- gliata dall’aspirazione
di una crescita infinita. [...] Noi siamo costretti a voler divenire ciò che da
noi stessi non possiamo né raggiungere né possedere. [...] È perché ho
l'ambizione d'essere infinitamente che sento la mia impotenza: io non mi sono
fatto, non posso ciò che voglio, sono costretto a superarmi. [...] Ora, questa
spinta verso l'infinito, che dilata continuamente la mia azione, è Dio. Egli
non. ha altra ragion d'essere per noi perché è ciò che noi non possiamo essere
né fare con le nostre sole forze ».! Noi siamo la sproporzione tra l'ideale e
il reale, ma tendiamo verso la loro identità: tale iden- tità è Dio stesso.
Un'abile difesa del valore e del significato dell'esperienza reli- giosa è
stata condotta anche dal filosofo americano William James, in particolare
nell'opera Le varie forme dell'esperienza religiosa. La sua difesa è basata su
motivazioni d'ordine mistico come in Bergson, piuttosto che su speculazioni
d'ordine teoretico come in Blondel, James non crede che sia possibile
trasformare la religione in un siste- ma di proposizioni scientifiche
dimostrabili apoditticamente. A suo giudizio il fondamento della religione non
è la ragione, ma la fede, il sentimento ed altre esperienze particolari come la
preghiera, conver- sazioni con l'invisibile, visioni, ecc. Tutto questo però
non significa che la religione sia priva di concetti e di dottrine. Anzi James
rico- nosce che una religione che sia veramente autentica deve logicamen- te
guardare ad un certo tipo di metafisica o di cosmologia teistica, e che perciò
la fede in Dio, i cui attributi sono essenzialmente « mo- rali » o connessi con
l’esperienza umana, può essere difesa come un elemento necessario
dell'esperienza religiosa, sebbene non possa ser- vire come base di una
teologia razionale." Ma i più autorevoli assertori del valore oggettivo
dell'esperienza religiosa non sono venuti dalla Francia o dall'America, bensì
dalla 12 Ivi, pp. 257-258. 4 M. BLONDEL, L'action, Parigi 1893, pp. 352-354;
trad. it., L'azione, La Scuola, Brescia. “4 B. MONDIN, vol. III, pp. 348-349.
107 Blondel: esperienza religiosa e dinamismo umano James: la dimensione
interiore della religione e l’esiysnza delle dotirine Il valore oggettivo
dell’esperienza religiosa Scheler: la critica all’interpretazione
evoluzionistica L'automanifestazione di Dio Otto: le differenti modalità
dell'esperienza religiosa (il sentimento del numinoso) Germania. Si tratta di
una vasta schiera di profondi pensatori di cui i più noti sono: Scheler, Otto,
Schmidt, Guardini, Adam, Tillich, Dessauer, Lang. Per esigenze di spazio noi
qui ci limiteremo a rias- sumere brevemente il pensiero dei primi due. Max
Scheler pone il fenomeno religioso al centro della sua ricerca filosofica. In
polemica coì positivismo, che come abbiamo visto riduce la religione ad un
momento transitorio dello sviluppo pro- gressivo della storia dell'umanità, Scheler
afferma il carattere asso- luto e perenne dell'esperienza religiosa. Egli
respinge categoricamen- te la teoria positivistica della nascita della
religione per un processo evolutivo che va dal feticismo, all'animismo, alla
magia, ecc., al po- liteismo e finalmente al monoteismo. Rifacendosi per la
parte storico- positiva agli studi di W. Schmidt, in particolare alla sua tesi
del monoteismo primitivo, Scheler rileva come fenomenologicamente « anche il
feticcio più primitivo presenta, per quanto rozzamente, l'essenza indeducibile
del divino, quale sfera globale dell’essere as- soluto corredato con tutte le
caratteristiche del santo ».5 In esso, e tramite esso, l'intenzione religiosa
intende, sente, vede la totalità dell'essere assoluto e santo e non un semplice
oggetto naturale in cui per entropia introduce una vita psichica. Per quanto
concerne la sfera religiosa Scheler ritiene che il motivo ultimo della sua
accet- tazione sia l'evidenza immediata dell'oggetto che si dà come tale in
atti di conoscenza specifica, nel caso, negli atti religiosi. Pertanto il
fondamento ultimo della religione non può essere che l’automani- festazione di
Dio. Tale automanifestazione della realtà personale di Dio, secondo Scheler,
può avvenire solo tramite gli uomini religiosi, culminanti nel « santo
originario », che egli individua nella figura di Cristo.! Rudolf Otto, nel suo
famoso saggio Das Heilige (Il sacro), de- scrive con acutezza straordinaria le
differenti modalità dell’espe- rienza religiosa. Questa si configura anzitutto
come sentimento del numinoso. Il numinoso è una categoria che fa parte della
categoria più complessa del « sacro ». È una categoria del tutto sui generis,
che è completamente inaccessibile alla comprensione concettuale e, in quanto
tale, costituisce un arreton, qualcosa di indefinibile, ineffa- bile, proprio
come il « bello » sul piano estetico. In questo senso appartiene al dominio
dell’« irrazionale », e rappresenta l'elemento più intimo che è comune a tutte
le religioni. Il numinoso a sua volta assume due aspetti che lo caratterizzano
in modo inequivocabile: a} l'aspetto di mysterium tremendum e b) l'aspetto di
miysterium fascinans. Il primo costituisce l'aspetto ripulsivo del numinoso, il
se- condo ne rappresenta invece l'aspetto attrattivo e « affascinante ». Però
il sacro oltre che un aspetto « irrazionale », rappresentato dalla categoria
del numinoso, riveste anche un aspetto « razionale »; que- 5 M. SCHELER,
L’eterno nell'uomo, Fabbri, Milano. i 4 Cfr. G. FERRETTI, Max Scheler.
Filosofia della religione, Vita e Pensiero, Milano 1972. 108 sto trova
espressione soprattutto nei « simboli » e nei « dogmi ». Grazie a queste
categorie, attraverso « segni » stabili e universal- mente validi, il sacro
acquista una struttura solida, che gli conferisce il carattere di « dottrina »
rigorosa, oggettivamente valida, e l’op- pone per ciò stesso alle stravaganze
dell’« irrazionalismo » fanta- stico e sognatore. 3. Definizione della
religione e sua distinzione dall’arte, dalla filosofia e dalla morale « Tutti
quelli che si occupano di scienza della religione — nota A. Lang — tutti quelli
che della religione intendono favorire lo svi- luppo, tutti quelli che la
vorrebbero estirpare, offrono una defini- zione della sua essenza »."” Noi
proponiamo come definizione sufficientemente descrittiva la seguente: « La
religione è l'insieme di conoscenze, di azioni e di strutture con cui l’uomo
esprime riconoscimento; dipendenza, ve- nerazione nei confronti del ‘sacrò ».'
Questa definizione, come si vede, comprende due elementi, uno riguardante il
soggetto e l’altra l'oggetto. Quanto al soggetto essa indica l'atteggiamento
che l’uomo assume quando si esprime religio- samente. In effetti non
ogni‘rapporto col Sacro è attività « religiosa ». Se per esempio si studia il
processo di trasformazione e di sviluppo delle religioni, i loro influssi e
Manifestazioni, non si può fare a meno di occuparsi anche dell'oggetto
dell'esperienza religiosa, tuttavia ci si muove sul piano della storia, non
della religione. « Si può par- lare di un atto religioso, soprattutto d'un atto
religioso fondamentale, solo quando l'uomo assume di fronte al Sacro e al
Divino un atteg- giamento soggettivo del tutto particolare, cioè quando viene
emoti- vamente colpito e attratto dall'oggetto ed entra in contatto DErR0: nale
con esso. Questo è il lato psichico o interiore della religione ». Come s'è
detto, l'aspetto soggettivo del fenomeno religioso è costi- tuito dal
riconoscimento della realtà del Sacro, dal sentimento di to- tale dipendenza
nei suoi confronti e dall’atteggiamento di venera- zione verso di esso.
Dell’oggetto della religione la nostra definizione indica ciò che lo
caratterizza in modo esclusivo, vale a dire di essere-sacro. Sacro è un
concetto primario, fondamentale, come i concetti di essere, di vero, di bene,
di bello, e pertanto non lo si può spiegare ulteriormen- te rifacendosi a
categorie estranee alla sfera religiosa. Su questo punto mi pare che Scheler e
Otto abbiano perfettamente ragione. Ma non per questo lo si deve considerare un
concetto non suscetti- " A. LANG, Introduzione alla filosofia della
religione, 2° ed., Morcelliana, Brescia 1969, p. 25. 4 Ivi, p. 48. 109
L'aspetto razionale del sacro: simboli e dogmi Una definizione della religione
L’atto religioso fondamentale come atteggiamento soggettivo di fronte al Divino
Il ‘Sacro’ è un concetto primario e fondamentale Le caratteristiche del Sacro:
oggettività, assiologia, trascendenza, personalisticità L'elemento oggettivo
distingue la religione dalla filosofia bile di qualche delucidazione. Infatti,
all'interno della sfera reli- giosa il Sacro assume caratteristiche sue
proprie, inconfondibili, che consentono di descriverlo in modo inequivocabile.
Tra le carat- teristiche più perspicue ricordiamo quelle così bene evidenziate
da Rudolf Otto: la numinosità (o sacralità), la misteriosità, la maestà, il
fascino. Ma sue caratteristiche importanti sono anche queste al- tre:
l'oggettività, l’assiologia, la trascendenza e la personalisticità. Anzitutto
l’oggettività: il Sacro finché permane sacro e quindi og- getto della religione
non può essere considerato una trovata della fantasia umana, una proiezione e
ipostatizzazione dei bisogni, de- sideri, ideali dell'uomo. L'atto religioso è
rivolto ad una realtà effettivamente esistente: « sempre i contenuti religiosi
si presentano con la pretesa d'avere consistenza e validità anche al di fuori
della coscienza e dell'esperienza religiosa ».” La trascendenza: anche se non è
collocato fuori del mondo, il Sacro viene sempre conside- rato come qualcosa
che supera infinitamente il mondo stesso e tut- to ciò che nel mondo è
compreso, in particolare l’uomo. L'assio- logia: il Sacro rappresenta il valore
supremo, cui fanno capo tutti gli altri valori. La personalisticità: l'uomo
religioso non si colloca in rapporto con un oggetto, ma con un Tu, con una
persona. « C'è qualcuno di fronte a lui. Io esperimento un Tu. E io me lo
immagino sotto la forma di un dèmone o di un dio ».® Determinata in questo modo
l'essenza della religione, risulta evi- dente in che cosa essa si distingua
dalla filosofia, dall'arte e dalla morale. Ciò che la distingue dalla filosofia
è soprattutto l'elemento soggettivo; infatti sia la religione che la filosofia
si occupano del Sacro, del Divino, della « realtà ultima », ma fanno ciò in un
modo totalmente diverso. La filosofia procede astrattamente e con fina- lità
puramente speculative; invece la religione « è una presa di po- sizione
personale che va oltre la semplice conoscenza della verità, è l'atteggiamento
in cui tutto l’io si raccoglie nella sua singolarità »,% con un impegno supremo
(ultimate concern)? Ciò che distingue la religione dall'arte è invece
soprattutto l'elemento oggettivo: la re- ligione ha per oggetto il reale,
l’arte l'ideale. Infine, anche religione e morale, nonostante siano legate
l'una all'altra nel modo più stret- to, sono essenzialmente distinte. « La
prima è incontro con Dio: contatto personale con Lui, riconoscimento umile e
devoto del suo valore assoluto e della sua santità. Alla seconda spetta la cura
e la realizzazione dei valori che corrispondono all'essenza dell’uomo ».# »
Ivi, p. 79. i i 2° G. VAN DER LEEUW, L'uomo primitivo e la religione, Einaudi,
Torino 1961, p. 144. 2 A. LANG, Op.
cit., p. 110. ® P. TiLIcH, Systematic Theology, Chicago 1951, vol. I, pp. 22 ss. 3 A. Lanc, Op. cit., p. 118. 110 4.
Fondazione teoretica della religione A questo punto, se si vuole passare dal
piano formale della de- finizione della religione a quello della sua verità
obiettiva, occorre affrontare il problema della verità dell’ oggetto della
religione, un problema di capitale importanza ma anche estremamente arduo
qualora ci si voglia affidare esclusivamente alle forze della ragione. Per
risolverlo si possono battere due vie: la metafisica e l’erme- neutica storica;
però né l'una né l'altra sono in grado di garantire il sicuro raggiungimento
del traguardo e sono tutte due SOSpAFE di grosse difficoltà. La metafisica ha
il pregio di far leva esclusivamente sulle forze della pura ragione; ma proprio
per questo ha ben poche probabilità di risolvere un problema così difficile
come questo. Anche nell’even- tualità che riesca ad elevarsi fino al piano
religioso, la ragione spe- culativa non potrà mai fornire un quadro
sufficientemente preciso, dettagliato, concreto ed esistenziale. La sua massima
aspirazione è provare l’esistenza di Dio, la creazione del mondo e la
possibilità della rivelazione. Ma queste verità non sono sufficienti ad
alimentare la vita religiosa, una vita fatta di intimità, amore, devozione,
ado- razione, preghiera. Da Leibniz in poi a quella parte della metafisica che
si occupa del problema di Dio si è dato il nome di teodicea (difesa di Dio; dal
greco theos = Dio; dikein = difendere). I limiti inevitabili che accompagnano
questa disciplina sono ovvi per la natura sovrannaturale del suo oggetto: Dio,
che rimane anche per il filosofo un mistero tremendo e fascinoso, il quale
acceca qualsiasi intelligenza che pretende di catturarlo. Lo stesso san Tom-
maso confessava che il modo migliore di parlare di Dio è quello x« per negazioni
», perché « Dio rimane avvolto nella notte oscura del- l'ignoranza, ed è in
questa ignoranza che noi ci avviciniamo a Dio durante la nostra vita. Infatti
in questa fitta nebbia abita Dio ». Ma altra cosa è riconoscere i limiti di una
disciplina, altra cosa conte- starne la legittimità e la possibilità. A partire
da Kant sono state sollevate contro la teodicea tali dif- ficoltà da mettere in
dubbio la sua stessa legittimità e possibilità. Kant ha sollevato obiezioni di
ordine gnoseologico; Wittgenstein di ordine semantico; Heidegger di ordine
metodologico. In breve, Kant confinando la conoscenza umana all'ordine dei fe-
nomeni, concede alla ragione il potere di sollevare la questione di Dio ma le
nega la possibilità di risolverla positivamente. Wittgen- stein, ritenendo che
si possa parlare sensatamente soltanto di oggetti verificabili empiricamente,
poiché Dio non appartiene a questo or- dine di oggetti, dichiara che di Lui non
si può parlare: né sollevare questioni, né dare risposte. Infine, Heidegger ritiene
che la meta- fisica abbia come oggetto proprio lo studio dell'essere degli
essenti (« Perché vi è, in generale, l’essente e non il nulla? ») e come metodo
111 II problema della verità dell'oggetto ‘religioso Il compito della
“‘teodicea’’ Obiezioni contro la teodicea I limiti dell’ermeneutica e della
ragione storica proprio la fenomenologia e di conseguenza sostiene che non c'è
spazio per una riflessione autenticamente metafisica su Dio: la teo- dicea non
può essere altro che una onto-teo-logia. Alle obiezioni di Kant, Wittgenstein e
Heidegger non è difficile replicare: basta denunciare la loro pretesa di
bloccare la conoscen- za umana dentro il mondo dei fenomeni, il linguaggio
sensato den- tro la sfera delle cose verificabili, la metodologia appropriata per
accostarsi alla realtà al solo metodo fenomenologico. Se tali pre- clusioni non
vengono ritenute legittime, allora lo studio di Dio divie- ne per il filosofo
non solo una possibilità ma anche un dovere, poiché esprime l’esigenza
insopprimibile della natura umana di afferrare il senso della sua origine e del
suo fine ultimo. L'ermeneutica, cioè l’arte della interpretazione, da parte
sua, assumendo come punto di partenza un evento storico particolare (la
rivelazione biblica, oppure quella cristiana, quella islamica, ecc.) si trova
nella difficoltà di provare come un evento storico di carattere particolare
(situato in un dato momento spazio-temporale) possa assurgere a valore
universale, assoluto. Essa dovrebbe mostrare che è l'unico evento capace di
rispondere alle istanze fondamentali della natura umana e di appagarle
pienamente. Ma dove trovare argo- menti decisivi a sostegno di questa pretesa?
La ragione storica non sembra in grado di scoprirli. Qualcuno potrebbe pensare
di risolvere il problema unendo in- sieme le due vie. Ma questa è un'impresa
irrealizzabile, perché la metafisica e l’ermeneutica storica si dirigono verso
oggetti che non hanno nulla di comune tra di loro. Tutto ciò lascia intendere
che la soluzione adeguata del problema religioso non si può ottenerla con la
pura ragione, ma soltanto me- ‘ diante la fede, cioè mediante un'umile e
completa sottomissione di tutto l'essere dell'uomo a colui che costituisce il
centro, il cuore, l'anima della sfera religiosa, Dio. CONCETTI DA RITENERE — Stadio
religioso — Numinoso; arreton; mysterium tremendum — Soggetto e oggetto della
religione — Numinosità; misteriosità; maestà; fascino; oggettività; assiologia;
tra- scendenza; personalisticità SINTESI CONTENUTISTICA I. I TERMINI DEL
PROBLEMA a) La religione è una manifestazione tipicamente umana che ha
caratteriz- zato tutti i tempi e tutte le culture. Essa si impone come una
costante dell'es- sere umano, anche se non è coltivata da tutti gli uomini. b)
:La problematicità della religione risiede nel fatto che l’attività religiosa è
rivolta verso un oggetto di cui si vede messa in questione persino l'esistenza.
‘112 II. LE PRINCIPALI INTERPRETAZIONI FILOSOFICHE DELLA RELIGIONE 1) La
questione religiosa ha interessato sia il pensiero classico che quello medioevale
e moderno. Ma è a partire da Hume e da Kant che essa assume una connotazione
centrale. Nella cultura contemporanea si delineano due orien- tamenti: uno
tendente a demistificare la religione, l’altro a difenderla. III.
DEMISTIFICAZIONE DELLA RELIGIONE Iniziatore di tale orientamento è Feuerbach
che sottraendo alla religione ogni valore oggettivo la riduce a fenomeno in
proiezione di alcuni bisogni fon- damentali dell’uomo: Dio èsolo l’idea che
esprime ciò che l’uomo aspira ad essere. — Sulla scorta di Feuerbach, Marx
radicalizza l’interpretazione affermando che la religione è una delle
sovrastrutture prodotte da una determinata strut- tura economica e che di essa
la classe egemone si è sempre servita per man- tenere lo stato di sottomissione
della classe subalterna. — La soluzione della questione economico-sociale
prospettata dal comuni- smo decreta la scomparsa della religione. — Comte,
padre del positivismo, colloca l’esperienza religiosa nella fase primitiva
della storia dell'umanità, che nella sua fase matura {quella del pro- gresso
industriale e scientifico) è chiamata ad esprimere un unico culto, quello di se
stesso: il culto dell'Umanità. — La religione viene considerata un fenomeno
proiettivo e illusorio anche da Freud, che considera il fatto religioso come
espressione dell'idea del padre che l'inconscio umano porta dentro di sé. —
Nietzsche giunge perfino a decretare la « morte di Dio », con particolare
riferimento al Dio cristiano, in un mondo in cui il Super-Uomo non lascia più
spazio alla realtà dei miseri, dei deboli, degli umili, dei poveri. —
Esistenzialisti (per esempio Sartre ed Heidegger) e neopositivisti (Car- nap,
Ayer) negano alcun valore alla dimensione religiosa, i primi impegnati
totalmente sulla dimensione dell’immanenza e dell’esistenzialità dell'uomo, i
secondi perché ritengono valide solo le proposizioni il cui contenuto è speri-
mentalmente verificabile. IV. DIFESA DELLA RELIGIONE — Kierkegaard attribuisce
allo stadio religioso il grado più elevato del- l’esistenza umana che affida il
proprio senso alla fede e all'adorazione di Dio. — Bergson arriva all'esistenza
di Dio attraverso l’esperienza dei mistici, che egli considera gli esperti
delle cose divine. — Blondel cerca di fondare il fenomeno religioso
sull'analisi del dinami- smo umano considerato nella sua struttura essenziale;
l’azione, che trova solo in Dio la giustificazione della sua spinta
all'infinito. — James afferma che fondamento della religione sono la fede, il
sentimen- to e la preghiera. Una religione autentica deve guardare a una certa
metafisica o a una certa cosmologia razionale e la fede in Dio, i cui attributi
sono « mo- rali », può servire da base ad una teologia razionale. Il valore
oggettivo della religione è stato ribadito soprattutto da pensatori tedeschi: —
Scheler afferma il carattere assoluto e perenne dell'esperienza religiosa. Il
fondamento ultimo della religione è l’automanifestazione personale di Dio, che
avviene attraverso gli uomini religiosi, culminanti nel Cristo, il « Santo
originario ». — Otto configura il fenomeno religioso come sentimento del
numinoso che assume due aspetti: il mysterium tremendum (aspetto repulsivo) e
il myste- rium fascinans (aspetto attrattivo e affascinante). L'aspetto
irrazionale si ac- compagna a quello razionale dei simboli e dei dogmi, che
conferiscono al sacro il carattere di dottrina rigorosa, oggettivamente valida.
113 — Ricordiamo tra gli assertori del valore oggettivo dell'esperienza reli-
giosa anche Schmidt, Guardini, Adam, Tillich, Dessauer, Lang. V. DEFINIZIONE DELLA
RELIGIONE E SUA DISTINZIONE DALL'ARTE, DALLA FILOSOFIA E DALLA MORALE 1. La
religione è stata definita da Lang come l'insieme di conoscenze, azioni,
strutture con cui l’uomo esprime riconoscimento, dipendenza, venerazione nei
confronti del sacro. 2. Soggetto della definizione è l'atteggiamento assunto
dall'uomo nell’espri- mere la sua religiosità; oggetto è l'essere Sacro. Sacro
è un concetto primario, fondamentale, come l'essere, il bene, il vero, ecc.
Pertanto può essere spiegato solo attraverso le categorie dell'esperienza
religiosa. 3. Le categorie del sacro sono state ben evidenziate da R. Otto:
numinosità, misteriosità, maestà, fascino, oggettività, assiologia,
trascendenza, personali- sticità. 4. a) La religione si distingue dalla
filosofia in ordine all'elemento sogget- tivo: quest’ultima procede
astrattamente e speculativamente, mentre la prima è un atteggiamento totale,
personale .e singolare dell'io; b) la religione si di- stingue dall'arte in
ordine all'elemento oggettivo: per la prima esso è il reale, per la seconda è
l'ideale; c) religione e morale pur strettamente legate sono distinte: la prima
è incontro personale e contatto con Dio, la seconda è realiz- zazione dei
valori che rispettano l’uomo. VI. FONDAZIONE TEORETICA DELLA RELIGIONE 1 La fondazione
è possibile attraverso due strade: a) la metafisica fa leva sulla forza della
ragione. La sua aspirazione è di provare l’esistenza di Dio, la creazione del
mondo, la possibilità della rivelazione; b) l’ermeneutica assume come punto di
partenza un evento storico particolare (ad esempio la rivela- zione biblica).
2. Limite della metafisica è quello di non poter alimentare la vita religiosa
(intimità con Dio, amore, adorazione, preghiera). Limite dell'ermeneutica è
quello di poter provare come un evento storico particolare può assurgere a
valore universale assoluto. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. In quale
misura la dimensione del mistero circonda la vita umana e si sottrae al
possesso della conoscenza e dell'indagine scientifica? L'uomo può veramente
ignorare questa dimensione? 2. Perché la religione è un fenomeno problematico?
3. Come provano l’esistenza di Dio Aristotele, Agostino, Tommaso, Ansel. mo,
Cartesio, Leibniz? 4. Che cosa si intende per prova ontologica? 5. Kant quale
classificazione presenta delle prove dell’esistenza di Dio? Che valore assegna
alle prove tradizionali? 6. Su quali ragioni basano la demistificazione della
religione Feuerbach, Marx, Comte, Freud, Nietzsche, Sartre, Carnap? p 7. Che
funzione assegnano alla religione Spinoza, Hegel, Croce? 8. Su che cosa fondano
la religione Schleiermacher, James, Bergson, Otto, Scheler? © 9. Come ha avuto
origine la religione? Che cos'è il sacro? Qual è la sua relazione col profano?
| 10. In che rapporto si trovano religione e cultura, religione e
cristianesimo, ‘religione e filosofia, religione e scienza, religione e mito,
religione e morale, ‘religione e arte? 114 11. Fino a che punto il nostro tempo
ha perso il senso del mistero e di Dio? Quati le conseguenze storico-culturali
ed etiche più evidenti? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., L'ateismo: natura e
cause, Massimo, Milano 1983. AA.Vv., Il problema di Dio in filosofia e teologia
oggi, Massimo, Milano 1983, AA.Vv., Etica e filosofia della religione, Benucci,
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Benucci, Perugia 1982. 115 Etica: studio dell’attività umana riferita al suo
fine ultimo Prospettiva critica: indagine sui codici morali e le prescrizioni
Capitolo nono | IL PROBLEMA ETICO O MORALE QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che
cosa caratterizza il comportamento umano? In che misura libertà e capacità di
scelta orientano l’azione? 2. Come si può definire il valore morale? L'etica o
morale, secondo una delle definizioni più comuni, è lo studio dell'attività
umana con riferimento al suo ultimo fine, che è la piena realizzazione
dell'umanità. Il problema etico assume due aspetti principali: uno riguarda il
fondamento e il valore dei codici, dei principi, delle norme, delle persuasioni
morali già esistenti; è la prospettiva critica. L'altro ri- guarda le
condizioni che rendono possibile l’azione morale in asso- luto; il criterio di
ciò che è morale e immorale per l’uomo; il fine ultimo della vita umana e i
mezzi più adatti per raggiungerlo. Que- sta è la prospettiva teoretica. Le due
prospettive non sono disgiunte l'una dall'altra, ma intimamente connesse, in
quanto la prima fa da preambolo alla seconda: infatti la teorizzazione
sistematica della morale richiede la valutazione critica dei comportamenti
comuni. 1. La prospettiva critica La prospettiva critica riguarda gli
interrogativi suscitati dalle prescrizioni e dalle norme dei codici morali.
Infatti, se tali codici non sono suffragati dall'autorità divina, è naturale
che ci si domandi: Chi li ha stabiliti? Che valore hanno? Si possono cambiare?
A chi spetta il diritto di sostituirli con altri? Tocca alla collettività,
oppure ai singoli, o ai governanti? Nella storia della filosofia questi sono
gli interrogativi che han- no dato il via alla riflessione morale. Essi sono
già dibattuti vivace- mente dai Sofisti, ma poi sono ripresi anche dalla
filosofia morale di Socrate, Platone, Aristotele e dagli Stoici. Il contesto
politico e culturale dell'età di Pericle era particolar- mente propizio allo
sviluppo della critica della morale tradizionale. Le guerre con i Persiani e il
commercio con gli altri popoli avevano rivelato ai greci nuovi stili di vita, e
di pensiero, costituzioni civili e consuetudini morali diverse dalle proprie.
Questo induce i Sofisti, 116 che già avevano rinunciato alla riflessione sul
mondo per concentrare la propria attenzione sull'uomo, ad interrogarsi sul
fondamento del- le norme che regolano la condotta umana. La constatazione che
tali norme presentano notevoli divergenze presso i vari popoli li induce a
concludere che esse non si fondano sulla natura umana bensì su determinate
convenzioni sociali. Gli stati fissano per i propri citta- dini le convenzioni
che giudicano più opportune per il loro benessere individuale e sociale. Ovviamente
i Sofisti ritengono che il popolo greco possegga le convenzioni morali più
elevate di qualsiasi altro popolo barbaro. Ma poiché non si tratta di principi
morali innati bensì acquisiti, occorre farli apprendere alla gioventù mediante
una apposita istruzione ed educazione. Di qui l’importanza che assume
l'insegnamento morale nella polis greca. I Sofisti dicono di assumersi la
responsabilità di tale insegnamento e si presentano perciò come « maestri di
virtù ». Il problema del fondamento dei codici e delle consuetudini mo- rali
viene ripreso ed approfondito da Socrate il quale lo fa con tale originalità di
vedute da meritare di essere considerato*il creatore della filosofia morale: «
Socrate è il principale punto di partenza da cui si distaccano tutte le successive
linee di sviluppo del pensiero etico greco; le speculazioni sulla condotta
umana prima di Socrate, a nostro avviso, sono semplicemente un preludio alla
effettiva rap- presentazione ».! Socrate prende nettamente posizione contro le
due tesi basilari dei Sofisti. Contro la prima la quale dice che i codici
morali, le per- suasioni etiche, i concetti fondamentali dell'etica (come
buono, giu- sto, onesto, ecc.) sono frutto di convenzioni sociali, Socrate
sostiene che essi trovano invece il loro fondamento nella natura stessa delle
cose e dell’uomo. Parimenti contro la seconda tesi la quale afferma che le idee
e i principi morali si apprendono mediante l’insegnamen- to, Socrate mostra che
l'insegnamento presuppone il possesso di tali principi ed idee, e contribuisce
tutt'al più alla presa di coscienza ri- guardo ai medesimi. Ma Socrate non si
accontenta di respingere le tesi dei Sofisti contrapponendo ad esse altre tesi
che si ispirano alla visuale filosofica opposta; egli sposta l'indagine morale
ad un livello più profondo domandandosi come si possano giustificare le valuta-
zioni morali. Certo, valutazioni morali se ne davano anche prima di Socrate.
Per esempio Eutifrone (il personaggio dell'omonimo dia- logo di Platone)
riteneva « empia » la condotta di suo padre e per questo aveva deciso di
denunciarlo; ma l’incontro con Socrate gli impone in sostanza questo problema:
« Perché giudico empia la con- dotta di mio padre? Che cos'è l’empio e che cosa
invece il suo op- posto, il santo? ». Si badi bene, la domanda non è « che cosa
è empio e che cosa è santo » — questo può indicarlo anche l'ordine E Outlines
of the History of Ethics, Macmillan, London 1949, Pp. . 117 L'’interrogativo
dei Sofisti sul fondamento della norma morale Socrate: critica al convenzionalismo
e fondamento naturale della morale Il fondamento ultimo della moralità La
nozione di bene e di male Prospettiva teoretica: le condizioni trascendentali
dell’agire morale costituito (quell’ordine in base al quale Eutifrone aveva
deciso di procedere contro suo padre) — bensì « che cos'è l’empio e i/ santo »,
ossia che cosa sono l’empietà e la santità, che cosa sono cioè quei valori in
base ai quali si può dichiarare empia o santa una deter- minata azione, e
giustificare questa valutazione. Come si vede, Socrate non si accontenta di
prendere in esame i codici morali correnti e di verificarne la legittimità.
Egli si spin- ge più avanti e si interroga sul fondamento ultimo della moralità
in quanto tale. In tal modo egli oltrepassa il problema critico e si cimenta
con quello teoretico. La sua soluzione di questo pro- blema è nota. Scavando
sotto le apparenze le quali danno l’im- pressione che non esista nessun
principio morale assoluto, univer- sale, Socrate mostra che l’uomo è in
possesso di un criterio su- premo di moralità che lo aiuta a distinguere il
bene dal male. È vero che gli uomini considerano buone cose diverse: uno pone
il suo bene nella ricchezza, un altro negli onori, un altro ancora nella virtù;
ma è anche vero che ogni uomo possiede la stessa nozione di bene e di male. Un
uomo può amare le ricchezze e considerarle buone, un altro può considerare
buoni gli onori, un altro i piaceri. Ma, osserva Socrate, nessuno dirà che il
bene è male e che il male è bene; ognuno cercherà quello che egli considera
bene e fuggirà quello che considera male. È evidente, dunque, che in ciascun
uomo c'è la nozione o concetto di bene e di male, in se stessa sempre ugua- le,
anche se la sua applicazione è diversa. Il problema critico del fondamento e
del valore dei codici e delle consuetudini morali dopo Socrate viene ripreso
spesse volte da molti altri filosofi, ma senza più uscire dall’alternativa già
emer- sa nel dibattito tra Socrate e i Sofisti, l'alternativa tra convenzio-
nalismo (la soluzione dei Sofisti) e naturalismo (la soluzione di So- crate). A
favore del convenzionalismo si schierano gli epicurei, gli scettici, i
nominalisti, Cartesio, gli empiristi, i positivisti, gli esi- stenzialisti, i
marxisti e altri ancora. Si mettono invece dalla parte del naturalismo Platone,
Aristotele, Plotino, i neoplatonici, la mag- gior parte degli scolastici, gli
idealisti, i neorealisti e i neotomisti. 2. La prospettiva teoretica La
prospettiva teoretica verte sulle condizioni trascendentali del- l'agire morale
e sul criterio supremo per distinguere il bene dal male. Quanto alle condizioni
trascendentali tutti i filosofi sono d’ac- cordo nel riconoscere che la prima
di tutte le condizioni è la libertà. Essi potranno discutere sulla possibilità
o meno di provare teoretica- mente che l'uomo possiede questa qualità, ma non
sul principio che se l'uomo non è libero non si può assolutamente parlare di
mora- lità. Questa verità già lucidamente illustrata da Aristotele nell’Etica
nicomachea fu ulteriormente approfondita dagli Scolastici, in parti- 118 colare
da san Tommaso, da Cartesio e da Kant. Questi considera la libertà la conditio
essendi della morale e fa di essa il primo postu- lato della ragion pratica
ossia della filosofia morale. A proposito della libertà Vanni Rovighi osserva
giustamente che essa è non soltanto una condizione ma anche una componente co-
stante dell'atto morale. Essa non precede la scelta e poi viene meno, ma
accompagna la scelta dall'inizio alla fine. « La scelta è sempre libera, perché
sempre il tradurre in azione un giudizio valutativo esige impegno. Il valore da
attuare in concreto non ci determina mai necessariamente perché non incarna mai
totalmente il valore, per- ché non è mai la pienezza del valore. Un’azione
giusta e generosa è sempre abbastanza scomoda e faticosa per poter essere
guardata sotto questi aspetti negativi, e quindi scartata, e il giudicare che
hic et nunc è il mio vero bene, che l’autentica attuazione di me stesso è
questa, anche se impone un sacrificio, esige sempre, come si diceva, un impegno,
un atto di volontà »- Un'altra condizione trascendentale della morale è là
consapevo- lezza o coscienza. Di per sé questa è già implicita nella condizione
precedente:peressere veramente libera un'azione implica che si conosca ciò che
si fa. Uno dei principi più elementari della morale cristiana dice giustamente
che, per essere grave, un'azione cattiva dev'essere compiuta con piena
avvertenza, ossia con consapevolezza. L'assenza di questa condizione può essere
determinata da due motivi: a) errore riguardo a ciò che si fa (si sceglie una
cosa per un'altra); b) mancanza della facoltà raziocinativa o impedimento del
suo uso in chi agisce (per esempio, il bambino che non ha ancora l’uso di
ragione, il pazzo, l'ubriaco, ecc.). La terza condizione trascendentale della
morale è che la libertà sia guidata da qualche norma, da qualche principio
direttivo. Una libertà assoluta che rifiuti di sottostare a qualsiasi legge,
come quella affermata da Nietzsche e Sartre, diventa necessariamente una
libertà amorale. Ma a quali norme deve sottostare la libertà? Qui tocchiamo già
la questione del criterio supremo della moralità, una questione che vede i
filosofi profondamente divisi. Da una parte si trova una va- stissima schiera
d’autori che assegnano la funzione di criterio su- premo al fine ultimo verso
cui si dirige l'uomo nelle sue azioni. Dall'altra si trova un gruppo abbastanza
nutrito di filosofi che asse- gnano il ruolo di criterio supremo alla legge, al
dovere. Le morali costruite sul principio del fine si chiamano teleologiche;
invece quelle costruite sul principio del dovere si chiamano deontologiche,
Dato, però, che tutt'e due i principi, fine ultimo e dovere, sono suscettibili
di diverse interpretazioni (così, per esempio, il fine ultimo può essere
identificato col piacere, oppure con l'interesse, 2 S. VANNI RovIGHI, « Il
problema morale », in Studio ed insegnamento della filosofia, Ave, Roma 1969,
vol. I, pp. 294-295. 119 Costante interazione tra libertà e scelta La
consapevolezza 0 coscienza Morali teleologiche e morali deontologiche Le
concezioni relativistiche o situazionali Edonismo: il bene morale è il piacere
sensibile Epicuro: il piacere come assenza di dolore La virtù mezzo per
conseguire il vero piacere l'utile o privato oppure della società, con la felicità,
con i valori, ecc., e il dovere può essere fondato su leggi divine oppure
naturali oppure civili, ecc.) ne consegue che si possono sviluppare vari tipi
sia di morali teleologiche sia di morali deontologiche. Nel gruppo delle morali
teleologiche i'tipi principali sono: edo- nismo, utilitarismo, eudemonismo e
l'etica dei valori. Mentre nel gruppo delle morali deontologiche i tipi
principali sono due: stoici- smo e formalismo kantiano. Ci sono però alcuni
filosofi che rifiutano di costruire la morale su di un principio assoluto, sia
esso il fine ultimo oppure il dovere. Ammettono senz'altro che l’uomo ha doveri
da compiere, leggi da osservare, fini da realizzare, ma questi mutano da
un'epoca all'altra, da un luogo all’altro, da una circostanza all'altra. Pertanto
ritengono che si possano elaborare soltanto etiche relativistiche o
situazionali. Nelle pagine che seguono esporremo brevemente questi tipi fon-
damentali di morale teleologica, deontologica e situazionale, riferen- doci a
qualcuno degli autori più rappresentativi. a) Edonismo - L'edonismo assume
quale criterio supremo della moralità il piacere sensibile e, pertanto,
identifica il bene morale con quest'ultimo. Esso è stato professato anzitutto
da alcune cor- renti della filosofia greca: i Sofisti, i Cirenaici e gli
Epicurei, e poi da vari autori dell'epoca moderna: Montaigne, Hobbes,
Helvetius, Bentham, Stuart Mill, Freud. I più noti assertori dell'etica
edonistica sono gli Epicurei, ai quali si deve senz'altro l'elaborazione più
rigorosa di questo tipo di morale. Epicuro giustifica la scelta del piacere
quale criterio supremo della morale nel modo seguente: « Noi diciamo che il
pia- cere è principio e fine della vita felice, perché abbiamo riconosciuto che
tra i beni il piacere è il primo e quello più connaturale a noi ». In effetti è
sempre per il piacere che noi scegliamo di fare o di fuggire qualche cosa. a Il
piacere in cui Epicuro fa consistere la felicità è la vita pacifica, l'assenza
di qualsiasi preoccupazione (atarassia). Il piacere è quindi concepito come
assenza di dolore piuttosto che come soddisfaci- mento di qualsiasi passione: «
Quando diciamo che il piacere è il bene supremo non intendiamo riferirci ai
piaceri dell'uomo corrot- to, che pensa solo a mangiare, bere e alle donne ».
La virtù è il mezzo per conseguire il vero piacere. Virtuoso è colui che coglie
il vero diletto secondo moderazione e misura, e limita il suo desiderio a quei
piaceri che non turbano l’anima. Per il pieno raggiungimento dell’atarassia,
della felicità, Epicuro raccomanda di liberarsi dalle tre preoccupazioni che
maggiormente assillano l'uomo: gli dèi, la morte e la politica? L'etica
edonistica teorizzata da Epicuro e propagandata dai suoi ' Cfr. B. MONDIN, vol.
I, pp. 176-177. 120 discepoli in tutte le regioni dell'impero ellenistico,
aveva già trovato dei convinti assertori in alcuni filosofi del secolo V a. C.,
soprattutto tra i Sofisti e i Cirenaici (questi ultimi capeggiati da
Aristippo). Le loro teorie avevano richiamato l’attenzione di Platone e di
Aristotele, i quali elaborano le loro dottrine morali in costante polemica con
le posizioni degli edonisti, mettendone in luce i gravissimi limiti. In- fatti
la natura umana si caratterizza per la sua componente spiri- tuale, l'anima, e,
quindi, non può avere per fine il piacere, bensì la virtù, in particolare la
virtù della sapienza. Questa e non il pia- cere costituisce il criterio supremo
della moralità, e per conseguire la sapienza l'uomo dev'essere disposto a
compiere qualsiasi sacrificio. Una critica altrettanto perentoria dell’edonismo
si ha col cristia- nesimo che esalta l’amore come superamento dell’egoismo e
del- l’edonismo, e rivela i lati positivi del dolore, i quali lo rendono per-
fino amabile, non in sé, ma come mezzo insostituibile di purifica- zione e di
perfezione individuale, e di redenzione per gli altri. b) Utilitarismo -
L’utilitarismo assume come criterio supremo della morale l’utile, l'interesse,
il vantaggio. Di esso si danno due ver- sioni principali, dette utilitarismo
egoistico e utilitarismo altruisti- co o sociale. Il primo fa valere come
criterio l'utilità, l'interesse del singolo; invece il secondo fa valere
l'interesse, il vantaggio della collettività. Il sostenitore più convinto
dell’utilitarismo egoistico è Hobbes; mentre quasi tutti gli altri massimi
esponenti della filosofia inglese (Bacone, Locke, Hume, Stuart Mill, Russell)
sostengono l’u- tilitarismo altruistico e criticano severamente la posizione di
Hob- bes. Così, per esempio, Hume osserva, contro Hobbes, che la lode e il biasimo
che noi accordiamo ad azioni virtuose compiute lontano da noi (lontananza di
tempo e di spazio) oppure da un nostro avversario e che possono anche nuocerci,
provano l’esistenza, all’ori- gine dei nostri sentimenti, di qualcosa che
sfugge all’istinto egoista e che non pretende di far appello nemmeno ad un
interesse privato immaginario. Vi sono inoltre inclinazioni in noi, come la
generosità, l’amore, l'amicizia, la compassione, la rettitudine, che hanno «
cause, effetti, oggetti, operazioni » totalmente diverse da quelle delle pas-
sioni egoistiche. L'ipotesi di una benevolenza disinteressata, distinta
dall'amore proprio, è realmente più semplice e più conforme all'e- sperienza
dell'ipotesi che pretende di risolvere ogni sentimento u- manitario attraverso
l'egoismo. Vi sono esigenze naturali e passioni mentali che ci spingono verso
l'oggetto senza alcuna considerazione di puo interesse. A Stuart Mill spetta il
merito d'avere elaborato una forma sofi- sticata di utilitarismo in cui cerca
di far coincidere il piacere indi- viduale (fissando una ingegnosa « scala dei
piaceri ») con l'utilità della collettività. La coincidenza si realizza
allorché si dà la prefe- renza ai piaceri del « cuore » (devozione e
altruismo), inesauribili produttori di gioie incessantemente rinnovate per
colui che dà come 121 L'utilitarismo egoistico di Hobbes Stuart Mill: piacere
individuale e interesse collettivo Eudemonismo in Aristotele e Tommaso: la
felicità come piena realizzazione dell’essere Contemplazione filosofica e
contemplazione teologica per colui che riceve. Il traguardo di questa mirabile
fusione non è frutto di calcoli egoisticamente sottili, ma piuttosto di un pro-
cesso psicologico di associazione delle idee. Secondo Mill, grazie a tale
processo, la nozione di interesse proprio e ia nozione di interesse altrui
diventano così strettamente fuse che l'individuo non può più pensare alla
propria felicità senza, automaticamente, pensare a quella degli altri: donde
l’aspetto d'obbligazione e di spontaneità, allo stesso tempo, che assume la
vita morale presso l’in- dividuo realmente virtuoso. c) Eudemonismo - Per
l’eudemonismo (dal greco eudaimonia), il criterio supremo della morale è la
felicità, cosicché un'azione è giudicata moralmente elogiabile oppure
riprovevole a seconda che sia o no compiuta in vista della felicità, I massimi
esponenti di questo tipo di morale sono Aristotele e Tommaso d'Aquino. Secon-
do entrambi questi autori ogni azione è diretta ad un fine, ma que- sto non
basta a renderla eticamente valida; ciò avviene soltanto nel caso che il fine
particolare in vista del quale è compiuta sia in ar- monia col fine ultimo
verso cui è orientato colui che la compie. Il fine ultimo d'ogni ente è la sua
piena realizzazione, e questa si ottiene con lo svolgimento a pieno ritmo di
quell’attività che gli è propria, ossia di quell'attività che attua la sua
natura specifica. Dal raggiun- gimento dell'ultimo fine dipende la sua
felicità. Quanto all'uomo, l’attività che lo distingue dagli animali è il
pensiero, la cui espres- sione massima è la contemplazione. Perciò la felicità
dell'uomo non consiste né nelle ricchezze né negli onori e tanto meno nel
piacere (tutte cose che anziché contribuire alla piena realizzazione della men-
te umana, la disturbano e persino l’offuscano interamente), bensì nella
contemplazione. Ma contemplazione di che cosa? Su questo punto c'è una parziale
divergenza tra Aristotele e Tommaso. Secondo Aristotele la contemplazione che
assicura all'uomo la piena felicità è quella della verità assoluta nei tre campi
della fisica, della mate- matica e della metafisica. Invece per san Tommaso la
contempla- zione ha un senso eminentemente teologico: secondo il pensatore di
Aquino l’unica contemplazione che può esaurire tutte le esigenze del pensiero e
che perciò può ricolmare l’anima di felicità è la con- templazione di Dio. Per
comprendere bene il pensiero di san Tom- maso su questo punto occorre però fare
una precisazione: la cono- scenza di Dio in cui egli ripone la piena felicità
dell'uomo non è certamente quella conoscenza analogica di Dio che la nostra
mente può raggiungere durante la vita presente. Neppure la conoscenza
metafisica più eccelsa può bastare a farci felici, dato che la rîfles- sione
filosofica ci fa vedere più quello che Dio non è, che quello che egli è.
Persino la conoscenza che otteniamo mediante la fede è insufficiente a farci
felici: essa mette a disagio la nostra mente piuttosto che appagarla. La sola
conoscenza in cui san Tommaso ri- pone la nostra felicità è la visione
beatifica di Dio, una conoscenza 122 soprannaturale che possiamo ottenere
solamente nella vita futura. S'è detto che la moralità d'una azione secondo
Aristotele e Tom- maso dipende dal rapporto che intercorre tra il fine al quale
essa è di fatto diretta e il fine ultimo. Ora, a questo proposito sorge spon-
taneamente la domanda: come fa l’uomo a determinare la moralità delle proprie
azioni? Chi lo istruisce sui rapporti esistenti tra le azio- ni che vuole
compiere e il suo fine ultimo? Sia secondo Aristotele che Tommaso, questa è la
funzione propria della legge, la quale è essenzialmente l’espressione della
moralità d'una azione. Si danno però due tipi principali di legge. C'è
anzitutto una legge naturale, la quale è conosciuta infallibilmente solo nei
suoi principi più univer- sali, come, per esempio, « fa' il bene e evita il
male ». Da questi principi generali della legge naturale l’uomo può procedere a
deter- minare la moralità delle singole azioni mediante il ragionamento. E
questo è il compito principale dell’etica e di chi fa filosofia morale cioè del
saggio. Senonché questo è un lavoro che ben pochi hanno la possibilità e
capacità di svolgere. Ecco allora che subentra la legge positiva (umana per
Aristotele, anche divina per Tommaso), la quale ha la funzione di determinare
la legge naturale e di applicarla ai casi concreti.‘ d) Stoicismo - Lo
stoicismo assume come criterio supremo della morale la pratica della virtù. I
tratti essenziali dello stoicismo etico sono già presenti in Platone. Questi
nel Gorgia dimostra che merita più compassione chi commette ingiustizia che
colui che la soffre; con lo stesso ragionamento nella Repubblica dimostra che è
più fe- lice il giusto in croce che l'ingiusto che nuota in un mare di piaceri.
Infine, nel Fedone insegna che per raggiungere la felicità è necessario
rinunciare ai piaceri e alle ricchezze e dedicarsi alla pra- tica della virtù.
Gli insegnamenti etici di Platone sono stati ripresi e sviluppati con maggiore
organicità da Zenone e dai suoi discepoli (ossia dagli Stoici). Il loro principio
fondamentale è che condotta morale significa condotta secondo ragione (vale a
dire secondo il Logos). Condotta secondo ragione vuole dire pratica della
virtù. Pertanto la virtù costituisce il criterio supremo della moralità. Ma che
cosa intendono gli Stoici per virtù? La virtù è una dispo- sizione interna
dell'anima per la quale essa si trova in armonia con se stessa, ossia col
proprio Logos. La virtù non consiste come aveva creduto Aristotele nel giusto
mezzo tra due difetti opposti, bensì in uno dei due estremi: e precisamente
nell'estremo conforme alla ragione (mentre l’altro estremo è conforme alle
passioni). Tra virtù e vizio non si dà via di mezzo; uno non è più o meno
vizioso o più o meno virtuoso: o è virtuoso o è vizioso. E di fatto, chi vive
secondo ra- 4 Ivi, pp. 139-141. 5 Ivi, pp. 92-93. 123 La funzione regolatrice
della legge morale Il criterio morale supremo dello stoicismo è l'esercizio
delle virtù La virtù: condotta secondo ragione La virtù è l'assoluto dominio
della ragione La ‘‘apatia’’ degli Stoici: superamento dell’egoismo e
immedesimazione nel Logos Il formalismo etico: l'esecuzione del dovere
L’“‘imperativo categorico’’ di Kant come norma suprema della moralità gione,
cioè il saggio, fa tutto bene e virtuosamente; invece chi è privo della retta
ragione, lo stolto, fa tutto male e in modo vizioso. La pratica della virtù
secondo gli Stoici consiste nell’apatia (a- patheia), cioè nell'annullamento
delle passioni e nel superamento della propria personalità. Solo superando la
propria personalità, che è l'indice estremo dell’egoismo, perdendo la propria
individua- lità, è possibile congiungersi col Logos. Per questo è necessario
liberarsi dalle passioni che sono le catene che legano l’anima al cor- po e le
impediscono di unirsi al Logos. Per raggiungere questa libertà di spirito
bisogna essere indifferenti alle contingenze della vita quotidiana, e a tutto
ciò che non è in nostro potere. La morale stoica con i suoi spunti fortemente
ascetici e con il suo impegno squisitamente interioristico e spirituale
presenta una considerevole affinità con la morale cristiana. Questo spiega
perché essa abbia incontrato il favore della chiesa primitiva e abbia indotto i
padri della chiesa e molti scolastici ad incorporarla nella loro dottrina
morale. Ciò è durato fino a quando san Tommaso, riabili- tando Aristotele,
introdusse una nuova visione dell'uomo e delle cose in cui si esaltano non
soltanto i valori dell'anima e del cielo ma anche quelli del corpo e di questo
mondo. Il felice connubio du- rato tanti secoli tra stoicismo e cristianesimo
fu allora interrotto. e) Formalismo etico - Il formalismo etico pone il
criterio supre- mo della morale nella pratica della virtù, nell'esecuzione del
dovere, nell’obbedienza alla legge, come lo stoicismo. Ma esso insiste ancor di
più di quest’ultimo sulla non pertinenza dei contenuti al fine di determinare
il valore morale di una azione: ciò che conta è esclusiva- mente la forma e
questa è data dall’obbedienza alla legge per la legge, dall'esecuzione di
un'azione solo per puro amore del dovere. Questa è la nota concezione della
morale che Kant sviluppa nella Critica della ragion pratica. In quest'opera
Kant sostiene che il cri- terio supremo della morale non può essere derivato
dall’esperienza, perché in tal caso si avrebbe un criterio soggettivo e
particolare, per- ciò variabile e contingente, che determinerebbe la volontà ad
agire per un fine esterno ad essa e non per la legge morale che la volontà dà a
se stessa: la volontà sarebbe eteronoma e non autonoma, come invece esige la
moralità dell’azione. Perché il criterio supremo della moralità abbia validità
assoluta e universale, è necessario che sia indipendente da ogni possibile
oggetto particolare e si riferisca ad una forma a priori incondizionata. Come
la conoscenza è universale e necessaria non per il contenuto fornito
dall'esperienza, ma per la forma a priori che la riveste; così un'azione assume
valore morale non in forza dell'oggetto a cui è rivolta bensì per una forma a
priori, una legge pura. Tale forma a priori, tale legge pura, per Kant è l'im-
perativo categorico: « obbedisci alla legge per la legge stessa e per ‘ Ivi,
pp. 171-174. 124 nessun altro motivo ». L'obbedienza a questo imperativo
costituisce l'essenza della morale. « L'essenziale d'ogni determinazione della
vo- lontà mediante la legge è: che essa come volontà libera, quindi non solo
senza il concorso degli impulsi sensibili, ma anche con l’esclu- sione di tutti
quegli impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni, in quanto possono essere
contrarie a quella legge, venga determinata solo mediante la legge ». Kant,
però, è consapevole che la norma dell'imperativo categorico è troppo astratta e
indeterminata per costituire una guida valida ed efficace della vita morale, e
pertanto suggerisce alcune formule che consentono a chi agisce di verificare se
la propria azione sia con- forme all'imperativo categorico o no. Le formule
sono le seguenti: Prima: « Agisci in modo che la massima della tua azione possa
sempre valere al tempo stesso come principio universale di con- dotta ».
Seconda: « Agisci in modo da trattare l'umanità sia nella tua persona che negli
altri come fine e mai come mezzo ». Terza: « A- gisci in modo che la tua
volontà possa considerare se stessa come istituente una legislazione universale
», ossia agisci secondo mas- sime tali che la volontà d'ogni uomo, in quanto
volontà legislatrice universale le possa approvare. f) Etica dei valori o
assiologia? - Da alcuni autori (Meinong, Hart- mann, Scheler, ecc.) il
tentativo di Kant di uscire dal soggettivismo facendo appello ad un principio a
priori non è ritenuto valido, e que- sto per due ragioni. Prima, perché deriva
il criterio dell’imperativo categorico esclusivamente da un dettame della
coscienza indivi- duale. Seconda, perché prescinde completamente dal contenuto
delle azioni. Al fine di restituire obiettività al criterio supremo della mo-
rale essi si richiamano alla tradizione classica, la quale come s'è visto,
assegna la funzione di norma suprema della morale al bene. Questo però viene da
loro concepito non tanto come fine ultimo quanto come valore. Di qui il nome
della loro etica. Il massimo esponente di questa concezione del fondamento
della morale è Max Scheler. Nell'opera Formalismo nell'etica e l'etica ma-
teriale dei valori egli fa vedere che la critica kantiana all'etica ma- teriale
può valere soltanto se riferita a dei beni particolari, ma non vale se riferita
al bene inteso come valore. Questo infatti non è per nulla un dato empirico
come pretende Kant, ma qualcosa di as- soluto. Il valore, precisa Scheler, è
l'oggetto proprio dell'etica così come l’essere è l'oggetto della metafisica,
il bello dell'estetica, il sacro della religione, il fatto della storia. E
pertanto come per la percezione del bello, del sacro, dell'essere, ecc., si
danno organi specifici, simil- mente l’anima possiede un organo particolare per
la percezione del valore. Quest'organo non è né la fantasia, né il senso, né la
ragione, ® I KANT, Critica deîla ragion pratica, Laterza, Bari 1924, p. 87. $
B. MONDIN, vol. 1I, pp. 320-326. ? L'etica dei valori (o assiologia) è trattata
più ampiamente nel cap. XIV. 125 Le tre massime universali di Kant L’etica dei
valori: recupero del contenuto delle azioni Scheler: il valore - oggetto della
morale L’apprensione emozionale come sentimento intenzionale I valori della
persona e i valori delle cose Relativismo morale e gnoseologia scettica ma
qualcosa di diverso, che Scheler chiama « organo emozionale ». L'organo
emozionale che ci pone a contatto col valore si articola in un « sentire » che
coglie i singoli valori, in un « preferire » che ne stabilisce la gerarchia, e
in un « amare » che precede il sentire e il preferire nella ricerca di nuovi
valori, « come un pioniere e una guida ». Siffatta apprensione emozionale non
ha nulla a che vedere con la sensibilità empirica, perché il valore è una
qualità che sussi- ste del tutto indipendentemente, non una proprietà connessa
sostan- zialmente con l'oggetto che ne è il portatore; tanto è vero, osserva
Scheler, che la « sfumatura di valore » di un oggetto, ad esempio il carattere
simpatico o antipatico di una persona, è colto prima an- cora che si colga
distintamente l'oggetto stesso. E neppure si tratta di un sentimento
psicologico, bensì di un sentimento intenzionale, che è « un originario riferirsi
o indirizzarsi a qualcosa di oggettivo », qual è appunto il valore. Determinato
il criterio fondamentale dell’etica e la facoltà co- noscitiva atta a
riconoscerlo, Scheler passa a considerare quali sono di fatto i valori che
l’uomo conosce e con quale ordine gerar- chico si presentano. Scheler distingue
due classi di valori: valori di persona {Personwerte) e valori di cosa
(Sachwerte). Ovviamente i valori di persona sono quelli che si riferiscono alla
persona, e cioè anzitutto il valore dell'essere stesso della persona e poi i
valori delle virtù. Invece valori di cosa sono quelli che contribuiscono a
formare quelle unità axiologiche cosali costituenti i « beni », siano essi beni
materiali (utili o piacevoli), beni vitali (come quelli economici), beni spirituali
(come la scienza e l’arte), o siano in genere i beni culturali. Di queste due
classi solo la prima abbraccia i valori propriamente etici, perché questi, come
già osservava Kant, hanno per portatore essenzialmente la persona. Ciò
significa che un'azione, che contri- buisce alla formazione e allo sviluppo
della persona, in sede etica, merita d'essere giudicata positivamente; mentre
invece un'azione che danneggia la persona va giudicata negativamente. g)
Relativismo e situazionismo - Con questi due termini si designa una teoria
etica, la quale si sforza di dimostrare che le esigenze morali sono determinate
da condizioni mutevoli dalle quali derivano, per tali esigenze, contenuti non
solo diversi ma anche in parte con- traddittori, cosicché è logico pensare che
nessuna istanza morale può essere veramente vincolante. Il relativismo morale
come pure il situazionismo si presentano in due forme principali. La prima
forma è a base gnoseologica e ha avuto diffusione anche di là dal campo
dell'etica filosofica e délla stessa scienza. I suoi principali sostenitori si
trovano tra i sofisti, gli scettici, i nominalisti. La seconda forma è a base
ontologica: è il relativismo proprio del materialismo storico elaborato da Marx
e da Engels. In entrambe queste forme di relativismo, proprio perché si nega
126 l'esistenza di un criterio supremo della moralità, qualsiasi discorso etico
diviene arbitrario e, in ultima analisi, privo di senso. A questa conclusione è
giunta ultimamente anche la corrente filo- sofica del neopositivismo, in base a
considerazioni che a prima vista sono di ordine linguistico, ma guardando a
fondo, sono di ordine gno- seologico: si tratta sempre di una concezione
empiristica e quindi relativistica della conoscenza umana. I neopositivisti e i
loro discendenti, gli analisti del linguaggio, ritengono errata l'impostazione
tradizionale della filosofia morale come del resto anche di tutte le altre
parti della filosofia. La que- stione primaria e specifica della filosofia in
ogni suo settore non è esaminare contenuti e tanto meno stabilirli, bensì
studiare il lin- guaggio con cui vengono espressi. Pertanto, per quanto
concerne l’e- tica, il compito del filosofo non è di ricercare il criterio
supremo della moralità, ma di esaminare il linguaggio proprio della morale al
fine di determinarne il vero significato. Secondo i neopositivisti il
linguaggio della morale non può avere significato oggettivo, perché non si può
controllarlo mediante la « verifica sperimentale »: esso esprime disposizioni
soggettive di chi parla oppure è teso a suscitare determinate disposizioni
sogget- tive di chi ascolta. È pertanto un linguaggio che ha un valore essen-
zialmente emotivo. I filosofi della corrente analitica ritengono arbitraria e
falsa la teoria neopositivista del linguaggio, in quanto privilegia indebita-
mente un tipo di linguaggio, quello delle scienze sperimentali, ad e- sclusione
di tutti gli altri. Il linguaggio modello a loro avviso non è quello
scientifico bensì quello ordinario. Il significato e il valore degli altri
linguaggi va determinato mettendoli a confronto col lin- guaggio ordinario.
L'esito di questo confronto per quanto concerne il linguaggio morale varia da
autore ad autore. C'è peraltro una tendenza a riconoscerne il valore oggettivo
ed universale.! 3. Il problema etico ha delle soluzioni? Il quadro che ci
presenta la storia della filosofia morale è indub- biamente uno dei più
sconcertanti: all'uomo che ha bisogno di di- rettive sicure per le sue azioni e
di un'indicazione precisa sul senso e il significato ultimo della sua esistenza
esso offre i suggerimenti più diversi e contraddittori. Che significa tutto
questo? Forse, che ci tro- viamo davanti a problemi insolubili? Molti filosofi,
tra cui alcuni anche di ispirazione cristiana, pensano di sì. Noi non siamo di
questo parere. Ammettiamo senz'altro che an- che per la morale come per je
aitre parti della filosofia sia impossibile ottenere soluzioni dogmatiche, si
tratta in effetti di problemi estre- 1° Per il problema del linguaggio vedi
cap, III 127 Neopositivismo: determinazione del senso del linguaggio morale
Analisi del linguaggio: l'assunzione del linguaggio ordinario come modello
Impossibilità di una soluzione dogmatica Esigenza della correlazione
antropologica, metafisica e teologica naturale Rapporto tra valore e volontà
mamente difficili, la cui soluzione si raggiunge soltanto per la tor- tuosa via
della speculazione. Ma ciò non toglie che tale speculazione possa avere esiti
positivi e conseguire soluzioni valide. Per raggiungere questo traguardo però
occorre sviluppare l'etica su basi teoretiche sufficientemente sicure,
derivandole dall’antropo- logia, dalla metafisica e dalla teologia naturale.
Una morale autono- ma, totalmente disgiunta dalla metafisica e dalla teologia
naturale e indipendente dalla filosofia dell'uomo, così come la concepisce
Kant, sfocia necessariamente nel soggettivismo e nel relativismo. D'altronde è
inammissibile che si possa dare autonomia etica per un essere come l'uomo, un
essere finito, creato da Dio, dal quale riceve oltre all'esistenza, anche lo
scopo della sua vita e le regole e i mezzi per conseguirlo. Pertanto la morale
è essenzialmente legata alla metafisica e tale nesso si coglie bene nel
concetto di valore. La morale, come dicono molti autori, è la scienza dei valori
e il suo obiettivo è di promuovere valori come la giustizia, la carità, la
pace, la speranza, la sapienza, la modestia, ecc. Ma che cosa sono
essenzialmente questi valori? Qual è il loro fondamento? Forse il capriccio
individuale? È la volontà umana che stabilisce che cosa è bene, cosa è giusto,
cosa è vero, cosa è puro, o è la realtà stessa che porta con sé questi
caratteri? La riflessione metafisica può mostrare che è la realtà stessa che
pos- siede questi valori. D'altra parte il concetto di valore dice rapporto ad
una volontà (valore è la caratteristica per cui una cosa è degna d'essere
voluta). Ciò significa che la realtà è in quanto tale voluta; « vuol dire che
all'origine delle cose c'è una Volontà intelligente, vuol dire che il supremo
Essere, quello da cui procede ogni realtà, è volontà intelligente ».!! Su
queste basi metafisiche si può innalzare un edificio morale sufficientemente
robusto, universalmente valido e, allo stesso tem- po, solidamente ancorato
alla realtà concreta e alla storia. CONCETTI DA RITENERE — Problema critico;
problema teoretico — Edonismo; utilitarismo; stoicismo; formalismo etico; etica
dei valori o assiologia; relativismo o situazionismo — Apatia; imperativo
categorico SINTESI CONTENUTISTICA . I. CARATTERI DEL PROBLEMA 1. L'etica o
morale è lo studio dell’attività umana con riferimento al suo fine ultimo,
ovvero la sua piena realizzazione. 2. Il problema riveste due aspetti o
prospettive: a) critico (fondamento e 4! S. VANNI ROVIGHI, Articolo citato, p.
292. 128 valore dei codici, dei principi, delle norme); b) teoretico
{condizioni che ren- dono possibile l'azione morale in assoluto). II. LA
PROSPETTIVA CRITICA 1. Si impone da sé a partire dalle norme e dalle leggi che
i membri di una società devono osservare. Si pongono i seguenti interrogativi:
Chi le ha stabi- lite? Che valore hanno? Si possono cambiare? Chi ha diritto di
farlo? ecc. 2. I Sofisti, a motivo delle diversità presenti nei vari popoli,
ritengono che le norme etiche siano determinate dalle convenzioni sociali e che
i giovani deb- bano essere educati ad esse. 3. Socrate, al contrario, afferma
che le norme e i principi etici hanno il loro fondamento nella natura umana e
l'educazione pertanto non è finalizzata all’ap- prendimento, bensì alla presa
di coscienza di ciò che è innato. 4. Nel corso dei secoli il convenzionalismo
avrà i suoi sostenitori negli epicurei, scettici, nominalisti, in Cartesio,
negli empiristi, neopositivisti, esisten- zialisti e marxisti. Il naturalismo
sarà invece condiviso da Platone, Aristotele, Plotino, dai neoplatonici, dagli
scolastici, dagli idealisti, dai neorealisti e dai neotomisti, III. LA
PROSPETTIVA TEORETICA 1. Prima condizione trascendentale dell'azione morale è
concordemente ritenuta dai filosofi la libertà. La questione aperta da Aristotele
«(Etica nico- machea), è stata approfondita da s. Tommaso, da Cartesio e da
Kant. 2. Seconda condizione trascendentale è la consapevolezza o coscienza.
L'assenza di essa può essere determinata da: a) errore circa ciò che si fa; b)
mancanza di facoltà raziocinativa o impedimento momentaneo del suo uso. 3.
Terza condizione trascendentale è che la libertà sia guidata da un princi- pio
direttivo. Una libertà assoluta (Nietzsche e Sartre) diviene libertà amorale.
4. Circa il criterio supremo della moralità si prospettano due concezioni: la
teleologica (basata sul principio del fine); la deontologica (basata sul prin-
cipio del dovere) con delle diversificazioni al proprio interno; una terza
posi- zione, dettata da orientamenti relativistici, è quella situazionale
(leggi e fini mutano attraverso i tempi, i luoghi, le circostanze). Le
specificazioni interne ai due criteri sono: — edonismo (Sofisti, Cirenaici,
Epicurei, Montaigne, Hobbes, Helvetius, Bentham, Stuart Mill, Freud): criterio
supremo è il piacere sensibile, con il quale si identifica il bene morale; —
utilitarismo: criterio supremo è l’utile, l'interesse, il vantaggio. Esso si
distingue in: a) utilitarismo egoistico (Hobbes) che fa valere come criterio
l'utilità e l'interesse del singolo; b) utilitarismo altruistico (Bacone,
Locke, Hume, Stuart Mill, Russell) il quale tende a far coincidere la
realizzazione del- l'utile individuale con quello della collettività; —
eudemonismo (Aristotele, S. Tommaso): criterio supremo è la Felicità: un'azione
è morale nella misura in cui fa conseguire la felicità, che esprime la piena
realizzazione della persona; — stoicismo: criterio supremo è la pratica della
virtù. La prospettiva, già presente in Platone (Gorgia, Repubblica, Fedone) è
maggiormente sviluppata dagli Stoici, secondo i quali la pratica della virtù
consiste nell’apatia (annulla- mento delle passioni e superamento della propria
personalità). L'ascetismo, che caratterizza la morale stoica, ha fatto sì che
essa fosse ben accetta dalla Chiesa primitiva; — formalismo etico: il criterio
supremo sta nell'esecuzione del dovere e nell'’obbedienza alla legge. Ciò che
conta è soprattutto la forma, cioè l’obbe- dienza alla legge (cfr. Kant,
Critica della Ragion pratica). — etica dei valori o assiologia {Meinong,
Hartmann, Scheler): esprime anzitutto una critica nei confronti del formalismo
etico kantiano e si richiama 129 alla tradizione classica, assegnando al bene
Ja funzione di norma suprema. Il bene è concepito però come valore più che fine
ultimo. Scheler in Formalismo nell’etica e l'etica materiale dei valori afferma
che il valore è l'oggetto dell'etica così come l'essere lo è della metafisica,
il bello dell’arte, il sacro della religione. L'anima possiede pertanto un
organo specifico per percepirlo, che Scheler chiama « organo emozionale » che «
sente » i singoli valori, li « preferisce » gerarchicamente e « ama », ovvero
ricerca valori nuovi, come « un pioniere e una guida ». Scheler distingue
inoltre i valori di persona e i valori di cosa. — relativismo e situazionismo:
secondo tali concezioni le esigenze morali sono determinate da condizioni
mutevoli dalle quali derivano contenuti non solo diversi ma anche in parte
contraddittori: a) la forma a base gnoseologica (sofisti, scettici,
nominalisti) ha avuto dif- fusione anche al di là del campo dell'etica e della
scienza. b) la forma a base ontologica è quella propria del materialismo
storico elaborato da Marx ed Engels. Il relativismo è oggi condiviso dai
neopositivisti e dagli analisti del linguaggio. IV. ETICA E METAFISICA 1. È
impossibile per il problema etico trovare soluzioni dogmatiche, ma è possibile
avere esiti positivi e conseguire soluzioni valide. 2. È necessario pertanto
reperire basi teoretiche sufficientemente sicure nell'antropologia, nella metafisica,
nella teologia naturale. 3. Il nesso tra etica e metafisica si coglie nel
concetto di valore. La rifles- sione metafisica, infatti, può mostrare che è la
realtà stessa che possiede i va- lori, mentre il concetto di valore rivela che
c'è un rapporto tra realtà e volontà (cioè che una cosa è degna di essere
voluta: quindi la realtà in quanto tale è degna di essere voluta). QUESTIONARIO
DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Come si configura il nostro orizzonte culturale in
ordine all’antropolo- gia, alla metafisica, alla teologia e conseguentemente
all'etica? 2. Che cosa studia la morale? 3. Che cosa si intende per prospettiva
critica e teoretica della morale? 4. Qual è il compito del filosofo riguardo
alla morale? 5. Su che cosa si fondano i codici morali? Qual è l'opinione dei
massimi filosofi al riguardo? 6. Quali sono i principali tipi della morale
filosofica? Che cosa si intende per edonismo, utilitarismo, eudemonismo,
formalismo etico? 7. Che cosa rappresenta la libertà per la morale? 8. Quali
sono le condizioni essenziali dell'atto morale? 9. Che cos'è l’etica dei
valori? 10. Qual è il fine ultimo della vita umana secondo i massimi filosofi?
11. Quali dovrebbero essere i termini di una correlazione tra scienza ed etica?
. 12. In che relazioni si trovano morale e religione, morale e metafisica, mo-
rale e arte, morale e politica? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Valori
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Armando, Roma 1974. 131 Educazione: esigenza dell’uomo di realizzare le sue
infinite capacità Solo gli esseri umani possono acquisire mediante insegnamento
e apprendimento: ciò è l'educazione Interazione tra discorso filosofico e
quello sull'educazione Capitolo decimo a ee IL PROBLEMA PEDAGOGICO QUESTIONARIO
PROPEDEUTICO 1. Qual è il significato etimologico dei termini « pedagogia » ed
« educa- zione »? 2. Che cosa dovrebbe caratterizzare in modo particolare l'educazione?
3. L'educazione è un'azione o una relazione? 1. La pedagogia come teoria
pratica Pedagogia è una parola di derivazione greca, che significa « arte di
guidare il fanciullo » ed è generalmente usata come sinonimo di « scienza
dell'educazione ». L'educazione è un dato di fatto che non ha mai cessato di
esistere. Si tratta, in effetti, di un'esigenza fondamentale dell’uomo il quale
nasce con sconfinate capacità di agire ma senza l'abilità di realiz- zarle.
Egli deve apprendere dagli altri come esplicare le sue capa- cità: come
nutrirsi, camminare, parlare, leggere, scrivere, lavorare, ecc. Il fenomeno
dell'educazione è tipicamente umano. Solo l'uomo può e deve educarsi; nel mondo
animale è possibile tutt'al più un addestramento. Questo perché, mentre l’animale
è un essere già « specializzato » sin dalla nascita, dotato istintivamente di
determi- nate abilità e soltanto di quelle, l'essere umano è, invece,
inizialmen- te privo di qualsiasi specializzazione, ma con la capacità di
acquisire, mediante l'insegnamento e l'apprendimento (vale a dire tramite l’e-
ducazione) le specializzazioni più disparate: nel cibo, nel vestito, nel
lavoro, nello studio, nello sport, nella religione, nell'arte, ecc. Mediante
l’opera educativa esso si specializza e, conseguentemente, si individualizza,
diventa un « io ». In tal modo acquista una per- sonalità che, tra l’altro, è
in continua evoluzione e maturazione. Naturalmente la concezione che si ha
dell'educazione dipende dal- la concezione che si ha dell’uomo e del suo destino,
cioè, come af- ferma il Laberthonnière « esiste tra l'educazione e la
concezione che si ha della vita un rapporto che dovrebbe essere impossibile
contestare ».! È quindi evidente il necessario rapporto che esiste tra il
discorso filosofico ed il discorso sull'educazione. Quest'ultimo è ! L.
LABERTHONNIÈRE, Teoria dell'educazione, La Scuola, Brescia 1965, p. 3. 132 il
logico coronamento dei discorso antropologico ed etico: dopo che sì è compreso
chi è l'uomo e quai è il traguardo ultimo della vita umana, si pone
necessariamente il problema di come guidarlo alla conquista di tale traguardo.
La pedagogia è, dunque, una teoria pratica, € cioè « una teoria che ha per
oggetto di riflettere sui sistemi e sui procedimenti di edu- cazione al fine di
valutarne il valore, con ciò illuminando e dirigendo l’azione degli educatori
». La pedagogia è nata come esigenza delle persone e dei pcpoli per due motivi.
In primo luogo, perché sarebbe rischioso lasciare l’edu- cazione esclusivamente
all'istinto e alla tradizione. in secondo luogo, perché lo stesso pensiero,
cercando di spiegare l’esistenza del- l'uomo ed il suo impegno etico, ha dovuto
necessariamente incon- trarsi con la realtà educativa. 2. Autcnomia della
scienza pedagogica e interdisciplina- rietà L'evoluzione della cultura ha
contribuito alla configurazione an- che della pedagogia come scienza autonoma.
Nelle civiltà antiche le varie cognizioni sulla realtà costituivano un sapere
indifferenziato, identificato generalmente con la filosofia, di cui faceva
parte anche la pedagogia. Nel Medioevo questa venne assorbita dalla teologia.
Solo dopo la fine del Medioevo, con l’ap- profondirsi delie diverse conoscenze,
le scienze acquistarono pro- gressivamente la loro autonomia rispetto sia alla
filosofia che alla teologia. Nell'antichità vediamo pertanto che la pedagogia è
considerata come parte della politica, la quale a sua volta è vista come ramo
della filosofia morale. Infatti, l'ideale educativo dei greci e dei ro- mani
era la formazione dell'uomo in quanto cittadino. Aristotele afferma che,
essendo uno solo il fine della comunità politica, « è ma- nifesta la necessità
che l'educazione sia una sola e identica per tutti, e che la cura di essa sia
affidata allo Stato e non ai privati »? La rivoluzione intellettuale, morale e
sociale operata dal cristia- nesimo portò in primo piano il problema
etico-religioso. Per questo motivo, anche la pedagogia non fa più parte della
politica, ma di- venta un capitolo della morale teologica durante tutto il
Medioevo. Con l’umanesimo e il Rinascimento l'ideale educativo non è più il
perfetto cittadino o il santo, ma l'uomo colto. Gli studi filosofici si
approfondiscono e influenzano anche la pedagogia, che sente sempre più
l'esigenza di un'impostazione di carattere filosofico evi- ? A. LALANDE,
Dizionario critico di filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 620, 3 ARISTOTELE,
Politica VII, c. 1. 133 La pedagogia come taoria pratica Con l'evaluzione della
cultura la pedagogia è divenuta scienza autonoma Oggi la pedagogia, che
rappresenta l'educazione dell’uomo, si vale di scienze ausiliarie (psicologia,
etica, biologia, sociologia) Prospettiva integrale e autonomia della pedagogia
Pedagogia e destino dell'uomo tando peraltro qualsiasi subordinazione ad altre
discipline filo- sofiche. Oggi, l'affermarsi delle scienze positive sta
influenzando anche il campo pedagogico. Si riconosce che se la pedagogia
riguarda es- senzialmente l’uomo, è necessario un contributo di tutte le
scienze; ma non per questo essa deve essere considerata una sintesi oppure un aggregato
di varie scienze, « un ammasso più o meno incoerente di ricette », come afferma
il Mialaret.* Senza dubbio, la pedagogia è una scienza dell'uomo, ma ha vn
ambito -specifico diverso da quello delle altre scienze: l'educazione
dell'uomo. Le scienze che maggiormente concorrono alla conoscenza dell'uomo e
costituiscono pertanto il necessario presupposto della pedagogia sono la
psicologia, l'antropologia, l'etica, la biologia e la sociologia. Queste, che
sono chiamate « scienze ausiliarie » della pedagogia, sono importanti nella
scienza della educazione perché, considerando l'uomo nella sua evoluzione verso
una maturazione fisico-biologica, psicologica e sociale, affrontano problemi e
acqui- siscono cognizioni che sono di importanza capitale per l’impostazio- ne
dell’opera educativa. In effetti, se lo scopo dell'educazione è la liberazione
totale dell'educando, il raggiungimento di tale fine si verifica tenendo conto
delle situazioni biologiche, psicologiche, an- tropologiche, sociologiche e
storiche vissute concretamente dal sog- getto. Inoltre, se l'educazione
dev'essere integrale, cioè riguardante sia l'aspetto materiale che spirituale
dell'uomo, deve mutuare prin- cipi, criteri, metodi dalla filosofia,
dall’etica, dall’estetica, ecc., a se- conda dei problemi specifici che deve
affrontare nel suo ambito. La pedagogia è quindi una scienza autonoma, pur
esigendo un ap- prodo interdisciplinare. Di tutte le discipline, la filosofia è
quella che dà il massimo con- tributo al costituirsi della scienza pedagogica.
Perché? Abbiamo affermato precedentemente che la pedagogia è il logico
coronamento dell'antropologia (la quale spiega chi è l'essere u- mano) e della
morale (la quale stabilisce il fine ultimo della vita umana); conseguentemente
l'educazione è sempre, necessariamente condizionata da una visione dell'uomo e
del destino umano. Infatti, come già s'è detto, « specialmente riguardo
all'uomo, di cui le scienze studiano molteplici aspetti, sono molti i problemi
che nes- suna di esse affronta (mentre li suppone già risolti), come il valore
della vita e della conoscenza umana, la natura del male, l'origine e il valore
della legge morale. Di questi problemi si occupa soltanto la filosofia ».
Esistono tuttora due posizioni opposte per ciò che riguarda il rapporto tra
pedagogia e filosofia: coloro che identificano le due * G. MIALARET,
Introduzione alla pedagogia, Armando, Roma 1970, p. 9. 5 B. MONDIN, vol. I, p.
8. 134 scienze, considerando la pedagogia una semplice appendice della
filosofia e coloro che, al contrario, negano qualsiasi discorso filo-
nell’ambito della pedagogia. Riteniamo queste posizioni er- rate, perché ogni
corrente filosofica trae dai suoi principi una propria pedagogia ed ogni
pedagogia ha come fondamento una data imposta- zione filosofica. Ma la
pedagogia ha un campo di ricerca suo proprio, e dispone di metodi e criteri
specifici che non sono quelli più gene- rali della filosofia. Ed è pertanto da
considerarsi come ambito spe- cifico della ricerca filosofica, alla pari
dell'etica e della politica. 3. Soggetto e finalità delia pedagogia La
pedagogia moderna, capovolgendo il rapporto tradizionale tra maestro e
discepolo, ha affermato il ruolo primario di quest'ultimo nel processo della
sua educazione e di fronte al maestro stesso. Il moderno pensiero pedagogico ha
coniato la espressione rivoluzione copernicana dell'educazione per indicare il
sostanziale mutamento avvenuto nel rapporto tra educatore ed educando,
derivando tale lo- cuzione dal capovolgimento della relazione Terra-Sole
operata da Copernico. Che cosa significa « rivoluzione copernicana
dell'educazione »? Come Copernico in campo astronomico aveva rivoluzionato la
concezione tolemaica della centralità della terra nel sistema solare,
affermando la centralità del sole rispetto a tutti i pianeti del sistema
solare, così, in campo pedagogico, non è più il maestro il perno del- l'azione
educativa, ma il discepolo, alle cui esigenze il maestro deve adeguarsi,
cercando di scoprirle e facendo in modo che egli si auto- promuova. In questa
prospettiva, l’attore e l'autore primario nel processo educativo è il fanciullo
stesso (puerocentrismo). Il sogget- to quindi dell'educazione è certamente
l'educando, come essere at- tivo, personale ed originale; ma è bene precisare
che per « educando » non si deve intendere esclusivamente il bambino, il
ragazzo, il gio- vane, ma l'uomo, perché l'educazione non ha mai termine, né
limiti di età, ma continua per tutta la vita (da questo è derivato il con-
cetto di educazione permanente). Soggetto allora dell'educazione è l’uomo, ma
egli è persona ed è tale nella misura in cui realizza la propria personalità.
Attingendo dalle affermazioni della scienza psicologica, soffermiamoci un mo-
mento su quest'ultimo concetto. La personalità dell’uomo è la risultanza di
elementi nativi, ere- ditari e di elementi acquisiti mediante la propria
esperienza. Co- munque, tali strutture sono dinamiche e non rigidamente
definibili e quindi la personalità è una realtà « plastica », dinamica,
determi- nantesi con atteggiamenti differenziati a seconda delle situazioni che
l'individuo incontra e vive concretamente. L'uomo non è determi- nato (almeno
non lo è totalmente) dalla sua struttura originaria, 135 Nel rapporto ira
filosofia e pedagogia questa ha un ambito specifico di ricerca La ‘‘rivoluzione
copernicana” in pedagogia: l’educando come protagonista (puerocentrismo)
Educazione permanente per la continua realizzazione della personalità umana
L’educazione dura tutta la vita Promozione a autopromozione dell’individuo:
aspetto personale Aspetto sociale: relazione interpersonale e convivenza con
gli altri Aspetto culturale: trasmissione dei valori e custodia della civiltà
dalla sua essenza, ma può anche migliorare, peggiorare o, comunque, cambiare. E
se c'è sempre una possibilità di mutamento, allora è valido quanto già detto:
l'educazione dura per tutta la vita. Ciò che si è detto a proposito del
soggetto dell'educazione con- sente di esaminare le finalità di un certo tipo
di processo educativo che permette ad ogni individuo di giungere allo sviluppo
della pro- pria personalità. ‘4. I tre aspetti fondamentali dell'educazione
L'educazione, dal punto di vista teoretico e scientifico, presenta tre aspetti
fondamentali: personale, sociale e culturale. a) Personale: perché l’educando è
una persona e non una cosa od un oggetto; è soggetto dotato di attività, di
personalità e di creati- vità. Egli pensa ed agisce seguendo energie interiori.
L'educazione dunque deve promuovere o meglio fare in modo che l'individuo si
autopromuova. Rimandiamo qui al concetto di maieutica socratica già espresso
nel Corso di storia della filosofia Come è la madre che genera il bambino e
l’ostetrica l’aiuta soltanto a darlo alla luce, così il vero educatore non
comunica la « verità », ma mette l’educando nelle condizioni di trovare la
risposta da sé. Innanzitutto, quindi, l'educazione è autopromozione della
personalità del soggetto che si educa... b) Sociale: e questo sia come fatto
che come obiettivo. Anzitutto come fatto perché l'educazione è un evento
eminentemente inter- personale e sociale, perché coinvolge quanto meno due
persone, l’e- ducando e l'educatore. In secondo luogo, come obiettivo perché
tra le finalità primarie che l’opera educativa si propone è inclusa quella di
far conoscere gli altri e di abituare a vivere insieme con essi, in loro
armonia, per la realizzazione di un bene superiore comune a tutti. L'educazione
pertanto « socializza » il singolo, perché « la no- stra vita personale si
esplica in una vita sociale. Certo ci può essere una vita sociale che al limite
ignora o soffoca la vita personale ed è questo che va evitato ».’ Il fine
primario dell'educazione lo si ottiene operando sui singoli soggetti e non sul
gruppo. Però è necessario an- che l'apporto del gruppo, che spesso opera
inconsciamente, per me- glio sviluppare l'educazione del singolo. Anzi in molti
stati, oggi l'e- ducazione è attuata operando sul gruppo, e in tal modo si
raggiun- gono anche i singoli. c) Culturale: perché l'educazione trasmette alla
persona i valori culturali elaborati dall'umanità nel corso delle generazioni,
tra- 6 Ivi, p. 70. ? C. PERUCCI, in Educare, U.C.L.I.M., Varese 1572, p. 67.
136 sformando un essere incolto in un essere che può contribuire al progresso
della civiltà in cui è nato. È evidente che questi tre aspetti della educazione
sono interagenti poiché formare la personalità del soggetto significa
promuovere la socialità e, trasmettendo la cultura e la civiltà, l'educazione
fa parte- cipe il soggetto dei progressi dell'umanità stessa. In conclusione,
la finalità educativa consiste: in primo luogo nella realizzazione della
personalità intesa come affermazione della individualità e originalità di
ognuno; in secondo luogo nella capa- cità di partecipazione alla vita sociale.
Tale centralità della persona e dell'individuo non ha sempre costituito
l'ideale educativo in’ seno alle varie civiltà: Infatti, ciò che attualmente
secondo un certo si- stema politico e filosofico si apprezza ed esalta come
individuale, era per i greci un aspetto negativo. 5. Autoeducazione ed eteroeducazione
Tenendo presente il fine da realizzare si possono distinguere due concezioni
radicalmente opposte dell'educazione. Da una parte si afferma che educare un
fanciullo vuol dire ren- derlo conforme ad un modello prestabilito, per cui il
fine dell'educa- zione è posto fuori dal fanciullo (= eteroeducazione) e
l'educazione si risolve in un adattamento delle disposizioni del fanciullo ad
un ordine preesistente, di fatto o di diritto. Dall'altra parte si dice che
educare significa permettere al fan- ciullo di sviluppare tutto ciò ch'egli ha
in se stesso (autoeducazione), per cui il fine è il fanciullo stesso e
l'educazione mira a favorire la realizzazione della sua personalità ed il suo
armonico sviluppo. L'eteroeducazione si fonda sul presupposto che le strutture
con- crete della civiltà attuale (sociali, economiche, morali, religiose, ecc.)
impongano di adattare il fanciullo in modo che da adulto possa age- volmente
integrarsi in esse, per cui un'educazione sarà ritenuta va- lida se riuscirà ad
adattare l’uomo all'ordine stabilito, considerato come assoluto, sia esso la
classe sociale, la chiesa, lo stato. In questo caso l’educatore rivelerà le sue
doti nella misura in cui la sua abilità tecnica sarà capace di realizzare tale
scopo, senza troppe preoccupa- zioni delle esigenze soggettive dei singoli
educandi. Per contro, l’autoeducazione mira ad assicurare, per quanto è
possibile, l’armonico sviluppo delle varie tendenze e capacità pre- senti nel
fanciullo, senza fare appello ad ideali preesisienti. Educa- zione quindi che
rifiuta ogni intervento autoritario esterno e lascia alla spontaneità naturale
del fanciullo di sviluppare le naturali forze bio-psichiche che operano in lui;
all'educazione inoltre è dato il ° A. AGAZZI, Problemi attuali della pedagogia
e lineamenti di pedagogia sociale, La Scuola, Brescia, 1968, pp. 9-10. 137
Eterceducazione: confermità a un modello Autoeducazione: armonice sviluppo di
tendenze e capacità Interazione di eteroeducazione e autoeducazione compito di
preservare il fanciullo stesso dalle influenze che dall’ester- no potrebbero
turbare l’armonico sviluppo della personalità. Che dire di queste due opposte
concezioni dell'educazione? A nostro avviso un'educazione integrale non può
essere né pura- mente estrinsecistica come ritengono i fautori della
eteroeducazione, ma neppure semplicemente innatistica come affermano gli
assertori dell’autoeducazione. Ma dev'essere l'una e l’altra insieme. Se è vero
infatti che una valida educazione non può trascurare i condizionamenti
dell'ambiente familiare, sociale, politico, religioso, ecc., è anche vero che
il voler considerare tali fattori come assoluti, e riconoscerli come norme
intangibili cui sottomettere gli elementi personali dell’educando, è un palese
controsenso, date le variabilità e precarietà del cosiddetto « ordine stabilito
». D'altra parte, « che il fanciullo possa spontaneamente e con le sole sue
forze, senza l'intervento di un'autorità esterna, disciplinare se stesso e
diventare capace di libere scelte, è stato il paradosso di Rousseau, fondato
sulla bontà naturale dell'uomo, al quale però lo stesso Rousseau sembrò non
concedere molta fiducia quando con- sigliava agli educatori di lasciar credere
all'educando di essere lui il padrone, ma di non permettergli di esserlo, di
fatto. In definitiva, un sistema educativo che si limiti a rispettare nel
fanciullo ciò che l'osservazione psicologica, scientificamente anche la più
perfetta e accurata, permette di osservare in lui, non è sufficiente ad edu-
carlo veramente »? Autentica educazione dev'essere quindi autoeducazione,
perché non è concepibile una maturazione integrale inconsapevole e priva di
impegno personale; e dev'essere inoltre eteroeducazione perché la presenza del
docente non è solo auspicabile, ma necessaria. Oc- corre, peraltro, tener ben
presente che nell'opera di educazione il do- cente non può né deve sostituirsi
all’educando; egli è solo la guida e la forza stimolatrice delle energie che
devono svilupparsi spontanea- mente dall’interiorità del soggetto (secondo i
canoni della maieutica socratica). Nel rapporto educatore-allievo esiste, senza
dubbio, un pericolo che occorre assolutamente evitare: quello di « manipo- lare
», « foggiare » ed inoltre di distruggere la personalità dell’edu- cando per
far emergere quella dell’educatore. Educare significa, in- vece, aiutare ad
autodeterminarsi come essere libero, e ciò è possi- bile soltanto attraverso il
libero esercizio delle proprie attitudini. 6. L’attivismo pedagogico Tra le
tante teorie dell'educazione, l'attivismo è senza dubbio quella che ha
suscitato maggior interesse durante il nostro tempo. * A. VALERIANI, « Il
problema dell'educazione », in Studio ed insegnamento della filosofia, I,
AVE-UCIIM, Roma 1966, pp. 315-316. 138 Essa però ha qualche riferimento nel
passato. I Sofisti ritenevano che l'educazione deve essere sottratta ad ogni
autoritarismo e dog- matismo. Nel Medioevo viene ripreso talvolta il concetto
di sant'Ago- stino, il quale riteneva che l'educazione deve essere un processo
au- tonomo di autoeducazione: il maestro comunica solo le parole, ma la vera
educazione è « autoeducazione », data da Dio per illumina- zione. Con l’inizio
del Rinascimento inizia il superamento delle vecchie tradizioni e con Bacone si
ha la prima grande affermazione del carat- tere attivistico del sapere.
Comenio, poi, con il suo « naturalismo » e la sua « pansofia » intende dare a
tutto il sapere una connessione si- stematica, seguendo gli indirizzi della
nuova scienza sperimentale. In Rousseau, infine, sono già presenti le varie
motivazioni con cui l'attivismo di oggi giustifica l'introduzione del lavoro
nella scuola. L'attivismo pedagogico si presenta come reazione alla pedagogia
tradizionale, la quale era di tipo estrinsecistico e teoretico. L'ideale del
mondo classico e, generalmente, anche del mondo cristiano, era la vita come
attività teoretica, come conoscenza e come contempla- zione. L'educazione
consisteva nell’insegnamento di principi, dottri- ne, ideali trascendenti e
assoluti. La pedagogia contemporanea ha compiuto un rovesciamento radicale,
risolvendo il conoscere nel- l'agire, la verità nel fatto. Ma è necessario
subito riconoscere che in quel rovesciamento si ritrovano il valore ed,
insieme, i limiti dell'at- tivismo pedagogico contemporaneo: il valore, perché
l'ideale del mondo classico non poteva soddisfare la mobilità sociale e l'ansia
di attività dell'umanità moderna; i limiti perché molto spesso l'agire viene
ridotto ad un semplice fare meccanico, ad un fare per il fare, anche contro le
attese degli stessi fautori dell’attivismo. :iA fondamento dell'attivismo sta,
come s'è detto, un atteggia- mento di rifiuto del metodo tradizionale. Ma
l’attivismo non è sol- tanto protesta: esso è anche proposta, e propone una
educazione proiettata verso l'avvenire, quindi dinamica, centrata sul soggetto,
quindi aperta ed esistenziale: una scuola attiva sostitutiva di quella
passiva.! ‘Applicando i criteri dell'autoeducazione, l’attivismo si pone al
servizio delle attitudini, dei bisogni, dei modi di sentire e di agire pro- pri
del fanciullo che deve poter liberamente esprimere tutto se stesso ed
apprendere quanto sarà utile per sé e per la società nella quale si troverà a
vivere da adulto. Da parte sua, l’educatore, anziché in- tervenire per
trasmettere un sapere dall'esterno o inculcare principi morali assoluti, è
chiamato a fornire all’educando occasioni ed ali- menti al suo appetito di
conoscere e di agire, ponendolo a contatto con l’esperienza che è la vera
maestra della vita, ad aiutare lo svi- luppo spontaneo della intelligenza e
della volontà dell'allievo, se- !° Cfr. A. AGAZZI, « Scuole nuove e attivismo
», in Questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1963, p. 972. 139
L’attivismo pedagogico: reazione alla pedagogia tradizionale L’attivismo come
educazione proiettata verso l’avvenire Attivismo e autoeducazione Psicologia,
attivisma e scuola nuova Concezione ateo- materialista dell’attivismo guendo le
linee dei suoi interessi scientificamente determinati. Ne- cessità, quindi, di
muovere dal fanciullo, « ma non dal fanciullo in sé, considerato in astratto,
ma dal fanciullo come individuo origi- nale ed unico, dalla ricchezza della sua
spontaneità naturale da co- noscere e da dirigere. Lo studio della psicologia
sarà pertanto a fon- damento della preparazione e dell’azione dell'educatore e
la scuola su misura sarà il nuovo credo didattico del puerocentrismo ».! Le
idee dominanti dell’attivismo sono, pertanto, le seguenti: azio- ne,
spontaneità, vita. Delle prime due s'è già parlato. Quanto alla terza essa fa
parte di un'espressione cara all’attivismo, l’espressione scuola-vita. Secondo
l’attivismo la scuola deve preparare alla vita, deve essere essa stessa vita,
adeguarvisi e strutturarsi secondo le forme reali della vita. Sulla legittimità
dell’attivismo pedagogico ci siamo già implicita- mente pronunciati parlando
dell’autoeducazione. Abbiamo escluso che si possa realizzare pienamente il
processo educativo col solo me- todo dell'autoeducazione. È un metodo che si
fonda su una visione troppo ottimistica dell’uomo, considerato esente da ogni
debolezza e da ogni cattiva inclinazione e già intimamente incamminato verso il
bene e la virtù. Ma troppo spesso l’attivismo è anche basato su una concezione
materialistica ed atea dell’uomo. Questi è visto come creatore d’ogni valore e,
allo stesso tempo come il prodotto ultimo dell'evoluzione della materia.
Fondate su tali premesse, anche le tesi più interessanti e, in se stesse,
legittime, dell’attivismo pedagogico diventano discutibili e sospette. Per
acquistare piena legittimità occorre che siano fondate sul riconoscimento dei
valori più auten- tici della persona (libertà, spiritualità, immortalità) e
sulla realtà di Dio, creatore del mondo, padre di tutti gli uomini, termine
ultimo delle nostre più profonde aspirazioni. CONCETTI DA RITENERE — Pedagogia
come teoria pratica — Liberazione totale; educazione integrale — Rivoluzione
copernicana dell'educazione — Aspetto personale, sociale, culturale —
Autoeducazione (modo innatistico), eteroeducazione (modo estrinse- cistico) —
Attivismo pedagogico SINTESI CONTENUTISTICA I. LA PEDAGOGIA COME TEORIA PRATICA
1. Il termine pedagogia (« condurre il fanciullo ») indica l’« arte» o la «
scienza dell'educazione ». L'educazione esprime l'esigenza dell'uomo che na- !
A. VALERIANI, Op. cit., p. 324. 140 sce con molteplici capacità, ma ha bisogno
di essere aiutato a realizzarle nel corso della sua crescita. 2. L'educazione è
quindi un fatto propriamente umano. L'uomo si educa, l’animale si addestra. La
concezione dell'educazione si ricollega alla concezione che si ha del- l'uomo:
il discorso pedagogico è collegato al discorso antropologico e al di- scorso
etico. La pedagogia è una teoria pratica, cioè ha per oggetto di riflettere sui
si- stemi di educazione per aiutare l’azione degli educatori. II. ‘AUTONOMIA E
INTERDISCIPLINARIETÀ DELLA PEDAGOGIA 1. Nelle civiltà antiche la pedagogia
faceva parte dei diversi sistemi filo- sofici. Spesso essa è riferita alla
politica, che a sua volta dipende dall’etica. L'ideale greco-romano è la
formazione dell’uomo in quanto cittadino. 2. Nel Medioevo la pedagogia diventa
un capitolo della teologia a motivo del primato assunto dal problema
etico-religioso: dal cittadino al santo. 3. Nell'epoca dell'Umanesimo e del
Rinascimento l’ideale diviene quello dell'uomo colto. La pedagogia avverte,
pertanto, l'esigenza di una imposta- zione di carattere filosofico. ; 4. Nella
cultura contemporanea l'affermazione delle scienze positive, ha collocato la
pedagogia in una posizione interdisciplinare. La psicologia, l’an- tropologia,
l'etica, la biologia e la sociologia si configurano come scienze ausi- liarie
della pedagogia, offrendole elementi di integrazione e di approfondi- mento
circa gli scopi che le sono propri. 5. L'educazione può avere come scopo: a) la
liberazione totale dell’educan- do e necessita del contributo della biologia,
della psicologia, dell’antropologia, della sociologia e della storia; b)
l'educazione integrale e si dovrà rivolgere alla filosofia, all’etica,
all'estetica, ecc. al fine di promuovere sia la dimensione spi- rituale che
quella materiale dell’uomo. 6. Il rapporto tra pedagogia e filosofia è visto
attraverso due posizioni: a) l’identificazione tra le due scienze; b) la
dipendenza della pedagogia dalla filosofia. Una conclusione opportuna appare la
seguente: la pedagogia gode di una autonomia nel campo di ricerca, dei metodi e
dei criteri. Afonda comunque le sue radici in una determinata visione
filosofica, di cui è una ramificazione al pari dell'etica e della politica.
III. SOGGETTO E FINALITÀ DELLA PEDAGOGIA 1. La pedagogia moderna è orientata
dalla cosiddetta rivoluzione coperni- cana dell’educazione: il perno
dell'azione educativa non è più, come nel mondo classico-medioevale, il
maestro, bensì il discepolo. 2. La prospettiva puerocentrica guarda
all’educando come ad un soggetto attivo, personale e originale. Occorre però
ricordare che in senso proprio l’edu- cando è l’uomo nelle diverse tappe della
sua vita e che pertanto l'educazione è un fatto permanente, un cammino continuo
senza meta terminale. 3. Poiché la persona è la protagonista dell’azione
educativa, l'educazione avrà come scopo la formazione della personalità. La
personalità è la risultanza di elementi originari, ereditari e acquisiti. Essa
è quindi una struttura dinamica e in perenne trasformazione. Compito
dell'educazione è di orientare la trasformazione sempre verso la positività.
IV. I TRE ASPETTI FONDAMENTALI DELL'EDUCAZIONE1. Aspetto personale
dell'educazione: l’educando è una persona, soggetto dotato di attività,
personalità e creatività. L'educazione deve promuovere la persona e renderla
capace di autopromozione. 2. Aspetto sociale dell'educazione: a) è un fatto
perché l'educazione è un 141 evento interpersonale e sociale {rapporto
educatore-educando); b) è un obiet- tivo perché l'educazione si propone di
formare gli individui alla conoscenza reciproca, alla vita in comune,
all'armonia sociale, al bene comune. 3. Aspetto culturale dell'educazione:
l'educazione trasmette di generazione in generazione i valori elaborati
dall’umanità, facendo di ogni individuo un essere capace di dare il proprio
contributo alla civiltà. I tre aspetti sono interagenti; infatti sono propri
della finalità educativa sia la realizzazione della personalità e
dell’originalità dell'uomo, sia la forma- zione della sua capacità di
partecipazione alla vita sociale. V. AUTOEDUCAZIONE E ETEROEDUCAZIONE 1.
L'autoeducazione mira ad assicurare l’armonico sviluppo delle varie ten- denze
e capacità presenti nel fanciullo senza riferimento ad ideali preesistenti.
Rifiuta l'intervento autoritario, promuove la spontaneità e preserva dalle in-
fluenze esterne. Tale concezione può anche essere definita innatistica. 2.
L'eteroeducazione vuole adattare il soggetto umano alle strutture con- crete
sociali, economiche, morali, religiose, ecc. Il processo educativo raggiunge il
suo scopo se l'educando saprà adattarsi all'ordine stabilito, considerato come
un assoluto {concezione estrinsecistica). 3. Alla concezione innatistica e a
quella estrinsecistica si può opportuna- mente opporre quella integrale, per
cui il processo educativo fonde le esigenze della libertà e dell'originalità
della persona con l’ineliminabile presenza del condizionamento ambientale.
L'autoeducazione, pertanto, favorisce una matu- razione integrale e consapevole
attraverso l'impegno personale, mentre l’etero- educazione forma nell’educando
il senso del limite e gli dà la misura di ciò che significa vivere con gli
altri. VI. L'ATTIVISMO PEDAGOGICO 1. La pedagogia contemporanea ha compiuto un
rovesciamento radicale, risolvendo il conoscere nell’agire, la verità nel
fatto. 2. Il valore dell’attivismo pedagogico, la teoria dell'educazione che ha
tro- vato maggiore risonanza nel nostro secolo, sta nel fatto che, puntando
sul. l'autoeducazione, stimola la partecipazione attiva dell'educando
nell'esperienza scolastica. L'educatore fornisce all'’educando occasioni di
esperienza al suo de- siderio di conoscenza e orienta le sue attitudini ed i
suoi interessi, individuati scientificamente. 3. Azione, spontaneità e vita
sono le idee dominanti dell’attivismo pedago- gico. L'espressione scuola-vita
indica, inoltre, la convinzione che la scuola deve adeguarsi e strutturarsi
secondo le forme reali della vita. 4. L’attivismo pedagogico si fonda: a) su
una antropologia ottimistica che ignora in realtà la debolezza della natura
umana; b) su una visione essenzial- ‘mente materialistica ed atea, QUESTIONARIO
DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa si intende per pedagogia? Qual è il
significato etimologico di questo termine? 2. Perché l'educazione è un fenomeno
tipicamente umano? 3. Quando la pedagogia si è costituita come scienza
autonoma? Prima, în quale disciplina era incorporata? 4. Che rapporti
intercorrono tra pedagogia e filosofia? 5. Quali sono gli aspetti fondamentali
dell'educazione? 6. Che cosa si intende per autoeducazione e per
eteroeducazione? 7. Che cosa si esige per una educazione integrale? 142 8. Che
cos'è l’attivismo pedagogico? Quali sono i pregi e i limiti di questo metodo
educativo? 9. Quali contraddizioni pedagogiche e strutturali ostacolano
nell’ordina- mento scolastico attuale una educazione integrale della persona?
10. Quali implicazioni si possono individuare tra pedagogia e formazione della
coscienza democratica? 11. Nel nostro tempo quali sono le esigenze emergenti
per una individua- zione di opportuni obiettivi educativi in vista di un
progetto-uomo aperto al secondo millennio? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv.,
Questioni di storia della pedagogia, La Scuola, Brescia 1963. ABBAGNANO
N.-VISALBERGHI A., Linee di storia della pedagogia, Paravia, To- rino 1959, 3
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1985. VoLPICELLI L., L'educazione contemporanea, 2 voll, Armando, Roma 1964.
143 Socialità e politicità dell’uomo Preminenza del problema politico e sociale
nel nostro tempo Origine, fondamento e fine dello Stato Capitolo undicesimo IL
PROBLEMA POLITICO E SOCIALE QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. L'uomo ha bisogno
degli altri per vivere o è autosufficiente? 2. Qual è lo scopo del vivere
associato? 3. Da che cosa nasce la realtà sociale e politica dell'uomo? Come
deve es- sere regolato il rapporto uomo-libertà-bene-utile-società-Stato? 4.
Che rapporto c'è tra politica e morale. È possibile considerarle separate? 1. I
termini del problema L'uomo è un essere vivente atto a una vita sociale e
politica, come aveva già osservato Aristotele nella sua Politica. Nelle condi-
zioni delle età precedenti, queste caratteristiche hanno trovato un'’at-
tuazione ristretta; allora era perfino possibile condurre una vita ri- tirata,
eremitica, lontano dalle vicende del mondo e considerarsi una monade « senza
porte e senza finestre », secondo la nota espressione di Leibniz. Oggi tutto
questo è impensabile, oltreché impossibile. Il più piccolo atto umano e
qualsiasi realtà per quanto minuscola sono coinvolti in un regime sociale e
politico che li dirige e li compenetra da ogni parte. Così, nel nostro tempo i
problemi politici e sociali hanno acqui- stato importanza capitale. 'Nel
presente capitolo tratteremo anzitutto del « problema po- litico », che è
quello di cui i filosofi si sono occupati da sempre. Poi nella seconda parte
studieremo quello che è stato chiamato « pro- blema sociale », un problema che
i filosofi hanno cominciato ad af- frontare sistematicamente soltanto nel
secolo XVIII al sorgere del- la questione sociale derivante dalla rivoluzione
industriale determi- nata dall'introduzione della macchina nell’attività
produttiva. Il problema politico è il problema relativo all'origine e al fon-
damento dello Stato (polis), alla sua organizzazione, la sua forma migliore, la
sua funzione e il suo fine specifico, alla natura della azio- ne politica e ai
suoi rapporti con l'azione morale, ai rapporti tra Stato e individui, tra Stato
e Chiesa, tra Stato e partiti. Questo problema così vasto e complesso, è stato
studiato nei suoi aspetti diversi quando le istanze storiche l'hanno richiesto.
Così per esempio la questione dell'origine dello Stato, della sua struttu-
razione e della sua forma migliore è stato dibattuto quando guerre 144 o
rivoluzioni hanno messo in questione o posto termine ad uno Stato oppure ad una
forma di governo per sostituirli con altri. Ciò è avve- nuto, in Grecia, nel
secolo V in conseguenza delle guerre con i Per- siani, delle guerre tra Atene,
Sparta e Tebe e delle guerre civili all’interno di queste tre città-stato.
Furono tali congiunture storiche ad indurre i Sofisti, Platone e Aristotele ad
esaminare il problema del- l'origine dello Stato, della sua funzione e della
sua forma ideale. Al- trettanto accadde nel secolo XVII, al tempo delle guerre
religiose, della guerra dei Trent'anni, delle rivoluzioni e delle guerre civili
del- l'Inghilterra e della Francia. Questi eventi determinarono le spe-
culazioni politiche di Hobbes, Bacone, Locke, Campanella, Hume, Rousseau. In
tempi recenti hanno trattato del problema dello Stato Hegel, Marx, Engels,
Lenin, Gramsci e la Scuola di Francoforte, determinando larghe correnti di
pensiero e attuazioni ispirate alle loro ideologie; va inoltre ricordato il
contributo particolare ad una soluzione cristiana di tali problematiche dato da
Jacques Maritain e da Luigi Sturzo. î Trattando il problema politico nei suoi
vari aspetti non si può dimenticare quello dei rapporti tra Stato e Chiesa che
ha acquistato rilevanza soprattutto nel Medioevo, allorché la Chiesa assunse
una strutturazione sociale da far concorrenza a quella dello Stato. Di qui le
teorie politiche di Innocenzo III, san Tommaso, Bonifacio VIII, Occam, ecc. Il
problema dei rapporti tra politica e morale ha potuto svilup- parsi soltanto
nell'epoca moderna, nel momento in cui le varie forme di sapere e di operare si
sono affermate nella loro autonomia rispetto alla teologia e alla filosofia.
Questo ha consentito prima a Machiavel- li e poi a Hobbes e a tanti altri di
proporre una concezione dell’a- zione politica come qualcosa di assolutamente
distinto da qualsiasi altro tipo di attività. Il problema dei rapporti tra lo
Stato e i partiti, tra lo Stato e i suoi membri è diventato d'attualità
nell'epoca contemporanea, quan- do alle forme monarchiche e assolutistiche di
governo sono suben- trate quelle parlamentari e democratiche, e ai sistemi capitalisti
si sono opposti quelli socialisti e comunisti. 2. Natura sociale dell’uomo
L'uomo — come è stato già detto — è essenzialmente socievole: da solo non può
venire al mondo, non può crescere, non può edu- carsi; da solo non può neppure
soddisfare i suoi bisogni più ele- mentari; né realizzare le sue aspirazioni
più elevate; egli può otte- nere questo solo in compagnia con altri. Perciò sin
dalla sua prima comparsa sulla terra troviamo sempre l'uomo collocato in gruppi
so- ciali, inizialmente assai piccoli (la famiglia, il clan, la tribù) e poi
sempre più vasti (il villaggio, la città, lo stato). Man mano che il 145 Dagli
eventi storici ha origine lo studio del ‘‘problema Stato” Rapporti tra: — Stato
e Chiesa — Politica e morale — Stato e partiti La socialità come condizione
originaria Riflesso sociale delle azioni umane Oggi c’è il primato della
dimensione sociale livello culturale dell'umanità si innalza, anche la
dimensione della socievolezza si espande e si arricchisce. Oggi essa ha
raggiunto un orizzonte sconfinato: da nazionale è diventata, prima,
internazionale, poi, intercontinentale e ormai sta assumendo proporzioni
planetarie. I moderni mezzi di comunicazione hanno messo ciascuno di noi in
contatto con ogni vicenda (importante o insignificante) che ac- cade in
qualsiasi parte del mondo. La vita di ciascuno di noi, ora, « può essere
sconvolta da cima a fondo a causa di un avvenimento che capita in una parte del
mondo ove egli non ha mai messo piede e di cui forse si fa un'immagine alquanto
vaga ».' « Il più piccolo atto umano e qualsiasi realtà per quanto minuscola
sono coinvolte in un regime sociale che le dirige e compenetra da ogni parte.
Non posso compiere il più piccolo atto commerciale, pretendere il più modesto
salario, regolare il contratto più elementare senza sentirmi immediatamente
accerchiato da ogni parte — anche sostenuto — dalla solidarietà economica,
sociale, giuridica, che costituisce la base stessa del mio contratto, del mio
lavoro, del mio commercio, indipen- dentemente e al di fuori delle mie
intenzioni. E questo in un interse- carsi che, da un capo all'altro del mondo,
moltiplica senza fine una rete inestricabile ed invincibile: un colpo della
borsa di New York accresce, oggi, senza che io me ne interessi, il mio
capitale, e domani la mia piccola impresa potrebbe crollare sotto la
concorrenza tra- volgente dell'industria giapponese. Lo stesso si deve dire per
qual- siasi altro settore ». Quanto l'intreccio sociale oggi sia vasto e pro-
fondo l’ha mostrato negli anni ‘70 e '80 l'embargo del petrolio nei confronti
dell'occidente attuato dagli Stati arabi nel conflitto arabo- israeliano.
Questo espediente degli arabi è bastato a mettere in crisi l'immenso castello
della civiltà dei consumi, il concetto stesso di progresso e il modello di
sviluppo del mondo occidentale. 'La dimensione sociale durante il nostro secolo
ha assunto tali proporzioni che può venire legittimamente considerata un
fenomeno tipico del nostro tempo. La dimensione privata è praticamente scom-
parsa. A stento possiamo occultare i nostri pensieri e i nostri desi- deri; ma
appena questi si traducono in azione, essi diventano appan- naggio anche degli
altri e grazie alla televisione e alla radio e alla stampa in un batter
d'occhio vengono divulgati nei quattro angoli della terra. L'isolazionismo,
oggi, non è più possibile. « Se dobbiamo in qualche modo sopravvivere, è chiaro
che sopravviveremo solo come membri gli uni degli altri. La linea tra il
privato e il pubblico diventa sempre più confusa. Bene o male, questa in cui
viviamo è l'epoca della pianificazione: dell'assistenza sociale, della compro-
prietà e, sul piano internazionale, delle organizzazioni soprannazio- nali. La
capacità dell'individuo di agire, e persino di pensare, con una certa
indipendenza dal suo ambiente sociale o in contrasto con ! G. MARCEL, L'uomo
problematico, Borla, Torino 1967, p. 143. a MD. CHENU, L’évangile dans le
temps, Du Cerf, Parigi 1964, pp. 89-90; trad. it., Il Vangelo nel tempo,
A.V.E., Roma 1968. 146 esso si va costantemente riducendo [...] Ciò significa,
tra l’altro, che il nostro ideale di libertà e di società libera non può essere
semplice- mente definito in termini di in-dipendenza. Per l’uomo contempora-
neo la redenzione coincide con la sua capacità di diventare non già un individuo
— la cui indipendenza sarebbe, in realtà, impotenza di fronte alla gigantesca
macchina dello Stato — bensì una persona che possa trovare (e non perdere) se
stessa nell’interdipendenza del- la comunità. Il contenuto della sua salvezza
in seno alla società consiste, per l’uomo moderno, nello scoprire se stesso
come persona che deliberatamente decide a favore d'un rapporto d'interdipen-
denza con gli altri; consapevole che la sua natura è fatta per mettersi in
relazione con i simili, egli vuole positivamente questa interdipen- denza,
anziché subirla per effetto delle pressioni della sua epoca. . L'alternativa al
“loro” non è l’“io”, ma il “noi” ».? Nel momento attuale, mentre da una parte i
diritti della persona umana e la sua esigenza di libertà ottengono riconoscimento
uni- versale, dall'altra i sistemi politici, le strutture economiche e so-
ciali, le scoperte della scienza e della tecnica, e l'apparato statale
minacciano di soffocarli inesorabilmente. Questa situazione ripropone con
particolare urgenza il problema tante volte dibattuto anche nelle epoche
precedenti, circa l'origine, la natura e le funzioni dello Stato, e dei
rapporti tra gli individui e la società. 3. L'origine dello Stato Lo Stato è
una realtà empirica la cui esistenza è incontrovertibile, ma è anche una realtà
estremamente mutevole: nasce, si sviluppa, sviluppandosi assume molte forme, e
spesse volte e per ragioni varie si indebolisce e dissolve. Tutto questo fa
dello Stato una realtà problematica. Anzitutto problematica per quanto concerne
la sua origine. Da che cosa nasce lo Stato? Chi ne è l’autore, la causa, il
fondamento? A questo interrogativo sono state date molte risposte, di cui le
principali ci sembrano le seguenti: a) origine naturale dello Stato: sappiamo
che l'uomo è socie- vole e da solo non può soddisfare i suoi bisogni né
realizzare le pro- prie aspirazioni; può ottenere questo soltanto in compagnia
con gli altri. Quindi è la natura stessa che induce l’individuo ad associarsi
con altri individui e ad organizzarsi in comunità, in Stato. I princi- pali
teorici dell'origine naturale dello Stato sono Aristotele, Hegel e Marx.
Secondo Aristotele « è evidente che lo Stato è una creatura della natura e che
l'uomo è per natura un animale politico. Colui che per natura è senza Stato è
superiore oppure inferiore all'uomo, vale a dire o un dio oppure una bestia. Il
motivo per cui nasce lo Stato 3 J.A.T. RoBINSON, /! corpo, Gribaudi, Torino
1967, pp. 20-21. 147 L'esigenza di riscoprire la propria persona: salvezza
dell’uomo contemporaneo Le attuali strutture economico-politiche minacciano i
diritti della persona Stato: realtà empirica e mutevole Origine naturale:
l’uomo è essenzialmente politico Hegel: lo Stato come volontà dello Spirito
assoluto Marx: lo Stato deriva dalla necessità di unirsi per soddisfare i
bisogni dei singoli Origine convenzionale: autonomia originaria e logica della
sopraffazione è quello di rendere possibile la vita e anche una vita felice. E
poiché il traguardo della vita umana è la felicità, la ragion d'essere dello Sta-
to è di facilitare il raggiungimento della felicità ». In Hegel la natura di
Aristotele diviene lo Spirito Assoluto, per- ciò lo Stato ha origine per
volontà dello Spirito Assoluto, di cui è anzi l'attuazione conclusiva. Infatti,
secondo Hegel, lo Spirito Assoluto si esprime e si sviluppa nella storia, la
quale è essenzial- mente storia dell'uomo. Questi come essere socievole si
unisce spon- taneamente con gli altri. In tal modo sorgono le varie
organizzazioni: anzitutto la famiglia poi la società civile ed infine lo Stato.
La fami- glia è l'unione amorosa di almeno due persone. La società civile è una
condizione in cui c'è una mutua dipendenza di tutte le persone da tutte le
altre, essendo esse già una collezione di individui indi- pendenti. Essa poggia
su di un sistema di bisogni. Lo Stato è una isti- tuzione concreta, che unifica
e dà una realtà più alta alla vita etica dei suoi membri individuali. Pertanto
lo Stato è « l’Idea dello Spirito Assoluto nella manifestazione esterna della
volontà umana e della sua libertà ». Anche per Marx come per Aristotele (e
linguaggio idealistico a parte come per Hegel), lo Stato deve la sua origine
alla natura stes- sa delle cose (non a patteggiamenti convenzionali o a
prevaricazioni contro qualche ordine soprannaturale): deve la sua origine alla
na- tura stessa dell’uomo la quale è fatta in modo tale che le è consen- tito
di soddisfare i suoi bisogni più elementari di sopravvivenza soltanto con
l’aiuto, il concorso, l'assistenza di altri uomini. Non si può dire invece altrettanto
delle varie forme concrete che lo Stato assume nella storia. Esse non sono
dovute alla natura ma all’arbitrio umano: alla sua decisione di distribuire in
un modo o in un altro i tre elementi costitutivi fondamentali della struttura
fondamentale dello Stato che è quella economica: il lavoro, il capitale e gli
stru- menti di produzione.‘ b) Origine convenzionale. Questa teoria dice che
all'inizio, al suo primo apparire sulla faccia della terra, l’uomo, il singolo
indi- viduo era pienamente autosufficiente e perciò per vivere e svilupparsi
non aveva bisogno di unirsi agli altri. Senonché la presenza di tanti altri
piccoli centri di potere (quali erano gli altri uomini) ha inevita- bilmente
dato luogo a conflitti, per evitare i quali è stato necessario trattare con gli
altri, mettersi d'accordo con loro, rinunciando a qualche diritto e
assoggettandosi a qualche dovere. Così, sulla base di tale accordo, è sorto lo
Stato. Questa teoria che era già stata avanzata dai Sofisti fu ripresa e
sviluppata da molti filosofi moderni, in particolare da Spinoza, Hobbes, Locke
e Rousseau. Ciascuno di questi autori ha presentato una versione personale
della teoria convenzionalistica o contrattuale; per Spinoza e Hobbes il
contratto sociale ha carattere irreversibile: * Cfr. B. MoNnDIN, vol. III, pp.
548-550. 148 una volta rinunciato ai propri diritti per costituire lo Stato non
si può più ritirarli e tornare indietro. Invece per Locke e Rousseau il
contratto sociale ha carattere reversibile. c) Origine preternaturale. Questa
teoria considera lo Stato come conseguenza di una caduta dell'uomo da una
condizione originaria di perfezione e di felicità dove non abbisognava di
sostegno e di aiuto da parte degli altri. Già annunciata da Platone, la teoria
del- l'origine preternaturale dello Stato è stata sviluppata in forma orga-
nica da due grandi pensatori cristiani, Agostino e Vico. Agostino afferma
l’esistenza di due grandi associazioni di spiriti: la civitas Dei (città di
Dio) e la civitas terrena (città terrena o Stato). Tutt'e due sono fondate
sull'amore. Ma mentre la città di Dio è fon- data sull'amore di Dio, un amore
così altruistico che non teme d'ar- rivare fino al sacrificio totale di se
stesso, della propria vita, la città terrena è fondata sull'amore di se stessi,
un amore talmente cieco ed egoistico che arriva fino al disprezzo e al
rinnegamento di Dio. « Ciò che anima la società terrena (civitas terrena) è
l'amore di se stessi al punto di disprezzare Dio; ciò che anima la società
divina (civitas coelestis) è l'amore di Dio al punto di disprezzare se stessi.
L'una basa il suo orgoglio in se stessa, l'orgoglio dell'altra è in Dio; una
cerca la gloria fra gli uomini, l’altra ritiene che la conoscenza di Dio sia la
gloria più grande »% L'essenziale nel regno terreno così come in quello
spirituale è il debitus finis, vale a dire lo scopo che deriva dall'intrinseca
natura della cosa: dunque in questo caso la realizzazione di valori puramen- te
terreni. Questi includono, per cominciare, « il corpo e i suoi beni, cioè una buona
salute, sensi acuti, forza fisica e bellezza, parte di essi essenziali per una
vita migliore, e quindi più desiderabili, parte di minor pregio. Poi, la
libertà, nel senso che uno crede di essere libero quando è padrone di se
stesso, cioè nel senso desiderato dagli schiavi. In terzo luogo i genitori, le
madri, una moglie e dei bambini, i vicini, i parenti, gli amici, e, per coloro
che condividono il nostro modo di vedere (quello greco-romano) l'appartenenza
ad uno Stato, nonché gli onori, le ricompense e ciò che è chiamato favore
popolare. Infine il denaro, intendendo con questo termine tutto ciò che posse-
diamo legalmente, o che abbiamo il potere di vendere o di cui possiamo
altrimenti disporre ».” Storicamente l'origine della civitas terrena risale alla
caduta dei primogenitori; ma essa trova la prima espressione emblematica nel-
la Torre di Babele. Come nella Torre di Babele, così nella civitas ter- rena
regna costantemente la confusione, la violenza, la malvagità, la miseria. Ma, a
parere di Agostino, l’espressione più mostruosa la civitas terrena l'ha
raggiunta nell'Impero Romano, esempio supremo 5 B. MONDIN, vol. II, pp. 162-173
(Spinoza); 220-224 (Hobbes); 224-228 (Locke); 320-328 (Rousseau). € S.
AcosTINO, De civitate Dei XIV, c. 28. ? S. AcostINO, De libero arbitrio, I, 15,
32, 149 Origine preternaturale: Agostino e Vico Agostino: regno terreno
(‘civitas terrena’) e regno spirituale (‘‘civitas Dei””) Dal peccato originale
ha origine la '‘civitas terrena” Vico: lo Stato come creazione provvidenziale
di Dio Per Platone e Aristotele: — costituzioni giuste (monarchia,
aristocrazia, repubblica) di brutale conquista e sfruttamento, che si può
definire come « brigantaggio su vasta scala ». Anche per il Vico lo Stato deve
la sua origine al peccato, ossia ad un atto di ribellione dell'uomo nei
confronti dei disegni di Dio. Tuttavia Vico non ha affatto dello Stato
quell’opinione così negativa e pessimistica dataci da Agostino; in effetti
l’autore della Scienza nuova, anziché un'invenzione degli uomini per meglio
soddisfare le loro brame egoistiche, vede nello Stato una creazione provviden-
ziale con cui Dio cerca di trar fuori gli uomini dalle loro miserie. « E
sommamente da ammirare la provvidenza divina la quale, in- tendendo gli uomini
tutt'altro fare, ella portògli in prima a temere la divinità (con il primo
fulmine)... Appresso, con la religione me- desima, li dispose ad unirsi con
certe donne in perpetua compagnia di lor vita: che sono i matrimoni,
riconosciuti fonte di tutte le po- testà; di poi con queste donne si
ritrovavano aver fondato le fa- miglie, che sono il seminario delle
repubbliche. Finalmente, con l'aprirsi degli asili (per dare rifugio a quei
giganti che non si erano piegati alla religione), si truorono aver fondato le
clientele onde fussero apparecchiate le materie tali che poi, per la prima
legge a- graria, nascessero le città sopra due comuni di uomini che le com-
ponessero: una di nobili che vi comandassero; l’altra di plebei che ubbidissero
».* 4. Le forme di governo Lo Stato può assolvere la sua funzione essenziale di
garantire pace, giustizia e benessere per tutti soltanto se dispone di un
governo, e di un governo autorevole e giusto, il quale sappia far rispettare i
diritti e far osservare i doveri da parte di tutti i cittadini. Di go- verni
capaci di realizzare queste funzioni se ne possono ipotizzare molti. Però tutte
le ipotesi possibili si trovano già chiaramente for- mulate in Platone ed
Aristotele, i primi due grandi maestri del pen- siero politico. Movendo dal
principio che scopo dello Stato è facilitare il rag- giungimento del bene
comune, sia Platone che Aristotele dividono le costituzioni possibili (ossia le
forme di governo ipotizzabili) in due categorie: giuste ed ingiuste, e
affermano che si danno tre forme di costituzioni giuste e altrettanto di
ingiuste. Sono costituzioni giu- ste quelle che servono il bene comune e non
solo quello dei gover- nanti. Tali sono: la monarchia, ossia il comando di uno
solo che cura il bene di tutti; l'aristocrazia, ossia il comando dei virtuosi,
dei mi- gliori, che curano il bene di tutti senza attribuirsi alcun privilegio;
la repubblica o politia, ossia il governo popolare che cura il bene di tutta la
città. Sono invece costituzioni ingiuste quelle che servono * G. Vico, Scienza
nuova, ed. Nicolini, p. 629. 150 il bene dei governanti e non il bene comune.
Tali sono: la tirannia ossia il comando di un solo capo che persegue il proprio
interesse; l'oligarchia, ossia il comando dei ricchi che cercano il bene econo-
mico personale; la democrazia, ossia il comando della massa popo- lare che
vuole sopprimere ogni differenza sociale in nome dell’egua- glianza. Queste
sono sostanzialmente anche le ipotesi che hanno avanzato nel Medioevo san
Tommaso, Dante, Marsilio Ficino, Occam, e du- rante l'epoca moderna Spinoza,
Hobbes, Locke, Montesquieu, Rous- seau, Fichte, Marx e molti altri ancora. Si
nota però una diversità di opinione, anzi una vera e propria inversione di
pareri tra i filo- sofi dell'antichità e del Medioevo da una parte, e i
filosofi moderni dall'altra. Mentre i primi ritenevano, normalmente, che la
forma ideale di governo fosse la monarchia assoluta e la forma più imper- fetta
quella democratica, i secondi, in generale, giudicano l’'asso- lutismo
monarchico la forma peggiore e invece ritengono che la for- ma ideale sia o
quella della monarchia parlamentare oppure*quella della repubblica. La
complessità delle strutture attuali della società, la diffusione della cultura
in tutti gli strati sociali, l'esigenza di rendere tutti i membri della società
direttamente partecipi dei benefici del potere, la consapevolezza dei rischi
che corre la libertà individuale allorché il governo viene affidato ad uno
solo, tutti questi motivi ci sembrano dar ragione ai filosofi moderni: essere
cioè la forma repubblicana quella più adatta a tutelare i diritti di tutti e a
procurare il bene comune. 5. Rapporti tra politica e morale a partire
dall'epoca mo- derna Fino agli inizi dell'epoca moderna si pensava che la
politica non disponesse di criteri di giudizio suoi propri e che dovesse
mutuarli dalla morale e dalla religione. Perciò, quando un sovrano doveva pren-
dere una decisione, suo primo compito era consultare la Bibbia e la propria
coscienza. Se queste gli dicevano che una certa azione era moralmente illecita
oppure contraria agli interessi della religione, egli doveva considerarla anche
politicamente riprovevole. Il primo assertore dell'autonomia della sfera
politica rispetto a tutte le altre, in particolare rispetto alle sfere della
morale e della religione, in quanto disporrebbe di principi normativi suoi
propri, è Niccolò Machiavelli. Per la prima volta, la politica viene indaga- ta
dal Machiavelli nella sua cruda realtà, nella sua nudità; per la prima volta
essa viene fissata nella sua logica interna spregiudicata- mente, fuori cioè da
ogni preoccupazione d'ordine morale e teolo- ° Cfr. B. MonDIN, vol. I, pp.
78-97 (Platone); 120-143 (Aristotele). 151 — costituzioni ingiuste (tirannide,
oligarchia, democrazia) Dall’epoca moderna si capovolge il concetto di governo
ideale Garanzie della forma repubblicana Machiavelli: — l'autonomia della
politica dalla morale — la politica come forza positiva e autonoma Kant:
distinzione e interazione tra etica e politica gico; e, come risultato di
questo metodo, per la prima volta essa viene affermata nella sua peculiarità.
Il Machiavelli, attingendo es- senzialmente dalla lezione delle cose, «
proclama che la politica non è né la morale, né la negazione della morale, ma
una forza positiva, impossibile ad eliminare dal mondo, come ogni altra forza
della na- tura, che contribuisce a tener su e far camminare il mondo. In quanto
forza positiva, non riducibile quindi alla negatività del male ma insieme non
identificabile, per l’invincibile resistenza delle cose a tale identificazione,
con la moralità, essa sta per sé, è cioè una forma particolare dell'attività
spirituale. La politica è la forza del mondo dello spirito, della forza “cruda
e verde”, come si dirà più tardi, che, in quanto forza spirituale, non può
essere che forza co- sciente, cioè volontà forte, solida, coerente, indirizzata
risolutamente al fine. L'uomo politico, degno di questo nome, è dotato di
questa forza, di questa volontà, senza la quale non sarà in grado né di fondare
né di mantenere lo Stato: che è lo scopo della sua azione, a conseguire il
quale egli calcola l'utilità di tutti i mezzi nella situazio- ne disponibili,
tenendo fisso lo sguardo alla realtà effettuale, libero da pregiudizi e
scrupoli, persino morali, e invece pronto a sfruttare, ove sia il caso, ossia ove
ciò sia utile e necessario, le altrui preoc- cupazioni, credenze e scrupoli ».!
Dopo Machiavelli, i filosofi della politica si dividono in due cor- renti, una
favorevole a Machiavelli e l’altra contraria. Gli antima- chiavellici
(Campanella, Vico) tentano di ricondurre la politica alla dipendenza dalla
morale. Per contro, i machiavellici (Spinoza, Hob- bes e poi Marx e Lenin)
ribadiscono la totale autonomia della politica dalla morale e dalla religione.
La questione dei rapporti tra morale e politica viene per qualche tempo
accantonata dagli illuministi (Rousseau, Montesquieu), i quali preferiscono
concentrare la loro attenzione nella ricerca del governo più conforme ai lumi
della ragione. Ma il problema del rap- porto morale-politica si ripresenta con
forza in Kant. Questi, pur mantenendo una rigorosa distinzione tra le due
sfere, afferma che né la politica può sottrarsi alla giurisdizione universale
dell'etica, né l'etica può prescindere dalla politica, ossia dalla società
civile, che è il mezzo e quasi il luogo ideale della sua espiicazione mondana:
«La condizione formale sotto cui soitanto ia natura può raggiun- gere questo
suo scopo finale (la moralità) è quella costituzione nei rapporti degli uomini
tra loro, che in un tutto che si dichiara società civile, oppone una resistenza
legale alle infrazioni reciproche della libertà, perché solo in tale
costituzione si può effettuare il massimo sviluppo delle disposizioni naturali
» (Kant). Qualsiasi distinzione tra etica e politica viene invece respinta !° A.
ATTIANI, « Politica », in Enciclopedia filosofica, Sansoni, Firenze 1957, vol.
III, col. 1497. 152 da Hegel, perché secondo questo filosofo la fonte suprema
d'ogni moralità è lo Stato. Il pensiero di Marx sui rapporti tra etica e
politica è ambivalen- te. Nella polemica contro l’idealismo e contro il
capitalismo egli riduce l'etica e la politica a semplici sovrastrutture dei
fatti econo- mici, i quali si svolgono e trasformano in diretta dipendenza
rispetto a questi ultimi. Invece nella progettazione della società ideale in
cui tutte le discriminazioni e le differenze di classe saranno tolte, Marx vede
nell’etica uno dei valori fondamentali e nella politica uno strumento
necessario per la sua realizzazione. « Marx crede nella so- vranità della
coscienza morale, che condanna l'ingiustizia nel mondo e anela alla
instaurazione della giustizia e della libertà spingendo a maturazione le
condizioni che ne rendano possibile l'avvento. La po- litica, allora, sotto
questo aspetto ha da servire alla instaurazione dell'ordine morale nel mondo e,
questo instaurato, a mantenerlo, di- fenderlo e potenziarlo ».! Ma che cosa è
questo « ordine morale » vagheggiato da Marx? In forza del principio che le
trasformazioni economiche determi- in molte parti del mondo e che ha assunto
una dimen- sione planetaria in base allo sfruttamento dei pochi paesi ricchi
sul resto dell'umanità. Il motivo fondamentale della difficile situazione
politica e so- ! A. ATTIANI, Art. cit., col. 1501. 153 Hegel: lo Stato fonte
suprema della morale Giudizio ambivalente di Marx: lo Stato è regolatore delle
condizioni morali per edificare la dittatura del proletariato L’ordine morale
costringe l’individuo ad una unica volontà sociale Per Maritain la realtà
morale deve ispirarsi ai principi morali evangelici Esigenza del recupero della
morale cristiana che ha l’amore al centro della vita talmente assorbito nella
dimensione religiosa ed ha cercato questa riabilitazione nel se- parare l'uomo
da Dio. L'umanesimo che ne è nato e che si è svilup- pato nelle varie formule —
capitalistiche, marxistiche, idealistiche — è un umanesimo antropologico,
finalizzato all'uomo e realizzato dall'uomo attraverso la sua ragione, la sua
coscienza, la sua tecnica, le sue violente reazioni contro le alienazioni
emergenti dalla storia del suo tempo. Si tratta di un umanesimo naturalistico,
che si chiude in un materialismo senza sbocchi. Volendo dimenticare che
nell’uo- mo vi è una componente negativa, l’antropocentrismo naturalistico ha
dovuto subire tutto il male che è nell'uomo senza poterlo spie- gare o
spiegandolo erroneamente come imputabile a un « sistema » storicamente
dominante, o all'’imperfezione del grado di progresso conseguito, o a oscure
ragioni psicologiche del profondo. In particolar modo, sotto la spinta
dell’interpretazione marxi- stica della storia, lo sforzo di liberazione
dell'uomo si è incentrato nella lotta contro un sistema economico fondato sulla
fecondità del denaro. Ma in questa azione di liberazione della classe operaia
si è assunto come valore la forza dell'odio e la violenza, mentre la
prospettiva da realizzare è posta in un materialismo che vuole solo procurare
le maggiori quantità di beni materiali, ricopiando in tal modo lo schema della
società neocapitalistica, che operando sui fat- tori tecnica, produzione e
pubblicità ha prodotto la società consumi- stica. « Le realtà della vita
sociale, economica e politica sono state ab- bandonate alla legge della carne,
sono state sottratte alle esigenze del Vangelo. Ne è risultato che è sempre più
difficile viverle. Contem- poraneamente, la morale cristiana, non essendo più
praticata nella vita sociale dei popoli, s'è isterilita — non già in se stessa
o nella Chiesa — ma nel mondo, nel comportamento pratico della civiltà, in un
universo di formule e di parole ».! « Per vincere questa fatalità occorre il
risveglio della libertà e del- le forze creatrici. E l'uomo ne diviene capace
non in virtù dello 1 J. MARITAIN, Che cosa è l'uomo: discorso per la città
fraterna, in « Vita e Pensiero », 1973 (LV), n. 1, p. XXV. 154 Stato o di una
pedagogia di partito, ma nell'amore che pone il centro della vita infinitamente
al di sopra del mondo e della storia tem- porale ».! 6. Rapporti tra Stato e
Chiesa Lo « Stato » è per definizione una società perfetta con un fine ul- timo
suo proprio (il bene comune degli uomini in questo mondo) e con mezzi adeguati
per raggiungerlo. Ma anche la « Chiesa » si con- sidera una società perfetta,
avente un suo fine ultimo da raggiungere (la salvezza eterna dell'uomo) e mezzi
appropriati da utilizzare per conseguirlo. a dei due poteri: quello dello Stato
e dei regni terreni e quello di Dio e della Chiesa, corpo mistico di Cristo:
questi due poteri sono essenzialmente di natura diversa come diversi sono i
loro fini: il primo si occupa della felicità terrena dell’uomo, il se- condo ha
per fine la sua felicità eterna; secondo, anche il potere della società
politica viene dall'alto: Omnis auctoritas a Deo. Con questa affermazione si
vuol intendere che il potere terreno trova la sua giu- ” Ibidem. 155 Stato e
Chiesa: due società perfette in teoria completamente separate Conflitto e
interazione dal Medioevo ai giorni nostri tra Stato e Chiesa Le diverse
soluzioni: — subordinazione indiretta delio Stato alla Chiesa (san Tommaso) —
subordinazione diretta dello Stato alla Chiesa (Bonifacio VIII) —
subordinazione diretta della Chiesa allo Stato (Marsilio da Padova) Età
moderna: tendenza alla separazione Maritain: uomini liberi sotto la provvidenza
di Dio stificazione non in sé ma in Dio, e quindi si afferma un nesso con il
potere dato alla Chiesa. Ma Gesù non volle determinare le applicazioni concrete
di questi principi universali. Questo deve essere il compito di tutti i
cristiani inseriti nella propria epoca storica. olitica dalla morale e dalla
religione le teorie di Bo- nifacio VIII, Marsilio e Tommaso cadono in disuso e
si dà sempre maggior credito alla teoria della netta separazione tra Stato e
Chiesa. Ma anche questa ipotesi, in pratica non è scevra di difficoltà, per la
ragione che abbiamo ricordato più sopra: cioè che gli stessi indi- vidui fanno
parte sia dello Stato che della Chiesa. Ora può accadere (e in effetti accade
di sovente) che le decisioni dello Stato siano in contrasto con quelle delle
varie Chiese. Così quella separazione che si era ipotizzata teoricamente, nella
realtà quotidiana non è ‘facil- mente realizzabile. Su questo contrastato
problema ha fatto delle acute considera- zioni Maritain, il quale analizzando
la costituzione americana, os- serva che il suo spirito si oppone all'idea di una
società umana che si tenga lontana da Dio e da ogni fede religiosa. In realtà
la distin- zione tra Stato e Chiesa che la costituzione americana afferma è in
funzione di una reale cooperazione, escludendo ogni privilegio nel- l'una e
nell’altra parte. Si tratta di far vivere uomini liberi sotto la 156
provvidenza di Dio (under God). In questa linea lo Stato ha tutto da guadagnare
riconoscendo alla Chiesa una influenza immateriale sulle anime attraverso
l'insegnamento del Vangelo. Ma alla base del contrasto moderno che vuole
l'opposizione to- tale tra Chiesa e Stato, sta il malinteso di chi non intende
considerare la Chiesa se non in termini umani, non riconoscendole altro valore
che di istituzione umana, nata nella
storia, come fatto umano che può come tutti i fatti umani esser modificata o
distrutta. Chi consi- dera la Chiesa come fatto umano — prosegue Maritain —
tende a riversare tutte le colpe, che gli uomini in essa viventi manifestano,
alla Chiesa stessa. Bisognerebbe riconoscere che anche se il cristia- nesimo
fosse tradito dai cristiani (ma in realtà vi sono sempre uo- mini che
realizzano pienamente il cristianesimo in ogni epoca) ciò non infirmerebbe gli
ideali e la realtà che la Chiesa porta nel mondo. Allo stesso modo che sul
piano delle civiltà umane, queste non si giu- dicano dal comportamento
dissennato di parte dei membri di esse.!* 7. Rapporti tra fede e politica Il
problema del rapporto politica-religione oggi non si configura più solo come
studio dei rapporti tra Stato e Chiesa, intesi come due associazioni autonome e
complete in se stesse. Ogni Chiesa oggi è vista come una comunità spirituale
che tiene uniti i suoi membri con il solo vincolo dell'amore, senza strutture
temporali che possono farla apparire come uno !Stato in concorrenza con gli
altri Stati. Ma non per questo si può estromettere la Chiesa o le Chiese dalle
vicende di questo mondo e confinarle in un mondo impalpabile delle anime. Molti
teologi in questi ultimi anni hanno sottolineato l’impor- tanza della
dimensione politica del messaggio cristiano e, di conse- guenza, dell'impegno
politico di ogni cristiano sia singolarmente che collettivamente. Si rileva,
anzitutto, che destinatario della Pa- rola di Dio e della sua opera di salvezza
è l'uomo. Ora, questi non è una monade, un angelo, un monaco, ma un essere
essenzialmente socievole. Egli non si realizza nella clausura della sua anima,
con- templando la verità, ma nella apertura intersoggettiva, nel rapporto
recettivo e comunicativo con gli altri, inserendosi in una società e
avvalendosi delle sue molteplici strutture. Questo aspetto politico dell'essere
umano è al centro della rivelazione nella Bibbia (Antico Testamento), la quale
sì occupa costantemente delle strutture so- ciali e politiche del ponolo
ebraico, l’eletto dal Signore, sottraendolo * Cfr. J. MARITAIX, L'uomo e io
Stato, Vita e Pensiero, Milano 1971, pp. 224- 227, passim. 157 Il contrasto
moderno Il rapporto fede- politica oggi La dimensione politica del messaggio
cristiano al dominio dei suoi nemici (v. Esodo), determinando la sua organizza-
zione in tribù, assegnandogli determinate forme di governo, ecc. Reazione del
potere Nel Nuovo Testamento l'attenzione alla dimensione politica è politico
meno esplicita, ma si trova sempre presente. Pur non intraprendendo
all'insegnamento di iniziative politiche, Gesù è coinvolto nella politica. La
sua condotta Gesù e il suo insegnamento provocano la violenta reazione dei
poteri po- litici costituiti. Egli diviene la loro vittima. Ma il « potenziale
sov- versivo » della sua dottrina e della sua grazia non sarà soffocato. Esso
opererà profondamente sui rapporti umani, sulle strutture sociali e a poco a
poco li trasformerà radicalmente. Esiste quindi un impatto inevitabile della
fede sulla politica. E Fede e liberazione —se questo può essere vero di
qualsiasi fede, lo è in modo singolare totale della fede cristiana, che è fede
nella liberazione dell'uomo: a ciò contribuisce il cristiano con la
testimonianza della sua fede, la quale, di conseguenza, non è passiva
accettazione né estatica contempla- zione della parola di Dio, ma è fattiva
attuazione delle promesse divine in ordine alla piena realizzazione del regno
di Dio che Gesù ha annunziato. 8. Lettura politica del messaggio evangelico
Queste importanti ragioni (la natura dell'uomo e il processo sto- rico della
rivelazione di Dio) autorizzano una lettura « politica » del messaggio
evangelico. Questo, tuttavia, non può essere letto esclu- sivamente in chiave
politica, come pretendono alcuni oggi. Quello politico, infatti, è soltanto un
aspetto del messaggio cri- Una lettura politica —stiano. Questo ha di mira
anzitutto la singola persona (e poi la so- del messaggio cietà) e in ogni
persona considera in primo luogo la dimensione evangelico interiore: la
conversione dello spirito, la trasformazione del cuore. I profeti dell'Antico
Testamento e Gesù Cristo vogliono instaurare un nuovo tipo di rapporti, basato
essenzialmente sull'amore, tra l'uomo e Dio e tra i singoli uomini. Ma non
intendono realizzare tale obiettivo con la forza, con la violenza, con le armi,
bensì con la tra- sformazione interiore delle anime, sollecitandole alla
conversione con la testimonianza delle opere, con l'insegnamento della verità,
con la pazienza, la carità e il sacrificio di se stessi. Il comandamento
[L'amore per Dio e per il prossimo è il vero comandamento « po- dell'amore è il
litico » di Gesù. Però non un amore romantico ma un amore critico, comandamento
non inteso solo come aiuto caritativo al prossimo, ma come dedizione politico
di Gesù. piena alla giustizia, alla libertà e alla pace. Questo comporta una
cri- tica decisa contro ogni forma di potere puro e un impegno concreto: per
trasformare ogni situazione politica oppressiva degli uomini. Impegno del Di
fronte ai grandi temi politici, concretamente, il cristiano sa che cristiano
per il bene la vita politica tende ad un bene comune che è superiore alla sem-
comune e la plice somma dei beni individuali, un bene che deve riversarsi sulle
promozione Umana —rersone umane cioè un bene che riguardi innanzi tutto il
migliora-
158 mento della vita umana, non già sul
solo piano degli squilibri eco- nomici, ma anche su quello dei valori
spirituali, permettendo a cia- scuno di vivere sulla terra come uomo libero e
di godere i frutti della intelligenza umana. Per il cristiano la libertà è una
realtà di cui deve rendersi degno; l'uguaglianza con gli altri uomini si
instaura soltanto in un clima di rispetto reciproco e di fraternità, e non già
in una lotta per l’afferma- zione di una sola classe sulle altre; la giustizia
è la forza di conserva- zione della comunità politica e la condizione
indispensabile per per- mettere all’« amicizia civica » di prendere forma «
conducendo gli ineguali all'uguaglianza ». Si potrebbe obiettare che il
cristiano, secondo questa visione ideale, appare tutto proteso in una visione
verticale, tutto rivolto all’affermazione di principi spirituali e morali, che
lo disincarnano dal mondo attuale. È la nota accusa dell’alienazione del
cristiano dalle responsabilità del mondo presente. In realtà nella natura uma-
na è presente anche un movimento orizzontale, anch'esso determi- nante per la
piena e totale realizzazione dell’uomo in se stesso. Tale movimento orizzontale
riguarda l'evoluzione dell'umanità e rivela progressivamente la sostanza delle
forze creatrici dell'uomo nella storia. È il movimento orizzontale della
civiltà, che se è orientato ver- so fini temporali autentici, aiuta la tensione
verticale dell'umanità. L'ideale supremo cui deve tendere l’opera politica e
sociale del- l'umanità è l'inaugurazione di una città fraterna, la quale non
com- porta che tutti gli uomini saranno un giorno perfetti sulla terra e si
ameranno fraternamente, bensì la speranza che lo stato esistenziale della vita
umana e le strutture della civiltà si avvicineranno sempre più alla perfezione,
la cui misura è la giustizia e la fraternità. « Questo ideale supremo è anche
quello della democrazia au- tentica, l'ideale di una nuova democrazia che tutti
attendiamo. Essa esige non solo il potenziamento di tutte le strutture tecniche
e una organizzazione socio-politica salda’ e razionale nelle società degli
uomini, ma soprattutto una filosofia eroica della vita e il fermento interiore
vivificante dell’ispirazione evangelica ».” 9. Capitalismo o socialismo? Il
mondo attuale si presenta diviso in due blocchi contrapposti: da un lato i
paesi che gravitano nell'orbita della Russia governati da un regime
politico-economico di tipo socialista; dall'altro i paesi detti «
dell'Occidente », che comprendono l'America del Nord, l’Eu- ropa occidentale, il
Giappone e l'Australia, a regime capitalista sotto la guida reale dell'altra
superpotenza mondiale (gli Stati Uniti d’Ame- rica). Vi sono poi i cosiddetti «
paesi non allineati » (o. del Terzo 4 Ivi, p. XXIX. 159 Libertà, uguaglianza e
giustizia cristiana Visione verticale ed orizzontale del cristiano L'ideale di
una città fraterna I due blocchi politici contrapposti Due sistemi economici,
due scelte di civiltà Horkheimer: la società capitalista è una diretta
conseguenza dell’Illuminismo Individualismo, liberalismo e Stato di diritto
“Mondo) rappresentati dalla maggioranza dei paesi « poveri ». Ma anche questa
distinzione non fa che ribadire la contrapposizione mon- diale dei « due
blocchi ». Si tratta di una contrapposizione non soltanto di due sistemi economico-politici,
ma di due concezioni di vita da cui derivano ri- percussioni profonde umane e
sociali. Entrambi si pongono come « scelte di civiltà » affermando di possedere
la garanzia del futuro individuale e sociale del mondo. Di fronte all’alternativa
per quale dei due sistemi optare, è difficile pronunciare un giudizio sereno e
spassionato. La propagan- da e la lotta politica hanno confuso e oscurato fatti
e dottrine, fino al punto di radicalizzare la convinzione ideologica degli
individui e delle masse che vivono nei due schieramenti contrapposti. Tutta-
via per molti uomini d'oggi, all'interno dell'uno e dell'altro schiera- mento,
si pone un urgente problema di coscienza: per quale dei due sistemi è giusto
schierarsi? Prima di tentare di avanzare una risposta, è necessario richiama-
re i punti essenziali su cui si fondano i due sistemi e le differenzia- zioni
che si sono sviluppate nel loro seno. 9.4 Il capitalismo classico Giova
innanzitutto avere delle idee chiare sulla ‘situazione sto- rica degli ultimi
secoli, in cui si è sviluppata la società attuale. La società, infatti, non è
un prodotto naturale, ma il risultato di un lungo processo storico. Ci sembra
utile a questo proposito ricordare che, muovendo dai suddetti presupposti,
Horkheimer e i suoi col- leghi della Scuola di Francoforte hanno condotto uno
studio accu- rato sulle origini della società capitalista contemporanea,
stabilen- do che essa affonda le sue origini nell’illuminismo e nelle sue
distor- sioni. Con questi studi Horkheimer arriva a concludere che «la
manipolazione, lo sfruttamento e l'oppressione che si registrano nella nostra
società sono la diretta conseguenza della concezione illuministica del sapere e
del ruolo che l’illuminismo ha preteso di assegnare al sapere ».” Il sistema
economico chiamato capitalismo non può essere effet- tivamente compreso nella
sua essenza se non come conseguenza di una concezione dell’uomo detta «
antropocentrica »: l’uomo non ha altro fine all'infuori di se stesso. Egli è
destinato a promuovere il proprio sviluppo nella storia, sotto la guida della
ragione, nella to- tale espansione della propria libertà. In questa concezione
dell’uomo si esalta l'individuo nei confronti della società (individualismo) e
si proclama la sua libertà incondizionata (liberalismo). Lo Stato, e-
spressione delle libertà individuali, si regge sulla democrazia rap- * B.
MONDIN, vol. III, pp. 540-541. " Ivi, p. 541. 160 presentativa e sulle
garanzie della Legge (stato di diritto). Sul piano economico la libertà
dell'individuo (o dei gruppi) si estende quanto si estendono le sue possibilità
economiche. All'iniziativa privata del capitale non vengono posti limiti né di
natura legale né di ordine sociale. L'uomo, spinto dal suo esclusivo egoismo,
mette in atto una sfrenata « lotta per il successo », e basandosi
esclusivamente sulle leggi inevitabili della economia-libera concorrenza,
concentrazione dei mezzi di produzione e dei capitali nelle mani di uno o di
pochi (trusts, oligopòli, multinazionali, ecc.) esercita una forza di pressione
su governi, partiti politici, opinione pubblica, allo scopo di assicu- rarsi
copertura ideologica sugli intrighi utilitaristici. È questo il capitalismo
classico !# che ha avuto il suo massimo svi- luppo nel secolo scorso e nei
primi anni del nostro secolo; esso si fonda sul principio secondo il quale
l’attività economica nasce nel li- bero gioco tra capitale e lavoro; due forze
nel cui equilibrio non devono interferire né lo Stato né la morale, perché il
solo rapporto economico è sufliciente a bilanciarne gli eccessi. In realtà il
capitale, con l'enorme concentrazione di potere in suo dominio, riusciva ad
arrogarsi ogni vantaggio, lasciando alle forze del lavoro (proletariato) appena
di che mantenersi e ripro- dursi. La legge ineluttabile che si diceva
essenziale all'ordine eco- nomico, continuava a mantenere ed accrescere la
ricchezza in mano di pochi, mentre il lavoro, pur derivante dalla produzione di
molti, li condanna allo sfruttamento e a una disumana condizione di vita. La
critica a questo sistema scaturisce dalla sua insanabile ingiu- stizia e dalla
inammissibilità di un sistema che mette le persone umane (i lavoratori) in
balia di una cosa (il capitale). Ma anche sul piano strettamente economico
l'errore su cui si fondava il capitali- smo non tardò a rendersi evidente:
l’uomo non è sensibile esclusiva- mente a stimoli di ordine economico. Le
tensioni sociali che si mani- festarono a partire dalla metà del secolo XIX
nascono dalla presa di coscienza che l'uomo non può essere schiavo delle leggi econo-
miche, ma queste devono servire al suo sviluppo sociale e morale. Questa presa
di coscienza deriva soprattutto dalla nascita di asso- ciazioni di lavoratori
sorte verso la metà del secolo scorso in Inghil- terra per la difesa dei propri
diritti, inizialmente soprattutto di ca- rattere economico, soprattutto dei
cosiddetti sindacati. 9.2 Il neocapitalismo Il crollo del rendimento produttivo
dei lavoratori e la loro cre- scente avversione ai datori di lavoro condussero
il capitalismo a profonde modificazioni. Con Frederick Winslow Taylor
(1856-1915) X Il capitalismo nasce dalla rivoluzione industriale, in forza
della quale la macchina, applicata alla produzione, assorbì gran parte della
mano d'opera nelie fabbriche. Secondo Marx ciò ebbe inizio nel 1735 con
l'introduzione del- la macchina per filare di Wyatt. 161 Capitalismo classico e
sfruttamento del proletariato L’uomo non è schiavo delle leggi economiche Nel
neocapitalismo c’è l'intervento condizionatore dei sindacati dei lavoratori e
dello Stato La crisi del ’29 e il “Nuovo corso” Effetti sociali della
tecnostrutiura che modifica i processi produttivi La ‘‘società dei consumi” e
la manipolazione dei ‘mass-media’ nasce negli Stati Uniti il neocapitalismo che
riconosce al lavoratore «dipendente, sia pure dopo dure e lunghe lotte dei
sindacati operai, e allo Stato un intervento condizionatore dell'attività
economica, non più lasciata ai soli automatismi di mercato. Riconoscendo al
lavoratore il diritto a migliorare le condizioni di lavoro, il neocapita- lismo
supera il gretto concetto di sfruttamento della mano d'opera. Si elabora una
organizzazione scientifica di pianificazione del lavoro (scientific management)
e al lavoratore vengono riconosciuti il di- ritto a tempi ragionevoli di
lavoro, il diritto a un'istruzione specifica, il diritto alla cooperazione tra
direzione manageriale e lavoratori. Dopo la grande crisi economica del 1929,
con il New Deal di F.D. Roosevelt, il potere politico viene coinvolto sempre
più decisamente nel processo economico e la nuova politica economico-sociale
dello Stato rappresenta uno strumento di redistribuzione dei redditi della
produzione economica a più larghi strati della popolazione, e- sercitando una
forte pressione sugli automatismi economici. Soprattutto dopo la seconda guerra
mondiale, con l'avvento della tecnostruttura, l'automazione introdotta nei
processi produttivi in- serisce nel processo economico gli scienziati e i
tecnici, condizionan- do una volta di più la potenza del capitale e riducendo
il proletariato tradizionale a sempre più esigue minoranze. Ma il
neocapitalismo sa approfittare ancora una volta delle mu- tate condizioni di
produzione con l’estendere su larga scala la pro- duttività di beni di consumo
e favorire in tal modo i consumi di massa. Nasce la « società dei consumi »
(affluent society) il cui ideale è di produrre sempre di più per rendere più
umana la vita dell’indi- viduo, fornendogli un numero sempre crescente di beni
di consumo. La critica a questo sistema emerge dal fatto che l'uomo viene stritolato
nel rapporto produttività-consumi, rapporto che si confi- gura come una nuova e
più sofisticata forma di sfruttamento di massa:. l’uomo della civiltà dei
consumi vive costretto a produrre ciò che dovrà consumare. Di qui uno stato di
insoddisfazione sempre crescente, cui s'aggiunge l'alienazione derivante dalla
mercificazione della cultura e dallo svuotamento delle menti prodotto dai mass
media. H. Marcuse ha tratteggiato amaramente l’uomo « unidimen- sionale »
emergente dalla nuova società creata tanto dal consumismo dell'Occidente,
quanto dall'industrialismo sovietico: « Una confor- tevole, democratica
non-libertà prevale nella società industriale a- vanzata ».!? 9.3 Il labourismo
e la socialdemocrazia Nel 1883 sorge a Londra la « Società Fabiana » (Fabian
Society) che si pone come fine la elevazione della classe lavoratrice, in modo
che essa possa arrivare ad assumere il controllo dei mezzi di produ- # H.
MARCUSE, L'uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967, p. 21. 162 zione.
Questo fine doveva essere raggiunto in modo graduale, « tem- poreggiando ». Da
qui il nome di questa società, derivante dal con- sole romano Fabio Massimo,
detto il « temporeggiatore ». Dopo qual- che anno (nel 1900) dalla Società
Fabiana e dalle Trade Unions (i sindacati operai, sorti agli inizi del secolo
XIX come associazione di mutuo soccorso tra gli operai dell'industria
metallurgica inglese) fu fondato il partito labourista inglese (Labour Party =
partito del la- voro) che assume il programma del socialismo (per cui il controllo
dei mezzi di produzione deve passare ai lavoratori) senza fare però un dogma
dei suoi principi filosofici tratti dal marxismo. Esso diven- ne nel giro di
alcuni decenni uno dei due partiti fondamentali della Gran Bretagna, andando al
potere diverse volte a partire dal 1924. I mezzi di lotta adottati per
raggiungere le mete prefissate sono stati: una imponente azione di propaganda
tra le masse popolari per farle crescere culturalmente e renderle coscienti dei
propri diritti di esseri umani sullo stesso piano di tutte le altre classi
sociali; gli scioperi, attraverso il sindacato, anche a livello nazionale e di
sostegno tra le varie categorie di lavoratori, per ottenere dallo Stato una
legislazione sia di assistenza sociale (dalla culla alla tomba) onde migliorare
le condizioni di vita, sia per sancire il passaggio allo stato o un suo di-
ritto di controllo delle aziende di interesse nazionale (comunicazioni,
miniere, energia, banche, ecc.), e per ottenere dal padronato adeguati
miglioramenti salariali ed una partecipazione, sia pure indiretta, alla
gestione dell'azienda. Come in Inghilterra, così anche in altri paesi
dell'Europa occiden- tale come Germania, Olanda, Danimarca e in Scandinavia i
partiti socialisti, sorti nei primi decenni del XX secolo, non fecero la scelta
rivoluzionaria, ma presero la strada del riformismo e della gradualità per la
trasformazione della società capitalista. :IIl nome di partiti «
socialdemocratici », che essi assunsero, era una indicazione della loro scelta
democratica, cioè del pieno rispetto della volontà dei cittadini. Alcuni di
essi, che erano sorti basandosi sul marxismo, specie dopo il secondo
dopoguerra, fecero una esplicita rinuncia al materialismo storico e dialettico
di Marx, accettando nella pratica il sistema neocapitalista con cui convivere
tranquillamente. Il partito socialdemocratico della Germania occidentale e
quelli scandinavi sono gli esempi più significativi di questo socialismo in
perfetta simbiosi con il capitalismo; anche i partiti socialisti france- se,
italiano e spagnolo, pur restando in teoria marxisti, nella pratica sono da
tempo dei partiti socialdemocratici che hanno accettato le tesi del
neocapitalismo per il quale lo sviluppo massimo della pro- duzione con
l'utilizzazione della tecnica moderna, permette la cre- scita di tutta la
società e l'aumento dei consumi per ogni categoria sociale (v. il paragrafo sul
neocapitalismo). 163 Dal fabianesimo alle ‘Trade Unions”’ inglesi e al
labourismo Il socialismo riformista dell'Europa occidentale: la socialdemocrazia
Marx: abolizione dello sfruttamento e comunismo Lotta di classe e
collettivizzazione dei mezzi di produzione Il ‘Manifesto del partito
comunista’’ e la coscienza di classe L'Internazionalismo socialista I partiti
dei lavoratori italiani 9.4 Il socialismo marxista Karl Marx (1818-1883),
fondatore del socialismo scientifico, si propone di fondare una società in cui
sia abolito lo sfruttamento dell'uomo e a tutti venga assicurato il
soddisfacimento dei loro bisogni materiali e spirituali (comunismo). Marx vede
nel possesso privato dei mezzi di produzione il prin- cipio di ogni male, non
solo economico, ma anche individuale e sociale. Da questa privatizzazione nasce
il rapporto salariale per cui l'operaio vende il proprio lavoro per un salario
sul quale l’im- prenditore lucra ingiustamente il « plusvalore », cioè il
profitto. La lotta di classe, cioè la lotta per la conquista della proprietà
collettiva dei mezzi di produzione da parte del proletariato sfruttato dai ca-
pitalisti, è, secondo Marx, un fatto ineluttabile della storia che deve
condurre all'eliminazione della classe padronale. Tolta di mezzo quest'ultima,
nascerà un nuovo tipo di umanità, senza più classi né egoismi: uomini che
vivranno in una società di uomini « comuni », solleciti al bene degli altri
quanto e forse più che non al bene proprio. Nel 1848 Marx lanciò un appello a
tutti gli operai, con il « mani- festo del partito comunista » firmato anche da
Engels, in cui il pro- letariato veniva sollecitato a prender coscienza della
propria con- dizione e della propria individualità, per diventare una forza
sociale contro lo sfruttamento. Con la fondazione della I* Internazionale dei
Lavoratori (Londra, 29-8-1864) le varie correnti socialiste sviluppatesi prima
e durante la diffusione del marxismo si associarono, non senza contrasti pro-
fondi. In Inghilterra prevalse il sindacalismo delle « trade unions »
riformista e antirivoluzionario; in Germania il socialismo democra- tico mirava
alla trasformazione dello Stato, mentre in Francia an- ziché alla conquista del
potere il movimento operaio tendeva a or- ganizzarsi e a liberarsi dallo
sfruttamento senza ricorrere alla rivo- luzione. Ma vi furono anche movimenti
dichiaratamente anarchici, terroristici e rivoluzionari ispirati da Bakunin, fiero
oppositore di Marx. In Italia, con la fusione dei movimenti operai
preesistenti, nacque a Genova nel 1892 il Partito dei Lavoratori Italiani
(l'anno seguente prese il nome di Partito Socialista Italiano), in cui ben
presto si ma- nifestò la divisione tra socialisti riformisti e socialisti
radicali, rivo- luzionari, i quali sotto la spinta della rivoluzione bolscevica
del 1917 in Russia finirono per separarsi e fondare a Livorno nel 1921 un nuovo
partito denominato « Partito Comunista d’Italia », cam-° biando poi il nome
nell'attuale Partito Comunista Italiano. 9.5 Il marxismo-leninismo-stalinismo
Con la rivoluzione d'ottobre 1917, in Russia, ad opera di Lenin si ebbe la
creazione di uno Stato collettivista, senza distinzioni di 164 classe. Lenin
stabilì tutto il potere al vertice, non già nella classe — come avrebbe voluto
Marx — ma nel partito. Stalin giungerà ancor più avanti: alla dittatura
personale del capo unico. Il paese fu spinto con la forza alla
collettivizzazione della terra, all'industrializzazione a tappe forzate, alla
compressione continua e spietata dei consumi. Le libertà individuali o di
gruppo furono abolite e con Stalin venne accentuato il regime poliziesco
repressivo con continue « purghe » e con l'invio di milioni di persone nei
famigerati campi di lavoro in Siberia. Questo terrorismo dispotico venne poi
denunziato al XX Congresso del Partito Comunista da Kruscev nel 1956, dopo la
morte del dittatore. Anzi, dopo questa denunzia, venne iniziata la cosid- detta
fase di « destalinizzazione », in cui tutti gli errori e le deficienze del
sistema vennero addebitate al dittatore scomparso. Sul piano dell'economia e
dei diritti umani non cambiò pratica- mente nulla, pur con qualche accenno di
liberalizzazione attuata in qualche settore e solo per brevi momenti. La rigida
organizzazione centralizzata avente come perno il Partito Comunista, fonte di
ogni potere e costituito da un gigantesco apparato burocratico, è rimasta
invariata in questi ultimi 30 anni, in quanto il marxismo-leninismo è rimasto
la filosofia ufficiale dell'Unione Sovietica. Questo sistema in cui
praticamente domina lo sfruttamento delle masse da parte di una oligarchia
costituita dall’apparato del partito e dalla macchina statale, è stato imposto
a tutti i paesi del blocco dell'Europa orientale, caduto sotto il dominio
comunista alla fine della seconda guerra mondiale. 9.6 L'esperienza del maoismo
in Cina Una esperienza diversa si è attuata in Cina da Mao-Tse-tung, quando,
dopo una lunga lotta rivoluzionaria contro il regime di Chiang-Kai-sheck,
riuscì a conquistare il potere nel 1949, costituen- do la Repubblica Popolare
Cinese su basi marxiste. Mao-Tse-tung — che era stato uno dei fondatori del
Partito Comunista Cinese, sorto nel 1921 a Shangai — divenne il capo cari-
smatico del comunismo cinese e dell'immenso paese asiatico, che ha ora 900
milioni di abitanti. Egli, dopo la morte di Stalin nel 1953, si proclamò unico
difensore e interprete del marxismo-leninismo, accusando di revisionismo i
paesi del blocco sovietico. In realtà il suo socialcomunismo si è differenziato
da quello proclamato da Marx e Lenin, soprattutto per alcuni punti
qualificanti: a) stretta unione tra teoria e prassi; b) legame completo e
continuo con le masse; c) sviluppo dell’autocritica. In realtà, Mao ha creato
un nuovo tipo di comunismo, in cui le verità universali del marxismo vengono
ri- pensate per un popolo contadino, povero, fortemente socializzato attraverso
un incessante indottrinamento — i « pensieri di Mao » — » B. MONDIN, vol. III,
pp. 514-515. 165 La rivoluzione del ’17: dai marxismo- leninismo alla dittatura
di Stalin Mao e ii ripensamento del marxismo per un popolo contadino Caratteri
militari e monacali del maoismo: la rivoluzione culturale Il processo di
revisione del maoismo a partire dal 1976 ‘‘Marxismi’’ e ‘‘postmarxismo”’: la
devianza eterodossa in forza del quale si tenta di cambiare la natura degli
uomini, il loro modo di pensare e di comportarsi, accentuando una forte
tendenza nazionalistica e volontaristica. Accentuando il valore «teoretico »
della prassi, più che Marx ed Engels, Mao è stato soprattutto un utopista
pragmatico e per questo, vedendo diminuire nel quadro del partito la spinta
ideale iniziale, si fece promotore nel 1966 della cosiddetta « rivoluzione cul-
turale » con un appello diretto alle masse, specialmente ai giovani, per
controllare l’attività dei dirigenti di partito che si erano im- borghesiti e
burocratizzati e combattere chi non condivideva le sue tesi politiche riunite
nel « libretto rosso ». Come risultato si ebbe una ventata di violenze con
processi sommari e centinaia di mi- gliaia di vittime innocenti e l'anarchia in
tutto il paese, con lo scardi- namento di tutto l'apparato produttivo. Solo
dopo la morte del dittatore, nel 1976, i nuovi dirigenti, sotto la guida attenta
di Deng Hsiao-ping, eminenza grigia del regime, hanno iniziato un graduale
processo di revisione delle direttive maoi- ste, rivalutando i dirigenti
vittime della « rivoluzione culturale » ed avviando una politica economica più
duttile, aperta alle esperienze dei paesi capitalisti. Facendo un primo
bilancio del maoismo, si può dire che esso, co- me il bolscevismo russo dei
primi decenni, era incentrato sul partito come motore di tutta l’attività del
paese, fondata sulla cieca ubbi- dienza di tutti i sudditi, trattati solo come
strumenti di produzione. Una delle sue debolezze fondamentali, ereditate dal
marxismo, è stata la sua incapacità di affrontare le realtà insopprimibili
della vita e della morte. E questo perché ignorava le preoccupazioni fondamen-
tali di ogni essere umano. 9.7 Crisi del marxismo ortodosso: i nuovi marxismi
Dopo un settantennio di esperienza di comunismo sovietico e circa quarant'anni
di quella, simile nei principi, della Repubblica Popolare Cinese e delle altre
costituzioni « socialiste », si può tentare di formulare un giudizio di
validità e di merito. Il pensiero di Marx che in questo secolo ottenne una
grande dif-
fusione e fu assunto come dottrina di
Stato, indiscutibile come un dogma, sia in Russia che in Cina e nelle altre «
democrazie popo- lari », ebbe da parte di qualche eminente studioso marxista,
spe- cialmente dell'Europa occidentale, delle nuove interpretazioni che .
modificarono alcune delle sue tesi classiche. Tanto che da alcuni decenni non
si parla più di marxismo ma di « marxismi » e di « post- marxismo ».
Naturalmente queste nuove interpretazioni furono su- bito condannate come
eterodosse dagli organismi culturali ufficiali dei governi comunisti.
L'elemento che distingue maggiormente il marxismo non orto- dosso o
revisionistico da quello ortodosso è che per quest’ultimo la 166 dialettica
regola con leggi inderogabili tutti gli eventi della natura e della storia,
mentre per i nuovi marxismi la dialettica non ha leggi e non riguarda affatto
la natura bensì il soggetto singolo nei suoi rapporti con la storia. Anche
nelle società a regime comunista occor- re lottare contro la disumanizzazione e
l'alienazione delle singole personalità. Inoltre mentre per i marxismi
ortodossi la religione è soltanto « oppio del popolo » e perciò da distruggere,
per i nuovi marxismi la religione è considerata come un importante fattore di
superamento e di liberazione dalle presenti situazioni di oppres- sione e di
sofferenza in cui si dibatte l'umanità ed anche di sostegno delle aspirazioni
per un mondo migliore. (I più qualificati rappresen- tanti di queste nuove
correnti di pensiero marxista sono stati An- tonio Gramsci, Max Horkheimer,
Herbert Marcuse ed Ernst Bloch, i quali hanno esercitato un notevole influsso
nei movimenti culturali del nostro tempo). ‘Assolutizzando l'influsso che le
strutture esercitano sull'uomo e sulla società Marx scorge nella base economica
il peccato d’origine che determina l’uomo, la sua coscienza, le sue
alienazioni. Ciò com- porta una visione materialistica dell'uomo, la quale ne
autorizza la strumentalizzazione e la manipolazione, subordinandolo alla
ideolo- gia, né più né meno di quanto avviene ad opera del capitalismo. Anche
per il capitalismo l’uomo conta soltanto in quanto è iavoro, senza alcun
riferimento superiore o trascendente. Non si può quindi credere ingenuamente e
acriticamente che una semplice scelta capitalista o socialista sia in grado di
eliminare, automaticamente, i molteplici mali, ingiustizie, discriminazioni,
op- pressioni che affliggono la società attuale. I mali della società non
derivano tanto dai sistemi, quanto dagli uomini. L'origine dello sfrut- tamento
sociale e dell’oppressione risale alla volontà dell'uomo di ser- virsi
egoisticamente e brutalmente di un altro uomo. Occorre dire poi che queste
critiche di ordine teoretico (filoso- fico o scientifico) non avevano mai fatto
grande impressione a molti altri studiosi, ammiratori di Marx e non avevano
scalfito minima- mente la fede di milioni di comunisti militanti dei vari
partiti comu- nisti dell'Europa occidentale. Per tanti anni, neppure le pesanti
conseguenze di ordine pratico (sociale, economico, politico) che accompagnarono
il marxismo, specie in Russia, erano bastate ad intaccare la convinzione delia
intrinseca bontà di tale sistema. Anche quando gli innumerevoli cri- mini di
Stalin divennero di dominio pubblico, la grande intelligentsia dei paesi
occidentali continuò ad aderire al marxismo, sottovalutan- do o facendo finta
di non vedere gli stermini, le oppressioni, le pur- ghe, i campi di
concentramento che avevano flagellato il popolo rus- so da quando i comunisti
conquistarono il potere. Senonché, a partire dagli anni ’60, sia in Russia che
nei paesi occidentali, cominciò a serpeggiare un senso di sfiducia nella capa-
167 de Marxisma revisionistico: la dialettica e ii soggetto singoio nella
storia; îa religione come fattore di liberazione La subordinazione dell’uom&
all’ideologia Le colpe dell’ ‘‘intelligentsia’’ occidentale filomarxista Le
crisi di fede nel marxismo e l'““arcipelago Gulag” L’interesse del
cristianesimo per il problema economico-sociale cità del marxismo di creare
quella nuova società perfetta, senza di- seguaglianza, senza ingiustizie, senza
divisioni di classe, promessa da Marx. Le ragioni di questa crisi di fede nel
marxismo sono molteplici. Ma quella fondamentale, a mio avviso, è il vuoto
culturale del marxi- smo stesso. Questo sistema, come ha mostrato Karl Popper,
dove ha la pretesa di parlare « scientificamente » non può produrre che ipotesi
falsificabili. Mentre per quelle dure realtà quali il male, il dolore, la
morte, il senso della storia, non ha nessuna parola da dire. Un'altra ragione
che ha messo in crisi la fiducia nel marxismo è stata la pubblicazione di
Arcipelago Gulag di A. Solzenicyn. Per molti lettori di fede marxista questo
libro è stato una rivelazione sensazionale, «decisiva, che li ha scossi
profondamente e da fedeli e zelanti seguaci di Marx li ha trasformati, tutto
d'un tratto, nei suoi critici più severi e nei suoi più violenti avversari. 10.
Le dottrine sociali di ispirazione cristiana Sarebbe oltreché ingiusto,
acritico, pensare che la soluzione alla questione sociale sia venuta soltanto
dai movimenti socialistici del- l'Ottocento e, in modo particolare, dalla
dottrina di Karl Marx. Il cri- stianesimo non si disinteressò mai, nel corso
della sua millenaria storia religiosa e sociale, dell'uomo nei confronti del
problema eco- nomico-sociale e delle ingiustizie conseguenti alle soluzioni
impo- ste dall'egoismo umano. Le soluzioni cristiane possono ridursi a due
tipi, spesso integran- tisi: da un lato una forma prevalentemente (anche se non
esclusiva- mente) assistenziale-caritativa (cristianesimo caritativo) e
dall'altro, una forma che proponeva la revisione delle stesse strutture econo-
mico-sociali (cristianesimo sociale). La prima forma, che è essen- ziale al
cristianesimo stesso, è presente in tutti i secoli dell’era cri- stiana e cerca
di lenire con la fattiva carità le esasperate conseguen- ze della violenza, di
qualsiasi tipo, che l'uomo e la società fa sul- l'uomo..È questo uno dei frutti
più originali del Vangelo che ha a cuore i poveri, gli umili, gli oppressi, i
diseredati. Sono innumerevoli le opere di efficace aiuto realizzate, nei
secoli, dalla Chiesa in questo campo. Né si può dimenticare la precisa condanna
nei confronti del- l'usura, del profitto ingiusto e speculativo,
dell’ingiustizia economica derivata dallo strapotere della ricchezza. Il
cristianesimo sociale si è preoccupato invece di individuare, accanto
all'azione caritativa, anche il problema della giustizia. Di qui le
sollecitazioni, specialmente da parte del magistero della Chiesa cat-, tolica,
a interventi individuali, di categoria, statali per rimuovere le cause
dell’ingiustizia sociale, derivante dalla concentrazione della ricchezza nelle
mani di pochi. Il magistero della Chiesa cattolica ha elaborato, a partire
dalla 168 seconda metà del secolo XIX," una sempre più precisa critica al
prin- cipio di libertà — uno dei miti della società nata dall'Illuminismo —
applicato sul piano della realtà sociale ed economica. Inoltre non si è
abbandonata la tesi della legittimità del principio di proprietà pri- vata, « la
quale è conforme alla natura umana e vantaggiosa per l’or- dine sociale »? ma
ci si è sforzato di condizionarlo con le esigenze sociali, attribuendo allo
Stato il diritto di determinare i limiti nel- l'uso del bene privato in vista
del bene comune. Nella discussione tra legittimità delia proprietà privata e
bene comune, spesso non si di- stingue tra proprietà e uso che se ne fa: nella
mancata distinzio- ne tra proprietà e uso — e quindi, in certo senso, tra
proprietà privata e destinazione universale dei beni — sta la radice sia
dell'in- dividualismo capitalistico che del comunismo. Dal fatto che i beni
sono fatti per tutti, il comunismo deduce la dottrina e la prassi che i beni
devono essere di tutti; dal fatto che i beni devono essere ap- propriati e sono
di fatto appropriati, l’individualismo capitalistico ricava che essi sono fatti
solo per i singoli, i quali, quindi, possono disporne senza curarsi per nulla
degli altri. Entrambe queste solu- zioni commettono lo stesso errore. . In
questa linea di principio, le soluzioni proposte negli ultimi cento anni alla
questione sociale riguardano soprattutto lo Stato, che deve promuovere l’uso
dei beni, pur posseduti in privato, a effet- tivo vantaggio sociale, a
promozione del bene comune. I sindacati dei lavoratori, per la rivendicazione
dei loro diritti individuali, fami- liari e di categoria, nonché la loro
partecipazione alla ripartizione delle ricchezze prodotte con il proprio lavoro
a vantaggio non di alcuni, ma di tutti, devono egualmente svilupparsi e potenziarsi.
11. Îl cristiano e la promozione delia coscienza sociale e politica: la
mediazione culturale e l'impegno politico Soprattutto nei tempi più recenti, si
è sviluppata nella coscienza individuale del cristianesimo la consapevolezza
che non si tratta più di vivere interiormente la propria fede, ma di esprimerla
come “ I documenti principali sono: l’enciclica Rerum novarum del pontefice
Leone XIII (1891); l'’enciclica Quadragesimo anno di Pio XI (1931); Radiomes-
saggio per il 50° della Rerum novarum di Pio XII (1941); l’enciclica Mater et
magistra di Giovanni XXIII (1961); l’enciclica Pacem in terris di Giovanni
XAIII (1963); la costituzione Gaudium et spes del Conc. Vaticano II (1965);
l'enciclica Popolorum progressio di Paolo VI (1967); la lettera apostolica
Octogesima adveniens di Paolo VI (1971); il documento su « La giustizia nel
mondo » del III Sinodo dei Vescovi (1971); l’enciclica Laborem exercens di
Giovanni Paolo II (1981) e l’istruzione della Congregazione per la dottrina
della fede Libertà cristiana’ e liberazione (1986). Si suggerisce come testo di
consul- tazione il volume / documenti sociali della Chiesa (da Pio IX a
Giovanni Paolo II, 1864-1982), Massimo, Milano 1983. © PIo XI, Quadragesimo
anno, n. 73. ® G. BATTISTA GUZZETTI, L'uomo e i beni, Marietti, Torino 1956, p.
215. 169 La dottrina sociale della Chiesa dal sec. XIX a oggi H problema della
proprietà privata in rapporto al bene comune Responsabilità dello Stato e
promozione del bene comune Esperienza di fede e testimonianze di impegno di
azione sociale Un nuovo modello di civiltà e l'appello all’immaginazione
sociale Gli insegnamenti del Concilio Vaticano li La ‘‘mediazione culturale”:
congiunzione e sintonia tra fede e coerenza politica impegno di azione sociale,
testimonianza di una autentica volontà di rinnovare il mondo secondo l'ideale
cristiano. Ma accanto a questa preliminare posizione del cristianesimo, anzi
come conseguenza della conversione personale, nasce l'impegno di chi vuol
vivere la sua fede cristiana in una azione politica. Verso questa testimonianza
cristiana nel mondo politico-sociale contemporaneo sono orientati oggi i
cristiani più sensibili e consa- pevoli dell'urgenza dei problemi che il mondo
è chiamato a risol- vere. Il cristiano sa che non si tratta più di affrontare i
problemi sociali emergenti dal conflitto capitale-lavoro, bensì di affrontare
l’urgen- te problema di un nuovo modello di civiltà. « In nessun'altra epoca
come nella nostra l'appello all'immagina- zione sociale è stato così esplicito.
Occorre dedicarvi sforzi di inven- tiva e capitali altrettanto ingenti come
quelli impiegati negli arma- menti e nelle imprese tecnologiche ».* Oggi si
incomincia a vedere con chiarezza che nessuna delle ideo- logie dominanti porta
con sé la proposta di un mondo veramente instaurato sulla democrazia, sulla
giustizia e sulla non violenza. Le ingiustizie del capitalismo sono note ed
evidenti. Ma anche là dove esso è stato debellato secondo la soluzione
socialista-marxi- sta non mancano gravi problemi che si impongono a una
coscienza umana sincera e non prevenuta. Una perenne tensione divide il mondo e
pone « due continenti ideologici » in uno stato di guerra e di inconciliabile
opposizione. L'urgenza e la consapevolezza di questi problemi impegnano de-
cisamente i cristiani che nel corso dell'ultimo ventennio, soprattutto sulla
scorta degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, si sono tro- vati a
compiere lo sforzo di attuare una corretta modalità di pre- senza. Il
cristiano, infatti, nell'impegno politico ha dovuto confron- tarsi e guardarsi
sia dal rischio di attuare una presenza politica, in cui la scelta di fede e
l'azione politica non siano sintonizzate da alcun legame di coerenza, arrivando
a compiere scelte ideologiche di formulazione anticristiana, come dall'altro
rischio che deriva dalla pretesa di attingere l'indicazione della teoria e
della prassi politica direttamente dalla dimensione di fede e dal contenuto
delle verità ultime. Possiamo dire pertanto che il cristiano deve operare per «
co- struire la città dell'uomo a misura d'uomo; e questo lo impegna a superare
stati d'animo di disinteresse, di diffidenza, talora di rifiuto della politica
fino a forme di gretto qualunquismo ».® . Sorge così l'esigenza di pervenire
all'elaborazione di una « me- diazione culturale » per operare in sintonia tra
scelta di fede e * :PaoLO VI, Lettera apostolica Octogesima adveniens del
14-5-1971, n. 19. * Questo concetto è preso dal volume La città dell'uomo di
Giuseppe Laz- zati, scomparso recentemente, splendida figura di uomo politico
cristiano, di studioso, che fu rettore dell’Università Cattolica di Milano. 170
coerenza politica. Le mediazione culturale si pone, inoltre, come la linea di
confine lungo la quale realizzare il confronto ideologico e stabilire i termini
di possibilità del dialogo nel pluralismo delle culture e degli orientamenti
politici. 12. | nuovi problemi impongono una nuova concezione di società 12.1
La nuova società « post-industriale » o della comunicazione Come è stato detto
nei paragrafi precedenti, l'immenso progresso negli ultimi decenni della
scienza ha permesso l'applicazione delle tecnologie più avanzate, soprattutto
la robotica e l'informatica, in ogni settore dell'attività produttiva. Per
distinguere questa nuova fase della società industriale si è creato il termine
di « società post-industriale » la quale pur avendo risolto molti problemi che
a- vevano pesato sull’umanità nei secoli scorsi, si è trovata ‘a fronteg- giare
altri nuovi gravi problemi, sorti soprattutto per effetto della nuova civiltà
della comunicazione e dell'immagine che ha svilup- pato una serie di nuovi
bisogni, dando origine alla « società dei con- sumi » e a nuove forme di potere
disumanizzanti della vita indivi- duale, familiare e comunitaria. Nella società
comunista come in quella capitalista sono nati i «nuovi poveri » che si
sostituiscono a quelli creati nel secolo scor- so dalla rivoluzione
industriale: i drogati, i disadattati, i deviati, gli emarginati d'ogni tipo;
cresce la difficoltà del dialogo tra generazio- ni; si moltiplicano le forme di
discriminazione razziale, culturale, religiosa, nonché quella meno apparente ma
altrettanto grave del- l'emarginazione di coloro che sono improduttivi come i
vecchi, i ciechi, gli handicappati. La civiltà dell'immagine, sorta soprattutto
con la televisione, ha sviluppato la violenza ed ha contribuito anche ad una
eccezionale crescita della criminalità organizzata che ha reso insicura la vita
di tutti. Infine, lo sfruttamento irrazionale per i propri fini egoistici delle
risorse terrestri minaccia l’ambiente na- turale e di conseguenza il contesto
umano stesso. Sarebbe semplicistico ridurre tutti questi problemi — ed altri
an- cora dello stesso genere — al semplice conflitto tra capitale e lavoro. È
una società intera che, nonostante abbia iniziato da qualche ge- nerazione la
soluzione dei suoi problemi in termini di « capitale- lavoro », oggi riconosce
amaramente che la società tecnologica, sia essa a servizio del capitalismo o
sia a servizio del proletariato, ha aperto il passo a conflitti umani che
richiedono un superamento ra- dicale della concezione della società e
dell'uomo. L'invocazione che emerge da questi gravissimi conflitti è che si
debba al più presto sorpassare ogni sistema e ideologia attualmente vigenti,
per trovare 171 Nella società post- industriale sorgono nuovi problemi sociali
I nuovi poveri: gli emarginati, i devianti, i disadattati Occorre giungere ad
una nuova concezione della società e dell’uomo Pesante costo sociale delia
odierna societa tecnologica Gsisi dell’era tecnologica perché essa appare
troppo pericolosa Il giudizio di Abbagnano {sa scensiderato delia tecnologia
nuove forme di democrazia, libera e sociale, che sia un autentico con- trappeso
alla invadenza della tecnocrazia.® 12.2 La « crisi epocale » della società
nell'era tecnologica L'era tecnologica e dell'informatica ha determinato, come
è stato detto, nella società trasformazioni di dimensioni tali da creare una «
crisi epocale » della nostra società. Questo progresso, infatti, se da un lato
ha portato immensi van- taggi all'umanità, dall'altro lato ha avuto un pesante
costo, non solo in termini economici, ma soprattutto per quanto riguarda la
difesa della natura, la salute e l'integrità della persona. Di questa « crisi
epocale » segnaliamo qui appresso gli aspetti più rilevanti: a) Crisi
tecnologica - « La crisi della tecnica è esplosa dopo anni di infatuazione per
i risultati spettacolari che la tecnologia moderna è riuscita a conseguire:
treno, auto, aereo, radio, televisione, trat- tore, carro armato, veicoli
spaziali, missili, grattacieli, metropolitane, calcolatori elettronici, polmoni
e reni artificiali. La crisi è scoppiata quando la gente ha cominciato ad
accorgersi che il gioco tecnologico è troppo costoso e troppo pericoloso.
«Davanti al costo enorme di certe armi (missili, bombardieri, sottomarini
atomici, bombe atomiche, ecc.) e soprattutto dei viag- gi spaziali, molta gente
ha cominciato a chiedersi se questo impiego della tecnologia sia lecito,
morale, o se non sia invece più giusto indirizzare la tecnologia ad obiettivi
ben più urgenti come il pro- blema della fame, la cura dei tumori, ecc. ».” «
Oggi come oggi — nota Nicola Abbagnano — il senso di una insicurezza radicale
che investe tutti gli aspetti della vita è assai diffuso e costituisce il
carattere dominante del tempo. I capisaldi sui quali, da qualche secolo in qua,
si fondava la certezza dell'uomo riguardo al suo destino non stanno più in
piedi. Non si crede più al progresso ineluttabile della storia. La scienza e la
tecnica hanno realizzato conquiste enormi e insperate, ma i contraccolpi
negativi di esse, i costi enormi naturali ed umani, sono diventati evidenti ed
appaiono sempre più pesanti ed insostenibili ».* « Oltre che per i suoi costi
altissimi la tecnologia viene messa in crisi dai pericoli e dai danni assai
gravi che essa procura sia alla natura sia all'uomo. « Nel mondo della natura
l'uso sconsiderato della tecnologia ha provocato danni gravissimi forse
irreparabili. [....] ì « Oltre che per i danni che sta provocando nella natura,
la tecno- logia viene messa in crisi per gli effetti perniciosi che ha
sull'uomo. * PaoLo VI, Ivi, par. n. 47. . Î ? B. MONDIN, Una nuova cultura per
una nuova società, Massimo, Milano 1983, p. 169. 5 N. ABBAGNANO, L'uomo
progetto 2000, Dino, Roma 1980, pp. 231-232. 172 Essi riguardano anzitutto
l'ordine fisico, materiale, economico. [....] « Un altro effetto negativo della
tecnologia è di produrre disoc- cupazione: essa, appena può, sostituisce l'uomo
con la macchina e annulla moltissimi posti di lavoro. [....] « Ancor più grave
è l’avvertimento che ci viene dalla tecnologia allorché essa viene impiegata
per fare esperimenti sulla struttura genetica dell'uomo. È un'aberrazione
gravissima, mostruosa. [...] Infatti intervenire sulla struttura genetica è far
violenza all'uomo, alla sua libertà, la quale non è solamente quella qualità e
quel diritto a cui noi moderni teniamo maggiormente, ma quella capacità che
insieme all'intelligenza costituisce il vero nucleo essenziale del no- stro
essere ».? b) Crisi morale - Anche sull'ordine morale le ripercussioni nega-
tive della tecnologia sono allarmanti. « Una delle ragioni dello sfacelo morale
del nostro tempo è stato il dimenticare che l'uomo diviene autenticamente uomo
soltanto col- tivando se stesso, plasmando il proprio essere, disciplinando i
propri istinti, tenendo lo sguardo fisso su certi valori fondamentali che for-
mano la morale naturale: quelli già scoperti dal pensiero greco (bel- lezza,
bontà, giustizia, prudenza, temperanza, amicizia, ecc.) e quelli aggiunti più
tardi dal cristianesimo (amore, sacrificio, umiltà, pu- rezza, eguaglianza,
solidarietà, ecc.). [...] « Con questo è chiaro che ultimo responsabile degli
effetti per- versi della tecnologia e del suo cattivo uso è l'uomo. La
responsabi- lità della “crisi epocale” ricade sulla società che ha introdotto
la tecnologia e sugli uomini che l'adoperano. Essi hanno smarrito il cor- retto
impiego della tecnologia dal momento in cui hanno smarrito la verità dell'uomo
e della società ».® c) Crisi dei valori - « Storici e letterati, scrittori e
giornalisti, filosofi e teologi, sociologi e psicologi, uomini politici ed
ecclesia- stici, tutti riconoscono che la ragione fondamentale per cui la
nostra società sta precipitando nel caos è il suo abbandono dei valori fonda-
mentali che l'avevano informata e ispirata per secoli, cioè Dio, la Pa- tria,
la Famiglia, lo Stato, la Chiesa, la Scuola, il Diritto, la Persona, la
Solidarietà, la Filantropia, la Giustizia, ecc. ».* « Tutta la società è
rimasta sconvolta dalla crisi dei valori tradi- zionali e dal loro
capovolgimento. Ma la vittima principale, che pa- ga il prezzo più alto, è la
gioventù, la quale spesso soffre di un vuoto interiore spaventoso che cerca di
colmare rifugiandosi nei paradisi artificiali della droga oppure nell’inferno
della criminalità e della violenza. Sono, però, soprattutto gli stessi giovani
a restare delusi dalla cultura di oggi e a contestarne i risultati morali. Essi
respin- gono assolutamente il principio base del consumismo, secondo cui * B.
MONDIN, Una nuova cultura..., cit., pp. 169-172. ® Ivi, pp. 172-175. # Sul
problema dei valori vedere il cap. XV. 173 Grave crisi morale della società
attuale Grave crisi dei valori Una dura verità che deve essere annunciata
Giovanni Paolo Il: occorre pensare non all'uomo astratto ma a quello reale,
concreto Mediazione tra fede e cultura l'uomo tanto vale in quanto è un
principio di produzione e di con- sumo ».® 12.3 È necessario un nuovo progetto
culturale « Ciò che è urgente e inderogabile per trarre l'umanità fuori dalla
barbarie è darle una nuova forma spirituale, ossia una nuova cul- tura, la
quale, dopo Cristo, non può più essere una forma semplice- mente umana ma
dev'essere una forma cristiana. [...] « Per i laicisti questa è una dura verità
ma è la verità, e il cre- dente non può nasconderla sotto il moggio, per non
offendere la loro miopia. La verità va annunciata, proclamata con coraggio, con
chiarezza, non a mezzi termini, con circonlocuzioni più o meno oscu- re. E
questo vale anche per la cultura. [....] « Il credente sa che solo Cristo (il
quale fa parte della storia e l'ha anche profondamente trasformata) possiede la
verità sull'uomo e sulla società e ce ne ha resi partecipi. [....] « Perciò per
chi rifiuta il messaggio evangelico ed il suo insegna- mento equivale ad
escludersi automaticamente dalle condizioni per rielaborare un progetto
culturale adatto alla nostra società ».* L'ha proclamato in un modo
estremamente chiaro il papa Gio- vanni Paolo II nella enciclica Redemptor
hominis indirizzata alla u- manità intera: « Non si tratta dell'uomo astratto,
ma reale, dell'uomo concreto, storico. Si tratta di ciascun uomo, perché ognuno
è stato compreso nel mistero della redenzione, e con ognuno Cristo si è unito,
per sempre, attraverso questo mistero. L'uomo così com'è voluto da Dio, così
come è stato da lui eternamente scelto, chiamato, destinato alla grazia e alla
gloria: questo è proprio ogni uomo, l'uo- mo il più concreto, il più reale;
questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero di cui è divenuto partecipe in
Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi
di uomini vi- venti sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito »
(Enc. Redemptor hominis, n. 13). « Con ciò non si intende identificare fede e
cultura, perché la cultura non si deduce immediatamente, direttamente dalla
fede, ma deve avvalersi delle varie mediazioni fornite dalla scienza, dalla
filosofia, dalla sociologia, dalla politica, ecc. Ma il pilastro portante, a
pietra angolare, storica, reale, è Cristo. Chi lo rifiuta non potrà mai
produrre un progetto culturale atto a promuovere il bene reale della persona
umana e della società ». * B. MONDIN, Una nuova cultura..., cit., pp. 176-179.
® Ivi, pp. 188-189. 174 CONCETTI DA RITENERE — Origine dello stato naturale,
convenzionale, preternaturale — Civitas terrena; civitas Dei; debitus finis —
Costituzioni giuste e ingiuste: monarchia; aristocrazia; repubblica o politfa;
tirannia; oligarchia; democrazia — Autonomia della sfera politica — Ordine morale;
volontà sociale — Stato; Chiesa; società perfetta; subordinazione diretta;
subordinazione indiretta — Mediazione culturale — Città fraterna — Capitalismo;
individualismo; liberalismo; stato di diritto; trust; oligo- poli;
multinazionali; capitalismo classico; capitale; proletariato; sfruttamento —
Neocapitalismo scientifico; management; New Deal; tecnostruttura; af- fluent
society — Socialismo marxista; comunismo; salario; plus-valore; profitto; lotta
di classe — Marxismo; leninismo; stalinismo; maoismo; labourismo — Marxismo
revisionista; postmarxismo; neomarxismo — Cristianesimo caritativo;
cristianesimo sociale; testimonianza; impe- gno; nuovo modello di civiltà;
immaginazione sociale; continenti ideologici SINTESI CONTENUTISTICA I. I
TERMINI DEL PROBLEMA 1. Il carattere essenzialmente politico e socievole della
natura umana, già evidenziato da Aristotele nella sua Politica, ha assunto oggi
una rilevanza quasi predominante. 2. Il problema politico investe l'origine e
il fondamento dello Stato, la sua organizzazione, la sua forma migliore, la sua
funzione, il suo fine specifico, la natura dell'azione politica e i suoi
rapporti con l’azione morale, i rapporti tra Stato e Chiesa, tra Stato e
partiti. 3. Le diverse istanze storiche hanno accentuato di volta in volta uno
dei diversi aspetti: a) durante la crisi della polis (Sofisti, Platone,
Aristotele) e durante le vi- cissitudini dell'età moderna e contemporanea
(Hobbes, Bacone, Locke, Cam- panella, Hume, Rousseau, Hegel, Marx, Engels,
Lenin, Maritain, ecc.) è emersa la questione dell'origine dello Stato; b) nel
Medioevo e per taluni aspetti nell'età contemporanea (ad esempio, nel contesto
dell’unificazione nazionale) si è affrontato il problema dei rapporti
Stato-Chiesa; c) la relazione « politica-morale » ha trovato soprattutto
riscontro nell'età moderna (Machiavelli e Hobbes); d) i rapporti Stato-partito
sono oggetto soprattutto della riflessione con- temporanea. II. NATURA SOCIALE
DELL'UOMO 1. Sin dall'origine della sua storia l'uomo è vissuto in relazione a
un grup- po sociale (inizialmente la famiglia, il clan, la tribù,
successivamente il villag- gio, la città, lo Stato). La dimensione sociale
dell'uomo si perfeziona in rela- zione alla sua crescita culturale. 2. Oggi la
socialità ha assunto una fisionomia planetaria favorita anche dai 175 mezzi di
comunicazione di massa. A motivo di ciò la socievolezza ha assunto dimensioni
tali da poter essere considerata un fenomeno tipico del nostro tempo. 3. ‘Per
l'uomo contemporaneo la redenzione coincide con il diventare una persona capace
di trovare se stessa in interazione con la comunità. 4. Caratteristica del
momento attuale è il fatto che da un lato vengono affermati i diritti
inviolabili della persona e la sua libertà e dall'altro alcuni sistemi
politici, strutture economiche e sociali e il primato tecnologico-scien- tifico
tendono a soffocarli. III. L'ORIGINE DELLO STATO 1. Lo Stato è una realtà
empirica di natura incontrovertibile. Tre sono le interpretazioni che ne
spiegano l’origine: a) Origine naturale: l’uomo, essenzialmente socievole, può
soddisfare i suoi bisogni e realizzare le sue aspirazioni solo in relazione ai
suoi simili. — Secondo Aristotele il traguardo della vita umana è la felicità e
lo Stato ne facilita il conseguimento. — Secondo Hegel, lo Stato è originato
dalla volontà dello Spirito Assoluto, principio metafisico della realtà, che
nello Stato si attua compiutamente. Fami- glia, società civile e Stato sono le
diverse tappe di questa attuazione che, par- tendo dall'unione d'amore di due
persone, arriva alla realizzazione di una isti- tuzione concreta che organizza
la vita etica dei suoi membri. — Secondo Marx, lo Stato nasce dal bisogno degli
uomini di soddisfare i loro bisogni elementari attraverso l’aiuto reciproco. Le
forme che successiva- mente lo Stato assume nella storia sono invece dovute
all'arbitrio umano circa la distribuzione dei tre elementi costitutivi della
struttura fondamentale dello Stato che è la struttura economica: lavoro,
capitale, mezzi di produzione. b) Origine convenzionale: l'originaria
autosufficienza degli individui sa- rebbe stata inficiata dal progressivo
costituirsi di piccoli centri di potere. I con- seguenti conflitti hanno dato
origine allo Stato come garanzia di stabilità e di accordo sulla base della
rinunzia a qualche diritto e con l’assoggettazione a qualche dovere. I Sofisti
avanzarono per primi questa ipotesi, sviluppatasi suc- cessivamente attraverso
altri filosofi. — Secondo Hobbes e Spinoza il contratto sociale ha carattere
irreversi- bile: la delega allo Stato dei propri diritti non può essere
revocata. Per Locke e Rousseau, invece, il contratto è reversibile. c) Origine
preternaturale: lo Stato è conseguenza di una caduta dell'uomo da una
condizione di perfezione originaria, Avviata da Platone, tale concezione è
sviluppata da Agostino e da Vico. — Agostino distingue la civitas Dei, fondata
sull'amore di Dio e sulla ca- rità, dalla civitas terrena fondata sull'amore di
se stessi fino all'egoismo e al rifiuto di Dio. L'essenziale di entrambi i
regni è il debitus finis, l'uno ricerca la gloria di Dio, l’altro la gloria
degli uomini. Secondo Agostino l’espressione più mostruosa della civitas
terrena è stato l'Impero Romano. — Vico, pur attribuendo l'origine dello Stato
al peccato, non ha la conce- zione pessimistica di Agostino. Egli vede però
nello Stato un intervento prov- videnziale di Dio per trarre gli uomini dalle
loro miserie. IV. LE FORME DI GOVERNO 1. Platone e Aristotele, considerando lo
Stato in relazione al consegui- mento del bene comune, distinguono le
costituzioni possibili in giuste ed in- giuste: 176 GIUSTE INGIUSTE — la
monarchia: governo di uno so- — la tirannia: governo di uno solo lo che cura il
bene di tutti che persegue il proprio interesse — l'aristocrazia: governo dei
virtuo- — l'oligarchia: governo dei ricchi si che curano il bene di tutti sen-
che cercano il bene economico za attribuirsi privilegio personale — la
repubblica: governo popolare — la democrazia: governo della che cura il bene di
tutta la città massa popolare che vuole sop- primere ogni differenza sociale
Nei filosofi dell'età moderna le ipotesi hanno avuto una inversione di ten-
denza rispetto a quelli dell'antichità e del Medioevo: mentre questi ultimi
rite- nevano la monarchia assoluta la forma ideale di governo, i primi si sono
fatti assertori della monarchia parlamentare e della repubblica. Oggi la forma
repubblicana è considerata la più adatta alla tutela dei di- ritti e al
perseguimento del bene comune. V. POLITICA E MORALE 1. Machiavelli fu il primo
assertore dell'autonomia della politica sia ri- spetto alla morale che rispetto
alla religione. Egli riteneva infatti che la poli- tica disponesse di principi
normativi suoi propri. Essa è posta come una for- ma particolare dell'attività
spirituale, non riducibile in quanto forza eminen- temente positiva rispetto
alla negatività del male. 2. Dopo Machiavelli i teorici della politica si
dividono tra coloro che sono favorevoli alla sua teoria e coloro che sono
contrari: a) Vico e Campanella tendono a ricondurre la politica alla morale; b)
Hobbes e Spinoza rivendicano la totale autonomia della politica. 3. Dopo una
pausa segnata dall’interesse degli Illuministi solo sulla ricerca delle forme
ideali di governo, il problema viene nuovamente approfondito: — Kant, pur
distinguendo le due sfere, afferma che né la politica può sot- trarsi agli
obblighi morali, né la morale può sottrarsi all'impegno nella vita civile. —
Per Hegel la distinzione è inammissibile, poiché lo Stato è la fonte su- prema
di ogni moralità. — Marx presenta una prospettiva ambivalente: a) polemica
contro l'idea- lismo e il capitalismo: l’etica e la politica sono
sovrastrutture dei fatti econo- mici; b) progettazione della società ideale:
l'etica è uno dei valori fondamentali e la politica è uno strumento necessario
per la sua realizzazione. Non diversamente da Hegel, nella seconda prospettiva,
Marx attribuisce allo Stato il com- pito regolatore della volontà collettiva. —
Nella prospettiva cristiana, Maritain riafferma non solo la stretta cor-
relazione tra morale e politica (la morale orienta i fini della politica e ne
giu- dica i mezzi di realizzazione), ma ribadisce inoltre l'ispirazione
lievitante e liberante del Vangelo, capace di dirigere l’azione dell’uomo e il
suo significato oltre i limiti della natura e della storia. VI. STATO E CHIESA
1. Stato e Chiesa sono entrambi caratterizzati dalla definizione di società
perfetta, il primo finalizzato al bene comune terreno, la seconda finalizzata
alla salvezza eterna e ai mezzi per conseguirla. 2. La legittima distinzione
tra i due ordini non può comunque intendersi come una separazione poiché i
soggetti delle due società sono gli stessi: i cit- tadini di uno Stato sono per
lo più anche i membri di una Chiesa. Inoltre gli obiettivi si integrano: né il
vero benessere della persona può disgiungersi dalla sua salvezza; né la
salvezza è disgiunta dal benessere materiale. 177 3. La questione «
Stato-Chiesa », acuta nel Medioevo a motivo dell’univer- salismo dell'Impero e
della Chiesa di Roma, si ridimensiona nell'età moderna con gli stati unitari e
le pluralità confessionali dopo la Riforma. Le linee risolutive principali
restano comunque le seguenti: a) S. Tommaso: subordinazione indiretta dello
Stato alla Chiesa (il fine della seconda è superiore a quello del primo); b)
Bonifacio VIII: subordinazione diretta dello Stato alla Chiesa: 1) Lo Stato è
al servizio della Chiesa. 2) Il Papa riceve di- rettamente l’autorità da Dio;
l'Imperatore la riceve dal Papa; c) Marsilio da Padova: subordinazione diretta
della Chiesa allo Stato, che provvede al benes- sere totale dei cittadini; il
Papa e la gerarchia ecclesiastica sono funzionari incaricati del benessere
spirituale dei cittadini; d) Età moderna-contempora- nea: progressiva netta
separazione tra le due società. VII. RAPPORTO FEDE-POLITICA 1. È maturata oggi
la consapevolezza che la Chiesa è essenzialmente una comunità spirituale
vincolata dall'amore, senza strutture temporali che la fac- ciano apparire uno
Stato in concorrenza con gli altri stati. 2. La concezione integrale dell'uomo
e la fede in un Dio che si è incarnato ha fatto sì che la teologia
contemporanea abbia sottolineato l’importanza della dimensione politica del
messaggio cristiano, esplicitamente al centro dell’An- tico Testamento (in
particolare nel libro dell'Esodo), ma presente anche nel Nuovo {la condotta e
l'insegnamento di Gesù provocano la violenta reazione dei poteri politici
costituiti). 3. La testimonianza del cristiano non è accettazione passiva né
estatica contemplazione della parola di Dio, ma fattiva attuazione delle
promesse divine per la piena realizzazione del Regno. VIII. LETTURA POLITICA
DEL MESSAGGIO EVANGELICO 1. La legittimità di una lettura politica del
messaggio evangelico non la giustificano come lettura esclusiva. Scopo
fondamentale del messaggio cristia- no è anzitutto la conversione del cuore. 2.
Il cristiano sa che la vita politica deve tendere al bene comune, che la
libertà e l'uguaglianza sono diritti inalienabili della persona. 3. Il
cristiano è consapevole del fatto che nella natura umana è presente un
movimento orizzontale anch'esso determinante per la totale realizzazione
dell’uomo in se stesso. In questa direzione l’ideale verso cui deve tendere
l'opera politica è l'inaugurazione di una città fraterna (Maritain). IX.
CAPITALISMO O SOCIALISMO? 1. Capitalismo e socialismo sono i due sistemi
economici contrapposti che oggi si spartiscono le sorti del mondo. Entrambi
sono caratterizzati al loro interno da alcuni punti essenziali e da alcune
differenziazioni. CAPITALISMO A) Capitalismo classico: sistema economico
conseguente ad una concezione antropocentrica dell’uomo: l’uomo non ha altro
fine all'infuori di se stesso. e Affermazione prioritaria dell'individuo
rispetto alla società (individua- lismo) e sua libertà incondizionata
(liberismo). e Lo Stato (espressione delle libertà individuali) si regge sulla
democrazia rappresentativa e sulla Legge (stato di diritto). e Economicamente
la libertà dell'individuo si estende sulla base delle sue possibilità
economiche. È e La lotta per il successo porta all'organizzazione di trust
(oligopoli, mul- tinazionali, ecc.) che esercitano pressione sui governi e
sull’opinione pubblica. e Accresce se stesso sulla base dello sfruttamento del
proletariato. B) Neocapitalismo: nasce negli Stati Uniti con F.W. Taylor
(1856-1915) a 178 motivo del crollo del rendimento produttivo dei lavoratori e
del loro conflitto con i datori di lavoro. e Si riconosce allo Stato capacità
di intervento condizionatore nell’attività economica e ai lavoratori di
associarsi liberamente per difendere i propri diritti. e Lo scientific
management regola i tempi di lavoro, di istruzione specifica e di cooperazione
tra direzione manageriale e lavoratori. e Dopo la crisi del 1929, il « New Deal
» di F.D. Roosevelt, lo Stato viene maggiormente coinvolto nel processo
economico con un intervento di ridistri- buzione dei redditi attraverso una
forte pressione sugli automatismi economici. e La tecnostruttura degli anni ’30
inserisce scienziati e tecnici nel processo economico per un'ulteriore riduzione
dell’area proletaria. e Nel secondo dopo-guerra nasce la « società dei consumi
», il cui scopo è il miglioramento delle condizioni di vita in base alla
disponibilità sempre mag- giore dei beni di consumo. Ma l’uomo di questa
società iperproduttiva finisce per vivere costretto a consumare sempre di più
ciò che produce. SOCIALISMO A) Socialismo marxista: K. Marx (1818-1883) si
propone di fondare una so- cietà in cui sia abolito lo sfruttamento e garantito
a tutti il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (comunismo). e La proprietà
privata è considerata l'origine di ogni male individuale e sociale. x e La
privatizzazione fa generare il rapporto salariale sul quale l’impren- ditore
lucra il « plus valore » o profitto. e iLa lotta di classe è il mezzo per
risolvere lo stato di sfruttamento e av- viare la società verso il comunismo. e
Con la I° Internazionale dei Lavoratori (Londra 28-9-1864) le varie cor- renti
socialiste si associano seppure con profondi contrasti. e Dalle posizioni di
Bakunin nasce l'orientamento anarchico. e In Italia, a Genova, nel 1892 nasce
il partito dei lavoratori italiani (poi P.S.I.). B) Labourismo e
socialdemocrazia: il primo (Labour Party) sorge in In- ghilterra all’inizio di
questo secolo come naturale frutto politico della Fabian Society, fondata nel
1883 a Londra con lo scopo della elevazione della classe lavoratrice e delle
Trade Unions, i sindacati operai che avevano iniziato la loro attività nei
primi decenni del 1800 come società di mutuo soccorso tra gli operai metallurgici.
Come it socialismo, il labourismo si è data la meta di arrivare a dare alla
classe lavoratrice la proprietà dei mezzi di produzione, senza accogliere però
i principi filosofici di quello. I mezzi di lotta per raggiungere le mete
stabilite è l'educazione delle masse e lo sciopero attraverso il sindacato per
ottenere dallo Stato e dal padronato migliori condizioni di vita, salariali ed
una legislazione sociale a difesa del lavoratore. Sulla linea del labourismo
sorgono in altri paesi dell'Europa occidentale (come Germania, Olanda,
Danimarca, Scandinavia) partiti socialdemocratici i quali ripudiano la via
rivoluzionaria per il riformismo, per attuare nel tempo le proprie mete.
Entrambi questi due socialismi riformisti e democratici non combattono il
capitalismo, trasformatosi nel contempo in neocapitalismo, ma convivono con
esso, accettando la tesi dello sviluppo massimo della produzione come strumento
per migliorare le condizioni dei lavoratori e rendendoli partecipi della vita
sociale e politica del proprio paese. C) Marxismo-leninismo e maoismo: nel 1917
con la Rivoluzione d'ottobre 179 Lenin crea in Russia uno Stato collettivista,
con un potere di vertice esercitato dal partito in modo assoluto. e :La terra
fu collettivizzata; furono negate le libertà individuali e di grup- po. Con
Stalin il regime assume un carattere dittatoriale estremo. e Nel 1956 al XX
Congresso del Partito Comunista il dispotismo staliniano viene denunziato. e
Nel 1949 in Cina Mao-Tze-Tung costituisce la Repubblica Popolare Cinese. Furono
collettivizzate l'agricoltura, l'industria e i commerci. e I capisaldi del
marxismo vengono ripensati per un popolo povero e con- tadino che viene
indottrinato secondo una metodologia nazionalistica e volon- taristica. Il
socialismo maoista ha caratteri militaristi. Dopo la morte di Mao- Tze-Tung il
regime comunista cinese diviene meno rigido. D) Marxismo revisionista o
neo-marxismo: dopo sessant'anni di marxismo sovietico e nonostante la notevole
diffusione del marxismo in Occidente, vi è stato un evidente allontanamento
nell’area degli intellettuali dalle tesi classiche. e Peri nuovi marxismi, ad
esempio, la dialettica non ha leggi, non riguarda la natura, ma il soggetto
singolo in rapporto con la storia. e La religione è considerata un fattore di
liberazione e apertura alla speranza. e Tra i rappresentati del nuovo marxismo:
Gramsci, Horkheimer, Mar- cuse, Bloch. X. LE DOTTRINE SOCIALI DI ISPIRAZIONE
CRISTIANA 1. Le soluzioni cristiane alla questione sociale si distinguono in
due tipi: — forma assistenziale caritativa {cristianesimo caritativo): la prima
forma essenziale al cristianesimo è presente in tutti i secoli cristiani, come
frutto dell'attenzione evangelica agli umili, agli oppressi, ai diseredati; —
forma propositiva di revisione delle strutture economico-sociali (cristia-
nesimo sociale): si è preoccupata di individuare accanto all'azione caritativa,
il problema della giustizia a partire dalla seconda metà dell’800. e Il
magistero della Chiesa ha elaborato a partire dalla fine del XIX se- colo una
coraggiosa dottrina sociale che legittima la proprietà privata nel ri- spetto
del bene comune, rivendica i pieni diritti del lavoratore e indica i com- piti
dello Stato per un giusto equilibrio sociale ed economico. XI. IL CRISTIANO E
L'IMPEGNO SOCIO-POLITICO 1. La testimonianza cristiana nel mondo socio-politico
si traduce in un im- pegno capace di promuovere un nuovo modello di civiltà e
di favorirne la realizzazione. 2. Il cristiano sente tutta la responsabilità di
essere la coscienza critica dei « due continenti ideologici » del capitalismo e
del socialismo e di dover offrire all'uomo del nostro tempo il terreno di una
mediazione culturale sul quale egli possa recuperare la propria integrazione
personale e sociale. XII. I PROBLEMI DI UNA NUOVA CONCEZIONE DELLA SOCIETÀ 1.
Tra i fenomeni emergenti del nostro tempo appaiono l’'urbanesimo e la civiltà
dell'immagine e della comunicazione presenti sia nell’area comunista che
nell’area capitalista. 2. Questi fenomeni hanno generato la realtà dei « nuovi
poveri »: delin- quenti, drogati, disadattati, devianti, emarginati in genere.
3. Si sono acutizzate le discriminazioni razziali, culturali e religiose. Si
ri- fiutano i deboli, i vecchi, gli handicappati perché improduttivi, 4. Il
nostro tempo mostra l'urgenza del recupero di una mentalità che ri- trovi
l'amore per l’uomo inventando nuove forme di democrazia libera e sociale. 180
5. « La « crisi epocale » della società attuale è soprattutto crisi
tecnologica, morale e dei valori, 6. In questa situazione di « crisi epocale »
emerge la necessità di un nuovo progetto culturale, ispirato dal Vangelo, che
abbia come centro del suo inte- resse l’uomo concreto, storico. QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE i. Che cosa si intende per politica? 2. A che cosa deve
la sua origine lo Stato? 3. Quali sono le opinioni dei filosofi antichi e
moderni riguardo allo Stato? 4. Qual è la costituzione politica ideale secondo
Platone, Aristotele, Tom- maso, Hobbes, Campanella, Locke, Hegel, Marx? 5. Che
rapporto c'è tra politica e morale? Qual è lo scopo dello Stato? 6. Come sono
stati intesi i rapporti tra Stato e Chiesa da Agostino, Tom- maso, Bonifacio
VIII, Marsilio da Padova, Machiavelli, Mazzini, Croce? 7. Politica e morale si
distinguono tra di loro? Come? 8. Che rapporto intercorre tra fede e politica?
C'è una funzione politica nel messaggio evangelico? 9. Cosa si intende per
stato democratico, liberale e totalitario? 10. Quali sono le caratteristiche
del capitalismo e del socialismo? Che cosa è il neocapitalismo? E il labourismo
e la socialdemocrazia?* 11. Quali sono le caratteristiche del
marxismo-leninismo-stalinismo rispetto al maoismo? Che significano i termini «
nuovi marxismi » e « postmarxismo »? 12. Il neocapitalismo e il marxismo
riescono a superare i mali della so- cietà odierna? Perché si dice società dei
consumi? 13. Che cos'è il cristianesimo sociale? Il cristiano come deve operare
in campo sociale e politico? 14. Quali possono essere considerate le cause
determinanti che hanno pro- gressivamente subordinato il potere politico al
potere economico? 15. È legittimo oggi parlare non solo di continenti
ideologici ma addirit- tura di dittature planetarie? 16. In quale misura è
possibile stabilire un rapporto tra il deterioramento attuale dell'orizzonte
metafisico, antropoiogico ed etico e il disorientamento politico contemporaneo?
47. In quale prospettiva e perché una sana mediazione culturale può fare
dell'esperienza religiosa la coscienza critica dei sistemi politici ed
economici degenerati? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Fede e politica oggi,
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dodicesimo iL PROBLEMA ESTETICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. L'uomo avverte
l'esigenza della bellezza? Che cosa è la bellezza? 2. Che cosa caratterizza
l’opera d'arte? 3. Che rapporto intercorre tra soggetto, natura e opera d'arte?
4. Qual è lo scopo dell'opera d’arte? Il problema estetico riguarda la natura
dell'opera d'arte, il suo fine e i rapporti che intercorrono tra l’attività
estetica e le altre attività umane. Questi tre aspetti capitali del problema
estetico, già esplorati tante volte nel passato, continuano ad essere oggetto
di discussione anche ai nostri giorni. Nel presente capitolo noi cerche- remo
di determinare il senso di questi aspetti del problema estetico e presenteremo
inoltre un quadro sintetico delle soluzioni più si- gnificative elaborate dai
filosofi antichi e moderni. 1. Natura dell’opera d’arte Che cos'è l'opera
d'arte in se stessa? Quali sono le ragioni per cui qualche cosa viene
considerata artistica mentre altre cose no? Per esempio, perché lo scarabocchio
d'un bambino non viene rite- nuto artistico, e invece se porta la firma di
Picasso sì? Oppure, per- ché si giudica artistica una cattedrale gotica, ma non
un palazzo in cemento armato? Ancora, quando un artista produce un'opera
d’arte, che cosa fa di preciso: crea oppure imita, inventa oppure copia, e-
sprime se stesso, i propri sentimenti, le proprie passioni, oppure dà corpo a
valori universali intuitivamente percepibili da ogni uomo? Questi sono appena
alcuni degli interrogativi che si affacciano alla mente quando ci si trova di
fronte ad un'opera d'arte. Per prenderne coscienza non occorre nessuna
preparazione speciale e nessun grado elevato di cultura. Ma la risposta non è
affatto ovvia e molto spesso neppure le menti più acute e preparate sono
riuscite a trovarne una soddisfacente. Il problema estetico è tra i primi che
si presentano alla riflessione dei greci, per la necessità di intendere
anzitutto come ad un mondo di poesia possa affiancarsi o anteporsi un mondo di
idee, e come l'essere possa persistere nella sua assorbente sovranità, pur
lascian- 183 La natura dell’opera d’arte, il suo fine, il suo rapporto con le
altre attività umane I caratteri essenziali dell’opera d’arte Platone: l’arte
imitazione della Bellezza La poesia come procreazione spirituale Aristotele: la
bellezza è ‘‘un bene che piace” Filosofia cristiana e concezione mimetica: Dio,
che è bellezza, è oggetto di imitazione do sussistere accanto e di fronte a sé
la scialba e inconsistente realtà del mito e della poesia. Questo problema ha
appassionato soprattutto Platone, il quale ha cercato di risolverlo nel
contesto della sua teoria delle Idee, fa- cendo dell'estetica una specie di
controprova di tale teoria. L'arte viene intesa da Platone come imitazione
-della natura e questa, a sua volta, è concepita come imitazione delle Idee.
L'oggetto della imi- tazione è la Bellezza. Nel Filebo Platone descrive la
Bellezza come un preludio sensibile del Bene inaccessibile, quasi si trattasse
del « portico » della casa del Bene. Nel Fedro egli parla del Bello come di
un'idea corporea, l’unica tra le idee che ebbe in sorte il privilegio di
rendersi visibile ai mortali, per poter essere da loro ardentemente amata. Nel
Convito Platone oltrepassa la concezione mimetica del- l'arte e formula una
teoria dell’arte intesa come creazione, una pro- duzione dall'interno, un «
parto » (tokos). Eros, il simbolo divino del Convito, è fecondato dall’anelito
verso la Bellezza oggettiva e asso- luta, quando si rende capace di generare e
procreare nel Bello. Quand'uno già brama di generare e procreare, allora
soltanto si lan- cia alla ricerca del Bello e, trovatolo, genera e procrea ciò
di cui da lungo tempo era pregno. Poesia è questa procreazione spirituale, per
cui nessun particolare requisito si chiede ai « buoni poeti », eccetto che
siano generatori e inventori. Alla concezione mimetica dell’arte si attiene
anche Aristotele, no- nostante il suo rifiuto della teoria platonica delle
Idee: per lui l’arte è essenzialmente imitazione della natura. L'imitazione,
però non è in- tesa come semplice riproduzione, ma piuttosto come emulazione
della natura, considerata maestra. Dal punto di vista soggettivo, Ari- stotele
definisce la bellezza come « un bene che piace » e la distin- gue, pertanto,
sia dal bene che dal piacere. Infatti, mentre il bene è oggetto della volontà e
il piacere delle passioni, il bello interessa le facoltà conoscitive: è un
piacere suscitato nelle facoltà conoscitive. Gli elementi fondamentali che
contribuiscono a rendere bella ossia artistica una cosa sono tre: l'ordine, la
simmetria e la determina- tezza. La concezione mimetica dell’arte viene ripresa
anche dai filosofi cristiani i quali peraltro la modificano su di un punto
fondamen- tale: oggetto dell'imitazione non è più la natura oppure le Idee, ma
Dio stesso. L'arte umana dovrà risultare imitazione dell'atto con cui Dio crea
la natura. Si tratta di una modificazione profonda che non riguarda soltanto la
maggior eievatezza della realtà imitata, ma anche la natura stessa
dell'imitazione, perché questa diviene imi- tazione dell'attività creatrice di
Dio, un'attività che i greci non ave- vano mai conosciuto. Ne consegue che «
unità, armonia, proporzione, integrità, congruenza, convenienza della forma
bella, tutti i concetti estetici insomma, che i cristiani avevano ereditato
dalla classicità, acquistano un nuovo timbro nella loro riesecuzione: tutte
queste sono note della bellezza, per loro in quanto appartengono all'atto -184
espressivo e manifestativo dello Spirito Assoluto che contiene il mon- do nella
sua potenza creatrice e perciò lo rende bello. Nessuna cosa sarebbe bella, se
non venisse da Dio: è il motivo che ricorre dalle Confessioni di S. Agostino
all'Itinerarium di S. Bonaventura. Il Dio cristiano è il « genio della nuova
estetica ».! Dal punto di vista soggettivo, i pensatori cristiani, seguendo
Aristotele definiscono la bellezza come una relazione: « pulchrum est quod
visum placet » (bello è ciò che piace alla vista). Come la bontà così pure la
bellezza è una relazione di convenienza, di ar- monia, ma non più tra le cose e
la facoltà appetitiva (come nella bontà), bensì tra cose e facoltà conoscitive.
Tuttavia la bellezza si distingue anche dalla verità, in quanto pur essendo
come quest’ulti- ma una relazione tra cose e facoltà conoscitive, diversamente
da essa non è una relazione di corrispondenza, ma di eccitazione e di sod- disfazione.
Dal punto di vista oggettivo anche gli autori cristiani, come Aristotele,
fondano la bellezza sull’integrità, l'ordine e lo splendore (integritas,
proportio, claritas). % Durante il Rinascimento, che è anche l’epoca d'oro
delle arti figurative, non potevano mancare indagini intorno alla natura del-
l'opera d’arte. Tali indagini in alcuni casi sono svolte dagli autori stessi di
alcuni dei più celebri capolavori di pittura, scultura, archi- tettura di tutti
i tempi; Leon Battista Alberti, Leonardo da Vinci, Giorgio Vasari, ecc. Le loro
considerazioni si rifanno oltre che ad Aristotele anche, anzi soprattutto, a
Platone. Di lui si apprezzano in particolare ie dottrine sull'amore (eros),
sulla generazione creativa (tokos) e sull’entusiasmo lirico (mania). Una svolta
decisiva alla storia dell'estetica fa registrare Giam- battista Vico. Da lui
l'arte non viene più concepita secondo la ma- niera mimetica, ma come un modo
fondamentale ed originario di e- sprimersi da parte dell'uomo in una
determinata fase del suo svilup- po. Secondo il Vico, com'è noto, tale sviluppo
comporta tre fasi o età: del senso, della fantasia e della ragione. L'arte è il
modo carat- teristico di esprimersi dell'età della fantasia: in quell'età
l’uomo diede espressione al suo modo di intendere la realtà nelle creazioni
della fantasia, nei poemi, nei miti, ecc. « La sapienza della gen- tilità
dovette cominciare da una metafisica non ragionata e astratta qual è questa
degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovette essere da tali primi
uomini ». La mente degli uomini antichi, incapace di usare la ragione logica e
ribelle alla fatica dell’astrazio- ne e del ragionamento, è naturalmente
portata a sostituire o antici- pare il processo astrattivo mediante la
fantasia. E in tal modo an- ziché universali logici si foggia universali
fantastici, fantasmi o im- ! L. STEFANINI, Estetica, Studium, Roma 1953, p. 19.
185 La bellezza: relazione di convenienza e di armonia tra cose e facoltà
conoscitive Umanesimo- Rinascimento: amore, generazione creativa e entusiamo
lirico Vico: l’arte come una delle espressioni fondamentali della natura umana
L'accoglienza di Vico da parte dei filosofi idealisti Kant: l’opera d’arte
nasce dai sentimento che esprime l’universale nel particolare Idealisti e
neohegeliani: l’arte rappresentazione sensibile deli’Assoluto L'arte come
meccanica psicologica e come sovrastruttura magini che tengono il posto di veri
universali, ossia delle idee o con- cetti elaborati dalla ragione.” La
concezione vichiana dell'estetica, corabattuta aspramente ai suo primo
apparire, in quanto urtava contro il pregiudizio cartesiano allora imperante,
secondo cui soltanto la ragione può attingere la verità delle cose, fu più
tardi calorosamente accolta e ampiamen- te seguita dai romantici e dagli
idealisti (Schelling e Hegel) i quali reagendo contro gli eccessi del
razionalismo e dell'illuminismo, a- scrivevano grande importanza alle facoltà
della fantasia e del sen- timento in ordine alla conoscenza della verità. Una
singolare teoria della natura dell'opera d’arte, teoria in parte dettata da
esigenze di sistema, viene elaborata da Kant nel- l'opera Critica del giudizio.
In essa l'autore cerca di mostrare che l’opera d’arte non è né un'imitazione
della natura e neppure un'inter- pretazione metafisica della realtà e che
pertanto non è prodotta né dalla fantasia né dall’intelletto. Essa è invece
essenzialmente frutto deì sentimento il quale nell'opera d’arte percepisce ed
esprime l'’uni- versale nel particolare, l'intelligibile nel sensibile, ii noumeno
nel fenomeno. E così fa sorgere il piacere estetico che appaga tutto l’uo- mo
in quanto produce una profonda armonia tra le opposte facoltà dei sensi e
dell'intelletto. Il problema estetico occupa un posto di singolare rilievo
nelle speculazioni degli idealisti e dei neohegeliani (Croce, Gentile). Ii lorc
obiettivo è fondere ì motivi più originali delle teorie di Vico e Kant. Dal
primo riprendono la tesi secondo cui l’arte rappresenta un momento preciso e di
capitale importanza nella storia dell'uma- nità; dal secondo mutuano la tesi
secondo cui l’arte è una rappre- sentazione dell’Assoluto in forma sensibile.
Il significato spirituale dell'opera d'arte è stato però ripetuta- mente messo
in questione durante l’ultimo secolo da autori che si ispirano più o meno
direttamente al positivismo. Alcuni come il Taine riconducono l’arte ad un
teorema di meccanica psicologica, legata ai tre fattori concorrenti della
razza, dell'ambiente e del mo- mento; altri, come Marx, vedono nell'arte una
sovrastruttura de- terminata dai rapporti tra i mezzi di produzione all'interno
di una particolare società; altri, come Freud, considerano l’arte una su-
blimazione dell'istinto sessuale; altri infine, come Dvorak, conside- rano
l’arte come criterio ermeneutico della storia della culiura e così identificano
la storia dell’arte con la storia della cultura. Contro queste interpretazioni
positivistiche dell’opera d’arte han- no preso posizione i filosofi della
Gestaltschule (scuola della figura). Secondo questi autori la conoscenza delle
condizioni storico-psico- logiche non giova affatto alla comprensione di una
opera d’arte. La sola cosa che importa è la figura sensibile, cioè importano i
valori ? B. MONDIN', vol. II, pp. 238-240. 3 Ivi, pp. 321-322. 186 tattili o
quelli della pura visibilità oppure gli elementi contrappun- tistici e tonali
dell'esecuzione musicale, presi globalmente, come un tutto, e non
frammentariamente. Attualmente molti filosofi che si ispirano al neopositivismo
e agli analisti del linguaggio, non affrontano più il problema della natura
dell'opera d'arte in se stessa, ma in modo assai indiretto, cercando di
stabilire quale sia il senso del linguaggio estetico e se esistano dei criteri
validi per accertarne la presenza (come per determinare il significato oggettivo
delle proposizioni scientifiche esistono i criteri della verifica sperimentale
oppure della falsificabilità). La lezione che possiamo raccogliere alla fine di
queste brevi note intorno alla storia del problema della natura dell'opera
d’arte mi pare che possa essere la seguente. L'opera d'arte non è una semplice
imitazione di idee archetipe o di fatti naturali. Per caratterizzarsi come
esteticamente bella un'opera dev'essere qualcosa di più e di diverso da ciò che
esiste già nel mondo della natura oppure della cultura. Per avere opera d'arte
ci vuole originalità, creatività. L'ope- ra d'arte è in un certo senso (certo
non proprio in senso letterale) una creazione, più esattamente una
trasformazione radicale degli ele- menti che l’artista ha a sua disposizione:
gli elementi fornitigli dalla. tecnica, dalla osservazione, dalla ispirazione.
Ciò che ne risulta si qualifica come bello se presenta tratti d'assoluta
novità. Il lavoro dell'artista può essere paragonato a quello dell’ape: egli
non crea ma, assimilando elementi già preesistenti, produce una realtà asso-
lutamente nuova.‘ 2. Il fine dell’opera d’arte Oggetto dell'attività estetica è
il bello (così come oggetto di quella scientifica è la verità, di quella etica
il buono, di quella reli- giosa il sacro). L'artista facendo un’opera d’arte si
propone anzitutto di dare espressione sensibile alla bellezza. Ma oltre a
questo fine specifico i filosofi generalmente assegnano all'opera d’arte anche
altre finalità più o meno importanti. Così, per Platone, Agostino e Tommaso
essa ha una finalità eminentemente pedagogica; perciò raccomandano solo le
opere d'arte che giovano all'educazione e condannano quelle che favoriscono la
corruzione. Platone nella Repubblica condanna la commedia e la tragedia so-
prattutto per due motivi. Primo, perché i comici e i tragici rappre- sentano
gli dèi e gli eroi attribuendo loro bassezze e passioni pro- prie della natura
umana e in questo modo snaturano il senso reli- gioso. Secondo, perché,
componendo le loro opere, non si fondano sulla ragione ma sul sentimento e
sulla fantasia; e invece d'essere d'aiuto alla ragione agitano le passioni,
provocando il piacere e il * Cfr. F. MEI, La filosofia del concreto, Marzorati,
Milano 1961, pp. 101-104. 187 L'opera d’arte è creazione Il fine: esprimere
sensibilmente la bellezza Da Platone a Tommaso: scopo pedagogico dell’opera
d’arte Platone: la musica come educazione all’armonia interiore Scopo teoretico
dell’opera d’arte: conoscenza delle verità ultime Idealisti tedeschi e
neohegeliani: scopo metafisico dell’arte Pedagogico, catartico e metafisico:
scopi secondari dolore. Secondo Platone, una sola arte merita d'essere
coltivata as- siduamente: la musica. Essa educa al bello e forma l'anima
all’ar- monia interiore. Per Aristotele, Plotino e Schopenhauer l’arte ha uno
scopo es- senzialmente catartico: va coltivata in quanto aiuta l’anima a libe-
rarsi dalle passioni, a purificarsi, a elevarsi verso la contemplazione.‘ Per
Vico, Schelling, Hegel, Croce, Gentile l’arte ha una finalità eminentemente
teoretica: ha di mira la conoscenza delle verità ul- time, della natura
profonda delle cose, del mondo intelligibile, del- l'Assoluto. Vico respinge
espressamente le opinioni di Platone e di Aristotele. A suo parere, l’arte non
ha primariamente né funzione pedagogica né catartica: essa non è al servizio né
dell'estetica né della pedagogia. L'opera d'arte ha anzitutto e soprattutto una
fun- zione teoretica e metafisica in quanto costituisce una comprensione ed
espressione profonda delle cose da parte di un essere intelligen- te, nel quale
la ragione non ha ancora raggiunto la piena matura- zione e che, quindi, riesce
ad esprimersi meglio per mezzo della fan- tasia e del sentimento. Questo
intento metafisico dell’arte, com'è noto, è stato ribadito dagli idealisti
tedeschi del secolo scorso e dai neohegeliani italiani (Croce e Gentile) del
nostro secolo. Per tutti questi autori l’arte è una delle attività supreme
dello Spirito Asso- luto. Il suo scopo specifico è esprimere l'Assoluto in
forma sensi- bile. Pertanto un’opera è artistica soltanto e nella misura in cui
è una manifestazione concreta dell’Assoluto. Oggi queste finalità secondarie
dell’opera d'arte (pedagogica, catartica e metafisica) non riscuotono troppi
consensi tra i filosofi. Generalmente si afferma, e a nostro parere
giustamente, che l'arte ha una sua funzione autonoma, che è fine a se stessa,
come la scienza, la religione, la morale, la politica, l'economia. Per quanto
concerne l'autonomia si paragonano le opere d'arte alle opere della natura. Allo
stesso modo come quest'ultime hanno una consistenza propria e una propria
autonomia, altrettanto si deve pensare delle prime: an- che le opere d’arte
devono essere considerate come aventi una fina- lità loro propria. La natura
produce delle realtà (animali, laghi, fo- reste) che non vanno riferite a
qualche cosa d'altro per essere com- prese, ma sono studiate direttamente in se
stesse. Altrettanto si deve far anche per le opere d’arte. Producendo l’opera
d'arte, l'artista in- tende creare qualcosa: vuole metterci davanti ad una
realtà nuova, La sua creazione, questa nuova realtà, va guardata in faccia
diret- tamente, per conto proprio, senza la pretesa o la preoccupazione di
trovarvi dei significati reconditi, delle seconde intenzioni. Tutto quello che l'artista
ha voluto dire è quanto egli è riuscito di fatto : Cfr. B. MONDIN, vol. I, pp.
96-97. > Ivi, p. 142 (Aristotele); pp. 185-186 (Plotino); vol. III, pp.
208-209 (Schopen- hauer). * B. MONDIN, vol. III, pp. 79-80. 188 a manifestare.
E quello ch'egli è riuscito a manifestare sta lì davanti a noi. C'è però una
precisazione da fare riguardo all'autonomia del- l'arte. Quando si dice che
l’arte è essenzialmente autonoma non si vuole escludere che essa venga
adoperata anche per altri scopi, teo- retici o pratici. Si vuole solo affermare
che se lo scopo teoretico e pratico per cui l’opera d'arte viene compiuta è
innalzato a fine pri- mario, in tal caso si priva l'opera d'arte della sua
autonomia e quindi della sua vita. Quindi se un’opera d'arte ha intenti pedagogi-
ci, religiosi, politici, ecc. essa può ancora riuscire come opera d'arte alla
sola condizione che tali intenti non siano quelli primari ma se- condari. In
conclusione, il principio dell'autonomia delle singole attività e discipline,
che è stata la grande conquista dell’epoca moderna, vale certamente anche per
l’attività estetica. Quindi nell'esplicarla e nel valutarla non si deve tener
conto d'altri criteri al di fuori di quelli che sono intrinseci alla natura
stessa dell’opera d'arte. . 3. Arte e morale Alla questione dei rapporti tra
arte e morale s'è già fatto cenno alla fine del precedente paragrafo. Questo
problema è stato diversa- mente risolto dai filosofi a seconda della finalità
ch’essi hanno rite- nuto giusto assegnare all'attività estetica. Sia gli autori
che come Platone e Aristotele attribuiscono all'arte una finalità essenzialmen-
te pedagogica e catartica, come pure gli autori che col Vico le ascri- vono una
finalità metafisica sottomettono in modo più o meno di- retto, più o meno
esplicito, l’arte alla morale, e, di conseguenza, condannano dal punto di vista
estetico quelle opere che giudicano moralmente riprovevoli. Il riconoscimento
dell'autonomia dell’arte dalla morale è una conquista piuttosto recente e va
ascritta a merito degli idealisti, in particolare di Benedetto Croce. ‘Secondo
Croce l’arte è assolutamente autonoma: non è soggetta né alla filosofia, né
alla morale, né alla pratica. L'arte come arte è amorale, cioè al di qua del
bene e del male. « L'arte per avere carattere d'arte, per essere vera arte,
deve essere vera espressione. Espressione di che? Che volete che esprima
l'artista se non le sue im- pressioni? i sentimenti che prova? ».* Per fare
vera arte bisogna espri- mere ciò che si ha in sé: chi lo esprime bene, è
artista. Ma l’uomo e l'artista sono due realtà distinte. Per essere artista
basta esprimere bene i propri sentimenti mentre l’uomo deve essere anche
morale, saggio, pratico. Quindi, pur non essendo soggetto alla morale come
artista, l'artista è soggetto alla morale come uomo: « Se l'arte è al © B.
CROCE, Breviario di estetica, Laterza, Bari 1933, p. 49. 189 Non è il fine
secondario a determinare il valore dell’opera d’arte Autonomia dell’arte dalla
morale: conquista recente Croce: amoralità dell’arte Arte e morale: subordinazione
indiretta di là della morale, non è di qua né di là, ma sotto l'impero di lei è
l'artista in quanto uomo, che ai doveri dell’uomo non può sottrarsi, e l'arte
stessa — l’arte che non è e non sarà mai la morale — deve considerare come una
missione, esercitare come un sacerdozio ».? Di capitale importanza è la
precisazione contenuta nell'ultima citazione: « L'arte è al di là della
morale... ma sotto l'impero di lei è l'artista in quanto uomo ». L'uomo
infatti, nonostante la molte- plicità delle sue attività e delle sue facoltà,
costituisce un'essenziale unità. Ora l’unità è possibile soltanto se le varie
attività sono ordi- nate ad un unico fine ultimo. Ma, dato che il fine ultimo
dell'uomo è la piena realizzazione di se stesso, qui sta il suo bene supremo,
la sua felicità, e poiché spetta alla morale riconoscere tale fine e stu- diare
i mezzi per conseguirlo, ne deriva una certa subordinazione dell'arte alla
morale. Quindi tra arte e morale c'è un rapporto simile a quello che abbiamo
registrato tra morale e politica: è un rapporto di subordinazione indiretta.
Anche l'arte come la politica deve con- tribuire al raggiungimento del fine
ultimo dell'uomo. Questo però è l'obiettivo primario e principale della morale.
CONCETTI DA RITENERE — Unità; armonia; proporzione; integrità; congruenza;
convenienza — Ordine; splendore — Eros, tokos; manìa — Rappresentazione
dell’Assoluto; meccanica psicologica; sublimazione della pulsione istintuale;
sovrastrutture — Figura sensibile; valori tattili; visibilità; elementi
contrappuntistici e tonali SINTESI CONTENUTISTICA I. LA NATURA DELL'OPERA
D'ARTE 1. Il problema estetico riguarda la natura dell’opera d’arte, il suo
fine, i rapporti intercorrenti tra l’attività estetica e le altre attività
umane. 2. Il problema estetico è tra i primi a presentarsi alla riflessione dei
Greci: rapporto tra il mondo della poesia e il mondo delle idee
(complementarietà o opposizione); rapporto tra la sovranità dell'essere, il
mito e la poesia. 3. Platone (Filebo, Fedro, Convito) intende l’arte come
imitazione della natura, che a sua volta è imitazione del mondo delle Idee. La
Bellezza è il pre- ludio sensibile al Bene inaccessibile. In una fase ulteriore
egli intende l’arte come creazione, « parto » (tokos): Eros, il simbolo divino
del Convito, è fecon- dato dall’anelito verso la Bellezza oggettiva e assoluta,
quando diviene capace di generare il Bello. La poesia è questa procreazione
spirituale; ai poeti non si chiede altro che siano procreatori e inventori. 4.
Aristotele ritiene che l'arte, imitazione della natura, sia emulazione. La
bellezza è un « bene che piace », distinto sia dal bene morale che dal piacere.
Tre elementi caratterizzano il bello artistico: l'ordine, la simmetria, la
deter- minatezza. 9 Ivi, p. 33. 190 5. Per i filosofi cristiani l’arte è
imitazione dell'atto con cui Dio crea la natura. Unità, armonia, proporzione,
integrità, congruenza, convenienza della forma belia sono concetti ereditati
dalla concezione classica che i cristiani ri- conducono all'atto di Dio che rende
bello ciò che crea {S. Agostino, S. Bona- ventura). 6. Nel Rinascimento
predomina la concezione platonica sull'amore {eros), sulla generazione (tokos)
e sull’entusiasmo lirico. 7. Nell’età moderna fondamentale è l’estetica di G.B.
Vico, secondo il quale l'arte è un mondo primario ed originario
dell’espressività dell'uomo in quella fase del suo sviluppo che è dominata
dalla fantasia. 8. Kant nell'opera Critica del giudizio afferma che l’opera
d'arte è essen- zialmente frutto del sentimento, il quale in essa percepisce ed
esprime l’uni- versale nel particolare, il noumeno nel fenomeno. Il piacere
estetico è, per- tanto, l’appagamento che l’uomo riceve dall’armonia tra le
opposte facoltà dei sensi e dell'intelletto. 9. L'idealismo e il neoidealismo,
riecheggiando sia Vico che Kant, danno grande importanza al ruolo dell’arte
nella storia dell'umanità e la considerano la rappresentazione sensibile
dell’Assoluto. 10. Nella seconda metà del secolo XIX si sono succedute le
seguenti inter- pretazioni dell’arte: a) Taine riconduce l’arte ad una
meccanica psicologica regolata dai tre fattori della razza, dell'ambiente e del
momento; b) Marx considera l’arte come una delie sovrastrutture dei meccanismi
di produzione; c) Freud la considera prodotto del meccanismo di sublimazione
della pul- sione sessuale; d) Dvorak afferma che l’arte è un criterio
ermeneutico della storia della cultura e identifica la storia dell’arte con la
storia della cultura; e) i filosofi della Gestalischule (scuola della forma)
ritengono che a deter- mirare l’opera d'arte è la figura sensibile, i valori
tattili, quelli visibili, gli elementi contrappuntistici e tonali, assunti
nella loro globalità; f) oggi l'interesse è soprattutto rivolto alla ricerca
del senso del linguaggio estetico e alla ricerca dei criteri validi per
accertarne la presenza. II. IL FINE DELL'OPERA D'ARTE 1. Oggetto dell'attività
artistica è il bello e fine dell'arte è quello di dare espressione sensibile
alla bellezza. 2. Oltre al fine specifico, i filosofi hanno assegnato all’arte
altre finalità: — Platone, Agostino e Tommaso le hanno attribuito scopi
pedagogici; — Aristotele, Plotino, Schopenhauer le hanno assegnato uno scopo
ca- tartico; — Vico, Schelling, Hegel, Croce, Gentile hanno attribuito all'arte
una fina- lità teoretica e metafisica. Un'opera è artistica solo e nella misura
in cui è manifestazione concreta dell’Assoluto. 3. L'estetica contemporanea
tende ad affermare che l’arte ha una sua fun- zione autonoma, che essa è fine a
se stessa. In tal senso l’opera d’arte è parago- nabile all'opera della natura.
III. ARTE E MORALE 1. I filosofi che attribuiscono all'arte fine pedagogico o
catartico o metafi- sico in modo più o meno diretto sottomettono l’arte anche
alla morale. 2. Croce, invece, ha decisamente affermato l'autonomia dell’arte
dalla mo- rale. L'arte in quanto tale è amorale, al di là del bene e del male.
Ma anche se l'artista non è soggetto alla morale in quanto tale, lo è in quanto
uomo. A motivo, quindi, della unità essenziale dell'uomo, anche per il rapporto
tra arte e morale si può parlare di subordinazione indiretta della prima alla
seconda. 191 QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Quali sono i principali
aspetti del problema estetico? 2. Quali sono gli elementi costitutivi
dell’opera d’arte? In che cosa consiste l’opera d’arte? 3. Qual è l'organo
specifico che coglie la bellezza delle cose oppure di un’opera d'arte? 4. Come
definiscono l’arte Platone, Aristotele, Kant, Vico, Schelling, Hegel, Croce,
Freud, Marx? 5. In che cosa consiste il piacere estetico? 6. Qual è il fine
dell’opera d’arte secondo Platone, Aristotele, Plotino, Vico, Kant, Hegel? 7.
Quale ruolo ricopre l’arte nella cultura contemporanea? 8. La società a
tecnologia avanzata conserva il senso della bellezza? 9. In quale misura e in
quali contesti specifici della storia dell'umanità l’arte è stata asservita
all'ideologia? 10. In che rapporti si trovano arte e morale? 11. È legittima la
possibilità di rapporto tra messaggio artistico e messag- gio politico?
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dei movimenti estetici nella cultura italiana, Sansoni, Firenze 1968. STEFANINI
L., Trattato di estetica, Morcelliana, Brescia 1960. 192Capitolo tredicesimo IL
PROBLEMA STORICO QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Che rapporto intercorre tra la
propria realizzazione e il trascorrere del tempo? 2. Che definizione si può
dare del tempo? 3. Consapevolezza, ricordo e attesa: che rapporto c'è tra
queste parole e il tempo? Il problema storico riguarda il senso della storia:
la storia, nella sua movimentata sequenza di avvenimenti, ha un senso? Quale?
Dove si situa il fulcro della storia: nel passato, nel presente oppure nel
futuro? E se la storia ha un senso ed un punto di riferimento decisivo, è
possibile effettuare una ricostruzione scientifica delle vicende umane? Il
carattere problematico della storia è stato riconosciuto dai filosofi di tutti
i tempi. Ma mai come nel nostro secolo, durante il quale il succedersi degli
eventi ha assunto un ritmo incredibile sco» nosciuto alle epoche precedenti, la
problematicità della storia si è imposta all'attenzione degli studiosi. 1. Il
concetto di storia 'La storia si definisce diversamente a seconda che per essa
si intendano gli avvenimenti in se stessi (senso oggettivo) oppure la nostra
conoscenza dei medesimi (senso soggettivo). La storia in senso oggettivo è la
marcia dell’uomo attraverso il tempo. Invece la storia in senso soggettivo ‘è
lo studio degli avveni- menti umani che accadono nel tempo, nelle loro cause e
nei loro ef- fetti, ed inoltre nel loro significato ultimo.! La storia di cui
ci occu- piamo in queste pagine direttamente è la storia come scienza (sen- so
soggettivo) ed indirettamente anche la storia come vicenda (senso oggettivo). !
Si suole distinguere tra storia empirica e storia filosofica. La prima si
occupa solamente delle vicende umane nelle loro cause e nei loro effetti.
Invece la seconda si propone di scoprire il loro significato ultimo. 193 La
storia ha un senso? Senso oggettivo e senso soggettivo della storia Scetticismo
storico: — apparenza degli avvenimenti — casualità degli eventi — discordanza
degli avvenimenti Realismo storico: è possibile una scienza degli eventi storici
2. Possibilità della scienza storica Una scienza storica è possibile? A questo
interrogativo si posso- no dare e di fatto sono state date due risposte
antitetiche. Si può rispondere negativamente e allora si ha lo scetticismo
storico. Op- pure si può rispondere affermativamente e allora si professa il
rea- lismo storico. 2.1 Scetticismo storico La negazione della scientificità
della storia poggia sui seguenti argomenti: a) Gli avvenimenti sono solo
apparenti. Il mondo della esperien- za quotidiana è un mondo illusorio,
apparente, senza alcuna consi- stenza e perciò senza senso. La filosofia
indiana, Eraclito, Schopenhauer e altri filosofi si sono appellati a questo
argomento per negare la possibilità della scienza storica. b) Gli eventi non
accadono secondo un piano ordinato. Gli eventi sono reali e non illusori. (Anzi
per molti pensatori che si appellano a questo argomento i fatti sono l’unica
realtà). Però essi non hanno un significato, perché non hanno una direzione. Un
evento suc- cede all’altro senza che nulla vada mai avanti. La storia è un ca-
vallo che mentre va per la strada improvvisamente si imbizzarrisce e allora si
lancia per i campi o ritorna indietro o si butta nel pre- cipizio. c)
Discordanza nella interpretazione dei fatti storici. L'interpre- tazione dei
fatti è molto diversa secondo che la storia sia scritta da un positivista, da
un laicista, da un marxista o da un cristiano, anche escludendo che si tratti
di falsificazioni volute a scopo di propa- ganda o di errori dovuti a
documentazioni o indagini insufficienti. Basti pensare alle interpretazioni
tanto discordanti del Medioevo, della Controriforma e del Risorgimento. 2.2
Realismo storico ‘Per realismo storico s'intende quell’indirizzo filosofico che
am- mette la possibilità di una scienza degli eventi storici. Questo può
avvenire in due modi, a seconda che la possibilità della scienza degli eventi
storici si fondi su una visione deterministica o non determini- stica della
storia. Si dà quindi un realismo storico deterministico o un realismo storico
non deterministico. Nel primo i fatti accadono necessariamente, nel secondo
liberamente. Tanto nel realismo storico deterministico quanto nel realismo
storico non deterministico si danno due interpretazioni principali. In quello
deterministico c’è chi ritiene che nella successione dei fatti non ci sia
nessun progresso, mentre altri ci vede un divenire, una 194 evoluzione verso
mete sempre più alte. Il primo è il realismo storico deterministico statico; il
secondo, il realismo storico deterministico dinamico. Tra i fautori del primo
tipo vanno annoverati tutti i pen- satori greci; tra quelli del secondo molti
filosofi moderni, soprattutto gli idealisti e i materialisti. Ciò che distingue
i materialisti dagli idealisti è il punto di partenza del divenire storico: per
i primi è la materia, per i secondi è lo spirito. Nel realismo storico
non-deterministico c'è chi sostiene che gli eventi storici si svolgono secondo
un piano esclusivamente naturale, mentre altri sostengono che essi accadono
secondo un piano sopran- naturale. Sostenitori della prima teoria (che
chiamiamo realismo sto- rico non-deterministico naturalistico) sono gli
illuministi e soprat- tutto Kant. Sostenitori della seconda teoria (che
chiamiamo reali- smo storico non-deterministico cristiano o semplicemente
realismo storico cristiano) sono tutti gli storici cristiani e i filosofi
cristiani della storia. Riducendo questa divisione a schema, essa si presenta
così: statico (pensatori greci) materialistico (Marx) deterministico |
idealistico (Hegel) È dinamico REALISMO STORICO naturalistico (Kant) non
deterministico cristiano : (Agostino, Bossuet, Vico) a) Realismo storico
deterministico statico - Secondo il pensiero filosofico greco la storia si
svolge su un piano circolare, in cui l’in- dividuo ha una certa libertà (una
libertà relativa) mentre l’universo è soggetto alle leggi matematiche di una
eterna palingenesi. La stra- da del tempo è una pista rotonda su cui tutte le
società, tutte le civiltà, tutte le istituzioni si succedono con un ritmo inesorabile
e dopo un breve periodo di gloria scompaiono. Il tempo, e quindi la storia, « è
l'immagine mobile dell’immobilità eterna », esso è « quel- l'immagine senza
fine che si svolge secondo le leggi dei numeri » (Pla- tone, Timeo). « Dio
guida l'universo nel suo percorso circolare, ma una volta compiuti i periodi
del tempo che gli sono fissati, esso riprende il suo movimento in senso inverso
» (Platone, Politica). Questa concezione circolare della storia è condivisa da
quasi tut- ti i pensatori greci (cfr. Empedocle, Platone, Stoici, ecc.). b)
Realismo storico deterministico dinamico - Non è possibile qui effettuare una
esposizione soddisfacente delle complesse dottrine della filosofia della storia
insegnate in questo ultimo secolo dai ma- terialisti e dagli idealisti. Del
resto ne abbiamo già trattato distesa- mente nel terzo volume della nostra
storia della filosofia, ora ci pre- me solamente indicare una caratteristica
fondamentale comune tan- to al realismo storico degli idealisti quanto a quello
dei materia- 195 Piano naturale della storia: Kant Piano soprannaturale:
storici e filosofi cristiani — Realismo storico deterministico statico: assenza
di progresso (pensatori greci) — Realismo storico deterministico dinamico:
cammino evolutivo (materialisti, idealisti) Identificazione tra storia e realtà
Il teleologismo storico di Kant e degli illuministi: ottimismo e progresso
Rivelazione, ordine soprannaturale e libertà dell’uomo listi. In tutti e due la
storia viene identificata con la realtà: tutta la realtà si esaurisce negli
eventi storici: al di fuori della storia non c'è più nulla. Questa
identificazione della storia con la realtà si chia- ma storicismo. A nostro
avviso questa interpretazione della storia è insosteni- bile, per almeno tre
ragioni. Anzitutto perché essa implica la nega- zione del trascendente, di Dio.
La seconda ragione è la negazione della libertà umana. Negando all'uomo la
libertà lo storicismo idealistico e materialistico condan- na alla disperazione
l’uomo come persona singola, che invano cerca la salvezza dal male e dalla
morte che lo stringono nel tempo. Que- sta filosofia della storia rappresenta
la forma estrema della disper- sione dell'essere dell'uomo. Infine lo
storicismo, nonostante le apparenze, svaluta la storia perché la considera uno
sviluppo incessante nel quale tutto viene superato e mutato. I valori di ieri
non sono quelli di oggi. I prota- gonisti della storia, gli uomini, sono
prigionieri del presente, poiché negano il passato e negheranno a loro volta
l'avvenire. Rimane una sola realtà: l'eterna legge della mutazione. c) Realismo
storico non-deterministico naturalistico: Kant - Se- condo Kant e molti
illuministi la storia si svolge su un piano ordi- nato ‘(teleologico) voluto
dalla natura. « La storia è l'attuazione di un nascosto piano della natura ». «
Il fine della storia è la realizza- zione di una società che universalmente
viva secondo il diritto » (Kant, Idea per una storia universale dal punto di
vista cosmopo- litico, pr. 5 e 8). Altrettanto si legge nel saggio Se il genere
umano sia in continuo progresso verso il meglio: « Ora io affermo di poter
predire alla stirpe umana, anche senza avere spirito profetico, il suo
progresso verso il meglio, escludendo che questo progresso possa conoscere
sostanziali pericoli di involuzione ». Questa visione ottimistica della storia,
nata dal successo bor- ghese della seconda rivoluzione industriale e
dall'entusiasmo per il progresso scientifico, ha verificato i suoi limiti
davanti ad una umanità provata dall’orrore di due guerre mondiali, artefice del
peri- colo dell’autodistruzione atomica, del disastro ecologico e vittima di un
consumismo che antepone il valore delle cose a quello delle persone. d)
Realismo storico cristiano - Secondo il pensiero filosofico cristiano la storia
si svolge secondo un piano determinato dall’incon- tro di due volontà libere:
quella di Dio e quella dell'uomo. Di qui l'estrema difficoltà ad interpretare
un così complesso disegno che è possibile comprendere solo in virtù
dell'intervento di Dio e della ri- velazione da parte sua del senso
fondamentale della storia. Dalla Rivelazione sappiamo che la storia non si
svolge secondo un piano circolare ciclico e tanto meno secondo leggi
fatalistiche e 196 meccaniche, e nemmeno secondo un ordine puramente naturale.
Dio ha voluto liberamente inserire l'uomo in un ordine soprannaturale; in tale
ordine, cui l’uomo corrisponde liberamente, Dio continua ad intervenire per
adattare il suo piano di grazia alla corrispondenza dell'uomo di modo che
nonostante le deviazioni umane, la storia pro- cede verso destini sempre più
alti. Il piano cristiano della storia si può raffigurare diagrammatica- mente
con una linea ascensionale in cui ci sono varie deviazioni verso il basso, ma
tutto sommato la parte terminale è più alta di quella iniziale. Dalla
Rivelazione si viene a conoscere: a) il significato di tutta la storia che ci
precede {attraverso i dogmi della creazione, del pec- cato e della redenzione);
b) il punto della storia in cui ci troviamo at- tualmente (cioè tra la prima e
l'ultima venuta di Cristo); c) che cosa ci riserva l'avvenire (cioè la fine del
mondo e il ritorno trionfale del Messia dopo che il suo messaggio sarà stato
annunziate a, tutti gli uomini). ‘Attraverso la Rivelazione conosciamo quindi
il grandioso piano divino della storia: il piano generale, non i singoli
momenti e i parti- colari di esso, sempre avvolti nel mistero. Sappiamo che la
storia non è in regresso, non è un circolo su cui si ripetono eterni ritorni,
ma è progresso verso la salvezza. Ampliiando le conoscenze dateci dalla fede
mediante quelle che ci sono fornite dalia scienza sappiamo che l'umanità esiste
sul pianeta da circa mezzo milione di anni. Però la serie delle civiltà è
cominciata appena da 10.000 anni, mentre le generazioni future possono
percorrere un altro mezzo miliardo di anni. Il Cristianesimo appartiene quindi
all'infanzia della storia dell'umanità. La Chiesa non è che ai primi passi del
processo che tende a fare di lei la provincia terrena del Regno dei cieli,
motore e scopo della storia della umanità. Su questa concezione cristiana della
storia sono state scritte pagine interessanti in tutti i tempi, in particolare
da S. Agostino (De civitate Dei), Bossuet (Discorso sulla storia universale),
Vico (La scienza nuova), Maritain (Sulla flosofia della storia), De Lubac
(Cattolicesimo), von Balthasar (Teologia della storia), Toynbee (A study of
history), Mouroux {I! mistero del tem po), Cullmann (Cristo e il tempo). 3. La
storia è veramente una scienza? Molti filosofi pensano di poter accordare alla
storia il titolo di scienza, definendo la conoscenza storica come sintesi di
fatti e di idee, di particolare e di universale. Anche a noi pare che la storia
sia una scienza, ma non secondo il concetto ciassico di scienza, bensì secondo
il concetto moderno, secondo il quale la scienza non è una riproduzione
precisa, ma solo una sistemazione approssimativa 197 il diagramma ascensionale
del piano cristiano della storia La scienza storica come sistema approssimativo
‘‘Cognitio certa per causas”’: — “per causas’’ (il nesso che unisce due eventi)
— “‘certa’’ (futuro: necessario e universale; passato: anche particolare e
contingente) La ricerca dell’unità storica: l’universale che si realizza
ripetutamente Carattere ipotetico dell’universale storico La Rivelazione come
garanzia del senso della storia della realtà che è troppo complessa per essere
pienamente intelligi- bile. Come la scienza sperimentale si chiama scienza
sebbene sia soltanto una schematizzazione conveniente, perché permette all’uo-
mo di intendere il mondo complicato della natura fisica, così la sto- ria si
può chiamare scienza anche se non può vantarsi di riprodurre con fedeltà la
connessione causale che lega le vicende umane tra di loro, perché permette
all'uomo di avere una certa comprensione della successione di tali vicende. La
storia, come la scienza sperimentale, può chiamarsi cognitio certa per causas.
Il per causas va inteso in storia come nelle scienze sperimentali, non come il
mezzo per conoscere un evento, ma come il nesso, la legge che unisce due
eventi. Quanto al certa non v'è dubbio che anche in storia si può rag- giungere
certezza. Nella visione cristiana della storia ci sono dei pi- lastri
assolutamente certi, posti dalla Rivelazione, che permettono di costruire una
storia universale di valore categorico almeno nel- le linee generali. In più si
può dare certezza per molti fatti singoli non conosciuti per fede. Circa tali
fatti si può dare certezza anche se non sono universali e necessari. Infatti,
pur essendo vero che quando si tratta del futuro abbiamo la conoscenza « certa
» solo del- l’universale e necessario, quando si tratta invece del passato ab-
biamo certezza anche del particolare e del contingente, perché quan- to è
accaduto nel passato ha per noi posteri la stessa necessità e immutabilità
dell'universale e necessario che accadrà nel futuro. Qualche storico ha creduto
che l'oggetto della storia non sia sol- tanto certo, perché necessario e
immutabile, ma anche universale. Basandosi su questa convinzione, storici come
Vico, Toynbee, Spengier sono andati alla ricerca dell'unità storica,
dell'universale storico (la nazione, la civiltà, ecc.) che torna a realizzarsi
ripetuta- mente, come l’idea universale di uomo continua ad avere ripetute
realizzazioni, (con la sola differenza che mentre l'individuo umano ha una
breve durata di 50, 100 anni, l’unità storica ha una durata di migliaia di
anni). Che dire di questo universale storico? A noi pare che non sia una cosa
impossibile, tuttavia rimane qualcosa di estremamente ipotetico, non esistendo
nessun criterio certo per determinare quale raggruppamento di eventi abbia i
ca- ratteri di universalità e ripetibilità. Possiamo infine domandarci se una
storia universale vera sia raggiungibile. Come abbiamo precedentemente sottolineato,
sono l’esistenza di Dio e il mistero della sua incarnazione a consentirci una
autentica visione dei fatti, poiché la storia è comprensibile soio nella sua
du- plice dimensione naturale e soprannaturale. 198 4. L’interpretazione della
storia Nel nostro secolo la problematica della storia ha acquisito uno spessore
del tutto sconosciuto ai nostri antenati. Nel passato l'uomo era abituato a
guardare la storia dall'alto come uno spettatore. Certo lo spettacolo non era
di facile comprensione, ma almeno si pensava di poterlo osservare pacificamente
dal di fuori. Invece in seguito al cumulo di eventi che ci sono piombati
addosso durante gli ultimi decenni e in conseguenza degli scossoni che hanno
subito tutte le nostre cognizioni della realtà e tutte le nostre convinzioni
morali e religiose, nonché i nostri rapporti con gli altri e con il mondo, ci
siamo accorti che noi stessi siamo immersi nella storia, che faccia- mo parte
dello spettacolo; in altre parole che il divenire storico non riguarda soltanto
il mondo, ma il nostro stesso essere. Perciò anche l’uomo è un essere storico.
La presa di coscienza della nostra storicità, dice giustamente Gadamer, è
«-verosimilmente la più importante tra le rivoluzioni da noi subite dopo
l'avvento dell’epoca moderna. La sua portata spiri- tuale sorpassa
probabilmente quella che noi riconosciamo alle rea- lizzazioni delle scienze
naturali, realizzazioni che hanno visibilmente trasformato la superficie del
nostro pianeta. La coscienza storica, che caratterizza l’uomo contemporaneo, è
un privilegio (forse perfino un fardello) quale non è stato imposto a nessuna
delle generazioni pre- cedenti ».? Ora, la presa di coscienza della storicità
del nostro essere implica una revisione profonda non solo della scienza storica
ma anche della teoria generale della conoscenza umana. Questa non può più
essere concepita né come diretto riflesso della realtà, come volevano i
realisti antichi e moderni (compresi i positivisti) e neppure come creazione
originaria dell'Io (come affermavano gli idealisti); ma va intesa come
interpretazione (ermeneutica) di situazioni: un essere storico comprende se
stesso, gli altri, la cultura e le vicende del passato soltanto interpretando.
Egli fa necessariamente parte di un circolo ermeneutico: gli vengono offerte dal
passato delle tradi- zioni che egli riceve interpretandole, e di nuovo le
comunica agli al- tri, i quali a loro volta le fanno proprie interpretandole.
L'uomo coglie la realtà storica soltanto interpretandola per due ragioni.
Primo, perché la storia è essenzialmente movimento e nel movimento c'è sempre
qualcosa che rimane e qualcosa che muta; perciò per risalire al senso originale
delle tradizioni occorre passare attraverso i vari sviluppi. Secondo, perché il
passato non ci è estra- neo ma entra a far parte del nostro essere, della
nostra vita; però en- tra a far parte del nostro spessore soggettivo solo
mediante l'inter- pretazione. Noi siamo eredi di tradizioni che non sono
semplici ? H. GADAMER, Il problema della coscienza storica, Guida, Napoli 1969,
p. 27. 199 Gadamer: una rivoluzione fondamentale del nostro tempo è la presa di
coscienza deila nostra storicità Gadamer: la storia come ermeneutica delle
situazioni Due ragioni dell’esigenza interpretativa: — mutamento e permanenza
nel movimento storico — appartenenza del passato al nostro essere I tre
principi ermeneutici: — il conoscere è un interrogare — i documenti storici
come risposta alle domande informazioni da registrare, ma fanno parte della
nostra realtà, de- terminano le nostre prospettive e le nostre progettazioni,
il riostro modo di vedere e di agire. « Comprendere è operare una mediazione
tra il presente e il passato, è sviluppare in se stessi tutta la serie con-
tinua delle prospettive attraverso cui il passato si presenta e si ri- volge a
noi ».? Ma, accertata la verità del carattere storico del nostro essere e del
nostro conoscere, come si sviluppa la nostra conoscenza intesa come
interpretazione, ossia il pensare ermeneutico? Secondo Gadamer, che è il
principale teorico della teoria della interpretazione (ermeneutica) storica, il
pensare ermeneutico si sviluppa sulla base di tre principi. Il primo dice che
ogni conoscenza è la risposta ad una domanda. Il che significa che il conoscere
è anzitutto un interrogare, e que- st'ultimo, secondo Gadamer, è sempre
determinato da una situa- zione particolare: « Non al giudizio, ma alla domanda
spetta il pri- mato nella logica, come dimostrano storicamente il dialogo
plato- nico e l'origine dialettica della logica greca. Ma il primato della
domanda rispetto alla proposizione significa che la proposizione è, per sua
natura, risposta. Non c’è proposizione che non sia una spe- cie di risposta e
perciò non si può intendere una proposizione se non rifacendosi ai criteri
intrinseci alla domanda di cui è una risposta... Certo non è facile trovare fa
domanda, di cui una data proposizione è effettivamente la risposta, soprattutto
perché una domanda non è mai qualcosa di semplice e primo, a cui si possa ar-
rivare solo che lo si voglia: ogni domanda è ancora una risposta e questa è la
dialettica in cui siamo impigliati. Ogni domanda è mo- tivata e anche il suo
significato non è mai dato interamente in es- sa ». In conclusione, «
l'orizzonte di ogni proposizione è il sorgere da una situazione problematica »,
e « una conoscenza si mostra fe- conda in quanto appiana una situazione
problematica ».* Il secondo principio dice che qualsiasi documento storico,
qual- siasi testo letterario e anche tutti i monumenti artistici, le
istituzioni sociali, politiche e religiose sono la registrazione di certe
conoscenze, le quali, come vuole la dialettica del conoscere, rappresentano le
ri sposte alle domande che i loro autori si sono fatte in certe situa- zioni.
Pertanto, per comprendere tali documenti occorre riportare le risposte che essi
contengono nel coniesto, nell'orizzonte degli in- terrogativi da cui sono
sorte, un orizzonte che conteneva la possi- bilità di molte altre risposte. In
certo qual modo la formulazione conclusiva che esse hanno assunto deve essere
ricondotta al movi- mento della conversazione. Questo è il compito
dell'ermeneutica: « trarre il testo fuori dallo stato di alienazione in cui
gtace (a causa della forma immobile che esso ha assunto nella composizione
scrit- 3 Ivi, p. 93. * H. GADAMER, « Che cos'è la verità », in Rivista di
filosofia 1956, pp. 261-262. 200 ta) e riportarlo al presente vivo del dialogo,
Ia cui forma originaria è sempre quella della domanda e della risposta ».ò Il
terzo principio afferma che nessuna conoscenza è « pura », « impregiudicata »,
ma è sempre « mista », accompagnata e condi- zionata da « pregiudizi ». Questo
terzo postulato, nel pensiero del Gadamer, è la logica conseguenza della sua
concezione dell'uomo come essere storico e, perciò, legato a certe tradizioni,
prospettive, situazioni. Sono queste tradizioni, prospettive, situazioni a
formare i pregiudizi. Come si vede, Gadamer dà al termine « pregiudizio » un
signi- ficato che si discosta sostanzialmente da quello usuale per due ra-
gioni. Anzitutto nel significato usuale il pregiudizio è una « cono- scenza
errata » che impedisce di vedere e giudicare rettamente in certe situazioni.
Ora, per Gadamer il pregiudizio non ha questa con- notazione negativa di
falsità e falsificazione. ‘Per lui il pregiudizio è soltanto una « conoscenza previa
», la quale può essere sia vera che falsa. La seconda ragione è che nella
accezione comune il pregiudizio è qualcosa di contingente, qualcosa quindi che
si può superare, neu- tralizzare. Invece per il Gadamer questo è impossibile,
in quanto, come si è detto, i pregiudizi fanno parte della storicità dell'uomo
e perciò accompagnano necessariamente la sua esistenza. Il che tut- tavia non
significa che la conoscenza umana debba essere schiava dei pregiudizi. Questo
no, anzitutto perché essa può prenderne coscien- za e, così, in certo qual modo
li può dominare, e in secondo luogo erché di certi pregiudizi si può anche
disfare. Ma come è possibile per l'interprete uscire dall’orizzonte dei suoi «
pregiudizi » e mettersi in cumunicazione con l'orizzonte altrui, in particolare
con quello di un testo che appartiene ad altri tempi lon- tani da lui? Non
esiste forse tra passato e presente un abisso insor- montabile? Del resto, la
storicità non richiude necessariamente l'in. terprete dentro il vicolo cieco
del suo soggettivismo? Gadamer, pur riconoscendo e affermando l’alterità tra
passato e presente, esclude che fra loro esista una scissura completa. La sto-
ricità esige piuttosto il contrario: essa fa sì che la distanza tempo- rale sia
« colmata dalla continuità delia tradizione e della trasmis- sione, grazie alle
quali tutto ciò che ci viene trasmesso si rivela a noi ».$ Ma neppure il fatto
che l'orizzonte conoscitivo dell’interprete sia circoscritto da « pregiudizi »
è tale da rinchiuderle nel soggetti- vismo e «a impedirgli l’incontre con altri
orizzonti. Infatti i « pre- giudizi » non sono tutti « egocentrici » e,
soprattutto, i « pregiudizi » non sono la prima cosa: al di là e al di sotto
dei « pregiudizi » esiste un accordo fondamentale, che Gadamer chiama « accordo
portante ». Questo « punto di stabilità », questa solida piattaforma che rende
5 H. GADAMER, Wahrheit und methode, Mohr, Tiibingen 1960, p. 350. Ivi, p. 281.
201 — ogni conoscenza è mista al pregiudizio il pregiudizio come conoscenza
previa e come contingente superabile La tradizione colma la separazione tra
passato e presente L’‘accordo portante’ rompe il rischio del soggettivismo il
linguaggio punto di stabilità e dì fusione La storia come tradizione:
permanenza della forma e identità delia struttura La conoscenza del passato,
del presente e del futuro come proiezione verso l'eternità possibile l’incontro
e la fusione tra i vari orizzonti è fornita dal linguaggio. « Io credo che il
linguaggio operi la sintesi perenne tra l'orizzonte del passato e quello del
presente. Nci ci intendiamo reci- procamente, perché ci parliamo, perché, pur
svolgendosi sempre il nostro discorso su piani diversi e non convergenti, alla
fine, per mez- zo delle parole, riusciamo a metterci reciprocamente di fronte
le cose dette con le parole ».' Come si vede, nella interpretazione gadameriana
della storicità della conoscenza umana, si riscontra uno sforzo notevole di
superare lo scoglio delio storicismo, del relativismo e del soggeitivismo in
cui erano generalmente incappate le precedenti interpretazioni del- lo stesso
fenomeno. In effetti, la proprietà della storicità non significa necessaria-
mente queste interpretazioni scettiche del conoscere. Infatti, che cos'è la
storia? È solo divenire senza permanere; sequenza di muta- menti senza alcuna
costante? La natura della storia e conseguentemente della storicità non può
essere diversa da quella del tempo. Ora, il tempo, ci dice Bergson, è
essenzialmente durata. Perciò la storia più che successione di av- venimenti di
natura diversa è tradizione di fatti, di azioni e, quindi, essa ha come suo
connotato essenziale la permanenza della forma e l'identità di struttura,
nonostante tutti i possibili mutamenti. La storia non è pura successione
casuale di avvenimenti sconnessi e discontinui, ma un flusso, un trascorrere di
una medesima sostan- za fondamentale; non è un divenire occasionalistico e
frammentario, ma uno sviluppo organico e continuo. In conclusione, riconosciamo
senz'altro che il nostro conoscere è segnato dal sigillo del tempo. Ma
affermiamo che, come il tempo ha tre « estasi » (passato, presente e futuro),
così il nostro conoscere ha una triplice estensione: quella in direzione del
passato, quella in direzione del futuro e quella rivolta verso il presente.
Inoltre il nostro conoscere gode di una considerevole padronanza rispetto a
queste estasi, in quanto può protendere il suo sguardo oltre ogni orizzonte
segnato dal passato e dal futuro e proiettarsi verso l’eter- nità. CONCETTI DA
RITENERE — Senso oggettivo; senso soggettivo — Scetticismo storico — Realismo
storico, deterministico, statico e dinamico — Realismo storico non
deterministico naturalistico; realismo storico cristiano — Ermeneutica storica;
pregiudizio; accordo portante; punto di stabilità * H. GADAMER, « Che cos'è la
verità », cit., p. 265.202 SINTESI CONTENUTISTICA I. IL CONCETTO DI STORIA La
storia si definisce a seconda che per essa si intendano gli avvenimenti in se
stessi (senso oggettivo) oppure la conoscenza dei medesimi (senso sog-
gettivo): a) il senso oggettivo indica il cammino dell’uomo attraverso il
tempo; b) il senso soggettivo è lo studio degli avvenimenti umani che accadono
nel tempo, nelle loro cause, nei loro effetti, nel loro significato ultimo. II.
POSSIBILITÀ DELLA SCIENZA STORICA Gli orientamenti nei confronti della scienza
storica si distinguono in scet- ticismo storico e in realismo storico. A. Lo
scetticismo storico posa sui seguenti argomenti: 1. Gli avvenimenti sono solo
apparenti: a) Il mondo dell'esperienza è un mondo illusorio e perciò senza
senso; b) Assertori dell'argomento sono, ad esempio, la filosofia indiana,
Eraclito e Schopenhauer. 2. Gli avvenimenti non accadono secondo un piano
ordinato: a) Gli eventi sono reali ma non hanno significato poiché sono privi
di direzione. b) Il loro susseguirsi non determina un progresso. 3. Discordanza
nella interpretazione dei fatti storici: a) L’interpretazione dei fatti storici
è soggetta. al filtro ideologico dello storiografo. B. Il realismo storico
ammette la possibilità di una scienza degli eventi storici. Il realismo
presenta due orientamenti: il deterministico e il non-determi- nistico. 1.
Realismo storico deterministico afferma l'accadimento necessario dei fatti e si
distingue in: a) Realismo storico deterministico | nella successione degli
avvenimenti statico | non vi è progresso — Secondo il pensiero greco la storia
si svolge su un piano circolare, in cui l'individuo gode di una libertà
relativa e l’universo è soggetto alle leggi ma- tematiche dell'eterna
palingenesi. Il tempo è l’immagine mobile dell'eternità immobile (Platone,
Timeo e Politica). b) Realismo storico deterministico | il divenire storico
procede verso me- dinamico te sempre più elevate — Tale concezione tipica della
filosofia contemporanea accomuna materia- listi e idealisti. Viene affermata
una sostanziale identità tra realtà e storia ‘(sto- ricismo). — Lo storicismo
implica la negazione della trascendenza di Dio, nega la libertà della persona e
sostiene la continua transitorietà dei valori. 2. Realismo storico non-deterministico
afferma che i fatti accadono secon- do libertà e si distingue in: a) Realismo
storico non-determini- }la storia si svolge su un piano ordi- stico
naturalistico | nato voluto dalla natura — È la concezione kantiana secondo la
quale fine della storia è una so- cietà che vive secondo il diritto e che il
genere umano progredisca sempre verso il meglio. . | la storia si svolge
secondo un piano deter- b) Realismo storico cristiano } minato dall'incontro di
due libertà: quella ( di Dio e quella dell’uomo . — Il piano della storia può
essere raffigurato come una linea ascensionale con deviazioni verso il basso,
ma il cui punto terminale è più elevato di quello iniziale. 203 — La
Rivelazione ci svela: a) il significato della storia che ci precede; b) il
punto della storia in cui ci troviamo; c) che cosa ci riserva l'avvenire. —
Appartengono a tale concezione: S. Agostino, Bossuet, Vico, Maritain, De Lubac,
von Balthasar, Toynbee, Mouroux, Cullmann.III. LA STORIA È UNA SCIENZA? 1. La
storia, come la scienza sperimentale, può chiamarsi cognitio certa per causas.
Il per causas è il nesso, la legge che unisce due eventi. 2. Anche nella storia
si può raggiungere certezza. Nella visione cristiana la Rivelazione pone dei
pilastri assoiutamente certi, che permettono di costruire una storia universale
di valore categorico almeno nelle linee generali. 3. Vico, Toynbee, Spengler,
in base alla convinzione che l'oggetto della storia non sia soltanto certo ma
anche universale, hanno ricercato l’unità sto- rica, l’universale storica che
torna ripetutamente a realizzarsi (nazione, civiltà, ecc.). IV. L'ERMENEUTICA
STORICA 1. La consapevolezza della storicità dell'uomo, come afferma Gadamer, è
una delle più importanti rivoluzioni del nostro tempo. 2. La scienza storica
subisce una profonda trasformazione, poiché diviene interpretazione
(ermeneutica) di situazioni: un essere storico comprende se stesso. 3. L'uomo
coglie la realtà storica interpretandola per due ragioni: a) la storia è
movimento, perciò per risalire al senso originale delle tradi zioni occorre
passare attraverso vari sviluppi; b) il passato non è estraneo all'uomo, ma fa
parte del suo essere, entra quindi a fare parte della soggettività mediante
l’interpretazione. 4. Secondo Gadamer il pensare ermeneutico si sviluppa sulla
base di tre principi: a) Ogni conoscenza è la risposta ad una domanda. Il
conoscere è anzitutto un interrogare e l'interrogativo è sempre determinato da
una situazione par- ticolare. b) Qualsiasi documento storico è la registrazione
di certe conoscenze. I documenti per essere compresi richiedono che le
risposte, che contengono, siano riportate nell'orizzonte da cui sono sorte. c)
Nessuna conoscenza è « pura », ma è sempre condizionata da pregiudizi. In
Gadamer il termine pregiudizio significa « conoscenza previa », che in quanto
tale può essere sia vera che falsa. I pregiudizi fanno parte della storia
dell'uomo, vanno in ogni caso dominati e se necessario eliminati. Al di là dei
pregiudizi esiste tra i diversi orizzonti interpretati la possibilità di un accordo
fondamentale, che Gadamer chiama « accordo portante ». Questo punto di sta-
bilità è fornito dal linguaggio che opera la sintesi tra l'orizzonte del
passato e quello del. presente. 5. Caratteristica dell’ermeneutica storica è il
tentativo di essere il supera- mento dello storicismo, del relativismo e del
soggettivismo. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è la storia?
Come si definisce in senso soggettivo e in senso oggettivo? 2. È possibile una
conoscenza scientifica della storia? Quali sono gli argo- menti pro e contro?
3. Quali sono le principali interpretazioni del senso della storia? 4. Che cosa
si intende per storicismo? 5. Che significa materialismo storico? 204 6. Qual è
la concezione vichiana della storia? 7. È possibile una « filosofia » cristiana
della storia? 8. Che cosa è l'universale storico È possibile identificarlo con
sicurezza? 9. Quale rapporto è opportuno stabilire tra antropologia e
concezione della storia? 10. In quale misura la concezione della storia
contribuisce all'elaborazione di un progetto-uomo? 11. Che cosa si intende per
ermeneutica storica? Quali sono i principi fon- damentali su cui essa si regge?
12. È legittimo ritenere che l’ermeneutica storica possa contribuire a un
recupero dei valori morali da parte della coscienza personale e collettiva del
nostro tempo? SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AcosTINO, La città di Dio, Città
Nuova, Roma 1978. BERDJAEV N., Il senso della storia, Jaca Book, Milano 1977.
CAPPELLO C., La visione storica in G.B. Vico, Einaudi, Torino 1946. CASTELLI
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Filosofia e storiografia, Laterza, Bari 1949. Ip., La storia come pensiero e
azione, Laterza, Bari 1954. DANIELOU J., Saggio sul mistero della storia,
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RIGOBELLO A., Il futuro della libertà, Studium, Roma 1978. Vico G.B., La
scienza nuova, Nicolini, Bari 1934. 205 Valore e funzione della cultura nello
sviluppo della civiltà Cultura, termine plurisemantico: senso elitario,
pedagogico, antropologico la Capitolo quattordicesimo IL PROBLEMA CULTURALE
QUESTIONARIO PROPEDEUTICO 1. Quale etimologia attribuire alla parola cultura?
2. In quale misura e perché caratterizza la realtà dell’uomo? 3. Si può
stabilire un rapporto tra cultura e civiltà? La cultura « è l'ultimo e più alto
mezzo per il fine ultimo del- l'uomo, ossia la sua più perfetta coerenza con sé
medesimo »} ha affermato Fichte in La missione del dotto (1794), facendosi
porta- voce, già sul finire del XVIII secolo, di una consapevolezza nuova che
l'uomo aveva ormai raggiunto di questa sua radicale dimensione. L'uomo, nella
sua storia, ha sempre fatto cultura poiché egli è un essere essenzialmente
culturale oltre che naturale, ma questa verità è diventata oggetto della
riflessione filosofica soltanto durante gli ultimi decenni. Ciò è accaduto per
due ragioni principali: a) lo sviluppo dell'antropologia culturale come
scienza, la quale ha messo in luce il valore e la funzione che ha la cultura
nello sviluppo della civiltà e nella caratterizzazione dei popoli; b) la crisi
epocale che sta attraversando da qualche tempo la cultura occidentale. È stata
so- prattutto questa crisi radicale a sollecitare uno studio più attento e più
approfondito di ciò che è la cultura in se stessa, per l'individuo e per la
società. 1. Definizione « Cultura » è un termine plurisemantico che
storicamente e attual- mente ha tre significati e tre usi principali che
possiamo chiamare elitario, pedagogico e antropologico. Nel senso elitario
cultura si- gnifica una gran quantità di sapere, sia in generale che in qualche
settore particolare. Così, per esempio, quando si dice che una certa persona
possiede una vasta cultura scientifica, filosofica, artistica, letteraria, ecc.
o quando si dice semplicemente che è « molto colta ». Nel senso pedagogico
cultura sta ad indicare l'educazione, la forma- zione, la coltivazione
dell'uomo: è la paideia dei greci, ossia il pro- cesso attraverso il quale
l’uomo (il bambino, il ragazzo, l'adulto) 1 J.G. FICHTE, La missione del dotto,
La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 86. 206 perviene alla piena maturazione e
realizzazione della propria per- sonalità. Infine, nel senso antropologico, che
è quello che si è andato consolidando nel nostro secolo, cultura significa
quell'insieme di co- stumi, di tecniche e di valori che contraddistinguono un
gruppo so- ciale, una tribù, un popolo, una nazione: « è il modo di vivere pro-
prio di una società » (Taylor). i A noi, nel presente capitolo, interessano
soltanto gli ultimi due significati di cultura, in particolare il terzo. Ma il
secondo e il terzo sono strettamente legati tra loro: in effetti la cultura è
dimensione di un gruppo sociale, di una società, perché è anzitutto dimensione,
proprietà dell'uomo in quanto uomo. Premesse alcune informazioni sulla storia
del problema culturale, gli argomenti di cui ci occuperemo sono i seguenti:
l'uomo come essere culturale, la cultura come forma spirituale della società, i
fondamenti della cultura, classificazione delle culture, rapporti tra cultura e
religione, urgenza del rinnovamento della cultura. 2. Il problema della cultura
nella storia della filosofia Fino ad un paio di secoli fa il problema culturale
coincise sostan- zialmente con quello pedagogico. Fino all'Illuminismo si
concepiva la cultura essenzialmente come paideia, come formazione della persona
e non come struttura fondamentale della società. Di con- seguenza, il problema
culturale veniva affrontato dalla prospettiva antropologica, ignorando
totalmente quella etnologica. Quanto la filosofia è riuscita a dire della
cultura come paideia l'abbiamo visto nel capitolo riguardante la pedagogia, e
qui lo diamo per acqui- sito. Ora ci interesseremo degli ulteriori sviluppi che
ebbe il pro- blema culturale allorché, a partire dal secolo XVIII, fu
affrontato oltre che dalla prospettiva antropologica, anche da quella
etnologica. A prendere coscienza della verità che la cultura è un feno- meno
che interessa oltre che la singola persona anche il gruppo so- ciale in quanto
tale, in quanto essa rappresenta il suo sistema di vita e costituisce il
vincolo che unisce tra loro i membri di un determi- nato gruppo e li distingue
dai membri degli altri gruppi, furono gli illuministi tedeschi Herder e
Humboldt. Questi due filosofi con- cepiscono entrambi la cultura sia come
vincolo spirituale che tiene strettamente uniti tra loro i membri di una
nazione sia come realiz- zazione di un particolare progetto di humanitas.
Secondo Herder l’obiettivo primario della cultura è l’uomo stesso, la
coltivazione dell'uomo per renderlo sempre più uomo e avvici- narlo all'ideale
della umanità, la humanitas. « A questo scopo evi- dente è organizzata la
nostra natura; per esso ci sono dati sensi ed impulsi più raffinati, per esso
ci è data la ragione e la libertà, una salute delicata e durevole, il
linguaggio, l'arte e la religione. In ogni condizione e in ogni società, l'uomo
non può avere altro in vista 207 Cultura: dimensione dell’uomo in quanto uomo
Fino al secolo XVIII coincidenza di cultura e pedagogia Herder e Humboldt:
cultura, vincolo spirituale di un popolo Humboldt: funzione principe del
linguaggio nella cultura Dal XIX secolo si sviluppano l’etnologia e
l’antropologia culturale né può costruire altro che l'umanità, così come la
pensa in se stes- so »? La realizzazione dell'ideale dell'umanità varia da popo
a po- polo, da individuo a individuo, ma progredisce incessantemente stro alla
fine dei tempi. Anche per Humboldt, come per :Herder, la cultura è la forma
spi- rituale di un popolo, di una nazione. Egli insiste soprattutto sulla
funzione che compete alla lingua quale fattore principale della cul- tura. A
suo parere la cultura è una forma spirituale dell'umanità caratterizzata da una
determinata lingua, individualizzata rispetto alla totalità ideale. «
L'individualità divide, ma in una maniera così meravigliosa che proprio mediante
la divisione risveglia il senti- mento dell'unità, anzi appare un mezzo per
costituire questa unità almeno nell’idea [...1. Qui, in modo davvero
meraviglioso, gli viene in aiuto il linguaggio, che unisce anche quando isola e
che, nella veste della più individuale espressione, racchiude la possibilità di
universale intelligenza. Il singolo, dove, quando e come vive, è un frammento
staccato di tutta la sua stirpe, e il linguaggio dimostra e mantiene questo
eterno nesso che guida il destino del singolo e la storia del mondo »} Dopo
Herder e Humboldt e per merito loro, la cultura come forma spirituale della
società diviene un tema importante sia per l'indagine scientifica sia per la
riflessione filosofica. Dalla seconda metà dell'Ottocento in poi gli etnologi e
antropo- logi francesi, tedeschi, inglesi, italiani, americani che si dedicano
allo studio delle civiltà antiche o dei popoli primitivi elaborano teo- rie
generali intorno ai fenomeni della cultura e formulano ipotesi varie circa la
sua origine, il suo sviluppo, i traiti universali, la classificazione,
l'assimilazione, il collegamento fra le parti di una cultura, ecc. Altrettanto
fanno i filosofi. Questi, normalmente {e logi- camente) affrontano e risolvono
i problemi della cultura alia luce dei postulati generali della loro
cosmovisione. Così gli idealisti (Cas- sirer, Croce, Gentile, Husserl) vedono
nella cultura di un popolo le varie tappe della presa di coscienza
dell’Assoluto; i vitalisti (Dil- they e Spengler) considerano la cultura come
massima espressione della vita; i marxisti (Marx e iLenin e i loro seguaci)
interpretano la cultura come rispecchiamento delle condizioni economiche di una
società; gli strutturalisti fanno della cultura un prodotto del Pensiero
inconscio (così Lévi-Strauss e Foucault). I filosofi hanno dibattuto con
vivacità i rapporti della cultura con la politica, la religione e la
tecnologia, giungendo alle soluzioni più disparate: di conflitto, di armonia,
di inclusione, di esclusione, di correlazione, ecc. Ad analoghi risultati è
approdato il dibattito in- torno alla priorità tra cultura scientifica e
cultura umanistica (ma 2 JG. HERDER, /dee per la filosofia della storia
dell'umanità, Il Mulino, Bologna 1971, p. 137 # W. v. HUMBOLDT, « Ueber die
Verschiedenheiten des menschlichen Sprach- baues », in Gesammielte Schriften,
Berlino 1904, vol. VI/1, p. 125 ss. 208 questo è un dibattito che toesa
maggiormente il problema pedago- gico che quello etnologico). In questi ultimi
anni — dopo che la cultura moderna o occi- dentale ha dato segni evidenti di
una crisi profonda, forse irrever- sibile — l’attenzione dei filosofi si è
concentrata maggiormente sui fondamenti della cultura, sui suoi elementi
costitutivi, sulle sue funzioni, sui valori che animano una cultura, sulla
progettazione di una nuova cultura. E se è vero, come perisano molti, che la
cultura moderna ha ormai esaurito le sue risorse e va verso una completa
dissoluzione, allora si deve ammettere che il compito più urgente a cui sono
chiamati attualmente i filosofi è quello di elaborare un nuovo progetto
culturale che risponda alle esigenze della nascente società che dovrà
affrontare e risolvere non più problemi di interesse particolare e locale, ma
problemi di interesse planetario e universale. Per una società planetaria occorre
studiare un progetto di cultura planetaria.‘ 3. L'uomo come essere culturale
Abbiamo già osservato più volte nei capitoli precedenti che l’uo- mo non è solo
un essere naturale ma anche culturale: ciò significa che al momento della
nascita la natura gli dà appena il mirimo ne- cessario, l'essenziale, per
essere uomo e affida a lui stesso il compito di farsi, di formarsi, di
realizzare pienamente il proprio essere me- diante la cultura. L'integrazione
della dimensione naturaie dell'uomo nella dimen- sione culturale viene così
teorizzata da J. Maritain: « Essendo l'uomo uno spirito animatore di una carne,
ia sua natura è di per sé una natura progressiva. Il lavoro della ragione e
della virtù è naturale nel senso che è conforme alle inclinazioni essenziali della
natura umana, di cui mette in moto le energie essenziali. Non è naturale nel
senso che sia dato bell'e fatto dalla natura. [...] La cultura è naturale per
l'uomo nello stesso senso del lavoro, della ragione e della virtù, di cui è il
frutto e il compimento terreno ». Mentre l’animale acquisisce tutto dalla
natura e lungo l'arco della sua esistenza non fa altro che eseguire
puntualmente, istiniiva- mente, meccanicamente, quanto sta iscritto nel suo
DNA, l’uomo riceve dalla natura un DNA che gli spalanca immense possibilità:
col DNA la natura consegna all'uomo un progetto, ed è compito di tutta la sua
vita quello di tradurlo in realtà e di portarlo a compimento. La filosofia
classica (Platone, Aristotele, Zenone, Plotino, ecc.) ‘ ‘Per un'analisi critica
di vari progetti culturali laici e cristiani di rinnova- mento della cultura si
veda B. Mondin, Una nuova cultura per una nuova società, (Analisi della crisi
epocale della cultura moderna e dei progetti per superarla), 2° ed., Massimo,
Milano 1983. 5 J. MARITAIN, Religione e cultura, Morcelliana, Brescia 1973, p.
15. 209 Crisi detta cultura e indagine sui suoi fondamenti per un nuovo
progetto culturale Maritain: la cultura è naturale per l’uomo La concezione
naturalistica dell’uomo nel mondo classico La concezione storicistica dell’età
moderna Non tutto l’uomo è opera della cultura La cultura dimensione delia
natura umana considerava l’uomo come essere naturale: costituito di un'essenza
immutabile che gli viene data dalla natura, dalla quale egli deriva non soltanto
le leggi biologiche ma anche i dettami morali: « Agisci secondo natura » era
l'imperativo categorico della filosofia greca. Era chiaramente una concezione
statica dell'uomo, fondata sul pri- mato dell'intelletto sulla volontà, della
contemplazione sull'azione, della natura sulla storia. La filosofia moderna ha
operato una svolta radicale. Essa non vede più nell'uomo un parto della natura,
ma piuttosto un prodotto di se stesso. È la tesi di Nietzsche, Hegel, Sartre,
Heidegger e della maggior parte dei moderni. È una concezione « storicistica »
del- l'uomo, basata sul primato della volontà e della libertà sulla cono-
scenza, della prassi sulla teoria, dell'esistenza sull'essenza, della storia
sulla natura. Sul piano morale non esiste nessun altro impe- rativo al di fuori
di quello di tradurre in atto le proprie possibilità (la propria potenza!). Tra
queste due vie antitetiche c'è però una terza via: che è quella che considera
l'uomo né come essere naturale né come essere sem- plicemente storico, bensì come
essere culturale. Ciò significa che non tutto l’uomo è prodotto della natura e
neppure della storia, ma in parte della natura e in parte della storia, e
questo amalgama tra natura e storia si chiama cultura. Non tutto l’uomo, però,
è opera della cultura. Molto di quanto c'è in lui proviene dalla natura. Tutta
la sua dimensione somatica e bio- logica è prodotta direttamente dalle forze
naturali. Quel piccolo esse- re umano che viene alla luce dopo nove mesi di
gestazione nel grembo della madre è frutto delle leggi genetiche che la natura
ha iscritto nei corpi dei genitori. Gli organismi e le facoltà di cui sono
muniti il bambino e l'adulto provengono dalla natura. Anche gran numero delle
attività somatiche e psichiche che noi svolgiamo dipendono dal- le leggi della
natura. ‘Però gran parte di ciò che noi possediamo e che facciamo già da
bambini di un anno non è frutto della natura bénsì della cultura. Questa è la
caratteristica più rimarchevole, che distingue immedia- tamente l’uomo dagli
animali e dalle piante. Diversamente dagli altri viventi il cui essere è
interamente prodotto dalla natura, l’uomo è in larga misura l'artefice di se
stesso. Mentre le piante e gli ani- mali subiscono l’ambiente naturale che li
circonda, l'uomo è capace di coltivarlo e di trasformarlo profondamente,
adeguandolo ai pro- pri bisogni. La cultura non è qualche cosa di accidentale
per l’uomo, un passatempo, ma fa parte della sua stessa natura, è un elemento
costitutivo della sua essenza. In passato per distinguere l’uomo dagli altri
esseri ci si basava sulla ragione, sulla volontà, sulla li- bertà, sul
linguaggio, ecc. Oggi si è compreso che un aspetto, una dimensione non meno
specifica dell'uomo è la cultura. Questa carat- terizza l'uomo e lo distingue
dagli animali non meno chiaramente della ragione, della libertà, del
linguaggio. In effetti gli animali non 210 hanno culiura, non sono artefici di
cultura: tutt'al più sono passivi ricettori di iniziative culturali compiute
dall'uomo. Per crescere e sopravvivere gli animali sono muniti dalla natura di
certi istinti e di determinati sussidi, sia a scopo di difesa sia a scopo di
prote- zione; invece « l'uomo al posto di tutte queste cose possiede la ra-
gione e le mani, che sono gli organi degli organi, in quanto col loro aiuto l'uomo
può procurarsi strumenti di infinite fogge per infiniti scopi ».î L'uomo è un
essere culturale in due sensi, anzitutto in quanto è artefice della cultura, ma
anche, come s'è visto, in quanto è lui stesso il primo destinatario e il
massimo effetto della cultura. La cultura, nelle sue due principali accezioni
di formazione del singolo (acce- zione soggettiva) e di forma spirituale della
società (accezione ogget- tiva), ha di mira la realizzazione della persona in
tutte le dimensioni, in tutte le sue capacità. Scopo primario della cultura è
coltivare l’uo- mo in quanto uomo, l’uomo in quanto persona, cioè il singolo
uomo, in quanto esemplare unico ed irripetibile della specie umana. Obiettivo
della cultura — in senso antropologico — è sempre stato quello di fare
dell’uomo una persona, uno spirito pienamente svilup- pato, in grado di portare
alla completa e perfetta realizzazione quel progetto-uomo che la Provvidenza
gli ha consegnato. « Fare di se stessi, dal fanciullo che si è stati da
principio, dall'essere mal diroz- zato che si rischia di rimanere, far nascere
l’uomo pienamente uomo, di cui si intravede l'ideale figura: tale è l'opera di
tutta la vita, l’uni- ca opera a cui questa vita possa essere nobiimente
consacrata ».” L'uomo, in quanto essere culturale, non è prefabbricato: egli
deve costruirsi con le proprie mani. Ma secondo quale progetto? Quale modello,
se ce n'è uno, deve tenere davanti agli occhi? Pla- tone, gli stoici, i
neopiatonici dicevano che il suo modello è l'uomo ideale. I Padri della Chiesa,
richiamandosi al Vangelo, hanno pro- posto come modello l’imago Dei, cioè Gesù
Cristo, il Figlio di Dio incarnato, il grande Pedagogo. Qui emerge l'importanza
capitale dell'antropologia filosofica che è l'unica disciplina razionale in
grado di determinare chi è l’uomo e di conseguenza di elaborare quel progetto
su cui impostare la col- tivazione dell'uomo. Spetta infatti all’antropologia
filosofica e non alle scienze particolari rispondere ai grandi quesiti relativi
alla na- tura dell'essere dell'uomo, alla sua origine prima e al suo ultimo
destino. L'antropologia filosofica ha la possibilità di evidenziare la
dimensione spirituale dell'uomo e il suo destino eterno. Essa mette in luce il
primato dello spirito sulla materia, dell'anima sul corpo: verità capitale
questa per stabilire con esattezza le linee di un pro- getto culturale teso
alla piena realizzazione dell'essere dell'uomo. Affinché sia valido, un
progetto-uomo deve assegnare il primato alla $ TomMaso D'AQUINO, S. Theol., I,
76, 5 ad 4 m. ' H.I. MARROU, Storia dell'educazione nell'antichità, Studium,
Roma 1966, p. 139. 211 L’uomo artefice destinatario ed effetto della cultura
L'importanza dell’antropologia filosofica: delinea il primato della dimensione
spirituale La cultura ‘forma spirituale della società” Elementi costitutivi
della cultura: lingua, costumi, tecniche, valori dimensione spirituale, la
dimensione interiore, la dimensione che riguarda la crescita nell'essere
anziché nell'avere. 4. La cultura come forma spirituale della società L'accezione
oggettiva del termine « cultura » esprime soprattutto la crescita e la
creatività del gruppo umano e l'incidenza che esse assumono nel cammino della
storia. « Invece del termine cultura, che si riferisce allo sviluppo razionale
dell'essere umano considerato in generale, si può ugualmente usare quello di
civiltà, che si riferisce a questo stesso sviluppo, considerato però in un caso
eminente, cioè nella produzione della città e della vita civile, di cui la
civiltà è come il prolungamento e lo sviluppo ».* J. Maritain ci offre con
questa riflessione una intelligenza ade- guata della cultura come
caratteristica che specifica, unificandoli e distinguendoli, i vari gruppi
sociali. Così la cultura è ciò che di- stingue un popolo dagli altri popoli.
‘Intesa come proprietà della società, la cultura viene definita essenzialmente
come « forma spirituale della società » e descrittiva- mente come quell'insieme
« di oggetti materiali, di istituzioni, di mo- duli di vita e di pensiero che
non sono peculiari dell'individuo ma che caratterizzano un gruppo sociale.
[...] La cultura è la vita di un popolo, così come si formalizza in contatti,
in istituzioni, in apparati tecnologici che sono tipici; essa comprende inoltre
concetti, com- portamenti, costumi e tradizioni caratteristici. [...] La
cultura quindi significa tutte quelle cose, istituzioni, oggetti materiali,
reazioni ti- piche alle situazioni, che caratterizzano un popolo e lo
distinguono da altri ».° Da un'accurata analisi della cultura come forma
spirituale di una società risulta che dei molteplici elementi che la
costituiscono (lingua, letteratura, arte, poesia, religione, istituzioni
politiche, giu- ridiche, pedagogiche, sport, macchine, strumenti di lavoro,
costumi, leggi, religioni, riti, miti, valori, ecc.) alcuni sono più
essenziali, altri meno (per esempio la lingua è più essenziale della scrittura,
della matematica; la religione dei riti; i valori morali delle leggi, ecc.) e
così si può giungere alla conclusione che gli elementi costitutivi fondamentali
essenziali per avere una cultura sono quattro: la lin- gua (che sorregge il
pilastro simbolico), le abitudini o i costumi (che sorreggono il pilastro
etico), le tecniche (che formano il pilastro tecnologico) e i valori (che
rappresentano il pilastro assiologico).! * * J. MARITAIN, Op. cit., pp. 15-16. * W.D. WALLIS,
Culture and Progress, McGraw-Hill, New York 1930, p. 32. * Secondo Malinowski e molti altri antropologi le
componenti fondamen- tali della cultura sono tre: l'economia, la politica e
l'educazione. Con queste attività ogni società riesce a far fronte ai propri
bisogni: con l'economia pro- duce, conserva e usa i beni necessari per il
proprio sostentamento; con la po- 212 Per acquisire un'idea più adeguata della
cultura è necessario analizzare l'apporto dato da ciascuno di questi quattro
elementi alla formazione della realtà culturale. 5. Gli elementi fondamentali
della cultura Come s'è detto, gli elementi fondamentali della cultura sono
quattro: la lingua, le abitudini, le tecniche e i valori. Il primo elemento
fondamentale è la lingua. Dove non c'è una lingua non ci può essere una
società, non ci può essere una nazione, e pertanto non si può sviluppare
nessuna cultura. La lingua è il pri- mo elemento che fa uscire il singolo da se
stesso e lo mette in comu- nicazione con gli altri. E il raggruppamento sociale
avviene anzi- tutto e soprattutto sulla base di una lingua. Anche i blocchi
etnici che si formano all’interno delle nazioni, per esempio, degli operai
italiani in ‘Germania, dei portoricani negli Stati Uniti, ecc., hanno per prima
causa la lingua. Gli italiani che vanno in Germania non sanno il tedesco e
pertanto continuano ad associarsi con i conna- zionali che parlano italiano. In
tal modo formano dei blocchi in cui si conserva la cultura e non soltanto la
lingua italiana. Ma la lingua da sola non basta per dare origine ad una
determi- nata cultura. Ci sono tanti popoli e nazioni che parlano la stessa
lingua (per esempio, l'inglese è parlato dagli inglesi, dagli irlandesi, dai
canadesi, dagli australiani, dagli americani, ecc.) ma posseggono una cultura
diversa. Occorrono altri elementi. Uno assai importante oltre la lingua sono le
abitudini. Queste possono riguardare tutto: il cibo, il vestito, il camminare,
il gesticolare, l'educazione dei bam- bini, l'attenzione per gli anziani, le
credenze religiose, ecc. Nelle abi- tudini si incarna e si esprime lo stile di
vita di un popolo, il suo modo di concepire e di affrontare l’esistenza, la
visione e l’atteggia- mento peculiare che assume di fronte alla realtà totale:
la natura, la società, la sfera del sacro. Le abitudini riguardano il comporta-
mento in generale e quindi solo in minima parte cadono sotto l’or- dine morale.
Oltre che abitudini comportamentali ogni gruppo umano svi- luppa delle tecniche
di lavoro sue proprie. Queste corrispondono alle esigenze dell'ambiente, alla
capacità, alla creatività e al livello di civiltà di un popolo. Così gli stessi
popoli cacciatori, pescatori, agricoltori, industriali inventano tecniche
differenti per pescare, per litica regola i rapporti tra i membri del gruppo
sociale; con l'educazione adde- stra e forma i suoi membri secondo gli ideali
che sono stati consacrati dalla tradizione del gruppo. La classificazione del
Malinowski è corretta se si con- sidera la cultura dal punto di vista
funzionale (come insieme di attività volte a provvedere ai bisogni di un gruppo
sociale). Se invece si assume il punto di vista ontologico, che intende
cogliere ciò che la cultura come forma specifica di una società è in se stessa,
allora risulta che i suoi elementi costitutivi es- senziali sono quanto meno
quattro: lingua, tecniche, costumi e valori. 213 La lingua mezzo di
comunicazione con l’altro Le abitudini: incarnazione della vita di un popolo Le
tecniche: espressione delle esigenze dell'ambiente La sfera dei valori:
“sapienza di un popolo’ La vita: valore primario di ogni popolo Dibattito sul
rapporto tra cultura e altre espressioni simboliche cacciare, per arare i
campi, per lavorare i metalli, ecc. Altrettanto fanno i sarti, i cuochi, i
falegnami, i giocatori, i maestri, ecc. Ogni cultura porta con sé tutta una
serie di stili di ordine tecnico e gli individui che né sono in possesso
mostrano chiaramente di fare par- te del gruppo sociale che possiede tale
cultura. Così dal modo di giocare, di cantare, di dipingere, di cucinare, ecc.,
si può facilmente arguire se uno è italiano, francese, russo, cinese, indiano,
ecc. Un altro elemento costitutivo fondamentale di ogni cultura sono i valori.
Ogni cultura si caratterizza per apprezzamenti speciali in ordine a determinate
azioni, abitudini, tecniche, cose. Si tratta di a- zioni, abitudini, tecniche o
cose che rivestono straordinaria im- portanza per il gruppo sociale, il quale
le assume come criteri, come norme, come ideali. Tutti insieme essi
costituiscono la serie dei va- lori. Ogni popolo possiede una coscienza dei
valori, che forma anche ciò che si chiama « sapienza di un popolo ». Mediante
tale « sapien- za » il popolo riconosce, più o meno intuitivamente, il valore
posi- tivo o negativo della realtà, e sa quale deve essere il suo comporta-
mento davanti ad essa. In tutte le culture il primo posto nella sfera dei
valori è occupato dalla vita. La vita è ciò che conta maggior- mente: è il
valore supremo. Gli altri valori come la pace, la giu- stizia, l'onestà, la
bellezza, ecc., sono subordinati ad essa. Le abi- tudini, le tecniche e il
linguaggio circondano la vita come sostegno, come difesa, come promozione, ecc.
Lingua, abitudini, tecniche e valori sono pertanto gli elementi costitutivi
fondamentali di ogni cultura. Sulla base di tali elementi ogni popolo sviluppa
tutti gli altri aspetti che contribuiscono a conferirgli una sua forma
specifica: l’arte, la filosofia, la religione, la scienza, la letteratura, la
politica, ecc. 6. Rapporti tra cultura e religione Nel breve excursus
attraverso la storia del problema culturale abbiamo visto che nell'ultimo
secolo ci sono state vivaci dispute intorno ai rapporti tra la cultura e le
altre espressioni simboliche {scienza e religione in particolare), economiche e
politiche della società. In realtà molti di questi problemi sono stati mal
posti e il loro conflitto è stato determinato dal fatto che essi erano
espressioni di presupposti teorici e ideologici molto diversi, determinati
proprio dall'ambiguità del termine cultura, ai quali abbiamo già fatto rife-
rimento: cultura come erudizione, come formazione (educazione), come struttura
(forma spirituale della società). ° Chi tiene conto della condizione
piurisemantica del termine cul. tura si avvede immediatamente che mettere a
confronto la scienza (oppure la politica) con la cultura è una cosa possibile e
legittima se il termine cultura viene inteso nel primo oppure nel secondo sen-
214 so, perché si tratta di dimensioni o complessi totalmente distinti; mentre
la cosa diviene impossibile e assurda se la cultura viene presa nel terzo
senso; perché secondo questo senso essa ha un valore on- ninclusivo: abbraccia
tutte le espressioni tipiche di un gruppo socia- le, tutti i suoi prodotti e
quindi anche la scienza e la politica. In tal caso domandare che rapporti
intercorrono tra scienza e cultura oppure tra cultura e politica come se si
trattasse di due regni di- stinti o di due edifici separati è incorrere in un
inutile sofisma. Con questo non intendo sostenere che quando il termine cultura
viene usato in senso etnologico la questione risulti del tutto impro- ponibile.
La questione è proponibile purché si tenga presente che essa riguarda i
rapporti di una parte col tutto; in questo caso i rap- porti della politica
oppure della scienza come parti della cultura. Posta in questi termini la
questione ha senso e ha anche un peso non indifferente, perché tocca un
problema assai importante, e cioè: quale ruolo compete alla scienza oppure alla
politica o alla tecnologia in seno al vasto regno della cultura, È in questi
termini che intendiamo sollevare qui una questione che ha diviso profondamente
gli spiriti in Italia e altrove da oltre un secolo: la questione dei rapporti
tra cultura'‘e religione. Nel capitolo dedicato al problema religioso abbiamo
visto come dopo Kant la religione sia stata sottoposta a tutta una critica
serrata: partendo da posizioni differenti, i materialisti, i vitalisti, gli
psica- nalisti, gli esistenzialisti, i neopositivisti, gli strutturalisti hanno
cercato di demolire tutte le basi razionali della religione, conside- randola
un'interpretazione del mondo infantile, non scientifica, alie- nante e
degradante. Queste interpretazioni marcatamente illuministe e razionaliste del
fenomeno religioso non potevano non pregiudicare seriamente la questione dei
rapporti tra cultura e religione. Così i pensato- ri che si occuparono di
questo problema da Nietzsche in poi, men- tre non potevano negare che nelle
culture tradizionali la religione aveva sempre occupato un posto importante e
aveva svolto un ruolo fondamentale, sostenevano quasi tutti che essa aveva
ormai esau- rito la sua funzione storica ed era giunto il momento di dare alla
società una cultura senza religione. Questa tesi dei filosofi — favo- rita
indirettamente dalle scoperte della scienza e dalle conquiste della tecnologia
— fece presa su molti spiriti, che l'accolsero come il nuovo vangelo (il
vangelo dell’ateismo). In breve tempo, la reli- gione, ignorata dalle
manifestazioni pubbliche e sociali della vita, fu ridotta ad una questione
personale, ad un affare privato. Così la religione è scomparsa dalla cultura
come forma spirituale della so- cietà. Ma è proprio vero che il sodalizio tra
cultura e religione si è di- sciolto per sempre e che, in futuro, la religione
non troverà più posto nella cultura come sua componente fondamentale? Molti an-
tropologi culturali e molti filosofi lo negano. Per citare soltanto 215 La
cultura come valore onninclusivo La cultura e il ruolo delle diverse scienze
Rapporto tra cultura e religione Cultura moderna e contemporanea: esaurimento
della funzione storica della religione La religione: esigenza della cultura La
religione come garante dei valori assoluti e fondamento della cultura la
dignità che loro com- pete. Da ciò risulta che tra cultura e religione non si
dà nessuna incom- patibilità e si comprende per quale motivo in tutte le
culture tradi- zionali la religione rappresenta la dimensione primaria,
dominante. È in effetti la religione che facendo da sostegno ai valori
assoluti‘ garantisce un sicuro fondamento anche a tutti gli altri elementi del
vasto edificio della cultura. Pertanto, per passare dalla filosofia alla storia
dei giorni nostri, si può dire che la nostra società secolarizzata ed atea, se
vuole uscire dalla crisi epocale che la divora, deve restituire alla religione
quel 216 la nuova cultura non vuole ricadere nell'errore gravis- simo della
modernità che ha coltivato l’immanenza con l'esclusione della trascendenza,
allo stesso tempo non vuole neppure ricadere nell'errore della cultura
cristiana medioevale e delle culture orientali che hanno coltivato la
trascendenza a spese dell’immanenza. CONCETTI DA RITENERE — Significato
elitario, antropologico, pedagogico di cultura — Accezione soggettiva e accezione
oggettiva di cultura SINTESI CONTENUTISTICA I. DEFINIZIONE 1. Ii problema
culturale si è affermato negli ultimi decenni per lo sviluppo dell'antropologia
culturale e per !a crisi epocale che attualmente la nostra civiltà sta vivendo.
2. Cultura è un termine plurisemantico con tre significati e tre usi prin-
‘cipali: — elitario: la cultura come quantità di sapere generale o specifico. —
pedagogico: la cultura indica l'educazione globale e progressiva del- Yuomo. —
antropologico: ba cultura è l'insieme dei costumi, tecniche e valori che
contraddistiaguono un gnippo sociale, una tribù, un popolo, una nazione. Il. lL
PROBLEMA DELLA CULTURA NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA 1. Fino all’illuminismo si
concepiva la cultura essenzialmente come paideia, formazione della persona. Il
problema veniva quindi affrontato solo in pro- spettiva antropologica ignorando
auella etnologica. 2. Herder e Humboldt, illuministi tedeschi, presero
coscienza che la cul- tura è un fenomeno che riguarda anche il gruppo sociale:
la cultura è sia il vincolo spirituale che tiene uniti i membri di una nazione
sia la realizzazione di un particolare progetto di humanitas. 3. Dalla seconda
metà dell’’800 in poi gli etnologi e antropologi, sia europei che americani,
elaborano teorie generali sui fenomeni culturali e formulano ipotesi
sull'origine, lo sviluppo, i tratti universali, la classificazione, l'assimila-
zione, il collegamento tra le parti di una cultura. 217 Una nuova cultura della
trascendenza 4. I filosofi affrontano e risolvono i problemi della cultura a
partire dalla loro visione della realtà: — Idealisti (Cassirer, Croce, Gentile,
Husserl): Ja cultura di un popolo è segnata dalle varie tappe del processo di
autocoscienza dell'Assoluto. — Vitalisti (Dilthey, Spengler): la cultura è la
massima espressione della vita. — Marxisti (Marx, Lenin, ecc.): la cultura è
rispecchiamento delle condi- zioni economiche di una società. — Strutturalisti
(Levi-Strauss e Foucault): la cultura è prodotto del Pen- siero inconscio. 5.
Negli ultimi anni l’attenzione dei filosofi si è concentrata maggiormente sui
fondamenti della cultura, sui suoi elementi costitutivi, sulle sue funzioni,
sui valori che la animano, sulla progettazione di una nuova cultura. I
caratteri planetari del nostro tempo prospettano l'esigenza di una cultura
planetaria, III. L'UOMO COME ESSERE CULTURALE 1. La filosofia moderna ha
integrato la concezione classica dell'uomo come essere naturale con
l'affermazione che egli è anche essere culturale: diversa- mente dagli altri
viventi, il cui essere è interamente prodotto dalla natura, l'uomo è in larga
misura l'artefice di se stesso. La cultura è elemento costitu- tivo della
natura umana. 2. La cultura nelle sue due principali accezioni di formazione
del singolo (accezione soggettiva) e di forma spirituale della società
(accezione oggettiva) ha lo scopo di realizzare l’uomo in tutte le sue
dimensioni e capacità. 3. Esiste pertanto una profonda interazione tra cultura
e antropologia filo- sofica, poiché è quest'ultima che fornisce alla prima le
linee secondo le quali tracciare il suo progetto-uomo. IV. 'LA CULTURA COME
FURMA SPIRITUALE DELLA SOCIETÀ E I SUOI ELEMENTI FONDA- MENTALI 1 La cultura è
anche l'insieme di quei caratteri che specificano, unifican- doli e
distinguendoli, i vari gruppi sociali. In questa prospettiva la cultura rap-
presenta la vita di un popolo nella sua peculiare identità. 2. L'analisi degli
elementi, che costituiscono la cultura come forma spiri- tuale, ha fatto
giungere alla conclusione che gli elementi costitutivi fondamen- tali di una
cultura sono quattro: la lingua {che sorregge il pilastro simbolico), i costumi
(che sorreggono il pilastro etico), le tecniche (che formano il pilastro
tecnologico), i valori (che rappresentano il pilastro assiologico). 3. La
lingua è il primo elemento che fa uscire il singolo da se stesso e lo mette in
comunicazione con gli altri. Il raggruppamento sociale avviene anzi- tutto e
soprattutto in base alla lingua. 4. Le abitudini o costumi incarnano ed
esprimono lo stile di vita di un popolo, il suo modo di concepire la vita, la
sua visione della natura, della so- cietà, del sacro. 5. Le tecniche
corrispondono alle esigenze dell'ambiente, alla capacità, alla creatività, al
livello di civiltà di un popolo. Ogni cultura porta in sé una serie di stili di
ordine tecnico e gli individui che ne sono in possesso mostrano chia- ramente
di fare parte del gruppo sociale che possiede tale cultura. . 6. I valori sono
caratterizzati da azioni, abitudini, tecniche e cose che rive- stono
straordinaria importanza per il gruppo sociale, che li assume come cri- teri,
norme, ideali. In tutte le culture il primo posto nella sfera dei valori è
occupato dalla vita. 7. Sulla base degli elementi fondamentali ogni popolo
sviluppa tutti gli altri aspetti che generano la sua identità: arte, filosofia,
religione, scienza, let- teratura, politica, ecc. 218 V. RAPPORTI TRA CULTURA E
RELIGIONE 1. Nel passaggio dalla cultura moderna alla cultura contemporanea la
reli- gione, progressivamente soppressa dalle manifestazioni pubbliche e
sociali della vita e relegata alla sfera della dimensione privata, è scomparsa
dalla cul. tura come forma spirituale della società. 2. Tillich, Maritain,
Dawson, Niebuhr, Croce, Berger, Luckmann, Guardini, Toynbee sostengono che la
religione ricomparirà nell'orizzonte culturale del- l'uomo: infatti la
scomparsa della prima determina la disgregazione del secondo. 3. La stessa
essenzialità dei valori nella struttura costitutiva della cultura richiede uno
stretto rapporto tra cultura e religione, poiché solo quest’uitima è in grado
di garantire ai valori quella assolutezza e quella dignità che compete loro. La
religione sostenendo i valori assoluti garantisce inoltre anche tutti gli altri
elementi del vasto edificio della cultura. QUESTIONARIO DI VERIFICA E
DISCUSSIONE 1. Che cosa è la cultura e quali significati gli si può dare? 2.
Perché l'uomo è chiamato essere culturale? ù 3. Quali sono gli elementi
fondamentali della cultura? 4. Quali possono essere considerati i caratteri più
propri della cultura contemporanea? 5. Quale rapporto ci può essere ira cultura
e storia e tra cultura e re- ligione? 6. Una cultura planetaria a quale
progetto-uomo dovrebbe guardare? 7. Quali valori, che possono dirsi smarriti,
l'uomo del terzo millennio do- vrebbe impegnarsi a riconquistare? SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI ABBAGNANO N., L’uome progetto 2000, Dino Editore, Roma 1980.
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Capitolo quindicesimo IL PROBLEMA DEI VALORI. O ASSIOLOGICO QUESTIONARIO
PROPEDEUTICO 1. Quale significato dare alla parola « valore » e che cosa
possono rappre- sentare i valori nelia vita dell’uomo? 2. In che rapporto
stanno essi con la realtà? Perché oggi si parla di « crisi di valori »? Il
problema dei valori ha assunto nel nostro tempo particolare rilievo. La
coscienza dei valori assoluti e perenni quali la verità, la bontà, l'essere,
l'amore, la vita, la giustizia, l'onestà sembra essersi offuscata. ‘La nostra
cultura appare caratterizzata da un diffuso rela- tivismo etico, in nome del
quale la condotta è regolata dal cri- terio dell'utile e del piacere
individuale, piuttosto che dal riferi- mento ai valori oggettivi e universali.
Tuttavia la strada di ritorno verso i valori sembra essere ria- perta proprio
dal malessere esistenziale provocato dalla loro per- dita, cosicché oggi
l'assiologia,) ovvero la scienza dei valori, è colti- vata più che nel passato.
Un tempo, infatti, il compito proprio dell'assiologia era svolto dalla
metafisica, scienza delle « cause ultime », dell’« assoluto », dei « principi
supremi », delle « questioni fondamentali ». Il tramonto della metafisica
nell'orizzonte speculativo dell'età moderna e con- temporanea ha provocato il
progressivo emergere dell’assiologia che, cercando di comprendere la natura dei
valori assoluti e di verificarne la consistenza ontologica, realizza di fatto
le stesse funzioni della metafisica. Essa si colloca pertanto tra le forme più
elevate del sapere umano. In questo capitolo, dopo un breve excursus attraverso
la storia dell’assiologia, ci occuperemo delle seguenti questioni: che cosa
sono i valori in se stessi? Nell’universo che ci circonda che posto occupano?
Quali sono le loro proprietà e le loro funzioni? Qual è la facoltà con cui
percepiamo i valori? C'è una gerarchia nel mondo dei valori? Si può operare
rina classificazione dei valori? Quali sono i valori che contano di più?
Esistono anche valori assoluti? Quali sono? ' Il termine assiolcgia ritrova la
sua etimologia nell’aggettivo greco acsios, che significa « valido », « degno
». Indica quindi in senso proprio la riflessione su ciò che è degno di pieno
riconoscimento da parte della coscienza umana. 221 Importanza attuale de!lo
studio dei valori L’assiologia al posto della metafisica Recente fondazione del
problema: la transvalutazione di Nietzsche Lotze: regno dei fatti; regno delle leggi
universali; regno dei valori Hartmann e l’ultrarealismo: sussistenza dei valori
1. Informazioni storiche sull’assiologia Dei grandi problemi filosofici quello
dei valori è stato messo a tema per ultimo. ‘Esso è diventato oggetto di
analisi sistematica ed approfondita — dando origine a quella nuova disciplina
che porta il nome di assiologia — soltanto dopo che Nietzsche tentò la famosa
operazione della trasvalutazione dei valori con la quale cercava di trasformare
la gerarchia dei valori tramandata dalla cultura greca e dal cristianesimo.
Nietzsche, infatti, cercò di demolire tutti i valori assoluti della logica
(verità), della morale (virtù), della metafisica (essere) e della religione
(Dio) facendo vedere che essi erano valori decadenti e alienanti: un vero
blocco sulla strada che conduce l’uo- mo verso il traguardo del super-uomo. Al
posto dei valori assoluti della logica, della morale, della religione e della
metafisica collocò i valori dinamici e mutevoli della vita, una vita che
accetta fatalistica- mente e innocentemente se stessa in tutte le sue
espressioni. Si può quindi affermare che l’assiologia è nata con Nietzsche
anche se il suo padre effettivo è un suo contemporaneo: Rudolf H. Lotze
(1817-1881). Questi nel suo capolavoro, Microcosmo, distin- gue tre regni di
ricerca: regno dei fatti, regno delle leggi universali, regno dei valori. I
primi due riguardano soltanto i mezzi, il terzo i fini. I primi due sono
studiati dalla ragione col metodo analitico e possono essere considerati in
prospettiva meccanicista. Il terzo è appreso dal sentimento e implica
necessariamente una prospettiva spiritualista. Infatti, fondamento ultimo di
tutti i valori e valore assoluto esso stesso è Dio: « La realtà vera che è e
dev'essere non è la materia e neppure l'Idea hegeliana, ma lo spirito vivente e
per- sonale di Dio ». Sulla linea realista tracciata da Lotze si mossero
Rickert, Eucken e Hartmann. Nicolaj Hartmann (1882-1950) per quanto concerne lo
statuto ontologico dei valori professa una specie di ultrarealismo. I valori, a
suo giudizio, non hanno fondamento né nell'uomo né in Dio, bensì in se stessi:
sono sussistenti alla pari delle Idee di Platone; essi sono dotati di aseità
(Ansichsein). Il valore sussiste indipendentemente ? La filosofia dei valori
(l'assiologia) si costituì come disciplina autonoma solo dopo Nietzsche, ma
spunti di filosofia dei valori si possono rinvenire lungo tutto il corso della
storia della filosofia: in quella greca (Platone e Plotino in particolare), in
quella medioevale (Tommaso e Bonaventura) e in quella moderna (Pascal e Kant).
Quanto a Nietzsche, a giudizio di Heidegger, il suo pensiero è essenzialmente «
una metafisica dei valori ». La metafisica nietzschiana comprende due momenti,
negativo e positivo. Nel primo «i valori supremi vengono svalutati ». Quei
valori che sono stati ritenuti dalla tradizione del pensiero occidentale come i
più alti (l'essere, il vero, il buono, il bello, ecc.) vengono svuotati del
significato fondamentale che avevano man- tenuto nel corso dei secoli. Il momento
positivo è quello in cui Nietzsche opera il « capovolgimento ». Valore è per
Nietzsche tutto ciò che contribuisce al mantenimento e all'aumento della durata
della vita, la quale per svolgersi dispone di un solo mondo: il mondo materiale
e storico. 222 dall'essere riconosciuto, così come due più due continua a fare
quat- tro anche se nessun uomo ne avesse coscienza. Un altro argomento a favore
della autonomia dei valori risulta dal fatto che ci si può sbagliare e anche
riconoscere d'aver sbagliato nella valutazione dei valori: « Non il valore
bensì la percezione del valore è variabile ». Hartmann però rifiuta di dar
consistenza ontologica ai valori fon- dandoli in Dio, perché Dio non esiste né
può esistere se l’uomo è li- bero. Secondo Hartmann l’esistenza di Dio
renderebbe impossibile la libertà e la responsabilità dell’uomo, quindi il
valore morale. Alla interpretazione « realista » dei valori si opposero
Ehrenfels e altri filosofi tedeschi che sostennero la tesi contraria. Secondo
Christian von Ehrenfels (1859-1932) i valori sono semplici stati soggettivi. In
un primo tempo li identificò con il desiderio; succes- sivamente incluse come
componente essenziale anche la « deside- rabilità »; cosicché il valore
comprende sia il desiderio in atto di ciò che non si possiede sia la
desiderabilità, cioè il desiderio poten- ziale che sorgerebbe se si venisse a
conoscere un determinato oggetto o se se ne fosse privi. Pertanto « il valore —
afferma Ehrenfels — è una relazione tra un oggetto e un soggetto, per cui il soggetto
o desi- dera effettivamente l'oggetto, o lo desidererebbe nel caso che fosse
informato della sua esistenza ». La tesi secondo cui i valori sono
semplicemente degli stati soggettivi (gusti personali) — tesi soggettivista —
fu categoricamente respinta e vigorosamente criticata da Max Scheler
(1874-1928), mas-' simo assiologo del secolo XX. Discepolo di Eucken, Scheler
subì so- prattutto l'influsso di Husserl, dal quale apprese il metodo fenome-
nologico, di cui fece largo impiego nella elaborazione della sua filo- sofia
dei valori. La sua opera principale si intitola Der Formalismus in der Ethik
und die materiale Wertethik (Il formalismo in etica e l'etica materiale dei
valori), « l'opera di gran lunga più significativa apparsa da molto tempo »
{Hildebrand). In effetti, l’analisi fenome- nologica della esperienza morale
effettuata da Scheler assumendo la prospettiva assiologica è stata tra le più
fertili del pensiero con- temporaneo. Mediante i’elaborazione di un'etica dei
valori, in cui si rivendica a questa entità una dimensione ontologica che
sfugge a tutte le minacce dello psicologismo, Scheler sottrae la morale a
quelle visioni soggettiviste o positiviste che erano diventate di moda alla
fine dell'Ottocento: nominalismo, psicologismo, pragma- tismo, formalismo
kantiano, idealismo neokantiano, positivismo, ecc. Scheler definisce i valori
come « oggetti autenticamente oggettivi, disposti in ordine eterno e gerarchico
». La sua assiologia si carat- terizza pertanto come realista è come gerarchica
(in forza della stes- sa definizione che egli offre dei valori) ed inoltre come
personalista e teocentrica. ‘Per fissare la gerarchia dei valori Scheler
suggerisce i criteri se- guenti: durata, indivisibilità, fondamentalità,
soddisfazione e grado di relatività. I valori sono tanto più alti quanto più
durano e quanto 223 — Dio rende impossibile il valore morale Von Eherenfelds:
soggettività dei valori e desiderabilità Scheler: — etica dei valori e
fondazione ontologica — assiologia realistica, gerarchica, teocentrica — valori
sensibili, vitali, spirituali, religiosi — modello personale — concretezza del
valore — fondamento e garante dell’oggettività dei valori è Dio (teocentrismo)
La diffusione dell’assiologia dalla Germania all’Europa sono indivisibili, cioè
mentre la partecipazione di più individui a beni di carattere materiale (per
esempio, una torta) è possibile sol tanto mediante la suddivisione di tali
beni, vi sono opere di eultura e di arte per le quali la fruizione di più
individui non richiede tale divisione. Ancora, i valori sono tanto più alti
quanto è più profonda la soddisfazione da essi prodotta. Inoltre, il valore che
fonda è ovviamente più alto rispetto al valore fondato. Infine, ci sono valori
relativi a determinate sfere, come per esempio i valori vitali, e va- lori
assoluti, cioè indipendenti da una determinata sfera, come per esempio i valori
morali. Grazie a questi criteri Scheler fissa una gerarchia dei valori che
comprende quattro livelli: valori sensibili (gradevole-sgradevole), valori vitali
(salute-malattia), valori spiri- tuali (vero-falso, buono-cattivo, ecc.),
valori religiosi (saero-profano, beatitudine-infelicità, ecc.). La terza
caratteristica dell’assiologia scheleriana è di essere per- sonalista. Nella
prefazione alla seconda edizione di Der Formali- smus ha scritto: « Il
principio fondamentale secondo cui tutti i va- lori debbono essere subordinati
al valore di persona [...] è così im- portante per l’autore che egli, nel
titolo del libro, ha anche qualif- cato il suo saggio come un “nuovo tentativo
di personalismo” ». Il carattere personalista della assiologia scheleriana
emerge anche dalla teoria dei modelli personali. Secondo Scheler ai valori
danno sostanza, concretezza, si potrebbe dire corporeità, i modelli perso-
nali. Così, per apprezzare e seguire il valore-giustizia, occorre guar- dare al
Giusto, per il valore-fortezza all'Eroe, per il valore-santità al Santo, ecc.
La quarta caratteristica dell’assiologia scheleriana è di essere feocentrica.
Per Scheler Dio occupa il primo posto sia come persona sia come valore e fa da
fondamento e da sostegno di ogni altra per- sona come pure d'ogni altro valore.
« Tutti i valori possibili — scrive Scheler — sono fondati sul valore di uno
Spirito infinito e sul “mon- do dei valori” che gli sta di fronte. Gli atti,
che comprendono i valori, in tanto comprendono valori assolutamente oggettivi
in quanto ven- gono compiuti “in” Lui, e i valori sono valori assoluti soltanto
in quanto compaiono in questo regno ». Dal purito di vista fenomeno- logico Dio
fonda tutti i valori in quanto lui solo può assicurare loro quell’assoluta
oggettività che non può essere garantita mediante una misura valutativa
semplicemente umana: soltanto il valore del sa- cro fa sì che l’assiologia
trascenda la sfera antropomorfica e a for- tiori quella vitalista. Gli sviluppi
più importanti e più originali dell’assiologia ebbero dunque luogo in Germania
per merito dei filosofi che abbiamo ricor- dato. Successivamente il problema
assiologico destò l'interesse an- che di filosofi italiani (Stefanini e Prini),
francesi (Lavelle e Le Senne), spagnoli (Ortega y Gasset), argentini (Derisi),
inglesi (Moore), americani (Dewey), ecc. Qui noi riferiremo ancora brevemente
sul 224 pensiero di Lavelle e Le Senne in quanto, a nostro avviso, offrond
spunti interessanti per la soluzione del problema assiologico. Per Louis
Lavelle (1883-1951) il problema assiologico ha un carattere essenzialmente
metafisico. Il fatto contingente che talune filosofie dei valori abbiano
assunto un carattere antintellettualistico, sentimentalistico e irrazionale,
non deve interferire col genuino pro- blema del valore, il quale, al di fuori
di ogni moda di tempi e di luoghi, è di competenza della metafisica. Il
principio supremo della metafisica teorizzata da Lavelle è l’es- sere, la cui
essenza è atto, inteso come perfezione assoluta, efficacia pura, sorgente di
ogni determinazione e di ogni valore. Da questo principio si snoda la teoria
assiologica del Lavelle. Se « l'essere alla sua radice è atto, cioè interno a se
medesimo; se è un sé che è anche un per sé, è evidente che c’è identità fra
l'essere e la sua giustifi- cazione. Di qui l'impossibilità di staccare
l’ontologia ‘dall’assiolo- gia ». Non a caso la filosofia classica aveva
accostato, fino a confon- derle, le due nozioni dell'essere e del bene.
Approfondendo il concetto di valore, Lavelle osserva che il va- lore non si
identifica col bene, tuttavia esso ha col bene un rapporto analogo a quello che
ha l’esistenza con l'essere. Come l'esistenza è l'essere in quanto si incarna e
diventa concreto, così îl valore è il bene in quanto riferito a un oggetto di
cui facciamo uso, a una vo- lontà che si sforza di coglierlo; e come
l’esistenza è l'essere in quanto riceve una forma interiore e individuale, così
il valore è il bene, in quanto implica un'attività che tende a realizzarlo.
Perciò, mentre il bene ha sempre un carattere assoluto, il valore ha un
carattere re- lativo. Ma — avverte Lavelle — su questa relatività del valore
oc- corre essere cauti: infatti il valore è nelle cose ciò che esprime la loro
relazione all'assoluto; è ciò che permette di elevare all’asso- luto ogni cosa
relativa. Pertanto il valore non è una proprietà statica ma fortemente
dinamica: esso provoca il soggetto e lo tra- scina all’azione. « L'errore più
grave — dichiara Lavelle — è pen- sare che il valore sia un oggetto che si
contempla, mentre al contrario è sempre un'azione da farsi e una pratica da
seguire ». Nel suo Breviario di metafisica assiologica René Le Senne (1882-
1954) respinge sia il naturalismo sia il nichilismo, e si oppone sia al
sociologismo sia allo psicologismo per affermare ad un tempo tan- to la
trascendenza quanto l'immanenza, sia il carattere oggettivo che soggettivo dei
valori: « Il valore deve, per la sua origine, esserci tra- scendente », ma «
tale estrinsecità resterebbe sterile se il valore non fosse fatto per
discendere nella nostra esperienza: tale discesa può essere spirituale solo
grazie al concorso degli spiriti umani per i quali il valore deve rendersi
attuale. [...] Il valore universale deve rinfrangersi e persino frazionarsi
secondo la diversità di sfu- mature e la profondità dei tagli consentiti
dall'unità e dalla moltepli- cità relativa degli spiriti ». Della filosofia dei
valori si sono occupati anche vari neotomisti: 225 Lavelle: — assiologia e
ontologia: identità tra l'essere e la sua giustificazione (carattere
metafisico) — rapporto analogico tra essere e bene Le Senne: trascendenza del
valore I neotomisti: oggettività e fondazione ontologica del valore Difficoltà
di definire il valore Il valore in economia, in etica, in ontologia Wittmann,
Rintelen, De Finance, Derisi, ecc. Questi filosofi difendono l'oggettività dei
valori e escludono sia l’interpretazione psicologistica che riduce i valori a
meri sentimenti personali sia l’interpretazione ultrarealistica che fa dei
valori realtà sussistenti analoghe alle Idee platoniche. Il valore ha carattere
oggettivo in quanto si fonda sul- l'essere. Però, a giudizio di questi
filosofi, il valore non costituisce una proprietà trascendentale dell'essere
distinta dal bene: sostan- zialmente il valore si identifica col bene, anche se
connota più del bene una relazione al soggetto, all'uomo. In effetti, « il
valore, qua- lunque esso sia, non ci si rivela pienamente che nell'atto in cui
è effettivamente amato, stimolato, desiderato, ecc. [...] Nel desiderio e
nell'amore in atto, e lì soltanto, il bene — esercitando la sua causalità
propria — si manifesta e diviene, per il soggetto, in “atto ultimo” un valore »
(De Finance). 2. Definizione del valore Come tante altre parole dense di
significato (ente, realtà, verità, tempo, onore, ecc.) anche la parola « valore
» a prima vista sembra chiara, quasi ovvia; ma poi, ad una considerazione più
attenta ed approfondita, essa risulta nebulosa, oscura, difficile a definirsi.
« Il senso esatto di valore — osserva André Lalande — è difficile da de- finire
rigorosamente perché il più delle volte questa parola esprime un concetto
instabile, un passaggio dal fatto al diritto, dal desiderato al desiderabile »
Nella lingua italiana essa possiede tre significati principali: eco- nomico,
etico, ontologico. In economia significa « danaro »; in etica indica la virtù
con cui si affrontano gravi pericoli e si compiono grandi imprese; in ontologia
dice la qualità per cui una cosa possie- de dignità ed è, quindi, degna di
stima e di rispetto: « valore — in questo senso — è ciò per cui un essere è
degno di essere, un'azione è degna di essere compiuta ».* Di questi tre
significati quello che interessa quando si affronta il problema assiologico è
soprattutto l'ultimo, che è senza dubbio il più importante, ma anche il più
oscu- ro, il più problematico, il più disputato. Il suo regno è vastissimo:
infatti, tutto ciò che è ritenuto prezioso, e che in qualche modo può
contribuire al perfezionamento dell'uomo o come singolo o come es- sere
sociale, merita stima ed è perciò un valore. Dalla complessità delle questioni
relative alla categoria del valore, come risulta anche dall’excursus storico
precedente,.quello che ha dato luogo alle dispute più accese e alle soluzioni
più di- sparate è il problema dello statuto ontologico dei valori. Per questo
»? A. LALANDE, Dizionario critico della filosofia, ISEDI, Milano 1971, p. 977.
‘ R. GUARDINI, Libertà, grazia, destino, Morcelliana, Brescia 1957, p. 85. 226
e anche perché la sua soluzione condiziona praticamente la soluzione di tutti
gli altri problemi, lo affrontiamo per primo. 3. Lo statuto ontologico dei
valori La questione dello statuto ontologico dei valori si domanda che cosa
sono i valori in se stessi: sono entità reali, oggettive come una casa, un
tavolo, il Monte Bianco, la luna; oppure sono realtà fittizie, semplici
aspirazioni soggettive o ideali astraiti, come una montagna d'oro oppure una
società seriza classi? Qui vale la pena precisare che la questione riguarda la
categoria del valore in generale e non valori singoli (come la bontà, la
verità, la persona, ecc.). Ed è chiaro che si tratta di due problemi distinti
come chiedere chi è l’uomo è certamente altra cosa dal domandarsi chi è
‘Pietro, Paolo o Giovanni. D'altronde la questione dello statuto ontologico
espressa in forma generale ha senso solo con riferimento al valore in generale,
perché solo ad essa si può dare una risposta univoca. Se si solleva con riferimento
alle singole cose che sono dotate di dignità assiologica, si possono ottenere
un'infinità di ri- sposte, perché ci sono valori reali e valori possibili,
valori concreti e valori astratti, valori spirituali e valori materiali, ecc.
Dall’excursus storico risulta che tre sono le principali soluzioni che sono
state daie alla questione dello statuto ontologico dei valori. La prima afferma
che sono entità oggettive, sussistenti in se stesse (Lotze, Windelband,
Scheler, Hartmann). La seconda sostiene che i valori sono semplicemente dei
sentimenti e perciò non hanno nes- suna realtà propria, ma esistono
esclusivamente come fenomeni sog- gettivi, come disposizioni o aspirazioni
della psiche (Meinong, Ehren- fels, Freud). La terza considera il valore né
come una entità a sé stante né come un fenomeno soggettivo, bensì come una
proprietà trascendentale dell'essere e lo identifica generalmente con il
classico trascendentale del bene (De Finance, Lavelle, Hammer). A mio avviso
nessuna di queste tre soluzioni è adeguata, anche se ciascuna esprime una parte
di verità. La verità parziale sottolineata dalla prima è l’obiettività del
valore; quella messa in luce dalla seconda è il suo rapporto col soggetto,
l'uomo; quella indicata dalla ierza è il suo rapporto col bene. Si tratta
effettivamente di tre pro- prietà dei valore, ma nessuna di esse esaurisce
tutta la sua realtà. Ma, allora che cosa è il valore in se stesso? Il valore è
un trascen- dentale, come afferma la terza teoria, cioè è una qualità che
appar- tiene all'essere in quanto tale, e perciò è presente in ogni cosa come
gli altri trascendentali (unità, bontà, verità, bellezza). È una pro- S Per le
posizioni personali della maggior parte degli autori ricordati in questo
capoverso si veda: C. Rosso, Figure e dottrine della filosofia dei valori,
Guida, Napoli 1973. 227 I valori: entità reali o fittizie? Il problema vale per
il valore in generale Tre soluzioni: — entità oggettive- sussistenti —
sentimenti — proprietà trascendentale dell'essere Il valore: proprietà dell’essere
Il valore è un trascendentale a sé Proprietà comuni agli altri trascendentali:
— coestensività — convertibilità prietà trascendentale e non predicamentale: è
cioè una proprietà universale che accompagna tutte le cose e non è ristretta ad
una sola classe di esseri, ad una sola categoria. Il valore è un trascendentale
perché di tutte le cose si può chiedere sensatamente se è un valore: dell’aria
come dell’acqua, del sole come delle stelle, di una bambola come di un pallone,
di un libro come di un quadro, di una capra come di un elefante, di un fiume
come di una montagna, ecc. Mentre non si può sensatamente chiedere se il fiume
è una montagna, se la capra è un elefante, ecc. Nel regno dei trascendentali il
valore occupa un posto a sé, distinto da quello occupato dal bene, dal vero,
dal bello. Infatti il valore è la dignità di una cosa, non la verità, non la
bontà e neppure la bellezza. Il valore è una facciata dell'essere distinta
dalle altre tre grandi facciate; tant'è vero che in noi mette in moto una facoltà
di- versa da quelle che sono interessate alle altre tre facciate: la verità
mette in moto la conoscenza, la bellezza, l'ammirazione e il piacere; la bontà
il desiderio e la volontà; mentre il valore, la dignità di una cosa ci provoca
alla estimazione, alla valutazione. Come trascendentale il valore ha in comune
con gli altri trascen- dentali alcune proprietà importanti. Anzitutto la
coestensività con l'essere: là dove c'è essere c'è valore e dove c'è valore c'è
essere. Il valore non si distingue dall'essere e dagli enti (cioè dalle
incarna- zioni dell'essere) fisicamente, materialmente e neppure realmente;
perché separare il valore dall'essere significa distruggerio, sprofon- dandolo
nell'abisso del nulla. Il valore si distingue dall'essere concet- tualmente,
logicamente, il che non vuol dire arbitrariamente, perché si tratta di una
distinzione concettuale fondata nell'essere stesso, nel- la sua
pluriprospetticità rispetto alle nostre facoltà e alle nostre
possibilità. Il valore esprime una
modalità dell'essere che l’accom- pagna necessariamente e non accidentalmente;
la sua dignità, una modalità che nel nome puro e semplice dell'essere o degli
altri tra- scendentali rimane inespressa” Una seconda proprietà del valore, in
quanto trascendentale, è di essere convertibile con l'essere e con gli altri
trascendentali: verità, bontà, bellezza. Coestensivo con l'essere è
necessariamente coesten- sivo con gli altri trascendentali che sono a loro
volta coestensivi con l'essere. E, dato che anche tra gli altri trascendentali
e l'essere si dà soltanto una distinzione logica e non una distinzione reale,
ne segue che, per quanto concerne la realtà, tutti i trascendentali coincidono,
pur restando logicamente e necessariamente distinti tra di loro. Per questo
motivo, grazie alla convertibilità, nell'essere e negli enti tanto c'è di vero
altrettanto c'è di buono, tanto c’è di buono altrettanto c'è di bello, e tanto
c'è di buono, di vero e di bello e altrettanto c'è di valore. £ Su questa
proprietà dei trascendentali vedi S. ToMmMASO D'AQUINO, De veritate, q. I, a.
l. 228 Una terza proprietà che il valore ha in comune con gli altri tra-
scendentali è la relazione bipolare: il valore ha due poli, un polo soggettivo
e un polo oggettivo. Per quanto si dice che il valore è una correlazione:
correlazione tra dignità ed estimazione, analoga alla correlazione tra verità e
conoscenza, tra bontà e desiderio, tra bel- lezza ed ammirazione. Che il valore
abbia bisogno di due poli e che si tratti effettivamente di una correlazione
tra due poli, risulta dal fatto che è un trascendentale, cioè una modalità
dell'essere (e non una fetta di essere), che non spunta dall'essere da sola
come un ramo dal tronco di un albero, ma solo in rapporto ad una facoltà di un
es- sere intelligente e grazie alla sua azione. E come il vero nasce dal
rapporto dell'essere con la conoscenza, il buono dal svo rapporto con il
desiderio o la volontà, il bello dal suo rapporto cor l'ammira- zione, così il
valore nasce dal suo rapporto con la estimazione. Come tutti gli altri
trascendentali, anche il valore possiede due dimensioni, una soggettiva ed una
oggettiva. Tali dimensioni deri- vano immediatamente e direttamente dalla sua
proprietà di essere una correlazione. Con questo si vede quanto siano infondate
ed errate sia la teoria degli psicologisti, che riducono il valore al sen-
timento, sia quella dei platonici che fanno dei vaiori delle realtà
sussistenti. Anzitutto il valore gode della prerogativa dell’oggettività, e a
provario ci vuol poco. Basta tener presente la verità che il valore è una
proprietà trascendentale dell'essere (che è l’oggettività per essenza). il
valore è radicato nell'essere; è una facciata dell'essere, è uno dei suoi
aspetti fondamentali e più interessanti. Ti valore è og- gettivo come è
oggettiva la verità, come è oggettiva la bellezza, come è oggettiva la bontà.
Ma c'è anche un secondo argomento che con- ferma l'esattezza di questa
assegnazione: dell’oggettività ai valore. In quanto trascendentale il valore è
oggettivo perché non è una creazione e neppure un'arbitraria invenzione della
psiche umana. Ci sono valori creati dall'uomo, ma non il valore come proprietà
fon- damentale dell'essere. Non si può parlare seriamenie di creazione del
valore da parte dell'uomo. L'uomo può produrre oggetti, cose, ma non il loro
valore. L'attività creatrice dell'uomo è volta agli og- getti non ai valori;
può produrre una bella statua, ma non il valore artistico; può compiere una
buona azione, ma non generare il valore della bontà; può inventare la radio, ma
non il valore delle comu- nicazioni. L'uomo può solo produrre oggetti di valore
non il valore. Cosicché gli oggetti e le azioni di valore, per quanto concerne
la di- mensione del valore, rinviano ad un fondamento diverso dall'uomo e a lui
superiore. Del resto, quanto meno in rapporto a determinati valori, l’uomo ha
la sensazione netta di non esserne l’inventore e il padrone, bensì il servo e
il discepolo. Di fronte a valori quali la giustizia, la verità, la saggezza, la
prudenza, l’amore, la bontà, ecc., l’uomo si sente più passivo che attivo: sono
valori che agiscono su di lui; lo guidano, lo provocano, lo stimolano, lo
attraggono, lo 229 — relazione sipolare Ls due gdimensioni diei valori:
oggettiva e soggettiva Valore come proprietà trascendentale dell'essere I
valori fanno crescere l’essere dell’uomo Il polo soggettivo: ia stima è valore
senza l’uomo resta inespresso Necessità di un’educazione della facoltà dei
valori elevano e lo arricchiscono. Non è l'uomo che comunica l'essere ai
valori, ma viceversa sono i valori che contribuiscono a far crescere l'essere
dell'uomo. L'uomo ha indubbiamente il potere di scoprire i valori ma non il
potere di crearli. « Ogni vero valore porta in se stesso il suo significato. La
“fortezza” è appunto fortezza e, in quanto fenomeno originario, non può essere
derivato da nessun altro. Perciò l'uomo la può realizzare solo muovendo da
essa, in quanto agisce “fortemente” e diviene “forte” ». Ma per avere il valore
non basta il polo oggettivo: la dignità dell'essere; occorre anche quello
soggettivo: la stima da parte del- l’uomo. Come non c'è bellezza senza
ammirazione, né verità senza conoscenza, né bontà senza volontà, così non
fiorisce la dignità dell'essere o di un ente senza l’estimazione. In effetti,
il valore emerge nel momento in cui c'è un soggetto, l’uomo, che compie un atto
positivo di valutazione, di estimazione e che, così, riconosce la dignità di
una cosa, di una persona o di un'azione (analogamente alla verità: questa emerge
nel momento in cui una intelligenza cono- sce una cosa). Il valore, senza
l’uomo, rimane inespresso, occulto, celato: non risplende; è come un sovrano
senza sudditi, vale a dire non esiste più come sovrano. Può rimanere il regno
dell'essere, ma scompare il regno dei valori. Si può dire che il valore, in
quanto trascendentale, è essenzial- mente dotato sia di oggettività sia di
soggettività. Possiede oggetti- vità perché è fondato sull'essere. Il valore
non è una chimera ma un aspetto primario, fondamentale, costante, perenne
dell’essere e degli enti. Però il valore è oggettivo non alla maniera di una
cosa, diuna sostanza e tanto meno alla maniera di un'idea sussistente, ma alla
maniera di una relazione. Ed è oggettivo perché il primo termine della
relazione assiologica è appunto l’essere. Ma il valore è anche dotato di
soggettività, perché il secondo ter- mine della relazione assiologica è il
soggttto: l'uomo o un altro es- sere intelligente. In forza del polo soggettivo
il valore può sbocciare soltanto dove c'è predisposizione e preparazione per
accoglierlo, per riconoscerlo. I colori sono oggettivi ma i sassi non li
vedono. Ci vuole la vista per percepirli. Certi odori o profumi sono oggettivi
ma ci vuole un particolare addestramento per avvertirli (cani da caccia, cani
poliziotto, ecc.). Altrettanto accade per i valori. La dignità del- l'essere e
degli enti, ia dignità della natura e degli animali, la dignità della famiglia
e della patria, la dignità dell'uomo e la dignità di Dio è indubbiamente
oggettiva ma per coglierla occorre un'adeguata educazione della facoltà
dell’estimazione da parte del soggetto, da parte dell'uomo. Senza
un'appropriata educazione della facoltà dei valori, in particolare quando si
tratta di valori assoluti, trascendenti, pe- renni, si perde la capacità di
percepirli. Allora i valori si offu- ? R. GUARDINI, Libertà, grazia, destino,
Morcelliana, Brescia 1957, p. 85. 230 scano, si eclissano, scompaiono. È,
purtroppo, quanto sta suc- cedendo nella nostra cultura e nella nostra società.
4. Gerarchia e classificazione dei valori Dopo avere chiarito che il valore è
una relazione trascendentale dotata di un polo soggettivo e di un polo
oggettivo e che il primo affonda le radici nell'uomo e il secondo nell'essere,
possiamo risol- vere due complesse questioni assiologiche, che hanno visto i
filosofi diversamente schierati circa le questioni delia gerarchia e delia
classificazione dei valori. a) La gerarchia dei valori - Nel campo del valore,
come nei campi della bontà, della bellezza e della verità vi è una varietà di
gradi (rispetto al valore non tutte le cose e ie azioni stanno alla pari, ma ci
sono quelle che hanno maggior valore e quelle che hanno minor valore) e c'è
pertanto una gerarchia, ia quale presenta al ver- tice un valore massimo, con
dignità piena, assoluta, totale, incon- dizionata, perenne, mentre alla base,
cioè sui gradini più bassi, pre- senta valori con poca dignità: una dignità
caduca, relativa, condizio- nata, parziale, provvisoria, evanescente. Che
rispetto al valore, come rispetto al bene, alla verità e alla bellezza esistano
dei gradi pare cosa abbastanza ovvia; perché se il valore è una proprietà
trascendentale dell'essere, essendoci grada- zioni nell'ordine dell'essere, ci
sono gradazioni anche in quello del valore, e certo nell'ordine dell'essere ci
sone gradazioni: non c'è pa- rità di essere tra un lombrico e un cane, e ira un
cane ed una donna! Il grado del valore corrisponde a quello dell'essere. Quanto
più ele- vato è il grado di essere che una cosa possiede, tanto più grande è il
suo valore. E che questo sia vero lo conferma anche il fatto che,
obiettivamente parlando, noi riconosciamo maggior valore ad un animale che ad
un pezzo di legno, ad un bambino che ad un cane, ad una persona che ad una
cosa. Ma se il principio della gradazione dei valori risulta abbastanza ovvio,
non si può dire altrettanto della ijoro gerarchia. In effetti, su questo punto,
ancor più che altrove, non solo non si registra nessun accordo nella prassi
quotidiana, ma neppure nelia speculazione degli studiosi. I filosofi dei valori
hanno proposto scale gerarchiche molto disparate (basta confrontare la scala di
Nietzsche cor quella di Scheler, o la scala di Marx con queila di Lavelie!}.
Questo perché nel fissare le loro gerarchie hanno assunto prospettive spesso
diametral- mente opposte. A mio avviso c'è un criterio valido per stabilire una
gerarchia og- gettiva e completa dei valori. S'è visto che i valori non sono
entità astratte, cose in sé, ma dimensioni della realtà, più esattamente re-
lazioni, che hanno vitale, capitale importanza per l'uomo. I vaiori 231 Varietà
di gradi 6 gerarchia i Corrispondenza ira grato cCell’essere e grad dei valore
Disaccordo sulla Gerarchie dei valori Criterio di riferimento: il valore e la
realizzazione del progetto-uomo Progetto-uomo e dimensione religiosa: Dio al
vertice Valori economici, culturali, spirituali sono le guide, i mezzi che lo
aiutano a realizzare il proprio progetto di umanità. Ecco, quindi il criterio
per stabilire la gerarchia dei valori: il criterio è fornito dall’apporto che
una cosa, una persona, un'azione può dare alla realizzazione del progetto-uomo
e del valore- uomo. Una realtà occupa uno scalino tanto più elevato nella
gerarchia dei valori, quanto maggiore è il suo apporto in tal senso, e tanto
più basso quanto minore è il suo contributo. In effetti, le gerarchie dei
valori sono state stabilite da quasi tutti gli studiosi con questo criterio. E
se le gerarchie risultano disparate e contrastanti, lo si deve semplicemente al
disaccordo che regna tra i filosofi intorno al progetto-uomo. Se si accetta il
progetto nietzschiano si ottiene una gerarchia che ha al vertice la volontà di
potenza; se si accoglie il progetto marxista il primo posto nella gerarchia dei
valori tocca al lavoro; se si assume il progetto freudiano si elabora una
gerarchia fondata sul primato del piacere. Invece, un progetto-uomo che — per
essere fedele a tutti i dati della nostra esperienza — tiene conto anche della
esperienza della trascendenza e perciò non trascura né soffoca la dimensione
religiosa, non può non collocare al vertice della scala dei valori che Dio
stesso. Lui — già degno della massima stima, rispetto e lode in se stesso — è
anche degno della massima considerazione in rapporto al pro- getto-uomo, perché
Egli solo è in grado di assicurare all'uomo l’at- tuazione piena del proprio
progetto di umanità. Un progetto-uomo studiato sulla base di una visione
globale di ciò che l'uomo è e di ciò che nel piano di Dio è chiamato a
diventare, riesce non solo ad accertare che Dio è il valore sommo e che sta
quin- di in cima alla scala gerarchica dei valori, ma è anche in grado di
individuare, sempre in base al progetto-uomo, gli altri gradini più importanti,
perché sa che l'uomo è costituito essenzialmente di tre dimensioni: corpo,
anima e spirito. Dopo Dio, vengono pertanto altri tre ordini di valori, che
sono quelli che contribuiscono alla realizzazione del progetto-uomo a livello
somatico, a livello psichico e a livello spirituale: si tratta dei valori
economici, dei valori cultu rali e dei valori spirituali. I valori economici o
vitali sono quelli che contribuiscono alla pre- servazione della vita e alla
conservazione, sviluppo, salute e piacere del corpo. I valori culturali, in
senso stretto, sono quelli che con- tribuiscono immediatamente alla
coltivazione, crescita, elevazione dell'anima o più esattamente della mente. I
valori spirituali sono quelli che giovano alla cresciia, allo sviluppo e al
perfezionamento dello spirito. Qui è opportuno notare — per non incorrere nell’accusa
di' sog- gettivismo — che scegliere l'uomo come punto di riferimento nella
determinazione della gerarchia dei valori è altra cosa dal fare del- l'uomo la
misura, il metro dei valori o il loro creatore. I valori han- no la loro
consistenza ed autonomia e si trovano ad un livello più o meno elevato rispetto
all'uomo secondo la loro dignità intrinseca 232 e secondo il contributo che
danno alla realizzazione del progetto- uomo. Certo, il riferimento al
progetto-uomo spiega ancor meglio quella dimensione soggettiva che è propria
del valore, di cui si è detto in precedenza: perché colui che coltiva e incarna
i valori non è la natura in astratto, ma l'individuo concreto (Pietro, Paolo,
Luca, Carlo, ecc.), la persona storica, la quale per la realizzazione del pro-
prio progetto di umanità può essere maggiormente interessata ad alcuni valori
(economici, spirituali, culturali) che ad altri. Né l'assunzione del
progetto-uomo come criterio per stabilire la scala dei valori fa scomparire la
distinzione fondamentale tra valori assoluti (che sono quelli che hanno dignità
e sono meritevoli di stima e di rispetto in se stessi e non in ordine ad altri
valori) e valori strumentali (che hanno dignità e sono meritevoli di stima solo
in quanto giovano alla realizzazione dei valori assoluti). La distinzione
rimane salva (anzi, più salva che mai), perché la realizzazione di un valore
assoluto partecipato, qual è l'uomo, reclama l’esistenza di valori assoluti
sussistenti, in particolare di quel valore assoluto sussistente, fondamento
ultimo di ogni altro valore, che è Dio. b) Classificazione dei valori - Il
regno dei valori è immenso: pra- ticamente abbraccia ogni pensiero, ogni
azione, ogni cosa e ogni per- sona. È possibile allora effettuare una
classificazione dei valori? Pare di sì e molti autori ci hanno provato. Una
delle classificazioni più note è quella di Scheler, la quale riduce tutti i
valori a quattro gruppi principali: valori edonistici, vitali, spirituali e
religiosi. Questa classificazione è buona per distinguere, come in effetti
voleva Scheler, i vari gradi dei valori, ma non serve per determinare le gran-
di aree assiologiche. A tal fine credo che si riesca ad ottenere una
classificazione più adeguata distribuendo i valori in dieci grandi gruppi. Si
tratta di una classificazione empirica, ma abbastanza sod- disfacente in quanto
riesce a trovare una sistemazione a tutto ciò che possiede una dimensione
assiologica. I dieci gruppi sono: 1. valori ontici (il primo valore è
l'essere); 2. valori personali (il primo è la persona); 3. valori sociali (il
primo è la famiglia); 4. valori economici (il primo è il lavoro); 5. valori
culturali (il primo è la cultura); 6. valori somatici (il primo è il corpo); 7.
valori noetici {il primo è la verità); 8. valori estetici (il pri- mo è la
bellezza); 9. valori morali (il primo è la bontà); 10. valori re- ligiosi (il
primo è il sacro). Come si vede in ogni gruppo c’è un valore primario, un
valore principe, un capofila. Intorno ad ogni valore primario si dispone una
costellazione più o meno grande di altri valori che appartengono allo stesso
ordine e partecipano alle qualità del valore primario. Così, tutto ciò che gode
della perfezione dell'essere partecipa anche al suo valore e diviene pertanto
un valore ontico. E quanto più grande è la perfezione di una cosa in rapporto
all'essere tanto più elevato è il suo valore ontico. Sono dotate di valore
ontico le piante, le 233 Progetto-uomo e dimensioni soggettive La
classificazione dei valori secondo Scheler Valore primario e costellazione di valori
Gruppo di valori e scienza principale Percezione dei valori: col sentimento o
con i‘ intuizione? Percepire i valori con la facoltà estimativa case, i fiumi,
i laghi, ie persone, la terra, il cielo, la natura..., Dio, Valore assoluto in
tutti gli ordini e fondamento di ogni altro valore, Dio è il primo (non in
quanto prototipo ma in quanto fuori serie) anche nell'ordine ontico. Per lo
studio di ogni singolo gruppo di valori esiste una scienza principale, che è
quella che si occupa direttamente del valore pri- mario, e tutta una serie di
altre scienze, che sono quelle che studiano gli altri valori della stessa
costeliazione. Così per esempio, per il primo gruppo c’è la metafisica, che si
occupa direttamente e prima- riamente dell'essere. A fianco della metafisica
per lo studio dei vari gradi dell'essere siedono la teologia (che studia Dic),
l'astronomia {che studia i corpi celesti), la fisica (che studia la natura), la
ma- tematica (che studia i numeri), l'antropologia (che studia l’uomo). 5. La
facoltà dei valori Qual è la facoltà con cui percepiamo i valori? Anche questo
è un problema che è stato molto dibattuto dai filosofi dei valori e le
soluzioni che sono state proposte sono varie. Secondo aicuni la facoltà dei
valori è il sentimento. Questo però viene inteso da alcuni come una
disposizione totalmente soggettiva (come quella che percepisce il piacere, il
dolore, la gioia, ecc.), men- tre da altri viene considerato come un sentimento
del tutto speciale, che ha una intenzionalità squisitamente oggettiva. Secondo
altri fi- losofi la facoltà dei valori è l'intuizione: una specie di visione
in- tellettiva, che coglie immediatamente i valori, così come la visione
sensitiva coglie immediatamente i colori. Noi siamo del parere che il valore
sia, come gli altri trascenden- tali, oggetto di una facoltà particolare. Come
la verità è oggetto della conoscenza, il bene della volontà e del desiderio, la
bellezza dell’am- mirazione, così dev'essere anche del valore. Ma qual è la sua
facoltà? Forse il sentimento, oppure l'intuizione? Non v'è dubbio che l’in-
tuizione interviene in alcuni casi e un sentimento del tutto parti- colare
(l’empatia) in altri. Ma in generale non direi che la facoltà che percepisce il
trascendentale del valore o la dimensione assiolo- gica di una determinata cosa
o di una certa azione sia il sentimento oppure l'intuizione, bensì la facoltà
valorativa e cioè l’estimativa, che è altra cosa sia dal sentimento sia
dall’intuizione, pur non esclu- dendoli. L'estimazione, cioè la percezione
dell'essere o di un ente come va- lore, non è né una semplice intuizione (nuda
riproduzione dell’og- getto come nella percezione della verità) né puro
sentimento {cioè un rapporto affettivo ed emozionale come nella tendenza
appetitiva verso un bene). L'estimazione, come s'è detto, li può comprendere
en- trambi, senza tuttavia risolversi né nella prima né nel secondo e neppure
nella simbiosi di tutt'e due. 234 Il valore è l'oggetto proprio
dell’estimativa, così come il colore Io è della vista, il sapore del gusto, la
verità della conoscenza, il bene della volontà, la bellezza dell’ammirazione.
L’estimativa co- glie l'oggetto come più o meno degno, più o meno valido, così
come il gusto lo coglie come più o meno gradevole, l'udito come più o meno
rumoroso, l'intelligenza come più o meno evidente, la volontà come più o meno
buono o utile, l'ammirazione come più o meno bello. E non può essere che così
perché, come abbiamo mostrato in pre- cedenza, la dimensione dell'essere che
viene alla luce attraverso il valore è una dimensione diversa da quelle che
emergono attraverso la verità, la bellezza e la bontà, ed è logico che come
queste tre ci inter- pellano ciascuna mediante una distinta facoltà,
altrettanto accada per il valore: la sua facoltà è l'estimativa. ‘Per il
costituirsi della categoria del valore l’estimativa è indi- spensabile. Dove
non c'è apprezzamento, estimazione, si danno bruta facta, oggetti, cose; non
affiorano ancora i valori. Alla pari della facoltà gnoseologica (che coglie la
verità), etica (che coglie la bontà) ed estetica (che coglie la bellezza),
anche la facoltà assiologica opera in diversi modi a seconda del livello
(grado) dei valori che è in gioco. Ai diversi gradi di valore corrispondono
dif- ferenti operazioni assiologiche. Nel caso dei valori materiali si può
realizzare un’estimazione in base ad una semplice intuizione della cosa oppure
di un'analisi ed un processo raziocinativo più o meno prolungato. Nel caso dei
valori assoluti sussistenti (Dio, la Trinità, ecc.), l'estimazione è sostenuta
dal ragionamento oppure dalla fede. Nel caso dei valori morali (prudenza,
castità, coraggio, fedeltà, ecc. spesso interviene l’empatia, una specie di
giudizio per connaturalità. Ciò succede quando tali valori sono avvertiti come
rispondenti alle nostre più intime aspirazioni — in questo sta la loro
connaturalità. Sono valori per i quali sentiamo una profonda sintonia,
un’intima corrispondenza col nostro progetto di umanità e sono perciò in grado
di condurlo verso una sua realizzazione più piena. La facoltà dell’estimazione
che ci mette a contatto con i valori comprende tre funzioni: quella del
capitare velorativamente che co- glie i singoli valori; quella del preferire
che ne stabilisce la gerarchia e quella dell'aspirare che porta alla scoperta
di nuovi valori e pre- cede il captare e il preferire come una specie di
pioniere o di esplo- ratore. L'uomo è naturalmente dotato della facoltà
valorativa, così come è naturalmente doiato della facoltà conoscitiva,
appetitiva ed este- tica. Ma alla pari di queste facoltà anche quella
valorativa va col- tivata. Come l'intelligenza perché possa conoscere la verità
dev’esse- re istruita e come la volontà, perché possa scegliere il bene
autentico, va educata, altrettanto l'estimativa, perché si apra
all’apprezzamen- to e all'assimilazione dei valori dev'essere guidata ed
ammaestrata. In tutte le sue facoltà l’uomo è essenzialmente educabile e col-
235 La facoltà estimativa coglie l’oggetto nel suo valore Valori materiali:
estimazione per intuizione o per analisi Valeri assoluti sussistenti:
estimazione e fede Valori moraii: estimazione ad La funzione deil’estimazione:
— Captare valorativamente — preferire — aspirare Necessità di coltivare la
facoltà valorativa Il ricorso all'esperto Necessità di una nuova assiologia
tivabile. Ciò è dovuto al fatto che nasce più come un progetto aperto che come
un’opera finita. E, dato che abbiamo visto che la realiz- zazione del
progetto-uomo dipende soprattutto dalia scelta dei va- lori, l'educazione
dell'estimativa, cioè della facoltà dei valori, as- sume capitale importanza.
L'educazione non occorre per tutti i gradi di valore. Così, per esempio, per
certi valori vitali (come l’aria, l’acqua, il pane) la valutazione è istintiva
e non c'è bisogno di edu- cazione. Non così per la maggior parte dei valori
appartenenti al li- vello culturale e al livello spirituale. Anche per essi ci
può essere un impulso istintivo o empatico. Così l'uomo nasce con una specie di
apprezzamento istintivo delia verità, della bontà, della giustizia, delia
solidarietà, della castità, ecc. Ma senza un'adeguata coltiva- zione tale
impulso facilmente si indebolisce e si perde. C'è di più. Nel campo degli
apprezzamenti e delle valutazioni è molto facile errare e, così, molto spesso
si trovano in circolazione pseudo-valori. Per questo motivo, per stabilire
quali sono i valori autentici e quali quelli inautentici, è necessario
ricorrere agli e- sperti, agli specialisti. Quando si tratta di perle preziose,
di monete antiche, di francobolli rari non ci fidiamo di noi stessi e ricorriamo
al giudizio di un perito. Perché non si deve fare altrettanto per quei valori
che contano di più per la realizzazione del progetto-uomo, i valori spirituali,
trascendenti, perenni? Già Aristotele diceva che, nel caso dei valori etici, è
bene ricorrere al giudizio dell'uomo sa- piente. Ciò che urge maggiormente
nella nostra società culturalmente di- sorientata è una nuova assiologia che
sappia restituire il primato che loro compete ai valori assoluti, trascendenti,
perenni e, conse- guentemente, una nuova pedagogia altamente umanistica che
faccia risplendere la luce di tali valori alle menti dei giovani, menti che
avvertono istintivamente la dignità dei valori perenni e sentono fortemente il
loro fascino e sono pertanto naturalmente inclinati ad assumerli come guida
della propria esistenza, come componenti essenziali del proprio progetto di
umanità. CONCETTI DA RITENERE — Assiologia; trasvalutazione; sentimento; aseità
— Statuto ontologico; ultrarealismo; tesi soggettivistica — Assiologia
realistica, gerarchia, personalistica, teocentrica — Valori sensibili, vitali,
spirituali, religiosi — Assiologia metafisica — Trascendentale; estensività;
convertibilità; relazione bipolare — Sentimento; intuizione; empatia;
estimativa — Captare valorativamente; preferire; aspirare SINTESI
CONTENUTISTICA I. IL PROBLEMA E LE SUE CARATTERIZZAZIONI STORICHE 1. Il
problema ha assunto particolare rilievo nel nostro tempo. La scienza dei valori
ha sostituito la metafisica e i suoi interrogativi sulle ragioni ultime della
realtà, ponendo l’accento sulla natura dei valori assoluti e sulla loro con-
sistenza ontologica. 2. L'assiologia ha assunto dignità speculativa in tempi
relativamente re- centi, dopo che Nietzsche ha teorizzato la sua
trasvalutazione, demolendo i valori assoluti della logica (verità), della
morale (virtù), della metafisica (esse- re), della religione (Dio). 3. Padre
della assiologia è Rudolf H. Lotze (1817-1881). Nel suo capolavoro, Microcosmo,
egli distingue il regno dei fatti, il regno delle leggi universali, il regno
dei valori. I primi due riguardano i mezzi, il terzo i fini. I primi due sono
suscettibili di interpretazione meccanicistica, il terzo è appreso dal sen-
timento. Fondamento ultimo dei valori e valore assoluto per eccellenza è Dio.
4. N. Hartmann (1882-1950) è assertore di un ultrarealismo assiologico: i
valori hanno il proprio fondamento in se stessi. Essi sono sussistenti, sono
dotati di aseità. Hartmann, peraltro, nega l’esistenza di Dio, poiché secondo
lui l’esistenza di Dio vanificherebbe la libertà e la responsabilità dell'uomo
e quindi il valore morale. i 5. C. von Ehrenfels {1859-1932) è assertore al
contrario del soggettivismo assiologico: il valore comprende sia il desiderio
in atto di ciò che non si pos- siede sia la desiderabilità, desiderio
potenziale di un determinato oggetto. 6. Max Scheler (1874-1928), massimo
teorico dell’assiologia, influenzato dal- la fenomenologia di Husserl, elabora
un'etica dei valori (I! formalismo in etica e l'etica materiale dei valori) a
fondamento ontologico. L’assiologia di Scheler è realista, gerarchica,
personalista e teocentrica: — Realista: i valori sono oggetti autenticamente
oggettivi, secondo un ordine eterno e gerarchico. — Gerarchica: a) i criteri
sono la durata, l’indivisibilità, la fondamentalità, la soddisfazione, il grado
di relatività. b) i quattro livelli della gerarchia sono: valori sensibili,
vitali, spirituali, religiosi. — Personalista: a) la persona è il valore ai
quale debbono essere subor- dinati tutti i valori. b) i modelli personali danno
concretezza ai valori: ad esempio il Giusto, l’Eroe, il Santo, ecc. —
Teocentrica: tutti i valori sono fondati sul valore di uno Spirito infinito e
sul « mondo dei valori » che gli sta di fronte. 7. L'interesse per l'assiologia
si è diffuso successivamente in Italia (Stefa- nini e Prini); in Francia
{(Lavelle e Le Senne); in Spagna (Ortega y Gasset), in Argentina (Derisi), in
Inghilterra (Moore), negli Stati Uniti (Dewey). 8. L. Lavelle (1883-1951)
elabora una assiologia di carattere metafisico: l'essere — la cui essenza è
atto, perfezione assoluta, efficacia pura — è sorgente e determinazione di ogni
valore. Ne consegue un legame inscindibile tra assio- logia e ontologia. Il
valore ha, pertanto, con il bene un rapporto analogo a quello che intercorre
tra l'essere e l’esistenza: così come l'esistenza è l’essere che si
concretizza, il valore è il bene in quanto riferito a un oggetto di cui fac-
ciamo uso, il valore è il bene in quanto implica un'attività che tende a
realiz- zarlo. Il valore è una proprietà dinamica che trascina il soggetto
all'azione. 9. R. Le Senne (1882-1954) afferma sia l'immanenza che la
trascendenza del valore, sia il suo carattere oggettivo che quello soggettivo.
10. I neotomisti Wittmann, Rintelen, De «Finance, Derisi ed altri difendono 237
l’oggettività dei valori, che essi considerano fondati sull'essere. Il valore
non costituisce però una proprietà trascendentale dell'essere distinta dal
bene, ma si identifica con esso. II. DEFINIZIONE DEL VALORE 1. Nella lingua
italiana la parola « valore » possiede tre significati princi- pali: economico,
etico, ontologico. In economia significa denaro, in etica virtù, in ontologia
indica le qualità che danno dignità a una cosa. 2. Il terzo significato è
quello che interessa l’assiologia che riconduce im- mediatamente alla complessa
questione dello statuto ontologico dei valori. LO STATUTO ONTOLOGICO DEI VALORI
1. I valori sono entità reali, oggettive; oppure sono realtà fittizie, aspira-
zioni soggettive o ideali astratti? La storia dell'assiologia indica tre piste
interpretative: a) oggettività e sussistenza dei valori (Lotze, Windelband,
Scheler, Hart- mann); b) soggettività e fondazione sentimentale o psicologica
dei valori (Meinong, Ehrenfels, Freud); c) il valore come proprietà
trascendentale dell'essere, identificato con il bene (De Finance, Lavelle,
Hammer); d) un'ultima interpretazione può essere elaborata a partire da
elementi delle prime tre: il valore è un trascendentale, che nel regno dei
trascendentali occupa un posto a sé: esso è la dignità di una cosa. In quanto
trascendentale ha in comune con gli altri trascendentali alcune proprietà: —
Coestensività con l'essere: dove c'è essere c'è valore e dove c’è valore c'è
essere. Il valore esprime una modalità dell'essere che lo accompagna ne- cessariamente.
— Convertibilità: poiché la distinzione tra l'essere e i suoi trascendentali è
solo logica e non ontologica, tutti i trascendentali coincidono: tanto c'è di
vero, altrettanto c'è di buono, di bello, di valore. — Relazione bipolare: il
valore ha un polo soggettivo e uno oggettivo: a) oggettività: 1) il valore è
radicato nell'essere; '2) il valore è scoperto dall'uomo, ma non è creato
dall'uomo; b) soggettività: il valore emerge nel momento in cui l'uomo lo
scopre. IV. GERARCHIA E CLASSIFICAZIONE DEI VALORI 1. Il grado del valore
corrisponde a quello dell'essere: quanto più elevato è il grado «li essere che
una cosa possiede, tanto più grande è il suo valore. 2. Il criterio per
stabilire la gerarchia dei valori è fornito dall’apporto che una cosa, una
persona, un'azione può dare alla realizzazione del progetto uomo e del valore
uomo. Un progetto-uomo globale che tenga conto di tutte le dimensioni dell’uomo
e del suo bisogno di Dio apre alla seguente gerarchia di valori: — valori
economici o vitali: contribuiscono alla preservazione della vita e alla
conservazione del corpo. — valori culturali. contrilsuiscono alla coltivazione,
all’elevazione della mente. — valori spirituali. giovano alla crescita, al
perfezionamento dello spirito. 3. La classificazione dei valori più nota è
quella formulata da Max Scheler: valori edonistici, vitali, spirituali,
religiosi. Questa classificazione distingue i vari gradi dei valori, ma non
determina le aree assiologiche, in relazione alle quali è possibile produrre la
seguente classificazione: Valori;- Primo valore ontici > essere personali
persona — sociali famiglia — economici + lavoro — culturali -+» cultura —
somatici «— corpo — noetici —verità — estetici — bellezza — morali bontà — religiosi sacro LA FACOLTÀ DEI VALORI 1. Secondo alcuni
filosofi la facoltà che percepisce il valore è il sentimento, inteso secondo
alcuni come una disposizione totalmente soggettiva, secondo altri come una
intenzionalità oggettiva. Per altri ancora la facoltà dei valori è
l'intuizione. 2. Il valore sembra comunque essere più propriamente oggetto
dell’esti- mativa: infatti, dove non c'è apprezzamento, estimazione i valori
non emergono. L'estimativa comprende tre funzioni: a) captare valorativamente:
cogliere i singoli valori; b) preferire: stabilire la gerarchia; c) aspirare:
scoperta di nuovi valori. 3. L'uomo è naturalmente dotato della facoltà
valorativa, che al pari delle altre facoltà va coltivata. Se per i valori
vitali la valutazione è istintiva, per i valori culturali e spirituali è
necessario l'intervento dell'educazione. “ QUESTIONARIO DI VERIFICA E
DISCUSSIONE 1. Che cosa sono i valori? Quando è sorta l'assiologia? 2. Chi è
stato il massimo teorico dell’assiologia? 3. Perché l’assiologia viene chiamata
realistica, gerarchica, personalistica e teocertrica? 4. Chi sono stati altri
grandi studiosi dei valori? 5. La parola « valore » quali significati ha nella
lingua italiana? 6. Qual è lo statuto ontologico dei valori? 7. Quali sono le
gerarchie e la classificazione dei valori? 8. In che modo, con quali facoltà
percepiamo i valori? 9. È legittimo stabilire delle correlazioni tra
l’assiologia, il problema sto- rico, quello politico e la riflessione sulla
scienza? 10. È possibile ritenere che l'assiologia possa restituire alla
cultura tecno- logico-scientifica il senso del sacro e del mistero?
SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI AA.Vv., Il problema del valore, Atti del XII
Convegno del Centro di Studi filosofici di Gallarate, Morcelliana, Brescia
1957. Aa.Vv., Il valore - La filosofia pratica fra metafisica, scienza e
politica, Li- breria Gregoriana Editrice, Padova 1984. BATTAGLIA F., I valori
tra la metafisica e la storia, Zanichelli, Bologna 1967. CAMPANALE D., Scienza,
ontologia e valore, Bari 1963. FERRAROTTI F. {a cura di), Forme evolutive dei
valori nel quadro della mo- bilità odierna di grandi gruppi umani, Angeli,
Milano 1982. 239 HARTMANN N., Introduzione all'ontologia critica, Guida, Napoli
1972. ILAMBERTINO A., Max Scheler: fondazione fenomenologica dell'etica dei va-
lori, Firenze 1977. MAGNANI G., Itinerario al valore in R. Le Senne,
Gregoriana, Padova 1971. MARCHELLO G., Valori e tecniche di avvaloramento -
Studi sull'etica dei valori, Giappichelli, Torino 1972. MonpIN' B., Il valore
uomo, Dino, Roma 1983. Paci E., Pensiero, esistenza e valore, Principato,
Milano 1940. Rizzo A,, Infinito e persona - Ermeneutiche cristiane di fronte
alla crisi di senso, Iarma, Roma. Romano P., Ontologia del valore, studio
storico critico sulla filosofia dei valori, CEDAM, Padova 1949. Rosso C.,
Figure e dottrine della filosofia dei valori, Guida, Napoli 1973. ScHELER M.,
L’eterno nell'uomo, Fabbri, Milano 1972. StoETZEL J., I valori del tempo
presente. Un'inchiesta europea, SEI, Tori- no 1984. 240 Parte seconda: I
SISTEMI FILOSOFICI PRINCIPALI * Come si vede qui di seguito i primi sistemi
filosofici presentati sono quelli della Grecia antica. Ci si è posti il
problema del perché la filosofia, come forma di sapere organizzata spesso in
modo che possiamo chiamare scientifico e come ricerca di una spiegazione or-
ganica ai problemi dell'universo, si sia sviluppata inizialmente pres- so i
greci, e precisamente nei territori fuori della Grecia in cui si era
trapiantata la civiltà greca. Perché non ci furono scuole filosofiche nelle
altre più antiche ci- viltà medio-orientali, quali quella egiziana,
assiro-babilonese, persia- na, o in quella ebraica? Esaminando queste civiltà
si possono riscon- trare in ciascuna di esse elementi filosofici, inseriti
specialmente in insiemi dottrinari di carattere religioso e che pertanto non
possono essere definiti filosofici nel senso stretto della parola. Inoltre, per
il mancato sviluppo di una vera mentalità filosofica, sono da sottolinea- re le
differenti situazioni politiche in cui si sono sviluppate le varie civiltà, che
normalmente avevano regimi autocratici o teocratici, con il dominio assoluto
dei monarchi o dei loro rappresentanti sul resto della popolazione; e questo
aveva impedito un libero sviluppo del pensiero individuale. Nel secolo VIII e
VII la Grecia aveva sviluppato, a contatto con altri popoli del Medio Oriente,
le sue particolari doti di intrapren- denza in attività commerciali ed
industriali, creando un vero impero commerciale, con numerose colonie, specie
nell'Italia meridionale (la Magna Grecia). L'aristocrazia terriera che aveva
nella madre patria dominato sino ad allora, aveva perso pian piano potere a
vantaggio degli artigiani e dei commercianti e tutto ciò aveva sviluppato una
nuova forma di governo, quella repubblicana delle città-stato, in cui tutti i
cittadini partecipano alla cosa pubblica. È l’inizio della democrazia. * Per
notizie sulla vita e le opere dei filosofi, vedere la Parte terza. Per quanto
riguarda le date di nascita e morte di gran parte dei filosofi dell'anti-
chità, per mancanza di dati precisi, esse si devono ritenere approssimative.
241 Nelle colonie insediate e diffusesi fuori della Grecia, il sorgere della
democrazia fu facilitato dalla mancanza di una aristocrazia terriera, padrona
del potere politico; al suo posto dominavano in- vece coloro che si erano dati
al commercio, traendone ricchezze e benessere. Questa fiorente attività
commerciale li aveva messi in contatto con le grandi civiltà orientali, da cui
avevano saputo attin- gere con intelligenza il meglio delle conoscenze scientifiche
ed aveva permesso la fioritura delle arti e delle scienze. Si era perciò
sviluppato in tutto il mondo greco il senso dell’osservazione, dello studio e
della ricerca ed aveva portato ad un libero dibattito, nei vari campi. Pertanto
le prime scuole filosofiche si erano sviluppate, prima che nella madrepatria,
nelle città dell'Asia minore e della Magna Grecia. I filosofi che facevano capo
a queste scuole in generale erano scienziati (matematici, astronomi, medici,
ecc.) che però allo stesso tempo indagavano intorno a sé per cercare di trovare
un principio unitario di tutte le cose, e per conseguire questo obiettivo
ricorre- vano sia alla mitologia che alla speculazione razionale. 1. Scuola
ionica o di Mileto Fondatore: TALETE (624-562 a.C.) Dottrine principali: La
ricerca di questa scuola, che è stata la più antica scuola greca di filosofia,
sorta a Mileto, sulla costa dell'Asia minore, verso il VII e VI secolo a.C., è
volta a dare espressione filosofica al problema del- l'esistenza di una causa
suprema di tutto. Il principio viene quindi individuato di volta in volta in un
elemento naturale o materiale: acqua, aria, fuoco... Maggiori esponenti:
TALETE, il quale pone l'acqua come principio da cui traggono origine tutte le
cose per condensazione o rarefazione. :ANASSIMANDRO (610-546 a.C.), matematico
e astronomo di Mileto, il quale va oltre Talete e pone come principio primo
qualcosa di indeterminato (apeiron). Il suo eterno movimento determina nella
materia, per separazione, i contrari. ANASSIMENE (585-527 a.C.), discepolo di
Anassimandro, il quale ripone il principio primo nell'aria, eterna e in
continuo movimento. 2. Scuola pitagorica Fondatore: PITAGORA (571-490 a.C.)
Dottrine principali: La scuola pitagorica sviluppatasi a Crotone, nella
Lucania, 242 era composta da discepoli di Pitagora (nato a Samo da cui do-
vette fuggire per motivi politici) uniti insieme con uno scopo di vita comune.
La ricerca scientifica era considerata come mezzo a servizio di questa
comunità. Della prima scuola pitagorica si conosce solo il nome del fondatore
Pitagora, e questo per la segretezza che circondava la vita di quella comunità
che viveva con un codice mo- rale impegnativo. Anche i pitagorici, come gli
ionici, sono impegnati alla ricerca del principio unitario, ma superano il
primitivo prin- cipio unitario di natura. Per essi, il principio delle cose e
la sostanza dell'universo è il numero. La monade (dal greco monàs = unità) è il
termine usato dai pitagorici per indicare l'unità originaria dalla quale deriva
la serie dei numeri. Dai numeri, con una serie di pas- saggi, si arriva alle
figure solide; da queste derivano i singoli corpi i cui elementi costitutivi
sono il fuoco, l'acqua, la terra e l'aria. Per Pitagora l'anima è immortale
perché trae origine dall’etere che è incorruttibile; essa è composta
dall’intelligenza, dalla ragione e dal- l'impulso passionale. 3. Scuola
eleatica Fondatore: PARMENIDE (520-440 a.C.) Dottrine principali: Secondo
Parmenide, l’unica realtà è l'essere; nessuna altra realtà è possibile, neppure
il divenire come diceva invece Eraclito di Efeso, in Asia minore, vissuto nella
stessa epoca. Infatti, o una cosa è o non è. Se è, non può divenire perché è
già. Se non è, non può divenire perché dal nulla non si può ricavare che il
nulla. In tal modo veniva rilevaia la correlazione tra l'essere e il pensiero.
Maggiori esponenti: ‘PARMENIDE, di Elea, colonia greca in Lucania, scrisse il
poema Della Natura. Egli è considerato il primo grande metafisico. ZENONE, di
Elea (vissuto nel V sec. a.C.), scrisse il poema Sulla Natura. La dottrina
dell’« è » parmenideo si trasforma in quella di una realtà, che non può essere
molteplice e si presenta come l'« uno » assoluto. È stato un formidabile
dialettico, noto per i suoi paradossi. 4. Scuola atomista Fondatore: DemocRITO
(460-370 a.C.) Dottrine princi pali: Democrito di Abdera, in Tracia, sostiene
sia l'immutabilità del- l'essere, sia la realtà del divenire. L'essere è
costituito da atomi, 243 che sono particelle invisibili e immutabili, immerse
nel vuoto. Dal movimento degli atomi derivano tutte le cose, secondo un
meccanico determinismo. Queste particelle non hanno nessuna qualità eccetto
l’impenetrabilità; differiscono fra loro solo per fi- gura e dimensioni.
L'anima umana è costituita da atomi leggeri e sottili, di carattere igneo. Il
fondatore della « scuola atomistica » di tipo fisico scrisse molte opere,
andate tutte perdute. Per lui la felicità non consiste nel piacere dei sensi ma
nell'armonia della ragione e nella pace dell'anima, la tranquillitas animi che
deriva soprattutto dal non darsi troppo da fare, né per faccende private né per
quelle pubbliche, dal sapersi accontentare di una condizione moderata. 5.
Scuola sofista Fondatore: PROTAGORA (480-410 a.C.) Dottrine principali: I
sofisti si caratterizzano come una corrente filosofica alla ri- cerca dell’arte
del persuadere invece che della ricerca della ve- rità. Essi sollevarono per
primi la questione se l’uomo avesse o no la capacità di conoscere l’intima
natura delle cose e la legge morale assoluta. La loro risposta fu che l'uomo
non le può conoscere, perché la realtà e la legge naturale stanno al di sopra
delle capacità conoscitive dell'uomo. Quindi tutto quello che l’uomo conosce in
filosofia e in etica è prodotto della sua coscienza. Da qui il famoso detto dei
sofisti: « L'uomo è misura di tutte le cose ». Quindi: non è possibile una
conoscenza vera, ma solo probabile; non c'è una legge morale assoluta, ma solo
leggi convenzionali, In questa dimensione empirica della conoscenza umana il
piacere si pone come unico traguardo per l’uomo. Maggiori esponenti: PRroTAGoRA
di Abdera, in Tracia: sostiene che non c’è nessuna verità assoluta. L'uomo
interpreta a suo modo e a suo vantaggio i dati della sensazione. Il sapiente,
ossia il sofista, con l’arte della per- suasione, fa sì che appaiano migliori
non le opinioni più vere, ma le più vantaggiose. Protagora insegna una morale
convenzionale, ma non arbitraria, basata sui princìpi divini del rispetto e
della giu- stizia che Giove ha comunicato a tutti gli uomini. Gorgia (484-375
a.C.) di Lentini, in Sicilia, spinge il relativismo di. Protagora verso il più
radicale scetticismo. La sua filosofia so- stiene che: l'essere non esiste; una
cosa è il pensare, altra cosa è l'essere; la parola detta è altro dalla cosa
significata. Conclusione: bisogna rendersi conto che ciò che appare è solo
probabile. Altri esponenti della scuola sofista sono: ProDpIco di Ceo ed IPPIA
di Elide. 244 6. Scuola eclettica o fisico-pluralista Fondatore: EMPEDOCLE
(483-423 a.C.) Dottrine princi pali: Questa scuola viene chiamata pluralistica
o « eclettica » per- ché si propone di selezionare e raccogliere il meglio
delle teorie sino ad allora conosciute. Empedocle, di Agrigento, sostiene che
la causa ultima delle cose risiede in 4 elementi (terra, fuoco, aria e acqua),
che sono originari e immutabili e che il divenire è causato dalla lotta tra due
forze primordiali: Amore e Odio. L'altro grande rappresentante di questa scuola
è Anassagora (500- 428 a.C.) il quale sostiene che l'essere è costituito da corpuscoli
qua- litativamente diversi. Il divenire è causato dal moto rotatorio e dalla
Mente Suprema che è costituita anch'essa di materia. 7. Scuola socratica
Fondatore: SOCRATE (469-399 a.C.) Dottrine principali: Il convincimento
fondamentale di Socrate è che si danno va- lori assoluti sia nell'ordine
gnoseologico che in quelli metafi- sico ed etico. In questo egli si oppone ai
sofisti, i quali sosteneva- no che tutto è relativo: le opinioni cambiano da
individuo ad individuo, i costumi da città a città, da popolo a popolo. Invece,
se- condo Socrate, esistono principi assoluti, verità eterne, leggi morali
immutabili ed eguali per tutti. A suo giudizio la vita umana merita e
dev'essere vissuta in obbedienza a tali valori etici e metafisici, an- che se
questo può esigere enormi sacrifici, perché l'uomo è destinato a raggiungere la
sua piena realizzazione soltanto dopo la morte, al- lorché l’anima si libera
dal peso del corpo. Fermo oppositore dei sofisti, si occupa essenzialmente
delle cose umane, ma raggiunge risultati ben diversi: l'immortalità dell'anima,
la possibilità di giun- gere al concetto universale, l’uso efficace del metodo
induttivo. Per Socrate è essenziale la distinzione di male e bene; la felicità
consiste nella pratica della virtù. Maggiori esponenti: ‘SOCRATE nacque e visse
ad Atene; si dedicò alla ricerca, volendo insegnare agli uomini la verità. Non
ha lasciato alcuno scritto. ANTISTENE ( V-IV sec. a.C.), il quale esaspera
l'ascetismo di Socrate esigendo un totale distacco dai beni materiali e l'assoluta
indipen- denza dalle vicende di questo mondo. Da lui prese il via la scuola
cinica. ArISTIPPO di Cirene (V-IV sec. a.C.), il quale accentua talmente
l'assenza di valore per quanto concerne il mondo materiale, il corpo, 245 le
passioni, i piaceri sensibili, da ritenere che sia perfettamente in- differente
occuparsi di loro ed assecondarli. A lui fa capo la scuola cirenaica. EucLIDE
di Megara (450-380 a.C.), il più fedele discepolo di So- crate: egli, che fu
influenzato anche da Parmenide, considera il bene come l'unica realtà e fa
consistere la felicità nella pratica della vir- tù. È il fondatore della scuola
megarica. PLATONE, il quale è certamente il massimo esponente del socra- tismo,
ma col suo possente ingegno gli conferisce una struttura fi- losofica più
solida e soprattutto originale, dando origine ad uno degli indirizzi più
significativi della storia della filosofia. 8. Scuola platonica Fondatore:
PLATONE di Atene (427-347 a.C.) Dottrine principali: L’intuizione fondamentale
del filosofo ateniese è la dottrina delle Idee, cioè la convinzione che,
esistendo il mondo sensibile, deve esistere anche il mondo intelligibile, che
di quello è la causa e il modello. A dimostrazione dell’esistenza del mondo
intel- ligibile egli adduce tre argomenti: della reminiscenza, della vera
conoscenza, della contingenza. Le principali proprietà delle Idee sono:
semplicità, incorporeità, immutabilità, eternità. Non tutte le Idee hanno lo
stesso valore ontologico. Circa la concezione di Dio Platone è convinto che Dio
costituisce un grande mistero. L'origi- ne del mondo sensibile è attribuita al
demiurgo (Artefice sovrano). La caratteristica dominante del pensiero platonico
è il dualismo. Platone considera il mondo materiale come un mondo decaduto ed
alienato, una riproduzione imperfetta, una imitazione malfatta, una
partecipazione limitata di un mondo ideale, perfetto, eterno, incor- ruttibile,
divino, il mondo delle Idee. Questo dualismo si riflette in tutti i settori
della filosofia: in logica, dove si segue il procedimento dialettico; in
gnoseologia, in cui si svaluta la conoscenza sensitiva riducendola alla
funzione di ravvivare il ricordo delle Idee (teoria della reminiscenza); in
psicologia, con la identificazione dell'uomo con la sola anima, spirituale ed
immortale, considerando il corpo una prigione ed un ostacolo alle attività
dell'anima; in etica, dove si or- dina un rigido controllo, anzi la completa
soppressione degli istinti, delle passioni, onde rendere possibile il distacco
dell'anima dalla prigione del corpo e la contemplazione delle Idee; in
estetica, con la svalutazione della commedia, della tragedia e delle arti
figurative, perché non giovano alla elevazione dello spirito; in politica, con
la divisione della società in classi e l'assegnazione del governo al
filosofo-re. 246 Maggiori esponenti: Il platonismo costituisce il massimo
filone della storia della filo- sofia; esso ha avuto validi rappresentanti in
tutte le epoche: in quelia ellenistica con la Vecchia e la Nuova Accademia e
con il Neo- platonismo (PLoTINO [205-270]; in quella patristica (con CLE- MENTE
ALESSANDRINO [150-215], OriceNE [185-254], BasiLIo [330- 379], S. AgcostINno
[354-430], Pseupo-DioNIGI i[V sec.], Boezio [480- 524]; in quella scolastica
(con S. ANsELMO [1033-1109], BoNAVENTURA [1221-1274], Cusano [1401-1464]; in
quella moderna (con CARTESIO [1596-1650], MALEBRANCHE [1638-1715], Vico
[1668-1744], LEIBNIZ [1646-1716], SCHELLING [1775-1854] e HegeL [1770-1831]).
9. Scuola aristotelica Fondatore: ARISTOTELE di Stagira, in Tracia (384-322
a.C.) Dottrine princi pali: La visione filosofica di Aristotele si caratterizza
per lo sforzo di cogliere la realtà in modo unitario (contro il dualismo di
Platone) e, allo stesso tempo, per il tentativo di ricondurre le cause ultime
di tutto ciò che è mutevole e contingente ad un principio unico tra- scendente.
A tal fine Aristotele postula quattro cause fondamentali: la materia e la forma
(per spiegare la struttura intrinseca delle realtà corporee), l'agente e il
fine (per spiegare l'origine delle co- se e il loro dinamismo). Egli si vale di
questi principi per risol- vere tutti i massimi problemi: problema cosmologico
(composizione ilemorfica delle cose, ossia esse sono costituite di materia e
forma, le quali si trovano in rapporto di potenza e atto); problema teleologico
(il dinamismo delle cose e il loro divenire sono causati dal Primo Motore
Immobile, che è il loro fine ultimo); problema antropologico (l'uomo non è solo
anima, come affermava Platone, ma è il risultato dell'unione sostanziale di anima
e corpo, la prima concepita come forma e il secondo come materia; l’anima,
tuttavia comprende un elemento spirituale, divino, immortale); problema
gnoseologico (la conoscenza intellettiva si fonda su quella sensitiva, in
quanto le idee si ricavano dalle sensazioni mediante il procedimento astrat-
tivo); problema metafisico (la metafisica è il sapere più importante ed
elevato, perché studia l'essere in se stesso e ha di mira la scoperta delle
cause ultime delle cose); problema etico (la perfetta felicità e la piena
realizzazione del proprio essere, per l'uomo, non può con- sistere solo nella
contemplazione delle Idee, ma esige anche un adeguato soddisfacimento dei
sensi, perché l'uomo è essenzialmente costituito di corpo oltre che di
spirito); problema teologico (esiste un Essere supremo, che è la causa ultima
d'ogni divenire in qua- lità di Motore Immobile). Aristotele ha realizzato una
grandiosa costruzione filosofica. Ele- 247 menti validi di questa sono
soprattutto un efficace metodo di ricerca (logica) e la forma espositiva,
un'analisi acuta degli elementi costi- tutivi del mondo fisico, una visione
realistica del mondo e dell’uomo, ed infine un'acuta concezione per il suo
tempo della trascendenza di Dio. Maggiori esponenti: La scuola fondata ad Atene
da Aristotele (e chiamata anche peri- patetica, perché Aristotele insegnava nel
corridoio [peripatos] del lyceum, sacro ad Apollo Licio) in un primo tempo non
ebbe nessun esponente di rilievo e così il pensiero del maestro cadde ben
presto in oblio. Riemerse tuttavia prepotentemente durante il Medioevo, prima
nel mondo arabo e poi in quello cristiano. Dall'incontro del pensiero
aristotelico con l’islamico uscì la Scolastica araba (AVICENNA [980-1037] e
AverRoÈ [1126-1198]); mentre dall'incontro col cristiane- simo sorse la grande
Scolastica cristiana (ALBERTO Magno [1205- 1280], S. Tommaso [1225-1274],
Ruscero BACONE [1214-1293], DUNS Scoro [1265-1308], OccaM [1290-1349]). Anche
nel Rinascimento (con Pomponazzi [1462-1524] e TELESIO [1509-1588]) e agli inizi
del- l'epoca moderna (con Locke [1632-1704]) questa scuola continuò ad avere
validi rappresentanti. 10. Scuola stoica Fondatore: ZENONE di Cizio (336-274
a.C.) Dottrine principali: Lo stoicismo è il movimento filosofico più originale
dell'epoca ellenistica, sorto dopo la nascita dell'impero di Alessandro Magno,
e che ha avuto la:maggiore durata di tempo rispetto alle altre scuole
filosofiche dell'antichità; è essenzialmente una dottrina morale, la quale fa
consistere la felicità e quindi il fine ultimo dell’uomo nella pratica della
virtù e nel rifiuto di qualsiasi concessione ai sensi e alle passioni. Però
esso comprende anche alcune importanti dottrine sul- la conoscenza e sulla
struttura del cosmo. Per quanto concerne il problema gnoseologico, gli sioici si
allontanano sia da Platone che da Aristotele per il modo di concepire la
verità. Mentre per Platone e Aristotele essa consiste essenzialmente nella
perfetta corrispon- denza tra la rappresentazione mentale e la situazione reale
delle cose, per Zenone e i suoi discepoli sta nella totale comprensione o
catalessi dell'oggetto, per cui la mente è costretta all’assenso. Per quanto
concerne il problema cosmologico, il mondo, secondo gli stoici ri- sulta
costituito di due elementi primordiali, la materia ed il Logos. La prima,
essendo indefinita ed inerte, rappresenta il principio pas- sivo; il secondo,
essendo animato e pieno di energia, rappresenta il principio attivo. 248
Maggiori esponenti: Lo stoicismo, fondato alla fine del IV secolo a.C.,
continua a fiorire fino ad oltre il III secolo dopo Cristo. Altri esponenti di
questa scuola, che si chiama stoica perché l'insegnamento era tenuto da Zenone
sotto i portici (stoà) di Atene, sono: CRISPINO (281-208 a.C.), SENECA (4
a.C.-65 d.C.), EPITTETO (50-138) e MARCO AURELIO (121-180). 1i. Scuola epicurea
Fondatore: EpPicuRo di Samo (341-260 a.C.) Dottrine principali: Davanti ai
grandi problemi filosofici l’epicureismo assume una posizione di netto
contrasto con lo stoicismo, rifiutandone il rigo- rismo etico e lo spiritualismo
antropologico e metafisico. L'epicurei- smo sviluppa, pertanto, una concezione
materialistica per quanto concerne i principi primi delle cose (tutte le cose,
compresi gli dei e le anime, sono costituiti di atomi e vuoto); meccanicistica
riguardo ai fenomeni della natura i quali sono ascritti esciusivamente al moto
e alla sua legge; sensistica per il problema della conoscenza, che è tutta
ricondotta alle facoltà sensitive, mentre il concetto viene con- siderato come
semplice anticipazione (prolessi) del futuro; edoni- stica per quanto riguarda
il problema morale: la felicità, il bene supremo dell'uomo consiste nel piacere
(edoné). Maggiori esponenti: L'epicureismo ha avuto sempre dei seguaci, ma
soprattutto nel mondo romane con Lucrezio (98-54 a.C.) e Orazio (65-8 a.C.) e
nel mondo rinascimentale con VALLA (1407-1457) e MONTAIGNE (1533- 1592). 12.
Scuola neoplatonica Fondatore: PLOTINO di Licopoli, in Egitto (205-270)
Dottrine princi pali: Viene chiamato « neoplatonismo » il movimento filosofico
che riprende e sviluppa, dal III al VI secolo dopo Cristo, le dottrine
platoniche. Questa scuola, fondata ad Alessandria d'Egitto da Am- monio Sacca,
fu sviluppata dal suo discepolo Plotino che poi si trasferì a Roma, dove aprì
una scuola che ebbe grande successo. L'impegno maggiore della riflessione
filosofico-religiosa di Plotino riguarda l'Assoluto e i nostri rapporti con
Lui. Valendosi di sugge- stioni che gli venivano dall’ebraismo e dal
cristianesimo, ch'egli bene conosceva, il pagano Plotino è in grado di superare
i limiti 249 materia, che in tal modo si trova all'estremo opposto dell’Uno e
del Bene e per questo si identifica col male. Al processo di emanazione fa
riscontro un processo di ritorno e di riassorbimento delle cose nell’Uno.
L'attuazione dell’epistrofé (ri- torno) spetta all'uomo, il quale la realizza
percorrendo tre tappe: ascetica o catarsi (mediante l'esercizio delle quattro
virtù cardinali), contemplazione (conoscenza dell’Uno mediante la filosofia) ed
estasi (unione mistica, immediata, con l'Uno). Maggiori esponenti: ‘Profondo è
stato l'influsso dei pensiero di Plotino su tutta la filo- sofia medioevale e
moderna. Tra i maggiori esponenti ricordiamo i discepoli PoRFIRIO (232-303) e
ProcLOo (410-485) (due filosofi pagani), PsEupo-DroNIGI (V sec.) e Boezio
(480-524), l'arabo AvICENNA (980- 1037), NiccoLò Cusano (1401-1464) e MarsiLio
FIcINO (1433-1499), e i moderni LEIBNIZ (1646-1716), ScuELLING (1775-1854) e
HEGEL (1770-1831). 13. Scuola agostiniana Fondatore: AgostINo d'Ippona
(354-436) Dottrine principali: La visione filosofica agostiniana è frutto della
esigenza di trovare una base razionale per la fede cristiana. Per conseguire
questo obiet- tivo Agostino fa ricorso alla filosofia di Platone e, in tal
modo, ottiene una visione che viene giustamente qualificata come platonismo
cri- stiano. In effetti in tutti i problemi fondamentali la matrice platonica è
chiaramente riconoscibile: nel problema della conoscenza con la dottrina della
illuminazione; nei problema antropologico con la so- stanziale identificazione
dell'essere dell’uomo con l’anima; nel pro- blema metafisico con la teoria
delle verità eterne (idee) e delle ragioni seminali cioè queile impresse sino
dalla creazione; nel problema etico con la dura condanria di ogni piacere
sensibile e delle passioni e di tutto ciò che appartiene al mondo naturale.
Però, nella visione ago- stiniana, gli elementi platonici non costituiscono dei
blocchi isolati, 250 ante e con- clusivo. Alla visione agostiniana resteranno
fedeli tutti i medioevali sino a San Tommaso, e molti altri dopo di lui: basti
ricordare i nomi di ANSELMO (1033-1109), Uco (1096-1141) e RICCARDO DI S.
VITTORE (1123-1173), BERNARDO (1090-1153). Dominante è l’elemento agostinia- no
nei pensatori francescani: BONAVENTURA (1221-1274), ALESSANDRO DI HALES
(1180-1245), DuNnS ScoTo (1265-1308). Sulla scia di Agostino si muovono anche
alcuni grandi filosofi moderni, in particolare CARTESIO (1596-1650) e Vico
(1668-1744). Al vescovo di Ippona si ri- fanno infine LuTERO (1483-1546) e
CaLvino (1509-1564). 14. Scuola tomista Fondatore: ToMMaso d'Aquino (1225-1274)
Dottrine principali: ione dell'essere negli enti è dovuta ad una potenza, ossia
all'essenza. Quindi negli enti si dà una distin- zione reale tra essere ed
essenza; tra i singoli enti, come pure tra gli enti e l’Essere supremo, c'è
analogia ossia semiglianza, perché sono tutti imparentati con la stessa
perfezione. Alla luce della sua con- cezione dell'essere Tommaso risolve tutti
i principali problemi filo- sofici: il problema epistemologico (la verità
consiste nella corrispon- 251 denza tra il pensiero e l'essere); il problema
teologico (Dio è l’ipsum esse subsistens); il problema cosmologico (il mondo
trae origine per creazione mediante una comunicazione dell’essere da parte di
Dio); il problema antropologico (l'anima umana è naturalmente immor- tale in
quanto possiede un atto di essere suo proprio indipendente- mente dal corpo);
il problema politico (come in Aristotele, viene affermata l'origine naturale
dello Stato che è una società perfetta; però l'altra società perfetta, cioè la
Chiesa, ha la preminenza, in quanto il fine di questa è il « bene
soprannaturale » dell’uomo). Maggiori esponenti: Il pensiero tomista ha avuto
poi rappresentanti di grande va- lore del secolo XVI (il Caretano [1468-1533],
SUAREZ [1548-1617], DE VITORIA [1483-1546]) e nel secolo XX (card. MERcIER
[1851-1926], GiLson [1884-1978], MARITAIN [1882-1973], RAHNER [1904]). 15.
Scuola francescana Fondatore: BoNAVENTURA da Bagnoregio (1221-1274) Dottrine
principali: Il pensiero dei maestri francescani, in particolare di S. Bona-
ventura, che è il loro caposcuola, si caratterizza per una sintesi non sempre
organica ma di grande respiro, di elementi desunti da varie fonti, soprattutto
da Platone e Agostino, ma anche da Aristotele e da Avicenna, e ovviamente dalla
rivelazione biblica. Le dottrine spe- cifiche della scuola francescana sono le
seguenti: in epistemologia, la teoria della illuminazione e la conoscenza
diretta e immediata sia di se stessi che delle singole cose (senza far ricorso
al processo astrat- tivo); in ontologia, la concezione univoca dell'essere e ia
negazione della distinzione reale tra essenza ed esistenza; in cosmologia, la
dottrina dell’ilemorfismo universale (cioè tutte le cose, compresi gli angeli,
sono costituiti di materia e forma) e la negazione dell’eter- nità del mondo;
in antropologia, la teoria della pluralità delle forme (una per il corpo,
un'altra per l’anima vegetativa e sensitiva ed un'al- tra ancora per l’anima
razionale); in teologia naturale, la dottrina dell’evidenza immediata
dell’esistenza di Dio, secondo alcuni autori (Alessandro di Hales e
Bonaventura), oppure della sua indimostra- bilità, secondo altri autori (Duns
Scoto e Occam). Maggiori esponenti: La scuola francescana ha avuto validissimi
esponenti soprattutto nei secoli XIII e XIV {(BonavENTURA [1221-1274],
ALESSANDRO di HaLEs [1180-1245], Duns Scoro [1265-1308], Occam [1290-1349],
RucceRo BaconE [1214-1293] e PieTRO OLIVI [1248-1298]). 252 - 16. Scuola
razionalista Fondatore: CARTESIO (1596-1650) Dottrine principali: Per svariate
ragioni, a partire da Cartesio, la preoccupazione dominante del filosofo non
riguarda più l'essere, la realtà in sé, le cause ultime delle cose, Dio, ma
riguarda l'uomo, ia sua capacità di conoscere il mondo e di trasformarlo. Ciò
che conta maggiormente è stabilire il valore della conoscenza umana e scoprire
una metodo- logia appropriata per la ricerca filosofica. Cartesio, padre del
razio- nalismo, affascinato dalla matematica e dalla geometria, ritiene che
l'unica conoscenza valida sia la conoscenza che non proviene dai sensi ma si
trova innata nell'anima. Quanto al metodo, Cartesio propone quello della messa
in dubbio di qualsiasi conoscenza che non risulti immediatamente chiara e
distinta. Chiarezza e distinzione infatti co- stituiscono per lui le proprietà
essenziali d'ogni vera conoscenza. La conoscenza razionale ha per oggetto
l’universale e il necessario, ed è, quindi, capace di afferrare la natura vera,
immutabile delle cose. Così la metafisica diviene possibile: si può conoscere
Dio (anzi la sua esistenza è praticamente evidente: per riconoscerla basta
l'argomento ontologico) e si può provare l'immortalità dell'anima. L'uomo
raggiunge la perfetta felicità facendo trionfare la potenza della ragione sugli
istinti e le passioni e dedicandosi alla contempla- zione amorosa di Dio (amor
intellectualis Dei, secondo la bella e- spressione di Spinoza). Maggiori
esponenti: Le tesi razionaliste di Cartesio sono state riprese e sviluppate da
MALEBRANCHE (1638-1715), SPINOZA (1632-1677), LEIBNIZ (1646-1716) e in parte
anche dagli illuministi e dagli idealisti. 17. Scuola empirista Fondatore:
FRANCESCO BACONE (1561-1626) Dottrine principali: Nel secolo XVII il punto di
partenza della riflessione filosofica non è più il problema dell’essere, bensì
quello del conoscere. Mentre, però, i filosofi continentali (Cartesio, Spinoza
e Leibniz) lo affron- tano a partire dal modello delle scienze esatte
(matematica e geome- tria) e questo li conduce ad evolvere una concezione razionalistica
della conoscenza e delia realtà, i filosofi inglesi si trovano in una temperie
culturale profondamente diversa: nel loro paese fioriscono non tanto le scienze
matematiche guanto quelle sperimentali: la bo- tanica, la chimica,
l'astronomia, la meccanica, ecc. ed è perciò logico che la loro preoccupazione
sia volta alla ricerca d'una teoria della 253 conoscenza e di un metodo di
ricerca che corrispondano alle esigenze di tali scienze. Ora, le scienze
sperimentali muovono dalla costata- zione di eventi particolari,
dall'esperienza di certi fatti concreti (non da idee astratte, da principi
universali); loro obiettivo è il supera- mento dei fatti, con la scoperta di
rapporti costanti, leggi stabili, così da rendere possibile l’anticipazione di
ulteriori esperienze. La problematica epistemologica della filosofia inglese
consiste essenzialmente in questo: com'è possibile, partendo dall'esperienza
sen- sitiva risalire a leggi universali? Senonché proprio la tesi che tutta la
conoscenza procede dall'esperienza (= empirismo) li induce a con- cludere che
anche le idee astratte e le leggi scientifiche conservano la stessa incertezza,
instabilità e particolarità della conoscenza sen- sitiva. La mente umana non
afferra niente di universale e necessario. In tal modo la metafisica diviene
impossibile: nulla si può sapere intorno alla esistenza e natura di Dio, sulla
origine prima e sull'ulti- mo fine della vita umana, sulla essenza delle cose
materiali. Nep- pure in campo morale si danno norme assolute: buono o cattivo è
ciò che viene approvato o disapprovato dalla società. Maggiori esponenti:
L'empirismo è la filosofia congeniale al popolo inglese. Nel se- colo XVII
l'hanno professato FRANCESCO Bacone {1561-1626), HoBBES (1588-1679) e Locke
(1632-1704); nel secolo XVIII BERKELEY (1685- 1753) e HUME (1711-1776); nel
secolo XIX SPENCER (1820-1903) e MILL (1806-1873); nel secolo XX RussELL
(1872-1970), AYER (1910), RYLE (1900-1976) e molti altri. 18. Scuola
illuminista Fondatore: VOLTAIRE (1694-1778) Dottrine principali: L'illuminismo
più che una scuola o un sistema filosofico è un complesso movimento culturale,
tipico del secolo XVIII e caratterizzato da una sconfinata fiducia nella
ragione umana, ritenuta capa- ce di diradare le nebbie dell'ignoto e del
mistero, che limitano e oscurano lo spirito umano, e di rendere migliori e
felici gli uomini illuminandoli ed istruendoli. L’illuminismo è essenzialmente
un an- tropocentrismo, un atto di fede appassionato nella natura umana. È un
nuovo vangelo di progresso e di felicità. L'illuminismo predica un messianismo
nuovo, un'era nuova, in cui l’uomo vivendo in con- formità con la sua natura,
sarà perfettamente felice. I caratteri fon- damentali dell'illuminismo sono:
venerazione della scieriza, con la quale si spera di risolvere tutti i problemi
che affliggono l'umanità; empirismo: tutto ciò che sta al di là dell'esperienza
non mantiene alcun interesse e cessa di valere come problema; razionalismo:
scon- finata fiducia nella ragione, il cui potere è ritenuto illimitato; anti 254
con BECCARIA (1738-1794) e GIANNONE (1676-1748). 19. Scuola idealista
Fondatore: IMMANUEL KANT (1724-1804) Dottrine principali: Ii credo fondamentale
degli idealisti è l'affermazione del pri- mato assoluto delia funzione
conoscitiva rispetto a qualsiasi altra at- tività (estetica, economica,
tecnica, politica, religiosa, ecc.). Secondo ii loro punto di vista il
conoscere diviene un principio sussistente: la Coscienza, il Sapere, la
Ragione, lo Spirito Assoluto, l'Io puro. E, logicamente, il principio conoscitivo
non si attua come rappresen- tazione, bensì come creazione di oggetti.
Dall'attività dello Spirito traggono origine la natura, la storia e l'umanità.
Nel suo agire, lo Spirito non si propone altro fine al di fuori di quello di
realizzare pienamente se stesso acquistando una perfetta autocoscienza. L'i-
stanza dell’idealismo è già presente nel sistema kantiano, ma Kant la sviluppò
soltanto parzialmente, affermando gratuitamente l'’esi- stenza di un mondo
oggettivo, della cosa in sé, che esiste fuori di ogni esperienza {il noumer0).
Ma tale postulato era possibile a prezzo d'una grave contraddizione:
l'attribuzione del concetto di causa, il quale secondo i princisi kantiani di
per sé è applicabile solamente ai fenomeni, anche alla cosa in sé. Ai discepoli
di Kant (Fichte, Schel- ling e Hegel) riuscì facilmente il tentativo di
raggiungere l’idealismo assoluto: fu sufficiente liberare il criticismo
dall’applicazione inde- bita del principio di causalità, trascurare la cosa in
sé, e condurre alle ultime conseguenze il cuncetto kantiano dell'Io come
attività ordinatrice e unificatrice dell'esperienza esterna ed interna. Con
que- sta ultima operazione l'io da unificatore diviene creatore di tutta la
realtà; l’'autocoscienza diviene il principio assoluto di tutto il reale e di
tutto ciò che è; ogni limite al pensiero non può essere posto che dal pensiero,
e dal pensiero anche superato. In breve, l'io penso è 255 insieme il mondo e
Dio, il fenomeno e il nowmeno, il soggetto e l’og- getto. In tal modo ogni differenza
qualitativa tra Dio e la natura, tra l'Assoluto e la storia viene cancellata.
La natura, la storia, l'umanità non sono altro che i momenti decisivi della
manifestazione dell'As- soluto. Maggiori esponenti: L'idealismo è stato
professato, anzitutto, dai tre grandi discepoli di Kant: FIicHTE (1762-1846),
SCHELLING (1775-1854) e HEGEL (1770- 1831), i quali però lo svilupparono in
modo diverso, in forma etica il primo, estetica il secondo, logico-storica il
terzo. Alla fine del se- colo XIX e all'inizio del XX l’idealismo ebbe validi
esponenti in Fran- cia (con RavaIsson [1813-1900], BrunscHvICG [1869-1944],
HAMELIN [1856-1907]), in Inghilterra (con BrapLEY [1846-1924] e Mc TAGGART
[1866-1925]), in America (con Royce [1855-1916]) e in Italia (con Croce [1866-1952]
e GENTILE [1875-1944]). 20. Scuola volontarista Fondatore: ARTHUR SCHOPENHAUER
(1788-1860) Dottrine principali: L'esaltazione del potere della ragione che con
l'Illuminismo e l'Idealismo aveva toccato momenti di autentica follia, dopo la
morte di Hegel (1831) scatenò tutta una serie di vivaci reazioni a favore della
dimensione opposta dello spirito umano, la dimensione affettiva della volontà,
delle passioni, degli istinti. Un gruppo di filo- sofi. di grande levatura
contestò l’importanza che si ascriveva alla ragione e la sua abilità a condurre
l’uomo verso la completa realiz- zazione di se stesso, ne evidenziò i limiti di
fronte ai problemi più gravi e più profondi e l'incapacità di fornire un
orientamento sicuro per l'avvenire. Secondo il loro punto di vista ciò che
conta maggior- mente nell'uomo non è la ragione, la speculazione, la logica, la
me- tafisica, bensì la volontà, l'istinto, la fede. C'è però chi (p. es.:
Nietzsche) guarda alla dimensione volitiva dell'uomo con eniusiasmo, fiducia, ottimismo
e, quindi, professa un velontarismo fatto di coraggio, potenza, azione, un
volontarismo volto al superamento del- la condizione attuale dell'umanità e
allo sviluppo di un uomo supe- riore (super-uomo). C'è invece chi (come
Schopenhauer, Kierke- gaard) considera la situazione dell'uomo in modo
pessimistico: l’uo- mo è alienato e oppresso da un male insanabile, governato
da una volontà perversa, a cui con le sue forze non riuscirà mai a sottrarsi né
potrà mai guarire. Egli potrà uscire da questa situazione in due modi: o
sopprimendo la propria individualità (Schopenhauer) op- pure affidandosi alla
grazia di Dio (Kierkegaard). 256 Maggiori esponenti: Oltre a Schopenhauer,
KIERKEGAARD (1813-1855) e NIETZSCHE (1844 1900) che abbiamo già ricordato e che
sono i massimi esponenti del volontarismo; da ricordare anche HERBART
(1776-1841) e FREUD (1856-1939). 21. Scuola positivista Fondatore: AUGUSTE
COMTE (1798-1857) Dottrine principali: Nel secolo XIX gli scienziati
moltiplicavano le loro scoperte su aspetti della natura e dell'uomo per i quali
nei secoli precedenti la filosofia aveva cercato invano di fornire spiegazioni
valide. Tutto questo parve giustificare l’illazione che l'unica vera filosofia
fosse la scienza stessa. E questa è precisamente la tesi centrale del positi-
vismo, il quale è, pertanto, la logica conseguenza degli insuccessi della
metafisica da una parte e dei trionfi della scienza dall'altra. Il positivismo
si propone di rispondere alla istanza di estendere il dominio dell’uomo sulla
natura per mezzo della scienza, e, insieme, all'esigenza di organizzare per
mezzo della scienza lo stesso mondo umano; onde può, sotto tale aspetto,
considerarsi una prosecuzione o una riaffermazione dei motivi illuministici
contro le arbitrarie co- struzioni metafisiche e le aprioristiche filosofie
della natura fiorite nell'età romantica. Oltre che con l'illuminismo, il
positivismo è im- parentato anche con il materialismo: entrambi vedono nella
materia il principio supremo, la causa ultima di tutta la realtà. Uno degli
aspetti più originali ed interessanti del positivismo è la preoccupa- zione
umanistica. Da una parte esso si propone di liberare l’uomo da tutte le
alienazioni ideologiche a cui l'avevano precedentemente incatenato la religione
e la metafisica. Dall'altra vuole acquisire una cognizione esatta dell’uomo
come essere sociale, valendosi del metodo delle scienze sperimentali: come le
scienze sono idonee a for- mulare le leggi relative al dispiegarsi della realtà
naturale, così deb- bono essere idonee a formulare le leggi relative al
dispiegarsi del mondo sociale umano. Maggiori esponenti: Come l’illuminismo
anche il positivismo, il cui termine fu coniato da Saint-Simon e poi adottato
da Comte, è un movimento filoso- fico di portata europea, anzi, si può dire,
mondiale, avendo avuto sostenitori e seguaci in tutte le parti del mondo. Però
i suoi espo- nenti più illustri appartengono alla Francia (SAINT-SIMmon [1760-
1825) e Comte [1798-1857], all'Inghilterra (DARWIN [1809-1882], SPENCER
[1820-1903], STuART MiLL [1806-1873]), alla Germania HaEc- KEL [1834-1919]) e
all'Italia (ArpIGÒ [1828-1920]). 257 22. Scuola materialista-marxista
Fondatore: KarL Marx (1818-1883) Dottrine principali: I fattori che
maggiormente concorsero alla formazione di una interpretazione materialistica
della realtà in Karl Marx furono tre: lo sviluppo della scienza, la dialettica
hegeliana e l’acuirsi dei pro- blemi economico-sociali. I trionfi riportati
dalla scienza durante il secolo XIX favorirono l'affermarsi del materialismo
perché fecero credere che l’unica spiegazione vera delle cose sia quella
scientifica, non quella religiosa o quella metafisica. Anche l’acuirsi dei
problemi economico-sociali con il progredire della civiltà industriale operò a
favore del materialismo, in quanto ben presto uomini politici, so- ciologi e
filosofi cominciarono a considerarli fondamentali, condizio- nanti rispetto a
tutti gli altri. Ma la spinta decisiva per il trionfo del materialismo la fornì
Hegel stesso con l'eliminazione della dico- tomia tra reale ed ideale, tra
realtà pensante e realtà estesa, tra spirito e materia, e con la risoluzione di
tutta la realtà nella storia. Facendo assurgere la storia a realtà assoluta,
Hegel spalancò la porta al materialismo perché, partendo da queste premesse,
era fa- cile trarre la conclusione che nello sviluppo storico pesano assai più
i fattori economici che le teorie filosofiche e religiose: i primi
costituiscono la struttura fondamentale, le seconde sono semplice- mente
sovrastrutture. Il principale artefice della « conversione » del- l'idealismo
nel materialismo fu Marx. Questi ha voluto dimostrare scientificamente che
l’esistenza or- ganizzata degli individui, ossia la società, è il risultato
della organiz- zazione dei mezzi di produzione e della loro distribuzione tra
gli uomini; ha fornito una acuta e chiara diagnosi della società mo- derna come
società basata sulla produzione e appropriazione pri- vata della ricchezza
socialmente prodotta, come società che spacca la comunità dei soggetti in
classi contrapposte, capitalisti e lavora- tori; da questa iniqua distribuzione
della ricchezza prodotta ne de- riva inevitabilmente la lotta di classe e che
questa a sua volta sfocerà nella rivoluzione dei proletari di tutto il mondo
che porterà alla fine del capitalismo e al trionfo del comunismo. Maggiori
esponenti: Il materialismo dialettico elaborato da Marx con la collaborazio- ne
di EncELS (1820-1895) fu ripreso e sviluppato « secondo la lettera » da LENIN
(1870-1924), STALIN (1879-1953) e Mao (1893-1976); secondo tendenze
revisionistiche da GRAMSCI (1891-1937), MARcUSE (1898- 1979), BLocH (1885-1977)
e GARAUDY (1913). 258 23. Scuola pragmatista Fondatori: WiLLiam JAMES
(1842-1910) e CHARLES SANDERS ‘PEIRCE (1839-1914) Dottrine principali: Il
pragmatismo è un indirizzo filosofico tipicamente americano, sorto negli Stati
Uniti alla fine del secolo scorso, ma si inquadra in quella temperie culturale
che, a cavallo del secolo, domina l’Euro- pa: la reazione al positivismo e al
materialismo positivista. Mentre in Europa la reazione viene condotta sotto
l’insegna dello spiri- tualismo, in America percorre una via nuova ed
originale, la via del successo pratico: questo viene assunto come criterio
generale nel determinare la bontà di una conoscenza, di un sistema, di una norma
di condotta. Il termine pragmatism fu coniato da Ch. S. PEIRCE (intorno al
1872) per indicare che la funzione del pensiero consiste precisamente
nell’imporre una regola d'azione, un comportamento, una « credenza » (belief);
ne deriva che il concetto di un oggetto si identifica con gli effetti pratici
che se ne possono trarre. Le tesi del Peirce sono state riprese ed
efficacemente propagandate da W. James nel celebre saggio Pragmatism (1907),
dove il succo del nuovo indirizzo filosofico viene così espresso: « Il metodo
pragmatico con- siste nello studio delle varie dottrine dal punto di vista
delle con- seguenze pratiche. Quale differenza ci sarebbe, in pratica, se fosse
vera questa dottrina anziché quella? Se non si può riscontrare nes- suna
differenza pratica, allora le dottrine hanno in realtà la stessa importanza e
qualsiasi discussione è superflua. Quando una discus- sione è seria, dovremmo
essere capaci di mostrare le differenze pra- tiche che devono derivare dal
fatto che una alternativa è vera e l’altra no. Tutta la funzione della
filosofia è di accertare se l'accettazione di questo o quel sistema come vero
implica una differenza nei miei o nei tuoi riguardi in un momento particolare
della nostra vita ». Maggiori esponenti: Oltre a CH. S. PEIRCE e W. JAMES, che
ne sono i fondatori, il prag- matismo è stato professato con qualche variazione
da J. DEWEY(1859- 1952) e G.H. MEAD (1863-1931). Alle tesi del pragmatismo
hanno par- zialmente aderito anche pensatori europei, in particolare J. ORTEGA
Y GassET (1883-1955) e E. LE Roy (1870-1954). 24. Scuola neopositivista
Fondatore: LUDWIG WITTGENSTEIN (1889-1951) Dottrine principali: Il
neopositivismo è, essenzialmente, l'applicazione delle teorie classiche
dell’empirismo inglese all'analisi del linguaggio. Non a caso esso si è
sviluppato soprattutto nel mondo anglosassone (Inghil- 259 terra e Stati
Uniti), anche se i suoi inizi ebbero luogo a Vienna, dove un gruppo di
scienziati ebrei capeggiato da Wittgenstein e Schlick si propose di elaborare
un linguaggio scientifico rigoroso sottoposto a criteri infallibili di verità.
I motivi che hanno determinato la tra- sformazione dell’empirismo da teoria
della conoscenza in teoria del linguaggio sono due. Primo, il convincimento che
molte discussioni filosofiche siano dovute ad una insufficiente chiarezza e
precisione di linguaggio. Secondo, il desiderio di scoprire un linguaggio
univer- sale ed un criterio di significazione assoluto, validi per tutte le
disci- pline scientifiche e filosofiche. I canoni fondamentali del neopositi-
vismo, detto anche positivismo logico, sono i seguenti: a) i problemi
filosofici possono essere risolti solo con l’analisi del linguaggio; b) so- lo
le proposizioni sperimentali o fattuali, ossia le proposizioni che sono
passibili della verifica sperimentale, hanno senso; c) le proposi- zioni della
metafisica come pure quelle dell'estetica, della religione, della morale, ecc.
non hanno un contenuto, in quanto ogni contenuto proviene dali’esperienza e,
perciò, sono prive di senso. Su questi po- stulati si fonda la tesi centrale
del neopositivismo: quella della as- surdità (più esattamente, della
non-sensatezza) della metafisica, del- l'etica, dell'estetica e della
religione. Maggiori esponenti: Nella forma rigida che abbiamo esposto il
neopositivismo è stato sostenuto oltre che da Wittgenstein (il primo
Wittgenstein) e SCHLICK (1882-1936), anche da NEURATH (1882-1945), REICHENBACH
(1891-1953), CARNAP (1891-1970), RussELL (1872-1970) e Ayer (1910). Ma,
allorché si riconobbe l'insostenibilità del principio della verifica sperimen-
tale come criterio assoluto di significanza, la corrente neopositivista si
trasformò in corrente dell'analisi del linguaggio. Questa cessa di privilegiare
il linguaggio scientifico sopra tutti gli altri e adotta come linguaggio base
il linguaggio ordinario. Quanto al criterio di significanza molti sono disposti
ad accogliere quello proposto da K. PoPPER (1902), detto criterio di
falsificabilità. 25. Scuola esistenzialista Fondatori: MARTIN HEIDEGGER
(1889-1976) e KIERKEGAARD (1813-1855) Dottrine principali: La prima guerra
mondiale mostrò la vacuità di tutti i sistemi filosofici, dall'idealismo al
volontarismo, dal positivismo al materia- lismo, mettendo in scacco i valori da
essi esaltati, e fece sentire l’ur- genza d'un rinnovamento sostanziale della
filosofia. Interprete di tale istanza di rinnovamento e, allo stesso tempo,
testimone della situazione di angoscia in cui il flagello orrendo della guerra
aveva sprofondato l'umanità è l’esistenzialismo, un movimento di pensiero che —
rifacendosi anche al pensiero di Kierkegaard — concepisce 260 la speculazione
filosofica come una minuta analisi dell'esperienza umana quotidiana, in tutti i
suoi aspeiti, teorici e pratici, indivi- duali e sociali, istintivi ed
intenzionali, ma soprattutto degli aspetti ‘irrazionali della vita umana. I
caratteri fondameniali deil’esistenzia- lismo sono i seguenti: a) il metodo
fenomenologico: questo consiste essenzialmente in uno sforzo di chiarificagione
della esperienza con- dotto non alla luce di principi metafisici ma nell’ambito
dell’espe- rienza stessa mediante l'osservazione obiettivadella realtà così
come essa si manifesta;! b) il punto di parienza antropologico: la ri-
flessione filosofica comincia dall'uomo e si incentra sempre su di lui; c) il tentativo
di integrare le dimensioni dell'uomo comunemen- te considerate irrazionali,
come gli istinti, i sentimenti e ie passioni, in una visuale più comprensiva;
d) la subordinazione dell'essenza al- l'esistenza: l'uomo non è concepito come
un essere naturale com- pletamente configurato nella sua essenza sin dalla
nascita, ma come un individuo che, esistendo, crea la propria essenza mediante
l’uso della libertà; e) i criteri della condotta morale ron sono ricavati dal-
la natura e neppure da Dio bensì dalla storia e precisamente dalle possibilità
concrete che si presentano quotidianamente ad ognuno di noi. È autentica ossia
morale la vita di coiui che sa tradurre in atto le proprie possibilità, mentre
invece è inautentica la vita di chi le trascura. Maggiori esponenti:
L'esistenzialismo attuale ha avuto i suoi rappresentanti più iliu- stri in
Germania (con HFipEGcER e Jaspers [1883-1969]), dove tra l'ai- tro esercitò un
influsso decisivo sulla teologia, dando origine al mo- vimento denominato
teologia della crisi (BARTH [1886-1968], ILLICH [1886-1965], GocarTEN
[1887-1967], BuLTtMANnN [i884-1976]), e in Francia (con SARTRE [1905-1980],
CAMus [1913-1960], MarczL [1889- 1973], MERLEAU-PONTY [1908-1961] e LaveLLE
[1883-1951]); in Italia con ABBAGNANO (1901). 26. Scuola personalista
Fondatore: CHARLES RENOUVIER (1815-1903) Dottrine principali: Il personalismo è
un importante movimento filosofico contem- poraneo che ha avuto per culla la
Francia (già alla fine del secolo scorso), ma poi ha trovato molti seguaci sia
negli altri paesi eu- ropei come in alcuni paesi dell'America sia del Nord sia
del Sud. Si caratterizza per l’attenzione che rivolge alla persona. Contro
tutti quei sistemi filosofici che trascurano la persona o facendone un mo-
mento dell’Assoluto (idealismo) o della Storia (storicismo) o della Vita
(vitalismo) o della Natura (materialismo) o subordinandola alla 1 Vedere più
avanti la Scuola fenomenologica. 261 ori religiosi (cattolici, protestanti,
ebrei). Ciò spiega come il loro discorso sulla persona si apra necessariamente
verso la Trascendenza: Dio è il Tu supremo che chiama, interpella e porta a
compimento la progettualità umana tesa all'infinito. Maggiori esponenti: Tra i
cattolici: CH. RENOUVIER (1815-1903), E. MOUNIER (1905- 1950), J. QuiLEes, R.
GUARDINI (1885-1968); tra i protestanti: P. Ri- COEUR (1913), E.S. BRIGHTMAN;
tra gli ebrei M. BuUBER (1878-1975) e E. LÉvInAs (1906). 27. Scuola
spiritualista Origine: È un vasto movimento di pensiero che si sviluppa in
Europa (in particolare in Francia, Italia e Germania) negli ultimi decenni del-
l'’Ottocento e nei primi del Novecento in contrapposizione al positi- vismo,
allo scientismo e al materialismo. 4 Dottrine principali: Lo spiritualismo
accoglie nelle sue file pensatori di svariate ten- denze che hanno in comune
tra di loro tre cose: a) il rifiuto del ma- terialismo positivista e scientista
che aveva dominato la scena cul- turale europea durante la seconda metà del
secolo XIX; b) la riaf- 262 fermazione del primato della dimensione spirituale
su quella ma- teriale della realtà; c) la critica della concezione positivista
delle conoscenze che aveva identificato scienza e ragione e, allo stesso tempo,
assolutizzato i poteri della scienza. Denunciando le assurde pretese scientiste
del positivismo, gli spiritualisti riaprono la porta alla riflessione
metafisica. Questa però viene realizzata in svariati modi: secondo il modo più
interioristico ed antropologico di Agosti- no, oppure secondo il modo più
oggettivo ed ontologico di san Tom- maso, oppure secondo il modo trascendentale
di matrice kantiana, oppure secondo il modo dialettico di ispirazione
pascaliana, ecc. Così si è avuto lo sviluppo di uno spiritualismo agostiniano
(con Blondel, Lavelle, Sciacca, Lazzarini, Guzzo); di uno spiritualismo neoscolastico
o neotomistico (Gilson, Maritain, Masnovo, Fabro, Bontadini); di uno
spiritualismo neokantiano (Lotze, Rickert, Ca- rabellese, Martinetti). Divisi
nelle vie da percorrere gli spiritualisti si trovano però uniti nel traguardo
finale: la riaffermazione di Dio quale centro spirituale dell'universo,
principio primo del possente dinamismo insito nell'uomo e nelle cose, valore
supremo che assi- cura un solido fondamento a tutti gli altri valori (morali,
religiosi, sociali, personali) in particolare al valore assoluto della persona.
Maggiori esponenti: Tra i primi e principali esponenti dello spiritualismo,
oltre i nomi di cui abbiamo riferito sopra, occorre ricordare F. RAVAISSON
(1813-1900), CH. RENOUVIER (1815-1903), J. LACHELIER (1832-1918), E. BouTRoux
(1845-1921), che, in certo modo, possono anche dirsi fon- datori di questo
movimento. 28. Scuola di Francoforte Fondatore: M. HoRKHEIMER (1895-1973), che
è stato il principale ani- matore dell'indirizzo di pensiero che ebbe
nell'Institut fiir Sozial- forschung (Istituto per la ricerca sociale) di
Francoforte il suo cen- tro di irradiazione. Storia e dottrine princi pali:
L'Istituto, fondato nel 1924 e diretto da Karl Griinberg, fu do- minato poi
dalla personalità di Horkheimer, che fu chiamato a di- rigerlo nel 1931.
Horkheimer diede notevole impulso agli studi del- l’Istituto, proponendosi di
promuovere la elaborazione di una « teo- ria della società esistente
considerata come un tutto », avvalendosi di una ricerca interdisciplinare che
contava soprattutto sull’apporto oltre che della filosofia, della psicanalisi,
della antropologia, della sociologia. Nel 1932 nacque la rivista Zeitschrift
fiir Sozialforschung (Rivista per la ricerca sociale), come organo ufficiale
dell'Istituto. Questo, nel 1933, a causa dell'avvento del nazismo che ne aveva
de- cretato la soppressione, fu trasferito prima a Parigi e successiva- 263
movimento di pensiero che, nello studio della realtà, assegna il primato alle
strutture anziché ai contenuti. Dello strutturalismo si danno due versioni
principali, guella lingui- stica e quella filosofica. Fondatore delia prima è
F. De Saussure, della seconda C. Lévi-Sirauss. Poiché la versione filosofica
dipende stret- tamente da quella linguistica, si può coglierne il significato
soltanto tenendo presenti le tesi basilari di quest'ultima, che sono le se-
guenti: nello studio strutturalistico di una lingua i isrmini non vanno
trattati come entità indipendenti ma vanno considerati nelle loro reciproche
relazioni, cioè l’analisi deve basarsi sulle relazioni fra i termini; la lingua
va vista come un sistema, mostrande che ci sono sistemi fonologici concreti e
scoprendo le loro strutture; in- fine si cerca di arrivare, sia con l’induzione
sia con la deduzione, alla conoscenza di leggi generali e a formulare relazioni
necessarie. Dal campo della linguistica Lévi-Strauss ha trasferito lo
strutturalismo allo studio generalizzato dell’uomo e della società, ritenendo
di poter trattare i membri della società alla stregua dei singoli termini di
264 logia, dalla macchina, e si vede sempre più gravemente lesa nella sua
libertà e nella sua autonomia. Ciò che è accaduto, secondo ‘Foucauli, è la
morte dell’uomo; e, in effetti, più che la « morte di Dio », lo strutturalismo
« annuncia la fine del suo uccisore [...] l'assoluta dispersione dell’uomo ».
Maggiori esponenti: I maggiori rappresentanti dello strutturalismo sono: C.
LÉvI- STRAUSS (1908) che concepisce l'antropologia strutturale come inven-
tario delle possibilità inconsce da cui emergono le strutture proprie di una
società; M. FoucauLT (1926), studioso dell’epistema, ossia del- l’a priori
storico di alcuni periodi della civiltà occidentale. 30. Scuola fenomenologica
Fondatore: EDMUND HussERL (1859-1938) Dottrine principali: Come suggerisce il
termine « fenomenologia » — che è quello che dà il nome a questa scuola — lo
studio dei fenomeni costituisce l’obiettivo primo e principale della filosofia
secondo Husserl e i suoi seguaci. Senonché il loro concetto di fenomeno ha ben
poco in co- mune con il classico concetto kantiano, il quale rimanda
necessaria- mente alla « cosa in sé », il noumeno. Secondo Husser! il fenomeno
è il dato immediato ed ultimo, e la questione della cosa in sé non si pone
neppure. Il fenomeno, si potrebbe dire, è la cosa in sé, e in effetti per
Husserl e per i suoi seguaci studiare i fenomeni significa studiare la realtà
quale essa si offre alla intelligenza al fine di evi- denziarne i contenuti
essenziali. Per quesio è essenziale l’epoché (termine greco che significa «
sospensione », « messa in parentesi »): vale a dire la sospensione di qualsiasi
conoscenza previa intorno ai fenomeno preso in esame, compreso il presupposto
deila coscienza naturale che al di là del mondo conosciuto (mondo eidetico, dei
significati) esista anche un mondo esterno. Il metodo fenomenologico — di cui
Husserl fu il geniale inven- tore — fu accolto con entusiasmo e fu ampiamente
utilizzato da 265 molti filosofi del sec. XX, soprattutto dagli
esistenzialisti, ma anche dai personalisti, dagli psicanalisti, dagli analisti
del linguaggio, da- gli antropologi, dai sociologi, dai filosofi della
religione, ecc., i quali, però si appropriarono della teoria husserliana con
una buona dose di libertà, depurandola quasi sempre da quella venatura idea-
listica che c'era in Husserl. Della fenomenologia salvaguardarono i due canoni
fondamentali: l'epoché (cioè sospensione di ogni cono- scenza o precomprensione
di ciò che costituisce oggetto di studio) e intenzionalità (che è il
riconoscimento del carattere essenzialmente referenziale della coscienza e dei
suoi contenuti), mentre lasciarono cadere gli altri elementi che avevano
condotto Husserl sui sentieri dell'idealismo e del solipsismo. ; Maggiori
esponenti: L'indirizzo fenomenologico ha avuto un largo seguito, e l’uso del
metodo fenomenologico ha consentito a numerosi pensatori di conseguire
importanti risultati: a SCHELER (1874-1928) di esplorare il mondo dei valori; a
HEIDEGGER (1889-1976) il mondo dell’esistenza; a MERLEAU-PONTY (1908-1961) il
mondo del corpo; a WITTGENSTEIN (1889-1951) il mondo del linguaggio; a RICoEUR
(1913) il mondo del simbolismo religioso; a LÉvINAS (1906) il mondo dell'altro;
a MARCEL (1889-1973) il mondo della fede, della speranza e della carità; a
SARTRE (1905-1980) il mondo della libertà; a GADAMER (1900) il mon- do della
storia. 31. Scuola epistemologica Una vera e propria scuola! che porti questo
nome non è mai esi- stita e non esiste. Nella storia della filosofia invece si
registra forte attenzione a numerosi problemi della conoscenza come la natura,
i fondamenti, i limiti e le condizioni di validità del sapere scientifico nei
vari campi delle scienze; ciò è avvenuto soprattutto a partire da Cartesio e
con maggior impegno nell'ultimo secolo. Tale attenzione è il tratto comune di
tutto il pensiero moderno ed è ciò che lo di- stingue dal pensiero antico e
medioevale. Mentre questo aveva un orientamento marcatamente metafisico, il
pensiero moderno ha pre- so un orientamento marcatamente gnoseologico o
epistemologico: la discussione fondamentale e principale riguarda il conoscere
e non più l'essere. Da questo indirizzo generale e comune si distaccano sva- P
! Per avere una scuola non basta un bel tema. La metafisica e l'etica, per
esempio, sono temi bellissimi eppure non esistono né una scuola metafisica né
una scuola etica. Perché si dia una scuola occorre anzitutto un maestro e poi
un discreto numero di discepoli che per qualche tempo ne abbiano ripreso il
pensiero. Sui grandi temi (e questo è anche il caso dell’epistemologia) sono
state proposte, come è detto sopra, svariate interpretazioni ed elaborazioni da
parte di numerosi maestri insigni che pertanto hanno dato luogo a molte scuole,
non ad un'unica scuola. 266 riate ramificazioni: la scuola razionalista (con
Cartesio, Spinoza e Malebranche) nel secolo XVII; la scuola empirista (con
Locke, Berkeley e Hume); la scuola illuminista (con Voltaire, Rousseau,
Lessing) e la scuola criticista (con Kant) nel secolo XVII; la scuola
positivista (con Comte e Spencer) nel secolo XIX; la scuola neopo- sitivista o
neoempirista (con Carnap, Popper, Wittgenstein, Russell, Ayer) nel secolo XX. I
recenti sviluppi della riflessione epistemo- logica (di Bachelard, Popper,
Kuhn, Agazzi) ha fruttato un ridimen- sionamento delle pretese della scienza e
ha rimesso in luce questio- ni preliminari sulla natura stessa del conoscere e
del soggetto che svolge l’attività scientifica che debordano i confini
dell’epistemolo- gia e invadono il terreno della metafisica. 32. | « Nuovi
Filosofi » Non rappresentano una scuola nel senso proprio del termine, ma
rappresentano sicuramente una delle correnti‘ di pensiero più indicative della
crisi. della coscienza contemporanea. Giovani intel- lettuali marxisti,
‘protagonisti del maggio 1968 in Francia, sono diventati progressivamente
assertori di una critica radicale alla complessità teorica e pratica del
marxismo nelle .sue formulazioni di principio e nelle sue attuazioni storiche.
Le ragioni di questa crisi profonda nei confronti del marxismo sono state
provocate soprattutto dalle tragiche vicende degli intellet- tuali sovietici
del dissenso e dalla pubblicazione di Arcipelago Gulag (1978) di A. Solzenicyn.
Maggiori esponenti: CHRISTIAN JAMBET (1949), Guy LARDREAU (1947), JEAN-MARIE
BENOIST (1942), JEAN PAUL Dottè (1939), MicHEL GUERIN (1946), BERNARD- Henry
LEvy (1949), ANDRÈ GLUCKSMANN (1937). Kk xk Abbiamo presentato i sistemi
principali delle filosofie occiden- tali. Il motivo di questo è dato dal fatto
che « soltanto gli occidentali, a partire dal popolo greco, sono riusciti a
mettere a punto gli stru- menti concettuali (la logica, la dialettica, il puro
ragionamento) che sono necessari per elevare la filosofia dal livello
elementare a quello scientifico. Infatti, anche nelle altre culture,
specialmente in quelle derivanti dalle grandi civiltà mediorientali ed
orientali, elementi fi- losofici appaiono in contesti di carattere
prevalentemente religioso e pertanto non possono essere definiti “filosofia” in
senso scientifico 267 vero e proprio ».! Altrettando non si puè dire delia
filosofia islamica, la quale approfondì e Sviluppo la filosofia scolastica
prima ancora che essa si sviluppasse in Europa. I massimi rappresentanti della
filo- sofia islamica sono AVICENNA, nato nell'Asia centrale nel 980 e morto nel
1037 duranie una campagna militare; AVERROÈ, nato a Cordova, in Spagna, nel
1126 e morto nel 1198. Anche nel mondo ebraico si di- stinsero, rel Medioevo,
due filosofi che hanno tentato di approfon- dire le più importanti verità della
fede, servendosi anche delia spe- culazione aristotelica e neoplatonica:
AVICEBRON, nato a Malaga, in Spagna, verso il 1820 e morto a Valencia fra il
1058 e il 1069; MAIMONIDE, nato a Cordova nel 1135 e morto a Il Cairo nel 1204.
Naturalmente, alla suddivisione delle Scuole illustrate nel pre- sente volume,
specie per quanto riguarda quelle degli ultirni se- coli, si possono fare delle
obiezioni. Non è possibile seguire un cri- terio rigido e uniforme. Molti
filosofi appaiono in più di una Scuola, sia per l'evoluzione del loro pensiero
che per i, multiformi contributi dati da numerosi filosofi a più di un
indirizzo filosofico. Per questo, è utile consultare la ZII Parte, che presenta
le schede dei maggiori filosofi, dall'antichità ad oggi. ! B. MONDIN, vol. I,
p. 9. 268 Parte terza: I PRINCIPALI FILOSOFI" Abbagnano Nicola (1901)
Filosofo italiano, nato a Salerno, fu allievo di A. Aliotta e docente in varie
università. Distaccatosi dall’idealismo, in Italia fu tra i pri- mi a cogliere
e segnalare l’importanza della nuova prospettiva esi- stenziale nello studio
della realtà, che proveniva dalla Germania e dalla Francia, propugnando,
peraltro, una sorta di esistenzialismo positivo, in contrapposizione a quello
essenzialmente negativo di Heidegger, Jaspers, Sartre. Successivamente, dopo il
1945, approfon- dendo il pragmatismo e lo strumentalismo anglo-americano,
divenne assertore convinto di una concezione del mondo che, pur afferman- do la
dignità assoluta della persona e dei suoi diritti, allo stesso tempo riconosce
apertamente i limiti della ragione umana, la quale deve rifuggire ogni
tentazione di onniscienza ed onnipotenza e col- tivare la via del « limite ».
Opere principali: La struttura dell’esistenza (1939); Introduzione
all'esistenzialismo (1942); Esistenzialismo positivo (1948); Storia della
filosofia, in 3 voll. (1946-1950); Possibilità e libertà (1956); Di- zionario
di filosofia (1960). Abelardo Pietro (1079-1142) Filosofo e teologo francese
nato a Nantes, fu una mente enciclo- pedica e un dialettico formidabile.
Discepolo a ‘Parigi di Roscellino (nominalista) e di Guglielmo di Champeaux
(ultrarealista), ben pre- sto prese posizione contro i suoi maestri, aprendo
nuove strade sia in filosofia (con la teoria del realismo moderato), sia in
teologia (col metodo dialettico del sic et non). Fu maestro prima di dialettica
e successivamente di teologia a Parigi (nella scuola di Notre Dame * In questa
Parte terza vengono presentate le schede dei filosofi delle grandi Scuole del
periodo antico, medioevale e moderno; un maggior sviluppo è riservato ai
filosofi dell’epoca contemporanea. Le date di nascita e morte di gran parte dei
filosofi dell'antichità, per mancanza di dati precisi, si devono ritenere
approssimative. 269 e nel monastero di san Vittore) ottenendo grande successo
tra la folla dei suoi auditori. Ma incappò in due grossi infortuni: quello
sentimentale a causa del suo sventurato amore per la sua giovane allieva Eloisa
che aveva sposato in segreto e che gli costò l’evira- zione e la chiusura in
convento a Chalons sur Saòne fino alla morte; quello dottrinale che gli attirò
la condanna dei concili di Soissons (1121) e di Sens (1141). In teologia la
tendenza di Abelardo è razio- nalistica: mira a sottoporre all'analisi critica
della ragione anche le verità di fede. In filosofia hanno avuto vasta risonanza
la sua so- luzione del problema degli universali secondo la linea del realismo
moderato, e la dottrina della buona intenzione quale criterio unico della bontà
di un'azione. Opere principali: Dialectica; De unitate et trinitate divina (in
cui tenta di accostare le tre persone della Trinità alla triade neoplatonica
Uno, Mente, Anima); Nostrorum petitioni sociorum; Ethica seu liber scito
teipsum; Ingredientibus. A carattere teologico scrisse, tra l’al- tro:
Introductio ad theologiam, Theologia christiana. Adler Max (187 1937). . È
annoverato” tra È ‘tapiscuola dell’è ‘austromarxismo », la nuova scuola nata
‘da’ una « Comunità spirituale », frantumatasi, nel 1914, per le divergenze
sorte in merito alla valutazione del problema della partecipazione alla guerra,
dei nazionalismi e dei caratteri della rivo- luzione bolscevica. i Questione
primaria dell’austromarxismo è la fondazione dei va- lori del socialismo e la
verifica di quanta scienza sia presente nel marxismo o quanto meno derivabile
da esso. La sua riflessione è polarizzata su tre questioni fondamentali: a) il
concetto di pro- gresso; b) l'interrogativo circa l’interpretazione del
materialismo; c) il carattere metafisico e metodologico della dialettica. Opere
principali: l'opera nella quale Adler elabora le linee fonda- mentali della sua
riflessione è Problemi marxisti (1920); altre sue opere sono: La condizione
dello Stato nel marxismo; Democrazia e consigli operai; Socialismo e
intellettuali. Adorno Theodor Wiesegrund (1903-1969) Filosofo, sociologo e
musicologo, nacque a Francoforte, dove visse e lavorò sino all'avvento del
nazismo, quando si trasferì negli U.S.A. insieme ad Horkheimer, dal ’34 al '50.
Tornato in Germania, divenne condirettore dell'Istituto per le Ricerche
Sociali, la famosa Scuola di Francoforte, che era stata fondata nel 1924, e dal
1931 al 1933 venne diretta da Horkheimer, di cui Adorno fu sempre il più
sti‘etto collaboratore. Insieme a questi curò la stesura delle due opere
fondamentali: Dialettica dell'Illuminismo e Lezioni di sociologia. Da marxista
pienamente convinto, quale fu sino agli anni ‘’40, divenne un critico preciso
del pensiero di Marx, sia come ideologia che come filosofia, impegnandosi,
soprattutto negli ultimi anni, ad 270 analizzare criticamente i miti del
progresso ed il loro sviluppo nelle società capitaliste avanzate. Nel contempo,
come studioso della filosofia della musica, di cui può dirsi fondatore, indicò
nell'arte il mezzo per riproporre in modo continuo la dimensione utopica per la
risoluzione della crisi culturale moderna. Opere principali: Dialettica
dell'illuminismo (1944); Lezioni di sociologia (1947); Personalità autoritaria
(1950); Minima moralia (1951); Tre studi su Hegel (1963); Dialettica negativa
(1966). Come musicologo è notevole La filosofia della musica moderna (1949); In-
troduzione alla sociologia della musica (1962). Nel 1974 è uscita po- stuma ed
incompleta la sua Teoria estetica. Agostino di Ippona (354-430) Nato a Tagaste
(nell'attuale Algeria) da madre cristiana (la futura santa Monica), si dedicò a
studi letterari e filosofici e poi all’insegna- mento. Aderì in epoche diverse
a filosofie diverse. Passò a Roma e poi a Milano: qui, anche per l’incontro con
sant'Ambrogio, si con- vertì al cristianesimo e ricevette il battesimo. Tornato
in Africa, di- venne prete e poi vescovo di Ippona. Morì nel 430. Scrisse molte
opere su svariati argomenti di interesse filosofico e teologico. Sant'Agostino
è il massimo esponente della filosofia cristiana du- rante il periodo
patristico. Egli ha operato una sintesi armoniosa di cristianesimo e di
neoplatonismo. Egli dà alla sua filosofia una netta impostazione interioristica
(« la verità abita nell'uomo interiore ») ed è essenzialmente attraverso
l’interiorità umana che egli ascende a Dio. Nell'uomo, che è mutevole — osserva
Agostino —, vi è la verità, che è immutabile: in ultima analisi, Dio è la
Verità che si fa riconoscere nel cuore dell'uomo. Al problema se l'uomo possa
conoscere la verità Agostino rispon- de con una serrata critica dello
scetticismo, dimostrando che l'uomo conosce con certezza alcune verità. La
conoscenza delle verità eterne, che è il vertice della conoscenza intellettiva,
ha luogo attraverso la illuminazione divina. Il linguaggio ha funzione
strumentale: la pa- rola serve per comunicare le idee. Momento centrale della
sua riflessione è il tema della creazione del mondo messo in rapporto al
problema dell'eternità e del tempo. Il tempo per Agostino è una dimensione
propria dell'animo umano, è la durata di una natura finita che ha bisogno di
tappe successive e continue per realizzarsi. Il tempo è un presente che passa,
l'eternità, invece, è un presente che non passa. La mente è la misura del
tempo: 1) la memoria è il presente del passato; 2) l'intuizione è il presente
del presente; 3) l'attesa è il presente del futuro. Il mondo è stato creato da
Dio nella sua intierezza, sin dall'inizio, con tutte quelle virtualità, che si
sarebbero venute sviluppando nel- la storia (ragioni seminali). Inoltre,
nell'affrontare il problema del male, comune alla tradizio- 271 ne del neoplatonismo,
afferma che il male non deriva da Dio, ma dalle creature, in quanto non è una
realtà positiva, ma una privazio- ne della realtà. Contro il manicheismo
sostiene la libertà dell'uomo, contro il pelagianesimo il valore della grazia.
La centralità riservata da Agostino all'interiorità dell'uomo fa sì che nel suo
pensiero il problema dell'anima acquisti una particolare incidenza. Per
Agostino l’uomo è « un'anima ragionevole che si serve di un corpo mortale
terrestre ». Gli argomenti per dimostrare la spi- ritualità e l'immortalità
dell'anima sono: 1) o l’anima esplica la sua attività (volere, pensare,
dubitare, ecc.) senza il corpo e allora è spi- rituale, o ha sempre bisogno
«del corpo e allora è materiale. (C'è un caso in cui l'anima non ha bisogno del
corpo ed è quando conosce se stessa come sostanza che vive, ricorda e vuole,
ecc.; 2) la prova del- l'immortalità è di ispirazione platonica: l’anima si
trova in continua relazione con la verità; vi è pertanto un'intima unione tra
la mente che contempla la verità e la verità che è contemplata. Con Agostino ha
inoltre origine nel pensiero occidentale una vera e propria teologia della
storia, innestata su una nuova filosofia della storia, ben diversa da quella
del mondo classico. La storia non è più concepita come un susseguirsi di cicli
che si ripetono periodicamen- te, ma un cammino in linea retta che sale dalla
terra al cielo. Lo svolgersi della storia è la lotta tra la città terrena e
quella celeste. La storia è divisa in tre grandi periodi (l'origine, il
passato, il fu- ‘turo) rischiarati dalla luce della Rivelazione cristiana.
Infine, per Agostino, i rapporti fra la « città celeste » (o Chiesa) e la «
città terreno » (o mondo) sono chiariti ricorrendo alla dialettica dei due
amori: l’amore di Dio; l’amore di sé. Opere principali: Contra academicos; De
beata vita; De ordine; Soliloquia (quattro opere scritte tra il 386 e il 387);
De immortalitate animae (387); De libero arbitrio (388); De vera religione
(390); Con- fessiones (13 libri scritti tra il 397 e il 401); De Trinitate (15
libri scritti tra il 399 e il 419); De civitate Dei (22 libri scritti tra il
413 e il 426). Alberto Magno (1205-1280) Filosofo e teologo tedesco. Fece i
suoi studi a Bologna e a Padova e nel 1223 entrò nell'ordine domenicano. Insegnò
teologia a Parigi e poi a Colonia, dove morì. A Parigi ebbe come allievo
Tommaso d'Aquino. Fu uno dei primi pensatori medievali a valorizzare la filo-
sofia e la scienza aristotelica, dichiarandola compatibile con la fede
cristiana; ne raccomandò l'assunzione da parte della Chiesa e diede egli stesso
l'esempio di ome si poteva utilizzare le dottrine scientifi- che e metafisiche
di Aristotele a vantaggio del cristianesimo. A tal fine cercò di liberare il
pensiero del filosofo greco dalle distorsioni che gli aveva procurato
l’interpretazione di Averroè. In tal modo egli spianò la strada al discepolo
Tommaso d'Aquino, che riuscì ad operare 272 quella grande sintesi del pensiero
aristotelico con la rivelazione cri- stiana, che costituisce una delle massime conquiste
del Medioevo. Opere principali: Commentari alle opere di Aristotele; Tractatus
de natura boni; Summa de creaturis; commento alle Sentenze di Pietro Lombardo;
Summa theologiae. Althusser Louis (1918) Filosofo francese, nato ad Algeri e
discepolo di Bachelard, ha insegnato a lungo all’« École Normale Superieure »
di Parigi sino a quando fu colpito da una malattia mentale. Appartiene con
Bloch e Garaudy al neomarxismo francese. Egli ritiene che la dialettica
hegeliana sia funzionale in ordine alla prassi marxiana, leninista e maoista e
pertanto vada o abbando- nata o ridefinita; asserisce, inoltre, che in Marx è
presente una « rottura epistemologica » tra la nozione fondamentale di « modo
di produzione » e l'umanesimo degli scritti giovanili. Assume, pertanto, il
metodo strutturale come chiave di lettura dei testi marxiani con soluzioni
opposte a Bloch e a Garaudy. Egli nega infatti che nelle opere giovanili di
Marx esista la prospettiva di un « umanesimo socialista », attribuendo al
concetto di umanesimo una valenza ideologica e al concetto di socialismo una
valenza scien- tifica. Marx, secondo Althusser, si è impegnato in un
affrancamento dai pregiudizi filosofici e, anche se non ha eliminato
l'ideologia, ha creato le condizioni storiche per conoscerla, ponendosi così da
un punto di vista scientifico. L'approccio scientifico all'ideologia avreb- be
pertanto costituito il vero merito di Marx e del marxismo. Opere principali:
Per Marx (1965) e Leggere il « Capitale » (scritto con i suoi allievi nel 1965);
Lenin e la filosofia (1969), Umanesimo e stalinismo (1973), Elementi di
autocritica (1974). Anassagora (500-428 a.C.) Originario di Clazomene, in Asia
Minore, introdusse la filosofia ad Atene. Fu filosofo e scienziato. Ad Atene
divenne maestro di Pe- ricle. Imprigionato a causa delle sue teorie
astronomiche, fu liberato per intercessione di Pericle e morì in esilio. Anche
per Anassagora, come per Democrito, l'essere è costituito da atomi
qualitativamente diversi, le « omeomerie ». La diversità dei corpi è data dal
prevalere di determinate omeomerie. Per primo Anassagora pone come causa del
divenire una Mente Suprema (Nous), principio ordinatore delle cose. Così egli
supera la spiega- zione naturalistica dell'universo ed apre orizzonti nuovi al
pensiero greco. Della sua opera Sulla natura rimangono 12 frammenti.
Anassimandro (610-546 a.C.) Matematico e astronomo di Mileto, oltre che
filosofo. Successe a Talete nella guida della Scuola ionica. Pone come
principio primo di tutte le cose qualcosa di indeterminato (àpeiron). Il suo
eterno 273 movimento determina nella materia, per separazione, i contrari.
L'àpeiron (infinito) di Anassimandro è un concetto nuovo e importan- tante
perché introduce elementi metafisici, che trascendono cioè le co- se « finite
». Della sua opera Della natura rimane un solo frammento. Anassimene (585-528
a.C.) Nacque a Mileto, come Talete e Anassimandro, di cui fu disce- polo.
Ripone il principio primo nell'aria, che è eterna e in continuo movimento,
rifiutando così il concetto dell’àpeiron del suo maestro Anassimandro. È
l’espressione più compiuta della filosofia ionica. Della sua opera Sulla natura
rimane un solo frammento. Anselmo d'Aosta (1033-1109) Nato ad Aosta entrò,
adolescente, nell'abbazia benedettina di Bec, in Normandia, nel 1086 ne divenne
abate. Una decina d'anni più tardi fu nominato vescovo di Canterbury in
Inghilterra. Anselmo è il massimo pensatore cristiano del secolo XI e dà
l’avvio alla rinascita del pensiero filosofico e teologico medioevale. Egli
studia, tra l'altro, due problemi di fondamentale importanza per la filosofia
cristiana: il problema dei rapporti tra fede e ragione che risolve secondo la
linea dell'armonia nella sottomissione della ragio- ne alla fede e il problema
della esistenza di Dio, che risolve con la celebre prova ontologica (movendo
cioè dal concetto che Dio è l’esse- re massimo che si possa concepire: id cuius
maius cogitari nequit). Opere principali: Monologion; Proslogion; Cur Deus
homo; De veritate; De grammatico. Ardigò Roberto (1828-1920) . Nato a
Casteldidone (Cremona), mentre compiva gli studi classici a Mantova si sentì
chiamato alla vocazione sacerdotale. Venne ordi- nato prete nel 1851 a Mantova,
dove fu nominato canonico della cattedrale nel 1863. Dopo un lungo periodo di
crisi, abbandonò il sacerdozio nel 1871. Nel 1881 fu chiamato alla cattedra di
storia del- la filosofia nella università di Padova. Ricoprì tale incarico per
quasi 30 anni. Morì suicida a Mantova dove si era ritirato. Ardigò fu il più
illustre rappresentante del positivismo in Italia. Rifacendosi a Spencer,
Ardigò insegna che tutta la realtà è una « for- mazione naturale » che va dal
sistema solare alle più elevate espres- sioni del pensiero umano; pertanto egli
considera la vita psichica quella che rivela nel modo più singolare la vita
stessa dell'universo. Secondo Ardigò la differenza tra l’uomo e l'animale è
soprattutto organica. Nell'uomo la più perfetta organizzazione del sistema rer-
voso e specialmente del cervello, consente uno sviluppo psichico più perfetto.
Tutta la realtà è omogenea; perciò non esiste l’inconosci- bile (Dio) ma
soltanto l'ignoto. Quindi non esiste trascendenza ma pura e assoluta immanenza,
per cui non si possono superare i confini della coscienza o del mondo umano.
274 Opere principali: La psicologia come scienza positiva {1870); La motale dei
positivisti (1879); Relatività della logica umana (1881); Il fatto psicologico
della percezione (1882); Sociologia (1886); La scienza dell'educazione (1893);
L'unità della coscienza (1898). Aristotele (384-322 a.C.) Nato a Stagira
(Tracia), visse ‘soprattutto ad Atene; fu discepolo di Platone e precettore di
Alessandro Magno; fondò ad Atene il « Li- ceo » o Scuola peripatetica (335).
Insieme a Platone, Aristotele è la figura dominante della storia della filosofia,
dall'antichità sino al- l'epoca moderna. Ha scritto su moltissimi argomenti:
sulle scienze, sulla logica, sulla filosofia. Mentre Platone preferisce il
dialogo, Aristotele usa il trattato filosofico come espressione del suo
pensiero. È il creatore della logica, cioè dello studio sistematico dei
concetti e dei loro rapporti. Nel campo del ragionamento propone due metodi: la
deduzione e.l’induzione. | ‘« Afistotele sostiene che la'scienza:è superiore
all'esperienza, per- tte la*scienza è conoscenza medi nte lepanse. Là
Metafisica è l’opera if cui i Aristotele : si occupa dei ‘principi. ‘primi
delle cose. La verità prima e fondamentale è il principio. di
non-contraddizione, principio noto, assoluto, indimostrabile. Quanto al
costitutivo essenziale delle cose, Aristotele rifiuta la teoria platonica delle
Idee perché essa, a suo avviso, non spiega né l'essenza delle cose, né il loro
divenire, né il loro rapporto con le Idee, né in che modo l’uomo le possa
conoscere. La spiegazione della realtà va ricercata nella realtà stessa,
costituita di sostanze e di ac- cidenti ed i cui elementi costitutivi sono la
materia e la forma. Materia e forma esistono soltanto insieme (« sinolo »):
alla sostanza la forma conferisce i caratteri specifici; la materia conferisce
le ca- ratteristiche individuali. Attraverso un'approfondita analisi del
divenire, Aristotele giunge alla scoperta delle nozioni di potenza e di atto. È
la « potenza » che rende possibile il divenire. Il divenire delle cose deriva
dal passaggio della potenza all'atto. Solo Dio è Atto puro, unico, eterno.
L'uomo, come tutti gli esseri, è costituito di materia e forma: la materia è il
corpo, la forma l’anima che ha tre funzioni: vegetativa, sensitiva e
intellettiva. La conoscenza umana ha come sua prima sorgente l’espe- rienza
sensitiva. Secondo Aristotele la felicità dell’uomo consiste nel- l'attività
della ragione mediante l'esercizio delle virtù dianoetiche o dell'intelletto e
le virtù morali. Per lui lo Stato ha origine naturale e non convenzionale; esso
deve facilitare la completa realizzazione delle capacità umane. Esistono tre
forme di costituzioni giuste (monarchia, aristocrazia, repubblica) e tre forme
ingiuste (tirannia, oligarchia, « democrazia ». L'estetica di Aristotele è una
filosofia dell’arte, cioè un'attività che mira a pro- 275 durre una cosa bella.
La funzione dell’arte è duplice: pedagogica e catartica (cioè di purificazione
teoretica delle passioni). Aristotele ha realizzato una grandiosa costruzione
filosofica i cui elementi fondamentali sono: efficace metodo di ricerca
(logica) e forma espositiva; analisi acuta degli elementi costitutivi del mondo
fisico; visione realistica del mondo e dell’uomo; concezione alta (per i tempi)
della trascendenza di Dio. Elementi caduchi sono invece: inadeguata analisi
della natura; mancato riconoscimento della causa efficiente del mondo; eternità
della materia; concezione di Dio come motore immobile; dualismo di fondo del
sistema. Opere principali: Metafisica (14 libri); Fisica (8 libri); Etica nico-
machea {10 libri); Politica (8 libri); De anima (3 libri); Poetica. (1 libro).
i Averroè (il suo nome arabo è Ibn Rushd) (1126-1198) Filosofo e scienziato
arabo spagnolo, nacque a Cordoba, e di quella città fu anche per vari anni gadì
(giudice). Genio polivalente operò in molti campi: teologia, diritto, medi-
cina, matematica, astronomia e filosofia. Ma egli è ricordato soprat- tutto
come commentatore di Aristotele, tanto che è chiamato « il commentatore » per
antonomasia: « Averrois che '1 gran commento feo », dice Dante nella Divina
Commedia. Averroè contribuì in modo determinante alla diffusione del pensiero
di Aristotele tra gli scola- stici cristiani. L'interpretazione letterale delle
opere di Aristotele operata da Averroè lo poneva spesso in contrasto con alcune
dottrine fondamentali del cristianesimo. Per questo fu criticata da Alberto
Magno e san Tommaso, i quali promossero una nuova interpreta- zione che si
armonizzava più facilmente con la loro fede. Di religione musulmana, Averroè
pone invece una netta separazione tra fede re- ligiosa e pensiero filosofico.
Opere principali: Commentari (grande, medio, piccolo) alle opere di Aristotele
(1169-1180); La distruzione della distruzione; Esposi- zione dei metodi di
dimostrazione relativi ai dogmi della religione. Avicenna (il suo nome arabo è
Ibn Sina) (980-1037) Filosofo e scienziato persiano, nacque a Bukara nell'Asia
centrale (Uzbekistan). Ragazzo prodigio acquistò una cultura enciclopedica. Si
affermò soprattutto come medico e come filosofo. A 17 anni era già un medico
famoso e durante il Medioevo, in Europa, egli godeva più fama come medico che
come filosofo. Per quanto concerne la filosofia, Avicenna è il massimo
rappresen- tante della filosofia araba. Su una base sostanzialmente
neoplatonica e utilizzando ampiamente le categorie metafisiche di Aristotele
(ma- teria-forma, atto-potenza, sostanza-accidenti, ecc.) egli creò una im- 276
ponente sintesi tra il pensiero religioso musulmano e il pensiero filo- sofico
greco. Opere principali: della sua prodigiosa produzione letteraria che venne
molto diffusa nell'Occidente cristiano, sono noti soprattutto: il breve Najat
(un compendio di metafisica); il voluminoso Chifa (conosciuto dai medioevali
sotto il titolo di Liber sufficientiae: un'o- pera che comprende trattati sulla
logica, la fisica, la matematica, la psicologia e la metafisica); il Canone
(una grande enciclopedia me- dica in cinque libri); Direttive e rilievi; Libro
di scienza. Bachelard Gaston (1884-1962) Epistemologo francese, nato a Bar sur
Aube, insegnante per molti anni alla Sorbona di Parigi; come rappresentante del
raziona- lismo scientifico è impegnato a chiarire il senso dell’opus rationale
che costituisce la scienza. Egli si oppone sia al positivismo che allo
spiritualismo. Nella sua gnoseologia Bachelard pone la coppia
esperienza-ragione alla base di tutta la conoscenza umana. L’elemen- to teorico
però svolge il ruolo direttivo. Il procedimento scientifico si configura come «
realizzante », cioè come realizzazione del razionale e del matematico. La posizione
filosofica di Bachelard potrebbe essere definita co- me un « razionalismo
applicato », in cui primeggia la direttrice che va dalla ragione all'esperienza
e che corrisponde alla supremazia della fisica-matematica. Come Gadamer e
Popper, anche Bachelard ritiene che l'osservazione scientifica si realizza
sempre muovendo da una teoria precedente e preparatrice e non viceversa. Opere
principali: I! valore intuitivo della relatività (1929); Il nuo- vo spirito
scientifico (1934); La formazione dello spirito scientifico (1938); Il
razionalismo applicato (1949); Il materialismo razionale (1953). Bacone
Francesco (Francis Bacon) (1561-1626) Nato a Londra da una famiglia dell'alta
borghesia, si diede alla carriera politica ottenendo onorificenze e cariche
importanti. Nel 1621 fu accusato e condannato per corruzione nell'esercizio
delle sue funzioni di lord cancelliere. La pena inflittagli gli fu risparmiata
per la protezione di cui godeva presso il re. Bacone elabora il nuovo metodo
induttivo: con gli esperimenti si deve raccogliere una sufficiente informazione
e poi, per mezzo della ragione, si devono elaborare ipotesi generali che
consentano di arri- vare a riconoscere la causa del fenomeno studiato. Il fine
della scienza è pratico, l'oggetto è la causa delle cose naturali. Nella sua
opera Novum Organon contrappone una nuova logica induttiva a quella
aristotelica, essenzialmente deduttiva. Nella 1? parte, pars destruens,
demolisce quegli ostacoli (idola tribus, specus, fori, theatri) che possono
impedire la ricerca scientifica; nella 2°, pars costruens, indica il
procedimento per arrivare ai risultati. 277 Bacone ha il grande merito di
essere stato il primo a porsi in maniera sistematica il problema del metodo
proprio delle scienze sperimentali, del loro oggetto e del loro fine. Pur non
avendo dato nessun contributo concreto al progresso di qualche scienza, il suo
apporto è fondamentale perché ha fatto progredire la scienza in quanto tale.
Opere principali: Discorso in elogio della conoscenza (1592); De sapientia veterum
(1609); Instauratio magna scientiarum (1609) (in sei parti, ma ne portò a
termine solo due: De dignitate et augmen- tis scientiarum e Novum Organon);
Saggi (1625). Bergson Henri (1859-1941) Filosofo francese, nato a Parigi. Nel
1900 ottenne la cattedra di filosofia al Collegio di Francia, dove le sue
lezioni ebbero un gran- dissimo successo. Nel 1927 ricevette il premio Nobel
per la lettera- tura. La sua influenza sui suoi contemporanei e sulle
generazioni successive (tra cui è da ricordare Maritain) fu notevole. È stato
uno . dei niaggiori rappresentanti dello
spiritualismo- francese, in forte polemica ‘cori. il positivismo. e-lo
scieritismo della fine .del secolo XIX e gli inizi del XX: è stato la loro
coscienza critica. Esercitò una grande influenza anche sull'esistenzialismo
francese, sul pragma- tismo e sulla fenomenologia. Bergson ha elaborato una
filosofia antimeccanicistica e anti- materialistica imperniata su due tesi
fondamentali: 1) la realtà è durata; 2) la realtà è colta mediante l'intuizione.
La realtà scaturisce da una evoluzione creatrice colma di possenti energie,
differente- mente impegnate (torpore vegetativo, istinto, intelligenza) e
orientate in due direzioni: ascensionale {verso la vita), discendente (verso la
materia). Oggetto della filosofia è lo slancio vitale, che si manifesta nel
continuo divenire degli esseri: dalla materia allo spirito e dallo spi- rito
alla materia. L'applicazione alla morale della distinzione fra ragione e
intuizione dà origine rispettivamente alla morale « chiusa » e a quella «
aperta ». La medesima distinzione vale per la religione « statica » e la
religione « dinamica ». La pratica della religione di- namica è la vita mistica
(il cui vertice è il misticismo cristiano). At- traverso l’esperienza dei
mistici, Bergson arriva all'esistenza di Dio. La mistica, però, esige la «
meccanica »; come la meccanica esige la mistica. Opere principali: Materia e
memoria (1896); Il riso (1901); Intro- duzione alla metafisica (1903);
L'evoluzione creatrice (1907); L'intui- zione filosofica (1911); L'energia
spirituale (1919); Le due fonti della morale e della religione (1932); Il
pensiero e il movimento (1934). Berkeley George (1685-1753) Irlandese, fu
professore al « Trinity College » di Dublino. Nel 1709 prese gli ordini sacri
nella Chiesa anglicana. Viaggiò in Inghil- 278 terra, Francia e Italia. Nel
1721 si recò in America per erigervi un seminario, ma dovette rinunciare. Nel
1723 fu nominato vescovo. Berkeley, che era un'anima profondamente religiosa,
fu molto sensibile agli argomenti che i materialisti portavano contro la re-
ligione, per cui tutta la sua attività filosofica fu rivolta alla difesa del
teismo e all'affermazione del primato dello spirito sulla materia. Sua tesi
fondamentale è quella secondo cui l'essere delle cose si risolve nell'essere
pensato (tutte le qualità sono secondarie). La materia è passività, lo spirito
è attivo; ed è nella mente (umana o divina) che le idee esistono. La propria
esistenza è conosciuta im- mediatamente; la conoscenza degli altri spiriti è
mediata e indiretta; la conoscenza di Dio è mediata ed evidente. Contro Locke
sostiene che non esistono idee astratte e generali. La filosofia studia le idee
ed il linguaggio attraverso il quale Dio si manifesta (la filosofia reli- giosa
berkeleiana si ispira al neoplatonismo). ‘Solo la fede rivelata, infine, è in
grado di illuminare la vita e di avere effetti benefici su- gli uomini. ù Opere
principali: Commentari filosofici (1707-1708); Teoria della visione (1709);
Trattato sui principi della conoscenza umana (1710); tre Dialoghi tra Hylas e
Philonus (1713); De motu (1721). Bernstein Eduard (1850-1932) Nato a Berlino e
passato attraverso l’esperienza dell'esilio sviz- zero, fu il massimo teorico
del revisionismo socialdemocratico. Col- laboratore di Marx ed Engels, fu
particolarmente amico di quest'ul- timo e ne ottenne l'affidamento delle opere
postume. Nel 1919 iniziò una dura polemica contro il leninismo e il sistema
rivoluzionario russo. Bernstein, che rifiuta la dittatura del proletariato sulle
altre classi, affida al socialismo il compito etico di favorire la
collaborazione tra le classi, realizzando delle riforme in seno alle stesse
istituzioni borghesi al fine di realizzare l'integrazione dei lavoratori nella
strut- tura produttiva. Egli ritiene fallite le previsioni fondamentali di Marx
e vede come limite del marxismo il dualismo tra economia e politica. Il
revisionismo-riformista di Bernstein deriva dalla sua convinzio- ne che la
democrazia è un inizio e un fine al tempo stesso: soppres- sione del dominio di
classe e perseguimento di una società migliore, quale impegno costante, senza
fine, attraverso passaggi graduali e progressivi. Opere principali: Per la
storia e la teoria del socialismo (1901); Ferdinand Lassalle (1914); I
presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1919). Bloch
Ernst (1885-1977) Filosofo tedesco, tra i massimi esponenti del marxismo
revisio- nista. Nacque a Ludwigshafen. Durante la prima guerra mondiale si 279
ritirò in Svizzera, mentre durante il dominio nazista si rifugiò negli Stati
Uniti. Terminata la seconda guerra mondiale si trasferì nel 1949 nella Germania
orientale, a Lipsia, occupando la cattedra di filosofia. Ma nel 1961, accusato
di revisionismo, abbandonò la Ger- mania orientale e si trasferì a.Tubinga per
ricoprirvi una cattedra di filosofia. Bloch ha operato una revisione profonda
del marxismo soprattutto in due punti: a) nell'abbandono del principio della
dia- lettica, ch'egli sostituisce con quello della ‘possibilità (del « non-
ancora »); b) nell’incentrare l’interpretazione della storia in una nuova
concezione dell'uomo, invece che nello studio dei fenomeni economici, come
aveva fatto Marx. Anima dell’antropologia blochia- na è la speranza e l'utopia;
a questa dimensione Bloch assegna un primato assoluto nei confronti di tutte le
altre: vita, volontà, amore, pensiero ecc. La religione è la sfera in cui
l’uomo proietta la sua brama di una esistenza riconciliata. Dio non è altro che
un tenta- tivo di dare un volto allo « spazio utopico ». La costruzione della
sua filosofia della speranza però è fragile e insostenibile. Opere principali:
Spirito dell'utopia (1918); Soggetto-oggetto. Commento a Hegel (1949); Il
principio speranza (1954-1959); Diritto naturale e dignità umana (1961);
Ateismo nel cristianesimo (1968); Il problema del materialismo: storia e
sostanza (1972). Blondel Maurice (1861-1949) Nato a Digione, collaborò con
l'organo del movimento moder- nista Annali di filosofia cristiana, fondato da
Laberthonnière. Quan- do, nel 1907, Ia Chiesa condannò il movimento modernista,
Blondel cessò la sua collaborazione alla rivista. Ispirandosi al metodo
volontaristito di Agostino e Pascal, cerca di dare un fondamento sicuro al
riconoscimento dell’esistenza di Dio, mediante la dialettica dell'azione.
Infatti agire è volere e volere è volere qualcosa: ciò che è proprio dell’agire
è il continuo risorgere in esso di uno squilibrio tra il potere e il volere,
tra la volontà voluta e la volontà volente. Ne deriva una insoddisfazione che
non si appaga fino a che la volontà voluta non abbia soddisfatto pienamente al
de- siderio infinito della volontà volente raggiungendo un oggetto ade- guato
al suo desiderio infinito, cioè Dio. Blondel vuole dimostrare che la natura
umana è aperta verso l'alto ed è predisposta, sia pure in modo passivo, ad
essere inserita in un ordine di realtà superiore alla sua natura, che è il solo
che possa realizzare completamente le tendenze dell'uomo. Opere principali:
L'azione. Saggio d'una critica della vita e d'una scienza della pratica (1893);
Storia e dogma{(1904); Il pensiero (1934); L'essere e gli esseri (1935); La
filosofia e lo spirito cristiano (1944- 1946). Boezio Severino (480-524)
Filosofo ed uomo politico, nacque a Roma dalla nobile famiglia 280 degli Anici.
Fu console e primo ministro del re ostrogoto Teodorico. Accusato di tradimento,
fu imprigionato, processato e giustiziato a Pavia. Nella sua opera più celebre,
De consolatione philosophiae, scritta in prigione mentre attendeva l'esecuzione
capitale, egli cerca di risolvere il problema eternamente dibattuto della
sofferenza degli innocenti, e dei problemi con esso connessi, quali la
provvidenza di Dio e la libertà umana, il tempo e l’eternità. Boezio è
considerato uno dei padri della Scolastica e questo per due motivi: per la
tradu- zione in lingua latina degli autori (Platone, Aristotele, Porfirio ecc.)
ai quali gli scolastici attingeranno molte loro dottrine; e per la de-
finizione di alcuni concetti fondamentali quali quello di persona, eternità,
felicità ecc. che saranno ripresi e costantemente adoperati dai filosofi
medioevali. Opere principali: l’attività letteraria di Boezio fu eccezionale.
Tradusse in latino e commentò molte opere di -Platone, Aristotele, dei
neoplatonici, degli scrittori di matematica, geometria, astronomia, musica del
periodo ellenistico. Scrisse inoltre piccoli trattati di filosofia (De
Trinitate; De hebdomadibus), di teologia (De fide catho- lica; Contra Eutichen
et Nestorium), di musica (De institutione musicae). Ma la sua opera più celebre
è il De consolatione philo- sophiae. Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274) Nato
a Bagnoregio (Viterbo), entrò nell'ordine francescano an- cora molto giovane.
Studiò teologia a Parigi e fu nominato maestro di teologia. Nel 1255, fu
esonerato dall'insegnamento, assieme a san Tommaso d'Aquino, per opera dei
maestri secolari dell'università di Parigi. Nel 1257 fu reintegrato
nell'insegnamento e poco dopo fu nominato ministro generale dell'ordine
francescano. Teologo, !filosofo e santo. È ricordato col titolo di doctor sera-
phicus. S. Bonaventura sottolinea con vigore la coesistenza di ragione e fede e
la subordinazione della prima alla seconda. L'oggetto della filosofia è
l’esemplarismo, cioè la proprietà che le cose hanno di essere immagine di Dio.
Egli considera assurda la dottrina di una creazione nel tempo; ritiene che la «
materia » (che non è concepita come qualcosa di corporeo) eniri nella
costituzione di tutti gli es- seri finiti. L'uomo, pur essendo una sola natura,
è costituito di corpo e di anima. La conoscenza umana si vale sia
dell’astrazione sia della il- luminazione. La volontà, nell'uomo, è più
importante dell’intelletto. L'esistenza di Dio è evidente. In ‘Lui ci sono tre
tipi di conoscenza: approvazione, visione, intelligenza. L'essenza divina è il
modello di tutte le cose. ‘In una delle sue opere più importanti, il trattato
mistico Itinera- rium mentis in Deum, afferma che il nostro processo di
ascensione 281 dalle cose sensibili verso Dio avviene per gradi: per conoscenza
dei vestigi della Trinità nel mondo sensibile, per conoscenza dell’im- magine
che abbiamo della Trinità nella nostra anima; per conoscenza diretta di Dio.
Opere principali: Commentario alle Sentenze (quattro volumi scritti fra il 1250
e il 1254); Quaestiones disputatae: De scientia Christi (1254), De mysterio
Trinitatis (1254), De perfectione evange- lica (1255); Breviloquium
(1254-1257); Reductio artium ad theolo- giam (1254-1255); Itinerarium mentis in
Deum (1259). Bontadini Gustavo (1903) ‘.. Filosofo italiano, nato a Milano, professore
di filosofia teoretica nelle università di Urbino e Pavia e poi all'Università
Cattolica di Milano. È da annoverarsi tra i rappresentanti più significativi ed
au- torevoli della neoscolastica italiana. Inizialmente seguace dell'ideali-
smo gentiliano, ben presto l’abbandonò per orientarsi decisamente verso una
visuale metafisica cristiana che assume come principio fondamentale la
creazione del divenire o « teorema della creazione ». Secondo Bontadini la
mediazione metafisica dell'esperienza è neces- saria per rimuovere quella
contraddizione che si presenta sul piano fenomenologico: la contraddizione
costituita dall’identità del posi- tivo e del negativo nel divenire. Opere
principali: Saggio di una metafisica dell'esperienza (1938); Studi di filosofia
moderna (1966); Metafisica e deellenizzazione (1971); Conversazioni di
metafisica (1971). Boutroux Emile (1845-1921) Nato a Montrouge, studiò
filosofia, matematica e fisica. Si laureò alla Sorbona. Insegnò all'università
di Nancy e poi alla Sorbona. Boutroux fa una critica radicale al positivismo
meccanicistico, in nome della libertà della natura e dello spirito, e di una
nuova concezione della scienza. L'unica vera legge necessaria è quella del
principio di identità che è una legge del pensiero e non delle cose. La scienza
della natura deve accontentarsi di leggi contingenti. Le leggi del I gruppo
(logiche, matematiche, meccaniche, fisiche) si prestano meglio al calcolo
matematico, quelle del II gruppo ({biolo- giche, psicologiche, sociali) sono più
vicine alla realtà. Oltre lo spi- rito scientifico, vi è la « ragione » che si
occupa delle ragioni umane e divine. Opere principali: Sulla contingenza delle
leggi della natura (1874), L'idea della legge naturale nella scienza e
filosofia contemporanea (1895); La natura e lo spirito (1904-1905); Scienza e
religione nella filosofia contemporanea (1908). Bruno Giordano (1548-1600) Nato
a Nola, entrò nell'ordine domenicano e dopo essere stato accusato di eresia,
lasciò l'abito talare. Dopo aver peregrinato in 282 Svizzera, Francia,
Inghilterra e Germania, fu denunziato al tribunale dell’Inquisizione e, non
volendo ritrattare, fu arso sul rogo a Roma. Per Bruno la realtà è costituita
da due principi fondamentali: il principio attivo o anima del mondo, e quello passivo
o materia. Dio si identifica con l’anima del mondo che genera eternamente un
mondo infinito (panteismo). Dio non è conoscibile; lo spirito uma- no è spinto
dall’'eroico furore a tendere sempre più in alto e ad avvi- cinarsi a Dio,
disinteressandosi di ciò che prima lo teneva avvinto. Opere principali: De la
causa principio et uno (1584); De l’infi- nito universo et mondi (1584); La
cena delle ceneri (1584); Spaccio della bestia trionfante (1584); Eroici furori
(1585); De monade (1590). Buber Martin (1878-1965) Filosofo tedesco nato a
Vienna da famiglia israelita, ha insegnato etica ebraica a Francoforte e dal
1938 si è trasferito in Palestina; è il più importante rappresentante del
personalismo religioso ispi- rato dalla tradizione ebraico-hassidica. È morto a
Gerusalemme. Secondo Buber la persona è un essere in relazione, caratterizzato
dall'esperienza dialogica /o-Tu. Il dialogo con Dio è la garanzia della
comunione tra gli uomini. Buber contrappone il rapporto « Io-Tu » che è proprio
della relazione dialogica al rapporto « Io-Esso » che è quello
dell’affermazione individuale. L'individualità appare in quanto si distingue da
altre individualità. La persona appare in quanto entra in relazione con le
altre persone. La prima è il legame naturalizzato, la seconda è la forma
spirituale della indipendenza na- turale. Il rapporto « Io-Esso » è
caratterizzato dall'uso, dal possesso, dal dominio, dalla fatalità. Il rapporto
« Io-Tu » è caratterizzato dal dia- logo, dall'incontro, dalla dedizione,
dall'amore, dalla libertà, dal destino. Opere principali: La leggenda di Baal
Shem {1908); la sua opera fondamentale Jo e Tu (1923); Gog e Magog (1941); I
racconti dei chassidim (1949); Sentieri in Utopia (1950); Immagini del bene e
del male (1952). Butler Joseph (1692-1752) Filosofo inglese, fu vescovo di
Durham e cappellano della casa reale. Aperto avversario e critico intelligente
del deismò radicale e dell'illuminismo antireligioso, Butler sostenne la
complementa- rietà e convergenza tra natura e rivelazione, evidenziando tutta
una serie di analogie che intercorre tra i due ordini. Ciò vale anche per
l'ordine etico: in effetti la coscienza, voce naturale di Dio nell'uomo, mentre
gli rivela la sua miseria e i suoi limiti, allo stesso tempo gli testimonia la
sua vocazione soprannaturale. Opere principali: Quindici sermoni sulla natura
umana (1720); Analogia della religione naturale e rivelata con la costituzione
e il corso della natura (1736). 283 Calvino, nome italianizzato di Jean Cauvin
(1509-1564) Nato a Noyon, in Francia, fu contemporaneo di Lutero e fu con lui
il padre deila Riforma protestante. Di famigiia borghese, rice- vette dapprima
una formazione umanistica a Parigi; poi per volontà del padre si dedicò agli
studi giuridici nelle università di Orleans e Bourges, conseguendo il dottorato
in giurisprudenza. Quando co- minciò a interessarsi della Riforma luterana si
rifugiò nel 1534 in Svizzera, prima a Basilea e poi a Ginevra, dove fomentò e
capeggiò la rivolta contro la Chiesa di Roma; fondò una nuova chiesa di cui
divenne il leader indiscusso, onnipotente e intollerante. La sua opera
principale è intitolata Institutiones religionis christianae (4 volumi). I
punti chiave del suo sistema sono i seguenti: sovranità assoluta ed esclusiva
della Parola di Dio, cioè della Scrittura; predestinazione di alcuni uomini
alla salvezza e di altri alla dannazione eterna. La vera Chiesa è quella dei
predestinati alla vita eterna e, in concreto, di coloro che aderiscono a Cristo
con fede sincera; tale adesione si manifesta esteriormente con i sacramenti del
Battesimo e della Cena e con le opere buone. Campanella Tommaso (1568-1639)
Nacque a Stilo, in Calabria. Domenicano, nel 1599 preparò una insurrezione
della Calabria contro la Spagna. Imprigionato, rimase in carcere per 27 anni. Liberato
nel 1633, si rifugiò poi a Parigi, dove morì, sotto la protezione del re Luigi
XIII. Campanella segue in parte la teoria di Telesio del sensismo e del
naturalismo, ma lo supera per la sua teoria della conoscenza innata di sé
(sensus inditus) che precede e condiziona ogni altra conoscenza. Nelle cose
l’autocoscienza diventa sensus abditus cioè nascosto per- ché le cose subiscono
un forte influsso dall'esterno. Nella Città del Sole Campanella formula il suo
stato ideale, il cui governo è teo- cratico, con perfetta fusione del potere
politico e religioso. Tenta di fondere il cristianesimo (religio addita) con la
religione naturale (religio indita) dettata dalla ragione. Opere principali:
Philosophia sensibus demonstrata (1591); La città del sole (1602); Philosophia
rationalis (1606-1614); Theologia (1613-1624); Philosophia realis (1619);
Metaphisica (1623). Carnap Rudolf (1891-1970) Filosofo tedesco, nato a
Ronsdorf, tra i massimi esponenti del positivismo logico. Dopo gli studi a
Jena, si trasferì a Vienna dove entrò a far parte del Wiener Kreis, ai cui
lavori partecipò attiva- mente fino al 1935 quando, con l’avvento del nazismo,
fu costretto a trasferirsi negli Stati Uniti, prima a ‘Chicago e poi a Los
Angeles, sino alla morte. Lucido e convinto asseriore delle tesi de]
positivismo logico o neopositivismo, Carnap afferma recisamente che compito
della filosofia non è quello di elaborare teorie e costruire sistemi, ben- sì
quello di sviluppare un metodo: il metodo dell'analisi logica o lin- 284 guistica
e, con esso, vagliare tutto quanto viene affermato nei vari campi del sapere.
Tale metodo ha una duplice funzione: togliere di mezzo le parole prive di
significato e così pure le pseudo-proposi- zioni; chiarire i concetti e le
proposizioni aventi significato, per dare in tal modo una fondazione logica
alla scienza sperimentale, e alla fisica in particolare. Per decidere del
significato delle propo- sizioni Carnap opta per il criterio della verifica
sperimentale, per cui « se una proposizione significa qualcosa, può significare
soltanto un dato empirico ». Con questo criterio di significazione ultraradi-
cale egli elimina tutti gli enunciati metafisici, etici, religiosi, estetici.
Questi non possono avere significato teoretico o conoscitivo, ma semplicemente
emotivo, soggettivo. Opere principali: La costruzione logica del mondo (1928);
La sin- tassi logica dei linguaggio (1934); Introduzione alla semantica (1942);
Formalizzazione della logica (1943); Fondamenti logici della proba- bilità
(1950). Carneade (219-129 a.C.) Filosofo greco nato a Cirene, è tra i maggiori
esponenti della Se- conda Nuova Accademia, di cui ebbe anche per qualche tempo
la direzione. Assertore di uno scetticismo moderato, ammette per l’uo- mo la
possibilità di conoscere ciò che è probabile, anche se non gli riconosce il
potere di raggiungere con certezza la verità. Per Car- neade il sapiente è
colui che, pur sapendo che la verità è irraggiun- gibile, non desiste dal
cercarla assiduamente. Nella vita pratica, sa- piente è colui che segue ciò che
gli sembra più vicino alla verità e al bene. Non ha lasciato nessuno scritto;
il suo pensiero ci è pervenuto attraverso le testimonianze trasmesse da
Cicerone e Sesto Empirico. Cartesio (René Descartes) (1596-1650) Nacque a La
Haye in Touraine. 'Studiò nel collegio dei gesuiti di La Flèche. Viaggiò in
Germania, Olanda, Italia, Francia. Cartesio, che fa assumere alla filosofia una
impostazione pretta- mente critica e gnoseologica, può essere considerato
l’iniziatore della filosofia moderna, sia per l'orientamento epistemologico
della sua filosofia, sia per il soggettivismo ed il razionalismo che sono
impli- citi nel suo filosofare. Ritiene che l'indagine ‘filosofica debba comin-
ciare con lo studio della mente umana per accertare la natura e la possibilità
della conoscenza. Primo scopo che si propone Cartesio è quello della ricerca di
un metodo adatto per la conquista del sapere. Scopre questo metodo prendendo in
considerazione quello matema- tico, secondo il criterio di chiarezza e
distinzione. Pone come prin- cipio fondamentale di tutta la conoscenza il «
cogito ergo sum », cioè la certezza del proprio pensiero e della propria
esistenza. In base ad esso ricostruisce tutto l'universo della metafisica clas-
sica: prova che l'essenza dell'uomo (composto di materia e spirito) consiste
nel pensiero (r2s cogitans); dimostra l'esistenza di Dio con la 285 prova
ontologica; afferma che il mondo è essenzialmente estensione (res extensa).
Opere principali: Discorso sul metodo (1637); Meditationes de pri- ma philosophia
(1641); Principia philosophiae (1644); Trattato sulle passioni dell'anima
(1649). Comte Auguste (1798-1857) Filosofo e sociologo francese, nacque a
Montpellier da genitori cattolici, ma perdette la fede quand'era ancora molto
giovane. Stu- diò all'École Polytecnique di Parigi. Per qualche tempo fu
discepolo e collaboratore di Saint-Simon, dal quale apprese l'interesse per la
sociologia e per la storia. Nel 1826 dette inizio a Parigi ad un corso di
lezioni di filosofia positiva; ma le precarie condizioni di salute e le
opposizioni ai suoi insegnamenti lo costrinsero prima a sospen- derlo e poi ad
interromperlo definitivamente. Nel 1845 ebbe un'altra grave crisi nervosa e si
unì a Clotilde de Vaux la quale morì nel 1846. Da questo legame ricavò
l'ispirazione per una religione mi- stica umanitaria. L'intento primario della
riflessione filosofica di Comte, che è con- siderato il fondatore del
positivismo, è duplice: a) elaborare una filosofia della storia fondata non sul
principio del divenire dialettico (come aveva fatto Hegel) ma sul principio
della evoluzione progres- siva dell'umanità; b) costruire una teoria
scientifica della società. Secondo Comte tutto l'universo procede dalla materia
per via di evoluzione. Anche l'uomo è un prodotto dell'evoluzione della mate-
ria. Quando l'evoluzione raggiunse lo stadio umano ebbe inizio la storia, le
cui fasi principali sono tre: religiosa, filosofica e scientifi- ca.
Attualmente l'umanità ha raggiunto la fase scientifica e si è quin- di lasciata
alle spalle la interpretazione religiosa e filosofica della realtà. Il
traguardo ultimo della ricerca scientifica è « giungere allo studio sistematico
della umanità, sola sua stazione finale ». Opere principali: Piano di lavori
scientifici necessari per riorga- nizzare la società (1822); Sistema di
politica positiva (1824); Corso di filosofia positiva (opera in sei volumi
scritta fra il 1830 e il 1842); Calendario positivista (1849); Sistema di
politica positiva o trattato di sociologia che istituisce la religione
dell'umanità (opera in quattro volumi scritta fra il 1851 e il 1854);
Catechismo positivista (1852). Croce Benedetto (1866-1952) Filosofo e uomo
politico, nacque a Pescasseroli (L'Aquila). Nel 1903 iniziò la pubblicazione de
La Critica. Nel 1920, durante l’ultimo governo Giolitti, fu ministro
dell'educazione. Quando Mussolini salì al potere, si ritirò dalla politica. .
Croce identifica la filosofia con la storia (storicismo) per cui concepisce
tutta la realtà come storia, cioè come opera dello spirito. Il compito dello storico
è quello di capire i fatti storici; in senso as- soluto nella storia non c'è
mai decadenza (storicismo assoluto). Lo 286 spirito nella ricerca della sua
piena autocoscienza, esercita quattro attività: estetica, logica, economica ed
etica. Le prime due sono attività teoretiche, le ultime due pratiche. Le
attività estetica ed eco- nomica hanno per oggetto l’'individuale; le attività
logica ed etica hanno per oggetto l’universale. Il rapporto fra le varie
attività è regolato dal principio del nesso dei distinti che integra la
dialettica hegeliana degli opposti, in quanto i termini non si annullano come
gli opposti ma armonizzano fra loro come momenti dello spirito. Il rapporto fra
i diversi gradi è chiamato « circolarità dello spirito ». Delle quattro
attività dello spirito quella che Croce ha analizzato più acutamente è quella
estetica. Definisce l’arte « intuizione lirica del particolare », cioè
l'immagine estetica è una sintesi di intuizione e sentimento: il sentimento è
l'elemento materiale, l'immagine è quello formale. Il valore dell'arte, che è
autonoma, non può essere né pratico, né intellettualistico ma solo teoretico e
conoscitivo. Opere principali: di carattere filosofico: La storia ridotta sotto
il concetto generale dell'arte (1893); Materialismo storico ed economia
marxista (1900); Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale
(1902); Logica come scienza del concetto puro (1905); Filo- sofia della pratica
(1909); La filosofia di Vico (1911); Saggio sullo Hegel (1913); Etica e politica
(1931); Il carattere della filosofia mo- derna (1940); Filosofia e storiografia
(1949); Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Di carattere
letterario: Ariosto, Sha- kespeare e Corneille (1920); La poesia di Dante
(1921); Poesia popo- lare e poesia d'arte (1933); Poesia antica e moderna
(1941). Cusano Nicolò (Nicola Crypffs) (1401-1464) Nacque a Cues (Germania), e
fu matematico e astronomo. Nel 1450 fu nominato cardinale e vescovo di
Bressanone. Sî propone la rinascita religiosa e concepisce il ritorno al
platoni- smo (inteso come sintesi del pensiero religioso dell'antichità) come
condizione di tale rinascita. Dalle teorie di Occam desume l’impossi- bilità di
conoscere Dio per via raziocinativa. Tuttavia afferma che possiamo avere l’intuizione
di Dio; quanto alla natura divina sostiene che è assolutamente inconoscibile
(docta ignorantia). Opere principali: De concordantia catholica (1433); De
docta ignorantia (1440); De coniecturis (1441); Apologia doctae ignorantiae
(1449); Idiota (1450); De visione Dei (1453); De venatione sapientiae (1463);
De apice theoriae (1464). Darwin Charles Robert (1809-1882) Biologo e
naturalista inglese, nato a Shrewsbury e morto a Down. Dopo alcuni anni di
studi di medicina che aveva iniziato a Edim- burgo e di teologia a Cambridge,
si dedicò a quelli delle scienze naturali a Cambridge. Nel 1831 ebbe la
possibilità di imbarcarsi in qualità di naturalista sul brigantino Beagle al
seguito di una spedi- zione scientifica intorno al mondo. Il viaggio durò cinque
anni e gli 287 consentì di raccogliere moltissimo materiale intorno alla flora
e alla fauna di vari continenti e sulle formazioni geologiche della terra.
Dallo studio di tale materiale, al suo rientro in patria, poté pubbli- care nel
1839 un diario col titolo Viaggio di un naturalista intorno al mondo e nel 1859
il famosissimo Sull’origine della specie per selezione naturale. In questo
scritto Darwin getta le basi dell’evolu- zionismo scientifico. Secondo Darwin
tutti gli esseri viventi traggono origine da pochi esemplari per evoluzione,
secondo leggi ben precise, di cui le principali sono le seguenti: « Crescita
(cioè moltiplicazione degli esseri) con la riproduzione; ereditarietà, che è
quasi implicita nella riproduzione; variabilità in conseguenza dell’azione
diretta e indiretta delle condizioni di vita e dell'uso o disuso degli organi;
un aumento così grande da portare alla lotta per la vita e conseguen- temente
alla selezione naturale implicante la diversificazione di tipi e l'estinzione
delle forme meno sviluppate » (Origine della specie). La teoria darwiniana
dell'evoluzione ha esercitato un'influenza im- mensa in tutti i campi, ed anche
in quello filosofico, ed è diventata assieme alla psicanalisi di Freud e
all'analisi socio-politica di Marx uno dei tre pilastri portanti della cultura
occidentale dell'ultimo secolo. Da tempo, però, quello dell’evoluzione, alla
pari degli altri due pilastri, mostra crepe allarmanti. Democrito (460-360
a.C.) Nacque ad Abdera, in Tracia. È il vero fondatore della Scuola atomistica,
secondo cui l'essere è costituito da atomi, particelle indivisibili e
immutabili, immerse nel vuoto. Dal movimento degli atomi derivano tutte le
cose, secon- do un meccanico determinismo. È il primo filosofo che si occupa
dell'origine del linguaggio. Opere principali: Mikròs diàkosmos (Piccolo
ordinamento del mondo); Logikà (Canoni); Hypothékai (Consigli); Perì Ideon.
Dewey John (1859-1952) Filosofo e pedagogista americano, nato nel Vermont
(Stati Uniti), insegnò all’università di Chicago e poi alla « Columbia
University » di New York. Passò dall’idealismo ad un evoluzionismo
naturalistico influenzato dal pragmatismo e, nel 1896, diede vita alla «
scuola- laboratorio », fondata sull'attivismo pedagogico. Fondò un partito di
tendenza riformista e, nel 1937, denunciò i crimini dei processi staliniani. La
funzione della mente umana e quindi della conoscenza è di ricercare le vie più
sicure del progresso. Ne deriva che il pensiero ha per Dewey un carattere
essenzialmente strumentale. L'uomo è inteso non come parte del meccanismo
naturale, bensì come forza il cui agire possa modificare in meglio le
condizioni del mondo. L'agire dell'uomo deve tendere dunque alla
socializzazione, alla so- lidarietà, affinché si costituisca una società
veramente democratica, 288 capace di realizzare il dominio completo della
natura, sottometten- dola ai nostri fini. In campo pedagogico insiste
sull’attivismo nell’apprendimento e sul fine sociale dell'educazione che può
risolvere tutti i problemi sociali e realizzare la vera democrazia. ‘Opere
principali: Il mio credo pedagogico (1897); Scuola e società (1900); Studi
sulla teoria logica (1903); Etica (1908); Democrazia ed educazione (1916);
Ricostruzione filosofica (1920); Esperienza e na- tura (1925); Filosofia e
civiltà (1931); Logica, teoria dell'indagine (1938); Libertà e cultura (1939);
Il conoscente e il conosciuto (1949). Dilthey Wilhelm (1833-1911) Filosofo e
storico tedesco, nato a Biebrich, in Renania, è stato un oppositore del
positivismo ed il massimo rappresentante dello sto- ricismo tedesco
contemporaneo; studiò a Berlino e insegnò a Ba- silea, Kiel, Breslavia e
Berlino. Morì a Siusi, in Alto Adige. Sulla scorta di Rickert, Dilthey sostiene
che i fenomeni culturali o spirituali possono essere colti solamente attraverso
l’Erlebnis, cioè l'esperienza vissuta. Dell'Erlebnis, Dilthey distingue tre
aspetti inseparabili: 1) la vita (momento della soggettività,
dell'immediatezza, della singolarità); 2) l’espressione e 3) l’intendimento
(momento dell’universale e del- l'oggettività). Le scienze dello spirito si
«distinguono pertanto dalle scienze «della natura sia per l'oggetto che per il
metodo. Dilthey è inoltre preoccupato di determinare i rapporti tra storia e
(filosofia, che finisce per identificare, poiché la vita è la realtà suprema e
la storia (unica vera filosofia) è l’espressione unica e ge- nuina della vita.
I principi che giustificano tale identificazione sono i seguenti: 1) l'uomo si
conosce solo attraverso la storia; 2) un'epoca è compren- sibile solo se se ne
conoscono i precedenti storici; 3) i sistemi filosofici riflettono la mentalità
di un dato popolo e di un dato periodo, perciò sono comprensibili solo se
studiati storicamente. Dilthéy distirigue tre sistemi filosofici fondamentali:
a) il mate- rialismo {primato della categoria di causa); b) l'idealismo
oggettivo (primato dell'idea di valore); c) l'idealismo soggettivo (primato
dell'idea di fine). Causa, valore e fine rappresentano diverse relazio- ni
dell'uomo con il mondo. Opere principali: Introduzione alle scienze dello
spirito (1883); Idee per una psicologia descrittiva e analitica (1894); La
nascita del- l'ermeneutica (1900); L'essenza della filosofia (1907); La
costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). Eckhart
Johannes (1266-1327) Domenicano della provincia tedesca, discepolo di Alberto
Magno e contemporaneo di Occam, Meister Eckhart fu per oltre un decen- nio
provinciale dei domenicani tedeschi. Accusato di eresia nel 1326 289 fu
sottoposto a processo. Questo si concluse due anni dopo la sua morte con la
condanna di 26 proposizioni tratte dalle sue opere. La visione
filosofico-religiosa di Eckhart si caratterizza come un misticismo di tipo
idealistico. Fine ultimo dell'uomo è l'unione con Dio. Questi è concepito come
identità di pensiero ed essere, ma con la priorità del pensiero sull'essere,
anziché dell'essere sul pensiero come aveva insegnato san Tommaso. Poiché
l'essere di Dio si identifi- ca col conoscere, l'uomo ascende a Lui man mano
che si avvicina al- l'intellettualità. Nell'intelletto e più precisamente nella
contempla- zione si realizza l'unione e l'immersione dell'anima in Dio. Opere
principali: gli scritti di Eckhart comprendono oltre ad un'opera sistematica di
vaste proporzioni in lingua latina, intito- lata Opus tripartitum, alcuni saggi
in lingua tedesca, che gli hanno meritato il titolo di « creatore della prosa
tedesca »; Quaestiones de esse; Commento al Parmenide di Platone. Empedocle
(fine V sec. a.C.) Nato ad Agrigento, fu medico ed ebbe la fama di mago. iLe dottrine
principali della sua filosofia riguardano la causa prima di tutte le cose che è
riposta nei quattro elementi (terra, ac- qua, fuoco e aria) assolutamente
originali e immutabili e il mecca- nismo della conoscenza che è spiegato
mediante la teoria dell'ana- logia. Il divenire consiste nell'unirsi e
disunirsi dei 4 elementi ed è causato dalla lotta di due forze primordiali:
Amore e Odio. Opere principali: Sulla natura; Carmen lustrale. Engels Friedrich
(1820-1895) Filosofo tedesco nato a Barmen da una famiglia facoltosa che aveva
interessi nell'industria tessile inglese, conobbe Marx a Parigi, in un viaggio
nel 1844 e ne divenne intimo amico. Dopo i moti in Germania del 1848 a cui
partecipò, si trasferì in Inghilterra e nel 1869 si stabili a Londra lavorando
intensamente insieme a Karl Marx sul piano politico e intellettuale. Dalla
visione idealistica passò a quella materialistica, dopo la lettura dell'opera
L'essenza del cristianesimo di Feuerbach. In col- laborazione con Marx scrisse
il famoso Manifesto del partito comu- nista e La sacra famiglia in cui si
criticano le dottrine di Bauer e degli altri hegeliani di sinistra. Operando in
stretta collaborazione con Marx, dopo il 1844 non è facile distinguere i tratti
originali del suo pensiero. Comunque, si può stabilire con sicurezza che per la
sua competenza in campo economico-commerciale e la conoscenza della situazione
sociale inglese fu Engels a fornire a Marx il taglio economico e sociale del
suo materialismo. In alcuni saggi Engels ha cercato di illustrare la diversità
tra i materialismi precedenti e quello professato da lui e da Marx. La
differenza fondamentale sta nel fatto ‘che, mentre i materialismi precedenti
guardavano alla natura come un insieme di realtà sta- 290 tiche, « il
materialismo moderno vede nella storia l'evoluzione stessa dell'umanità secondo
un movimento, e il suo scopo è di riconoscerne le leggi ». In altre parole, il
nuovo materialismo di Engels e di Marx non è più naturalistico ma storico e
inoltre non è più statico ed im- mobilistico, bensì evolutivo e dinamico. Opere
principali: La situazione della classe operaia inglese (1845); Origine della
famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884); Feuerbach e il punto
d’approdo della filosofia classica tedesca (1888). Dopo la morte dell'amico
condusse a termine il secondo e terzo vo- lume de // Capitale. Epicuro (341-271
a.C.) Filosofo greco, fondatore della scuola filosofica che da lui prende il
nome e che ebbe largo seguito durante il periodo ellenistico. Nato a Samo da
genitori ateniesi, Epicuro fu praticamente un autodidatta. Nel 310 fondò una
scuola a Mitilene; nel 306 si trasferì ad Atene dove comprò una casa con un
giardino (il famoso « giardino di Epicuro »), dove fissò stabilmente la sua
scuola e che lasciò in eredità ai suoi discepoli. Intollerante e polemico verso
gli altri filosofi, Epicuro fu verso i suoi discepoli di somma affabilità e
generosità, guadagnan- dosi una venerazione che col tempo divenne vero e
proprio culto. Scrisse molto, ma tutte le sue opere andarono perdute tranne al-
cune massime, tre lettere e il Testamento che sono stati conservati da Diogene
Laerzio nel libro X delle sue Vite. Alla conservazione, alla diffusione e
quindi alla fortuna dell’epicureismo contribuì mol- tissimo Lucrezio col suo
poema, De rerum natura, nel quale il poeta latino addita la dottrina di Epicuro
come farmaco supremo ai mali umani, dovuti a superstizioni e a falsi timori.
Davanti ai grandi problemi filosofici che angustiano la mente umana, Epicuro
assume una posizione di netto contrasto con lo stoicismo. Epitteto (50-138) Era
un liberto di Nerone, il quale lo emancipò. Andò alla scuola del filosofo
Musonio Rufo. Quando Domiziano, nel 92, cacciò dal- l’Italia tutti i filosofi,
si rifugiò nell'Epiro e lì fondò una sua scuola. È il più celebre
rappresentante dello stoicismo. Il suo pensiero filosofico è contenuto nel
Manuale e nei Discorsi. Più ancora che in Zenone e Crisippo (i fondatori della
scuola stoica) in Epitteto lo stoicismo diviene un sistema di vita, una
dottrina morale. Si tratta d'una morale molto rigida, che nulla concede agli
istinti e alle passioni, nulla agli onori, alla ricchezze e ai piaceri, e punta
tutto sulla interiorità, sull'amore per il prossimo e l'unione col Logos.
Questi, sotto l'influsso del cristianesimo, in Epitteto acquista le
caratteristiche del Dio persona, provvidente e paterna, dei cristiani. Secondo
Epitteto tutto quello che accade all'uomo, accade per volere del Logos, il
quale agisce sempre secondo ragione e mai arbitraria- 291 mente. Il Logos esercita
sull'uomo e su tutte le creature una perfetta provvidenza, senza lasciare nulla
all'arbitrio umano. L'uomo è libero in quanto si uniforma alle leggi del Logos.
Opere principali: Manuale; Discorsi. Eraclito (550-480 a.C.) Nato ad Efeso,
secondo la leggenda, fu uomo aristocratico ed eccentrico. Avversò la democrazia
nella sua città e si rifiutò di colla- borare alla stesura della nuova
costituzione. Sostiene che la realtà è in continuo divenire (pànta rèi) e pone
come principio di questo divenire il fuoco, ricollegandosi agli Ionici. La
forza che opera l'unificazione del molteplice è il Lògos. Opere principali:
unica opera di cui si abbia notizia è Perì phy- seos (Sulla natura delle cose),
che gli procurò la fama di pensatore enigmatico e oscuro. Feuerbach Ludwig
(1804-1872) Nacque a Landshut (Baviera). Studiò prima teologia e poi filo-
sofia. Frequentò, a Berlino, le lezioni di Hegel. Nel 1828 ottenne la libera
docenza all'università di Erlangen. Riprende le critiche a Hegel sulla
religione, proprie di Sturm e Bauer. Nega ogni valore al cristianesimo. La
filosofia religiosa di Feuerbach è pertanto uno studio dell'origine dell'idea
di Dio e dei suoi attributi. L'origine dell'idea di Dio ha il carattere di
ipostatiz- zazione: l'uomo proietta le qualità positive che ha in sé in una
per- sona divina e ne fa una realtà sussistente di fronte alla quale si sente
schiacciato come un nulla. All'adorazione degli enti divini bisogna sostituire
il culto dell'umanità. Per Feuerbach non è il pensiero che causa la materia, ma
la materia a svilupparsi in pensiero, quando tocca i vertici della sua
evoluzione. Opere principali: Pensieri sulla morte e l'immortalità (1830); Per
la critica della filosofia hegeliana (1839); Essenza del cristianesimo (1841);
Principi della filosofia dell'avvenire (1843); L'essenza della fede secondo
Lutero (1844); L'essenza della religione (1846); Lezioni sull'essenza della
religione (1851); Teogonia (1857). Fichte Johann Gottlieb (1762-1814) Nacque a
Ramenau in Sassonia, studiò all'università di Jena. Fu discepolo di Kant. Nel
1807, durante l'invasione napoleonica della Prussia tenne presso l'università
di Berlino i famosi Discorsi alla nazione tedesca. Fichte fu il primo ad
avvertire le contraddizioni che minacciavano il criticismo di Kant e a risolverle
in direzione dell'idealismo. Ne- gando l’esistenza della cosa in sé (noumeno),
la realtà ha un unico fondamento che può essere solo di natura spirituale,
ossia il pen- siero. Il pensiero è l'Io puro. Ma alla funzione del pensare non
è292 sufhciente l'identità del pensiero con sé stesso: occorre un soggetto
pensante e un oggetio pensato. L'io puro origina quindi il soggetto pensante o
« io empirico » e l'oggetto pensato o « non io». Fra io puro, io empirico e
non-io esiste una netta distinzione. L'io puro ha una priorità assoluta sull'io
empirico e sul non io. Il fine ultimo del- l'io empirico sta nel raggiungimento
dell'io puro; per raggiungere tale traguardo deve rimuovere tutti gli ostacoli
frapposti dal non-io. L'uomo è in continuo progresso verso il traguardo della
perfetta coerenza con sé stesso. Nell'ultima fase del suo filosofare Fichte
offre una nuova consi- derazione dell’assoluto, che viene concepito come un Dio
sussistente e, a suo modo, trascendente. Opere principali: Rivendicazione della
libertà di pensiero (1793); Contributi per rettificare i giudizi del pubblico
sulla rivoluzione fran- cese (1793-1794); Fondamenti dell'intera dottrina della
scienza (1794); Alcune lezioni sulla missione del dotto (1794); Fondamenti del
diritto naturale (1796-1797); Il sistema della dottrina morale {1798); La mis-
sione dell'uomo (1799); Introduzione alla vita beata (1806); Discorsi alla
nazione tedesca (1807). Filone Alessandrino (13 a.C.-40 d.C.) Nato ad
Alessandria d'Egitto da una nobile famiglia ebraica della diaspora, fu rabbino
di quella città, contemporaneo di Cristo e autore di numerosi commenti alla
Sacra Scrittura. Filone è considerato da tutti come l’iniziatore di un nuovo
modo di interpretare la Sacra Scrittura, il modo allegorico (0 metodo alle- gorico).
Ma da molti oggi è ritenuto anche fondatore di un nuovo tipo di speculazione,
chiamata filosofia religiosa. In effetti Filone ha ela- borato un sistema in
cui si saldano armonicamente le dottrine fonda- mentali della fede biblica con
le principali dottrine di Platone e degli Stoici: dottrina delle Idee, del
Logos, dell'immortalità dell'anima, della contemplazione ecc. La filosofia
religiosa iniziata da Filone esercitò grande influsso sui padri della chiesa e
anche sugli scola- stici che la continuarono e perfezionarono. Opere
principali: Commento allegorico sulle sante Leggi; Sul de- calogo; Sulle leggi
particolari; Sulia migrazione di Abramo; Sulla provvidenza; Sull’eternità del
mondo, Foucauli Michel (1926-1984) Filosofo e saggista francese, nato a
Poitiers, ha studiato al- l’« École Normale Supérieure » di Parigi e poi in
Germania, Polo- nia e Svezia. Di vasta esperienza culturale (medicina,
filosofia, psico- logia, storia), si è ben presto affermato tra i massimi
esponenti della rivoluzione culturale dell'ultimo ventennio. È stato professore
al « Centro Universitario Sperimentale » di Vincennes e ha insegnato dal 1970
storia dei sistemi di pensiero al « Collège de France ». Dallo studio della
storia della medicina, Foucault è passato, par- 293 tendo da Heidegger, ad una
indagine epistemologica delle strutture fondamentali del conoscere che sono
alla base dei vari momenti della storia della moderna civiltà occidentale.
Foucault svilupperà l'analisi strutturalistica del linguaggio di de Saussure spostandola
dal livello dei fonemi a quello degli enunciati e concentrerà la sua attenzione
sulle società evolute moderne piut- tosto che su quelle primitive. Secondo
Foucault ogni cultura ha il suo « a priori storico », sot- tofondo comune a
tutte le arti, scienze e ideologie di un determinato periodo. In ordine al
problema del linguaggio Foucault distingue l’analisi della lingua dall'analisi
degli enunciati, così come distingue la storia del discorso dall'analisi del
campo discorsivo. Infine, sotto- linea come l’analisi enunciativa sia
soprattutto un'analisi storica, che si tiene fuori da ogni interpretazione.
Opere principali: Malattia mentale e psicologia (1954); Storia della follia
(1961); Nascita della clinica (1963); Parole e cose (1967); Archeologia del
sapere (1969); Sorvegliare e punire (1975); La vo- lontà di sapere (1976).
Freud Sigmund (1856-1939) Nato a Freiberg, in Moravia, da famiglia israelita,
si laureò in medicina all'università di Vienna nel 1881; nel 1885 conseguì la
li- bera docenza specializzandosi in neuropatologia e nel 1886 aprì un
gabinetto privato per lo studio delle malattie nervose. Nel 1938, con
l'annessione dell'Austria alla Germania di Hitler, fu costretto a emi- grare a
Londra, dove morì, l’anno dopo, all'età di 83 anni. Secondo Freud, che fu il
fondatore della psicanalisi, la nostra psiche è costituita da tre livelli (o
topiche): un livello profondo o inconscio che si chiama Es (0 Id), sede della
pulsione libidica e orien- tato alla soddisfazione del bisogno sessuale; il
livello dell'/o o della coscienza razionale; ed infine, il livello del
Super-Io, risultato dell’introiezione delle figure parentali e sede della legge
morale. Il costante conflitto tra Es e Super-Io spesso provoca uno stato
patologico, proprio delle diverse forme di nevrosi. La pulsione libidi- ca, che
muove l’attività sessuale dell'individuo, trova pertanto una possibilità di
sfogo nell'attività onirica, quando l'abbassamento tem- poraneo della soglia
cosciente lascia libero spazio all'Es, ai suoi de- sideri, alla sua
conflittualità repressa. Fondamentale per la cultura contemporanea come
scoperta del dinamismo psichico e come terapia, la psicanalisi che negli
scritti freudiani dell'ultimo periodo viene teorizzata come una weltan-
schauung, ha finito per presentare i suoi limiti, che sono stati evi- denziati
in questi ultimi decenni da molti studiosi. Opere principali: Le origini della
psicanalisi (1887-1902); Studi sull'isteria (1895); Psicopatologia della vita
quotidiana (1901); Tre saggi sulla teoria sessuale (1905); Totem e tabù
(1912-1913); Introdu- 294 zione alla psicoanalisi (1915-1917); Al di là del
principio di piacere (1920); L'avvenire di un'illusione (1927); Il disagio
della civiltà(1929); L'uomo Mosé e la religione monoteista (1934-1938). Galilei
Galileo (1564-1642) Nato a Pisa, fu matematico, fisico, astronomo. Nel 1589
ebbe l'insegnamento di matematica all'università di Pisa e nel 1592 passò
all'università di Padova. Nel 1609 inventò il cannocchiale. Nel 1616 la sua
teoria eliocentrica venne condannata dalla Chiesa. Processato una seconda
volta, fu costretto, nel 1633, a rinnegare le sue teorie scientifiche. Morì ad
Arcetri, nell'isolamento obbligato e colpito da cecità. È considerato il
creatore della fisica moderna e il decisivo promotore del metodo sperimentale,
avviato da Bacone, nelle sue applicazioni pratiche. Merito di Galileo è di aver
provato la netta distinzione tra filo- sofia, scienza e religione, mostrando
che il loro oggetto specifico è di- verso. Perciò lo studio scientifico dei
fenomeni umani è libero. Per la scienza diverso è anche il metodo, «
induttivo-deduttivo ». Tipico di questo metodo è l’uso della matematica. In
sintonia con tale im- postazione vi è la riduzione della realtà materiale ai
soli aspetti quantitativi (ma in Galilei più che di un meccanicismo filosofico
si tratta di un meccanicismo metodologico e scientifico). Opere principali: De
motu (1589); Sidereus Nuncius (1610); Di- scorso intorno alle cose che stanno
în su l'acqua (1612); Il saggiatore (1623); Dialogo sopra i due massimi sistemi
del mondo, tolemaico e copernicano (1632); Discorsi e dimostrazioni matematiche
intorno a due nuove scienze, attinenti alla meccanica e i movimenti locali
(1638). Galluppi Pasquale (1770-1846) Filosofo italiano, nato a Tropea, studiò
all'università di Napoli, dove insegnò filosofia teoretica dal 1831 sino alla
morte. La filosofia di Galluppi, che è uno degli esponenti maggiori del
realismo critico italiano, vuole essere essenzialmente una risposta al kantismo
che egli critica soprattutto per quanto concerne la inconoscibilità del- l'io e
della cosa in sé, e la apriorità delle categorie. A proposito della
inconoscibilità dell'io e della cosa in sé, egli afferma che la coscienza
testimonia immediatamente la conoscenza sia del primo sia della seconda (il
mondo) e che pertanto occorre ammetterli tutt'e due co- me assolutamente certi.
Assodato il carattere obiettivo del cono- scere, Galluppi, contro Kant, mostra
che anche l’esistenza di Dio risulta dimostrabile. Opere principali: Saggio
filosofico sulla critica della conoscenza (6 voll. 1819-32); Elementi di
filosofia (6 voll. 1820-27); Lettere filo- sofiche (1827); Lezioni di logica e
metafisica (4 voll. 1832-34); Filo- sofia della volontà (4 voll. 1832-40);
Considerazioni filosofiche sul- l'idealismo trascendentale e sul razionalismo
assoluto (1841). 295 Garaudy Roger (1913) Filosofo francese, nato a Marsiglia,
è un esponente prestigioso e originale del revisionismo marxista; si iscrisse
giovanissimo al Partito Comunista francese e alternò l’attività sindacale
all’insegna- mento della filosofia. Nel 1970 fu radiato dal partito per il duro
atteggiamento polemico assunto nei confronti dell'U.R.S.S. per l'in- vasione
della Cecoslovacchia. Caratteristica del pensiero revisionista di Garaudy è il
ripen- samento del problema del socialismo nella società contemporanea e
l'apertura al cristianesimo, presente però anche nei suoi primi scritti, quando
egli attribuiva alla chiesa cattolica il merito di avere realiz- zato alcune
fondamentali trasformazioni della società, come l’aboli- zione della schiavitù
e l'uguaglianza della donna e di avere affermato il valere della persona,
dell'amore, della libertà e della trascendenza. Per Garaudy la « trascendenza »
è un umanesimo prometeico e faustiano che porta al superamento del limite; ed è
convinto che solo nell’organizzazione politico-sociale del comunismo esso possa
trovare la sua piena realizzazione. A seguito del rifiuto del modello
sovietico, Garaudy approda alla convinzione che il socialismo possa trovare la
sua pienezza aprendo un dialogo con il cristianesimo, al quale è accomunato
dalla passione per l'uomo, dall'impegno di trasformazione del mondo, dalla
dimen- sione profetica. Opere principali: La teoria materialista della
conoscenza (1953); Karl Marx (1965); Marxismo del XX secolo (1966); Lenin
(1968); Tutta la verità (1970); Riconquista della speranza (1971); L’alterna-
tiva (1973); Parola di uomo (1974). Gentile Giovanni (1875-1944) Nacque a
Castelvetrano (Trapani) nel 1875. Insegnò nelle uni- versità di Palermo, Pisa e
Roma. Aderì al regime fascista e nel 1922 fu nominato ministro della Pubblica
Istruzione. Nel 1943 aderì alla Repubblica Sociale e fu trucidato dai
partigiani nel 1944 a Firenze. La ‘filosofia idealista di Gentile si chiama
attualismo, in quanto l'assoluto è concepito come atto puro. Le cose non sono
altro che momenti di tale atto, sono l'atto puro stesso in un momento del suo
generarsi. Realmente c'è solo il pensiero attuale che pone sé stesso
(autoctisi). L'atto puro di Gentile, come l'idea di Hegel, svolge la sua
attività secondo un processo triadico, che ha per momenti princi- pali l’arte,
Ja religione e la filosofia. L'arte è il momento soggettivo; la forma immediata
dello spirito assoluto. La religione è l'antitesi dell'arte, il momento oggettivo.
La filosofia costituisce la sintesi del momento soggettivo con l'oggettivo,
riconoscendo l'assoluto nell'atto che pone se stesso attraverso una dialettica
eterna. Lo Stato è consi- derato l'incarnazione suprema dello Spirito, volontà
sovrana e as- soluta da cui discende sia la morale che il diritto. La filosofia
di Gen- 296 tile ha occupato un posto centrale nello sviluppo del pensiero
specu- lativo italiano nei primi decenni del nostro secolo. Opere principali:
Rosmini e Gioberti (1898); Sommario di peda- gogia come scienza filosofica
(1912); I problemi della scolastica e il pensiero italiano (1913); Studi
vichiani (1915); Fondamenti della fi- losofia del diritto (1916); Teoria
generale dello spirito come atto puro (1916); Sistema di logica come teoria del
conoscere (1917-1922); Le origini della filosofia contemporanea in Italia
(quattro volumi, scritti fra il 1917 e il 1923); I/ pensiero italiano nel
Rinascimento (1920); Studi sul Rinascimento (1923); Filosofia dell’arte (1931).
Gilson Etienne (1884-1978) Filosofo e storico francese, nato a Parigi, si è
addottorato in lettere e filosofia alla Sorbona; ha insegnato a Lilla,
Strasburgo, Parigi. Trasferitosi in Canada, nel 1929 vi ha fondato l’«
Institute of Medieval Studies » di Toronto che diresse sino alla morte avvenuta
nel 1978 a Cravant. Con Jacques Maritain, Gilson è colui che ha maggiormente
contribuito alla rinascita del tomismo nella prima metà del sec. XX e della sua
diffusione nel mondo nord-americano. AI] centro della sua riflessione è il concetto
di « filosofia cristiana » di cui Gilson sostiene la legittimità, affermando
che la filosofia cri- stiana non comprende verità che appartengono
essenzialmente al- l'ambito della fede e della rivelazione, ma solo di fatto,
storicamente. Oggetto specifico della filosofia cristiana non è il « rivelato
», ma il « rivelabile », cioè verità di per sé accessibili alla ragione come
l’unità di Dio, l'immortalità dell'anima, il senso della storia, la per- sona,
la libertà ecc. La filosofia cristiana è stata elaborata dai Padri della Chiesa
e dagli Scolastici, che hanno conferito evidenza a verità attinte dalla Bibbia
e alle quali i Greci non erano pervenuti quali l'unicità di Dio, la creazione,
la libertà, la persona, la storia, la contingenza, la causalità delle creature
e dell'uomo, la bontà della materia e del corpo umano, la provvidenza, ecc. I
filosofi cristiani hanno conferito a queste verità una espressione razionale,
filosofica, che gli storici non cristiani hanno attribuito alla filosofia
moderna. Per Gilson questa è una falsificazione della storia, che ha dimostrato
in modo preciso ne Lo spirito della filosofia medioevale e in altre opere. Sul
problema della conoscenza dell'essere, Gilson dimostra che essa non si realizza
mediante un’astrazione, ma mediante il giudizio di esistenza, che è un atto di
composizione che la mente compie tra un soggetto e l’atto di esistere,
attribuendoglielo. Opere principali: I/ tomismo (1919); La filosofia nel
Medioevo (1922); San Bonaventura (1924); Sant'Agostino (1929); Lo spirito del-
la filosofia medioevale (1932); Duns Scoto (1952). Delle sue opere a ca-
rattere teoretico citiamo: Il realismo metodico (1934); Dio e la filo- sofia
(1941); Realismo tomista e critica della conoscenza (1945); 297 L'essere e
l'essenza (1948); L'essere e alcuni filosofi; Introduzione alla filosofia
cristiana (1960); Il filosofo e la teologia (1960). Gioberti Vincenzo
(1801-1852) Nato a Torino, fu ordinato prete nel 1825. Laureatosi in teologia,
fu preso da una crisi di fede e si orientò verso il panteismo. Par- tecipò a
circoli rivoluzionari per cui fu arrestato ed esiliato nel 1833. Si rifugiò in
Belgio e in quel periodo si riconciliò con la Chiesa. Passò gli ultimi anni
della sua vita a Parigi, dedito allo studio della filosofia, nella povertà e
nella solitudine. Gioberti ha gli stessi motivi ispiratori di Rosmini: si vale
del- l’idea dell'essere ma sostiene che per salvare l'oggettività dell'idea
dell'essere bisogna darle materialità, realtà. Cioè bisogna porre l'a priori
non nell’idea dell'essere ideale, ma in quella dell'essere reale, Dio
(ontologismo). Dio crea il mondo e opera intrinsecamente allo spirito umano,
mentre a Dio il mondo ritorna grazie al progresso umano (l'ente crea
l'esistente, l'esistente ritorna all'ente). Gioberti ha anche studiato la
realizzazione di un piano per l’unità e l’indipenden- za d'Italia. Opere
principali: Teoria del sovrannaturale (1838); Introduzione allo studio della
filosofia (1840); Del bello (1841); Del primato morale e civile degli italiani
(1843); Del buono (1843); Del rinnovamento civile d'Italia (1851). Giovanni
Damasceno (675-750) ‘Dottore della Chiesa (di lingua greca), santo. Nacque a
Damasco e morì probabilmente a Gerusalemme. Discendente da una nobile e ricca
famiglia arabo-cristiana (suo padre era ministro del tesoro presso la corte del
Califfo) ebbe un'eccellente educazione letteraria e filosofica. Consacrato
prete da Giovanni V patriarca di Gerusalemme si ritirò nel monastero di San
Saba in Palestina e si dedicò soprat- tutto all'insegnamento della sacra
Scrittura e della teologia e si adoperò sia con la parola sia con gli scritti
per la difesa del culto delle immagini sacre (opponendosi coraggiosamente
all’iconoclastia). È stato per lungo tempo uno dei pilastri della teologia
della Chiesa cattolica orientale ed anche oggi è un riferimento nel dialogo
ecu- menico fra le varie confessioni cristiane. Nella sua sintesi teologica
vengono adoperati non pochi elementi filosofici da lui appresi in parte dagli
arabi e in parte dai Padri greci. C'è in lui un influsso ari- stotelico nella
concezione della logica e della metafisica, e c'è anche un influsso platonico e
neoplatonico derivato dallo Pseudo-Dionigi. iLa sua opera maggiore è la Fonte
della conoscenza che si suddi- vide in tre parti riguardanti la filosofia
(Capitoli filosofici), le eresie (Libro delle eresie) e la fede (Sulla fede
ortodossa). Glucksmann André (1937) Laureato in filosofia, fu maoista e
partecipò ai movimenti rivolu- 298 zionari del '68. Attualmente lavora al «
Centro nazionale per la ri- cerca scientifica ». Critico implacabile del
sistema marxista, è im- pegnato in una denuncia sistematica dei crimini
sovietici. Nelle sue ultime opere denuncia il carattere disumano del sistema
marxista e accusa l’U.R.S.S. di essere una potenza capitalistica, violenta e
ter- roristica, di cui il Gulag è l'espressione più terrificante. Tra le molte
critiche che Glucksmann muove al marxismo la più radicale è quella con cui gli
contesta di essere un sistema socialista. Opere principali: Il discorso della
guerra (1967); La cuoca e il mangiauomini (1977); I padroni del pensiero
(1978); L'atto antitota- litario (1983). Gramsci Antonio (1891-1937) Uomo
politico e pensatore italiano; nato ad Ales (Cagliari) si tra- sferì
successivamente a Torino, dove interruppe gli studi letterari per dedicarsi
alla vita politica. Nel 1921 con Bordiga e Tasca fondò a Livorno il Partito
Comunista Italiano, di cui divenne segretario nel 1924. Arrestato dai fascisti
e condannato a 20 anni di carcere, morì nel 1937 in una clinica, dopo undici
tormentati e dolorosi anni di prigionia. Il pensiero filosofico di Gramsci si
articola intorno al superamen- to del dilemma idealismo o marxismo; alla
fondazione della filosofia della prassi, in cui risalta il carattere
storicistico del conoscere e il suo carattere pratico; e infine alla dimensione
storica quale tratto qualificante della filosofia della prassi. Gramsci
recupera inoltre la conoscenza come creatività e non solo come rispecchiamento
della realtà. Riguardo al problema politico l'ideologia gramsciana si snoda
lungo le seguenti direttrici: 1) il potere va conquistato attraverso una guerra
di posizione che sottragga alla classe dirigente prima il consenso e poi il
dominio; 2) la rivoluzione non è violenta ma cultu- rale; nel progetto rivoluzionario
gramsciano il cristiano deve giun- gere ad abbandonare la sua religione per
accedere a forme più ri- spondenti al divenire storico; 3) ogni nazione ha
diritto di realizzare il proprio stato socialista conforme alla propria storia,
cultura e tradizioni; 4) il Partito comunista è il Nuovo Principe: esso è la
fonte di ogni potere, di ogni diritto, di ogni legge; la sua attività è
essenzialmente morale. Realizzatori della guerra di posizione e successivamente
del rap- porto tra il Nuovo :Principe e la base proletaria sono « gli intellet-
tuali organici », prima interpreti della rivoluzione culturale e suc-
cessivamente garanti del consenso ideologico. Gramsci appare sensibile al
problema religioso che considera la grande utopia delle classi subalterne. Come
la metafisica, essa è or- mai superata dal comunismo che ha pienamente compiuto
il processo di secolarizzazione del mondo moderno. Opere principali: gli
scritti di Gramsci sono distinti in due 299 periodi: a) Scritti giovanili
(1914-1918); L'Ordine Nuovo (1912-1920); Socialismo e fascismo (1921-1922); La
costruzione del Partito Co- munista (1923-1926); b) Quaderni del carcere,
scritti durante la pri- gionia. Guardini Romano (1885-1968) Filosofo e teologo
tedesco, di origine italiana (nacque a Verona), conoscitore profondo della
storia moderna, fu il primo a coprire la cattedra di Weltanschauung cattolica
all'università di Berlino. Allon- tanato -dall'insegnamento dal nazismo, lo
riprese dopo la seconda guerra mondiale prima a Tubinga e poi a Monaco sino
alla morte. In base al concetto di opposizione polare Guardini afferma che ogni
concetto fondamentale è distinto da un aliro, ma al tempo stes- so lo
presuppone e lo implica, poiché nessun elemento pilò essere pensato senza il
suo opposto. Il mondo storico è concepito da Guardini come il concreto viven-
te, ed è essenzialmente mondo della cultura, mondo dell’uomo. Convinto della
crisi dell'età moderna, si impegna a riaffermare il principio cattolico della
unità e collaborazione tra fede e ragione, convalidata dalla tesi della
polarità. In base a tale tesi, Guardini ela- bora una serie di binomi capaci di
descrivere la struttura della real- tà: atto-struttura, immanenza-trascendenza,
unità-pluralità, affinità- distinzione, originalità-regola. Egli riscontra
inoltre la crisi del mondo moderno in tre settori principali: quello della
natura, quello del soggetto, quello della cul- tura. La natura viene percepita
come estraneità, il soggetto è pri- gioniero della massa e delle macchine, la
cultura ha perduto la sua credibilità per lo scacco storico delle sue
convinzioni. Guardini abbozza, pertanto, il progetto di una « nuova società » e
di una nuova cultura sulla base della riaffermazione del valore assoluto della
persona; del controllo della potenza; del coraggio del- la verità; della
libertà dello spirito. Opere principali di carattere filosofico: L'opposizione
polare (Sag- gio per una filosofia del concreto vivente) (1925); La fede nella
ri- flessione (1928); La morte di Socrate. Una interpretazione degli scrit- ti
di Platone: Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone (1943); La fine del- l'epoca
moderna (1951); Religione e soprannatura (1958). Habermas Jiirgen (1929)
Filosofo e sociologo tedesco, nato a Gummersbach; dopo essersi laureato a
Francoforte, si è dedicato a studi e ricerche nell’ambito dell'Istituto per le
ricerche sociali di Francoforte fondato da Hork- heimer e di cui egli è il
continuatore. Per Habermas, compito di una scienza sociale filosoficamente fon-
data, è l'elaborazione del nesso tra teoria e prassi che penetri i meccanismi
della comunicazione intersoggettiva, la sua struttura lin- guistica, i processi
di creazione del consenso e della legittimazione 300 per raggiungere una Verità
che è nel contempo illuminazione pra- tica e formazione di una volontà
collettiva. Opere principali: Storia e critica dell'opinione pubblica (1962);
Teoria e prassi (1963); Logica delle scienze sociali (1967); Conoscenza e
interesse (1968); Tecnica e scienza come ideologia (1968); La crisi della
razionalità nel capitalismo maturo (1973); Per la ricostruzione del
materialismo storico (1976). Hartmann Nicolai (1882-1950) Filosofo tedesco,
nato a Riga e morto a Gottinga. Assertore della filosofia dei valori e vigoroso
critico del positivismo, aderì all'inizio della sua formazione culturale al
criticismo e in seguito alla feno- menologia di Husserl. La sua concezione
ontologica dei valori è caratterizzata da una sorta di ultrarealismo platonico:
i valori non hanno fondamento né nell'uomo né in Dio, ma in se stessi, sono sussisienti
al pari delle Idee di Platone e sono dotati di aseità. In nome dell'autonomia
dei valori Hartmann giunge perfino a negare l’esistenza di Dio, poiché la sua
esistenza sàrebbe incompa- tibile con la libertà dell'uomo. Opere principali:
Principi di una metafisica della conoscenza (1921); La filosofia dell'idealismo
tedesco (1923-1929); La costru- zione del mondo reale (1940); Filosofia della
natura (1950); Estetica (1953, postuma). Hegel Georg Wilhelm (1770-1831) Nacque
a Stoccarda e fece gli studi teologici nel seminario di Tubinga. Nel 1801 fu
nominato professore presso l'università di Jena, poi insegnò ad Heidelberg e
infine a Berlino dove ottenne gran- de successo. Morì di colera a 61 anni.
Hegel è uno dei protagonisti della filosofia contemporanea ed elaborò
l’idealismo logico e storico. Egli si inserisce nel recupero romantico del
concreto e del reale, ma per attuarlo radicalmente. Si impegna a coniugare la
valorizzazione della creatività del pensiero e della libertà con l'esigenza di
fondare razionalmente la realtà, in- tesa come costruzione logica del mondo;
perviene così all'esito fi- nale del processo storico culturale moderno: un
umanesimo asso- luto che sfocerà, dopo Hegel, in un ateismo assoluto (l’uomo è
il fon- damento immanente delle realtà). Scopo della filosofia hegeliana è,
quindi, la comprensione razio- nale del mondo e della storia, caratterizzati
dalla presenza del ne- gativo e dalla nostalgia dell'armonia perduta. La storia
è caratteriz- zata dalla scissione: essere-non essere; bene-male;
infinito-finito; Dio-mondo. La consapevolezza di queste realtà fa dell'uomo una
« co- scienza infelice », che tende a liberarsi della contraddizione. Per Hegel
la realtà è Idea (tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è
razionale). Da questa affermazione deriva il nome 301 dato alla filosofia di
Hegel di idealismo logico. L'unico metodo ade- guato per lo studio di una
realtà in perpetuo divenire è quello della logica speculativa o dialettica.
Esso è costituito di tre momenti: tesi, antitesi e sintesi. La tesi è il
momento dell'essere in sé, l’antitesi è il momento dell'essere extra sé, la
sintesi è il momento del ricongiungimento delle due parti poste dalla tesi e
dell'anti- tesi in un unico tutto che annulla le imperfezioni dei momenti pre-
cedenti mentre ne conserva la positività. Lo studio della triade fondamentale
riconduce alle tre parti principali del sistema hege- liano: logica o studio
dell'idea in sé, filosofia della natura, filosofia dello spirito, forma in cui
l'idea si attua pienamente, ritornando in sé dall’alienazione della natura.
Anche la vita dello spirito si svolge dialetticamente in tre momenti: spirito
soggettivo (o indi- viduale), oggettivo (o sociale) e assoluto (che si attua
nelle opere artistiche, religiose, filosofiche). Per Hegel la religione è mito
e la teologia è mitologia. Egli sva- luta la Rivelazione e afferma l’esigenza
di una religione nazionale sul modello di quella della polis greca. In una fase
successiva Hegel com- pie un'autocorrezione, rivalutando la prospettiva
storico-filosofica del cristianesimo come espressione del «rapporto dialettico
» tra universale-particolare, pensiero-vita, infinito-finito. L'amore cristia-
no si presenta come il superamento di ogni dualismo. Supera in tal modo la «
dialettica servo-signore » del giudaismo e si presenta come sintesi Dio-mondo.
Hegel considera il suo pensiero come sintesi del pensiero occiden- tale da
Talete a Schelling. La sua critica si rivolge in particolare al- l'impostazione
kantiana della cosa in sé e alla scissione tra sfera teoretica e sfera pratica.
Per Hegel la storia è lo studio delle manifestazioni dello spirito oggettivo.
Essa è la manifestazione progressiva dell’assoluto; in es- sa tutto quanto
avviene ha un carattere razionale. Il male è solo un momento della dialettica
della ragione. Per manifestare se stesso nella storia, lo spirito si vale dello
Stato e della nazione: la storia si esprime nelle successive egemonie dei
popoli. Opere principali: Scritti teologici giovanili (Religione popolare e cristianesimo;
La vita di Gesù; La positività della religione cri- stiana; Lo spirito del
cristianesimo e il suo destino) (1797-1800); Fenomenologia dello spirito
(1807); Scienza della logica (tre volumi scritti tra il 1812 e il 1816);
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817); Lineamenti di
filosofia del diritto (1821). Infine quattro opere postume: Filosofia della
storia; Estetica; Filosofia della religione; Storia della filosofia. Heidegger
Martin (1889-1976) Nacque a Messkirch, in Germania. Si avviò verso la carriera
sa- cerdotale che poi interruppe. Fu discepolo di Husserl. Nel 1928 ebbe la
cattedra di filosofia all'università di Friburgo, come succes- 302 sore del suo
maestro Husserl. Durante il periodo nazista si ritirò dall'insegnamento e lo
riprese dopo la guerra. La prima speculazione di Heidegger, che è il massimo
esponente del movimento esistenzialista, ed uno dei maggiori filosofi del
nostro secolo, è diretta alla soluzione del problema dell'essere. Porta di
accesso all'essere è l’uomo. Nell'uomo vi sono alcuni tratti fondamentali
caratteristici del suo essere, o esistenzia- li: essere-nel-mondo, esistenza
(essere fuori di sé), temporalità. Tra i primi due esistenziali,
essere-nel-mondo e esistenza c'è aperto contrasto: l’uno incatena l’uomo al
passato, l’altro lo proietta verso il futuro. A seconda che l'uomo si lasci
guidare dal primo o dal secondo la sua vita sarà inautentica o autentica. La
prima è quella di assuefazione al mondo, la seconda è quella interiore che
conduce colui che vive in vista della morte. Secondo Heidegger la morte ap-
partiene alla struttura fondamentale dell'uomo, perché è solo nella morte che
l’uomo conquista la totalità della sua vita. L'uomo diventa consapevole della
sua soggezione alla morte nell’angoscia che è un'al- tra disposizione
fondamentale del suo essere. L'essere è ciò che fa presente l’ente e ciò che in
esso si manifesta: ma l'essere è indicibile. L'uomo è « il custode dell'essere
», ma non gli è dato sapere come avvenga il costituirsi dell'ente per mezzo
dell'essere. La manifesta- zione dell'essere si realizza attraverso il
linguaggio. Opere principali: Essere e tempo (1927); Kant e il problema della
metafisica (1929); Dell'essenza del fondamento (1929); La dot- trina platonica
della verità (1947); Introduzione alla metafisica (1953); Il principio di
ragion sufficiente (1957); Nietzsche (1961); La tesi di Kant sull'essere
(1963); Tempo ed essere (1968); Il trattato di Schelling sull'essenza della
libertà umana (1971). Herbart Johann Friedrich (1776-1841) Filosofo e
pedagogista tedesco. Discepolo di Fichte e Schiller si orientò nella linea di
pensiero idealistica, che ben presto criticò e superò elaborando la sua
concezione filosofica di un pluralismo rea- listico immobilistico, in cui
riserva particolare attenzione ai pro- blemi pedagogici. Esercitò
l'insegnamento universitario a Gottinga e poi a Kénigsberg, dove fondò un
seminario di pedagogia e una scuola sperimentale. Herbart sostiene che la
filosofia è analisi critica dell'esperienza e superamento delle sue
coniraddizioni. L'esperienza ci dà una pluralità di esseri mutevoli, mentre
l'essere è sempre se stes- so, unico e immobile. Alla base della sua concezione
pedagogica vi è l’idea di istruzione educativa, tesa a promuovere la
plurilateralità, il complesso delle tendenze e delle attitudini dell'’educando,
senza al- terare le proporzioni e la forma dell’individualità, senza indebolire
la forza del carattere. Opere principali: Manuale di psicologia; Pedagogia
dedotta dal fine dell'educazione; Disegno di lezioni di pedagogia; Metafisica
ge- nerale secondo i principi della filosofia della natura. 303 Herder Johann
Gottfried (1744-1803) Filosofo, teologo e letterato tedesco, nato a Mohrungen e
morto a Weimar. Studiò teologia a Kénigsberg, avendo come maestro Kant. Dopo
essere stato alcuni anni a Riga, in Lettonia, come predi- catore, andò in
Francia e di lì, per interessamento di Goethe, si tra- sferì come pastore di
corte a Weimar, dove rimase sino alla morte, salvo il periodo di viaggio in
Italia nel 1788-1789. Scrisse moltis- simo in vari campi e può essere ricordato
come uno dei testimoni maggiori di quella stagione della cultura tedesca che
costituisce il suo periodo aureo. In filosofia i campi che coltivò con maggiore
successo furono l'estetica, la storia, la linguistica. Nell’estetica af- ferma
la relatività della nozione di bellezza. Nella storia egli vede una rivelazione
divina: natura e storia, a suo parere lavorano secondo il disegno di Dio per
l'educazione dell'umanità. Infine, per quanto concerne la linguistica, Herder
considera il linguaggio come espres- sione spontanea della soggettività: essa
può essere intesa sia come prodotto della sensazione immediata, sia come opera
della « rifles- sione ». Il linguaggio è quindi un fattore nella costruzione
sintetica della coscienza, ed occupa un posto fondamentale sia nella costru-
zione sia nella espressione della cultura di un popolo. Opere principali:
Saggio sull'origine del linguaggio; Il conoscere e il sentire dell'anima umana;
Idee per la filosofia della storia del- l'umanità. Hobbes Thomas (1588-1679)
Nato in Inghilterra, conobbe Galilei e (Cartesio e ne subì gli influssi
culturali. Fece lunghi viaggi in Francia e in Italia. Hobbes apre la serie dei
grandi filosofi inglesi del XVII secolo, le cui principali caratteristiche sono
empirismo e politicità. Per Hobbes l’unica sostanza è la materia: ad essa si
riporta ogni essere come al puro e trascendentale principio del suo esistere.
La cono- scenza si basa esclusivamente sull'esperienza. È bene ciò che causa
piacere, male ciò che procura dolore. Nel Leviathan, apologia del-
l'assolutismo, sostiene che lo Stato nasce da un volontario assogget- tamento
degli uomini a un sovrano, in cui si accentrano tutti i di- ritti, per uscire
dallo stato di natura, in cui regna una lotta sel- vaggia tra gli altri uomini
(homo homini lupus). Opere principali: Elementi di legge naturale e politica
(1640); Obiezioni alle « Meditazioni » di Cartesio (1641); De cive (1642); Le-
viatano (1651); De corpore (1655); De homine (1658); Behemoth (1670).
Horkheimer Max (1895-1973) Fondatore e animatore della « Scuola di Francoforte
», il cui cen- tro principale è l'« Istituto per le Ricerche Sociali ».
L'Istituto seguì Horkheimer quando questi emigrò a Parigi e, durante la seconda
guerra mondiale, a New York. Fece ritorno a Francoforte insieme 304 col suo
fondatore nel 1950. Il nucleo della Scuola di Francoforte era costituito oltre
che da Horkheimer, da Adorno, Fromm e Marcuse. Per la sua formazione filosofica
Horkheimer si colloca lungo l'e- redità del marxismo occidentale. Ma dal punto
di vista politico la sua posizione era totalmente eccentrica, in quanto non
intendeva avere rapporto alcuno con le organizzazioni di partito. Horkheimer e
la sua scuola concentrarono le ricerche sulla società e sulle sue istituzioni,
sviluppando una teoria critica anziché un progetto utopistico come avevano
fatto Marx e Engels. La teoria critica si propone di smascherare le
ingiustizie, i mali, le deviazioni, le lacune che affliggono la società in un
determinato momento storico. Da Marx accetta le seguenti tesi: priorità della
prassi; priorità della società sull’individuo; negazione della metafisica. In
altri punti si discosta dal marxismo: socialismo e politica del partito
comunista non coincidono; la dialettica ha un dominio più vasto; la religione
merita un giudizio più favorevole. La società è un fenomeno storico e dinamico.
La società contem- poranea affonda le sue radici nell’illuminismo; ma questo,
nel com- battere il mito, prende esso stesso la forma di mito. La ragione è
arte- fice e vittima dei mali provocati dall’illuminismo (manipolazione e
dominio dell’uomo sull'uomo). L'ideale che Horkheimer assegna alla società è la
felicità di tutti gli individui in questo mondo, in una concezione rigorosamente
storicistica e immanentistica. Più tardi il filosofo accoglierà un'apertura
teologica, verso la nostalgia di una perfetta e consumata giustizia. Opere
principali: Autorità e famiglia (1936); Dialettica dell'illu- minismo (1944);
Eclisse della ragione (1947); Studi sul pregiudizio (1950); Teoria critica
(1968); La società di transizione (1972). Humboldt Karl Wilhelm von (1767-1835)
Filosofo, linguista, letterato tedesco, nato a Postdam e morto a Tegel. Ebbe
una educazione illuminista; si specializzò in giurispru- denza a Francoforte e
a Gottinga. Dopo una breve permanenza a Parigi nel periodo della rivoluzione,
si trasferì a Jena, dove divenne amico di Schiller e Goethe. Dal 1802 al 1809
fu a Roma come rap- presentante del re di Frussia presso il Papa. Rientrato a
Berlino si occupò della strutturazione della nuova università. ‘Il nome di
Humboldt è legato soprattutto alle sue profonde ricer- che nel campo della
linguistica. Egli ha portato avanti le ricerche iniziate da Herder e con lui è
il maggior rappresentante della filo- sofia romantica tedesca. Per lui il
linguaggio è sintesi di dati ogget- tivi e di elementi soggettivi (tesi ripresa
da Kant, che però l'aveva applicata al fenomeno della conoscenza); esso è, poi,
parziale ri- flesso della totalità oggettiva nelle lingue particolari. La
lingua, per Humboldt, non è opera compiuta, bensì attività: la sua definizione
non può essere altro che genetica. Essa costituisce un importante 305 documento
di identificazione per quelli che sono i tratti caratteri- stici di un popolo.
Opere principali: Sull'origine delle forme grammaticali e il loro influsso
sulle idee; Sulla differenza della struttura linguistica del- l'uomo e sulla
sua influenza sullo sviluppo spirituale del genere umano. Hume David (1711-1776)
Nacque ad Edimburgo, in Scozia. Nel 1735, si recò in Francia per continuare gli
studi. Partecipò all'attività politica e fu segre- tario dell'ambasciata in
Olanda, Italia, Austria. Nel 1756 tornò in Francia. Fu amico di Rousseau, con
cui poi venne a rottura. Fu an- che sottosegretario di stato. Hume è
sostenitore di un empirismo radicale. Principio fonda- mentale della sua
filosofia è il principio di immanenza, interpretato empiristicamente: l’unica
fonte di conoscenza è l’esperienza e l’og- getto dell'esperienza non è la cosa
esterna ma la sua rappresenta- zione. In base a questo principio le
rappresentazioni o impressioni costituiscono il dato ultimo della conoscenza
umana. Hume trasfor- ma quindi l’empirismo in fenomenismo. Critica il rapporto
di cau- salità in quanto la relazione tra causa ed effetto non è necessaria, ma
nasce dall'esperienza. L'esistenza di Dio non è dimostrabile. Dio rimane
un'ipotesi e un atto di fede. La morale è improntata a un utilitarismo
altruista: è buono ciò che è utile e perciò approvato dalla società; è cattivo
ciò che è dannoso e perciò condannato dalla società. Le passioni sono
impressioni riflesse, connesse alle idee di sensazione. Le principali sono:
orgoglio-umiltà, amore-odio. La virtù è un'attività conforme a quella particolare
specie di passioni che causano piacere. Opere principali: Trattato sulla natura
umana (1739-1740); Saggi morali e politici (1741); Ricerca sull’intelletto
umano (1748); Ricer- ca sui principi della morale (1751); Discorsi politici
(1752); Quattro dissertazioni (1757); Dialoghi sulla religione naturale (1779).
Husserl Edmund (1859-1938) Nacque a Prossnitz, in Germania. Laureatosi in
scienze matema- tiche a Berlino, si trasferì per alcuni anni a Vienna.
Rientrato in Germania, insegnò filosofia all'università di Gottinga e di
Friburgo fino all'avvento del nazismo. È il fondatore della Scuola
fenomenologica. La fenomenologia studia l'oggetto quale si manifesta nella sua
effettiva realtà, assoluta- mente puro. Il metodo fenomenologico consta di due
momenti prin- cipali, negativo e positivo. Quello negativo, chiamato da Husserl
epoché o riduzione fenomenologica è quello in cui si isola l’oggetto (fenomeno)
da tutto ciò che non gli è proprio perché possa svelarsi nella sua purezza. Il
momento positivo è quello in cui lo sguardo del- 306 l'intelligenza si dirige
verso la cosa stessa e si immerge in essa e lascia che si manifesti. Mediante
l'elaborazione del metodo fenomenologico, Husserl ha offerto un apporto
decisivo allo sviluppo dell’esistenzialismo, for- nendogli un metodo di
indagine che rispondeva perfettamente alla sua esigenza, quella di effettuare
un'analisi minuziosa dell’esperien- za umana. Opere principali: Filosofia
dell’aritmetica (1891); Idee per una fenomenologia pura e una filosofia
fenomenologica (in tre volumi, di cui il primo nel 1913 e gli altri due posiumi
nel 1952); Logica for- male e trascendentale (1929). Molte opere postume:
Meditazioni car- tesiane (1950); La crisi delle scienze europee e la
fenomenologia tra- scendentale (1954); Mondo, io e tempo (1955); Filosofia
prima (1956); Psicologia fenomenologica (1962); Analisi delle sintesi passive
(1966). James William (1842-1910) Nato a New York, fu per molti anni titolare
delle cattedre di filo- sofia e psicologia all'università di Harvard, dove
fondò uno dei primi laboratori di psicologia sperimentale. Rappresentante del
pragma- tismo, James dette a questa corrente di pensiero un carattere marca-
tamente volontaristico. Nell'uomo la facoltà principale non è la ragione ma la
volontà; perciò una dottrina viene accolta non perché la ragione la riconosce
come vera, ma perché la volontà la trova utile al conseguimento di un
determinato obiettivo (pragmatismo). Il mondo è costituito da un insieme di
parti che non armonizzano perfettamente tra loro. In questa concezione è
evidente il pluralismo di James il quale difende anche l’individualismo. Opere
principali: Principi di psicologia (1890); La volontà di cre- dere e altri
saggi di filosofia popolare (1897); Le varietà dell'esperien- za religiosa (1902);
Pragmatismo (1907); Il significato della verità (1909); Un universo
pluralistico (1909); Alcuni problemi di filosofia (1911, postumi); Saggi
sull’empirismo radicale (1912, postumi). Jaspers Karl (1883-1969) Scienziato,
psicologo e filosofo tedesco, Jaspers fu uno dei massi- mi esponenti
dell’esistenzialismo. Nacque a Oldemburg in Germania. Insegnò per molti anni
filosofia nell'università di Heidelberg. Costret- to dal regime
nazionalsocialista ad abbandonare la cattedra, riprese l'insegnamento universitario
nel 1945. Nel 1947 si trasferì a Basi- lea dove insegnò e risiedette sino alla
morte. La sua filosofia ha come punto di partenza la distinzione tra esserci
(Dasein) ed esistenza (Existenz). L'esserci è la realtà empi- rica, la vita
naturale dell'uomo soggetia alle leggi del tempo e dello spazio e esposta allo
studio preciso delle scienze sperimentali. L'esi- stenza è la capacità
dell'uomo di superare costantemente la situa- zione, il suo trovarsi sempre
sistematicamente fuori di sé, oltre se 307 stesso. L'esistenza
autotrascendendosi non si dissolve nel nulla, ma si muove verso l'orizzonte
dell'essere, il quale mi circonda da tutte le parti: è l'’onnicomprensivo (das
Umgreifende). Senonché alla ra- gione umana resta impossibile determinare il
senso di tale orienta- mento. Questo può esser svelato soltanto dalla fede.
Opere principali: Psicopatologia generale (1913); Psicologia delle visioni del
mondo (1919); Filosofia (1932); Ragione ed esistenza (1935); Nietzsche (1936);
Descartes e la filosofia (1937); Filosofia del- l'esistenza (1938); Il problema
della colpa (1946); Sulla verità (1948); La fede filosofica (1948);
Introduzione alla filosofia (1950); I grandi fi losofi (1957); Ragione e
libertà (1959); La fede filosofica di fronte alla rivelazione (1962). Jung Carl
Gustav (1875-1961) ‘Psichiatra svizzero, fondatore della psicologia analitica,
nato a Kesswil e morto a Kiisnacht. Conseguita la laurea in medicina, en- tra
nel 1900 in qualità di assistente nell'ospedale psichiatrico di Zurigo. Dopo
vari anni di ricerche giunge alla conclusione che per comprendere le
manifestazioni psicotiche occorre soprattutto tener conto della storia
individuale del malato. Nel 1907 pubblica la Psico- logia della demenza precoce
nella quale formula l'ipotesi dell'origine psichica della schizofrenia,
interpretando il comportamento e il linguaggio del malato come espressione di
fantasie inconsce che hanno sostituito completamente l’attività della
coscienza. Nel 1912 pubblica la Trasformazione e simboli della libido che segna
la defi- nitiva differenziazione del pensiero di Jung da quello di Freud, dif-
ferenziazione che riguarda tutti i punti fondamentali della psicana- lisi: il
concetto di inconscio, la libido, la funzione dei simboli, il metodo
terapeutico. Queste tesi, Jung le riprende e sviluppa ulterior- mente nelle
opere successive: Tipi psicologici; Energetica dell'anima; L'io e l'inconscio;
Psicologia e religione. In quest'ultima opera Jung, diversamente da Freud,
riconosce l'importanza della religione nella vita dell'individuo e della
società e vede in essa una profonda esi- genza della natura umana stessa:
questa ha bisogno e si serve della religione per dare espressione simbolica
alle sue ricchezze interiori. Ma a parere di Jung, « una dottrina intorno a Dio
nel senso di un'esistenza non psicologica non può essere sostenuta ». Kant
Immanuel (1724-1804) Nacque a Kénigsberg (Prussia). Studiò filosofia,
matematica e teologia all'università della sua città natale. Fu precettore
presso alcune famiglie patrizie. Nel 1755 ebbe la libera docenza e nel 1770
ottenne la nomina a professore ordinario di logica e metafisica all’uni-
versità di Kònigsberg. Nel 1794 il re di Prussia gli proibiva, con una lettera,
di insegnare le idee critiche nei confronti della religione. Kant si adeguò e
non tenne più corsi sulla filosofia della religione. Morì nella sua città
natale che non aveva mai abbandonato. 308 La filosofia di Kant non parte dal
presupposto che ci sia una realtà esteriore preordinata, ma che la realtà è
costruzione nostra, in quan- to soggetti intelligenti. L’atto conoscitivo è
sintesi a priori di due elementi: contenuto e forma; la forma è fornita dal
soggetto, il contenuto dalle cose. Vi sono tre gradi nel processo del pensiero:
ap- prensione, giudizio e raziocinio. Il contenuto del I grado è il com- plesso
dei dati sensoriali, la forma è l'ordinamento che ne facciamo nello spazio e
nel tempo. Il risultato che è una sintesi di carattere sensibile, o
apprensione, serve di contenuto del secondo grado di conoscenza, di cui la forma
è l'elaborazione secondo alcuni criteri intellettivi che Kant chiama categorie.
Ne derivano i giudizi o sintesi concettuali. Questi primi due gradi
dell'attività conoscitiva si inte- grano a vicenda. Nel raziocinio si hanno tre
idee regolatrici dell’atti- vità stessa: anima, mondo e Dio. Anche questa
attività è unificatrice, anzi è quella che tende alla sintesi suprema: ma
questa non è mai realizzabile obiettivamente. Pertanto la metafisica,
tradizionalmente intesa, non è possibile come scienza positiva. La reale
conoscenza u- mana è limitata all'esperienza sensibile. Per Kant i postulati
della vita morale sono tre: l’esistenza-di Dio, l'immortalità dell'anima, la
libertà. La prima formula del dovere morale o imperativo categorico è: Agisci
sempre ed esclusivamente per amore della legge, prescindendo da qualsiasi
risultato utile o dannoso. Nella terza opera fondamentale (Critica del
giudizio) Kant tratta dei giudizi fondati sul finalismo, che riconosciamo nella
nostra vita e nella natura e dei giudizi estetici, che sorgono spontanei dalla
ripercussione nel nostro spirito di tale riconoscimento. I meriti maggiori
della filosofia kantiana sono il tentativo di uscire dal ristagno del
razionalismo e dell'empirismo, il riconosci- mento della ragione pratica e del
« sentimento ». Inoltre è riuscito a dare espressione filosofica alla
Weltanschauung del popolo germanico, che è caratterizzata da una profonda
coscienza del dovere e dal culto per la legge e per la disciplina, dall'amore
per la natura. Opere principali: Storia universale della natura e teoria del
cielo (1755); Monadologia physica (1756); Studio sull'evidenza dei prin- cipi
della teologia naturale e della morale (1764); Osservazioni sul sentimento del
bello e del sublime (1764); Critica della ragion pura (1781); Prolegomeni ad
ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza (1783); Primi
principi metafisici della scienza del- la natura (1786); Critica della ragion
pratica (1787); Critica del giu- dizio (1790); La religione nei limiti della semplice
ragione (1793); La fine di tutte le cose (1794); Metafisica dei costumi (1797).
Kautsky Karl (1854-1939) Filosofo e uomo politico tedesco, nato a Praga e morto
ad Amsterdam, compì i suoi studi a Vienna. Conobbe personalmente Marx e dopo
avere diretto nel 1883 Neue Zeit (Tempo Nuovo), la ri- vista teorica della
socialdemocrazia tedesca, redasse il Programma 309 di Erfurt (1891) e il suo
commento al Programma del Partito social. democratico costituì la formulazione
di piena ortodossia per gli aderenti alla Seconda Internazionale in contrasto
con l’ala revisio- nista di Bernstein. Kautsky opera una sintesi tra
l'evoluzionismo darwiniano e l’or- todossia marxista. Il suo socialdarwinismo è
elaborato a partire dalla sua concezione di dialettica intesa naturalisticamente
come intera- zione organismo-ambiente. Egli si interroga se la storia
dell'umanità non sia in fondo un caso particolare della storia degli esseri
viventi. Nonostante la sua pretesa ortodossia fu spietato critico del bolsce-
vismo che accusò di dittatura personale. ” Opere principali: Le dottrine
economiche di Karl Marx (1887); Etica e concezione materialistica della storia
(1906); La rivoluzione sociale (1909); La concezione materialistica della
storia (1927). Kierkegaard Sòren (1813-1855) Nacque a Copenaghen, nel 1840 si
laureò in teologia a Berlino. Visse sempre a Copenaghen. Fu un filosofo
ripiegato totalmente su se stesso, sulle riflessioni del suo intimo, incentrate
soprattutto su tre grandi fatti: il suo rapporto con il padre; il tormento da
lui chia- mato « pungolo della carne » e la sua breve relazione sentimentale
con Regina Olsen. Fu critico efficace del sistema hegeliano e del cristianesimo
uffi- ciale, da lui accusato di formalismo. Obiettivo della sua filosofia è
quello di riabilitare i concetti di « esistere » e di « interiorità » facen-
doli gravitare intorno alla categoria fondamentale di singolo, ovvero l'uomo
nel concreto della sua specificità. Secondo Kierkegaard la drammatica
complessità dell'esistenza non può essere giustificata al- l'interno di un
sistema logico totalizzante, cui si sottraggono la pre- carietà e la sofferenza
della persona, ma può trovare il proprio senso solo nella realtà di ogni
singolo e nella dialettica delle sue scelte di vita, in una continua alternanza
di scelte, dominate dall'angoscia, e regolate o dalla decisione per il piacere
traseunte ed egoistico (stadio esistenziale estetico o del Don Giovanni); o dal
senso del dovere e dell'impegno personale (stadio etico o del padre di
famiglia) o dall'ab- bandono incondizionato all'imperscrutabile volontà di Dio
con un atto di fede senza ritorno (stadio religioso o di Abramo). Dio è l’Es-
sere ed ha due modi di manifestarsi: naturale e soprannaturale. Sulla scia di
una radicale prospettiva luterana, Kierkegaard espri- me la consapevolezza che
tra Dio e uomo, tra natura divina e natura umana vi è una infinita differenza
qualitativa, cosicché la conoscenza religiosa finisce per manifestarsi come
passione per l'infinito. La mancanza di garanzia oggettiva fa sì che la fede
sia vissuta come un rischio, ma la sua accettazione non è irrazionale. Il salto
dalla inno- cenza al peccato non è spiegabile con la dialettica « quantitativa
» di Hegel; esso si spiega con la dialettica « qualitativa ». Nella storia di
Adamo è delineata la sequenza dall’innocenza alla colpa. La coscienza 310 del
peccato costituisce il singolo; ma Cristo ha liberato l’uomo dal peccato senza
privarlo della individualità. Opere principali: Sul concetto dell’ironia con
particolare riguardo a Socrate (1841); Aut-aut (1843); Timore e tremore (1843);
La ripresa (1843); Briciole di filosofia (1844); Il concetto dell'angoscia
(1844); Stadi del cammino della vita (1845); La malattia mortale (1849);
Esercizio del cristianesimo (1850); Discorsi edificanti. Opere po- stume:
Diari; Libro su Adler; La dialettica della comunicazione etica ed
etico-religiosa. Korsch Karl (1886-1961) Filosofo tedesco nato a Tostedt, si
laureò in giurisprudenza nel 1912. Si iscrisse al Partito Socialdemocratico
tedesco indipendente di Kautsky. Nel 1920, alla scissione di questo, entrò nel
Partito Comunista filosovietico. A causa del nazismo abbandonò la Germa- nia e
più tardi si trasferì negli Stati Uniti dove morì a Cambridge, nel
Massachussets. Le sue critiche colpirono soprattutto la teoria gnoseologica del
rispecchiamento di Lenin, secondo la quale la coscienza di classe sa- rebbe
estrinseca alla prassi proletaria. Ciò farebbe della dittatura di Lenin una
dittatura sul proletariato e non una dittatura del pro- letariato. Korsch tende
inoltre a recuperare la dimensione hegeliana della totalità, valutando
criticamente la « scientificità » del Capitale, che tende a separare economia,
politica è cultura. Opere principali: Marxismo e filosofia (1923; l’opera che
ne decre- tò l'espulsione dal Partito); Il materialismo storico (1929); Karl
Marx (1938). Labriola Antonio (1843-1904) Filosofo italiano, nato a Cassino,
docente successivamente di filosofia morale e pedagogia e quindi di filosofia
della storia a Roma, dove morì; introdusse lo studio del marxismo in Italia.
Ebbe rap- porti diretti con Engels e fu critico di Bernstein e Sorel. In base
al metodo genetico egli guarda alle cose non più come entità fisse, ma come
funzioni. Inoltre, con un deciso atteggiamento di distinzione tra marxismo e
naturalismo positivista, egli differenzia un « terreno naturale » da un «
terreno artificiale »: gli uomini sono originariamente dipendenti dalla natura,
ma la storia dell'umanità è la storia della società che varia ad opera del
comune impegno del lavoro umano. Opere principali: il suo pensiero è elaborato
in tre saggi fonda-' mentali: In memoria del manifesto dei comunisti (1895);
Del mate- rialismo storico. Delucidazione preliminare (1896); Discorrendo di
socialismo e di filosofia (1898). Leibniz Gottfried Wilhelm (1646-1716) Nato a
Lipsia, partecipò alla vita politica, ottenendo incarichi di- 311 plomatici.
Studiò filosofia all'università di Lipsia e matematica a Jena. Scoprì ii
calcolo infinitesimale contemporaneamente a Newton e inventò il regolo calcolatore.
Dietro suo consiglio fu fondata a Berlino l’« Accademia della Scienza », di cui
fu il primo presidente. Fu a Parigi, dove propugnò la riunificazione della
Chiesa cattolica con quelle protestanti. Questa missione lo impegnò per tutta
la vita. La sua fine fu solitaria e triste. La filosofia di Leibniz si presenta
come reazione al dualismo car- tesiano e all'empirismo inglese. È reazione al
dualismo cartesiano in nome dell'unità degli esseri (ogni essere è
essenzialmente uno: una monade, centro di attività e di energia, che riproduce
in se stessa la struttura di tutta la realtà); non esistono due sostanze,
quella spirituale e quella materiale; ma una sola: quella spirituale. È inol-
tre reazione all’empirismo inglese in nome dell'originalità della cono- scenza
intellettiva che non è una semplice reazione passiva alle idee dei sensi, ma lo
sviluppo di idee che l'intelletto ha già germinalmente presenti sin dalla
nascita (idee innate). Le facoltà conoscitive del- l'uomo sono: senso, memoria,
ragione. Le conoscenze della ragione si dividono in verità di ragione
(principio di non contraddizione) e verità di fatto (principio di ragione
sufficiente). L'esistenza di Dio è provata con il procedimento ontologico, par-
tendo dal concetto di possibilità; da ‘Dio trae origine il mondo per
folgorazione. La perfezione delle creature viene da Dio, l’imper- fezione dalla
loro limitazione, in cui sta anche la causa del male. Opere principali: De arte
combinatoria (1666); Discorso di meta- fisica (1686); Nuovo sistema della natura,
della comunicazione tra le sostanze e dell'unione tra l'anima e il corpo
(1695); Nuovi saggi sul- l'intelletto umano (1703); Saggi di teodicea (1710);
Principi della na- tura e della grazia fondati sulla ragione (1714);
Monadologia (1714). Lenin Nikolay (1870-1924) Pseudonimo di Vladimir Ilijc
Uljanov, laureatosi in legge a Pietro- burgo, iniziò la professione legale,
svolgendo nel contempo attività politica sulla scorta del pensiero di Marx.
Passato attraverso l’espe- rienza dell'esilio, diresse l’ala avanzata del
partito socialdemocratico russo chiamato bolscevico. Rientrato in patria allo
scoppio della Rivoluzione del '17, dopo l’esperienza parziale della Rivoluzione
del 1905, portò al potere il suo partito, le cui linee programmatiche sono
contenute nelle cosiddette « tesi di aprile » del 1917: rivendica- zione della
rivoluzione socialista (potere ai Soviet), costituzione di una repubblica dei
Soviet, nazionalizzazione delle banche e della terra. Capisaldi del pensiero di
Lenin sono: 1) il divenire dialettico della materia con la distinzione tra
concetto filosofico e concetto scientifico di materia; 2) la partiticità della
filosofia in base alla quale sono vere quelle dottrine che sono utili al
partito; 3) la ditta- 312 tura del proletariato come forma necessaria per il
passaggio dallo stadio del capitalismo a quello del comunismo. Opere
principali: L'imperialismo fase estrema del capitalismo (1899); Stato e
rivoluzione (1917); L’estremismo, malattia infan- tile del comunismo (1920). La
sua opera filosofica più importante è Materialismo ed empirio-criticismo
(1909). Lessing Gotthold (1729-1781) Critico drammaturgo e filosofo. Nato a
Kamenz, in Sassonia, stu- diò a Lipsia e passò la sua vita fra le città di
Breslavia, Berlino e Amburgo. Morì a Brunswick. È la figura più rappresentativa
dell'illuminismo tedesco ed è il sostenitore di un radicale razionalismo
religioso. Nei suoi scritti fi- losofici, in cui si uniscono motivi
illuministici e senso storico, egli ri- prende i motivi comuni dell'illuminismo:
critica di tutte le manife- stazioni della cultura, tendenza a « rischiarare le
menti » ed a rea- lizzare la felicità dell'umanità; ottimismo, ossia fiducia
nella con- tinuità del progresso umano sulla via del suo perfezionamento spi-
rituale. Molto influsso ha esercitato la sua svalutazione dell'elemento storico
della figura di Cristo e dei Vangeli. A suo parere una decisione di fede e la
salvezza eterna non possono dipendere da eventi storici che sono
necessariamente contingenti e difficilmente accertabili. Lessing ritiene che
l'elemento storico non possa avere l'importanza che le chiese cristiane gli
ascrivono e che la fede, considerata come inserimento dell'uomo in una
determinata tradizione storica sia qual- cosa di accessorio. L'essenza della
religione è comune a tutte le re- ligioni e prescinde dai dogmi delle varie
tradizioni cristiane e non cristiane. Opere principali: Sulla genesi della
religione rivelata (1735-1755); Il cristianesimo della ragione (1753);
Laocoonte (1766); Sulla prova dello spirito e della forza (1777); L'educazione
del genere umano (1780); Dialoghi per massoni (1780). Lévinas Emmanuel (1906)
Nato in ‘Lituania, ha svolto parte dei suoi studi in Russia e suc- cessivamente
a Strasburgo. A Friburgo entrò in contatto con Hus- serl e Heidegger.
Naturalizzato francese, insegnò prima a Poitiers e poi alla Sorbona. Da Husserl
Lévinas riprende il metodo fenomenologico come ri- chiamo a pensare ciò che è
implicito e sottinteso. L’epoché viene utilizzata come superamento dell’ovvietà
e ritorno all’originario « prima » del pensiero. L'intenzionalità viene vista
da Lévinas nel suo aspetto assiologico, come intenzionalità dei valori morali e
fondamento dell'etica. La fenomenologia trascendentale diviene, in- fine, lo
strumento principe per l'elaborazione del personalismo etico proprio del
filosofo lituano. 313 Tale personalismo è detto propriamente etico-metafisico,
poiché l'etica non è, secondo Lévinas, fondata dalla metafisica ma è essa
stessa metafisica, capace di fornire una spiegazione esaustiva della realtà
umana. Per accedere all’Assoluto, Lévinas parte dalla contingenza della
responsabilità, pilastro dell'etica. La via etica è eminentemente auscultazione
dell’Assoluto, dell’Infinito, dell'Altro, di Dio, a cui si accede seguendo la
traccia del volto dell'altro, il prossimo; quindi dall'altro (il prossimo) si
accede al Totalmente-Altro (Dio). Nella nudità e povertà inerme dell'uomo
risplende, infatti, la traccia di Dio, fondamento di ogni rapporto etico e di
giustizia. L'etica è essenzialmente rapporto con l'altro, esercizio della
propria libertà come assunzione della responsabilità dell'altro. La «
responsabilità per gli altri » è il principio di individuazione della persona,
Nella prospettiva della responsabilità Lévinas conferisce una so- vradeterminazione
etica alle categorie ontologiche: essere, ente, to- talità, infinito,
differenza divengono elezione, convocazione, sostitu- zione, espiazione,
ostaggio, volto. Opere principali: Totalità e infinito (1979); Quattro lettere
talmu- diche (1981); Altrimenti che essere o al di là dell'essenza (1982);
Etica e infinito (1983); Dal sacro al santo (1984). Lévi-Strauss Claude (1908)
Nato a Bruxelles da genitori francesi, dopo gli studi filosofici, a seguito
dell'insegnamento presso la cattedra di sociologia di San Paolo, dopo
l’esperienza di spedizioni scientifiche in Brasile, ap- prodò allo studio
dell'antropologia di cui è uno dei maggiori studiosi. Lo strutturalismo di
Lévi-Strauss si fonda sulle premesse lingui- stiche di De Saussure ed egli ritiene
che la priorità dello strutturale sul contenuto significativo non sia proprietà
esclusiva della lingua, ma è comune a tutte le manifestazioni culturali. Il
linguaggio si ri- vela pertanto come il principale elemento della vita
culturale. Il metodo strutturale conferisce così all’antropologia culturale un
carattere rigorosamente scientifico consentendole di separare certe proprietà
in una data serie di fenomeni e nel tentare di sta- bilire definite relazioni
fra di loro. Attraverso lo studio dei « sistemi di parentela », Lévi-Strauss ne
scoprì l'analogia con i sistemi fonologici. I felici risultati di questi studi
indussero lo studioso ad elaborare una antropologia strut- turale completa
capace di cogliere al di là della immagine cosciente le infinite possibilità
inconscie. L'umanità è un continuo divenire, fondato su un sostrato inalte-
rabile: compito dell'antropologia è far emergere questa struttura soggiacente
inconscia, che determina anche il formarsi di tutte le diverse forme di
società. L'inconscio non ha però una valenza metafisica, è piuttosto la 314
mente collettiva della società che si evolve e si trasforma con la società
stessa. Opere principali: Tristi tropici (1955); Antropologia strutturale
(1958); Il pensiero selvaggio (1962); Il crudo e il cotto (1964); L'ori- gine
delle buone maniere a tavola (1968); Antropologia strutturale due (1973); La
via delle maschere (1975). Lévy Bernard-Henry (1949) ‘Autore del libro La
barbarie dal volto umano che ebbe grande fortuna e prestigioso rappresentante dei
« nuovi filosofi », attacca con grande virulenza il marxismo, giungendo ad
identificare lo sta- linismo con il socialismo in senso proprio. Ciò che lo ha
indotto a lasciare il marxismo è stata la lettura dell’Arcipelago Gulag di
Solzenicyn. A suo modo di vedere la radice delle aberrazioni del socialismo è
l'utopia illuministica del progresso, fatta propria da Marx e dai suoi
discepoli, eredi e continuatori dell'illuminismo. Lévy sostiene inoltre che il
marxismo non è altro che una eari- catura del cristianesimo del quale « va
assumendo nel meglio e nel peggio l’integralità della [...] vocazione ». Non
diversamente da ciò che avviene nella Chiesa, anche il marxismo si
distinguerebbe in un marxismo d'élite e in un marxismo di massa, non meno
alienante del cristianesimo. Opere principali: Barbarie dal volto umano (1975);
Il testamento di Dio; L'ideologia francese. Locke John (1632-1704) Nato a
Wrington in Inghilterra, studiò a Oxford. Da concezioni politiche
assolutistiche passò più tardi a posizioni opposte. Accusato di complicità in
moti politici fu costretto a esiliare e si rifugiò in Olanda. Il suo pensiero è
soprattutto riunito nell'opera « Saggio dell’in- telletto umano » in quattro
libri che trattano rispettivamente delle idee innate, del processo della conoscenza,
del linguaggio e del valore della conoscenza. Locke critica la dottrina
cartesiana delle idee innate. L'anima umana al momento della nascita è una
tabula rasa: la conoscenza umana incomincia con l’esperienza sensibile. Vi sono
due tipi di idee: idee semplici e idee complesse. L’idea di sostanza è
inconoscibile, in quanto supera i limiti della conoscenza sensibile. Quindi
l'uomo può conoscere solo l’esistenza delle cose e non la loro essenza. In
politica Locke nega lo stato di natura affermato da Hobbes, so- stenendo che
gli uomini possono vivere in perfetto accordo. Ammette il contratto sociale da
cui nasce lo stato, ma non è una abdicazione ai propri diritti, bensì una
delega della loro difesa all'autorità. È an- che assertore della tolleranza e della
libertà religiosa. 315 Opere principali: Saggio sulla tolleranza (1667);
Epistula de tolerantia (1688); Trattati sul governo civile (1690); Saggio
sull’in- telletto umano (1688); Pensieri sull'educazione (1693); Ragionevo-
lezza del cristianesimo (1695). Lotze Hermann (1817-1881) Medico e filosofo
geniale, nato a Bautze, professore di filosofia a Gottinga e a Berlino, è uno
dei rappresentanti della filosofia dei valori sorta in Germania come reazione
al positivismo che era sfo- ciato nella distruzione di tutti i valori
(nichilismo). Sostiene che fra le leggi meccaniche e la natura dell'uomo non vi
è alcun contrasto. Rappresentante del pensiero assiologico Lotze afferma che i
valori assoluti hanno carattere trascendente e hanno come ultimo fonda- mento
Dio stesso. Per Lotze, inoltre, la realtà di Dio risulta irrefu- tabile se solo
si ammette che Dio è, per definizione, essere perfet- tissimo. Opere
principali: Microcosmo. Idee sulla storia naturale e sulla storia dell'umanità
(tre volumi scritti fra il 1856 e il 1864); Metafisica (1841); Logica (1843);
Sistema di filosofia (due volumi scritti nel 1874 e 1879); Scritti minori
(1885-1891, postumi). Lukéacs Gyérgy (1885-1971) Nato a Budapest, si presenta
come il teorico più complesso e interessante del marxismo occidentale.
L’Italia, Heidelberg e Vienna sono le tappe in successione del suo prestigioso
itinerario culturale che si è svolto in un ambito etico-estetico. Il suo
pensiero si articola su tre poli di interesse: l'etica, l’este- tica e
l'adesione al comunismo. L'ortodossia marxista è per Lukécs una metodologia
volta all'interpretazione della società e della classe operaia intese come
totalità, i cui eventi vanno colti dialetticamente nelle loro connessioni più
profonde. Circa l’arte, essa non può essere considerata come rispecchia- mento
della realtà, ma a partire dal « tipo », lo strumento che con- sente la
riflessione estetica. Il tipo è il risultato della convergenza dialettica delle
contraddizioni sociali, morali e psicologiche più significative di un'epoca. La
fantasia è la generatrice del tipo. Opere principali: Il dramma moderno (1908);
L'anima e le forme (1911); Teoria del romanzo (1916); Goéthe e il suo tempo
(1948); Il giovane Hegel (1948); Thomas Mann e la tragedia dell'arte moderna
(1953); La distruzione della ragione (1954). Il suo capolavoro poli- tico è
Storia e coscienza di classe (1923). Lutero Martin (1483-1546) Padre della
Riforma protestante, teologo insigne, polemista, esege- ta della sacra
Scrittura e possente oratore. Nacque ad Eisleben in Sassonia. Nei 1505 entrò
nell'ordine degli agostiniani, dove compiuti celermente gli studi teologici fu
ordinato sacerdote. Nel 1517 con la 316 pubblicazione delle famose
Novantacinque Tesi, prese energica posi- zione contro l'abuso della predicazione
delle indulgenze indetta dal pontefice Leone X, un male diffuso ovunque ma
soprattutto in Ger- mania. Fu scomunicato. Alla Dieta di Worms (1521) ruppe
definitiva- mente con la Chiesa di Roma, seguito da molti principi, vescovi,
preti e laici tedeschi, essendo considerato come difensore del popolo tedesco.
L'essenza del pensiero di Lutero sta in una nuova concezione della salvezza:
questa non dipende dall'uomo, dalle sue opere buone, ma esclusivamente dalla
misericordia di Dio. Per salvarsi occorre quindi un totale fiducioso abbandono
in Dio. In tale prospettiva non occorrono più intermediari: papa, vescovi,
preti, santi, sacra- menti, reliquie. E anche se si vogliono ammettere mutano
completa- mente di importanza e significato. Opere principali: 95 tesi sulle
indulgenze (1517); Alla nobiltà cri- stiana di nazione tedesca per la riforma
del ceto cristiano (1520); De captivitate babylonica ecclesiae praeludium
(1520); De libertate christiana (1520); De votis monasticis (1521); De
abroganda missa privata (1521); Esortazione alla pace (1525); Piccolo
catechismo (1529); Grande catechismo (1529). Luxemburg Rosa (1870-1919) Nata a
Zamo$é, in Polonia, da famiglia ebrea, militò sin da gio- vane nel movimento
socialista polacco, di cui divenne ben presto una dirigente. Nel 1897 si
trasferì in Germania, di cui prese la cittadi- nanza e divenne collaboratrice
di Karl Liebknecht nel 1914 alla fondazione della Spartakus-Bund (Lega di
Spartaco) caratterizzata da acceso spirito internazionalista e rivoluzionario.
Due capisaldi della sua teorizzazione sono il diritto di sciopero generale e la
teoria della catastrofe, quale autodistruzione del ca- pitalismo in base allo
sfruttamento e alla conquista indiscriminata di nuovi mercati. Rosa Luxemburg
condusse inoltre una spietata accusa contro il bolscevismo di Lenin. Morirà a
Berlino, uccisa dai soldati del go- verno socialdemocratico, durante uno
scontro con gli spartakisti. Opere principali: Riforma sociale o rivoluzione?
(1899); L'accu- mulazione del capitale (1913); Questione nazionale e sviluppo
capi- talista; Tra guerra e rivoluzione (1921 postumo). Malebranche Nicolas
(1638-1715) Filosofo francese nato a Parigi. Sacerdote della Congregazione del-
l'Oratorio, si distaccò apertamente dalle posizioni della filosofia aristotelico-tomistica.
Amico e discepolo di Cartesio accoglie le tesi fondamentali di questi in
metafisica (anche per lui la realtà si divide in pensiero ed estensione) ed in
epistemologia (il criterio supremo di verità è l'idea chiara e distinta). In
due punti però oltrepassa il 317 pensiero di Cartesio: nel problema della
conoscenza ed in quello della causalità. Per Malebranche in ‘Dio è fondato sia
l'essere che l'agire, includendo nell'ordine dell'agire prodotto da Dio la
stessa attività intellettiva della mente umana: le nostre idee sono le
perfezioni di Dio che egli ci fa vedere nella sua infinita essenza. La visione
delle idee in Dio è possibile perché Egli è immediatamen- te presente nel
nostro spirito. Si avvale del principio dell’occasionalismo inoltre per risolvere
il problema dei rapporti tra anima e corpo: essendo queste due realtà di genere
diverso, non possono entrare in comunicazione di- retta né esercitare un
influsso reciproco. Le disposizioni dell'anima e del corpo servono soltanto da
occasione per l'intervento di Dio, il quale svolge direttamente ed
esclusivamente tutte le azioni sia del corpo sia dell'anima. Opere principali:
La ricerca della verità (1675); Trattato della na- tura e della grazia (1680);
Colloqui sulla metafisica e la religione (1688); Trattato dell'amore di Dio
(1698). Mao Tse-tung (1893-1976) Nato da famiglia contadina, fu tra i fondatori
del partito comu- nista cinese sorto nel 1921 a Shangai. Sconfitta la Cina
nazionalista di Chang Kai-shek (1949) dopo la « lunga marcia », da lui guidata
attra- verso migliaia di chilometri, divenne il capo carismatico della Cina
Popolare e antagonista della Russia sovietica. I punti qualificanti del
pensiero di Mao sono: a) unione tra teoria e prassi; b) stretto legame con le
masse; c) sviluppo dell’autocritica. Nel 1966 si fece promotore della «
rivoluzione culturale » che appellandosi alle masse e ai giovani intendeva
esercitare un controllo sui quadri del partito e stimolarli a mantenere intatta
la carica ri- voluzionaria. Purtroppo questa operazione politica degenerò
rapida- mente e ne derivarono delle stragi di centinaia di migliaia di persone,
coinvolte senza alcun motivo. Obbligò gli intellettuali a impegnarsi
periodicamente nel lavoro dei campi e in fabbrica per evitare il ri- schio di
discriminazioni con le masse. Si oppose inoltre rigidamente alla cultura
tradizionale, considerando incompatibili Marx, Lenin, se stesso con Confucio,
di cui era impregnata da secoli la cultura e la tradizione del popolo cinese.
Opere principali: Mao scrisse solo due opere a carattere filosofico: Sulla
contraddizione (1937); Sulla prassi (1937). Da questi volumi furono tratti dei
brani che formarono il famoso « libretto rosso », punto di riferimento dei
giovani durante la rivoluzione culturale e che divenne di moda presso i giovani
dell'Occidente durante la contesta- zione sorta nel 1968. Marcel Gabriel
(1889-1975) Filosofo e scrittore francese, uno dei maggiori esponenti del-
l'esistenzialismo cattolico. Fu professore nei licei, si occupò di gior- 318
nalismo e di critica letteraria. Compose numerosi drammi teatrali. Nel 1929
passò dall’ebraismo al cattolicesimo. La metafisica è « ricerca di ciò che è »,
dell'essere, compiuta da ciascuno per proprio conto alla ricerca della verità,
assurta a valore vitale, qualcosa cioè di vissuto, frutto di una esperienza
personale. Egli rifiuta di definire esistenzialista il proprio pensiero e lo
qua- lifica come « socratismo cristiano ». Per Marcel, mentre la scienza può
parlare del reale in terza persona, la riflessione filosofica è il regno della
domanda e della risposta, dell'io e del tu, in cui domina la seconda persona.
Fra tutte le realtà suscettibili di ricerca meta- fisica il primato spetta
all'essere perché gode di una duplice prio- rità: nei confronti del pensiero e
nei confronti dell’avere. L'uomo è un essere incarnato, itinerante (homo
viator), animato dalla speran- za, in atteggiamento di adorazione davanti a
Dio. Alla trascendenza si arriva per intuizione: l'uomo è fatto per Dio. Opere
principali: Giornale metafisico (1927); Essere e avere (1935); Dal rifiuto
all’invocazione (1940); Homo viator (1945); Il mi- stero dell’essere (1951); In
cammino, verso quale risveglio? (1971). Marcuse Herbert (1898-1979) Nato a
Berlino, frequentò l'università di Friburgo. Fece parte del- l'’« Istituto per
la ricerca sociale » di Francoforte. Nel 1933 lasciò la Germania e si rifugiò
negli Stati Uniti, insegnando in diverse uni- versità americane. ‘Per lo
sviluppo del suo pensiero utilizza tre fonti principali: da Freud deriva la
tesi che l'essere profondo dell'uomo consiste nel- l'istinto del piacere; da
Hobbes proviene la distinzione di due stati nella vita umana: quello di natura
e quello sociale. La terza compo- nente fondamentale della visuale filosofica
marcusiana trae origine da Marx, da cui Marcuse deriva la prospettiva del
materialismo sto- rico e dialettico e la tesi che tutte le lotte sociali sono
dovute a ra- gioni economiche. Anche nella società contemporanea esiste una
ten- sione tra stato, natura e società e tutto si risolve a favore della so-
cietà, che si è trasformata in realtà autonoma, assoluta, onnipotente, fine a
se stessa. L'uomo, schiavo della società industriale, non può liberarsi dallo
stato repressivo in cui si trova. Solo gli inetti, gli emarginati, gli
sfruttati, cioè coloro che restano fuori dal pro- cesso democratico, che si
oppongono al sistema, sono una speranza di liberazione. Opere principali:
L'ontologia di Hegel e la fondazione di una teoria della storicità (1932);
Ragione e rivoluzione (1941); Eros e ci- viltà (1955); Marxismo sovietico
(1958); L'uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata
(1964); Critica della tolleranza (1965); La fine dell'utopia (1967). 319
Maritain Jacques (1882-1973) Filosofo e diplomatico francese, discepolo di
Bergson. Nato a Parigi da agiata famiglia protestante, dopo aver aderito per un
po’ di tempo al socialismo rivoluzionario, nel 1906, con l’aiuto di Léon Bloy,
si convertì con la moglie al cattolicesimo. ‘Insegnò all'« Istituto cattolico »
di Parigi e, in seguito, in alcune università degli Stati Uniti. Fu
ambasciatore di Francia presso il Vaticano dal 1945 al 1948. Dal 1961 sino alla
sua morte si ritirò presso la comunità dei « Piccoli fratelli di Gesù » di
Tolosa. Ardente sostenitore della filosofia tomista, di cui è stato il più
autorevole rappresentante nel nostro secolo, ne mise in rilievo l’ap-
plicabilità ai problemi moderni: politica, arte, pedagogia, scienza.
Particolarmente importante il suo contributo al pensiero politico. Maritain è
il teorico di un tipo di democrazia di ispirazione cristiana, ch'egli chiama
nuova cristianità, per distinguerla dalla cristianità medioevale. Mentre la
cristianità medioevale non riusciva a mante- nere sufficientemente distinti
ordine sacro e ordine profano, la nuova cristianità, pur facendo del sacro una
categoria che ordina a sé la creatura per quanto concerne il fine ultimo,
riserva allo spazio strut- turale del mondo una configurazione categoriale
profana, ovvero di- stinta dal sacro. Maritain propone l'umanesimo integrale,
assegnando alla de- mocrazia, ispirata in modo cristiano, cinque
caratteristiche: plura- lismo, infravalenza del temporale, libertà della
persona, autorità de- legata e collaborazione. Egli ha avvertito profondamente
la decaden- za e la « miseria » della nostra civiltà ed era sicuro di una sua
immi- nente fine apocalittica. Queste sue previsioni ed illuminazioni spie-
gano il fiorire dopo la sua morte in varie parti del mondo di centri di studio
del suo pensiero. Opere principali: La filosofia bergsoniana (1914); Arte e
scola- stica (1920); Distinguere per unire o i gradi del sapere (1932); Sul re-
gime temporale e sulla libertà (1933); Sette lezioni sull'essere e sui primi
principi della ragione speculativa (1934); Scienza e saggezzà (1935); Umanesimo
integrale (1936); Da Bergson a Tommaso d'£ quino (1944); Cristianesimo e
democrazia (1948); L'uomo e lo Stato (1951); Ateismo e ricerca di Dio (1953);
L’intuizione creativa nell'arte e nella poesia (1953); Il contadino della
Garonna (1966); La Chiesa del Cristo (1973). Marx Karl (1818-1883) Nacque a
Treviri, in Germania, studiò presso l'università di Ber- lino. Dopo la laurea
si dedicò al giornalismo, rivolgendo aspre cri- tiche ai governi assolutisti
del tempo. Nel 1843 e 1844 si rifugiò due volte a Parigi per sfuggire alla
caccia della polizia tedesca. Nel 1848 pubblicò il Manifesto del partito
comunista insieme a Engels, con cui ebbe una grande amicizia e dimestichezza di
lavoro comune (an- che Il Capitale fu preparato valendosi dell'apporto dell'amico)
e nel 320 1849 dovette riparare in Inghilterra. Nel 1864 convocò a Londra la
Prima Internazionale per coordinare l’attività rivoluzionaria del proletariato
di tutto il mondo. L'intuizione geniale di Marx consiste nell'aver scoperto
nella natura e nella storia dei rapporti economici quella logica immanente,
quella dialettica progressiva che regola la storia della coscienza in Hegel.
L’unica realtà è quella della storia, la quale a sua volta non è altro che
l'evoluzione della materia in tutte le sue fasi, compresa quella umana. Il
materialismo storico è quindi quella concezione della storia la quale afferma
che nelle vicende umane il fattore fon- damentale è quello economico. Un altro
punto fondamentale della teoria marxista è quello che riguarda il plus valore,
cioè il guadagno superiore all'investimento che il capitalista ricava dal
prodotto. Per Marx la religione è una sovrastruttura contingente e fonda il suo
ateismo su tre postulati: 1) il materialismo metafisico e dialet- tico; 2) il
materialismo storico; 3) l'umanesimo assoluto che situa l’uomo al vertice del
cosmo. Opere principali: Manoscritti economico-filosofici del 1844; Ideo- logia
tedesca (1845-1846); Miseria della filosofia (1847); Manifesto del partito
comunista (1848); Il Capitale (1867, insieme a Engels). Merleau-Ponty Maurice
(1908-1961) È nato a Rochefort-sur-Mer, in Francia. Fu professore all'univer-
sità di Lione, poi ordinario di psicologia pedagogica alla Sorbona. Prese il
posto di Lavelle nell'insegnamento al « College de France ». Fondò, insieme a
Sartre, il mensile Les temps modernes e lo diresse dal 1945 al 1953. La sua
filosofia è di indirizzo fenomenologico. Essa si sviluppa su due linee: 1) come
critica interna della psicologia sperimentale e convinzione che la riduzione
fenomenologica ci riconduce ad una coscienza sempre più definita dal corpo,
rapporto originario con il mond, e dalla situazione storica, rapporto
originario tra soggetto e soggetto; 2) come riflessione sul marxismo: da una
proposta di let- tura esistenzialistica degli scritti del giovane-Marx, ad una
successiva interpretazione dello stalinismo come tragedia giustificata da una
storia rivoluzionaria, il cui fine fondamentale è tuttavia il consegui- mento
di rapporti comunitari, per giungere infine ad una concezione del marxismo come
componente indispensabile, accanto ad altre, della cultura contemporanea e di
Marx come di un punto di riferi- mento ormai classico ma inattuale. Opere
principali: La struttura del comportamento (1942); Feno- menologia della percezione
(1945); Umanismo e terrore (1947); Senso e non senso (1948); Le avventure della
dialeitica (1955); Segni (1960); Il visibile e l'invisibile (1964, postumo).
321 Mill John Stuart (1806-1873) Nacque a Londra. Filosofo ed economista. Fu in
Francia e in Inghilterra dove si dedicò alle scienze e alla giurisprudenza.
Genio precocissimo, fu scrittore molto fecondo e per alcuni anni membro della
Camera dei Comuni. Il problema speculativo che lo preoccupò maggiormente fu
l'ela- borazione di una logica induttiva valida e completa, basata sulla
gnoseologia dell'empirismo inglese, la quale non ammette concetti, idee
universali. A tal fine egli escogitò vari metodi di cui i principali sono:
metodo dell'accordo, metodo della differenza, metodo dell'ac- cordo e della differenza.
Opere principali: Sistema di logica deduttiva e induttiva (1843); Principi di
economia politica (1848); Sulla libertà (1859); Conside- razioni sul governo
rappresentativo (1861); Utilitarismo (1863); Comte e il positivismo (1865); Tre
saggi sulla religione (1874, po- stumi). Mounier Emmanuel (1905-1950) Ritenuto
da molti il vero fondatore del personalismo, fu per un ventennio (1930-1950)
una delle voci più autorevoli e più ascoltate del mondo cattolico europeo. Dopo
aver iniziato gli studi alla facoltà di scienze di Grenoble dove era nato,
passò a quella di filosofia della Sorbona, superando il disagio, provocatogli
dalla filosofia ideali- sta, attraverso il rapporto con Maritain, Guitton e il
teologo P. Payet. L'incontro fondamentale resta però quello con il pensiero di
C. Péguy. Fondò la prestigiosa rivista Esprit (1932). Mounier colpisce con la
sua critica sia il carattere oppressivo dell'economia capitalista sia il
carattere generico, utopistico, ateo e collettivista del marxismo. Al
capitalismo e al marxismo contrappone il personalismo (I/ Personalismo, 1949)
le cui linee fondamentali sono: 1) la struttura psicofisica della persona
umana; 2) la trascendenza della persona ri- spetto alla natura; 3) l'apertura
verso gli altri e verso il mondo me- diante la comunicazione; 4) la dinamicità;
5) la vocazione; 6) la libertà. Secondo Mounier le difficoltà di carattere
materiale e sociale che ostacolano la realizzazione della vocazione della
persona possono essere ridimensionate da una democrazia che sia politica e
socio- economica al tempo stesso. Opere principali: Rivoluzione personalista e
comunitaria (1935); Dalla proprietà capitalista alla proprietà umana (1936);
Personalismo e cristianesimo; Manifesto al servizio del personalismo (1936); I
cri- stiani e la pace (1939); Trattato del carattere (1946); Che cos'è il per-
sonalismo (1947); Rottura fra l'ordine cristiano e il disordine stabili- to; Il
lavoro; Il denaro; Tentazioni del comunismo; Aspetti del cor- porativismo. 322
Nietzsche Friedrich (1844-1900) Figlio di un pastore protestante, nacque a
Rochen, in Germania. Studiò filosofia classica nelle università di Bonn e di
Lipsia. Nel 1869 fu chiamato ad insegnare all'università di Basilea lingua e
let- teratura greca. Nel 1879, per il suo precario stato di salute, lasciò
definitivamente l'insegnamento e iniziò a soggiornare senza fissa di- mora in
Svizzera, Italia e Francia, specie in riviera. Nel 1889 fu colto, a Torino, da
un nuovo e più grave attacco di pazzia che, sia pure con brevi periodi di sosta,
non lo lasciò più e lo portò alla morte, che avvenne a Berlino. Nietzsche si
oppone criticamente all'idealismo di Hegel e al pessimismo di Schopenhauer e
contesta aspramente ogni religione. La base del suo pensiero è il concetto che
la realtà sia una esplo- sione di forze disordinate. Davanti a questa
strepitosa esplosio- ne di potenza, che non può essere imbrigliata da nessuna
legge della ragione, si può assumere un duplice atteggiamento: di debo- lezza
(quello del gregge), di forza e potenza (del superuomo). Il gregge, di fronte
alla potenza sregolata della natura, invènta la re- ligione. Contro la massa
dei mediocri (il gregge) Nietzsche, per bocca di Zarathustra, il protagonista
del suo famoso libro Così parlò Zarathustra, proclama che l’esistenza dell'uomo
è completamente ter- rena e che Dio non esiste: « Dio è morto », L'etica del
superuomo, l'uomo forte, « il leone », come egli lo chiama, è il trionfo della
propria personalità, al di là del bene e del male, purché si affermi sugli
altri; come è per il bambino, deve saper « dire di sì alla vita » in tutte le
sue forme e deve creare nuovi ideali di esistenza, nuovi simboli sacri (Dioniso
al posto di Dio). Nietzsche recupera la dottrina dell'eterno ritorno, che ha
come proprio centro la volontà creatrice dell'uomo. Opere principali: La
nascita della tragedia dallo spirito della mu- sica (1872); Considerazioni
inattuali (1873-1876); Umano troppo uma- no (1878); Il viandante e la sua ombra
(1880); La gaia scienza (1882); Così parlo Zarathustra (1883-1885); Al di là
del bene e del male (1886); Genealogia della morale (1887); Il caso Wagner
(1888); Cre- puscolo degli idoli (1888). Opere postume: L'Anticristo; Ecce
homo; Nietzsche contro Wagner. Occam (di) Guglielmo (1290-1349) Francescano,
studiò e insegnò ad Oxford. Per le sue dottrine so- spette nel 1314 fu invitato
a presentarsi alla corte papale ad Avi- gnone per rispondere delle idee
eretiche di cui era accusato. Fuggì da Avignone con un gruppo di francescani
dissidenti e in seguito si rifugiò a Monaco di Baviera, presso l'imperatore
Ludovico il Ba- varo, venendo così scomunicato. Egli afferma che gli universali
esistono solo nella mente e non hanno nessun rapporto con le cose; sono solo
puri concetti. Quindi bisogna eliminare le entità astratte {rasoio d’'Occam).
323 Tra fede e ragione non esiste armonia: non si possono conoscere le verità
soprannaturali; sono solo oggetto di una fede cieca. Opere principali: Commento
alle Sentenze; Summa logicae; Opus nonaginta dierum (1333-1334); De dogmatibus
papae Johannis XXII (1334); Dialogus; Octo quaestiones; Breviloquium de
potestate papae; De imperatorum et pontificum potestate. Parmenide (I metà del
V sec. a.C.) Nacque a Elea (colonia greca in Lucania). Fondatore della Scuola
eleatica, pone come unica realtà l’essere, negando il divenire considerato come
illusione dei sensi. Secondo Parmenide l’unica realtà ‘è l'essere; nessun'altra
realtà è possibile in quanto senza l'essere nulla è pensabile: « la stessa cosa
è pensare e il pensiero che è ». Con questo Parmenide intende dire che
l'oggetto del nostro pensiero è l'essere, e che il non essere non è pensabile.
Coerente con questo postulato, passando dalle esigenze del pensiero a quelle
dell'esperienza, conclude iogicamente che il nasce- re e il perire delle cose,
ossia ogni forma di divenire, sono solo nomi, esprimenti le fallaci opinioni
degli uomini. Parmenide è considerato il primo grande metafisico della storia
perché è il primo filosofo che si preoccupa di chiarire la nozione fondamentale
dell'essere. Opere principali: scrisse il poema Della natura. Pascal Blaise
(1623-1662) Nacque a Clermont Ferrand. Di grande ingegno fin da ragazzo, studiò
matematica e fisica. A 18 anni si trasferì con il padre, alto magistrato da cui
aveva avuto la prima educazione, a Parigi e qui frequentò il circolo culturale
guidato da Mersenne. Si distinse per le sue ricerche e scoperte di geometria e
di ‘fisica. Questa sua vita completamente indirizzata agli studi rese la sua
salute fragile e gli abbreviò l'esistenza, morendo a Parigi non ancora
quarantenne. Nel 1646 aderisce al giansenismo, per cui attacca violentemente
sia i gesuiti francesi, che accusa di predicare una morale lassista, sia i
cosiddetti « libertini », ai quali rimprovera il mancato impegno per la
salvezza finale. Abbracciò il misticismo del monastero di Port-Royal e nel
1654, dopo una breve crisi mondana, ebbe una specie di visione mistica (la
famosa notte del 23 novembre) e si convertì definitiva- mente. Pascal critica
il metodo geometrico di Cartesio che pretende di ridurre tutto ad idee chiare e
distinte. Ad esso contrappone il metodo affettivo (esprit de finesse); alle
idee chiare e distinte le idee emozio- nanti. Più che opporre la ragione al
cuore, intende integrare la ra: gione col cuore: e valersi di entrambi nella difesa
del cristianesimo di cui fu ardente seguace e abile apologista. Oltre che
scienziato di grandissimo valore e forte polemista, fu dotato di uno spirito
finissimo, l'esprit de finesse, di cui fu pieno il suo pensiero filosofico che
partiva da una conoscenza penetrante, 324 quasi intuitiva, delia realtà umana
nella sua condizione storica con- creta. Opere principali: Trattato sulle
sezioni coniche (1639); Lettere provinciali (1656); Apologia della religione
cristiana (del progetto rimasero solo alcuni frammenti raccolti poi nei famosi
Pensieri). Peirce Charles Sanders (1839-1914) Filosofo e matematico
statunitense, studiò alla « Harvard Uni- versity » e dal 1859 al 1891 lavorò
presso il servizio geodesiaco e costiero degli Stati Uniti. Visse gli ultimi
anni nella solitudine e nella povertà. Può essere considerato il fondatore del
pragmatismo, corrente nata in America come reazione al positivismo e al
materiali- smo positivistico e che risolve il criterio di verità delle diverse
teorie nel loro successo pratico, operando induttivamente e poi veri- ficando.
L'impostazione di Peirce è infatti empiristica e sperimenta- lista; egli però
nega che la sua tesi abbia esiti soggeîtivistici e uti- litaristici. Opere
principali: La grande logica; Raccolta di scritti di Ch. S. Peirce (in 8 volumi
fra il 1931 e il 1958, postumi); Corne rendere chia- re le nostre idee (1878).
Piaget Jean (1896-1980) Nato e vissuto in Svizzera è annoverato tra gli
studiosi più ge- niali della psicologia contemporanea. Notevole il suo contributo
an- che di carattere epistemologico. Nel 1954 foridò a Ginevra il notis- simo «
Centro internazionale di epistemologia genetica ». A partire dall’osservazione
del comportamento Piaget sottolinea che il pensiero del fanciullo differisce da
quello dell'adulto non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente e ciò
perché il pen- siero umano è evolutivo. Tappe dell'evoluzione del pensiero
infantile sono: 1) l'intelligenza serisomotoria; 2) l’attività rappresentativa;
3) l’attività imitativa differita e il linguaggio verbale. Piaget ritiene,
inoltre, di poter cogliere una stretta correlazione tra linguaggio e pensiero
attraverso tre fasi fondamentali di svilup- po: 1) il pensiero egocentrico (il
fanciullo attribuisce valore assoluto alla propria esperienza); 2) il pensiero
realista (primato dei dati per- cettivi su quelli rappresentativi); 3) lo
sviluppo intellettuale vero e proprio nelle due evoluzioni successive che vanno
dai nove ai dieci anni e dai quindici ai sedici anni. Partendo dall'evoluzione
del pen- siero umano, Piaget affronta due questioni fondarnentali di episte-
mologia genetica: quelia relativa allo sviluppo della nozione e quella relativa
alla cognizione della nozione. Opere principali: Il linguaggio e il pensiero
del fanciullo (1923); Il giudizio e il ragionamento nel fanciullo (1925); La
rappresentazio- ne del mondo nel fanciullo (1926); Il giudizio morale nel
fanciullo (1932); La nascita dell’intelligenza (1936); La formazione del sim-
bolo (1947); Introduzione all’epistemologia genetica (1950); Le trasformazioni
delle operazioni logiche (1952). 325 Pitagora (571-490 a.C.) Nacque a Samo,
isola greca del Mar Egeo. Fu un genio multi- forme che coltivò ad un tempo la
matematica, l'astronomia, l’asce- tica e la mistica. Fondò a Crotone la scuola
pitagorica, la cui dot- trina fondamentale è che il numero è l'essenza di ogni
cosa. Da cui la derivazione della molteplicità dell'unità. Il concetto
matematico con cui Pitagora spiega i fenomeni è superiore a quello degli
Ionici, perché è astratto e più razionale. Per Pitagora l’anima è eterna e
rinasce in altri corpi di uomini o animali (metempsicosi). Alla sua scuola
diede un indirizzo spiccatamente religioso. I suoi membri vi- vevano in
comunità, compiendo pratiche ascetiche molto elevate. Platone (427-347 a.C.) |
Nacque ad Atene da una famiglia fra le più nobili della Grecia. È uno dei più
grandi filosofi della storia. Fu discepolo di Cratilo e poi di Socrate. Dopo la
tragica fine di questi, per evitare delle rappre- saglie, si allontanò da Atene
e si rifugiò a Megara e più tardi iniziò a viaggiare, visitando varie città
della Grecia e dell’Italia, sofferman- dosi a Siracusa, dove ritornò alcuni
anni dopo. Tornato ad Atene, vi fondò nel 387 a.C. l'Accademia che può essere
considerata la prima università a carattere scientifico. Per secoli questo
prestigioso centro di studi attrasse le migliori intelligenze della Grecia.
Scrisse moltis- sime opere, in parte andate perdute. Platone fu il primo
filosofo meta- fisico: per spiegare il mondo sensibile sentì il bisogno di
ipotizzare un altro mondo ideale, immateriale. Infatti, caratteristica
dominante del pensiero platonico è il dualismo: esistono due mondi: uno
intelligibile o mondo delle Idee, che sono le essenze eterne, divine e
immutabili delle cose e il mondo sensibile, che è prodotto dal De- miurgo,
l'artefice sovrano, plasmando la materia informe a immagi- ne delle Idee.
Caratteristica della filosofia platonica è la tesi secondo cui il conoscere
umano non è altro che un ricordare. Per Platone l'uomo è un'unità accidentale
di anima e di corpo: essenzialmente l’uomo è soltanto anima. Tutta la sua
filosofia ha un orientamento etico: l'uomo è sulla terra di passaggio, nel
desi- derio dell'eternità. iPer raggiungere la felicità occorre rinunciare ai
piaceri e alle ricchezze e dedicarsi alla pratica della virtù, per cui è meglio
subire l'ingiustizia che commetterla. La filosofia è l’unica via sicura per
giungere alla giustizia e al bene. All'incontro con le cose di questo mondo,
copie delle Idee, nell'anima umana si risve- glia il ricordo delle ‘Idee che
aveva contemplato in una vita prece- dente (mito della caverna). Anche la
concezione politica di Platone è ideale e si fonda sulla divisione dei compiti
e del lavoro tra le classi dei lavoratori, guerrieri e magistrati che
corrispondono alle anime concupiscibile, irascibile e razionale dell'individuo.
Dall'’armonia di queste tre classi nasce il raggiungimento del Bene, del
Giusto, del Vero. Per lui lo Stato ha origine dal fatto che l'individuo non può
bastare a se stesso. 326 Opere principali: a) Dialoghi giovanili (Apologia di
Socrate; Critone; Ipparco; Protagora; Menesseno); b) Dialoghi della matu- rità
(Gorgia; Menone; Cratilo; Repubblica; Fedone; Fedro); c) Dia- loghi della
vecchiaia (Teeteto; Parmenide; Sofista; Timeo; Crizia); Lettere. Plotino
(205-270) Nato a Licopoli (Egitto), entrò nella scuola di Alessandria diretta
da Ammonio Sacca e partecipò a una spedizione bellica contro i per- siani. Poi
si trasferì ad Antiochia e infine a Roma, dove fondò una scuola. Morì in
Campania, nella sua villa. Fu l'ultimo grande espo- nente del pensiero classico
e il principale esponente del neoplato- nismo, movimento che opera una sintesi
tra la filosofia di Platone e le religioni pagane orientali. Per inclinazione
naturale e dato una certa conoscenza dell'ebraismo e del cristianesimo in Roma,
ha con- centrato la sua speculazione sul problema religioso, in particolare sul
rapporto dell'anima con Dio. Plotino accentua i concetti di semplicità e di
trascendenza ri- guardante l'Assoluto che chiama Uno. All’Uno quindi: non si
può attribuire nessuna qualità positiva (teologia negativa). Dall'Uno trag-
gono origine tutte le altre realtà mediante emanazione, secondo un ordine: il
Nous o intelligenza, la vita, l’anima universale, le anime, la materia. La
missione dell'anima umana è di ristabilire l'unità originaria delle cose,
riconducendole all’Uno, attraverso tre tappe: ascetica e catarsi,
contemplazione, estasi. Opere principali: i suoi scritti furono ordinati dal
discepolo Porfirio e sono noti sotto il nome di Enneadi. Popper Karl Raimund
(1902) Nacque a Vienna, dove studiò fisica, matematica e poi filosofia. Data la
sua origine ebraica nel 1937 emigrò in Nuova Zelanda dove insegnò a
Christchurch. Nel 1945 si trasferì a Londra, iniziando ad insegnare alla London
School of Economy. Popper fu, in un primo tempo, uno degli esponenti più
qualificati del Circolo di Vienna e del neopositivismo, ma poi abbandonò questo
sistema e sviluppò una concezione originale dei fondamenti della scienza e del
metodo scientifico, che può essere definita come razionalismo critico, in forte
contrasto con la Scuola di Francoforte a cui rimprovera, oltre la dialettica,
lo « storicismo », per cui si fan- no previsioni della storia nella totalità
del suo corso che viene con- siderato essere diretto in modo ineluttabile verso
una meta prefis- sata, come la società senza classi prevista da Marx. I punti
qualificanti della sua concezione in campo epistemologico sono due: il
carattere sostanzialmente deduttivo (anziché induttivo) della scienza; e il
criterio di demarcazione tra teorie scientifiche e non scientifiche, che viene
chiamato criterio di falsificabilità. Que- sto stabilisce che una teoria può
considerarsi scientifica soltanto se è falsificabile, ossia se si può indicare
dei casi in cui risulterebbe 327 falsa, cioè smentita in linea di principio e
non per essere stata consta- tata falsa di fatto. Notevole anche l'apporto di
Popper alla filosofia politica con la sua appassionata difesa della « società
aperta », vale a dire la difesa di una società che non solo tolleri, ma stimoli
la cri- tica dei singoli e dei gruppi in vista della soluzione razionale dei
problemi più gravi come quello delia fame e dell'ignoranza. Opere principali:
La logica della scoperta scientifica (1934); Che cos'è la dialettica (1937); La
‘società aperta e i suoi nemici (1945); Miseria dello storicismo (1957);
Congetture e confutazioni (1962); Conoscenza oggettiva (1972). Frotagora (490,
morto tra il 410 e il 400 a.C.) Filosofo greco, massimo esponente della
sofistica. Dalla sua natia Abdera (in Tracia), si trasferì ancora in giovane
età ad Atene, dove insegnò ad una folta schiera di studenti entusiasti. Si
guadagnò la stima e il favore di Pericle, il quale lo incaricò di stendere la
costituzione della colonia di Thurii. Data e luogo della sua morte sono
incerti, e ja causa sembra sia stata un naufragio. L'attenzione precipua della
riflessione filosofica di Protagora non è più voita come nella maggior parte
dei presocratici allo studio della natura e della causa o principio primo,
bensì verso l’uomo ed è tesa, soprattutto, a scoprire quali sono le possibilità
umane in or- dine alia conoscenza e alla morale. In entrambi i casi Protagora
sposa una tesi sostanzialmente relativistica: non esistono verità asso- lute
nell'ordine gnoseologico né leggi universali nell'ordine etico; sia le verità
sia le leggi sono relative. Questa tesi è espressa nel ce- lebre detto di
Protagora: « L'uomo è misura di tutte le cose; di quelle che sono perché sono e
di quelle che non sono perché non sono ». È la stessa condizione naturale
dell’uomo, la sua struttura corporea a non consentirgli di raggiungere né il
vero né il bene in maniera assoluta e definitiva: «La materia — afferma
Protagora — è flut- tuante, e fluendo essa ininterrottamente, si verificano
aggiunte al posto delle perdite, e le sensazioni mutano e variano secondo l'età
e secondo le altre costituzioni dei corpi ». Opera principale: La verità o
Discorsi sovvertitori. Renouvier Charles (1815-1903) Filosofo francese, nato a
Montpellier e morto a Prades, nei Pirenei Orientali. Nella sua opera del 1903,
I/ personalismo, ha fornito spunti fondamentali al personalismo contemporaneo
offrendo addirittura la denominazione che lo caratterizza e che è desunta da
una indagine filosofica centrata sull'uomo concreto e sulla sua dimensione dia-
logica. ‘ Per Renouvier il carattere specifico della persona umana è Îa
conoscenza da intendersi come apertura verso il mondo e verso l'as- soluto e
capace di portare l’uomo a riconoscere l’esistenza di una Persona prima e
creatrice. Il riconoscimento della sua esistenza è imposto al nostro assenso
dal carattere di unità armonica delle leggi 328 che regolano l’intendimento
degli esseri intelligenti e reggono il mondo. È favorevole ad una specie di
religione filosofica. Opere principali: Saggi di critica generale (1854-1864);
La nuova monadologia (con L. Prat, 1899); Il dilemma della metafisica pura
(1901); Il personalismo (1903). Rickert Heinrich (1863-1936) Filosofo tedesco,
nato a Danzica, fu docente di filosofia ad Heidel- berg dove morì e direttore
delia scuola di Baden; sviluppò la « fiia- sofia dei valori », distinguendo la
scienza delio spirito dalle scienze della natura. Critico del positivismo,
distingue due forme di conoscenza e due logiche ad esse correlate: 1) la logica
delle scienze spirituali o sto- riche da un lato; 2) la logica delle scienze
naturali dall'altro. 'La realtà per Rickert è quella che ci rivelano le scienze
spirituali o che i loro giudizi valutativi determinano. La natura, invece, è
solo un'immagine astratta e abbreviata della realtà, creata per il bisogno che
l'uomo ha di dominare, classificandola e uniformandola, l'infi- nita varietà
degli individui, di cui consta l’esperienza., Le scienze naturali, pertanto,
tendono all'astrazione; mentre le scienze spirituali o storiche tendono a
determinare il valore dei fatti, che sono il presupposto stesso della storia.
Opere principali: L'oggetto della conoscenza (1892); Scienze della cultura e
scienze della natura (1899); La filosofia della vita (1920); Sistemi di
filosofia (1921); La logica del predicato e il problema dei- l’ontologia
(1930); Problemi fondamentali della filosofia (1934). Ricoeur Paul (1913)
Filosofo francese, nato a Valence, docenie di filosofia ciella storia prima
alla Sorbona e poi all'università di Parigi-Nanterre, può essere annoverato sia
tra i fenomenologi che tra gli esistenzialisti e i personalisti. Assertore di
una interessante visione antropologica, Ricoeur la fonda sul concetto di
fallibilità, che la storia delle religioni docu- menta aîtraverso i simboli del
male e dei peccato. La fallibilità è una prerogativa dell’uomo, realtà
essenzialmente progettuale, che può fallire nella realizzazione dei proprio
progetto. La persona per Ricoeur è un progetto di umanità. Attività fonda-
mentali della persona sono il conoscere, il cui oggetto è il vero; il volere,
il cui oggetto è il bene; il sentire, il cui oggetto è l’affettività. Alla
sfera del sentimento appartengono l'amicizia (apertura verso i propri simili) e
la deiezione (apertura verso il mondo delle Idee, la Trascendenza, Dio). Opere
principali: G. Marcel e K. Jaspers (1947); K. Jaspers e la filosofia
dell'essere (1947); Filosofia della volontà (1950-1960); Finitu- dine e colpa
(1960); Il conflitto delle interpretazioni {1969); La sfida semiologica (1974);
Metafora viva (1975). 329 Rosmini Antenio (1797-1855) Nacque a Rovereto e fu
ordinato sacerdote nel 1821. Nel 1828 fondò la congregazione religiosa dei «
rosminiani »; morì a Stresa sul Lago Maggiore; Nel 1848 fu ambasciatore a Roma
di Carlo Al- berto presso Pio IX; suo compito era quello di cercare un accordo
col Pontefice per una confederazione di stati italiani, ma la missione fallì.
In quella stessa occasione, furono messe all'indice due opere in cui egli
propugnava il rinnovamento della Chiesa. Amareggiato, si ritirò a Stresa,
dedicandosi esclusivamente alla filosofia. Rosmini tentando di porre un freno
all'estensione del sensismo e dell’empirismo, riconosce come elemento a priori
oggettivo della co- noscenza l'idea dell'essere, che non è l’idea dell'Essere
reale (Dio) ma dell'essere ideale, astratto, indeterminato che deriva
dall’Essere reale. L'essere ideale è forma di ogni conoscenza, ma in se stesso
non rappresenta nessun oggetto determinato. Deve incontrare e unire qualche
dato della sensibilità. La conoscenza si sviluppa in diversi gradi: intuizione,
affermazione, astrazione. Opere principali: Nuovo saggio sull'origine delle
idee (1830); Principii della scienza morale (1831); Antropologia in servigio
della scienza morale (1838); Trattato della coscienza morale (1839); Filo-
sofia della politica (1839); Filosofia del diritto (1845); Teodicea (1845).
Opere postume: Saggio storico-critico sulle categorie e la dialettica;
Antropologia soprannaturale; Teosofia. Rousseau Jean-Jacques (1712-1778)
Filosofo svizzero di lingua francese, nacque a Ginevra. Orfano di madre, a soli
sedici anni iniziò una vita di vagabondaggi. A Parigi frequentò gli ambienti
dell'Enciclopedia. Si attirò molti nemici. Fuggì in Svizzera e in Inghilterra.
Rientrato in Francia, passò gli ultimi anni nella solitudine e nella povertà,
continuando a scrivere fino alla morte. Massimo esponente dell'illuminismo
francese, Rous- seau scrisse moltissimo occupandosi degli argomenti più
disparati: dalla storia alla musica, dalla pedagogia alla politica, dalla
metafisica alla religione. Nel Contratto sociale espone la sua concezione
politica in cui, pur assegnando allo Stato un'origine convenzionale, non gli si
ascri- ve mai poteri assoluti e definitivi, ma ogni decisione dello Stato
sotto- stà all'approvazione dei cittadini. Altre due sue opere espongono la
dottrina pedagogica. Questa si caratterizza per una completa fiducia nelle
capacità autoeducative del fanciullo: alla scuola della natura egli ritiene di
ottenere un'educazione assai migliore di quella che somministra normalmente la
società ai suoi membri. Opere principali: Discorso sulle scienze e le arti
(1750); Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli
uomini (1755); Lettera sulla provvidenza (1756); Lettera sugli spettacoli
(1758); Emilio o dell'educazione (1762); Contratto sociale (1762); Lettera a
330 Christophe de Beaumont (1763). Opere postume: Dialoghi: Rousseau giudice di
Jean-Jacques; Meditazioni di un viandante solitario. Russell Bertrand
(1872-1970) ‘Nacque (e vi morì anche) nel Galles da famiglia nobile. A 23 anni
entrò nel « Trinity College » di Cambridge, dove fece gli studi di ma- tematica
e filosofia. Scienziato e filosofo tra i più celebri del no- stro secolo.
Scrisse moltissimo. Russell fu uno spirito profondamente inquieto, mai
soddisfatto delle soluzioni acquisite, in continua evoluzione di pensiero. Egli
aderì successivamente all’idealismo, al realismo, al neopositivismo, alla
analisi linguistica, al fenomenismo. Tuttavia, nonostante la perenne
instabilità e icambiamenti, talora radicali, di vedute, di teo- rie, di
sistemi, c'è una prospettiva di fondo cui egli ha mantenuto sempre fede durante
la sua quasi centenaria esistenza: è la prospet- tiva empirista propria della
filosofia inglese, la quale è caratterizzata da un forte attaccamento alla
esperienza ed uno spiccato interesse per le questioni di ordine epistemologico
e morale, anziché metafisico e teologico. In logica sono importanti le
considerazioni svolte da Russell intorno alla definizione degli individui,
delle classi, dei tipi e delle « descrizioni ». In gnoseologia finì per
professare un empiri- smo radicale, riducendo la conoscenza ad un fascio di
sensazioni, ch'egli preferisce chiamare « una classe di particolari »; il
filosofo ha proposto sia una concezione « dualistica » della verità
(corrisponden- za tra fatti e proposizioni) sia una concezione « umanistica ».
Nella filosofia del linguaggio ci sono vari punti in comune con i neopositi-
visti, dai quali si allontana circa il criterio di significazione, distin-
guendo il senso dal significato. Russell nega alla morale la carat- teristica
di vera scienza e circa la religione la sua posizione è agno- stica. Opere
principali: Saggio sui fondamenti della geometria (1897); Principi della
matematica (1903); Principia Mathematica (1910- 1913); Sulla conoscenza del
mondo esterno (1914); Elementi di etica (1910); Analisi della mente (1921);
Atomismo logico {1924); Perché non sono cristiano (1927); Libertà e
organizzazione (1932); Educa- zione e ordine sociale (1932); Storia della
filosofia occidentale (1945); Il mio sviluppo filosofico (1959); Autobiografia
(1967-1969). Saint-Simon Claude-Henry de (1760-1825) Di famiglia nobile nato a
Parigi, dove morì, è un filosofo e stori- co francese. Allievo del d’Alembert,
seguì dapprima la carriera mi- litare. Poi, dopo essersi proficuamente occupato
di affari, nel 1798 si dedicò totalmente alla filosofia, rovinandosi ben presto
finanzia- riamente fino a cadere nella più squallida miseria, pur non cessando
per questo gli studi. Rappresentante del positivismo, Saint-Simon fu tra i
primi a sottolineare l’importanza del fattore economico nella costituzione e
331 nella trasformazione delia società. A suo parere il problema eco- nomico
soverchia, per imporianza, tutti quanti gli altri, compresi quello palitico e
quello religioso. La crisi profonda che sta attraver- sando ia società moderna
è dovuta soprattutto a ragioni economiche, e non poeîirà essere superata se non
ponendo a capo della società i grandi industriali e gli womini di scienza. Nei
nuovo sistema d'orga- nizzazione della società ia direzione spirituale deve
passare dal clero agli scienziati, Ia cura degli interessi materiali dalla
nobiltà alla bor- ghesia, dalla corona alie banche. Queste teorie del
Saint-Simor: eser- sitarono un profondo influsso su alcuni grossi nomi della
filosofia dell'Ottocento, in particolare su Comte e su Marx. Opere principali:
/miroduzione «i lavori scientifici del XIX se- celo (1808); Ricrganizzazione
della società europea (1814); Nuovo cristianesimo (1825), che però fu
incompiuto. Santeyana George {1863-1952} Filosofo e scrittore statunitense
d'origine spagnola, nacque a Madrid. Fu professore alla università di Harvard
dove aveva fatto gli studi di filosofia, fino al 1912. Cessato l'insegnamento
si trasferì in inghilterra, quindi in Francia e infine in Italia dove morì a
Roma. Santayana professa un realismo di ispirazione platonica, basato su un dualismo
esasperato tra « essenze » ed « esistenze ». L'esistenza è la materia,
i'essenza è lo spirito. L'anima è la vita di un organismo in cui è incarnato lo
spirito e funge pertanto da mediatore tra la materia e le essenze. I due mondi
delle essenze e delie esistenze co- stituiscono un dualismo irriducibile; ia
vita è divisa, scissa tra questi due regni; e l’aitività umana non è che lo
sforzo assurdo, grottesco e tragico di conciliare l'essenza (l’idea) con
l’esistenza e l'esistenza con l'essenza (l’idea). Tutto quanto gli uomini fanno
e pensano (istituzioni sociali, riti religiosi, sistemi filosofici ecc.) nen è
che un immenso, vano tentativo di accordare la vita animale e la contemplazione
spirituale, quasi una condanna imposta all'uma- nità. Opere principali: La vita
della ragione (5 voll., 1905-1906); Soli- loqui in Inghilterra (1922);
Scetticismo e fede animale (1923); Dia- loghi nel Limbo (1925-26); I regni
dell'essere (4 voll., 1927-1940); Dominazioni e poteri (1951). Sartre Jean-Paul
(1905-1980) Nacque e morì a Parigi, dove, all’« École Normale Supérieure »,
studiò filosofia che insegnò poi per diversi anni nei licei di Le Havre e
Parigi. Iniziò la carriera letteraria come giornalista, romanziere, saggista,
drammaturgo e sceneggiatore cinematografico. Dopo il 1945 viaggiò moltissimo,
anche per motivi politici, data la sua mili- tanza nel Partito Comunista
francese, di cui poi assunse dall'esterno il ruolo di critico. Negli anni del
dopoguerra fu la personalità più popolare in Francia e più discussa in Europa.
332 Sartre, come Heidegger, concentra la sua analisi filosofica sul- l'essere
ai fine di coglierne il significato profondo e di svelarne la natura. Però per
Sartre l'essere, che egli chiama essere-in-sé per distinguerlo dalla coscienza
(essere-per-sé) è una massa inerte, gon- fia, qualcosa di ripugnante. Ma la
caratteristica sua particolare è l'assurdità: nell’assurdità sta la chiave
della esistenza di ogni cosa. L'uomo si distingue dagli altri esseri perché ha
la coscienza che è l'opposto dell'essere. Per vivere, la coscienza ha bisogno
di nulli- ficare l'essere, in quanto è per sua natura il non-essere, il vuoto,
il nulla. L'attività nullificatrice della coscienza ha come sbocco neces- sario
la « nausea ». Questa nasce dal fatto che la coscienza trova sempre davanti a
sé qualche cosa di troppo. Ma ciò che è il dato costitutivo essenziale
dell'uomo non è la coscienza ma la libertà, senza limiti e non vincolata da
nessuna legge morale. L'uomo desi- dera fondamentalmente di essere in sé,
poiché il per sé (o essere della coscienza) è un puro nulla. Questo ideale è
ciò che può essere chia- mato Dio, il quale perciò è una semplice
ipostatizzazione di questo ideale. Opere principali: La trascendenza dell’Ego
(1936-1937); L'imma- ginazione (1936); La nausea (1938); Abbozzo di una teoria
delle emo- zioni (1939); L'immaginario (1940); L'essere e il nulla (1943); Il
muro (1943); Le mosche (1943); A porte chiuse (1945); Materialismo e rivo-
luzione (1946); Questioni di metodo (1957); Critica della ragione dia- lettica
(1960); Le parole (1964); Kierkegaard vivo (1966); Conversa- zione
sull'antropologia (1966); L'idiota di famiglia (1971-1972); Ri- bellarsi è
giusto (1974). Scheler Max (1874-1928) Filosofo tedesco, nato a Monaco e morto
a Francoforte. Già di- scepolo di Dilthey, Eucken e Simmel ed influenzato da
Nietzsche, subì in seguito fortemente l’influsso di Husserl, dal quale apprese
il metodo fenomenologico, di cui fece ampio uso nel suo studio del- l'uomo,
della persona, dei suoi atti, della conoscenza (intenzionalità ed oggettività)
ed in particolare della esperienza morale. Importante il suo tentativo di
uscire dall’'etica formalistica di ispirazione kan- tiana, conferendole un
contenuto materiale desunto dai valori. La sua opera principale porta per titolo
// formalismo in etica e l'etica materiale dei valori (1916), « l'opera di gran
lunga più signifi- cativa apparsa da molto tempo » (Hildebrand). Mediante
l’elabora- zione di un'etica dei valori, in cui si rivendica a queste entità
una dimensione ontologica propria che sfugge a tutte le minacce dello
psicologismo, Scheler sottrae la morale oltre che al formalismo kantiano anche
a tutte quelle visioni soggettivistiche e positivistiche che erano diventate di
moda alla fine dell'Ottocento (nominalismo, psicologismo, positivismo,
pragmatismo ecc.). Scheler definisce i valori come « oggetti autenticamente
ogget- tivi, disposti in ordine eterno e gerarchico ». La sua assiologia si ca-
333 ratterizza pertanto come realistica, come gerarchica ed inoltre come personalistica
(in quanto tutti i valori dei gradi inferiori sono subor- dinati alla persona)
e teocentrica (in quanto al vertice di tutti i va- lori, come valore supremo,
viene posto Dio). Scheler si sottrae al rischio immanentistico presente nel
metodo fenomenologico distin- guendo la fenomenologia dei valori dalla
filosofia della religione. Senonché questa distinzione viene abbandonata negli
ultimi scritti, dove Scheler assume una visione immanentistica e pertanto pan-
teistica della realtà. Opere principali: Il formalismo in etica e l'etica
materiale dei valorî {1916); Essenza e forme della simpatia (1923); Le forme
del sapere nella società (1926); La posizione dell'uomo nel cosmo (1927); La
visione filosofica nel cosmo (postuma). Schelling Friedrich Wilhelm (1775-1854)
Nacque a Leonberg, nel Wiirttemberg, studiò a Tubinga dove ebbe come
condiscepolo Hegel. Nel 1799 fu chiamato a sostituire Fichte a Jena, poi passò
ad insegnare a Wiirzburg, a Monaco e a Berlino. Schelling ha una concezione
dell’assoluto come sintesi degli op- posti: dell'io e della natura, del
soggetto e dell'oggetto, dello spi- rito e del mondo. L'assoluto origina la
natura, forma oggettiva, per acquistare per mezzo di essa maggiore coscienza
della propria sog- gettività. Quindi la natura è preistoria della coscienza,
pensiero pie- trificato. L'uomo è l'essere in cui l'assoluto acquista coscienza
di sé diventando spirito. La comprensione dell'universo in cui natura e spirito
non sono più contrapposti ma armonizzati si attua nell'attività estetica.
L'opera d’arte è manifestazione dell'infinito sotto forma finita. Opere
principali: Sui miti, le leggende storiche e i filosofemi del mondo antico
(1793); Lettere filosofiche sul dogmatismo e sul cri- ticismo (1795-1796);
Nuova deduzione del diritto naturale (1796- 1797); Sistema dell'idealismo
trascendentale (1800); Esposizione del mio sistema di filosofia (1801);
Filosofia e ragione (1804); Ricerche’ filosofiche sull'essenza della libertà
umana (1809). Opere postume: Filosofia dell'arte; Le età del mondo. Schlegel
Friedrich (von) (1772-1829) Critico e filosofo tedesco, nacque ad Hannover e
studiò giurispru- denza dedicandosi allo studio «della letteratura greca.
Insegnò priva- tamente a Parigi e poi a Colonia. Fu a Vienna, dove si impegnò
in un movimento tardo romantico fiancheggiato dalla rivista Concordia. Morì a
Dresda. Dopo una fase in cui Schlegel si distinse per i suoi contributi di
natura storico-filologica, egli cominciò a orientarsi verso gli studi
filosofico-estetici. I suoi primi contributi in questo senso, appaiono, a
partire dal 1797, nella rivista Atheneum, organo del Circolo di Jena, 334
raccolti più tardi col titolo Lezioni filosofiche del 1804-06. Dopo la
conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1808, Schlegel orientò il suo
pensiero verso un nuovo spiritualismo fondato sull'esperienza cristiana. Opere
principali: Sul valore dello studio dei greci e dei romani (1797).
Schleiermacher Friedrich Daniel Ernst (1768-1834) Filosofo e teologo tedesco.
Nacque a Breslavia e morì a Berlino. Studiò teologia all'università di Halle,
che era il centro dell’illumi- nismo tedesco. Come Kant, ricevette una
formazione religiosa di stampo pietistico. Amico di Schlegel, si aprì per il
suo tramite al romanticismo. Durante l'occupazione napoleonica con Fichte fu
uno dei più ardenti difensori del nazionalismo tedesco. Dopo la ca- duta di
Napoleone riprese l'insegnamento alla università di Berlino dove fu anche
preside della facoltà di teologia per oltre un ventennio. Schleiermacher è più
teologo che filosofo; i suoi argomenti pre- feriti sono la ‘Scrittura, la fede,
il cristianesimo, la religione, ai quali si accosta da una prospettiva che
fonde insieme istanze ra- zionalistiche, romantiche e idealistiche. Il suo
apporto maggiore riguarda la natura della teologia e il metodo teologico e il
suo inse- gnamento in questo campo avrà un influsso rimarchevole dando origine
a quel movimento che porta il nome di protestantesimo li- berale. Notevole
anche il suo insegnamento relativo all'essenza della religione. Due sono i
principi su cui egli fonda il suo concetto della religione: 1) la religione è
una determinazione del sentimento; 2) l'essenza della religiosità sta nel fatto
di essere coscienti della propria dipendenza da Dio. Il sentimento, come lo
concepisce Schle- iermacher è qualcosa di più della comune accezione dello
stesso. È una facoltà che si colloca tra la ragione e la volontà. Per lui il
cristianesimo è superiore alle altre religioni « non per il valore ra- zionale
dei suoi contenuti dottrinali, ma per il maggiore grado di ade- guatezza con
cui questi contenuti attestano e suggeriscono il senti- mento fondamentale
della nostra dipendenza da Dio ». Opere principali:. Discorsi sulla religione
(1798); Monologhi (1800); La fede cristiana (1821-1822). La maggior parte dei
suoi corsi accademici vennero pubblicati postumi nell'edizione delle Opere
complete (1834-1864). Schopenhauer Arthur (1788-1860) Nacque a Danzica da
famiglia agiata. Costretto dal padre a se- guire la carriera commerciale,
l’abbandonò nel 1805 alla morte del padre e studiò a Gottinga e poi a Jena,
dove, nel 1813, si laureò in filosofia. Ottenne la libera docenza
all'università di Berlino, ma le sue dottrine pessimistiche come risultavano
nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicata nel 1819,
non trova- 335 rono molta fortuna. Nel 1833 si stabilì a Francoforte ove
risied&tte fino alla morte. Schopenhauer, opponendosi alla tesi idealistica
della razionalità della storia, evidenzia gli elementi negativi della natura e
della storia. Movendo dalla distinzione kantiana fra fenomeno e noumeno, ma
rovesciandone i significati, identifica il mondo dei fenomeni (della
rappresentazione) col mondo della ragione e il mondo noumenico (reale, vero)
con quello della volontà, una volontà cieca e irrazio- nale, da cui traggono
origine tutte le cose e tutti gli avvenimenti. Gli individui non sono altro che
l’oggettivazione della volontà. Tutto nel mondo è volontà, desiderio di ciò che
non si possiede, perciò l’u- manità è in preda a un continuo dolore nato
dall’insoddisfazione dei suoi desideri. L'unico modo per liberarci da queste
dolorose volontà di vivere è quello consistente nella noluntas, nella rinuncia
alla pro- pria individualità. Essa avviene in tre momenti: arte, simpatia, a-
scesi. Opere principali: Sulla vista e i colori (1816); Il mondo come vo- lontà
e rappresentazione (1814-1818); Sulla volontà della natura (1836); Sulla
libertà del volere (1839); Sul fondamento della morale (1840); I due problemi
fondamentali dell'etica (1841); Quadruplice radice (1847); Parerga e
paralipomena (1851). Scoto Duns (1265-1308) Nacque a Maxton in Scozia. Entrò
giovanissimo nell'ordine fran- cescano. Fece gli studi ad Oxford e a Parigi. A
Parigi ottenne il ti- tolo di magister theologiae. Nel 1298 tornò in Inghilterra
dove com- mentò le Sentenze di Pietro Lombardo. Poi ancora a Parigi. Finì la
sua vita nello studentato francescano di Colonia. Scoto si sforzò di operare
una sintesi fra la corrente francescana e quella aristotelica. Le dottrine più
originali della sua metafisica so- no l'univocità dell'essere, l’ecceità e la
distinzione formale tra essenza ed esistenza. L'oggetto della metafisica è
l'essere in quanto perfe- zione massimamente indeterminata. L'« ecceità » (0 «
questità ») è una forma particolare che conferisce l’individuazione. Tra
essenza ed e- sistenza non vi è distinzione reale, ma « formale ». L'esistenza
di Dio deve essere dimostrata: la prova più convincente è quella della
causalità. Sia in Dio sia nell'uomo la volontà ha priorità rispetto al-
l'intelletto. L'uomo è essenzialmente composto di anima e di corpo. Intelletto
e volontà sono formalmente distinte dall'anima, pur costi- tuendo con essa una
sola realtà. Distanziandosi da s. Tommaso, Scoto afferma la priorità della
volontà sull’intelletto. Opere principali: Commentari ad Aristotele; Opus
oxoniense; Re- portata parisiensia; De primo rerum principio. Seneca Lucio
Anneo (4 a.C.-65) Nacque a Cordova, ma si trasferì a Roma sin da fanciullo. Qui
ebbe come maestri di filosofia gli stoici Attalo e Sozione. Assimilò 336 in
modo personale le loro dottrine e divenne il massimo rappresen- tante dello
stoicismo nel mondo latino. Diventò massimo consigliere di Nerone. Ma, caduto
in disgrazia di questi, si ritirò dalla vita pub- blica. Accusato di aver
partecipato ad una congiura contro Nerone, fu da questi indotto al suicidio.
Secondo Seneca l'universo è composto di due principi: uno passi- vo, la
materia, e uno attivo, Dio. Questi è l’anima dell'universo, ra- gione (logos)
diffusa in tutte le cose, fonte immanente di vita, legge suprema che connette
in un'unica catena di cause tutti gli eventi e condiziona l'unità organica del
cosmo. Seneca è il filosofo pagano che maggiormente ha compreso il valore della
libertà come diritto costitutivo fondamentale di ogni uomo. La lotta di Seneea
eontro la schiavitù è incondizionata. L'uguaglianza è un diritto naturale. Fine
ultimo della vita umana è l'autonomia della persona di fronte ad uo- mini ed
eventi: è la libertà dello spirito da tutto ciò che può pro- fanare la divina
serenità dell'animo. Opere principali: 9 Tragedie; De clementia; De beneficiis;
Dia- logorum libri; 124 Lettere a Lucilio; Naturalium quaestionum libri VII.
Socrate (469-399 a.C.Nacque e visse ad Atene nell'epoca del suo maggior
splendore arti- stico e della maggiore potenza militare ed economica. Condusse
una vita molto semplice e frugale. Nel 400 a.C. venne accusato di empietà e
corruzione della gioventù. Non volle salvarsi andando in esilio pri- ma del
processo. Condannato a morte, morì bevendo la cicuta. Eser- citò una grande
influenza sulla filosofia greca. La missione a cui si sentì chiamato
dall’oracolo di Delfi fu di in- citare gli uomini a preoccuparsi degli
interessi della loro anima con l'acquisto della saggezza e della virtù. Contro
i Sofisti si preoccupò di definire i concetti universali di bene, giustizia,
felicità e virtù, iden- tificando la conoscenza con la moralità e la felicità
con la pratica del- la virtù. Infatti per lui è essenziale la distinzione di
male e di bene. Il metodo ‘da lui usato nelle conversazioni con i discepoli fu
quel- lo dell'ironia che spinge l'interlocutore a porsi nuovi problemi
(maieutica). Non ha lasciato alcuno scritto. Spencer Herbert (1820-1903) Nato a
Derby, Inghilterra, compì studi scientifici e avanzò la tesi dell’evoluzionismo
scientifico dalla iettura delle opere di Lyell. Successivamente, trasferendo
l'evoluzione dal campo scientifico a quello filosofico, ne ha fatto una vera e
propria visione del mondo sia cosmico che biologico, sia umano che sociale.
Valendosi dell’evo- luzione anche per spiegare l'ordine dell'universo, Spencer
ascrive a tale ordine un'origine meccanica e non intenzionale {o finalistica).
Non per questo egli ritiene di dover negare l’esistenza di Dio, che 337 anzi
egli ammette, perché sfugge alla ragione. Questa realtà assoluta è
l’Inconoscibile, l'essere assoluto che l'uomo chiama Dio. Opere principali:
Statica sociale (1850); Principi di psicologia (1855); Primi principi (1862);
Principi di psicologia (1870-1872); Principi di etica (1879-1892); Individuo e
Stato (1884); Autobiografia (1904, postuma). Spinoza Baruc (1632-1677) Nacque
ad Amsterdam da una famiglia di ebrei profughi dal Por- togallo. Il padre lo
avviò allo studio delle sacre Scritture e delle dottrine rabbiniche, ma Spinoza
coltivò anche lo studio della filo- sofia e della teologia protestante.
Asserendo che l’interpretazione tradizionale della sacra ‘Scrittura era errata,
nel 1656 fu scomuni- cato dalla comunità israelita ed espulso per eresia.
Abbandonò Am- sterdam e si trasferì a Leida dove visse nella riservatezza e
nella povertà. Spinoza, quasi ignorato per oltre un secolo dopo la sua morte,
avvenuta a l’Aia, fu messo poi in luce dai filosofi tedeschi come Lessing,
Herder e gli idealisti che divennero suoi ferventi ammira- tori e gli
assicurarono un posto tra i più grandi pensatori dell'uma- nità. Come Cartesio
egli incentra tutta la sua riflessione filosofica su due realtà: Dio e l’uomo.
Il suo obiettivo non è la conquista della verità ma il raggiungimento della felicità.
Spinoza risolve il dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa
considerandole come i due attributi conoscibili dell'unica so- stanza
esistente, Dio, costituita da infiniti attributi. Il mondo è iden- tico a Dio
(Natura sive Deus): Dio è natura naturans, cioè infinita attività produttrice e
il mondo è natura naturata, infinito prodotto. L'etica di Spinoza si risolve
nell’amor intellectualis Dei, cioè nella conoscenza della sostanza divina che
si ha quando è raggiunto il trionfo della ragione e il dominio delle passioni.
In politica Spinoza è uno dei primi assertori della teoria dell’origine
contrattuale dello Stato. Opere principali: Breve trattato su Dio, l'uomo e la
sua feli- cità (1660); Ethica more geometrico demonstrata; Tractatus de intel-
lectus emendatione; Principia philosophiae cartesianae (1663); Trac- tatus
theologico-politicus (1670). Spirito Ugo (1896-1979) L'itinerario filosofico di
U. Spirito, filosofo italiano nato ad Arez- zo e morto a Roma, iniziò con
un'adesione piena ed entusiastica al- l’attualismo di Gentile, che lo Spirito
difese contro le obiezioni che da varie parti sorgevano contro di esso. Ma poi
proseguì su una linea autonoma, dando all’attualismo una piega marcatamente
anti- intellettualistica oltre che fortemente immanentistica ed atea, cui viene
dato il nome di problematicismo. Come spiega lo stesso Spi- rito, il
problematicismo è « una concezione della vita come ricerca, 338 che non ha
scetticamente rinunciato alla verità e che anzi sa bene quanto dogmatica e contraddittoria
sia tale rinuncia, ma che non si illude d'averla già in suo possesso ». « Esso
non si presenta come una filosofia bensì soltanto come un'aspirazione alla
filosofia: non pretende di avere valore assoluto [...] ma non si definisce nep-
pure come relativismo, perché non comprende come si possa rinun- ciare alla
speranza dell’assoluto ». Al termine del suo movimentato itinerario filosofico
Spirito si attestò su una posizione sostanzialmente neo-positivistica, assumen-
do la scienza come principio chiave per la comprensione del mondo e come
criterio supremo per decidere di qualsiasi problema, inclusi i problemi di
ordine etico ed assiologico. In tale prospettiva marcata- mente scientista,
Spirito affida alla scienza — e non più alla meta- fisica e alla religione — il
compito di fungere da strumento connet- tivo della società e di fissare una
nuova tavola di valori. Opere principali: Il pragmatismo nella filosofia
contemporanea (1921); Scienza e filosofia (1933); La vita come ricerca (1937);
Il pro- blematicismo (1948); Dall’attualismo al problematicismo (1976). Stalin
(1879-1953) Pseudonimo di Josif Visarionovic Dzugasvili, nato in Georgia, uomo
politico russo, fondatore, con Lenin e Trotzsky, del Politburo del Partito
Bolscevico russo e collaboratore di Lenin nella fase di ricostruzione della
Russia; stroncò le opposizioni interne con dure repressioni, facendo
assassinare persino Trotzsky quando già si tro- vava in esilio in Messico
(1940). Lo stalinismo è il frutto più specifico del dogmatismo ideologico di
Lenin. Nei suoi brevi scritti, Stalin segue la linea del suo maestro Lenin,
sforzandosi di dimostrare che questi era il più diretto e orto- dosso seguace
di Marx e che la dottrina derivante messa a punto da Lenin, il
marxismo-leninismo, era la più completa teorizzazione fi- losofica per lo
sviluppo dell'umanità. Il XX Congresso del Partito comunista russo del 1956,
quando era salito al potere Kruscev, rinnegò e condannò l’opera di Stalin,
avviando il cosiddetto processo di « destalinizzazione ». Opere principali:
Sul! materialismo dialettico e sul materialismo storico, Principi del leninismo
{1924); Questioni del leninismo (1926). Stein Edith (1891-1942) Ebrea di razza
e di fede, nata a Breslavia in Germania, fu disce- pola e assistente di
Husserl. Convertitasi al cattolicesimo nel 1922, nel '32 entrò nel Carmelo di
Colonia, dove fu arrestata dai nazisti nel 1942. Morì nel lager di Auschwitz il
9 agosto dello stesso anno. Carattere centrale del suo pensiero è l'impegno di
rivedere tutto l'impianto della metafisica aristotelico-tomista in chiave
fenomeno- logica. Nella sua tesi di laurea Sul! problema dell'empatia sviluppa
uno studio pregevole e originale sul sentimento dell’empatia, con cui l'io «
percepisce condividendola » la realtà dell'altro. 339 ILa Stein intende
approfondire la riflessione avviata da Lipps e Husserl: pur avendo quaicosa in
comune sia con la percezione ester- na, sia con la memoria, sia con
l'immaginazione, l’empatia è un'espe- rienza sui generis: è l’esperienza che un
Io in generale ha di un altro Io. Con l’empatia, considerata come atto di
compartecipazione, si entra nel « regno dello spirito », che è il regno dei
valori. Opere principali: Su! problema dell'empatia (1917); La fenome- nologia
di Husserl e la filosofia di san Tommaso d'Aquino (1929); Essere finito ed
eterno (1950, postuma); La scienza della croce (1950, postuma). Suarez
Francisco (1548-1617) Nacque a Granada. Fu filosofo e teologo. Mentre studiava
nel- l'università di ‘Salamanca entrò nell'ordine dei gesuiti. Insegnò filosofia
a Segovia e teologia a Valladolid. Tra il 1580 e il 1585 insegnò a Roma al «
Collegio Romano ». Poi rientrò in Spagna e continuò a insegnare. Suarez è il
pensatore più profondo e originale della Controri- forma. Col suo tentativo di
conciliare il tomismo con le dottrine do- minanti dopo Occam e con le nuove
teorie che lo sviluppo della scienza moderna andava evolvendo, egli inaugura un
nuovo tipo di filosofia scolastica, il cui obiettivo principale è di operare
una sin- tesi tra le posizioni di san Tommaso e il pensiero moderno. La sua
opera principale, Disputationes metaphysicae, è la prima trattazione
sistematica completa delle questioni discusse dalla filosofia scola- stica, in
forma indipendente sia dalla teologia che dalle opere di Aristotele. In tal
modo Suarez costituì la metafisica nella sua spe- cificità e totalità. In una
prima parte tratta dell'essere in generale e delle sue cause, nella seconda dei
vari enti esistenti: Dio, l’uomo e il mondo. Opere principali: De Verbo
incarnato (1590); Disputationes me- taphysicae (1597); Varia opuscola
theologica (1599); De vera intel- ligentia (1605); De legibus ac Deo
legislatore (1612). Talete (624-562 a.C.) Matematico, astronomo e filosofo di
Mileto. Fondatore della Scuo- la ionica. Descritto nell'antichità come una
personalità poliedrica. A lui sono attribuiti numerosi teoremi di geometria e
la scoperta del- la formula per misurare l'altezza delle piramidi attraverso la
misu- razione dell’ombra da queste proiettata. Pone l’acqua come prin- cipio da
cui traggono origine tutte le cose, per condensazione o ra- refazione. Telesio
Bernardino (1509-1588) Originario di Cosenza, studiò fisica, medicina e
filosofia a Padova dal 1527 al 1535. Si ritirò poi, per circa dieci anni, in un
convento benedettino. 340 È il primo importante esponente di una nuova
filosofia della na- tura che scorge in essa solo forze naturali che si devono
spiegare con i suoi principi. L'indagine sulla natura deve procedere non dalla
ragione ma dal senso. Ed è quest’ultimo a rivelare che nella natura non
agiscono principi astratti come le forme o le cause finali, ma le forze, che
sono cause meccaniche, principi agenti. I due principi agenti sono il caldo e
il freddo. Dal loro contrasto deriva la realtà dei fenomeni fisici. Con questi
due principi Telesio spiega anche la conoscenza umana, ridotta a sensazione.
Telesio riconosce, comunque, la presenza nell'uomo anche di un'anima
soprannaturale, divina e infusa da !Dio, la cui presenza non è testimoniata
solo dalla rivelazione, ma anche dal bisogno innato che l’uomo ha di iDio e di
una giustizia, ultraterrena. Conse- guentemente quest'anima è immortale. Opere
principali: De rerum natura juxta propria principia (1586); Varii de rebus
naturalibus libelli (1590, postumi). Tommaso d'Aquino (1225-1274) Nato a
Roccasecca, presso Aquino (Frosinone), ricevette la pri- ma educazione dai
benedettini di Montecassino. Studiò a Napoli ed entrò nell'ordine dei
domenicani. Imprigionato dai fratelli perché contrari alla sua scelta
religiosa, quando uscì di prigione lasciò l’Ita- lia e andò in un convento
domenicano di Parigi, sotto la guida di Alberto Magno. Insegnò teologia alla
Sorbona e fu teologo papale presso la corte pontificia. Passò gli ultimi anni
nel convento di Na- poli componendo la Summa theologiae e predicando al popolo.
Nel gennaio 1274, papa Gregorio X lo invitò al Concilio di Lione. Durante il
viaggio si ammalò e fu trasportato nell'abbazia cistercense di Fossanova (in
provincia di Latina) e qui morì il 7 marzo dello stesso anno. Tommaso d'Aquino,
una delle maggiori figure della filosofia occi- dentale, portò a compimento
quella straordinaria sintesi tra la gran- de eredità classica e la metanoia
cristiana, che pone l’uomo al centro della creazione. Nella sua filosofia la
conciliazione tra cristianesimo e aristo- telismo avviene in seno ad una
altissima concezione dell'Essere se- condo cui l’Essere è la perfezione
assoluta; l'origine degli enti è dovuta alla creazione; la creazione è una
partecipazione per somi- glianza della perfezione dell'essere da parte degli
enti; tra i singoli enti e l’Essere c'è solo analogia. In tale prospettiva,
fede e ragione sono modi di conoscere diver- si, che non si contraddicono ma si
completano reciprocamente: 1) la ragione accetta una verità nell'ordine delle
cose naturali in base alla loro evidenza; 2) la fede accetta una verità
nell'ordine del sopranna- turale sulla base dell'autorità di Dio rivelante. 341
Filosofia e teologia sono di conseguenza due scienze diverse, che non si
contraddicono poiché Dio è il loro autore comune. (Circa la concezione
antropologica, Tommaso considera l’uomo come un composto {sinolo) di anima e
corpo, in cui l’anima è l'unica forma del corpo. La conoscenza umana è
autosufficiente per cui non abbisogna di interventi straordinari per avere luogo.
L'anima è im- mortale, di immortalità personale perché essa è « forma assoluta,
che non dipende dalla materia ». Pur riconoscendo all'anima un più elevato
grado di perfezione ri- spetto al corpo nella gerarchia degli esseri, egli crea
una antropologia integrale, nella quale al corpo viene restituita tutta la sua
dignità nell'ordine della creazione. Tommaso considera la conoscenza dell'uomo
autonoma da un intervento diretto di Dio e risultato di un processo che
l'intelletto compie a partire dall'esperienza. Definisce inoltre la coscienza
quale « ritorno completo del soggetto in se medesimo »: la coscienza, in virtù
dell'intenzionalità, pone se stessa in relazione con le cose e, confrontandosi
con esse, conquista la propria identità. iLa consapevolezza di Tommaso della
dignità dell’uomo è tale che sia l’esistenza di Dio (cinque prove) che
l'immortalità dell'anima ven- gano dimostrate dalla ragione. In Tommaso trova
spazio anche il problema politico, in relazione al quale egli asserisce
l'origine naturale dello Stato, che considera una società perfetta poiché ha un
fine proprio, il bene comune, e mez- zi sufficienti per realizzarlo. Nel
conflitto tra i due poteri, tipico del suo contesto storico, egli fu assertore
della dipendenza indiretta dello Stato dalla Chiesa, che è una società più
perfetta in ordine ai fini e ai mezzi che le sono propri: lo Stato dipendente
indirettamente dalla Chiesa nell'ordine dei fini soprannaturali dell’uomo. È
opportuno sottolineare come oggi molti noti studiosi, ca- me ad esempio
Jaspers, hanno riconosciuto che le analisi sulla volontà, la libertà e le
passioni umane fatte da Tommaso sono pro- fonde e precise, valide anche per la
filosofia contemporanea. Opere principali: De ente et essentia; Commentari alle
principali opere di Aristotele; Summa contra gentiles (1269-1273); Summa theo-
logiae (iniziata nel 1269 e rimasta incompiuta); De unitate intellectus contra
averroistas (1270); De veritate; De potentia; De malo; De spiritualibus
creaturis; Expositio super Job; De regimine princi pum; Compendium theologiae;
De substantiis separatis. Vico Gianbattista (1668-1744) Nato a Napoli, studiò
filosofia presso i gesuiti, sotto la guida di padre Rissi. Dal 1699 fu
professore di retorica all'università della stessa città. Visse poveramente fra
incomprensioni e ostilità. Nel 1732 gli fu conferito l’incarico di storiografo
regio. L’intuizione fondamentale di Vico dal punto di vista filosofico è 342
espressa nella formula « verum est factum », cioè per conoscere ve- ramente una
cosa è necessario essere in grado di farla. In base a questo criterio l’uomo
non può conoscere la natura perché creata da Dio, non può conoscere il proprio
essere in quanto non si è auto- creato. Oggetto della conoscenza umana è la
storia in quanto opera dell’uomo. La legge universale che regola la storia è
una legge di sviluppo attraverso la ritmica ripetizione delle tre epoche del
corso storico (età degli dei, degli eroi, degli uomini). Questa legge della
ripetizione dei corsi non sopprime la libertà umana, non è un ostacolo al
proces- so della civiltà, è necessaria e voluta da Dio per riportare l’uomo
cor- rotto dalla ragione alla religione. Oltre alla dimensione storica, Vico
riabilita, in sede filosofica, quella estetica. Per lui l’arte ha una funzione
metafisica, in quanto è l'espressione profonda delle cose da parte di un essere
intelligen- te, in cui la ragione non ha ancora raggiunto la piena maturazione
e che perciò riesce a esprimersi per mezzo del sentimento e della fantasia. .
Opere principali: De nostri temporis studiorum ratione (1708); De antiquissima
Italorum sapientia; Liber physicus; Liber moralis; Il diritto universale; De
universi iuris uno principio et fine uno; De constantia iurisprudentis;
Principi d'una scienza nuova dintorno alla natura delle nazioni (Scienza nuova
prima, 1725; Scienza nuova seconda, 1730; Scienza nuova terza, 1744). Voltaire
(soprannome di Frangois Marie Arouet) (1694-1778) Nato a Parigi, studiò presso
i gesuiti della stessa città. Fre- quentò l’ambiente libertino di Parigi e si prese
un anno di prigione per il suo spirito dissacratorio e anticonformista. Tra il
1726 e il 1729 fu in Inghilterra. Tornò in Francia per un decennio circa, riti-
rato in un castello della Lorena, poi andò a Berlino alla corte di Fe- derico
II. Trascorse gli ultimi venti anni a Ferney, in Francia, impe- gnato a far
conoscere le sue idee sulla tolleranza religiosa e sulla libertà. Massimo
esponente dell'illuminismo francese, tentò di operare una sintesi tra il
razionalismo di Cartesio e l'’empirismo di Newton. Dalla contingenza del mondo
egli argomenta a favore dell’esistenza di Dio, ma resta profondamente agnostico
per quanto concerne la sua natura e i suoi attributi. Anche riguardo
all’immortalità dell'ani- ma sostiene che bisogna credervi anche se non esistono
argomenti probativi per dimostrarla. In conformità con le esigenze dell’illumi-
nismo Voltaire è massimamente critico di ogni religione istituziona- lizzata,
in particolare del cristianesimo. Egli attacca con critica spietata, ingiusta e
beffarda tutte le dottrine e le strutture della Chiesa cattolica. Opere
principali: Edipo (1718); Lettere filosofiche (1729-1732), Trattato di
metafisica (1734); Elementi della filosofia di Newton 343 (1737); Il secolo di
Luigi XIV (1753); Dizionario filosofico (1753); Candido (1759); Trattato sulla
tolleranza (1763); Questioni sui mira- coli (1765); Filosofia della storia
(1765); Filosofo ignorante (1766); Bisogna prendere partito (1772); Questioni
sull’Enciclopedia (1776). Whitehead Alfred North (1861-1947) Matematico e
filosofo inglese, nato nel Kent, a Ramsgate e mor- to negli U.S.A. a Cambridge,
nel Massachusetts. Giunse tardi alla filosofia, dopo avere insegnato per molti
anni geometria e mate- matica all'università di Londra. Dal 1924 al 1937 occupò
la cattedra di teoretica all'università di Harvard. In collaborazione con
Russell scrisse i famosi Principia mathematica, opera volta a dimostrare che le
matematiche pure (compresa la geometria pura) sono un ramo del- la logica e le
loro proposizioni sono analitiche e non sintetiche a prio- ri come aveva
sostenuto Kant. Sulie orme di Peano e Frege, White- head pone come proposizioni
iniziali pochi principi logici, rappresen- tati da simboli formali, da cui, con
un calcolo logico, si deducono al- tre proposizioni. Con questo metodo vengono
man mano introdotti e dimostrati principi e teoremi. Il processo è puramente
analitico e a priori, indipendentemente dalle cose e dallo spirito. Non per
questo Whitehead sposa una visione idealistica della realtà: il mondo non
emerge dal soggetto come per gli idealisti, ma piuttosto il soggetto dal mondo.
Ma questo non significa che il soggetto procede dalla ma- teria come insegnano
i materialisti. La realtà è concepita come un processo, costituito da eventi in
connessione reciproca. Oltre che dagli eventi il processo è costituito da forme
e struiture ricorrenti che Whitehead chiama « oggetti eterni ». Al più alto
grado gli og- getti eterni costituiscono i valori {il bene, il bello, il vero)
che si rea- lizzano occasionalmente nel processo. Di qui la singolare
concezione del divino proposta da Whitehead: Dio è insieme ia « natura origi-
naria », in quanto contiene in sé la totalità degli oggetti eterni, e la «
natura conseguente », come realizzazione progressiva, interna al processo, di tutti
i possibili valori dell’esistenza. Dio, principio del bere e degli altri valori
supremi, è in lotta con ii male. Egli soffre per iiberarsene insieme a quanti
vivono e soffrono ia vicenda della vita. Alia filosofia del processo di
Whitehead si è ispirato un impor- tante movimenio teologico statunitense,
chiamato « teologia del processo » {Process theology). Opere principali:
L'organizzazione del pensiero (1917); Ricerca sui principi della conoscenza
naturale (1919); ii concetto di natura (1920); La scienza e ii mondo moderno
(1525); Processo e realtà (1929); Avventure delle idee (1933); Modi di pensiero
(1938); Scienza. e filosofia (1947). Wittgenstein Ludwig (1889-1952) Logico e
filosofo del linguaggio, massimo esponente prima del neopositivismo e poi dell'analisi
linguistica. Nato a Vienna, compì gli 344 studi in Germania e in Inghilterra.
Qui svolse anche la sua attività accademica a partire dal 1939 operando con B.
Russell, a Cambridge, dove morì. Le due opere Tractatus logico-philosophicus e
Osserva- zioni filosofiche rappresentano due diverse concezioni della filosofia
del linguaggio, per cui si è soliti parlare di un Wittgenstein I e di un
Wittgenstein II. il primo (che è quello del Tractatus) concepisce il linguaggio
come rappresentazione delle cose, privilegia il linguaggio scientifico su tutti
gli altri e assume come criterio di significazione la verifica sperimentale. Il
secondo (che è quello delle Philosophical Investigations) considera il
linguaggio come un gioco le cui regole so- no fissate arbitrariamente.
Riconosce molti giochi linguistici validi, purché siano regolati da un preciso
e stabile gruppo di norme. Ri- tiene che la funzione di linguaggio-guida,
criterio di verifica per ogni altro linguaggio, non spetti al linguaggio
scientifico bensi al linguag- gio ordinario. Opere principali: Tractatus
logico-philosophicus (1918); Osser- vazioni filosofiche (1964); Quaderno blu
(appunti del 1933-34); Qua- derno marrone (1934-1935); Osservazioni sui
fondamenti della mate- matica (1956); Grammatica filosofica (1969); Della
certezza‘(1969). Wolff Christian (1679-1754) Nacque a Breslavia e nel 1706 fu
nominato professore nell'uni- versità della stessa città. Il re Federico,
convinto dai suoi avversari, gli tolse l'insegnamento per il suo razionalismo
religioso. Il succes- sore Federico II, però, lo riconiermò nell'insegnamento.
Discepolo di Leibniz, è l'autore di una sintesi poderosa tra il pensiero
filosofico tradizionale di stampo razionalistico e le scoperte scientifiche del
suo tempo. Egli divide tutta la filosofia in sette parti principali: /ogica,
antologia, cosmologia, psicologia empirica, psicologia razionale, teo- fogia
naturale, filosofia moraîe. Questa divisione verrà regolarmente seguita dalla
maggior parte dei filosofi dei secoli successivi. Riguardo aì contenuto la
filosofia di Wolff è sostanzialmente leibniziana. Come Leibniz, Wolff elabora
una spiegazione della realtà partendo da tre principi: ragion sufficiente,
armonia prestabilita, ottimismo. Offre, però, due importanti novità: abbandono
del concetto della monade, come sostanza semplice costituente lo spirito e la
materia; riduzione del principio di ragion sufficiente al principio di non
contraddizione. Opere principali: Philosophia rationalis sive Logica (1728);
Philo- sophia prima sive Ontologia (1729); Philosophia moralis sive Ethica
{1750-1753); Oeconomica (1750). Zenone (336-274 a.C.) Nato a Cizio, nell'isola
di Cipro, si trasferì ad Atene dove fre- quentò le scuole di diversi filosofi.
Tenne ie sue lezioni sotto il Portico Dipinto (Stoà Poikilé) di Atene. Da qui
prese il nome ia sua dottrina filosofica: lo « stoicismo ». La sua dottrina è
essenzialmente di ordine morale, ma comprende 345 anche importanti elementi di
metafisica e cosmologia. E i suoi inse- gnamenti morali, estremamente rigorosi
(soppressione delle passioni e degli istinti, eliminazione del piacere, pratica
della virtù) sono in perfetta armonia con la sua visione metafisica. Questa
pone al vertice di tutte le cose il Logos (la ragione), il quale irradia la sua
forza sulla materia a modo di semi (/ogoi spermatikoi); questi germi svi-
luppandosi danno origine agli individui. I semi irradiati dal Logos non sono
altro che frammenti del Logos stesso. Anche l'uomo, come tutti gli altri
esseri, è costituito da un frammento del Logos (l’anima) e da una parte di
materia (il corpo). L'uomo può essere immortale solo in quanto cerca di
identificarsi col Logos, cioè in quanto cerca di superare la sua individualità,
distaccandosi dalla materia. Opere principali: La repubblica; I segni; Il
discorso; La natura; La vita secondo natura; Le passioni, 346 Parte quarta:
GUIDA ALLA LETTURA DI ALCUNE OPERE DI FILOSOFIA" « Il Fedone », di Platone
« Il discorso sul metodo », di Cartesio « La missione del dotto », di Fichte «
Manifesto del partito comunista », di Marx- Engels « Introduzione alla
metafisica », di Heidegger Non c'è via migliore alla conoscenza del pensiero
dei filosofi della let- tura diretta delle loro opere. Ma è evidente che per
uno studente di liceo (e non soltanto per lui) questa è un'impresa impossibile,
dovendo egli, nel breve giro di tre anni, prendere contatto con tutta la folta
schiera di pen- satori che va dal primo sorgere della filosofia fino ai giorni
nostri. Cio- nondimeno, per ogni epoca della storia della filosofia, i programmi
gover- nativi prevedono che lo studente effettui una lettura accurata e critica
di almeno un'opera di un grande autore. La scelta dell'opera è general- mente
affidata al professore. Quando insegnavo storia della filosofia in liceo ai
miei studenti facevo leggere tre opere, le quali oltre che importanti e
significative in se stesse, e per il nome dei loro autori, sono anche
singolarmente adatte ad intro- durre lo studente alle tre grandi epoche della
storia della filosofia: an- tica, moderna e contemporanea. Tali opere sono: —
Il Fedone, di Platone — Il discorso sul metodo, di Cartesio — La missione del
dotto, di Fichte Per venire incontro alle richieste di diversi insegnanti e per
una mi- gliore completezza storica del pensiero filosofico contemporaneo,
abbia- mo aggiunto poi due opere, che riteniamo significative, dei secoli XIX e
XX: — Manifesto del partito comunista, di Marx-Engels — Introduzione alla
metafisica, di M. Heidegger. * Le traduzioni di cui si siamo serviti sono le
seguenti: PLATONE, Fedone, tr. di M. VALGIMIGLI, Laterza, Bari 1946. CARTESIO,
Il discorso sul metodo, tr. di G. BONTADINI, La Scuola, Brescia 1957. FICHTE,
La missione del dotto, tr. di C. MAZZANTINI, Società ‘Editrice Interna-
zionale, Torino 1957. MARx-ENGELS, Il manifesto del partito comunista, tr. di
E. CANTIMORI MEZZA- MONTI, Laterza, Bari 1974. HEIDEGGER, Introduzione alla
metafisica, tr. di G. Masi, Mursia, Milano 1979. 347 Le accuse a Socrate Difesa
di Socrate: educazione del giovani all'esercizio della virtù I. «IL FEDONE »
Platone (427-347 a.C.) 1. Ambientazione storica dell’opera Nel 399 a.C. Socrate
viene condannato a morte dai governanti di Atene sotto l'imputazione di empietà
e corruzione delia gioventù, due accuse che gli erano state mosse da varie
parti già da molto tempo. Ancora nel 423, nella commedia Le Nubi, Aristofane
aveva attaccato Socrate proprio in quanto, col suo spirito critico, incitava i
giovani a considerare con di- sprezzo la tradizione etico-politica della città,
e in quanto con i suoi inse- gnamenti si metteva fuori della stessa tradizione
religiosa seguita da tutti i cittadini. Alcuni anni più tardi ii poeta tragico
Meleto aveva dichiarato: «Commette reato Socrate, non ritenendo dèi quelli che
considera tali lo Stato e tentando inoltre di introdurre altri enti demoriaci
nuovi; com- mette ancora reato corrompendo i giovani ». In questo clima si
spiega la denuncia contro Socrate, che appariva a molti non soltanto
l'avversario più accanito della cultura allora impe- rante (quella sofista) ma
anche come l'esponente intellettuale più te- mibile per gli aristocratici che
governavano la città. Probabilmente l'o-biettivo dei suoi avversari era che
egli se ne andasse in esilio e in effetti gli proposero questa soluzione; ma
Socrate volle affrontare il pro- cesso, in cui respinse entrambe ie accuse: il
suo obiettivo non era quello di corrompere la gioventù, ma di sollecitarla alla
pratica della virtù e al ‘perseguimento dei più elevati valori morali; quanto
alla religione, egli non avversava affatto la tradizione, ma cercava di
‘adeguarla alle esi- genze di una maggiore razionalità. In tribunale, i più
dovettero avere ia chiara impressione che Socrate non intendeva affatto
modificare ii suo atteggiamento; ed i voti di coloro che si pronunciarono per
la sua asso- luzione furono inferiori a quelli necessari. Quando si trattò di
definire il tipo di pena che gli sarebbe stata inflitta, Socrate chiese
ironicamente che gli venisse decretata una pensione a vita, come benemerito
dello Stato. La cosa suonò come una provocazione e come un insulto alle isti-
tuzioni cittadine; anche parecchi di quelli che avevano votato a favore della
sua assoluzione gli furono infine contrari; ed egli fu condannato a bere la
cicuta. L'esecuzione della pena capitale, che di per sé doveva aver luogo im-
mediatamente, fu rimandata d'un paio di settimane, perché in quei giorni sì
stavano celebrando le Delie (le feste in commemorazione della impresa di Teseo)
e pertanto non si potevano eseguire pene capitali. In attesa dell'esecuzione
della sentenza Socrate fu rinchiuso in prigione. È ap- punto questo il luogo e
il momento in cui si svolge il dialogo tra Socrate e i suoi discepoli circa il
destino ultimo dell'uomo, 348 2. Ii dialogo, metodo dell’opera La metodologia
filosofica ai tempi di Platone è ancora in fase di gesta- zione e assestamento.
Î primi pensatori greci avevano dato espressione poetica alle loro meditazioni
filosofiche. Più tardi Aristotele introdurrà quelia che diventerà la forma
definitiva: quella sobria e rigorosa del trattato. Per esporre il suo pensiero
Platone si vale di una via di mezzo: meno libera ed alata di quelia poetica, ma
anche meno arida e sistema- tica di quella del trattato, ia via del diaiogo. Il
dialogo e il trattato perseguono lo stesso obiettivo ma cercano di raggiungerlo
in maniera diversa. Tutt'e due svolgono una tesi; ma mentre nel trattato il
discorso è sviluppato da una sola mente, la quale prima di accoglieria con
certezza definitiva, vaglia tutti i pro e contro della tesi, i! cialogo è tun
discorso tra due o più persone, le quali di fronte ad una tesi particolare,
assumono ciascuna una posizione perso- nale, Diversamente che nel trattato,
dove le obiezioni rimangono pure difficolrè. astratte da superare, nel dialogo
le tesi contrastanti si inca: nano in personaggi vivi: esse rappresentano il
loro modo di intendere le cose e di vivere ia vita. uesto è vero in rarticolare
del Fedone, del quale il Valgimigli scrive a ragion veduia che « quì non
abbiamo a che fare con un’opera filosofica pura e semplice, la quale possa
essere considerata esclusivamente nella sua astrattezza razionale, sia pure nel
vivo diaiettizzarsi del pensiero; qui abbiamo a che fare con un'opera ci
filosofia che si concreta s si avvia in una vera azione, che anche dai punto di
vista formale esterno si sviluppa in un vero dialogo, cioè in una scena che si
muove tra persone vere, non tra simboli, tra persone le quali, sì, ragionano,
ma anche sono agitaie e travagliate e conimosse e hanno un’ansia di ricerca che
non ie interessa solc intellettualmente, ma ie prende e conquide nella loro più
profonda umanità. Lo stesso Socrate avverte più volte, e scherzando se ne
giustifica, che questo ragionare lo tocca assai da vicino; e ci sono intorno a
lui il giovanetto Fedone e il vecchio Critone, e i due ospiti te- bani, e
Apollodoro che meno degli altri, guando Socrate beve il far- maco, riesce a
frenare il pianto; e tutti infine si velanc il capo e si traggo- no da parte, e
nella stanza ormai fatta oscura e silenziosa biancheggia ii iettuccio dov'è
disteso il maestro, il compagno e l’amico, con gli occhi e le labbra appena
chiusi per sempre dal pio atto di Critone ».i 3. Divisione e sintesi dell’opera
Ii dialogo si divide in due grandi parti (separate da un breve ma splendido
intermezzo), costruite in perfetta simmetria tra di loro. La prima comprende i
capiîci! 1-34; la seconda i capitoli 36-66. Entrambe le parti si articolano in
tre tempi: primo, annotazioni biografiche (nella prima parte Socrate è seduto
sui suo lettuccio, accanto a iui è Santippe, intorno gli amici, e Critone com
ia sua premura affettuosa e le sue rac- comandazioni un poco inopporiune; nella
seconda parte Socrate si trova nuovamente sul suo Jettuccio con intorno gli
amici piangenti); secondo, ! M, VALGIMIGLI, intrcduzione a PLATONE, Fedone,
Laterza, Bari 1946, pp. 1-2. 349 La metodologia platonica dei dialogo
Distinzione tra dialoge e trattato Il ‘“Fedone’”: un’opera di pensiero e
concretezza Struttura simmetrica del dialogo Un dialogo tra amici su Socrate
Gli ultimi istanti della vita di Socrate La sopravvivenza dell'anima dopo la
morte Filosofia e musica: aftinità tra mitologia e filosofia dimostrazione
dell'immortalità dell'anima (nella prima parte con le pro- ve della
reminiscenza e della affinità dell'anima con la sfera delle Idee: nella seconda
parte con la prova dei contrari e della partecipazione del- l'anima al mondo
delle Idee); terzo, miti (nella prima parte, il mito della metempsicosi; nella
seconda parte, il mito della condizione delle ani- me dopo la morte). Il
dialogo .tra Socrate e i suoi amici, in :particolare con Simmia e Cebete, due
pitagorici, è collocato in un contesto più vasto, che ha come interlocutori
Echecrate e Fedone. Questi, ritornando ad Atene dopo il volontario esilio che
si era imposto dopo la morte del maestro, passa da Fliunte patria di Echerate,
il quale coglie l'occasione per chiedere all'amico come Socrate avesse
trascorso i giorni del carcere. PRIMA PARTE (cc. 1-34) SEZIONE PRIMA (cc. 1-5)
1. Introduzione ‘Echecrate domanda informazioni a Fedone riguardo agli ultimi
mo- menti della vita di Socrate; più esattamente gli chiede due notizie: — Come
mai passò tanto tempo tra ‘la condanna e l'esecuzione della pena? — Chi era
presente alla morte di Socrate? ‘Alla prima domanda Fedone risponde che la
ragione del lungo inter- vallo fu la coincidenza della condanna a morte di
Socrate con la celebra- zione delle Delie, durante le quali non si poteva dare
esecuzione a nes- suna pena capitale. Alla seconda domanda risponde che erano
presenti alcuni ateniesi, tra cui Critone, due forestieri, Simmia e Cebete, che
pro- venivano da Tebe {cc. 1-2), e la moglie di Socrate, Santippe. Poi Fedone
passa a descrivere le prime vicende dell'ultimo giorno: l'allontanamento
sofferto ma deciso di Santippe da parte di Socrate dalla prigione, e lo
scioglimento di Socrate dalle catene. Quest'ultimo fatto offre a Socrate lo
spunto per introdurre il tema che gli sta a cuore, la sopravvivenza dell'anima
dopo la morte. Stropicciandosi la gamba indo- lenzita, Socrate pensa al
singolare caso di due esseri i quali, pur essendo tra loro contrari, piacere e
dolore, non possono stare separati; e chi fa per inseguire l'uno e lo prende,
ecco che gli viene subito dietro anche l’altro, quasi ‘che fossero legati
insieme a un unico capo: cosicché, dice, se Fisopo ci avesse posto mente, certo
ne avrebbe composta una del. le sue favole. Allora si introduce Cebete il quale
chiede a Socrate: a proposito, com'è che da quando sei qui, ti sei messo a
musicare favole di Esopo e un poema ad Apollo? Me l’ha domandato più volte
anche l’amico Eveno. E tu digli la verità, gli risponde Socrate: più volte
nella vita passata mi apparve un sogno, ora in questo, ora in quell’aspetto, e
sempre mi di- ceva la stessa cosa: — O Socrate, componi ed esercitati nella
musica. — Ed io credevo in verità che il sogno mi incitasse a quello che già
facevo, ossia a filosofare, ritenendo appunto che la filosofia fosse la più
alta350 musica. Ma venuto qui sono stato assalito dal dubbio che il sogno
volesse intendere musica proprio nel significato usuale e comune del termine; e
allora mi parve bene obbedire comunque al sogno; e così composi un inno ad
Apollo e ho messo in musica alcune favole di Esopo? Dì, dunque, all'amico
Eveno, conclude Socrate, che questa è la ragione della mia applicazione alla
musica e alla poesia; e digli inoltre che « se è savio, mi venga dietro al più
presto ». Queste mie parole, insiste Socrate, non devono sorprendere nessuno,
perché tutti i veri filosofi desiderano di morire, anche se non è loro
consentito procurarsi la morte con ila propria mano. A questo punto Cebete
obietta: « Come dici, o Socrate, che far vio- lenza a se stessi non è lecito, e
d'altra parte che chi è filosofo possa avere desiderio di andare dietro a chi
muore? » L'obiezione interessa molto Socrate, anche perché, a chi è sul punto
di intraprendere il viaggio per il mondo di là, niente si addiceè meglio che
meditare intorno a questo viaggio. SEZIONE SECONDA (cc. 6-13) 2. Immortalità
dell'anima è Tesi di Socrate: Al filosofo è lecito desiderare la morte Prima
formulazione della tesi — Socrate risponde all’obiezione di Cebete che per
certi uomini e in certe circostanze è meglio morire che vivere, però è loro
vietato procurarsi la morte da se stessi perché « noi uomini siamo come in una
specie di carcere, e quindi non possiamo libe- rarci da noi medesimi e tanto
meno svignarcela », infatti: « Dei sono coloro che hanno cura di noi uomini e
noi siamo una delle cose in pos- sesso degli Dei » (c. 6). Obiezione di Cebete
— Appunto perché siamo nelle mani degli Dei non è lecito al filosofo desiderare
di morire. Si tratta infatti di una cosa assurda che una persona saggia come il
filosofo desideri sottrarsi al ser- vizio di coloro che sono i migliori
dominatori, dato che gli è impossi- bile provvedere meglio a se stesso
divenendo libero (c. 7). Seconda formulazione della tesi — Socrate risponde a
Cebete dando una formulazione più completa della sua tesi. Afferma che è lecito
desi- derare di morire perché egli crede che dopo la morte si va presso altre
divinità savie e buone, insieme a uomini morti migliori dei vivi. « Data questa
speranza, io non ho ragione di rammaricarmi alla pari di chi eguale speranza
non abbia; e anzi io sono pieno di fede che per i morti ? Platone accenna ad
una teoria che gli è molto cara: quella delle affinità tra mitologia e
filosofia: « C'è un “fare miti” o poetare che non contraddice propriamente al
“fare logoi” 0 filosofare, e anzi sono ambedue, in vario senso, più compiuto o
più limitato, un “fare musica”; e codesto far miti o poetare può dar luogo esso
al filosofare, e anche concludere il filosofare, quando in questo far logoi il
logos sia giunto a un punto estremo oltre il quale non può più avere
svolgimento senza mutarsi in mito » (Ibidem, pp. 4-5). Questo spiega perché
Platone accompagri sistematicamente le sue argomentazioni filosofiche con
immagini mitiche. Nel Fedone alle dimostrazioni dell'immor- talità dell'anima,
fa seguire il mito della metempsicosi e il mito della con- dizione delle anime
dopo la inorte. 351 I veri filosofi desiderano la morte Non è lecito ad alcuno
procurarsi la morte La vita Immortale in La vita ascetica del filosofo puro
ragionamento si rivela la verità Astrazione e contemplazione La morte è
indispensabile al raggiungimento della sapienza, verità e virtù qualche cosa ci
sia, e come anche si dice da tempo, assai migliore per i b i che per i cattivi»
(c. 8). Dimostrazione della tesi (cc. 9-13) — Al filosofo è lecito deside- rare
la morte, anzi, durante tutta la vita non si cura di nient'altro se mon di
morire ed essere morto, perché la morte è la separazione dell'anima dal corpo,
e questa separazione è desiderabile per tanti motivi: Primo motivo. Durante la
vita non vale la pena interessarsi del corpo, e questo per quattro ragioni: 1)
I piaceri del corpo sono troppo caduchi. Perciò « il filosofo in tutte le cose
sopra dette (mangiare, bere, vestire...) cerca di liberare quanto più può
l’anima da ogni comunanza col corpo, a differenza degli altri uomini » {c. 9).
2) Il corpo impedisce l’acquisto della sapienza. Vista e udito, che sono i
sensi più perfetti, non ci fanno conoscere niente di preciso e di sicuro, e
invece di farci conoscere la verità ci tirano in inganno. È solo nel puro
ragionamento che si rivela all'anima la verità. « L'anima ragiona con la sua
migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensa- zioni. Né
vista, né udito, né dolore e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se
stessa, dicendo addio al corpo; e, nulia più partecipando del corpo, né avendo
contatto con esso intende con ogni suo sforzo la verità » (c. 10). 3) Le idee
di giustizia, bontà, ecc. non possono essere percepite dal corpo; esse possono
essere percepite solo da chi « con purità perfetta massimamente si adoperi di
avvicinarsi a ciascun oggetto col solo pensie- ro, senza né aiutarsi, nel suo
meditare, con la vista o con altro senso [...] anzi astraendo, per quanto può,
da occhi e da orecchi e insomma da tutto il corpo, come quello che perturba
l'anima e non le permette di acqui. stare verità e intelligenza, quando abbia
comunanza con esso » (c. 10). « Fino a quando abbiamo il corpo e la nostra
anima è mescolata e con- fusa con un male di tal natura, noi non saremo mai
capaci di conqui- stare compiutamente quello che desideriamo e che diciamo
essere la verità » (c. 11) o « sapienza » (cfr. c. 11 più avanti). 4) I) corpo
stesso è causa delle inquietudini che lo tormentano: « Infinite sono le
inquietudini che il corpo sì procura per le necessità del nutrimento [...]
Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altri ne è cagione se non il corpo e le
passioni del corpo? » (c. 11). Secondo motivo. La morte è desiderabile perché
completa quella separazione tra anima e corpo che è indispensabile per il
raggiungimen- to della sapienza; separazione che il filosofo ha cercato di
attuare du- rante tutta la sua vita con l’ascesi di purificazione. La
purificazione con- siste nell'adoperarsi « in ogni modo a tener separata
l’anima dal corpo e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima
fuori da ogni elemento corporeo » (c. 12). Se il filosofo non desiderasse la
morte com- metterebbe una grande contraddizione, perché il filosofo è per ogni
ri- spetto in discordia con il corpoe ha desiderio di essere solo con la
propria anima e solo con la morte questo diviene possibile (c. 11; cfr. la
bellis- sima finale). Terzo motivo. La morte è necessaria non solo per
raggiungere la verità (o sapienza), ma anche per raggiungere le altre virtù:
giustizia, fortezza e temperanza. Solo i filosofi considerano la morte un bene;
tutti gli altri la mettono nel numero dei grandi mali. Per cui, fatta eccezione
per 352 il filosofo, tutti gli altri sono coraggiosi perché sono vili e hanno
paura, sono temperanti per la loro intemperanza, per paura di restar privi di
certi piaceri... (c. 13). SEZIONE TERZA (cc. 14-34) 3. Argomenti a favore
dell'immortalità dell'anima Obiezione di Cebete — Tutto quello che Socrate ha
detto sulla desi- derabilità della morte è vero solo a patto che l’anima sia
immortale, ma molti uomini temono che, « quand’ella sia distaccata dal corpo,
non esista più in alcun luogo, e si guasti e perisca il giorno stesso in cui
l’uomo muore » (c. 14). :Perciò affinché sia possibile accettare quello che
Socrate ha detto sulla desiderabilità della morte e sulla vita futura è
necessario che Socrate provi prima che l’anima seguita ad esistere quando
l’uomo è morto, e poi che ella conserva potere e intelligenza (c. 14). Socrate
accetta la richiesta e adduce vari argomenti a favore dell'immortalità
dell'anima. 1) Il primo argomento è basato sulla dottrina dei contrari — I con-
trari (piacere-dolore, buono-cattivo, vita-morte, caldo-freddo, etc...) si
avvicendano in modo ciclico. Perciò i vivi si generano dai morti e i morti dai
vivi. Aspetto religioso dell'argomento. Dottrina della metempsicosi: « C'è una
antica dottrina che esistono colà anime giuntevi di qui e che di là nuovamente
tornano qui e che si rigenerano dai morti nuovi esseri » {c. 15). Aspetto
filosofico dell'argomento. Ogni essere che ha il suo contrario, non da altro si
genera se non da quello appunto che è il suo contrario. « Ebbene, disse, al
vivere c'è qualcosa di contrario, come all'essere sveglio è contrario il
dormire? Certamente, disse. E che cosa è? L'essere morto, disse. E, dunque,
questi due stati, se è vero che sono contrari fra loro, non si generano così
l’un dall'altro? [...] Senza dubbio » (c. 16). « Dunque da ciò che è morto, o
Cebete, si genera ciò che è vivo, e insomma dai morti si generano i vivi? » — È
chiaro, disse. — Dunque le nostre anime sono nell’Ade. — Così pare (c. 16).
Necessità di un perpetuarsi ciclico nel passaggio da un contrario al- l'altro.
« Perché non ci fosse tra gli esseri, nel loro generarsi, una corri- spondenza
perpetua degli uni con gli altri, come se ruotassero in cerchio; e invece il
processo generativo si svolgesse esclusivamente da un essere al suo opposto,
come in linea retta, e non girasse più all'indietro verso il primo punto e non
compisse il suo giro, tu capisci bene che tutti gli esseri finirebbero con
l'assumere la stessa forma e si troverebbero nelle stesse condizioni e insomma
cesserebbero di generarsi » (c. 17). « Se tut- te le cose che muoiono
rimanessero in tale forma e non più riprendessero il corso verso la vita,
sarebbe necessario che alla fine tutto fosse morto e più niente vivesse » (ib.).
2) Il secondo argomento è tratto dalla dottrina della reminiscenza — Senza la
preesistenza dell'anima la reminiscenza è impossibile. La remi- 353 Argomenti a
favore dell’immortalità dell’anima I contrari si generano l’uno dall'altro
Ciclicità della generazione dei contrari Resistenza e reminiscenza: prove di
immortalità fl ricordo delle idee come criterio di giudizio Reminiscenza e
perdita delle conoscenze alla nascita Tutto ciò che è vivo si genera da ciò che
è morto x niscenza non « è possibile se l'anima nostra non esistesse già in
qual. che luogo prima di generarsi in questa nostra forma umana. Cosicché anche
per questa via appare che l’anima è qualcosa di immortale » (c. 18). Socrate
distingue due modi di reminiscenza: a) reminiscenza per contiguità; per
esempio, vedendo la lira dell’innamorato ci si ricorda del- la sua figura; b)
reminiscenza per somiglianza; per esempio, vedendo i’im. magine di Simmia, ci
si ricorda della sua persona. Poi, esaminando il se- condo tipo di reminiscenza
{quello fondato sulla somiglianza) trova che non è possibile giudicare della
somiglianza tra varie cose senza avere una idea universale di eguaglianza,
dell’eguale in sé. Ma questa idea dell’egua- le in sé non può essere ricavata
dall'esperienza. Infatti, nell'esperienza, le cose che giudichiamo eguali sono
sempre difettose, non sono perfette come l’eguale in sé. Ora per giudicare di
questa discrepanza tra l’eguale in sé e le cose eguali, colui che giudica « ha
da essersi pur fatta dapprima in qualche modo un'idea di quel tale essere a cui
dice che la cosa veduta s'assomiglia, ma rispetto alla quale è difettosa » (c.
19). « Dunque prima che noi cominciassimo a vedere e a udire, insomma a far uso
degli altri sensi (cioè prima di nascere) bisognava pure che già ci trovassimo
in possesso della conoscenza dell’eguale in sé, che cosa realmente esso è, se
poi dovevamo, gli eguali che ci risultavano dalle sensazioni, ripor- tarli a
quello, e pensare che tutti quanti hanno una loro ansia di essere come quello,
mentre poi gli rimangono al di sotto » (c. 19). Questo si- gnifica che « prima
di nascere e subito dopo nati conoscevamo già non so- lo l’eguale e quindi il
maggiore e il minore, ma anche tutte insieme le al- tre idee; perché non tanto
dell’eguale stiamo ragionando ora, quanto anche del bello in sé e del buono in
sé e del giusto e del santo [...] » (c. 20). Il meccanismo della reminiscenza
viene spiegato nel modo seguente: « Acquistate delle conoscenze prima di
nascere noi le perdiamo nascendo; e poi, valendoci dei sensi relativi a certi
dati oggetti, veniamo recupe- rando di ciascuno di essi quelle conoscenze che
avevamo già anche pri- ma » (c. 20). Poi Socrate mostra che la reminiscenza è
l’unico modo di spiegare il fatto che noi non conosciamo immediatamente le idee
appena nati (cfr. c. 21). In conclusione: la reminiscenza delle idee postula la
preesistenza dell'anima. « Se veramente esistono questi esseri di cui an- diamo
ragionando continuamente e il buono, e il bello e ogni altro si- mile e a
ciascuno di questi riportiamo e compariamo tutte le impressioni che ci vengono
dai sensi riconoscendo che essi sono gli esemplari prima già posseduti dal
nostro spirito, non è necessario, per la stessa ragione onde questi esistono,
che anche esista la nostra anima prima ancora che noi siamo nati? » (c. 22).
Dimostrazione che l'anima continua ad esistere anche dopo la morte del cor po.
All’argomentazione di Socrate Simmia obietta: « Che cosa vieta che ella si
generi e si formi da qualche altra parte ed esista anche prima di giungere nel
corpo umano; ma che poi, quando vi sia giunta e se ne distacchi, allora finisca
anch'ella di esistere e si perda compiutamente? » (c. 23). Risposta di Socrate.
« Ebbene, o Simmia e Cebete, disse Sacrate, è dimostrato fin d'ora anche
questo: purché vogliate congiungere insieme il nostro presente argomento con
l’altro sul quale già ci mettemmo d'ac- cordo prima, e cioè che tutto ciò che è
vivo si genera da ciò che è morto. Infatti, se l’anima esiste anche prima, ed è
necessario che, entrando 354 essa per la sua generazione nella vita, non da
altro si generi se non dalla morte e dall'essere morti; come non è parimenti
necessario che ella seguiti ad esistere anche dopo la morte, se è vero che deve
poi nuova- mente rinnovarsi? Ed ecco dunque che anche questo secondo punto ri-
mane dimostrato senz'altro » (c. 23). (Digressione sul fanciullo dentro di noi
[la parte irrazionale dell'anima che non vede il bene e tende solo al
piacevole], che si spaventa davanti alla morte) (c. 24). 3) Il terzo argomento
a favore dell'immortalità dell'anima è basato sulla semplicità del suo essere —
L'anima non è soggetta a decompo- sizione perché il suo essere non è composto,
ma semplice. Ora solo gli esseri composti sono soggetti a corruzione. L'anima è
semplice perché è costante, invariabile e invisibile. L'anima ha queste doti
perché è « congenere alle idee che sono costanti, invariabili e invisibili ».
Le idee sono invariabili. « L'eguale in sé, il bello in sé e insomma ogni data
cosa che è in sé, l'ente, c'è mai caso che patisca mutazione veruna? — No » (c.
25). Le idee sono invisibili. « Quelle che rimangono costanti non c’è altro
mezzo col quale le possa apprendere se non col pensiero e con la medita- zione:
perché quelle di questa specie sono invisibili e non si possono per- cepire con
la vista » (c. 26). Il corpo invece è mutevole e visibile perché è simile alle
cose sensibili. Per cui l’anima soggeita al cotpo « va errando qua e là e si
conturba e barcolla come ebbra » mentre l'anima indipen- dente dal corpo « se
ne va colà dov'è il puro, dov'è l’eterno e l’immuta- bile e l’invariabile... e
cessa dal suo errare, e rimane sempre invariabil- mente costante » (c. 27).
fondato sulla fun- 4) Il quarto argomento a favore dell'immortalità è è padrona
del corpo. zione dell'anima nei riguardi del corpo — L'anima Ora questa è una
funzione divina {(c. 28). 5) Il quinto argomento si basa sul fatto che neppure
il corpo, pure appartenendo alla sfera del corruttibile, si corrompe
immediatamente, perciò tanto meno potrà essere distrutta l'anima dalla morte,
che appar- tiene alla sfera dell'incorruttibile. « Ebbene dunque, se tale è
l'anima, non se n’andrà ella a ciò che le è simile, cioè, dico, all’invisibile,
al divino, al- l'immortale, all’intelligente, dove giunta potrà essere in
realtà felice [....]? » (c. 29)? 4. Metempsicosi Dopo aver provato
l'immortalità dell'anima del filosofo, Socrate espone la sorte che tocca ai
filosofi e agli altri uomini dopo la morte. ? Gli studiosi sono in disaccordo
circa il numero delle prove che Platone elabora nel Fedone: chi ne conta tre,
chi cinque, chi otto. Però se si tiene conto della struttura dialettica
dell’opera, la quale esige che si considerino le singole argomentazioni non
come qualcosa di autonomo, completo e defi- nitivo, ma come elemento di un unico
tutto, allora si può ‘dar ragione a chi ritiene che Platone, alla fin fine,
sviluppi un'unica grande prova. Non figura peraltro nel Fedone la prova della
semovenza (cioè la prova fondata sulla proprietà che ha l’anima di muovere se
stessa e d’essere causa del proprio agire), a cui Platone dà ampio risalto nel
Fedro (cfr. B. Monpin, Corso di storia della filosofia, cit., pp. 90-91). 355
Semplicità e immortalità dell'anima L’anima Incontaminata ritorna agli dei
L'arnlma contaminata è nuovamente “incaîenata al corpo” La filesofia conduce
agli dei La morte non è per Socrate una sventura L'anima che durante la vita
non è stata contaminata dal corpo, cioè l'anima del filosofo, ritorna fra gli
Dei. Quest'anima « si diparte pura dal corpo; nulla del proprio conpo traendo
seco, come quella che nulla in vita, per quanto poté, volle avere in comune con
esso e anzi fece di tutto per fuggirlo e starsene tutta raccolta in sé medesima
» (c. 29; cfr. c. 32). L'anima che in questa vita è stata contaminata dal
corpo, alla morte « si parte dal corpo contaminata e impura, come quella che fu
sempre assieme col corpo e lo servì e Io amò e si lasciò affascinare da esso, e
cioè dalle sue passioni e dai suoi piaceri » (c. 30). Quest'anima non può
ritornare tra gli Dei, ma, vinta dalla sollecitudine del corpo, « sarà tratta
di nuovo in giù verso la ragione visibile, per paura dell’invi- sibile, o, come
dicono, dell’Ade; e se ne andrà girando intorno alle tombe e ai sepolcri [...]
fino a che, per l’insaziabilità di quel corporeo che sempre l’accompagna, non è
di nuovo incatenata in un corpo» (c. 30). « Queste anime che durante la vita
furono contaminate dal corpo, si reincarneranno e assumeranno forme corporee
diverse secondo le con- suetudini diverse che ebbero in vita: così per esempio,
quelli che furono dediti a gozzoviglie o a violenze carnali, ecc. diventeranno
asini e simili bestie; altri che furono ingiusti o rapaci, diventeranno lupi e
sparvieri e così via » (c. 31). Conclusione. Per raggiungere gli Dei occorre
mettersi sotto la guida della filosofia. « La filosofia, prendendo ad educare
la loro anima in tali condizioni (la condizione di essere «incollata al corpo e
costretta ad indagare la verità attraverso questo, come attraverso un carcere
»), cerca a poco a poco di guidarla e addirittura si adopera di liberarla dal
corpo » (c. 33). Sotto la guida della filosofia «l'anima cerca di conquistare
la propria serenità da codeste passioni, seguendo il razio- cinio e in esso
persistendo ininterrottamente, attendendo alla contem- piazione del vero, del
divino e di ciò che non è soggetto all'illusione dei sensi » (c. 34).
INTERMEZZO (c. 35) Quando Socrate ebbe finito di parlare domandò se ci fosse
qualche manchevolezza nei suoi ragionamenti. Simmia risponde che ha dei dubbi,
ma non osa manifestarli « per la preoccupazione che potesse riuscirgli
fastidioso questo domandare in un momento così malaugurato ». Socrate protesta
che se è così, cioè se è vero che hanno paura di fargli delle do- mande, vuol
dire che non è ancora riuscito a convincere i suoi amici che egli non reputa
sventura la sua condanna a morte, e che essi lo riten- gono da meno dei cigni,
i quali, con un canto più lungo e più bello, sanno predire, quando si avvicina
la morte, che andranno al Dio, di cui sono devoti. Ma « anch'io credo di essere
compagno di servizio coi cigni e sacro al medesimo Iddio (Apollo) e di avere
avuto dal Dio Signore non meno di loro l'arte della divinazione; e perciò anche
credo di potermi allontanare dalla vita con non minore letizia » (c. 35). 356
SECONDA PARTE (cc. 36-66) SEZIONE PRIMA (cc. 36-40) 1. Le obiezioni di Simmia e
Cebete Obiezione di Simmia — Simmia osserva che tutto quello che Socrate ha
detto riguardo all'anima e al corpo si può ugualmente dire dell’ac- cordo e
della lira; anche l'accordo, come l’anima, è invisibile, incorporeo, bello,
divino; anche la lira come il conpo è visibile, corporea, terrena, e insomma
congenere del mortale. Possiamo noi ammettere, secondo il tuo ragionamento,
che, rotta la lira, possa seguitare ad esserci l'accordo? Ora, l’anima è una
specie di accordo degli elementi che costituiscono il corpo; e dunque se il
corpo, che è condizione indispensabile per l’esistere dell'anima, verrà meno,
anche l’anima necessariamente, per quanto di- vinissima, dovrà venir meno; e anzi
verrà meno prima del corpo, che durerà ancora per qualche tempo, fino a che non
sia arso dal fuoco o consumato dalla putredine (c. 36). Obiezione di Cebete —
Cebete dice che Socrate, con l'argomento della reminiscenza non ha fatto un
passo avanti nella dimostrazione dell'immortalità. Ha dimostrato che l’anima
esiste già prima del nostro nascere; ma che ella seguiti a vivere eternamente,
questo non pare an- cora dimostrato. Non già che egli sia d'accordo con Simmia,
perché crede che l'anima è più resistente del corpo: ma questo non basta a
dimostrarne l'immortalità. Facciamo un esempio: chi dura più a lungo, il
tessitore o il suo mantello? Chiaro, il tessitore. Infatti egli consuma diversi
mantelli e rispetto a questi mantelli si può dire che egli è morto dopo. Però
se il tessitore è morto non si può provare che egli è ancora vivo portando come
prova che l’ultimo mantello che si era tessuto e portava non è ancora
consumato. Applichiamo questo esempio alle relazioni tra l'anima e il corpo.
L'anima può via via consumare e ritessere sopra di sé più corpi, come il
tessitore più mantelli; e un giorno che ella venga a morire avrà sopra di sé
l’ultima sua tessitura e morirà prima di questa. Si può quindi concedere che
sopravviva a più corpi, ma chi potrà mai avere coscienza che il proprio corpo
non sia precisamente l’ultima tessi- tura della propria anima, e con codesto,
anzi prima, muoia anche la sua anima? Ecco perché io dico che sulla soglia
della morte ognuno ha ragione di temere che in quel momento avvenga anche per
la sua anima l'estrema dispersione e distruzione (c. 37). Gli argomenti di
Simmia e di Cebete fanno molta impressione sugli astanti che sono presi da un
certo senso di scoraggiamento e temono che la immortalità dell'anima non sia
dimostrabile (c. 38). Allora Socrate li ammonisce contro la malattia della
misologia (cioè dell’avversione al ragionamento) e raccomanda Îoro di « non
diventare misologi come si diventa misantropi. Perché non può capitare a uno
peggior guaio di questo, che gli vengano in odio i ragionamenti » {c. 39. Vedi
la bellissima spiegazione dell’origine della misantropia). Se un argomento
appare una volta vero e un'altra falso non è colpa sua: il ragionamento rimane
sempre lo stesso, o vero o falso. La colpa è solo di chi ragiona o meglio della
sua imperizia nell'arte del ragionare. E sarebbe molto pietoso se « per piacere
di liberarsi dal tormento di si- 357 Argomento di Simmia: l’accordo e la lira
come l’anima e il corpo Argomento di Cebete: l’anima è più resistente del
Corpo, ma non necessariamente eterna; il tessitore e il suo mantello
Sopravvivenza, ma non eternità Socrate contro la misologia che distrugge il
sano ragionamento L’imperizia nell’arte di ragionare La tesi di Simmia non
spiega il vizio e la virtù C'è contrasto tra anima e corpo Socrate e i
naturalisti; come spiegare l’eguale esito dei processi contrari? mile
alternativa, egli finisse col respingere da sé quella che è unicamente sua
colpa e la gettasse addosso ai ragionamenti stessi, e così ormai seguitasse
tutto il resto della sua vita, odiando e maledicendo ogni ra- gionamento, e si
privasse della conoscenza e della verità di ciò che real- mente esiste » (c.
39). Quindi, conclude Socrate, le obiezioni di Simmia e Cebete « non devono
scoraggiare più voi di quello che turbino me, e io non ne sono certamente
turbato perché non mi preoccupo tanto di fare apparire vero a voi quel che
dico, quanto che apparisca vero a me prima che ad ogni altro, diversamente dai
sofisti che non si curano già dove sia la verità in ciò di cui stanno ragionando
bensì di fare apparire vere a chi discute con loro le questioni che essi stessi
pongono » (c. 40). SEZIONE SECONDA (cc. 41-57 e 63) 2. Risposta di Socrate alie
obiezioni di Simmia e Cebete Risposta all'obiezione di Simmia (cc. 41-43) —
Secondo Socrate l’obie- zione di Simmia, basata sulla concezione dell'anima
come epifenomeno del corpo, non regge per tre motivi: a) Essa mette Simmia in
contraddizione con se stesso, perché egli accetta l'argomento della
reminiscenza e sostiene allo stesso tempo che l’anima non è altro che l'accordo
degli elementi del corpo. Ora chi accetta l'argomento della reminiscenza deve
ammettere che l’anima esi- ste prima del corpo mentre chi concepisce l'anima
come accordo deve negare che l’anima esista prima del corpo (come l’accordo non
può esi- stere prima delle corde della lira) (c. 41). b) L'anima non può essere
concepita come accordo, perché in tal caso non si potrebbe spiegare cos'è il
vizio e la virtù; perché, in tal caso si dovrebbe dire che la virtù è un accordo
di un accordo ed il vizio un di- saccordo di un accordo. Se l’anima è per
definizione un accordo, « nessu- na anima pcetrà avere più di un'altra né
disaccordo né accordo [...] e an- cora se questa è la sua condizione,
nessun'anima potrà avere più di un’altra né vizio né virtù, ammesso che vizio è
il disaccordo e virtù è accordo » (c. 42). c) L'anima non può essere concepita
come accordo, perché tra anima e corpo non c'è accordo, ma disaccordo,
contrasto, lotta, guerra. « Per esempio, nel corpo c’è arsura e sete, e l’anima
lo tira, ai contrario, a non bere; c'è fame, e l’anima lo tira a non mangiare,
e così in mille aitri casi in cui vediamo che l’anima si oppone alle passioni
del corpo » (c. 43). Risposta all'’obiezione di Cebete — Passando alla
obiezione di Cebete, Socrate dice che in sostanza Cebete domanda che sia
dimostrato che l'anima nostra è indistruttibile ed immortale {c. 44). « Non è
cosa da poco, o Cebete, quello che cerchi; bisognerà rifarsi a ricercare in
genere la causa della generazione e della corruzione delle cose. Ora io ti dirò
a questo proposito, se vuoi, quello che è capitato a me e se qualche cosa di
quello che sono per dirti ti sembrerà utile potrai usarne [...] » (c. 45).
All’inizio Socrate seguì i naturalisti. « Quand’erc giovane fui preso da una
vera passione per quella scienza che chiamano indagine della na- tura ». Ma poi
« finii col persuadermi che a questa specie di indagini io 358 ero nato assai
meno di ogni altro. E a persuadertene basterà questo. Che quelio che già prima
sapevo con chiarezza [...] ecco che allora, per effetto di queste ricerche mi
si abbuiò totalmente cosicché disimparai anche quello che prima credevo di
sapere [...] » {c. 45). Il problema che tormen- tava Socrate e a cui i
naturalisti erano incapaci di dare una risposta era come sia possibile con due
processi contrari (per es., sottrazione e addi- zione) ottenere lo stesso
risultato (per esempio si può ottenere con l'addizione di due unità e con la
divisione di 4 in due parti eguali) e come una stessa cosa possa essere
chiamata a volte grande e a volte piccola. Poi si entusiasmò per Anassagora. «
Ma udito una volta un tale leggere da un libro, come egli diceva, di
Anassagora, e dire che dunque c'è una Mente ordinatrice e causa di tutte le
cose, io mi rallegrai di questa causa, e mi parve, secondo un mio modo, che
questo porre Ja Mente come causa di tutto, convenisse sommamente. Presi con
grande sollecitudine quei suoi libri, mi misi a leggerli con la maggior
rapidità, perché volevo, con la maggior rapidità, conoscere il meglio e il
peggio » {c. 46). Ma Socrate restò deluso da Anassagora, quando si accorse che
anziché attribuire alla causalità della Mente l'origine delle cose, la
attribuiva alle cose mate- riali. « Ed ecco, invece, o amico, che da così alta
speranza io mi sentivo cadere giù e portar via man mano che, procedendo nella
lettura, vedevo quest'uomo non valersi affatto della Mente, non assegnarle
alcun prin- cipio di causalità nell'ordine dell'universo, bensì presentare come
cause e l’aria e l'etere e l’acqua e altre cose, e tutte quante fuori di luogo;
e mi parve fosse proprio lo stesso che se uno, pur dicendo che Socrate tutto
quello che fa lo fa con la mente, quando poi si provasse a determi- nare.le
cause delle cose che io faccio, incominciasse col dire che ora, per esempio, io
sono qui seduto per il fatto che il mio corpo è composto di ossa e nervi [...]
senza curarsi affatto di dire quelle che sono le cause vere e proprie: e cioè
che, siccome agli Ateniesi parve bene votarmi contro, per questo anche a me è
parso bene restarmene a sedere qui, e ho ritenuto mio dovere non andarmene via
[ ...]}. Ma chiamar cause ragioni di questo genere non ha a che fare
assolutamente. Ché se uno dice che io, senza avere di codeste cose e ossa e
nervi e tutto quello che ho non sarei capace di fare quello che mi sembra di
dover fare, sta bene, costui dirà il vero. Ma dire che queste sono la causa per
cui io faccio quelio che faccio, e dire ai tempo stesso che io opero con la
mente, ma senza che ci sia per mia .parte la scelta dei meglio, questo in
verità è il più grossolano e insensato modo di parlare. Questo significa essere
incapaci di discernere «che altro è la causa (aition) vera e propria, altro
quella cosa senza cui la causa non potrà mai essere causa » (c. 47), ossia altro
è la causa e altro è la condizione necessaria. Ora questa è precisamente una
distinzione che Anassagora non era riuscito a vedere. La ricerca della vera
causa condusse Socrate alla scoperta della dot- trina {ipotesî) delle « idee »
— Disgustato di Anassagora, Socrate abban- donò la filosofia dei naturalisti e
si mise alla ricerca della vera causa, e disse che per trovarla dovette
rifugiarsi nei concetti (logoi) e « consi- derare in essi la realtà delle cose
esistenti » {c. 48). «Io mi misi dunque per questa via; e assumendo caso per
caso come vero quel concetto che io giudicassi più sicuro e più saldo, ie cose
che a questo concetto mi par- vero accordarsi, queste ritenevo come vere, sia
rispetto alla causa, sia rispetto a tutte ie altre questioni; quelle che no, io
ritenevo come non 359 Socrate come Anassagora: le cose sono originate dalle
cose materiali e non dalla mente Distinziene tra causa e origine delta causa in
quanto fale La ricerca della vera causa nei concetti La presenza 0 comunanza
delle cose al suo concetto La dottrina delle Idee spiega l’essere e il divenire
Apparente contraddizione della tesi sulla teoria delle idee con l'argomento
contro Cetete Occorre distinguere i contrari nelle cose dai contrari in sé Le
cose nartecipano dei contrari, ma non sono necessariamente contrarie in sè
vere. Ma voglio chiarirti meglio ciò che intendo dire, perché penso che tu ora
non capisca » (c. 48). Socrate passa quindi a dimostrare apertamente qual è la
specie di causa che si è costruita. « Poniamo dunque che esista, (si tratta
quindi di un'ipotesi) un bello in sé, un buono in sé, un grande in sé, e così
via: le quali cose se tu mi concedi e ammetti che esistano realmente io ho
speranza, movendo da queste di scoprire la vera causa e di dimostrarti che
l’anima è immortale ». Infatti, ammesse le Idee, Socrate trova che esse sono la
vera causa. « A me pare infatti che, se c'è cosa bella all'infuori del bello in
sé per nessuna altra ragione sia bella se non perché partecipa di codesto bello
in sé. E così dico naturalmente di tutte le altre cose [....]. Niente altro fa
sì che quella tale cosa sia bella se non la presenza o comu- nanza di questo
bello in sé (e ekeinu tu kalù eite parusia eite koinonia) o altro modo
qualunque onde codesto bello le aderisce. Perché io non insisto affatto su
questo modo, e dico soltanto che tutte le cose belle sono belle per il bello »
(c. 49). La dottrina delle Idee spiega non solo l'essere delle cose finite, ma
anche il loro divenire. Infatti, dice Socrate, una data cosa si genera in quanto
viene a partecipare di quella essenziale realtà che è propria di quella data
idea onde essa partecipa; e così nei casi sopraddetti, tu non hai altra causa
da addurre di codesto diventar due, se non la parteci- pazione alla dualità, e
che di questa dualità bisogna che partecipino tutte ie cose che sono per
diventare due e dell'unità le cose che sono per diventare uno » {c. 49). C'è
però una difficoltà: come si spiega con la teoria delle Idee che la stessa cosa
è chiamata grande e piccola (ad esempio, Socrate è chia- mato grande rispetto a
Cebete e piccolo rispetto a Simmia)? Socrate ri- sponde che ia difficoltà è
puramente verbale. In realtà « non solo la grandezza non vuole mai essere
grande e piccola al medesimo tempo, ma altresì la grandezza che è in noi non
vuole mai accogliere la picco- lezza e tanto meno esserne superata: e allora
delle due l'una o fugge o cede il posto, quando il suo contrario, la
piccolezza, le si avvicina, o addirittura quella sopravvenendole perisce; ma di
restar ferma aì suo posto e ricevere in sé la piccolezza, e essere diversa da
ciò che era prima, questo non vuole assolutamente » {c. 50). Qui pare però che
Socrate si contraddica con quello che aveva affer- mato prima riguardo ai
contrari, cioè che un contrario genera l’altro e Cebete fa presente a Socrate
la difficoltà. Socrate chiarisce la difficoltà facendo vedere che essa deriva
da un semplice malinteso: « Prima non si ragionava dei contrari, ma delle cose
che hanno in sé i contrari (alle quali per questo si dà pure il nome di
contrari). Ora parliamo dei con- trari in sé che noi riteniamo non vorranno mai
accettare di generarsi gli uni dagli altri » (c. 50). Ultima dimostrazione
dell'immortalità dell'anima (cc. 52-56) — Ora Socrate applica la dottrina che
due contrari non possono partecipare l’uno dell'altro, (perché si oppongono e
si escludono; e nel caso che so- pravvenga l’altro contrario il primo deve
allontanarsi o perire) a quelle cose che non sono contrarie (solo le Idee si
possono chiamare propria- mente contrarie) ma partecipano essenzialmente dei
contrari {per esem- pio la neve e il fuoco non sono contrari, ma partecipano
essenzialmente del freddo e del caldo che sono contrari). Tali cose quando
sopravviene l’altro contrario non possono riceverlo, 360 ma'devono 0 allontanarsi
o perire. Così, per esempio, la neve partecipa essenzialmente del freddo. Se
sopravviene il caldo essa deve o allontanarsi o perire. Infatti, poiché
partecipa essenzialmente del freddo, essa non può più essere neve se perde il
freddo. Ciò che è essenziale non può essere ab- bandonato senza perire. Questo
è precisamente il caso dell'anima. L'anima non è un contrario (perché non è
un'Idea) ma partecipa essenzialmente ad uno dei contrari (la vita). Per cui
l’anima, quando sopravviene l’altro contrario (la morte), deve o allontanarsi o
perire. Secondo Socrate l’anima non può perire perché incorruttibile. Cebete
concede che bisogna am- mettere non solo che l’anima è immortale (cioè non
soggetta al contrario della vita, la morte) ma anche che è imperitura, perché
se si ammette che « l'immortale che è eterno si corrompa » sarebbe impossibile
poter cre- dere che nel mondo esista alcunché di incorruttibile (cc. 52-55 a).
3. Conclusione Non solo Dio e l’Idea della vita sono incorruttibili e
imperituri, ma anche l’anima. « E quindi se la morte si abbatte sull'uomo, la
parte di lui che, come sembra, è mortale, muore: la parte che è immortale, se
ne va via salva e incorrotta sfuggendo la morte » (c. 56). ; Simmia però non è
completamente pago della dimostrazione di So- crate. Questi gli dà ragione
perché « quelle nostre prime ipotesi (le Idee), se anche non sono a te e agli
altri cagione di dubbio, gioverà in ogni modo, per ragione di sicurezza,
riesaminarle da capo » (c. 56). Però Socrate ritiene che se anche le prove non
sono del tutto convincenti, l’a- nima è senza dubbio immortale. Dopo
l'esposizione del mito meraviglio- so del giudizio delle anime dei morti e la
descrizione della terra ideale, Socrate conclude: « Certo, ostinarsi a
sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte non si addice
a uomo che abbia senno; ma che sia così o poce diverso da così delle anime
nostre e delie loro abitazioni dopo che s'è dimostrato che l’anima è immortale,
sostenere questo mi pare che si addica e anche si possa avventurarsi a crederia
» (c. 63). Quanto a sé. conclude Socrate serenamente e solennemente, egli non
ha nulla da temere perché « timori per la propria anima non deve avere chi
nella vita disse addio ai piaceri del corpo e ai suoi ornamenti, sa- pendo che
gli sono estranei, e persuaso che più gli possono far male che bene; e si curò
invece dei piaceri deli'apprendere, e l'anima adornando non di ornamenti a lei
alieni, ma di quelli suoi propri, temperanza, giu- stizia, fortezza, libertà,
verità, attende così preparato l'ora del suo viaggio all’Ade, pronto a pigliare
la sua strada appena il! destino lo chiami » {c. 63). SEZIONE TERZA (cc. 57-66)
4. Il mito delle anirne dopo la morte « Ebbene, o amici, questo se non altro,
sarà bene sia chiaro nella mente: che se l’anima è immortale essa ha il diritto
che se ne abbia cura; né solo per questo spazio di tempo che chiamiamo vita, ma
per sempre e che ormai, dopo quel che s'è detto, anche il pericolo, a chi non
ne abbia 361 L’anima partecipa a uno dei contrari: la vita Incorruttibilità e
immortalità Non teme ia moris chi ha vissuto bene la vita Avere cura per
l’anima che è immortale Sosmogratia pitagorica, dicotomia plaionica e mito
della caverna Ultime parole dii Socrate cura, dovrà apparire assai grave.
Infatti, se la morte fosse una libera- zione da ogni cosa, gran fortuna sarebbe
per i trisii, morendo, sentirsi liberi non solo dai corpo, ma, nello stesso
tempo, insieme con l'anima anche delia loro tristezza. Ma ora che l’anima ci si
è rivelata immor- tale, nessuno scampo essa potrà avere dai mali, né alcuna
salvezza, se non in quanto diventa il più possibile virtuosa ed intelligente.
Perché nient'altro l'anima ha seco, andando all’Ade, all'infuori della sua cul-
tura e dei suo costume, che è ciò appunto come dicono che grande- mente giova o
nuoce a chi muore, subito al principio del suo viaggio all’al di là » (c. 57).
5. Figura e dimensione delia terra (cc. 58-61) Questi capitoli sono importanti
per tre motivi: a) sono un docu- mento molto interessante per la conoscenza
cella cosmografia pitagorica: ia terra non è piatta (come dicevano gli Ionici),
ma sferica; è molio gran- de ed è collocata nel mezzo dell'universo; b) Platone
vi espone la distin- zione fondamentale tra mondo sensibile ed intelligibile,
tra la nostra terra e la terra ideale; c) c'è infine una chiara allusione al
mito della caverna (cfr. c. 58, 109c - ii0 Db). 8. La morte di Socrate (cc.
64-66) Ultime parole di Socrate: « O Critone, disse, noi siamo debitori di un
gallo ad Asclepio: dateglielo e non ve ne dimenticate » (c. 66). Il significato
di questa ingiunzione è il seguente: chi guariva da una malattia, in segno di
gratitudine usava offrire un gallo ad Asclepio (detto anche Esculapio), il dio
della medicina. Ora, essendo per Socrate l’esistenza corporale una malattia e
la morte una guarigione ed una liberazione, è quindi giusto che morendo si
mostri grato ad Esculapio. Intanto la cicuta che Socrate aveva bevuto da poco,
comincia a produrre il suo effetto letale. Tutti intorno scoppiano in lacrime.
Socrate si corica sul suo lettuccio e poco dopo muore. Critone gli chiude le
labbra e gli occhi. « Questa, o Eche- crate — soggiunse Fedone — fu la fine
dell'amico nostro: un uomo, noi possiamo dirlo, di quelli che allora conoscemmo
il migliore; e senza paragone il più savio e il più giusto ». QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE + Che senso ha la vita per Socrate? . Che valore assegna
Platone alla conoscenza intellettiva? . Come giustifica il valore assoluto
della conoscenza intellettiva? . Quali sono le principali prove
dell'immortalità dell'anima? . Come formula la prova basata sulla reminiscenza?
. Come formula la prova basata sulla « parentela » o affinità dell'anima con il
mondo delle Idee? 7. Come formula la prova basata sulla partecipazione dell'anima
all’Idea della Vita, ossia al contrario dell’Idea della Morte? 8. Quali sono le
obiezioni di Simmia e Cebete alla tesi di Socrate? 9. Che valore annette
Socrate alle sue argomentazioni? 10. Confrontare le prove del Fedone con quella
del Fedro. SAAWwWNA 362 11. Che rapporto pone Platone tra immortalità
dell'anima e la teoria delle Idee? 12. In che cosa consiste il mito della
metempsicosi? Sviluppare la conce- zione platonica dei rapporti tra mito e
filosofia. 13. Su quali ragioni fonda Platone la dottrina delle Idee nel
Fedone? 14. Quali sono le implicazioni etiche della dottrina della immortalità
del- l'anima? — Illustrare l'ascesi platonica: rapporti tra teoria e prassi.363
A Cartesio si deve l'impostazione della filosofia moderna Le quattro caratteristiche
presentate nell’opera sono: autonomia, gnoseologia, metodo e antropocentrismo
Obiettivo di realizzare una scienza universale e rigorosa li. IL « DISCORSO SUL
METODO » Cartesio (René Descartes, 1596-1650) 1. Origine dell’opera Cartesio è
universalmente riconosciuto come il padre della filosofia moderna. A lui in
effetti spetta il merito d'aver dato a quest'ultima i li- neamenti che la
caratterizzano: autonomia della filosofia rispetto alla teologia; orientamento
spiccatamente gnoseologico anziché metafisico: il primo e massimo problema da
risolvere è quello della conoscenza, del suo valore e della sua portata;
preoccupazione per il metodo: per dare solidità e organicità alla ricerca
filosofica occorre valersi di un metodo sicuro e rigoroso; attenzione per
l’uomo, che ora viene posto al centro di tutte le ricerche e di tutte le cose:
dal teocentrismo si passa all’antro- pocentrismo. Il « manifesto » della nuova
filosofia è la prima importante opera filo- sofica di Cartesio, Discorso sul
metodo. In questo breve e tuttavia ri- voluzionario saggio, si annunciano
chiaramente i quattro lineamenti ca- ratteristici della filosofia moderna:
autonomia della filosofia, orientamento gnoseologico, interessamento per il
metodo, antropocentrismo. Cartesio aveva avvertito la necessità di rinnovare lo
studio e l'insegna- mento della filosofia ancora quando frequentava la scuola
dei gesuiti a Parigi. Ma un piano preciso di revisione gli si presentò alla
mente per la prima volta nel 1619 durante una visione. Allora Cartesio, che si
era arruolato con le schiere degli imperiali (era scoppiata da poco la Guerra
dei Trent'anni), si trovava in Germania. All’inizio dell'inverno, dove si erano
fermati a svernare, « non trovando alcuna conversazione che lo svagasse, e non
avendo d'altronde né preoccupazioni né passioni che lo turbassero, restava
tutto il giorno solo accanto ad una stufa, dove aveva tutto l’agio di
intrattenersi con i suoi pensieri ». Ed ecco, appunto, a risultato della
assidua e profonda meditazione, la visione. Gli comparve l'Angelo della Luce e
gli fece comprendere che il metodo matematico che aveva adoperato con tanto
profitto nelle studio dell'algebra e della geometria era un metodo valido per
tutte le scierize, compresa la filo- sofia. Di qui la risoluzione di Cartesio
di tradurre in realtà la « scoperta mirabile »: si propose di elaborare una
scienza universale dotata di quella rigorosità, certezza e precisione tipiche
della matematica. Per alcuni anni lavorò all'applicazione della matematica alla
fisica, facendo vedere che « la fisica, la quale fino al suo tempo era ancora
unita alla medicina e alla filosofia si poteva tradurre in numeri ». Più tardi
cercò di compiere la stessa impresa anche per la filosofia: Dio e gli angeli, i
misteri del tempo e dello spazio, delle piante e degli animali, le complicate
relazioni sociali, anche quella creatura complessa e sfuggente che è l’uomo,
dove- vano essere tradotte in idee chiare e distinte come se si trattasse di
quan- 364 tità matematiche. « Tutte le scienze », scrive Cartesio, « sono
legate tra loro da una catena; non è possibile afferrare alcuna di loro senza
aver compreso le altre e pertanto senza abbracciare contemporaneamente tutta
l'enciclopedia del sapere ». E ancora: « Tale scienza dovrebbe in- cludere
tutti i primi rudimenti della ragione umana, e il suo dominio dovrebbe
estendersi fino a comprendere la conoscenza di tutte le cose ». Pertanto, il
mondo e qualsiasi conoscenza sono raggiungibili col nuovo metodo. Per quanto
Cartesio ascriva la sua « mirabile scoperta » ad una visione (a qualcosa di
imprevisto, subitaneo e in certa misura soprannaturale), in effetti non si
trattava di un'idea priva di precedenti. Uno dei suoi pro- fessori al collegio
dei gesuiti, padre Clavius, ch'egli stimava e apprezzava moltissimo se n'era
fatto già da tempo convinto assertore. Nelle sue Opere matematiche; stampate
nel 1611, aveva scritto: « Le discipline matematiche dimostrano e giustificano
con le più solide ragioni tutto ciò che è oggetto di discussione, cosicché esse
producono effettivamente la scienza e scacciano dalla mente dello studente
qualsiasi dubbio. La stessa cosa non si può assolutamente affermare delle altre
scienze, nelle quali molto spesso la mente resta incerta e dubbiosa circa il
valore delle con- clusioni, talmente numerose sono le opinioni e contrastanti i
giudizi [...]. I teoremi di Euclide come pure quelli degli altri matematici,
oggi sono ancora così veri, sicuri nei loro risultati, solidi nelle loro
dimostrazioni, come erano molti secoli orsono [...] Ora, siccome le discipline
matema- tiche sono così completamente assorbite dall'amore e dal culto della
verità, che nel loro ambito nulla di falso viene recepito e neppure ciò che è
meramente probabile [...] non si dà alcun dubbio che tra le varie scienze il
primo posto spetta alla matematica ». Queste teorie del padre Clavius erano
certamente note a Cartesio, il quaie le fece sue. Un po’ alla volta esse
fermentarono nella sua mente fino ad esplodere nella celebre visione del 1619.
Come s'è detto, Cartesio in un primo tempo effettuò l’applicazione del metodo
matematico alle scienze sperimentali e poi, in un secondo tempo, alla
filosofia. Dopo una decina d'anni di ricerche ininterrotte un nuovo sistema
cominciò a delinearsi con chiarezza nella sua mente, un sistema che si
distingueva nettamente sia da quello di Platone come da quello di Aristotele e
degli Scolastici. Nel 1628 Cartesio si sentiva ormai così sicuro di sé che non
esitò a prendere parte ad una discussione pub- blica, tenuta a Parigi alla
presenza del nunzio pontificio, il cardinale Berulle, e di padre Mersenne, con
alcuni dei massimi filosofi e scienziati del tempo. Con le sue istanze di
chiarezza, rigorosità e precisione in materia di metodo, Cartesio impressionò
profondamente il Berulle, il quale lo invitò a mettere per iscritto le sue
teorie per controbattere gli argomenti degli scettici e degli atei. Nel 1633
Cartesio aveva portato a compimento una vasta opera di fisica e di filosofia,
intitolata /l Mondo, ma la notizia della condanna di Galileo lo indusse a non
procedere alla sua pubblicazione. Da essa stralciò tre trattati (Diottrica,
Meteore e Geo- metria), ai quali appose come introduzione il Discorso sul
metodo, e li consegnò alle stampe nel 1637. Il piano di quest’ultima opera era
già stato definito l’anno precedente. Nel marzo del 1636 Cartesio ne aveva dato
l'annuncio all'amico Mer- senne con queste parole: « L’opera comprenderà
quattro trattati, tutti in francese, e il titolo generale sarà: Progetto di una
scienza universale che 365 La connessione tra le scienze Primato epistemologico
delle discipline matematiche Metodo matematico dalle scienze sperimentali
applicato alla filosofia La chiarezza cartesiana a servizio del dibattito
teologico Il ‘‘Discorso’’ come proposta e come pratica Divisione dell’opera in
sei parti possa elevare la nostra natura al più alto grado di perfezione. Più
la Diot- trica, le Meteore e la Geometria: in cui le più curiose materie,
scelte per prova della Scienza universale proposta dall’Autore, sono spiegate
in modo che possano essere intese anche da coloro che non le hanno mai studiate
». Seguiva un sommario delle materie studiate nei tre saggi. Quando Cartesio
così scriveva a Mersenne, non aveva ancora steso tale parte preliminare. La
compose invece alcuni mesi dopo, nello stesso anno, in autunno, secondo
l'attestazione ch'egli ci fornisce alla fine della III Parte del Discorso. 'In
una sua lettera al padre Vatier confessa ch'egli finì di scrivere il Discorso
mentre, essendo già composto tutto il resto, il libraio pressava perché gli
mandasse quella parte. La quale, è da sup- porre, soltanto allora venne fuori
col titolo, che poi mantenne, di Discorso sul metodo. Intanto, quando nel marzo
del 1637 Mersenne ricevette il pacchetto delle bozze del volume completo,
dovette meravigliarsi di non trovare il preannunciato « quarto trattato », ma
semplicemente un « discorso » e ne scrisse a Cartesio, il quale così gli
rispose: « Non capisco bene ciò che voi obiettate riguardo al titolo: io non ho
messo Trattato, ma Discorso, ch'è come dire Prefazione o Avvertenza, e ciò
perché fosse chiaro ch'io del metodo non pretendo di offrire una trattazione da
insegnare agli altri ma soltanto di parlarne (come di esperienza personale):
perché, come si vede anche da ciò che vi ho detto, esso consiste più nella
pratica che nella teoria, e vi ho inserito qualcosa di metafisica, di fisica e
di medicina per mostrare che tal metodo si estende a ogni sorta di materie ».
Ottenuta l'autorizzazione del re per il libraio, il volume poté finalmente
uscire recando nel frontespizio la dicitura stabilita: « Discours de la Méthode
pour bien conduire la raison, et chercher la vérité dans les sciences ». 2.
Divisione e sintesi dell’opera In apertura del Discorso Cartesio stesso
fornisce al lettore una lucida divisione dell'opera. Essa consta di sei parti
le quali trattano nell'ordine: I. L'esperienza scolastica di Cartesio e il suo
giudizio sulle varie di- scipline studiate al collegio dei gesuiti. II. Le
principali regole del metodo. III. I principi fondamentali della morale. IV. II
dubbio metodico e i fondamenti della metafisica, Dio e l’anima umana. V. Il
corpo umano, spiegazione del movimento del cuore, la differenza che passa fra
l’anima umana e quella delle bestie. VI. Considerazioni sul progresso delle
scienze e motivazioni per la pubblicazione dell’opera in lingua francese
anziché in latino. 366 PRIMA PARTE L'ESPERIENZA SCOLASTICA DI CARTESIO E LA
SCOPERTA DELLA NECESSITÀ DI UN METODO RIGOROSO 1. Necessità del metodo Gli
uomini, che pure sono tutti eguali in fatto di intelligenza (che Car- tesio
chiama « buon senso » o « ragione »), ottengono tuttavia risultati diversi a
seconda del metodo adoperato. Di qui l’importanza capitale del metodo. Ma i
metodi finora usati non sono affatto buoni; per questo i ri- sultati conseguiti
sono stati quasi sempre meschini. Cartesio informa il lettore di avere scoperto
un metodo particolarmente efficace e perciò ha deciso di renderlo pubblico, non
con lo scopo di insegnare a tutti come devono condurre la propria ragione ma
soltanto per mostrare agli altri come egli abbia condotta la sua (pp. 7-10). 2.
La storia della propria educazione e l'utilità dello studio delle materie sco-
lastiche (pp. 10-20) Cartesio racconta che aveva iniziato gli studi dai gesuiti
con la per- suasione che per mezzo delle varie discipline scolastiche avrebbe
potuto acquistare una cognizione chiara e sicura di tutto ciò che è utile alla
vita. Ma dopo alcuni anni di studio si accorse che sebbene l'istruzione scola-
stica gli avesse insegnato molte cose utili ed interessanti, perché tutte le
discipline (storia, poesia, retorica, filosofia, teologia, ecc.) gli avevano
fatto apprendere qualche cosa, non aveva tratto altro profitto... se non quello
di aver scoperto sempre più la sua ignoranza (p. 10). Infatti nessuna
disciplina è capace di insegnare tutto quello che è utile alla vita. Non la
storia che ci dà del passato notizie sempre impre- cise e talora false e ci
lascia completamente ignoranti della situazione presente e futura. Non la
retorica e l’arte poetica, che sono del tutto su- perflue dato che la stessa
cosa si può benissimo dire senza retorica e senza arte poetica. Non le
matematiche, perché « non vedevo ancora il loro vero uso » (p. 16) sebbene lo
dilettassero per la certezza ed evidenza delle loro ragioni. Non l'etica
naturale degli antichi, perché « fabbricata sulla sabbia e sul fango » (p. 17).
Non la teologia, perché non è necessaria per andare in cielo: « la via di esso
non è meno aperta ai più ignoranti che ai più dotti» (p. 18) e non riesce a dissipare
il velo del mistero. Non la filosofia, perché fino ad oggi non è riuscita a
dirci niente di indiscu- tibilmente vero. Non le altre discipline, perché «
siccome esse prendono i loro principi dalla filosofia, giudicavo che non si
poteva aver fabbricato nulla di solido su basi così poco ferme » (p. 20). 3. Lo
studio del mondo attraverso i viaggi (pp. 20-22) Per queste ragioni non appena
l’età gli permise di uscire dalla sog- gezione dei suoi genitori, Cartesio
abbandonò interamente lo studio delle lettere e si mise a viaggiare con lo
scopo di imparare dal libro della na- tura quello che non aveva imparato sui
libri di carta. Però, viaggiando trasse l'impressione che, per quanto riguarda
la morale, le cose stessero come in filosofia: considerando «i costumi degli
altri uomini [...] vi notavo quasi tanta diversità quanta ne avevo rilevata
prima tra le opi- 367 . Esigenza del metodo per il conseguimento del fine
Studio e consapevolezza della propria ignoranza Nessuna disciplina insegna
tutto ciò che è utile alla vita Lo studio di se stesso riesce meglio che non
attraverso viaggi e libri Un solo autore costruisce meglio Necessità della
revisione della propria mente e della propria cultura nioni dei filosofi » (p.
22). Così « imparavo a non credere troppo ferny mente a ciò di cui non ero
persuaso che a cagione dell'esempio e del. l'usanza; e così mi liberavo a poco
a poco da molti errori che possono offuscare la nostra luce naturale e renderci
incapaci di intendere la ra- gione » {(p. 22). 4. Lo studio di se stesso (p.
22) « Dopo che ebbi impiegato alcuni anni a studiare così nel libro del mondo e
a procurare d’acquistare un po’ di esperienza io presi un giorno la risoluzione
di studiare anche me stesso, e di impiegare tutte le forze della mia mente a
scegliere le vie che dovevo seguire. Il che mi riuscì assai meglio, mi sembra,
che se non mi fossi mai allontanato né dal mio paese né dai miei libri » (p.
22). SECONDA PARTE LA SCOPERTA DEL NUOVO METODO E LE SUE REGOLE PRINCIPALI 1.
Ambientazione Terminati gli studi al « La Flèche » (il collegio dei gesuiti),
Cartesio si era arruolato nell’esercito degli Imperiali. Questo tuttavia non
gli impediva di continuare ad occuparsi di filosofia. In particolare, durante
la sosta forzata che l'inverno imponeva alle azioni militari in quei tempi,
aveva tutto l’agio di dedicarsi alla riflessione filosofica, trascorrendo il
tempo accanto ad una stufa, immerso nei suoi pensieri. 2. Prima considerazione
Le opere composte di molti pezzi e fatte da molti maestri sono spesso più imperfette
di quelle cui ha lavorato uno solo. Così si vede che gli edifici che un
architetto ha iniziato e compiuto da solo sogliono essere più belli di quelli
che molti hanno cercato di riadattare, servendosi di vecchie muraglie, che
erano state costruite per altri fini. Altrettanto si può dire delle scienze e
della politica. La ragione per cui c'è tanta im- perfezione nelle scienze e
nelle costituzioni è che esse :sono il prodotto di molte mani diverse (pp.
25-27). 3. Seconda considerazione È vero che non si buttano giù tutte le case
di una città, allo scopo di rifarle in un altro modo e di rendere le vie più
belle; ma si vede che molti demoliscono le proprie case per ricostruirle, e che
anzi talvolta vi sono costretti, quando esse sono in pericolo di cadere da sé,
e le loro fonda- menta non sono ben ferme. Da questo esempio Cartesio trae la
conclusione che sarebbe stato completamente inverosimile proporsi di riformare
tutto il corpo delle scienze e l'ordine stabilito nelle scuole per inse-
gnarle; tuttavia avrebbe potuto riformare la sua mente e la sua culturà,
togliendo via tutte le opinioni raccolte nel passato, per rimetterne in seguito
delle altre migliori o anche le medesime, quando le avesse ag- giustate al
livello della ragione {pp. 27-29). 368 4. Ammonimento Cartesio avverte il
lettore che non intende consigliare a nessuno il suo esempio. Infatti ci sono
due specie di ingegni ai quali non conviene affatto seguirlo: quelli che quando
si sono presi una volta la libertà di dubitare dei principi che hanno ricevuto
e di allontanarsi dal cammino comune non potrebbero mai tenere il sentiero che
bisogna prendere per andare più diritti e resterebbero sviati per tutta la loro
vita; e quelli che, essendo meno capaci di altri di distinguere il vero dal
falso, hanno sufficiente modestia per mettersi alla scuola di altri. 5.
Decisione di procedere alla ricerca di un nuovo metodo, essendo la logica e la
matematica metodi insufficienti — Lalogica serve solo a spiegare ad altri
quello che già sanno. — La matematica è troppo complicata. In entrambi i casi
si tratta di discipline che si riferiscono a materie astrattissime appesantite
da una montagna di regole che ne hanno fatta « un'arte confusa e oscura che
imbarazza la mente, invece, che una scien- za che la coltivi ». 6. Le regole
del nuovo metodo (pp. 35-36) Così finalmente Cartesio si decide a cercare un
nuovo metodo, sem- plice, facile, basato su pochissime regole. E trova
finalmente un metodo che consta solo di quattro regole. Ecco le quattro famose
regole: a) Non accogliere mai nulla di vero, che non si conosca evidentemen- te
come tale: « Non comprendere nei miei giudizi niente di più di quello che si
presentasse così chiaramente e distintamente alla mia mente che io non avessi
alcuna possibilità di metterlo in dubbio ». In questa regola Cartesio indica il
criterio di verità che egli intende adottare: è il famoso criterio della
chiarezza e distinzione. Nei Principia philosophiae esso viene così precisato:
chiamo chiara un'idea che è presente e manifesta a uno spirito attento: come
quando diciamo di vedere chiaramente gli oggetti, allorché essendo presenti
agiscono assai fortemente sui nostri occhi disposti a guardarli. E distinta,
quella che è talmente precisa e diffe- rente da tutte le altre, che non
comprende in sé che ciò che sembra ma- nifestamente a chi la considera come
conviene (Princ. phil. 1, n. 45). b) Dividere ciascuna difficoltà che si
incontra in tante parti quante è possibile... per meglio risolvere le
difficoltà stesse. c) Condurre con ordine i propri pensieri, cominciando dagli
oggetti più semplici per salire a poco a poco, come per gradi, sino alla cono-
scenza dei più composti. d) Far dappertutto delle enumerazioni così complete e
delle rassegne così generali, da non omettere nulla. 7. Fecondità del nuovo metodo
(pp. 37-38) Col nuovo metodo si possono conoscere tutte le cose, purché
soltanto ci si astenga dall'accoglierne alcuna per vera che non lo sia e si
serbi sempre l'ordine che occorre per dedurre le une dalle altre. 369 Cartesio
denunzia i rischi della sua scelta critica Le regole del nuovo metodo: —
chiarezza e distinzione — divisione delle difficoltà — ordine nel pensieri —
completezza delle enumerazioni 8. Applicazione del nuovo metodo alla matematica
Cartesio fa la prima applicazione del nuovo metodo alla matematica per due
ragioni. Anzitutto perché era necessario partire dalle verità più semplici e
più facili. E poi perché tra tutti gli scienziati solo i matematici erano
riusciti fino ad allora a trovare delle dimostrazioni convincenti, « cioè delle
ragioni certe ed evidenti ». 9. ‘Primi risultati Esiti positivi del ‘L'esatta
osservanza di questi pochi precetti che Cartesio aveva scelto, nuovo metodo gli
procurò tale facilità di risolvere tutti i problemi a cui si estendono quelle
due scienze (algebra e geometria), che nei due o tre mesi che impiegò ad
esaminarli, non soltanto venne a capo di molti di essi, che altra volta aveva
giudicato difficilissimi, ma gli parve anche, verso la fine, che poteva
determinare in quelli stessi che ignorava, con quali mezzi e fin dove fosse
possibile risolverli (p. 39). 10. Applicazione del nuovo metodo alla filosofia
Cartesio allora si propone di applicare lo stesso metodo anche alle altre
scienze. «Ma avendo notato che i loro principi dovevano essere at- tinti dalla
filosofia, nella quale non ne trovavo ancora di certi, pensai che bisognava
prima di tutto che io cercassi di stabilirvene LE MASSIME DELLA MORALE
PROVVISORIA E L'ESERCIZIO DEL METODO 1. Necessità di una morale provvisoria
Necessita una Come uno che, dovendo ricostruire in modo diverso la casa dove
abi- morale provvisoria: ta, si provvede di un'altra casa dove abiterà mentre
si lavora alla nuova, — diversità di così occorre al filosofo trovarsi una
morale provvisoria con cui regolarsi comportamento circa fino alla scoperta
della vera. Infatti non è possibile comportarsi verso le È opimiani porca
azioni allo stesso modo come ci si comporta verso le opinioni. Si possono
REAZIONE sospendere le opinioni, ma non si può essere irresoluti nelle azioni.
« E così, giacché spesso le azioni della vita non tollerano nessuna dilazione,
è x una verità certissima che, quando non è in nostro potere discernere le
opinioni più vere, dobbiamo seguire le più probabili » (p. 49). ! Delle quattro
regole: la prima fissa il criterio di verità. Le altre si riferi- scono al
metodo, i cui momenti principali sono due: l’analisi {seconda regola); la
sintesi (quarta regola). i L'originalità di Cartesio sta nella sua
preoccupazione di dare ampio svi- luppo al primo momento, quello dell'analisi,
in modo da preparare alla sin- tesi un terreno solido. Al momento dell’analisi
appartiene la critica laboriosa di tutte le opinioni incerte, accettate dalla
tradizione e dall'ambiente e la di- mostrazione di come si arriva ai primi
principi e alle definizioni (Cartesio rimanda questa dimostrazione alle
Meditazioni). Per Cartesio l'unica intuizione che ha valore è quella
intellettuale; l’in- tuizione sensitiva è fonte di innumerevoli errori e perciò
va scartata. 370 2. | principi della morale provvisoria Primo. Obbedire alle
leggi e ai costumi del proprio paese, praticando la religione nella quale si è
stati istruiti sin dall'infanzia, e regolarsi in ogni cosa secondo le opinioni
più moderate. A giustificazione di questo principio Cartesio adduce la seguente
ragione: « cominciando da allora a non contare per nulla le mie proprie perché
volevo sottoporle tutte all'esame, ero sicuro di non poter far meglio che
seguire quelle dei più assennati ». Egli sottolinea peraltro il carattere
provvisorio di tale accet- tazione: « Fra parecchie opinioni ugualmente
ammesse, io non sceglievo che le più moderate, e anche queste solo in modo
provvisorio, e avrei pensato di commettere un grande delitto contro il buon
senso, se, per il fatto che approvavo allora qualche cosa, mi fossi obbligato
di prenderla per buona, anche dopo che avesse forse cessato di esserlo o che io
avessi cercato di stimarla come tale » (p. 48). Secondo. Essere fermo e
risoluto nelle azioni e opinioni a cui si fosse determinato. « Imitando in ciò
il viaggiatore che trovandosi smarrito in qualche foresta non deve errare
girando da una parte e dall'altra e ancora meno fermarsi in qualche posto, ma
camminare sempre quanto più diritto è possibile in una sola direzione [...]
almeno si arriverà così in qualche parte » (p. 49). : Terzo. Sforzarsi sempre
di vincere se stesso piuttosto che la fortuna, e di cambiare i propri desideri
piuttosto che l'ordine del mondo; e gene- ralmente di abituarsi a :credere che
non c'è nulla che sia interamente nostro tranne i nostri pensieri e perciò non
bisogna affannarsi troppo per le cose esterne. Né questo riesce difficile se
noi « consideriamo tutti i beni che sono fuori di noi come ugualmente lontani
dal nostro potere ». Allora « non avremmo maggior rammarico di mancare di
quelli che sembrano esser dovuti alla nostra nascita, allorché ne saremo
privati senza colpa, di quel che ne abbiamo per non possedere i regni della
Cina e del Messico ». « Ma confesso che c’è bisogno di un lungo esercizio e
d'una meditazione spesso reiterata per abituarsi a guardare da questo punto di
vista tutte le cose » (pp. 49-50). 3. Rassegna delle varie azioni per scegliere
la migliore Cartesio trova che la cosa migliore è « impiegare tutta la vita a
coltivare la ragione e progredire quanto più è possibile nella conoscenza della
verità ». Questa è la migliore occupazione per due ragioni: a) Perché la vita
intellettuale è piena di soddisfazioni. « Avevo provato così elevate soddi-
sfazioni da quando avevo cominciato a servirmi di questo metodo che non credevo
se ne potesse ricevere delle più dolci e delle più innocenti in questa vita »
(p. 51). 9) Perché progredendo nella conoscenza si progre- disce nelle virtù, «
infatti, siccome la nostra volontà non si determina a seguire né a fuggire
alcuna cosa se non secondo il nostro intelletto gliela rappresenta buona o
cattiva, basta ben giudicare per ben fare e giudicare meglio perché si possa
fare anche tutto il proprio meglio » (p. 52). 4. Esercizio del metodo
viaggiando e studiando Dopo essersi così rassicurato di queste massime e di
averle messe da parte insieme alle verità della fede, Cartesio giudica che, per
tutto il 371 — obbedienza alle leggi e ai costumi del proprio paese — scelta
delle opinioni moderate — risolutezza nelle azioni e nelle opinioni determinate
— vincere se stessi piuttosto che l’ordine del mondo — valore della vita
intellettuale Distruggere per arrivare alla verità; conservare ciò che può dare
cognizioni certe Il dubbio metodico come sospensione della conoscenza umana in
generale resto delle sue opinioni, poteva liberamente cominciare a disfarsene.
E poiché sperava di poter venire meglio a capo conversando con gli uo- mini...
si rimise a viaggiare. Intanto, mette in pratica il nuovo metodo, guidato da
due norme: a) non distruggere per distruggere (come gli scet- tici), ma per
arrivare alla verità; b) non distruggere tutto, ma conservare quello che può
servire per arrivare a cognizioni certe. Dopo nove anni di viaggi, per
applicare il nuovo metodo alla filosofia si ritira nella solitudine in Olanda.?
QUARTA PARTE I DUE PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA METAFISICA: IL COGITO E
L'ESISTENZA DI DIO 1. Il dubbio metodico Per uscire dall’incertezza in cui era
stato gettato dalla diversità delle opinioni e costumi, Cartesio decide di
rigettare come assolutamente falso tutto quello in cui potesse immaginare il
minimo dubbio, allo scopo di vedere se gli restasse dopo ciò qualche cosa che
fosse interamente indubitabile. Così decide di scartare: tutta la conoscenza
sensitiva, « siccome i no- stri sensi qualche volta ci ingannano »; tutta la
conoscenza razionale, « poi- ché ci sono uomini che si ingannano ragionando »;
tutta la conoscenza umana in generale: « considerando che tutti i medesimi
pensieri che ab- biamo da svegli ci possono venire anche quando dormiamo, senza
che ve ne sia allora alcuno che sia vero, risolvetti di fingere che tutte le
cose che mi erano mai entrate nella mente non fossero più vere delle illusioni
dei miei sogni » (pp. 60-61).3 ? a) Morale provvisoria e morale definitiva - La
morale definitiva, che Cartesio esporrà più tardi nel libro Les passions de
l’àme è in sostanza iden- tica alla morale provvisoria. L'una e l'altra sono di
marca stoica. Unica diffe- renza: la prima legge della morale definitiva non è
di obbedire alle leggi e costumi del proprio paese, ma di obbedire alla ragione
e adoperarla costan- temente per scoprire quel che è doveroso fare. Inoltre
nella morale defini- tiva è aggiunta qualche precisazione alla terza legge con
l'intento di indi- care quello che è necessario fare per vincere se stessi (e
le proprie passioni) e rendersi completamente indipendenti dal mondo. Per
raggiungere un com- pleto dominio sulle cose e su se stessi (cioè sulle
passioni) serve molto medi- tare su due verità fondamentali: presenza e
provvidenza di Dio e immortalità dell'anima. Facendo questo si può raggiungere
il fine ultimo, la contempla- zione di Dio. b) Errore e male - Cartesio riduce
la questione del male a quella dell'er- rore. Il male consiste nell'errore.
Egli però risolve il problema dell'errore. adoperando i principi tomistici per
la risoluzione del problema del male. Così l'errore come il male è una «
carentia perfectionis debitae » (responsa- bile di tale carenza non è Dio, ma
l'uomo). L'errore però non è causato dal- l'intelletto, ma dalla volontà.
Infatti per Cartesio affermare, dubitare, negare non sono atti della ragione,
ma della volontà. In definitiva l'errore è dovuto a un cattivo uso del libero
arbitrio... :(cfr. E. GIiLson, La doctrine cartésienne de la liberté et la
théologie, pp. 211-235). ? Il dubbio metodico - Il dubbio metodico di Cartesio
non è un dubbio universale, ma è un dubbio parziale. Non è un dubbio universale
anzitutto perché un dubbio universale non è possibile; di fatto poi risulta
chiaro che 372 2. La prima verità indubitabile: il « cogito ergo sum » Ma,
mentre cercava di dubitare di tutto, Cartesio s'accorge di una verità: « mentre
in tal modo volevo pensare che fosse tuito falso, biso- gnava necessariamente
che io che lo pensavo fossi qualche cosa. E no- tando che questa verità: IO
PENSO DUNQUE SONO era così ferma e così sicura che tutte le più stravaganti
supposizioni degli scettici non erano capaci di scuoterla, giudicai che potevo
riceverla senza scrupolo come il principio della filosofia che io cercavo » (pp.
60-63).* Cartesio non intende adottare il dubbio universale. Nella parte terza
ha detto che applicando il metodo del dubbio non bisogna scartare tutto e che
esa- minando criticamente le proposizioni che costituivano il sapere del suo
tempo, « non ne incontrava alcuna sì dubbia che non ne traesse sempre qualche
con- clusione abbastanza certa, non fosse altro che questa: che non conteneva
nulla di certo » (p. 54). Cartesio quindi non intendeva dubitare di tutto, ma
solo tentare di dubitare quanto più fosse possibile per potere con più
sicurezza raggiungere la verità. Così inteso il dubbio è legittimo. Si tratta
infatti solo di una sospensione prov- visoria della nostra conoscenza ordinaria
per arrivare ad una giustificazione critica della medesima; non è perciò
negazione, svuotamento, annullamento del pensiero, ma solo sospensione
dell’assenso. « Ciò che Cartesio già sa, ciò che forma il suo patrimonio
mentale, ricco o povero che sia, è l'immediato, dal quale egli parte, come ogni
uomo, ogni filosofo, parte dal suo. Egli è filosofo precisamente in quanto si
propone di rivederlo criticamente, di discuterlo, di fondarlo, di meditarlo.
L'atteggiamento implicito nel dubbio cartesiano, visto nelle sue giuste
dimensioni, non esagerato, non fatto slittare sul viscido di qualche
espressione del testo, è l'atteggiamento filosofico come tale: non SA cata del
pensatore 'di La Haye » (G. BoNTADINI, Discorso sul me- todo, p V Nelle
Meditazioni la fondazione del dubbio metodico prenderà molto più rilievo: essa
occupa tutta la prima Meditazione. Anche la formulazione verrà radicalizzata
per mezzo del genio maligno. Nelle Meditazioni il dubbio meto- dico rischia di
diventare dubbio scettico. Sulla validità di un dubbio metodico spinto fino a
questi punti l'ermeneutica cartesiana è discorde, Comunque se si può riportarla
alla interpretazione che abbiamo data alla formulazione del Discorso sul metodo
noi riteniamo che sia un procedimento valido. Se, invece, il dubbio diventa un
autentico dubbio positivo (e non sem- plice negativo) universale, esso porta
necessariamente allo scetticismo, e costituisce quindi un procedimento
invalido. ‘ Significato del cocito — A proposito del Cogito è necessario notare
che non si tratta di una dimostrazione ma di una intuizione. Il dunque (ergo) non
ha valore di conseguenza, ma è semplicemente pleonastico. Se il Cogito fosse la
conclusione di una dimostrazione, ossia un entinema, allora sarebbe neces-
sario sottintendere una premessa universale (per esempio: dovunque c'è co-
noscenza c’è esistenza) e non sarebbe quindi più possibile considerare il
Cogito come la prima verità metafisica. Quanto all'esistenza provata dal Cogito
non si può trattare che del. l'esistenza del pensiero, della realtà pensante
(res cogitans) non già della realtà distinta dal pensiero. Così per la sostanza
intuita nel Cogito, si deve dire che essa non è altro che il pensiero stesso e
non già qualche cosa di di- stinto dal pensiero e soggiacente ad esso. Dicendo
del pensiero che esso è una sostanza Cartesio viene ad affermare che il
pensiero è qualche cosa che sta da sé, indipendentemente dalla realtà corporea.
Infatti questo « star da sé » è la sostanzialità. Ecco il motivo della
sostituzione alle espressioni « cogito » e « cogitatio » di queste altre: «
Sub- stantia cogitans» o «res cogitans» («res cogitans» che è contrapposta alla
« res extensa » 0 sostanza corporea). Non solo l'esistenza provata dal Cogito
riguarda soltanto il pensiero ma ha anche carattere momentaneo, contingente,
riguarda l’hic et nunc. Nulla è provato della sua esistenza nel passato e nel
futuro. ‘Perciò il Cogito è un cri- terio universale di verità solo in un senso
molto ristretto. Anzi più che criterio 373 Prima verità indubitabile: dal
dubbio all'evidenza del pensare e dell’esistere Esame della natura del ‘‘sum’’
(l’esistenza) Chiarezza e distinzione come criterio di verità 3. L'essenza
dell'uomo consiste nel pensiero Dal Cogito Cartesio passa a considerare la
natura del « sum » (= l'esi- stenza) che vi aveva intuito e osserva che poteva
fingere di non aver alcun corpo..., ma che non per questo poteva fingere di non
esistere e che, al contrario, dal fatto stesso che pensava a dubitare della
verità delle al- tre cose, seguiva evidentissimamente e certissimamente che
egli era: laddove se appena avesse cessato di pensare, ancorché tutto il resto
di ciò che aveva immaginato fosse stato vero, non avrebbe mai avuto nes- suna
ragione di credere che esisteva; conobbe da ciò che era una sostanza della
quale tutta la essenza o la natura non è che di pensare e che, per, non ha
bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna cosa materiale. « Di modo che
questo io, vale a dire l’anima, per la quale io sono ciò che sono, è
interamente distinta dal corpo ed anzi è più facile a conoscere di questo e
dato pure che questo non fosse non cesserebbe di essere tutto quello che è»
(pp. 63-64)5 4. Il criterio di verità: chiarezza e distinzione Conseguiti
questi risultati sensazionali, Cartesio passa a considerare che cosa è
necessario ad una proposizione per essere vera e certa; perché dal momento che
ne aveva trovata una che sapeva essere tale, pensava che doveva altresì sapere
in che cosa consisteva questa chiarezza. Edavendo notato che non vi è niente in
questo « 10 PENSO DUNQUE SONO » che ci assicuri di dire la verità se non il fatto
di vedere chiarissimamente che per pensare bisogna essere, ritenne di poter
prendere per regola generale che le cose che noi concepiamo ben chiaramente e
ben distin- di verità esso è una illustrazione del criterio di verità. Infatti
per Cartesio il criterio di verità è la chiarezza e distinzione. Come
esemplificazione, il Cogito ha valore, ma non un valore così esclusivo come
credeva Cartesio. Ci sono molti altri principi (per esempio, il principio di
non-contraddizione) in cui la verità risplende immediatamente e possono essere
presi come illustrazione del criterio di verità. Spesso si paragona il Cogito
di Cartesio al si fallor di S. Agostino. Tanto Cartesio come S. Agostino hanno
fatto uso del dubbio metodico, ma in modo diverso e per questo il Cogito ha una
portata diversa del si fallor. Il si fallor mira soprattutto al superamento
dello scetticismo e per S. Agostino, esso non costituisce la prima e unica
certezza. Il Cogito non mira tanto al supera- mento dello scetticismo quanto al
fondamento della verità e costituisce la pri- ma certezza metafisica. 5
Dualismo di spirito e materia, anima e corpo - Questa distinzione è il ri-
sultato di un paralogismo. Cartesio commette un passaggio illecito quando dal
fatto che l'anima può essere conosciuta senza che sia richiesta la conoscen- za
del corpo conclude che essa esiste senza che sia richiesta l’esistenza del
corpo. Dalla constatazione che l’anima è distinta dal corpo è illecito
concludere che essa è un ente diverso dal corpo e capace di esistere senza di esso.
Cartesio « ha fuso e confuso il fatto gnoseologico col fatto ontologico, ha
modificato il cogito nella res cogitans, ha sostituito alla proposizione vera «
io sono nell'atto della mia coscienza » la proposizione non vera « io sono
l’atto della mia co- scienza » (F. MEI, La filosofia del concreto, Marzorati,
Milano, p. 48). Cartesio eviterà di ripetere questo paralogismo nelle
Meditazioni, dove svolge una trat- tazione a parte per provare la teoria del
dualismo tra spirito e materia. Ad ogni modo, il dualismo tra spirito e
materia, anima e corpo è insostenibile non solo dal punto di vista ontologico
(anima e corpo formano una unità sostanziale), ma anche dal punto Si vista’
psicologico, perché l'anima non conosce direttamente se stessa senza l'uso del corpo.
374 tamente sono vere, ma che vi è soltanto qualche difficoltà nel ben discer-
nere quali siano quelle che concepiamo distintamente (pp. 65-68)$ 5.
Dimostrazione dell’esistenza di Dio Trovato il principio fondamentale della
metafisica e il supremo criterio di verità, Cartesio passa a dimostrare
l’esistenza di Dio, e la prova in quattro modi: a) Dal fatto che abbiamo l'idea
di perfetto e non possiamo essere noi la causa di tale idea — « Riflettendo sul
fatto che io dubitavo e che per conseguenza il mio essere non era tutto
perfetto, perché vedevo chiara- mente che era una più gran perfezione conoscere
che dubitare, mi proposi di cercare donde avessi imparato a pensare qualche
cosa di più perfetto che io non fossi, e conobbi con evidenza che doveva essere
da qualche natura che fosse in realtà più perfetta [...j poiché non vi è meno
ripu- gnanza che il più perfetto sia una conseguenza e una dipendenza del meno
perfetto di quel che dal nulla proceda qualche cosa [...] di ma- niera che
restava che essa fosse stata messa in me da una natura che fosse veramente più
perfetta di quel che io non fossi e che anzi avesse in sé tutte le perfezioni
delle quali potevo avere qualche idea, vale a dire per spiegarmi in una parola
che fosse Dio » (pp. 68-69). b) Dal fatto che non mi sono dato io stesso la mia
esistenza — Se è vero che io, pur avendo l'idea di perfetto, non sono perfetto,
vuol dire che non mi sono dato l'esistenza da me, perché altrimenti mi sarei
data un'esistenza perfetta; cioè conforme all'idea che posseggo; solo Dio dun-
que, cioè l'essere perfettissimo, può aver creato me avente l'idea di per-
fetto (p. 70). A questo punto Cartesio fa una breve digressione sulla natura
divina: « Di tutte le cose di cui trovavo in me qualche idea (consi- deravo) se
fosse perfezione o no il possederle, e ero sicuro che nessuna di quelle che
denotavano imperfezione era in Lui, ma che tutte le altre vi erano » (p. 71).
c) Dall'idea di perfetto — « Tornando ad esaminare l’idea che avevo di un
essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa allo stesso modo che è
compreso nell’idea di triangolo che i suoi tre angoli sono uguali a due retti,
o in quella di una sfera che tutte le sue parti sono equidistanti dal centro,
ed anche più evidentemente; e che per conse- guenza è altrettanto certo che
Dio, che è questo Essere perfetto, è o esiste, quanto potrebbe esserlo
qualunque dimostrazione di geometria » (p. 72). d) Dalle conseguenze disastrose
che la negazione dell'esistenza di Dio implica, cioè dal fatto che in tal caso
qualsiasi certezza diviene impos- sibile. « Infatti donde si sa che i pensieri
che vengono in sogno sono più falsi degli altri, visto che spesso non sono meno
vivi e precisi? E anche se i migliori ingegni vi studino quanto più loro
piacerà non credo che pos- sano dare alcuna ragione che sia sufficiente a
togliere questo dubbio, se non presuppongono l’esistenza di Dio. Giacché [...]
anche quella che io testé ho presa come regola, cioè che le cose che noi
concepiamo in modo $ Il criterio di verità proposto da Cartesio suscitò aspre
critiche da parte di molti autori, in particolare da parte di Pascal (che lo
tacciò di raziona- lismo: «ci sono verità che soltanto il cuore può capire ») e
del Vico (che lo accusò di soggettivismo e di superficialità. Al criterio cartesiano
del verum est certum il Vico contrappose il suo verum est factum). 375 Dio
causa dell’idea di perfezione Prova ontologica dell’esistenza di Dio Dio
garante della conoscenza Dio garante della verità Dalla metafisica alla
cosmologia chiarissimo e distintissimo sono tutte certe, non è accettata che
dal fatio che Dio è o esiste, che Egli è un Essere perfetto e che tutto ciò che
è in noi viene da lui » {p. 76) . Funzione psicologica dell’esistenza di Dio
Dopo che la conoscenza di Dio e dell'anima l’ha reso certo di questa regola
(chiarezza e distinzione), Cartesio dice di poter accettare con indu- bitabilè
certezza tutte le altre idee che si presentano col carattere della chiarezza e
distinzione, « perché non è possibile che Dio, che è somma- mente perfetto e
verace » ce le abbia messe in mente per ingannarci (pp. 77-78).8 QUINTA PARTE
VERITÀ DI ORDINE FISICO - NATURA DELL'ANIMA UMANA 1. Il corpo degli animali e
dell’uomo Cartesio ora deduce dalle verità metafisiche dimostrate nella quarta
parte (Cogito ergo sum, ed esistenza di Dio) alcune verità circa il mondo,
adoperando sempre il criterio di verità della chiarezza e distinzione ed ? a)
Dimostrazione dell’esistenza di Dio — La più conosciuta delle prove di Cartesio
è la terza, che è spesso chiamata argomento ontologico. Si chiama argomento
ontologico perché parte dal concetto di Dio per provarne l’esi- stenza.
L'argomento ontologico di Cartesio come quello di S. Anselmo (Deus est esse
cuius maius concipi nequit) è ritenuto invalido dalla maggior parte dei filosofi,
perché l'uomo non ha un'idea adeguata del perfetto, ma solo un concetto
negativo, ricavato dalle cose per viam mnegationis et eminentiae. Cartesio però
sosteneva che l’idea di perfetto non è ricavata dalle cose, ma è un’idea
innata, prodotta da Dio nella nostra mente, perciò capace di rappre- sentare
Dio adeguatamente. Le prime due prove sono cogimolo siche, partono cioè da
fatti che noi espe- rimentiamo. La prima è un’esemplificazione della prova
agostiniana delle verità eterne. b) La natura di Dio — Una delle dottrine più
caratteristiche di Cartesio circa la natura divina è quella che riguarda la
volontà di Dio. Secondo Car- tesio in Dio non v'è alcuna distinzione tra
intelletto e volontà, altrimenti la volontà dovrebbe dipendere dall’intelletto
e non sarebbe più libera. La vo- lontà divina invece è assolutamente libera e
tutto quello che essa fa è un pro- dotto della sua libertà. La conseguenza più
grave di questa dottrina è che anche le verità eterne, per esempio, le verità
matematiche, sono creazione della libera volontà di Dio. Esse tuttavia sono
eterne e immutabili perché la volontà di Dio è eterna e immutabile. * Il
circolo vizioso — Cartesio prima dimostra l’esistenza di Dio valendosi della
regola della chiarezza e distinzione; poi dice che il valore di tale regola
dipende da Dio. Chi garantisce la chiarezza e distinzione, cioè la verità del
mio pensiero? L’esistenza di Dio. Ma chi garantisce l’esistenza di Dio? La
chiarezza e distinzione. Si tratta chiaramente di un circolo vizioso. Cartesio ha
certato di difendersi da questa accusa sostenendo che la veracità di Dio è
invocata solo per dare valore alla memoria. Ma non pare che sia una risposta
soddi- sfacente, perché, nella dimostrazione dell’esistenza di Dio, Cartesio
deve ap- poggiarsi su vari principi che sono accettati adoperando il criterio
della chia- rezza e distinzione (cfr. F. CopLESTONn, History of Philosophy, IV,
pp. 105 e ss.; tr. it., Storia della filosofia, 5 voll, Paideia, Brescia). 376
il metodo geometrico. Si tratta però solamente di un riassunto del libro Il
mondo o Trattato sulla luce. Le due dottrine più importanti esposte in quel
libro sono quella della duce e quella della circolazione del sangue. Esse
vengono riportate per esteso nella quinta parte del Discorso sul metodo. Dal
punto di vista filo- sofico la cosa più interessante di questa parte è la
dottrina della na- tura del corpo animale ed umano. Rispetto al corpo Cartesio
afferma che non c'è alcuna differenza tra uomini ed animali: essi sono tutti
degli automi o macchine semoventi. Il movimento è causato dagli spiriti ani-
mali, « che sono come' un vento sottilissimo o piuttosto come una fiamma
purissima e vivissima che, salendo continuamente in grande abbondan- za dal
cuore nel cervello, si reca di lì attraverso i nervi nei muscoli e dà il
movimento a tutte le membra ». Ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è
l'anima. Gli animali non hanno l’anima, nessun’anima; l’uomo invece ha un'anima
creata da Dio. In pratica, dato che l’anima è invisibile, l'uomo si distingue
dagli animali per due caratteristiche: il linguaggio e la libertà. 1) Gli
animali mai potrebbero usare parole né altri segni compo- nendoli come facciamo
noi per comunicare agli altri i nostri pensieri (p. 98). 2) Anche se essi
facessero parecchie cose bene o forse anche meglio di alcuni di noi, essi «
sbaglierebbero infallibilmente in certe altre, me- diante le quali si
scoprirebbe che non agiscono iper coscienza, ma solo per disposizione degli
organi » (p. 99). 2. Natura dell'anima Al termine della quinta parte Cartesio
indica brevemente qual è la natura dell'anima. Essa in nessun modo può essere
tratta dalla potenza della materia, così come le altre cose delle quali aveva
parlato, ma essa deve espressamente essere creata; e non basta che sia posta
nel corpo umano come un pilota nella sua nave, se non forse per muovere le sue
membra, ma bisogna che essa sia congiunta ed unita più strettamente con esso
per avere, oltre a ciò, sentimenti ed appetiti simili ai nostri e così comporre
un vero uomo (pp. 101-102)? ? a) L'universo cartesiano — L'universo cartesiano
è costituito da due tipi di realtà profondamente diverse: realtà pensante (res
cogitans), e realtà estesa (res extensa). La realtà pensante costituisce il
mondo spirituale; quella estesa costituisce il mondo fisico. I due mondi si
incontrano nell'uomo, ma senza compenetrarsi: essi si toccano appena nella
glandola pineale. b) La definizione di sostanza — Tanto il mondo fisico come
quello spi- rituale contengono molte sostanze, ma sono tutte imperfette, perché
per esistere dipendono da Dio. L'unica sostanza perfetta è Dio e solo a Lui si
può applicare in modo proprio la definizione che Cartesio dà di sostanza: Res
quae ita existit ut nulla re alia indigeat ad existendum. c) Il mondo fisico —
L'essenza del mondo materiale è l'estensione. Il mo- to dà all’estensione
diverse forme. Così dall’estensione, per mezzo del moto, si ottiene l'origine
di tutte le cose. Delle varie proprietà che noi attribuiamo alle cose solo
quelle primarie (spazio, figura e numero) appartengono effettiva- mente ad
esse; quelle secondarie sono dovute ai sensi. (Esempio di un pezzo di cera
odorosa colorata messa sul fuoco: l'odore se ne va, il colore cambia... Resta
solo qualche cosa che occupa spazio, ha qualche figura ed è capace di essere
divisa) (cfr. /I° Meditazione, in Meditazioni filosofiche, Pa- ravia, Milano,
p. 30). Nel Metodo questa dottrina è appena accennata (vedi Parte V, p. 83).
377 Meccanicismo e animismo | caratteri peculiari dell’uomo: linguaggio e
libertà L’anima espressamente creata e strettamente congiunta al corpo cempone
un vero uomo SESTA PARTE RAGIONI DELLA MANCATA PUBBLICAZIONE DE « J{ Mondo » In
questa parte Cartesio dà le ragioni che lo hanno portato a differire la
pubblicazione de Il Mondo già terminato prima del Discorso. Le ra- gioni
principali sono due: timore che il libro potesse essere condannato dalla
Chiesa; il fatto che l'opera non era molto progredita e poteva dare origine a
molte controversie tra gli scienziati. QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE
I. Di quante parti si compone il Discorso sul metodo? 2. Cosa intende Cartesio
per « buon senso »? 3. Che giudizio dà Cartesio della storia e della teologia?
4. Quali sono le quattro regole del metodo cartesiano? 5. Confronta il metodo
di Cartesio con quelli di Aristotele, Galilei, Bacone e Hegel. Quali sono le
somiglianze e le differenze? 6. Cosa intende Cartesio per « chiarezza e
distinzione »? 7. Il criterio delle idee chiare e distinte che valore ha? 8.
Cosa si intende per dubbio metodico? 9. Che differenza passa tra il dubbio
metodico e il dubbio scettico? 10. Che cosa sono le idee innate? Quali sono le
idee innate secondo Carte- sio? Che differenza c’è tra l'innatismo cartesiano e
quello leibniziano? 11. Che funzione svolge il Cogito nel sistema di Cartesio?
12. Qual è la concezione cartesiana dell'uomo? Che rapporti pone Cartesio tra
anima e corpo? Paragona la dottrina di Cartesio cor quelle di Platone, Ari-
stotele, San Tommaso d'Aquino e Spinoza. 13. Quali sono i quattro argomenti con
cui Cartesio prova l'esistenza di Dio? 14. Metti a confronto l'argomento
vniologico di Cartesio con quelli di Sant'Anselmo e Leibniz e con la quarta via
(quella dei gradi di perfezione) di san Tommaso d'Aquino. 15. Quale
considerazione ha Cartesio per îa religione? Pone sullo stesso piano la
religione « filosofica » e le varie religioni positive? 16. Quali sono i
fondamenti della morale cartesiana? 17. Quale è l'essenza del mondo materiale
secondo Cartesio? 18. Tra qualità primarie e secondarie che distinzione pone
Cartesio? 19. Quali sono, a parere di Cartesio, gli elementi che distinguono il
corpo dell'anima da quelio degli animali? 20. Perché si dice che Cartesio è un
razionalista e quali sono i limiti di tale posizione? d) Relazione tra anima e
corpo — L'anima muove il corpo mediante la volontà. Il corpo eccita le
sensazioni dell'anima mediante gli stimoli mec- canici che arrivano al cervello
(glandola pineale). Tuttavia le sensazioni sono atti della sola anima; esse
sono innate, sono prodotte dall'anima stessa in cor- rispondenza a quanto
avviene nel corpo. e) Facoltà dell'anima — Nelle Meditazioni Cartesio ascrive
all'anima tre facoltà: sensazione, immaginazione (fantasia) e ragione. Inoltre
divide le idee in tre classi: avventizie (quelle che dipendono dai sensi}; fattizie
(quelle che dipendono dalla fantasia); innate (quelle che dipendono
esclusivamente dalla ragione). Nei Principi Cartesio ritiene ancora verbalmente
le tre facoltà del. l'anima, ma elimina la classificazione delle idee innate,
fattizie e avventizie, a favore delle sole idee innate. Così però rende inutili
anche due facoltà: la sensazione e l'immaginazione. 378 III. « LA MISSIONE DEL
DOTTO » Fichte (Johann Gottlieb, 1762-1814) 1. Origine e importanza dell’opera
La missione del dotto (Einige Vorlesungen iiber die Bestimmung des Gelehrten),
composto nel 1794, allorché Fichte contava appena 32 anni, è uno dei suoi primi
scritti. Fu preceduto soltanto da Kritik aller Offen- barung (1792), un saggio
che, pubblicato anonimo, in un primo momento era stato attribuito erroneamente
a Kant, ma poi, dopo la smentita e la rettifica di quest’ultimo, aveva fatto
segnalare il nome di Fichte all’at- tenzione del mondo filosofico. La missione
del dotto occupa un posto di capitale importanza non solo nello sviluppo del
pensiero del suo giovane autore, ma.anche nello sviluppo della stessa storia
della filosofia, in quanto segna il distacco di Fichte da Kant, e il
superamento del criticismo in direzione dell’idealismo. A grandi pennellate
Fichte vi traccia tutto il quadro della sua visione idealistica della realtà e
vi enuncia chiaramente tutte le tesi fondamentali del suo idealismo: la
negazione della cosa in sé, l'affermazione del pri- mato assoluto
dell’autocoscienza, la derivazione della realtà materiale dall’Io assoluto come
momento dialettico di quest'ultimo, il ruolo essen- ziale della scienza e della
filosofia nello sviluppo della storia dell'uma- nità, l'impegno etico, politico
e sociale del filosofo. La missione del dotto appartiene ad un gruppo di
scritti abbastanza consistente, in cui Fichte si rivolge ad una vasta cerchia
di lettori, con intento divulgativo. Di qui il suo stile semplice, chiaro,
immediato, fa- cilmente comprensibile anche a studenti di liceo. L'opera
comprende cinque lezioni (Voriesungen) che Fichte tenne agli studenti
dell’Università di Jena, durante l'estate del 1794, ogni domenica mattina dopo
il rito religioso. Gli argomenti trattati nelle cinque lezioni sono i seguenti:
1) la mis- sione dell'uomo in sé; 2) la missione dell'uomo in società; 3) la distin-
zione fra gli stati sociali in società; 4) la missione del dotto; 5) critica
della tesi di Rousseau circa i rapporti tra cultura e moralità. 379 Questa
opera segna il distacco di Fichte da Kant Intento divulgativo dell’opera Senso
della struttura dell’opera e il rapporto dotto- società Ciò che è e non è
l’uomo Confutazione dei materialismo trascendentale L’uomo come fine a se
stesso 2. Divisione e sintesi dell’opera PRIMA LEZIONE LA MISSIONE DELL'UOMO IN
SÉ 1. Introduzione Fichte esordisce enunciando il programma delle sue lezioni.
Esso comprende quattro argomenti principali: a) la missione dell'uomo consi-
derato in se stesso; b) la missione dell'uomo in società; c) la missione del.
l'uomo nelle singole classi sociali; d) la missione del dotto. Alla tratta-
zione di questi quattro argomenti sono destinate le prime quattro lezioni. :In
una quinta lezione esaminerà la teoria del Rousseau circa i rapporti tra
cultura e moralità. A giustificazione dell'ordine indicato, che a prima vista
potrebbe sem- brare poco opportuno, dato che l'obiettivo primario del breve
corso di lezioni è illustrare la vocazione e la missione del dotto (ossia del
filosofo), Fichte dice che siccome il dotto è pensabile soltanto in una
società, oc- corre anzitutto chiedersi quale sia la missione dell'uomo nella
società. E poiché a quest'ultima domanda non si può rispondere, se non si cono-
sce qual è la missione dell'uomo in se stesso, è necessario premettere una
lezione sullo studio della missione dell’uomo considerato in se stesso, come
singolo individuo. Nella parte conclusiva dell’introduzione (pp. 76-77), Fichte
mette in risalto l'importanza del suo argomento. Egli afferma che la missione
del- l'uomo in generale è il primo problema della filosofia, e la missione del
dotto « è l’ultimo problema d'ogni ricerca filosofica ». 2. Natura e missione
dell’uomo in se stesso Prima Fichte spiega quello che l’uomo non è, poi quello
che è. L'uomo, il suo principio spirituale, non è causato dal Non-io. Il
materialismo tra- scendentale, che sostiene il contrario, è falso. Il principio
spirituale del- l'uomo è invece causa del Non-io. Però il principio spirituale
dell'uomo (l'Io puro) non può esistere senza essere qualche cosa (un Io
empirico) e l'Io empirico non può essere qualche cosa senza essere determinato
dal Non-io. Conclusione: « Dicendo perciò che si vuol considerare l’uomo in se
stesso e isolato, non si vuol intendere di considerarlo [...] semplicemente
come Io puro, senza rapporto alcuno con nessuna cosa che sia estranea a questo
suo Io puro. S'intenderà soltanto pensarlo fuori di ogni rapporto con esseri
ragionevoli simili a lui » (p. 79). Tuttavia la natura dell'uomo appare ben
diversa a seconda che si consideri come ragione o come qualche cosa. L'uomo in
quanto ragione è fine a se stesso, è indipendente e attivo: è assolutamente, è
perché è. L'uomo in quanto è qualche cosa è passivo (senziente) e dipendente,
non è fine a se stesso ma ha per fine l’Io puro. Rapporti fra ragione e sensi-
bilità: ambedue devono sussistere l'una accanto all'altra. La ragione non
dev'essere annullata dalla sensibilità. Ma a sua volta non deve sopprimere
quest'ultima. 380 Conclusione: « L'uomo deve essere ciò che è soltanto per
questa ra- gione, che egli è. In altri termini tutto ciò che egli è, deve
essere riferito al suo Io puro, al suo semplice essere come Io, o Iità. Tutto
ciò che egli è, dev'esserlo esclusivamente per questo, che egli è un Io; e ciò
che egli non può essere per questa sola ragione, egli non deve assolutamente
essere » (pp. 81-82). 3. La legge morale dell’uomo considerato in se stesso
Dato che il fine dell'Io empirico è l'Io puro, da questo Fichte deriva le
regole della condotta dell'Io empirico. Dalla natura dell'Io puro egli ri- cava
la condotta dell'uomo considerato in se stesso e le seguenti leggi: a) L'uomo
deve essere sempre uno (coerente) con se stesso, perché l'Io puro è perfetta e
assoluta unità. Ossia, l’uomo non deve contraddirsi, non si deve mai lasciar
determinare da qualcosa di estraneo, cioè dalle cose esterne, perché nell’Io puro
non c'è diversità e perciò non può es- sere determinato da alcuna cosa
estranea, ma è sempre uno ed identico con se stesso. In altre parole, che
Fichte riprende da ‘Kant, l’uomo deve essere determinato in quel. modo, nel
quale avrebbe potuto eternamente essere determinato, cioè senza nessun riguardo
per le cose che lo circon- dano nel tempo, perché l'Io puro agisce come se non
ci fosse il Non-io. Quindi, « agisci in modo che tu possa pensare la massima
della tua volontà come legge eterna per te » (p. 83). b) L'uomo deve cercare di
modificare le cose (che nella loro molte- plicità sembrano irriducibili
all'unità e all'identità), e portarle ad accor- aarsi con la forma pura dei suo
Io. Per questo non basta la sua volontà. Ci vuole anche una certa abilità, e
questa si acquista solo con l'esercizio e la cultura. c) L'uomo deve estirpare
le cattive inclinazioni, dovute all’influsso delia natura quando la ragione non
si era ancora destata. Anche per questo non basta la sola volontà e occorre
abilità, e, perciò esercizio e cultura. La cultura « è l’ultimo e più alto
mezzo per il fine ultimo del- l'uomo, ossia, la sua perfetta coerenza con se
medesimo » (p. 86). 4. Il fine ultimo, il sommo bene, ia perfezione Il fine
ultimo dell'uomo, che Kant chiama Sommo Bene, e Fichte preferisce chiamare
perfezione, è « la perfetta coerenza dell’uomo con se stesso, e, appunto perché
egli possa raggiungere questa coerenza, anche la perfetta coerenza di tutte le
cose esterne a lui (con la sua volontà) » (p. 86). Il fine ultimo, considerato
come coerenza dell'uomo con se stesso {della sua volontà con la volontà dell'Io
puro, cioè del suo vero essere), costituisce il bene morale. Il fine ultimo,
considerato come accor- do delle cose fuori di noi con la nostra volontà,
costituisce /a felicità. Però, osserva Fichte, l’ultimo fine è qualcosa di
assolutamente irraggiun- gibile per l'uomo: è un Sommo Bene, una perfezione che
rimarrà eter- namente irraggiungibile. La missione dell'uomo consiste in
questo: avvi- cinarsi all'infinito, al suo uliimo fine, perfezionarsi
all'infinito. « Egli esi- ste per divenire egli stesso sempre moralmente
migliore, e per rendere tutto ciò che trova intorno a. sé riigliore
sensibilmente e anche [...] moral. mente; e in questo modo fare se stesso
sempre più felice. Questa è la missione dell'uomo in quanto lo si consideri
isolato, e cioè senza relazione con nessun essere ragionevole simile a lui »
(p. 88). 381 L’io come dover essere dell’uomo L’uomo non deve contraddire la
sua identità La cultura come mezzo alla perfetta coerenza dell’uomo a se stesso
ll bene morale come perfetta coerenza dell’uomo a se stesso Ls felicità:
accordo delle cose fuori di noi con la volontà La missione dell’uomo:
perfezionarsi sempre più La società: rapporto reciproco tra gli esseri ragionevoli
| due presupposti della società: la presenza di esseri ragionevoli fuori di noi
— la possibilità di distinguerli dagli esseri irragionevoli tra coscienza
interiore e coscienza esteriore Finalità e libertà: criterio di distinzione
degli esseri ragionevoli LEZIONE MISSIONE DELL'UOMO IN SOCIETÀ 1. Introduzione
— La soluzione dei problemi filosofici non può essere basata sul buon senso
come pretendono i filosofi popolari (Nicolai, Mendelsohn, ecc.), ma su
ragionamenti rigorosi. — Scopo della seconda lettura: « stabilire quale sia la
missione del- l'uomo nella società » (p. 95). — Definizione di società: « Col
termine società intendo designare il rapporto reciproco di esseri ragionevoli
tra loro » (p. 96). 2. Esistenza della società Fichte enumera anzitutto le cose
che la società presuppone per poter esistere e poi formula i problemi riguardo
all'esistenza della società, I presupposti della società sono due: 1) « Che vi
siano esseri ragione- voli fuori di noi »; 2) Che « noi li possiamo distinguere
da tutti quegli altri esseri che sono invece irragionevoli » (p. 96). Perciò
due sono i pro- blemi che riguardano la società: 1) Problema del fondamento
razio- nale della credenza nell'esistenza di altri uomini; 2) Problema del
criterio per distinguere gli esseri ragionevoli dagli esseri privi di ragione.
Quindi Fichte passa a risolvere il problema del fondamento razio- nale della
credenza nella esistenza di altri uomini. Scarta anzitutto una soluzione
ch'egli giudica errata, quella fondata sulla esperienza. Secondo Fichte tale
soluzione è errata per due ragioni: 1) anche i solipsisti (gli egoisti) hanno
l’esperienza di altri esseri ragionevoli, ma non credono alla loro esistenza;
2) l'oggetto dell'esperienza è la rappresentazione, non la cosa in sé (vedi pp.
96, 97, pagine chiarissime!). Al posto della soluzione fondata sull'esperienza,
Fichte propone una soluzione basata sulla esigenza della esistenza di altri
esseri ragio- nevoli perché l'uomo possa raggiungere il suo ideale di perfetta
coe- renza con se stesso. L'uomo, argomenta Fichte, non può raggiungere
l'ideale della coerenza interiore senza mantenere la coerenza esteriore. Ma,
affinché ci sia perfetta coerenza esteriore, per « ciascun concetto che si
trova nell’fo, deve trovarsi nel Non-io l'oggetto corrispondente ». Ora «
nell'uomo si trova anche il concetto di ragione, e di un agire, e di un pensare
alla ragione conforme ». Perciò per tale concetto è necessario che nel Non-io
si trovi l'oggetto corrispondente, cioè è necessario che si trovino degli
esseri ragionevoli. « Tra le sue esigenze (dell'Io) va anno- verata anche
questa: che si trovino, nella realtà a lui esterna, esseri ra- gionevoli simili
a lui » (p. 100). 3. Il criterio per distinguere gli esseri ragionevoli dagli
esseri privi di ragione. Il criterio è duplice: finalità e libertà. Quello
della finalità, da solo, è insufficiente e va integrato con quello della
libertà. Primo criterio: finalità — « Il primo carattere che subito ci si
presenta per riconoscere la ragionevolezza è quello della finalità ». Infatti,
« tutto ciò che porta impresso il carattere della finalità può avere un autore
ra- gionevole » (ib.). Però la finalità è un criterio insufficiente perché è
equi- 382 voco. « L’unificazione del molteplice in un tutto coerente è certo
carattere della finalità ma vi sono parecchie specie di unificazioni consimili
che si lasciano spiegare con semplici leggi naturali (non certo meccaniche, ma
organiche) (pp. 101-102) ». Dove c’è ordine, c'è finalità. Ma l'ordine può
avere cause naturali. Secondo criterio: libertà — Questo è un criterio sicuro:
« qualsiasi unificazione di un molteplice in un tutto coerente, la quale fosse
operata mediante la libertà sarebbe una caratteristica sicura e non equivoca,
che il fenomeno stesso ci offrirebbe della ragionevolezza » in quanto « la na-
tura anche là dove opera secondo fini, opera però secondo leggi neces- sarie;
la ragione invece opera sempre con libertà » (p. 102). Ma, in pratica, è
possibile distinguere se un effetto si produce per mezzo della necessità o per
mezzo della libertà? A questa difficoltà Fichte risponde che non è possibile
avere esperienza della libertà perché la libertà è presupposta a qualsiasi
esperienza. Si può avere esperienza del- l'assenza di costrizione e « questa
non consapevolezza di una cosa esterna si potrebbe anche chiamare
consapevolezza della libertà » (p. 103). Per- tanto, ogni volta che per una
azione io non conosca altra causa, non riesca anzi a supporne nessuna
ali'infuori di una volontà libera, che si decida per motivi ragionevoli
corrispondenti a quelli che hanno guidato la mia volontà libera, allora :potrò
concludere con certezza che si tratta di un'azione prodotta da un essere
ragionevole come me, 4. Società e Stato Secondo Fichte, tra società e Stato vi
è differenza profonda. Lo Stato è qualcosa di contingente e transitorio mentre
la società è qualcosa di necessario e permanente. Quindi «la vita nello
Stato... non può dirsi uno dei fini dell'uomo. Essa è piuttosto un mezzo... per
la fonda- zione di una perfetta società » (pp. 105-106). Quando si arriverà
alla costituzione di una società perfetta allora «saranno divenuti superflui
tutti quei vincoli i quali costituiscono lo Stato » (p. 106). 5. Fine e
missione della società La società è fine a se stessa (p. 107). Però più avanti
(cfr. p. 113), riprendendo lo stesso tema, Fichte dirà che « l’ultimo e più
alto fine della società è la totale unificazione e concordia di tutti i
possibili suci membri ». La missione della società è il perfezionamento della
specie umana per rendere sempre più vicino l'ideale della unificazione. Questo
progressivo perfezionamento è inevitabile. Infatti, « ciascun individuo ha il
suo proprio ideale dell’uomo in genere; tutti questi ideali sono di- versi non
per materia, ma per grado. E ciascun individuo valuta ogni altro, che egli
riconosca conìe uomo, secondo il proprio ideale dell'uomo. Ciascuno desidera in
virtù di quella aspirazione fondamentale di trovare ogni individuo simile al
proprio ideale dell'uomo; lo mette alla prova perciò e lo esperimenta in tutti
i modi. Nel caso poi che lo irovi inferiore a quell’ideale cerca di sollevarlo
alla medesima altezza. in questa iotta tra spirito e spirito vince sempre colui
che è uomo in senso migliore e più elevato » {p-p. 107-108). Con- clusione: «
L'uomo [...] ha la missione di vivere per la società [...]. Questa missione per
la società in generale è [...], tuttavia, in quanto mero im- 383 La ragione
opera secondo libertà Volontà libera: causa dell’azione dell’essere ragionevole
Stato, mezzo per giungere ad una società perfetta Missione della società:
perfezionamento della specie umana Rapporto tra morale sociale e morale
individuale Coordinazione delle volontà Unità perfetta degli uomini come
dell’uomo pulso, subordinata a quella legge più alta della stabile coerenza con
noi stessi » (p. 109). 6. La morale sociale fondamentale è la coerenza
dell’uomo con se stesso. Da questa legge su- prema della morale individuale
Fichte deduce le seguenti leggi della morale sociale: a) L'impulso alla
socievolezza non deve entrare in contraddizione con se stesso. Questo
accadrebbe se l'uomo trattasse gli esseri ragione- voli da schiavi. Infatti la
ragionevolezza consiste nella relazione reciproca, e quindi l'impulso alla
socievolezza è rivolto alla relazione reciproca. Ma se ci comportiamo verso gli
altri uomini da padroni « mettiamo il nostro impulso alla socievolezza in
contraddizione con se medesimo » (p. 110). Quindi la nostra condotta non deve
mirare alla subordinazione degli altri, ma alla coordinazione della nostra
volontà con quella dei no- stri simili. « Chiunque si ritiene padrone degli
altri uomini è egli stesso uno schiavo » (p. III). b) Non adoperare mai gli
altri esseri ragionevoli come mezzi per i propri fini. « È lecito all'uomo
usare le cose irragionevoli come mezzi per i suoi fini; ma non gli è lecito
agire nello stesso modo con gli esseri ragionevoli » (p. III). c) Adoperarsi
perché tutti gli altri uomini raggiungano l’ideale della perfezione. 7. Il fine
ultimo e la missione dell'uomo nella società Il fine ultimo dell’uomo in quanto
essere socievole è l’unità perfetta’ con gli altri individui. Però anche questo
fine, come anche quello della perfetta coerenza con se stesso, è
irraggiungibile. « Se tutti gli uomini potessero diventare perfetti e
raggiungere così il loro più alto e supremo fine, essi sarebbero allora
totalmente simili l'uno all’altro; formerebbero anzi un solo essere, un solo
soggetto », cesserebbero di essere uomini per essere Dio (p. 113). La missione
dell'uomo in società è il progressivo avvicinamento al- l'ideale dell'unità.
Fichte chiama questo indefinitivo avvicinamento uni. ficazione. 8. L'educazione
alla socievolezza Per realizzare la missione dell’unificazione occorre una
duplice abi- lità: abilità nel dare ossia nell’agire sugli altri in quanto esseri
liberi; abilità nel ricevere. LA DISTINZIONE TRA GLI STATI SOCIALI 1.
Introduzione Dopo aver studiato la missione dell’uomo in se stesso e nella
società, Fichte dovrebbe ora passare allo studio della missione del dotto.
Però, 384 poiché il dotto non è solo uno dei membri della società, ma è altresì
un membro di un determinato stato sociale, Fichte deve premettere allo. studio
della missione del dotto, lo studio dell'origine della diseguaglianza tra gli
uomini, che è il presupposto della distinzione tra gli stati sociali. 2. La
diseguaglianza tra gli uomini Nella lezione precedente Fichte ha mostrato
l’esistenza di fatto della molteplicità degli esseri ragionevoli, ma non la
possibilità di tale fatto. Ora, nella terza lezione, egli mostra che la molteplicità
e la diversità degli Io empirici si fonda, in ultima analisi, sull'influsso che
il Non-Io finito esercita sopra gli esseri ragionevoli finiti: « Il Non-Io,
come quel fonda- mento dell'esperienza che è indipendente da noi, e che può
anche chia- marsi natura, è molteplice; nessuna sua parte è perfettamente
simile a nessun'altra [...]. Quelle parti diverse agiranno perciò sullo spirito
umano in modo diversissimo e non potranno mai sviluppare in egual modo le
capacità e le disposizioni. Da questi diversi modi di agire della natura
nascono gli individui, e vien formata quel che in ciascuno di essi so- gliamo
chiamare la loro semplice natura empirica individuale » (p. 126). Si tratta
perciò di una diseguaglianza inevitabile: 1) perché non dipende dalla nostra
volontà essendo causata dal Non-Io; 2) perché l'ideale della coerenza, il
quale, come s'è visto, riporterebbè gli esseri ragionevoli all'unità, è
irraggiungibile. Tuttavia mediante la socievolezza si deve fare tutto il
possibile per ridurre le diseguaglianze ed eliminare le differenze. « E qui si
presenta l'efficacia dell'impulso alla socievolezza, il quale è diretto al
medesimo fine e diventa mezzo per quell’avvicinamento all'infinito che la legge
da noi pretende ». L'impulso alla socievolezza comprende sia l'impulso alla
partecipazione, cioè l'impulso a dare, sia l'impulso a ricevere (pp. 128-129).
Conclusione: « Così, per opera della ragione e della libertà viene corretto
l'errore che la natura ha commesso » (p. 129). « La ragione si tro- va
impegnata in una lotta senza tregua con la natura; né questa guerra potrà mai
avere termine, se pure non dovremo diventare iddii. Tuttavia potrà e dovrà
diventare sempre più debole l'influsso della natura e sem- pre più forte invece
quello della ragione » (pp. 130-131). Questa lotta con- tro la natura fa
nascere una nuova solidarietà tra gli uomini e li stringe assieme come a
formare un nuovo corpo (p. 131). 3. La scelta dello stato [La natura fornisce
ogni uomo di particolari impulsi, o attitudini. Si sceglie uno stato quando si
sceglie di sviluppare una certa attitudine. Facendo questa scelta « io
stabilisco una volta per tutte di non tener più conto da allora in poi di certe
opportunità che la natura forse potrebbe fornirmi, e di applicare invece
esclusivamente tutte le forze e le qualità naturali allo sviluppo di una sola,
o magari di parecchie, ma sempre ben determinate attività » (p. 133). 4. La
scelta dello stato non è obbligatoria, ma jibera La scelta dello stato non è
obbligatoria, ma libera perché se fosse ob- bligatoria, allora dovrebbe essere
possibile « dedurre dalla suprema 385 Molteplicità e diversità degli ‘‘lo’’
fondate sul “non-lo”’ Gli individui originati dai diversi modi di agire della
natura La socievolezza come riduzione Libertà e ragione in lotta contro
l’errore della natura Scelta di uno stato di vivere e sviluppo di determinate
attitudini Scelta nella libertà Scelta di uno stato: atto di libertà e
restituzione alla società di quanto Partecipazione al perfezionamento
dell'umanità e immortalità legge razionale l'impulso il quale spinga alla
scelta di uno stato allo stes- so modo con cui abbiamo dedotto riguardo alla
società un impulso ana- logo ». Ma la legge suprema dice soltanto: « Educa
tutte le tue attitudini completamente ed uniformemente per quanto ti è
possibile. Essa non arriva a determinare se io debba esercitare quelle mie
attitudini imme- diatamente sulla natura o solo attraverso la mediazione degli
altri uo- mini: la scelta perciò si trova, a questo riguardo, interamente
lasciata alla mia prudenza » (pp. 134-135). « La legge non vieta di scegliere
uno stato; neanche però comanda [...]. Mi trovo sul terreno del libero
arbitrio: mi è semplicemente lecito di scegliere uno stato » (p. 135). Tuttavia
la scelta dello stato è consigliabile perché ogni uomo ha il dovere di
restituire alla società quanto ha da essa ricevuto. Questo è facile se si
sceglie uno stato. Nessuno ha diritto di lavorare per la propria soddisfazione
soltanto. « Questo non è lecito. Egli deve almeno sforzarsi di pagare alla società
il suo debito; deve occupare il proprio posto; deve fare almeno ogni tentativo
per elevare in qualche modo il grado di perfezione della specie che tanto ha
lavorato per lui » (p. 136). Per raggiungere questo fine, due vie gli si aprono
davanti: o cercherà di elaborare la natura in ogni sua parte, ma questa è
un'impresa impos- sibile. Oppure affronterà solo una porzione determinata della
natura: quella della quale gli sia forse più accessibile tutta la elaborazione
prece- dentemente compiuta, quella per la elaborazione della quale egli forse
dalla natura e dalla società fu già nel tempo anteriore specialmente for- mato.
Questa seconda via è senz'altro la migliore. Quando uno si dedica a questa
speciale porzione, egli ha scelto il proprio stato. Conclusione: « La scelta di
uno stato è una scelta per mezzo della libertà; perciò nessuno deve essere
costretto ad abbracciare uno stato, come nessuno deve essere escluso da uno
stato. È però una scelta consi- gliabile perché la particolare abilità che uno
ha è in un certo senso un prodotto, un legittimo possesso della società, e
ognuno ha il dovere di restituire alla società quello che da essa ha ricevuto
secondo le proprie possibilità ». 5. La partecipazione al perfezionamento
dell'umanità assicura come premio l'immortalità Qualcuno si chiederà: che
vantaggio ha l'individuo a lavorare per il perfezionamento dell'umanità?
Secondo Fichte ha due vantaggi: è di utilità agli altri: «il felice pro- gresso
di un membro è infatti non meno felice progresso degli altri » (p. 140); è di
utilità a se stesso: si assicura infatti l'immortalità. Ogni uomo è « un anello
necessario della catena, la quale dalla generazione del primo uomo, avanza
verso la piena consapevolezza della sua propria esi- stenza nell’eternità » (p.
140). Ogni uomo può avvicinare di più alla sua perfezione quel tempio di- vino
che i suoi predecessori furono costretti a lasciare interrotto. È vero che ogni
individuo morirà. Ma se egli partecipa a questa sublime im- presa non si
estinguerà completamente, perché la morte non può inter- rompere la sua opera,
giacché la sua opera, mentre deve essere terminata, non può essere terminata
nel tempo. Egli è eterno. LA MISSIONE DEL DOTTO 1. Introduzione È ora
necessario passare a parlare della missione del dotto, « una missione molto
onorevole, molto elevata, nettamente superiore a quella degli altri stati » (p.
148). Forse, il fatto che sia un dotto innanzi a dotti in via di formazione, a
parlare della missione del dotto, potrebbe causare imbarazzo (timore di
offendere gli altri stati, di apparire superbo ecc.). Ma se questo ci
trattenesse dal nostro compito, peccheremmo di falsa modestia. Non c'è infatti
nessun pericolo di insuperbirsi, né di offendere gli altri se l'esposizione
della missione del dotto viene fatta in modo oggettivo e si tiene presente che
« non lo stato, ma la degna afferma- zione di esso, nobilita l’individuo ». Non
lo stato, ma il perfetto compimento del proprio dovere è quello che importa.
Dopo questo preambolo Fichte mostra la necessità di uno stato speciale, d'una
professione particolare, quella del dotto, muovendo dalla definizione di
società perfetta. A suo giudizio è perfetta quella so- cietà in cui si è
provveduto « allo sviluppo e alla soddisfazione di tutti i bisogni, e anzi al
loro uguale sviluppo e alla loro uguale soddisfazione » {p. 151). Questo non è
possibile senza la professione del dotto. 2. La società perfetta richiede lo
stato (la professione) del dotto La società perfetta ha bisogno di tre cose cui
può provvedere una sola professione, quella del dotto: 1) Perfetta conoscenza
dell'uomo nella sua interezza, delle sue atti- tudini, di tutti i suoi impulsi
e bisogni (perché senza tale conoscenza è im- possibile provvedere allo
sviluppo uguale di tutte le attitudini). Questo è l'oggetto della filosofia. 2)
Conoscenza dei mezzi per sviluppare Ie attitudini e soddisfare i bisogni
(perché la semplice conoscenza delle attitudini e dei bisogni, senza la
conoscenza dei mezzi sarebbe vuota e inutilissima). « Con quella conoscenza dei
bisogni deve dunque andare unita la conoscenza dei mezzi per soddisfarli; e
questa conoscenza dovrà legittimamente essere posse- duta dal medesimo stato
sociale, dato che una conoscenza senza l’altra non può mai arrivare ad essere
perfetta, né tanto meno viva ed efficace » (p. 153). La conoscenza dei mezzi è
l'oggetto della scienza filosofico- storica. 3) Conoscenza del grado di cultura
in cui si trova in un determinato momento storico una società e quale grado
essa dovrà raggiungere per primo partendo da quello che ora occupa; e infine di
quali mezzi essa possa disporre per questo fine. Questo è l'oggetto della
scienza storica. Conclusione: «La sintesi di queste tre forme di conoscenza
costi- tuisce quella che si chiama, o almeno ciò che esclusivamente dovrebbe
chiamarsi dottrina » (pp. 154-155), e lo stato di coloro che si dedicano allo
studio della dottrina, si dovrebbe chiamare stato (o professione) dei dotti. 3.
Definizione del dotto « Dotto si chiama colui che all'acquisto di tali
conoscenze (filosofica, filosofico-storica e storica) dedica la sua vita» (p.
155). 387 Lo stato del dotto e la società perfetta La missione del dotto e la
dottrina: — filosofia — scienza filosotico- storica - — scienza storica Il
dotto e le sue regole di vita: elevare il grado delle scienze; agire con piena
moralità; sviluppo della socialità; essere maestro dell'umanità; essere guida
nelle circostanze particolari; essere modello eccellente II dotto sacerdote
della verità 4. La missione del dotto « Così ci si rivela finalmente la vera
missione dello stato dei dotti; tale missione consiste nella suprema vigilanza
sopra il progresso reale della stirpe umana in genere e nell'attività
continuamente diretta a promuovere questo progresso » (p. 155), specialmente il
progresso delle scienze: infatti « dal progresso delle scienze dipende in modo
immediato il progresso del genere umano. Chi ferma quello, ferma questo » (p.
156). 5. La morale del dotto (La morale professionale) Le principali leggi che
regolano la vita del dotto sono le seguenti: — « Sforzarsi per portare a un
grado più elevato le scienze, e in parti- colare quel ramo della scienza che
egli ha prescelto », altrimenti il dotto si mette in contraddizione con la sua
missione che consiste appunto nel promuovere il progresso delle scienze. Questa
legge è dedotta dalla suprema legge della morale individuale
(non-contraddizione, unità- coerenza). — Nella propria attività non deve
adoperare mai mezzi che non siano perfettamente morali; il dotto non cadrà mai
nella tentazione di far ac- cettare agli uomini le convinzioni proprie con
mezzi coercitivi, con l'uso della violenza fisica. Questa legge è dedotta dalla
suprema legge della morale sociale (coordinazione e non-subordinazione). — «
Sviluppare in se stesso quanto più gli è possibile le disposizioni socievoli,
la capacità di ricevere e quella di comunicare » (p. 160), perché il dotto è
destinato alla società, « esiste in virtù della società e per il vantaggio
della società » (ib.). Questa legge è dedotta dalla missione del- l'uomo nella
società (che consiste nel perfezionamento della società attra- verso la
politica del dare e del ricevere). — « Deve portare gli uomini alla
consapevolezza dei loro bisogni, alla conoscenza dei mezzi atti a soddisfarli »
(p. 161). È possibile attuare que- sta legge? Sì, perché gli uomini hanno
fiducia nella dottrina e abilità degli altri; inoltre tutti gli uomini hanno un
certo senso di verità. Da questa legge il dotto è costituito maestro
dell'umanità. Si può dunque affermare che il dotto, secondo quel concetto di lui
che finora è stato sviluppato, è per la sua missione stessa maestro
dell'umanità. — « Il dotto non deve soltanto istruire gli uomini sopra i loro
bisogni e sopra i mezzi necessari per soddisfarli in generale. Deve anche
guidarli, in particolare, in un determinato tempo e in un determinato luogo, a
prendere coscienza dei bisogni che si presentano in quelle particolari
circostanze e a scoprire quei mezzi particolari che servono per raggiun- gere i
fini in certo modo imposti dalla situazione presente » (p. 163). Da questa
legge il dotto è costituito educatore (guida) dell'umanità. — Il dotto infine
deve dare buon esempio, deve essere un modello perché il dotto « deve essere
l'uomo moralmente migliore della sua età » {p. 167). Da questa legge il dotto è
costituito modello dell'umanità. Conclusione: Fichte conclude la quarta lezione
col seguente pane- girico sulla missione del dotto: « Questo è l'ufficio a cui
sono chiamato, a rendere testimonianza della verità. Nulla importano [...] la
mia vita e la mia sorte, ma l'ufficio che io compio ha un'importanza infinita.
Io sono un Sacerdote della verità. Appartengo alla sua milizia; ad essa ho
prestato giuramento di fare, di osare, di soffrire tutto fedelmente per lei! »
(p. 168). 388 QUINTA LEZIONE (CRITICA DELLE AFFERMAZIONI DI ROUSSEAU ÌNTORNO
ALL'INFLUSSO DELLE ARTI E DELLE SCIENZE SOPRA LA FELICITÀ DELL'UOMO 1.
ìntroduzione ‘Per la scoperta della verità, dice Fichte, la confutazione degli
errori opposti non è di considerevole importanza. La critica degli errori, però,
è sempre di grande utilità per mettere meglio a fuoco la verità già sco- perta:
« Il confronto della verità con gli errori costringe ciascuno di noi ad
osservare i caratteri distintivi dell'una rispetto agli aitri; e ci conduce a
formare un concetto più perspicuo e meglio definito della verità stessa » (p.
136). 2. L'errore di Rousseau Secondo Rousseau il fine dell'uomo è
raggiungibile solo nello stato di natura. La civiltà, la cultura (lo stato dei
dotti) « costituiscono se- condo lui la sorgente e nello stesso tempo la
espressione più completa della corruzione umana » (p. 177). Questo è in diretta
e completa con- traddizione con tutto l'insegnamento di Fichte, che « ha
riposto la mis- sione della umanità nel progresso continuo della cultura e
nello sviluppo parallelo e continuo di tutte le sue attitudini e dì tutti i
suoi bisogni » (p. 177). 3. Critica dell'errore di Rousseau Fichte fa
dell'errore di Rousseau una duplice critica. Anzitutto egli rileva che,
nonostante la sua dottrina secondo cui la felicità è raggiungibile solo nello
stato di natura, Rousseau ha educato le proprie attitudini in un grado molto
raffinato; e coll'educazione che ha ricevuto da questo alto grado di cultura
egli si adopera quanto può a convincere l'umanità della giustezza delle sue
affermazioni. Quindi, « le sue azioni contraddicono in modo flagrante i suoi
principi ». Poi, fichte svolge una critica molto dettagliata della dottrina di
Rousseau. Gli argomenti principali sono i seguenti: — La dottrina di Rousseau
non è dedotta « per via meramente razio- cinativa, da un principio più
fondamentale ». Infatti « su nessuna que- stione il Rousseau ha approfondito la
sua ricerca fino a raggiungere gli ultimi fondamenti di tutto il sapere umano »
(pp. 178-180). — Tutto quello che dice Rousseau si fonda sul sentimento e non
sulla ragione e quella del sentimento è una conoscenza malsicura, in cui il
vero si trova commisto al falso, « perché ogni giudizio fondato sul sen-
timento greggio e immediato presenta come equivalenti cose che non sono punto
tali » (p. 180). — Tuttavia la deduzione delle conseguenze non viene fatto da
Rous- seau secondo le leggi del sentimento, ma secondo quelle della ragione: «
Se egli avesse lasciato al sentimento un influsso anche sulla deduzione delle
conseguenze, il sentimento l'avrebbe poi riportato sulla strada giu- sta, dalla
quale prima l’aveva sviato » (p. 181). — La dottrina di Rousseau anziché avere
una base razionale ha una motivazione psicologica: la constatazione che il suo
alto ideale del dotto 389 Confutazione degli errori e focalizzazione delle
verità scoperte Critica a Rousseau: — non raggiunge i fondamenti primi del
sapere — deduce secondo le leggi della ragione e nor del sentimento La dottrina
dello stato di natura ha conseguenze disastrose Due incompatibilità:stato di
natura e indipendenza dai Bisogni Con il ‘’non-lo’’ si ha l’ideale di perfetta
coerenza Rousseau: energia gel sopportare, fiuttosto che energia dell’agire non
trovava alcuna attuazione nella realtà tra i suoi contemporanei; an- zi, i dotti
del suo tempo mettevano il loro ingegno a servizio dei soldi, degli onori, e
delle ricchezze, e cercavano di far passare come virtù la corruzione degli
uomini. Questa dolorosa constatazione spiega la sua avversione per la cultura e
il suo odio per l'umanità (pp. 180-185). « Ecco donde sorge nel Rousseau
l'aspirazione allo stato di natura. Nello stato di natura, così come egli lo
intendeva, le attitudini proprie della umanità non dovrebbero ancora essersi
sviluppate; non dovrebbero anzi nep- pure essersi manifestate. L'uomo non
dovrebbe avere nessun bisogno oltre a quello della sua natura animale; dovrebbe
vivere come le bestie vivono nei campi sotto i suoi occhi. E certamente in uno
stato simile non troverebbe posto nessuno di quei vizi che avevano acceso l'ira
del Rousseau. L'uomo, in quello stato, mangerà quando avrà fame e berrà quando
avrà sete. Una volta saziato non avrà nessun interesse a pri- vare gli altri di
quel nutrimento che egli non può in quel momento utiliz- zare » (p. 186). — La
dottrina dello stato di natura come stato ideale è inaccettabile per le sue
disastrose conseguenze. « Certo il vizio viene in questo staio di- strutto
totalmente, ma col vizio viene distrutta la virtù e senz'altro la ragione.
L'uomo diventa allora un animale » (p. 187). — Lo stato di natura rende
impossibile il conseguimento del fine che Rousseau si propone, quello di «
riflettere sopra la sua missione e sopra i suoi doveri per poter così
nobilitare se stesso e i suoi fratelli in uma- nità » (p. 189). — Rousseau vuole
due cose incompatibili: a) il ritorno allo stato di natura; b) l'indipendenza
dell'uomo dai bisogni della sensibilità. Queste due cose sono incompatibili
perché si trovano in proporzione inversa. Infatti, «quanto più la ragione
estenderà il suo dominio, tanto meno l'uomo avrà di bisogno » (p. 190). —
‘Rousseau si raffigura come qualche cosa che noi siamo già stati quello che
invece dobbiamo diventare; si rappresenta il fine che noi dob- biamo
raggiungere corne qualche cosa che noi abbiamo perduto (p. 191). — Rousseau
dimentica che l'umanità si può, anzi si deve avvicinare a questo stato soltanto
attraverso la sollecitudine, la fatica, il lavoro. È attraverso la progressiva,
laboriosa conquista del Non-io (natura) che l’uomo realizza il suo ideale di
perfetta coerenza, «l'aspirazione di essere simile a Dio » (p. 192). Ma l'uomo
è, quanto alla sua natura, pigro e inerte. Ecco come nasce la dura battaglia
tra il bisogno e la pigrizia naturale; il primo vince, ma la seconda si lagna
amaramente, non il biso- gno è l'origine del vizio; il bisogno è invece lo
stimolo che spinge alla attivita e alla virtù. L'origine del vizio è
nell'inerzia naturale. « Non v'è per l'uomo nessuna salvezza, finché questa sua
inerzia naturale non sia stata combattuta e sconfitta; finché l'uomo non
riponga nell'attività, e soltanto nell'attività, tutte le sue gioie e tutto il
suo piacere » (pp. 192-193). — «In definitiva lo sbaglio di Rousseau è il
seguente: aveva anche lui urna certa energia, ma era piuttosto l'energia del
sopportare che non l'energia dell'agire (l'energia di piangere invece di
operare). Egli è l'uomo della sensibilità sempre sofferente, ma non è nello
stesso tempo l’uomo dell’attività in lotta. « La lotta della ragione contro le
passioni, la vittoria strappata a poco a poco [...] tutto questo egli lo
nasconde ai nostri oc- chi » (p. 195). 390 Conclusione: Fichte conclude la
quinta lezione con una infuocata esortazione a fuggire l'esempio di Rousseau: «
Agire! agire ancora. Questa è Ja ragione per la quale noi esistiamo » {D. 196).
QUESTIONARIO DI VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Per chi fu scritto La missione del
dotto? 2. Quante e quali sono le parti di La missione del dotto? 3. Con quali
argomenti Fichte respinge il materialismo e fonda l'idealismo? . Tra Io-puro e
Io-empirico che rapporti pone Fichte? Confronta la dot- trina fichtiana con
quelle di Schelling e Hegel. 5. Che cos'è il non-Io? Che atteggiamento assume
Fichte nei confronti del non-Io? Metti a confronto il pensiero di Fichte su
questo punto cor quello di Spinoza. 6. Quali sono secondo Fichte gli elementi
caratteristici, essenziali del. l’uomo? 7. A parere di Fichte, è possibile
esperire la libertà degli aitri? 8. Da che cosa deduce la necessità degli stati
sociali, ossia delle vatie pro- fessioni? Confronta la dottrina fichtiana
sull'origine della società con guelie di Aristotele, Hobbes, Spinoza,
Rot:sseau. 9. Su che cosa fonda Fichte il progresso deila società? 40. Cosa
intende Fichte per scienza filosofica, filoscfico-storica e storica? Cosa
insegna sullo stesso argomento nelle altre opere? 11. Chi è il dotto e quali
sono i suoi compiti? 12. Quali sono le principali leggi dell'etica individuale,
sociale e professio» nale? Confronta i principi etici di Fichte con: quelli di
Kant. 13. Secondo Fichte a quale immortalità può aspirare l'individuo? Può spe-
rare nell'immortalità individuale? Paragona la dottrina jichtiana sull’immor-
talità con quelle di Platone, Spinoza e Kant. 14. Quali sono le critiche più
acute che Fichte muove a Rottsseati? LS 391 Rivoluzioni e trasformazioni socio-
politiche agli inizi del XIX secolo L’opera nasce in occasione del primo
Congresso internazionale della ‘Lega dei Giusti” (1847) Engels invita Marx a
formulare l’opera come un catechismo IV. il « MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA »
K. Marx (1818-1883) e F. Engels (1820- 1895) 1. Origine dell’opera Quando nel
1848, Marx e Engels scrissero il Manifesto tutta l'Europa sì trovava in stato
di agitazione: una nuova ondata rivoluzionaria la scuoteva da capo a piedi dopo
quelle del 1789, del 1821 e del 1830. In conseguenza delle precedeni
rivoluzioni le strutture politiche della società avevano già subito profonde
trasformazioni: in varie nazioni l'assolutismo aveva dovuto cedere il posto al
parlamentarismo e alla de- mocrazia e quasi ovunque l'aristocrazia era stata
soppiantata dalla bor- ghesia. Solo il proletariato continuava ad essere
oppresso e sfruttato come per il passato, anzi più ancora che nel passato. In
effetti verso la metà dell'Ottocento !e sue condizioni di sfruttamento e
asservimento avevano toccato il punto estremo. Ma l'atmosfera rivoluzionaria
che stava attraversando l'Europa fece credere a Marx e a Engels che l'ora fosse
propizia anche per la libera- zione del proletariato, mediante la soppressione
del capitalismo e l’avven- to del comunismo. Essi erano del parere che « la
rivoluzione borghese in Germania, compiendosi in condizioni di grande progresso
della civiltà europea e con un proletariato più progredito che non ci fosse
stato nella rivoluzione inglese e francese, avrebbe rapidamente preparato la
rivo- luzione proletaria » (E. Cantimori Mazzomonti), la quale si sarebbe
conclusa con la conquista del potere da parte della classe operaia. La
circostanza storica immediata che indusse Marx e Engels a com- porre il
Manifesto fu il primo congresso internazionale della Lega dei giusti (un
movimento operaio d'origine inglese, ma che contava seguaci in tutta l'Europa)
ai primi di giugno del 1847. In quella occasione, Engels aveva proposto di
cambiare la denominazione della Lega in « Lega dei comunisti ». Il suo
suggerimento venrie accolto. Presidente della nuova comunità di Bruxelles fu
eletto Karl Marx. Nella seconda metà di ottobre Marx fu invitato a partecipare
personalmente al secondo congresso, nel quale sarebbe stata discussa anche la
professione di fede politica della Lega. Di questa professione di fede, nei
mesi che intercorsero ira i due ‘congressi si occupò soprattutto Engels, ma
senza poriare a compimento la stesura del saggio. Poco prima della partenza per
il congresso egli scriveva a Marx: « Pensaci un po’ tu alla professione di
fede. Credo sia la miglior cosa abbandonare la forma di catechismo e intitolare
la cosa: Manifesto comunista ». Verso la fine di novembre Marx raggiunse Engels
a Londra per partecipare al secondo congresso della Lega. { principi pro-
grammatici e tattici suoi e di Engels furono accettati, e il congresso in-
caricò entrambi di stendere il Manifesto. Appena tornato a Bruxelles e cioè a
metà dicembre del 1847, Marx si mise al lavoro. Verso la fine di gennaio il
manoscritto era pronto e fu spedito a Londra. La stampa del 392 Manifesto si
protrasse per quasi tutto il mese di febbraio. Pochi giorni prima dello scoppio
della rivoluzione, il Manifesto del partito comunista uscì dalla stamperia di
J.E. Burghard, in Londra, in 30 pagine di formato 8°. Sul frontespizio non
figura nessuna indicazione dei nomi degli au- tori: solo il titolo,
l’indicazione « febbraio 1848 » e il motto: « Proletari di tutto il mondo
unitevi ». Il Manifesto, come del resto tutti gli altri scritti di Marx e
Engels, ebbe poca diffusione e poca influenza in questi anni; cominciò a esser
largamente letto, diffuso e tradotto solo dal 1870 in poi. 2. Divisione e
sintesi dell’opera Il Manifesto si articola in quattro parti, precedute da una
breve in- troduzione. Le quattro parti portano i titoli seguenti: 1) Borghesi e
pro- letari; 2) Proletari e comunisti; 3) Letteratura socialista e comunista;
4) Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti di opposizione.
INTRODUZIONE :Nell’Introduzione Marx e Engels tratteggiano con brevi ma
vigorose pennellate la situazione di guerra ingaggiata dalla « vecchia Europa »
contro il comunismo. Contro questo sono scesi in campo « papa e zar, Metternich
e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi » (p. 51). Ma la lotta,
argomentano gli autori, è anche un indizio positivo: si- gnifica che « il
comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte Je potenze europee » (p.
52). Perciò, concludono Marx e Engels, « è ormai tempo che i comunisti
espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro
fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del
comunismo un manifesto del partito sîesso » (p. 52). PRIMA PARTE BORGHESI E
PROLETARI In questa parte Marx e Engels enunciano i principi fondamentali della
loro concezione della storia, una concezione in cui si assegna il primato
assoluto alle strutture economiche; espongono la storia della borghesia e del
proletariato; e, infine, mostrano che i tempi sono ormai maturi per
l'abbattimento della borghesia e ia conquista del potere da parte del
proletariato. JI punti più salienti della loro trattazione sono i seguenti: 1)
La storia dell'umanità concepita come storia di lotte di classe. Muovendo dal
postulato secondo cui « la storia di ogni società esistita fino a questo
momento, è storia di lotte di classi » (p. 54), e valendosi di tale postulato
quale principio ermeneutico per ia comprensione delle vicende storiche, Marx e
Engels ricostruiscono schematicamente la storia dell'umanità come una sequenza
ininterrotta di antagonismi tra le classi 393 Prima edizione a Londra Nella
‘‘vecchia Europa’’ i nemici del comunismo Storia della borghesia e del
proletariato La storia dell'umanità come di lotta tra le classi sociali
politico e potere economico La concezione Qorghese dell’uomo la dignità deila
persona Trasformazione sociale e irasformazione economica La sovrapproduzione
la causa delîa crisi della borghesia il proletariato è una creazione del di
classe e prospettiva : in Grecia tra liberi e schiavi, a Roma tra patrizi e
plebei, nel Medioevo tra feudatari e servi della gleba, nell'epoca moderna tra
borghesia e proletariato {pp. 54-55). 2) Storia della formazione della
borghesia: i suoi inizi sono fatti risa- lire aila fine del Medioevo (pp.
55-56). Coincidenza dell’accrescimento del potere politico cella borghesia con
l'aumento del suo potere econo- mico. Così alla fine dello sviluppo della
classe borghese « dopo la crea- delle grandi industrie e del mercato mondiale,
la borghesia si è con- quistata il dominio politico esclusivo nello Stato
rappresentativo mo- derno. TI potere stataie moderno non è che un comitato che
amministra gli affari comuni di tutta ia classe borghese » (p. 57). Anche la
borghesia come qualsiasi altra classe sociale è salita al potere con la lotta,
la rivoluzione (pp. 57-58). 3) Le aberrazioni della concezione borghese
dell’uomo e della società: nella concezione borghese sono stravolti ia dignità
personale, la libertà de} singolo (p. 58), il significato delle professioni, i
rapporti familiari so- ciali e nazionali (pp. 59-62). 4) Il dinamismo di
trasformazicne della società: un tipo di società si qualifica in forza dei
rapporti economici esistenti tra i suoi membri, ossia secondo la distribuzione
dei inezzi di produzione. Una società si trasforma allorché i rapporti
economici subiscono un cambiamento so- stanziale. Così, alla società feudale è
subentrata la società borghese allorché, «a un certo grado di sviluppo dei
mezzi di produzione e di scambic, le condizioni nelle quali la società feudale
produceva e scam- biava, l'organizzazione feudale dell’agricoltura e della
manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero
più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione
invece di promuoverla. Si trasformarono in aitrettante ‘catene. Dovevano essere
spezzate e furono spezzate. Ad esse subentrò la libera concorrenza con la
confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e
‘politico della classe borghese » (pp. 62-63). 5) Crisi della società borghese:
« La società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e
di scambio così potenti, ras- somiglia al mago che non riesce più a dominare le
potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia
dell'industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze
produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i
rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia
e del suo dominio » (pp. 63-64). La causa principale della crisi della società
borghese è « l'epidemia della sovraproduzione » (pp. 64-65). 6) La svolta verso
il comunismo: essa è preparata dallo stesso capita- lismo mediante la creazione
di una nuova classe sociale, la classe del pro- letariato (p. 65). Questa
classe sta ingrossando vieppiù mediante l'assor- bimento di tutte le classi
intermedie (pp. 67 e 72). 7) Le cause della ribellione del proletariato: la
disumanizzazione del lavoro, l'ingiusta retribuzione, lo sfruttamento,
l’asservimento (pp. 66-67). 8) La dialettica della lotta di classe: da lotta di
piccoli gruppi un po' alla volta essa si sta trasformando in lotta massiccia
dell'intera classe operaia contro la classe dei padroni (p. 68); da lotta
nazionale in lotta internazionale (p. 74). 9) Definizione del proletariato: «
Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più
nulla di comune con il rapporto 394 familiare borghese; il lavoro industriale
moderno, il soggiogamento mo- derno al capitale, identico in Inghilterra e in
Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale.
Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i
quali si nascondono altrettanti interessi borghesi » (p. 73). 10) La via al
comunismo: consiste nella eliminazione dell’attuale si- stema di appropriazione
e nella conquista delle forze produttive della società « attraverso il violento
abbattimento della borghesia » e la sop- pressione della proprietà privata: «I
proletari non hanno da salvaguar- dare nulla di proprio, hanno da distruggere
tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state
fin qui » (p. 74). 11) Certezza della vittoria del proletariato sulla borghesia:
perché quest’ultima contiene in se stessa i germi della sua dissoluzione. Essa
e- sige infatti la moltiplicazione incessante del capitale, ma ciò non si può
ottenere che con uno sfruttamento sempre più iniquo della classe operaia. E
questo conduce inevitabilmente alla reazione violenta da parte del proletariato
e alla rivoluzione PROLETARI E COMUNISTI In questa parte Marx e Engels, dopo
una breve dilucidazione dei rapporti tra proletariato e comunismo, prendono in
esame e respingono con fermezza, ad una ad una, tutte le critiche più gravi che
vengono sollevate contro la visione comunista della società. 1) Distinzione tra
proletari e comunisti: anche i comunisti sono dei proletari, ma non si
identificano con essi; se ne distinguono come ii partito di punta del
proletariato nella lotta contro i! capitalismo (p. 78). 2) Obiettivo immediato
‘del comunismo: « Abbattimento delia bor ghesia e conquista del potere da parte
de! proletariato » {p. 78). 3) Obiettivo ultimo del comunismo: abolizione della
proprietà pri- vata (p. 79). 4) Legittimazione della soppressione della
proprietà privata: questa è un'istituzione che è essenzialmente incompatibile
con la giustizia so- ciale. Infatti, nel sistema borghese, «il lavoro dei
proletario crea il capitale, ossia quella proprietà che sfrutta il lavoro
salariato, che può moltiplicarsi solo a condizione di generare nuovo lavoro
salariato, per sfruttarlo di nuovo » (p. 80; ofr. anche p. 83). 5) Ingiustizia
del lavoro salariato: nella società borghese esso è ap- pena sufficiente a
garantire all’operaio « la sua nuda esistenza » (p. 81). 6) Funzione del lavoro
nella società borghese e nella società comu- nista: « Nella società borghese il
lavoro vivo è soltanto ur: mezzo per mol. tiplicare il lavoro accumulato. Nella
società comunista il lavoro accu- mulato è soltanto un mezzo per ampliare, per
arricchire, per far pro- gredire il ritmo d'esistenza degli operai » (p. 81).
7) Diversità tra concezione borghese e concezione comunista della libertà e
della persona umana (pp. 82-84). 8) Diversa funzione della cultura, del
diritto, della religione, della morale nella società comunista e nella società
borghese {p. 85). Subordi- 395 Legge, morale e religione: pregiudizi borghesi
La via al comunismo: sconfitta della borghesia, fine della proprietà Lo
sfruttamento conduce alla rivoluzione del proletariato Alsune importanti
affermazioni di principio risultano dall'esame delia situazione La tradizione
del socialismo in Europa Adesione dei comunisti ad ogni forma di rivoluzione
contro il sistema in atto. nazione della cultura, del diritto, della religione
e della morale alla strut- tura economica (p. 85). 9) Storicità delle
espressioni culturali (p. 85). 10) Subordinazione dell'educazione al sistema
economico vigente in una determinata società. Superiorità dell'educazione
comunista nei con- fronti di quella borghese (p. 86). 11) Le diverse concezioni
della famiglia e della nazione (p. 86). 12) Approfondimento del tema dei
rapporti tra struttura economica e sovrastrutture culturali (pp. 88-90). 13) Dieci
provvedimenti riguardanti l’abolizione della proprietà pri- vata (pp. 91-92).
14) Abolizione della divisione della società in classi: «Il proleta- riato
[...] facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abo- lendo con
forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produ- zione, abolisce
insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esi- stenza
dell'antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni di esistenza delle
classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto clas- se » (p.
93). TERZA PARTE LETTERATURA SOCIALISTA E COMUNISTA In questa parte Marx e
Engels presentano una rassegna critica della letteratura socialista e comunista
del loro tempo, soffermandosi in par- ticolare sul « socialismo cristiano » dei
romantici cattolici francesi (Lam- menais e Montalembert) (pp. 97-98), sul «
socialismo piccolo borghese » di Sismondi {pp. 99-102), sul « socialismo
tedesco » di Bauer e Hess (pp. 103-109), sul « socialismo borghese » di
Proudhon (pp. 109-113), e sul «‘comunismo critico-utopistico » di Saint-Simon e
iFourier (pp. 113-120). QUARTA PARTE POSIZIONE DEI COMUNISTI DI FRONTE AI
DIVERSI PARTITI DÌ OPPOSIZIONE In questa parte conclusiva gli autori delineano
brevemente la posi- zione dei comunisti di fronte ai diversi partiti operai già
costituiti e ai movimenti rivoluzionari già operanti in Francia, Svizzera,
Polonia e Ger- mania. Particolare attenzione riservano a quest'ultima nazione
perché, a loro giudizio, la Germania offre le condizioni socio-politiche più pro-
pizie per la lotta e per la vittoria del proletariato contro il sistema bor-
ghese. Le linee direttrici indicate da Marx e Engels sono le seguenti: «I
comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario diretto contro
le situazioni sociali e politiche attuali. Entro tutti questi movimenti essi
mettono in rilievo, come problema fondamentale del movimento, il problema della
proprietà, qualsiasi forma, più o meno svi- luppata, esso possa avere assunto.
Infine, i comunisti lavorano dappertut- to al collegamento e all’intesa dei
partiti democratici di tutti i paesi. I 396 comunisti sdegnano di nascondere le
loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini
possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto
l'ordinamento sociale finora esistente. Rovesciamento Le classi dominanti
tremino al pensiero d'una rivoluzione comunista, Violento del sistema I
proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo anto: da
guadagnare. PROLETARI DI TUTTI Ì PAESI, UNITEVI » (p. 124). QUESTIONARIO DI
VERIFICA E DISCUSSIONE 1. Che cosa è la « Lega dei giusti » e dove sorse? 2.
Quando e dove sorse la « Lega dei comunisti »? 3. Chi ne fu il primo
presidente? 4. Il libretto « Manifesto del partito comunista» quando e dove
venne pubblicato? 5. Marx come concepisce la storia dell'umanità? 6. Dalla
concezione borghese della società che cosa deriva? 7. Quale era la crisi della
borghesia che Marx intravvedeva? 8. Questa crisi, a distanza di un secolo, era
reale? 9. Come vengono considerate da Marx le leggi, la morale e la religione?
10. Che distinzione c'è tra proletari e comunisti? . 11. Per quali motivi Marx
giustifica la soppressione della proprietà privata? 12. Quale funzione ha il
lavoro nella società comunista? 13. Quale è la posizione dei comunisti rispetto
agli altri partiti operai sorti in Europa? 397 Obiettivo della metafisica:
risposte esaustive agli interrogativi ultimi Nei secoli XVIII e XIX la scienza
come sapere assoluto Attualità della metafisica, ‘‘inattualità’’ dei suoi
risultati Denunciati gli errori del passato e nuove soluzioni per il futuro
Organicità e maturità delia trattazione V. « INTRODUZIONE ALLA METAFISICA »
Martin Heidegger (1889-1976) 1. Premessa I limiti della scienza, i pericoli
della tecnologia, la caducità delle cose, la finitudine del mondo, il non-senso
della storia, il nichilismo che ci circonda e assedia da ogni parte, hanno
conferito nuova attualità (tanto da farne secondo alcune previsioni il sapere
del futuro) a quella che già fu per molti secoli regina di ogni sapere, la
metafisica. Definita già da Aristotele come studio delle cause ultime oppure
come studio « dell’ente in quanto ente », l’obiettivo della metafisica è stato
sempre quello di esibire una risposta esaustiva agli interrogativi ultimi, gli
interrogativi che riguardano il senso della vita, l'origine del mondo, il
valore della conoscenza, il problema del male e della libertà, la verità, la
morte, ecc. Con l'avvento della scienza e con l'illusione che questa potesse
affer- marsi come un sapere assoluto, si è creduto di poter dichiarare il tra-
monto della metafisica. Il XVIII e il XIX secolo hanno espresso una cul- tura
essenzialmente antimetafisica; ma la scienza, che si è sempre più perfezionata
nel calcolare i fenomeni per poterli controllare e dominare, si è invece
arrestata davanti alla porta dei problemi ultimi. Così il loro esame e
possibilmente la loro soluzione sono oggi nuovamente demandati alla metafisica.
L'uomo, diceva Schopenhauer, è essenzialmente un essere metafisico: lo è in
forza della sua natura spirituale, lo è grazie al suo conoscere intel-
lettuale. Come essere metafisico egli è da sempre chiamato ad interro- garsi su
se stesso, sul proprio essere e sugli enti che lo circondano con l'obiettivo e
la speranza di pervenire ad una risposta soddisfacente e conclusiva. Il suo
oggetto e il suo compito rendono, pertanto, la meta- fisica sempre attuale,
anche se i suoi risultati sono costantemente messi in crisi dall'inarrestabile
tensione di ricerca della mente umana. 2. Origine e obiettivi dell’opera Dei
filosofi del nostro secolo nessuno come M. Heidegger — che molti studiosi
considerano il più grande di tutti — si è occiipato con altrettanto impegno e
costanza della metafisica, denunciando, da una parte, gli er- rori in cui sono
incorsi i filosofi del passato e proponendo, dall'altra, nuo- ve impostazioni e
soluzioni per il futuro. Dei molti scritti in cui Heidegger affronta il
problema della metafisica la Einfiihrung in die Metaphysik (Introduzione alla
metafisica) si racco- manda in modo particolare per la organicità, completezza
e maturità della trattazione. Questo saggio occupa « una posizione centrale e
peculiare nel- lo svolgimento del pensiero di Heidegger [...] tanto che esso si
può col. 398 locare accanto a Seiti und Zeit (Essere e tempo) come seconda
cpera chia- ve per la comprensione dell’intero suo pensiero » {Vattimo).
Concepita e scritta nel 1935 — a quasi dieci anni di distanza da Essere e tempo
— nello sviluppo del pensiero heideggeriano Introduzione alla metafisica è il
documento principale della grande svolta (Kehre) in dire- zione dell'essere. In
Essere e tempo, per risolvere la questione ontolo- gica (quella dell'essere),
Heidegger aveva seguito il cammino ascendente (dagli enti all'essere), assumendo
come punto di partenza quell’ente pri- vilegiato che è l’uomo, che è colui in
cui l'essere si interroga e si mette in questione. Ma questa strada Jo aveva
condotto in un vicolo cieco: anziché alla sponda dell'essere approdava a quella
del nulla. Così, in Introduzione aila metafisica, Heidegger segue il cammino
inverso: dal- l'essere agli enti. L'essere è il punto di partenza, è il
fondamento, la sor- gente da cui tutto discende. Gli enti o essenti sono le
parole, il raccogli- mento, la non-latenza, la verità, l’epifania, il
disvelamento dell'essere. In taì modo Heidegger ritiene di sfuggire alla
trappola in cui — a suo avviso — è caduta tutta la metafisica tradizionale
{greca, medioevale, moderna), che assumendo come punto di partenza questo o
quell’ente o questa o quella modalità dell'essere non era mai riuscita ad
oltrepas- sare l'orizzonte degli essenti ossia l'orizzonte della fisica e
finiva rego- larmente nella identificazione dell'essere con l'Ente supremo.
(Kehre), oltre che un nuovo cominciamento della comprensione dell'essere,
comporta anche la ricerca di un nuovo lin- guaggio, « adatto », cioè adeguato
al contenuto di un pensiero che non in- tende più avvalersi delle categorie
metafisiche tradizionali e vuol met- terle in discussione nelia loro stessa
radice. Anche di questo sforzo arduo e grandioso la Introduzione costituisce il
primo importante documento e, fino a Cammino verso il linguaggio, resterà
l'unico saggio di una certa ampiezza ed organicità. Introduzione alla
metafisica consta di quattro capitoli che trattano 399 in ‘‘Essere e îempo’’
cammino ascendente: dail’ente al nulla in questa opera cammino discendente:
dall'essere agli enti La storia dischiude l'essenza dell’essere Le quattro
delimitazioni dell’essere: divenire, apparire, pensare, dovere La grande
svolta: nuovo sominiciamento e nuovo linguaggio Le tre priorità della domanda
metafisica fondamentale: ampiezza, profondità, origine La domanda fondamentale:
evento, salto, non suscettibilità di verifica La filosofia come sapere: inattuale
inutile ambiguo fecondo difficile rispettivamente di: 1) La domanda metafisica
fondamentale; 2) Gram-. matica ed etimologia della parola « essere »; 3) La
domanda sulla es- senza dell’essere; 4) La limitazione dell'essere. 3.
Divisione e sintesi dell’opera LA DOMANDA METAFISICA FONDAMENTALE 1. La domanda
metafisica fondamentale È la seguente: « Perché vi è, in generale, l’essente e
non il nulla? ». Questa è la domanda metafisica per eccellenza e gode su
qualsiasi altra domanda di una triplice priorità: in ordine all'ampiezza « è la
più vasta »; in ordine alla profondità: « è la più profonda »; in ordine
all'origine: « è la più originaria ». L'interrogativo riguarda tutti gli enti
senza nessuna distinzione: « In ragione della sua portata illimitata tutti gli
enti per essa si equivalgono ». Perciò « bisogna evitare di porre in primo
piano un ente particolare, anche l’uomo [...]. Non sussiste nessun motivo
perché, per entro l’essente nella sua totalità, si debba porre in primo piano
quel- l'essente chiamato uomo, alla cui specie noi stessi per caso appartenia-
mo » (pp. 15-16). Ta domanda metafisica fondamentale, già singolare in se
stessa, as- sume capitale e vitale importanza per colui che la solleva: è un
evento nella sua esistenza. L'evento consiste in un salto, che comporta
l’abban- dono di tutte le precedenti certezze; ma si tratta di un salto
singolaris- simo, che si esplica più in maniera passiva che attiva, è un salto
origi- nario (Ur-sprung). La domanda metafisica non è suscettibile di verifica;
perciò non si può stabilire con certezza se essa è autentica oppure
inautentica. Tuttavia, almeno una cosa è certa: non è autentica quando si
presta a ricevere una risposta sicura, precisa, definitiva; per esempio, la
risposta biblica: c’è l'essente perché Dio l’ha creato. D'altronde questa è una
di quelle do- mande che si colloca fuori dall’orizzonte della fede:
l’interrogarsi sul- l'essente in rapporto al suo fondamento per il credente è «
una follia » (p. 19). 2. Caratteristiche della filosofia i- sica. Ma se si
risale al significato originale del termine physis, il quale voleva dire « ciò
che si dischiude da se stesso (come, ad esempio, lo sbocciare di una rosa),
l’aprentesi dispiegantesi e in tale dispiegamento l’entrare nell’apparire e il
mantenersi in esso, in breve: lo schiudentesi- permanente imporsi », allora si
può ben dire che oggetto della filosofia è nient'altro che la physis, in quanto
«la physis è lo stesso essere, in forza del quale soltanto l'essente diventa
osservabile e tale rimane » (p. 26); « l'essente come tale nella sua totalità è
physis, cioè ha come essenza caratteristica lo schiudentesi-permanente imporsi
» (p. 28). Per- tanto studiare la physis e studiare l'essere è la stessa cosa.
Senonché non è a questo studio dell'essere come tale che ha atteso la
metafisica tradizionale: volendo scavalcare la physis essa ha fallito il suo
obiettivo, l'essere, sin dall'inizio. « Per chiunque si ponga dal nostro punto
di vista, diviene chiaro che l'essere come tale risulta in realtà na- scosto
alla metafisica, resta obliato, e ciò in maniera così radicale che la
dimenticanza dell’essere, col cadere essa stessa in oblio, viene a costi- tuire
l'impulso, ignoto ma costante, che sollecita il domandare metafi- sico » {p.
30). 4. Il ricominciamento deila filosofia Per fare autentica filosofia occorre
ricominciare da capo, sollevando di nuovo la domanda fondamentale: « Perché vi
è, in generale, l'essente e non il nulla? ». Questa domanda ha ‘carattere
fortemente personale. Per affrontarla non ci sono né maestri, né guide, né
compagni, né sostituti: « è un andare avanti domandando [...] che non comporta
nessuna com- pagnia » (p. 31). Essa ha, inoltre, carattere di ri-soluzione, di
impegno: « interrogare significa voler-sapere. Chi vuole, chi pone tutto il suo
es- sere in un volere, è risoluto » (p. 32). Infine, ha anche carattere di
eser- cizio: l'atteggiamento interrogativo dev'essere sviluppato, fortificato
con l'esercizio (p. 33). 5. Svolgimento della domanda fondamentale AI fine di
chiarirne meglio il senso, Heidegger vi distingue tra l'inter- rogato
{l'essente) e ciò su cui verte l'interrogazione: il fondamento (Grund)
dell'essente. A prima vista, si ha l'impressione che la domanda sia tutta
rinchiusa in « perché l’essente?» e che l'aggiunta « e non il nulla » abbia una
funzione meramente pleonastica. Tuttavia, se si fa mag- 401 straordinario La
‘‘physis’’ oggetto della filosofia: è studiare l’essere Carattere personale e
carattere di risoluzione della dumanda fondamentale sull’essente Il nulla è
legato alla logica del pensare Priorità del sapere filosofico e dei psetare sui
sapere scientifico Distinzione dell’essere dall’essente La crisi
dell'Occidente: oblio dell’essere e frenesia dell’essente Ripetizione del
cominciamento e ricollocazione dell’esistenza storica dell’uomo gior attenzione
si vede che c'è almeno urna ragione storica per integrare la dorranda cor
l'espressione « e non il nulia »: il fatto che la filosofia si è posta sin
dall'inizio insieme alla domanda sull’essente anche la doman- da sul non-essente,
sul nulla. Ma c'è di più: il divieto di interpellare il nulla, perché il nulla
è nulla, è sì legato alla logica del pensare, ma si tratta di una logica che
opera all’interno di una determinata precom- prensione dell'essente, e potrebbe
essere che « ogni pensiero che obbe- disce solamente alle regole della logica
tradizionaie si trovi fin da prin- cipio neli'impossibilità anche solo di
comprendere, in generale, la do- imanda circa l’essente, e tanto più nella
impossibilità di svilupparla real- mente e di pervenire ad una risposta » (p.
36). Solo la logica del pensiero scientifico vieta il discorso sul nulla. Ma (e
questa è tesì assai cara a Heidegger) il sapere filosofico e il poetare godono
di un'assoluta priorità sul sapere scientifico (pp. 36-37). Ci sono pertanto
delle buone ragioni (storiche e teoretiche) per includere nella domanda
fondamentale la frase «e non il nulla ». Questa aggiunta conferisce alla
domanda un più ampio respiro e le apre un orizzonte diverso. Nella forma abbre-
viata l'orizzonte e il respiro restano sempre quello dell’essente; così, si è
tentati di rinvenire il fondamento nello stesso ordine {un essente su-
periore}. Invece, includendo il riferimento al nulla, ciò che si vuol scoprire
è la ragione deila ‘vittoria dell’essente sui nulla (pp. 38-39). 6. La
differenza ontologica tra essente ed essere Di che natura è questa differenza
basilare, primaria? Non è soltanto una differenza logica, concettuale, bensì
una differenza reale. Anche se inafferrabile, l'essere rimane sempre distinto
dall’essente, è altra cosa rispetto all’'essente. E ciò implica una qualche
comprensione dell’es- sere: solo grazie a tale comprensione noi possiamo
interrogare l’essente a proposito del suo essere (p. 43). L’essere non è
incluso nella definizione dell’essente (del cavallo, del- l’uomo, del gesso,
ecc.) eppure senza l'essere nessun essente è. E, tut- tavia, l’essente non è
percepibile immediatamente, non è qualcosa che si vede (pp. 44-46). Ma tutto
questo non giustifica la tesi nietzschiana secondo cui l'essere è « fumo,
esalazione, errore ». Quella sull'essere è domanda estremamente seria, che
tocca direttamente il destino del. l'Occidente. Dal rapporto che l'umanità
assume nei confronti dell’es- sere ne va del suo destino, della sua storia. in
effetti, l'oblio dell'essere e la frenesia per l’'essente sono la causa vera e
profonda della crisi e della rovina dell'Occidente e del mondo intero {pp. 48
ss.). Del tutto singolare è la responsabilità del popolo tedesco che « è il
popolo metafi- sico per eccellenza » (p. 49), nei confronti dell'essere. 7. La
ripetizione del cominciamento, superando gli errori della ontologia Dopo la «
morte dell'essere » sentenziata da Nietzsche, solo un co- minciamento nuovo,
originario, può restituire all'interrogativo « che cosa è dell'essere », quella
forza, quella rilevanza, quel peso che gli è proprio come interrogativo
fondamentale. La ripetizione del fondamento riguarda anzitutto e soprattutto il
concetto di « essere », sottraendolo a quell’appiattimento che l’ha ridotto a «
concetto più generale di tutti », come è stato normalmente inteso dalla
ontologia (pp. 49-51). Per realiz- 402 zare la ripetizione del cominciamento
occorre « ricollocare l'esistenza storica dell'uomo [...] nella potenza
dell'essere da rivelarsi in modo ori- ginario: tutto ciò, beninteso, solo nei
limiti del potere concesso alla filosofia » (p. 52). Porre questo nuovo
cominciamento è una « decisione storica » per l'Europa e per tutto il globo
terrestre (p. 53). 8. Urgenza del ricominciamento Esso è indispensabile per
vincere quel depotenziamento dello spirito che si registra ovunque oggi nel
mondo (pp. 56 ss.). Definizione dello spiri- to come « dischiudimento
(ent-schlossenheit) originario verso l'essere ». Ed è per questo che
l'interrogarsi sull’essente come tale nella sua totalità, «il proporre la
domanda sull’essere, costituisce una delle condizioni fondamentali, essenziali,
per un risveglio dello spirito, per il porsi di un mondo originario
dell'esserci storico, per arrestare il pericolo di un oscuramento del mondo e
per una assunzione della missione storica del nostro popolo considerato come
centro dell'Occidente » (p. 60). Il rico- minciamento — che ha luogo quando si
instaura un autentico rapporto con l'essere — è anche condizione essenziale per
restituire al linguaggio la sua funzione e il suo significato SULLA GRAMMATICA
E SULLA ETIMOLOGIA DELLA PAROLA « ESSERE » 1. Condizioni preliminari all'esame
grammaticale ed etimologico :Si impone anzitutto un'autentica rivoluzione del
nostro rapporto con la lingua; anche se è vero che la determinazione
dell'essenza del lin- guaggio e il nostro stesso modo di interrogarci si
conformano alla nostra concezione dell'essenza dell’essente e dell'essere,
tuttavia è pur vero che « l'essenza e l'essere parlano nelia lingua ». Di qui
la necessità « di chia- rire l'essenza stessa dell'essere, per quanto riguarda
la sua essenziale implicazione con la natura del linguaggio » (pp. 64-65). 2.
La grammatica della parola « essere » « Come sostantivo “l'essere” deriva dal
verbo. Per questo si dice che la parola “l'essere” è un sostantivo verbale. Con
questa forma gram- maticale si può considerare esaurito quanto c'è da dire, sul
piano lin- guistico, delia parola “essere” » (p. 66). E tuttavia rimane aperto
e sco- perto un problema: «il problema di sapere se la forma originaria della
parola come sostantivo e come verbo rappresenti effettivamente il ca- rattere
originario del dire e del parlare. Tale questione include in sé, in pari tempo,
quella dell’origine del linguaggio » {p. 66). Ma non ci si può accontentare di
questa indicazione assai generica. Per verificare quale sia stato in origine il
rapporto linguaggio-essere occorre esplorare come siano andate le cose nella
lingua greca, la quale «è accanto alla tedesca la più potente ed insieme la più
spirituale » (p. 67). Heidegger si sofferma anzitutto sulla distinzione tra
onoma e rema: onoma è manifestazione ed espressione della cosa, rema dell’azio-
ne; il primo corrisponde al sostantivo, il secondo al verbo. Ma questa 403 Lo
spirito: dischiudimento verso l’essere Necessaria una autentica rivoluzione de
rapporto con la lingua La parola ‘‘essere’' e l’origine del linguaggio Analisi
dei termini greci: ‘“onoma”’ (manifestazione della cosa), ‘‘rema”’
(dell’azione) L’‘‘emergenza dell’essente come lotta: ‘“polemos”’ Essere come
vivere: dischiudersi, permanere L’inafferrabilità dell’essere analisi dice
ancora poco. Perché la ricerca approdi a qualche risultato apprezzabile occorre
spingersi più avanti, e cercare di comprendere come i greci concepivano il
linguaggio (pp. 68-69). Heidegger fa vedere che nella lingua greca l’essente è
concepito come qualche cosa che si rende presente assumendo un limite (telos),
una forma (morfé), un aspetto (idea), una natura (physis), una verità {a-letheia),
cioè come « un fuoruscire dalla latenza » (pp. 70-72). L'emergenza dell’essente
come qualcosa di distinto e determinato è concepita come polemos (lotta).
Quando la lotta cessa l’essente perde la sua identità, e viene ridotto a mero
oggetto di considerazione teorica, di calcolo, di produzione: « resta pur
sempre l’essente [...] ma l'essere si è ritratto da lui » (p. 73). In
conclusione, « per i greci “essere” significa stabilità (Stàndigkeit), e ciò in
duplice senso: 1) Lo stare in sé nel senso del prodursi, del pro-cedere
(Ent-stehen): physis. 2) Lo stare in sé come tale, come qual. cosa di
“stabile”, che rimane, di permanente (Verweilen): ousia. Non-es- sere, per
conseguenza, significa l’uscire da tale stabilità proceduta da se stessa:
existasthai. “Esistenza” ed “esistere”, significano quindi per i Greci
precisamente: non-essere » (p. 74). A questo punto Heidegger fa seguire una
sottile disquisizione sulla forma infinitiva delle parole (pp. 77 ss.). 3.
Etimologia della parola « essere » Le tre radici del verbo « essere » (che si
possono cogliere nelle pa- role indogermaniche, greche e latine), determinano i
tre significati prin- cipali che questa parola ha avuto sin dalle origini nella
lingua greca: vivere, dischiudersi, permanere. « Ma a questo punto ci si
presenta una domanda decisiva: come si accordano e in che cosa convergono le
tre radici citate? Cosa è che regge e dirige il dire dell'essere? Su che cosa
si fonda il nostro dire dell'essere secondo le varie flessioni della lingua?
Questo dire e la comprensione dell'essere sono o no la stessa cosa? Come è
presente (west), nel dire dell'essere, la differenza fra l'essere e l’essente?
» (p. 82). 4. Questioni pendenti ‘A questo punto Heidegger segnala una serie di
importanti questioni ancora aperte ed irrisolte, in particolare: 1) Quale tipo
di « astrazione » era in gioco nella formazione della parola « essere »? 2)
Qual è il signifi- cato fondamentale predominante (dei tre significati
iniziali) che può avere presieduto alla fusione verificatasi? 3) Il senso dell'essere
che, stando alle interpretazioni puramente logiche e grammaticali, ci si pre-
senta come « astratto » e come qualcosa, per conseguenza, di puramente
derivato, può essere in se stesso pieno e originario? (pp. 82-83). Conclusione:
Quando si tenta di spiegare il significato della parola «essere » ci si trova
subito in imbarazzo, perché è un voler cogliere l'inafferrabile. « Con tutto
ciò, noi siamo continuamente attratti dall’es- sente, inseriti in esso, portati
a considerare noi stessi come degli “es- senti”. “L'essere”, per ora, non è per
noi che un semplice vocabolo, un termine frusto. Se non altro, bisogna che
cerchiamo almeno di impadro- nirci di quest'ultimo resto rimasto in nostro
possesso » (p. 83). È quanto 404 si è tentato di fare nel secondo capitolo
mediante la ricerca grammati- cale e filologica intorno alla parola « essere ».
CAPITOLO III :LA DOMANDA SULL’'ESSENZA DELL'ESSERE 1. La strategia da seguire
per determinare l'essenza dell’essere Chi vuole realizzare un effettivo «
cominciamento » ed ha constatato che l’essere è diventata la parola più
generica e più vuota di tutte, può essere tentato a Jasciare in disparte questa
parola e rivolgersi ai vari ambiti dell’essente. Senonché a questo punto sorge
un grosso problema: come stabilire che qualche cosa è davvero un essente? « E
come stabilire, d’altra parte, che in un certo tempo, in un certo luogo, un
supposto es-. sente non è, se non siamo già in grado di distinguere con
chiarezza fra essere e non essere? E come compiere questa decisiva distinzione,
se non sappiamo, in modo altrettanto decisivo e determinato, che cosa signi-
fichino l'essere e il non essere che vengono qui appunto distinti? Come può,
nel caso specifico e in generale, un essente essere per noi un essente, se
prima non comprendiamo che cosa significhino “essere” e “non esse- re”? » {p.
87). 2. Il significato della parola « essere » « Essere », questa parola
apparentemente tanto vaga ed indeterminata, tuttavia è così densa di
significato da fornire una sicura e decisiva linea di demarcazione sia
nell'ordine del pensiero sia in quello del linguaggio. « Riflettendo più
attentamente su questa parola risulta alla fine questo: malgrado ogni
obliterazione, mescolanza, genericità del suo significato, noi pensiamo in essa
qualcosa di determinato. Questo qualcosa di deter- minato è così determinato ed
unico nel suo genere che occorre fare la seguente aggiunta: quell’essere che
tocca a qualsiasi ente e che si sperde in ciò che vi è di più comune, è, per
eccellenza, quanto vi è di più unico » (p. 88). Pertanto « proporsi di
abbandonare l’“essere”, come parola vuota di senso, per rivolgersi all’essente
in particolare, è cosa non solo avventata ma oltretutto eminentemente incerta »
(p. 89). ‘Heidegger illustra questa tesi ricorrendo all'applicazione di un con.
cetto generale (per esempio, albero) ai casi singoli e mostrando che questi
sono identificabili (come alberi) solo grazie al concetto generale. Ma, si
potrebbe obiettare che il caso dell'essere è molto diverso da quello del-
l'albero, perché l’essere non è un genere. Tuttavia, risponde Heidegger, « la
necessità di comprendere già in anticipo la parola “essere” è la più alta ed
ineguagliabile » (p. 91). Ciò che ‘va approfondito (« erigere in sa- pere ») è
la particolarità, unica nel suo genere, di questo nome. 3. Accertamento della
conoscenza dell'essere Che si dia una certa cognizione dell'essere lo si può
provare quanto meno indirettamente. ‘Infatti, senza una cognizione dell'essere
risulte- rebbe impossibile qualsiasi dischiudersi dell’essente in quanto tale,
e ri- sulterebbe impossibile anche il linguaggio, perché parlare è sempre dire
405 Capire ‘‘essere’’ e “‘non-essere'’ per giungere all’essente L’unicità
dell’essere Parlare è sempre dire l’essere L'uomo è l’essere capace di ‘‘dire’’
La necessità di interrogare l'essere Il linguaggio luogo del dischiudimento
dell'essere Determinazione del senso dell’essere: presenza presenzialità
consistenza sussistenza permanenza avvenire e Il fatto che noi comprendiamo
l'essere, anche se in modo indetermi- nato ed opaco, « ha per il nostro esserci
il più alto valore, in quanto vi si manifesta una forza nella quale si fonda
tutta la possibilità essen- ziale del nostro esserci. Non si tratta di un fatto
qualunque, ma di qual- cosa che per il suo peso esige la più alta valutazione,
a patto che il no- stro esserci, che è sempre qualcosa di storico, non rimanga
per noi qual- cosa di indifferente. D'altronde anche perché il nostro esserci
possa ri- manere per noi un'entità indifferente, occorre comprendere l'essere.
Sen- za questa comprensione non saremmo neanche in grado di dire di no al
nostro esserci » (p. 92). Interrogare l’essere (non il rispecchiarlo o rap-
presentarlo c l'apprenderlo) è l'unica via da seguire per sottrarlo al suo
nascondimento. E « il nostro interrogare risulta tanto più autentico quan- to
più ci atteniamo con aderenza e costanza a ciò che più merita di essere
investigato, e precisamente al fatto che l'essere è ciò che per noi risulta
compreso in modo completamente indeterminato e tuttavia eminente- mente
determinato » {(p. 93). L’interrogare verte sul senso dell'essere cioè sulla
sua « apertura ». 5. La filosofia come accesso all'essere Il dischiudersi
dell'essere è un evento ed un evento è anche la filosofia in quante cerca di
ri-effettuare taje dischiudimento. La via però che la filosofia ha da
percorrere nen è quella ascendente della metafisica tradi- zionale
{dall'essente verso l'essere), bensì quella discendente: « dall’es- sere a ciò
che si deve problematizzare della sua apertura » (p. 95). La « di- scesa » da
seguire è quella tracciata dalia lingua, perché il dischiudersi dell'essere ha
luogo nel linguaggio: « l'essere stesso è legato alla parola in un senso del
tutto diverso e più essenziale di qualunque altro ente » (p. 97). 6.
L'orizzonte del senso deli’essere . Mediante una vasta esemplificazione ed
esplorazione dei vari sensi dell'essere, Heidegger perviene alla conclusione
che essi si inscrivono tutti dentro un certo orizzonte, che corrisponde a
quello del pensiero greco: « C'è una certa linea unitaria che li percorre
tuiti. Essa orienta la com- prensione dell'essere verso un determinato
orizzonte dal quale trae il suo significato. La determinazione dei senso
dell’essere si circoscrive nell'am- bito della presenza (Gegenwartigkeit) e
della presenzialità {(Anwesenheit), 406 della consistenza {(Bestehen) e deila
sussistenza (Bestand), della perma- nenza (Aufenthait) e dell'avvenire
(Vor-kommen) LA LIMITAZIONE DELL'ESSERE In questo capitolo Heidegger tenta
un’altra via per raggiungere il di-schiudersi dell’essere (oltre a quella ciel
linguaggio: grammatica ed eti- mologia), quelia di mettere a confronto e di
contrapporre l'essere con slcune sue modalità fondamentali: l'apparire, il
divenire, il pensare e il dever-essere, modalità queste che hanno trovato
espressione nelia sto- ria della filosofia {per cui il dischiudersi dell'essere
coincide, come vuole iIeidegger, con la storia della filosofia), le prime due
modalità nella filosofia greca, le ultime due nella filosofia moderna. 1, Fsssre
e divenire Storicamente questa è la prima distinzione e contrapposizione presa
in considerazioni dai filosofi (Parmenide, Eraclito, ecc.). Contropposto al
divenire « l'essere si mostra come la solidità propria dello “stabile in sé
raccolto” » (p. 106). Qui Heidegger introduce una importante osservazio- ne
concernente la storia della filosofia: che non è semplice altalena di
affermazioni e negazioni, di tesi e antitesi, come si suol credere, bensì un
discorso unitario intorno alla stessa cosa la quale « possiede in realtà come
sua interna verità l’inesauribile ricchezza di essere ogni giorno come al suo
primo giorno » (p. 107). 2. Essere e apparenza ro 407 Le modalità fondamentali
deli’essere: apparire, divenire, pensare, dover essere La filosofia: discorso
unitario intorno alia stessa cosa L’unità recondita di essere e apparenza
L’apparenza come possibilità intrinseca dell’essere La lotta dei greci per la
conquista dell’essere Tre vie per un giusto rapporto dell'essere con
l’'essente: la via dell'essere, del nulla, dell'apparenza Il pensare: modalità
dell'essere Carattere prospettico del pensare e valore prospettico del
conoscere sembrare è conseguenza dell'essere stesso come sua possibilità
intrin- seca in quanto — come physis — consiste nell'apparire, nell'emergere
per prospettive (p. 114). a sperimentato, sulla via del- l'essere, la tempesta
capace di trascinarlo via, a colui cui lo spavento della seconda via, quella
che conduce all’abisso del nulla, non è rimasto estraneo, e che pure ha saputo
accettare il rischio sempre incombente della terza via, quella della apparenza
» (p. 122). vo del Dasein, è anzitutte modalità dell'essere. ia distinzione
esse- re-pensiero va studiata con la massima attenzione, in quanto precede
tutte ie altre distinzioni e, per intenderla rettamente occorre ricondurla alle
origini: anche per essa è necessario il « ri-cominciamento », di modo che la
verità primigenia venga restituita nei suoi propri limiti e con ciò nuovamente
fondata (pp. 125-126). Occorre anzitutto prender nota del ca- rattere
prospettico del pensare: esso accade sempre dentro un determina- to orizzonte,
un determinato campo di osservazione. Non tenendo conto del valore prospettico
del conoscere — assolutizzandolo — la gente in- 408 corre spesso in gravi errori
e deviazioni, talché « non riconosciamo più guono tre tipi principali di a.
predicativa: di attribuzione, di proporzionalità propria e di proporzio- nalità
metaforica. L'a. è una categoria fondamentale per la verifica del linguaggio
metafisico e religioso. Anima - Deriva secondo i filologi o dal greco anaigma
(senza sangue) o dal greco dnemos (soffio, vento). Il termine viene
universalmente ado- perato per significare il principio primo della vita. I
pensatori antichi e medioevali solevano distinguere tre a. vegetativa,
sensitiva e razio- nale. Secondo molti scolastici nell'uomo le tre a. sono
formalmente di- stinte; invece secondo san Tommaso si dà nell'uomo soltanto
l’a. razio- nale la quale svolge anche le attività delle a. inferiori. A. si
distingue dalla parola spirito, sia in quanto contiene l'idea di una sostanza’
spiri- tuale, sia in quanto è più comprensiva, dal momento che la parola
spirito si applica soprattutto alle operazioni intellettuali. Antropologia - È
lo studio dell'uomo {dal greco anthropos = uomo, logos = studio). Si danno tre
tipi principali di a.: culturale (o scienti- fica), filosofica e teologica. La
prima studia l'uomo con criteri scienti- 416 fici e si propone di ricostruire
gli elementi costitutivi delle culture pri- mitive o tradizionali. L'a.
filosofica cerca di risolvere col puro ragiona- mento l'enigma umano in tutti i
suoi molteplici aspetti: ontologico, etico, politico, religioso, storico, ecc.
Infine l'a. teologica procura di ottenere un'intelligenza approfondita e
sistematica del mistero dell'uomo alla luce della «Parola di Dio. Arte - L’a. è
ogni produzione di bellezza da parte di un essere co- sciente. L'oggetto
dell’attività artistica (o estetica) è la bellezza, come oggetto di quella
scientifica è la verità, di quella etica la bontà, di quella religiosa il
sacro, di quella tecnologica l'utile. Perciò l'a. si distin- gue dalla tecnica.
L'artista facendo un'opera d'a. si propone anzitutto di dare espressione
sensibile alla bellezza (in un disegno, un edificio, un quadro, ecc.). L'opera
d'a. non è mai una semplice riproduzione di fatti naturali. Perché si dia opera
d'a. occorre originalità, genialità, creatività. Aseità - Indica la condizione
dell'essere che esiste di per sé. Il con- cetto di a. è presente nella
patristica in relazione alla natura di Dio. In Cartesio e Spinoza riguarda la
sostanza. Nell’assiologia di Nicolai Hart- mann l'a. è riferita alla
sussistenza dei valori. Assiologia - È lo studio filosofico dei valori (dal
greco arxios = degno, valido; e logos = studio). È una disciplina che deve le
sue origini, al- meno indirettamente, a Nietzsche con la sua aspra critica dei
valori tradizionali e il tentativo di capovolgerli in valori « mondani »,
terrestri. Ma il suo vero fondatore fu Rudolf H. Lotze {1817-1881), un contempo-
raneo di Nietzsche. Egli distingueva tre regni di ricerca: regno dei fatti,
regno delle leggi universali e regno dei valori. I primi due sono studiati
dalla ragione con il metodo analitico e possono essere considerati in
prospettiva meccanicistica, il terzo è appreso dal sentimento e implica
necessariamente una prospettiva spiritualistica. Infatti, secondo Lotze,
fondamento ultimo di tutti i valori e valore assoluto esso stesso è Dio.
Astrazione - Denota l’attività con cui l'intelletto (agente) ottiene la
conoscenza delle idee universali. La loro conoscenza, secondo la teoria dell’a.
(che fu elaborata per primo da Aristotele e fu ripresa nel Medio- evo da san
Tommaso), non avviene né per anamnesi, cioè il ricordo di quanto l'anima ha
contemplato nell'Iperuranio prima di entrare nella prigione del corpo
(Platone), né per illuminazione divina (Agostino), ben- sì mediante l’azione
dell'intelletto, che ricava dai dati della fantasia ciò che è fondamentale,
essenziale, trascurando ciò che è accidentale, pe- culiare di un fenomeno
particolare. Così, per esempio, dal fantasma (immagine) di questo colore
(bianco, verde, ecc.) l'intelletto ricava l’idea di verde. Ateismo - È la
negazione di Dio (dal greco a-theòs = senza Dio). Fe- nomeno già noto
nell’antichità, ha acquistato vasta diffusione soltanto dopo la rivoluzione
francese. Si distinguono due forme principali di a.: teorico e pratico. Il
primo è il risultato di una speculazione più o meno sistematica e rigorosa (e
viene anche chiamato a. scientifico), il secondo corrisponde all’indifferenza
religiosa, ed è la negligenza di ciò che riguarda Dio nella vita quotidiana.
Atto - Categoria fondamentale della metafisica aristotelica insieme al 417 suo
correlativo, la potenza. A. designa tutto ciò che è perfezione, com- pletezza,
realizzazione, definizione, mentre la potenza indica ciò che è imperfetto,
incompleto, indefinito. Nelle cose materiali l’a. non si iden- trascendentale
dell'essere. Bene - Secondo la classica definizione di Aristotele, il b. è
tutto ciò che è oggetto di appetizione, di desiderio. Il b. interessa sia la
metafisica sia l’etica. Dalla prima è visto come una delle qualità trascenden-
tali dell'essere (insieme all'uno, al vero e al bello). Dalla seconda è
considerato come il fine a cui l'uomo indirizza costantemente le proprie
azioni. Categoria - Significa classe di predicati (o predicamenti). Aristote-
le, che fu il primo a fissarne la classificazione, definisce le c. come idee
generali che non sono riconducibili a nessun'altra. Sono dieci: sostanza,
«qualità, quantità, azione, passione, relazione, tempo, luogo, posizione e
rivestimento (abito). Per Kant e la scuola kantiana, le c. sono i concetti
fondamentali dell'intelletto puro, forme a priori della nostra conoscenza, che
rendono possibili tutte le funzioni del pensiero discor- sivo. Causa - È tutto
ciò che in qualche modo contribuisce alla produ- zione di qualche cosa. È di
Aristotele la classica divisione delle c. in quattro specie: materiale,
formale, efficiente e finale. Le prime due de- signano la materia e la forma, e
per questo sono dette c. intrinseche, mentre la c. efficiente indica l'agente e
la c. finale lo scopo per cui una cosa viene prodotta o un'azione compiuta. Non
rientrando tra gli ele- menti costitutivi di ciò che viene prodotto, le c.
agente e finale sono dette c. estrinseche. Molto si è disputato nella filosofia
moderna sia intorno alla c. agente come a quella finale, 418 Concetto - Denota
una conoscenza universale, astratta ed è pratica- mente sinonimo di idea
universale. Le diverse scuole filosofiche differi- scono profondamente sia
nella spiegazione dell'origine dei c. sia nell’as- segnazione del loro valore.
Quanto all'origine, Platone propone la teoria dell’anamnesi, cioè del ricordo;
Aristotele la teoria dell'astrazione; Ago- stino la teoria dell’illuminazione e
Kant quella della struttura a priori dell'intelletto. Quanto al valore, si sono
proposte tre soluzioni: i c. non hanno nessun valore, essendo dei puri nomi
(flatus vocis); hanno valore totalmente oggettivo e rispecchiano realtà
sussistenti in rerum natura: le Idee dell’Iperuranio; hanno un valore
parzialmente oggettivo e par- zialmente soggettivo: oggettivo quanto al
contenuto, soggettivo quanto alla forma (l'universalità esiste solo nella
mente). La prima è la soluzio- ne dei nominalisti e degli empiristi; la seconda
è la soluzione di Platone e dei suoi discepoli; la terza è la soluzione di
Aristotele, di san Tom- maso e dei loro rispettivi seguaci. Conoscenza - Il
termine è usato sia per designare l'attività con cui si diviene consapevoli di
qualche cosa, di qualche oggetto, sia l’infor- è usato per quella parte che
stu- dia la realtà materiale (dal greco cosmos = mondo e logos = studio).
Aristotele questa parte l'ha chiamata Fisica. Il suo obiettivo non è sem- plicemente
quello di spiegare la costituzione fondamentale dei corpi (ma- teria e forma),
la ragione della loro individuazione, le condizioni del loro esistere (spazio e
tempo), ma anche l'origine prima e il fine ultimo del mondo materiale.
Creazione - In senso lato indica ogni genere di produzione; in senso stretto
designa l'azione con cui Dio trae dal nulla tutte le cose. Secondo la
definizione latina la c. è productio rei ex nihilo sui et subiecti: è pro-
durre una cosa dal nulla rispetto sia alla forma, sia alla materia (su-
biecti). Mentre gli uomini nelle loro « creazioni » traggono le cose dal nulla
rispetto alla forma (in effetti l’uomo può soltanto trasformare ma- teriali già
esistenti) e non rispetto alla materia; è privilegio di Dio trarre le cose dalla
condizione di totale inesistenza. Insegnata dalla Bibbia (Gn. 1,1 ss.) questa
verità è stata ripresa sul piano razionale dalla filosofia cristiana, della
quale è divenuta una delle dottrine emblema- tiche. Cultura - Della c. si danno
tre accezioni principali: elitaria, pedago- gica e etnologica. Secondo la prima
accezione, c. significa erudizione (ha c. chi possiede molte cognizioni, o in
generale o in un campo ristretto, come l’arte, la musica, la filosofia, ecc.).
Secondo la seconda accezione, c. significa educazione: è la c. del corpo {c.
fisica) o dell'anima (c. morale e spirituale), c. degli istinti o degli
affetti, ecc. Di questa c. si occupa la pedagogia. Secondo la terza accezione,
la c. è la forma spirituale di una società, tutto ciò che la unisce all’interno
e la distingue dalle altre so- cietà all’esterno (come fa la c. italiana per
gli italiani, quella francese per i francesi, quella cinese per i cinesi,
ecc.). La c. intesa in questo ultimo senso costituisce l'oggetto sia
dell’antropologia culturale sia della filosofia della c. Deduzione - È un
procedimento raziocinativo con il quale da prin- cipi o proposizioni generali o
universali si discende verso conclusioni meno universali o particolari. La
forma ideale e perfetta della d. è il sillogismo, il quale è un ragionamento
che consta semplicemente di due premesse e di una conclusione. Creatore della
scienza della d., cioè della Logica, fu Aristotele. Kant denomina « deduzione
trascendentale » il suo procedimento con cui cerca di stabilire quali sono i
concetti a priori (cioè le categorie) che vengono applicati agli oggetti
dell'espe- rienza nei vari tipi di giudizi. Definizione - Secondo Aristotele,
la d. è « l'enunciato che esprime la quiddità, cioè l'essenza di una cosa ». La
filosofia moderna si rifiuta di dare alla d. un senso così marcatamente
ontologico e metafisico e per d. intende semplicemente un’operazione logica
mediante la quale si de- zzo filosofico chiamato nuova ermeneutica (Gadamer,
Ricoeur), il termine e. ha acquisito un significato più esteso e più profondo e
sta ad indicare una prospettiva di pensiero che asse- gna sia alla filosofia
che alla teologia il compito di interpretare, poiché l'uomo stesso è un essere
che vive nella precomprensione e nell’inter- pretazione delle cose e della
storia. Esistenza - Nel linguaggio più comune il termine denota semplice- mente
il fatto che qualche cosa è. In filosofia ha acquisito valenze se- n sono
distinguibili fisicamente ma sol- tanto metafisicamente. Secondo san Tommaso,
e. ed esistenza si trovano nel rapporto di potenza e atto: in effetti è
l’esistenza (più esattamente l'atto dell'essere, actus essendi) che conferisce
attualità ad un'e. In Dio e. ed esistenza si identificano. Essere - Da sempre
il termine e. è plurisemantico e, secondo i casi, varia da un minimo di
comprensione (quando si limita a significare la presenza o posizione di una
cosa, come dice Kant) ad una comprensione 422 sconfinata, che « abbraccia tutte
le perfezioni », come afferma san Tom- maso. Secondo Aristotele, Tommaso e
Heidegger studiare l’e., le sue proprietà e le sue manifestazioni è compito
primario della metafisica. Estetica - Termine tratto dal greco aisthesis {=
sensazione), e creato da Baumgarten come titolo della sua opera Aestetica
(1750), che aveva per oggetto l’analisi e la formazione del gusto. Di solito la
si adopera per denominare quella parte della filosofia che si occupa dell'arte:
della sua natura, principi, funzioni e distinzione dalle altre attività dello
spirito. Etica - Dal greco ethos = costume. È la scienza che ha per oggetto il
fine della vita umana e i mezzi per raggiungerio. Storicamente la pa- rola e. è
stata applicata alla morale sotto tutte le sue forme, sia come scienza del
comportamento effettivo degli uomini, sia come arte di guidare il comportamento.
Propriamente l’e. si dovrebbe occupare del bene quale valore primario da
assumere dalla libertà come guida delle proprie scelte. Fede - In generale si
intende la disposizione del credente ad abban- donarsi fiduciosamente nelle
mani di Dio e ad accettare umilmente la sua parola. In modo ulteriore, la f. è
definita come assenso della mente e della volontà alle verità rivelate da Dio e
proposte dalla Chiesa come tali e accettate non in forza della loro intrinseca
evidenza, bensì sull’au- torità di Dio stesso il quale non inganna né può
ingannare. Come dice sant'Agostino, la f. consiste nel credere, nell'accettare
ciò che non è manifesto alla ragione. Il suo oggetto proprio sono i misteri.
Felicità - È la condizione di completo soddisfacimento di tutte le proprie
aspirazioni, soprattutto di quelle che assecondano maggiormente la piena
realizzazione del proprio progetto di umanità. A seconda dei ‘vari progetti di
umanità proposti dai filosofi (eroe, ‘filosofo, gaudente, santo, ecc.), di
volta in volta, la f. è stata riposta nella forza, nella con- templazione, nel
piacere, nell'unione beatificata con Dio, ecc. Fenomeno - Dal greco phainomenai
= apparire. Il termine è usato so- prattutto da Kant, Hegel e Husserl e dai
loro seguaci, con valenze se- mantiche distinte. Per Kant il f. è l'oggetto del
nostro conoscere, un pirito? 429 E in che rapporto si trova lo spirito con la
materia? Il corpo è prigione dell'anima (Platone), strumento dell'anima
(Agostino, Cartesio), compo- nente essenziale ma subordinata all'anima
(Tommaso) o in qualche altro rapporto? Quello gnoseologico si preoccupa di
verificare se questioni come questa, della natura profonda dell'essere
dell'uomo e della sua pos- sibile sopravvivenza dopo la m. siano questioni alla
portata della ragione umana o enigmi insolubili. Una cosa comunque è certa:
anche per chi il problema di tutti i problemi, il problema principe della
ricerca filosofica. È disci- plina importante anche per la teologia perché
l'intelligenza della fede (che è l’obiettivo della teologia) si opera al
massimo livello, quando si ricorre al più alto grado di intelligibilità, e
questo è appunto quello onto- logico o metafisico. Pace - La p. è quella
tranquillitas ordinis (ordine tranquillo) di cui 430 gode una società quando
tutto funziona bene al suo interno e non pa- venta pericoli dall'esterno. Due
sono pertanto le principali espressioni della p.: internazionale e sociale. La
prima riguarda i rapporti di uno Stato con gli altri Stati, mentre la seconda
riguarda i rapporti tra le classi e gli individui di uno stesso Stato
(nazione). Passione - In generale significa una inclinazione veemente, un
senti- mento forte, prepotente, difficilmente controllabile. Nonostante una
certa connotazione negativa del termine, la p. può essere sia buona sia
cattiva: è buona se è volta ad uno scopo, un oggetto moralmente buono; è cat-
tiva nel caso contrario. Le p. hanno costituito argomento di studio da parte di
moltissimi filosofi, in particolare di Aristotele, Tommaso d'Aqui- gli
educatori » (Lalande). Pensiero - Comunemente si dice di tutti i fatti
cognitivi, in oppo- vidua substantia incommunicabilis (una sostanza individua e
inco- municabile di natura ragionevole). iPer i medioevali, fondamento della p.
è l'essere, più esattamente il possesso di un proprio atto d'essere, in- vece
per i moderni fondamento è l’autocoscienza, mentre per i contem- poranei
fondamento è l’intersoggettività oppure l’autotrascendenza. In tutte queste
tesi c'è qualche cosa di vero e, per questo, come definizione adeguata della p.
si può proporre la seguente: un essere sussistente dotato di autocoscienza,
intersoggettività e autotrascendenza. Politica - È lo studio dei fatti
politici, cioè dei fatti che riguardano lo Stato e il governo, in opposizione
ai fatti economici, culturali e so- ciali. La filosofia politica studia
principalmente la questione dell’origine’ dello Stato, la sua strutturazione e
la sua forma migliore, la questione dei rapporti tra lo Stato, le classi
sociali, i partiti e la persona singola, la questione dei rapporti tra politica
e morale, politica e cultura, poli- 431 tica e religione ecc. E in effetti,
tutti questi problemi sono stati affron- tati dai filosofi nel corso dei secoli
a partire da ‘Platone e da Aristotele. Potenza - Nel suo significato più comune
il termine indica la ca- pacità e l'abilità di compiere un'azione. Denota
pertanto l’idea di at- tività e di efficacia. Nella metafisica aristotelica e
scolastica p. si Studiare e risolvere i p., cioè le questioni aperte, è compito
sia della scienza (Popper) sia della filosofia. Compito specifico della filo-
sofia è affrontare e risolvere i problemi ultimi (cfr. « Filosofia » e « Me-
tafisica »). Prospettiva - È il punto di vista che si assume nel vedere, nel
consi- derare, nello studiare una cosa. La filosofia contemporanea vede in
tutte le conoscenze umane, compresi i sistemi scientifici e ‘filosofici,
semplice- mente delle prospettive più o meno allargate; in tal modo rifiuta
ogni forma di olismo, cioè di visione e spiegazione totale, completa, esaustiva
perfetta della realtà. Prova - Operazione mentale con cui si cerca di stabilire
la verità di un’asserzione o la validità di una tesi. Normalmente si tratta di
qualche forma di ragionamento (induttivo o deduttivo), ma può trattarsi anche
di semplice ostensione dei fatti, allora si chiama p. ostensiva. . Ragione -
Comunemente oggi si intende la facoltà conoscitiva propria dell’uomo e di cui
lui solo è dotato. Sostanzialmente questo è il senso che ha il termine anche
nella filosofia scolastica e moderna fino a Kant. È una facoltà discorsiva, che
raggiunge la verità non immediatamente,432 per intuizione (come fa invece
l'intelletto), ma mediante qualche forma di ragionamento. Kant restringe l'uso
del termine r. {Vernunft) alla co- noscenza dell'eterno e dell’assoluto, che
però sortisce risultati estrema- mente deludenti, in quanto la r. in questo
campo può soltanto avvertire e impostare dei problemi senza essere in grado di
risolverli. Relazione - È sostanzialmente sinonimo di rapporto. :È un concetto
fondamentale per molte scuole filosofiche. Nella filosofia hegeliana la r. è la
categoria primaria; in effetti, per Hegel, tutta la realtà non è altro che una
vastissima trama di r. Nella filosofia aristotelica è una delle dieci
categorie, e di tutte sembra la più debole, fragile, povera, dato che non
esiste in se stessa e neppure può vantare una consistenza ontologica analoga a
quella della quantità, della qualità o dell’azione. Per acquisire consistenza
ontologica la r. richiede quanto meno due real- tà, perché si tratta di una
specie di ponte, che si regge soltanto quando ci sono almeno due enti a farle
da sostegno. Eppure, la r. è un veicolo potentissimo di realtà, soprattutto
quando si tratta della r. di causalità, cioè della r. tra causa ed effetto,
perché l’effetto in quanto effetto deve tutta la sua realtà, tutto il suo
essere alla causa: questa è causa soltanto nella misura in cui è in r. con
l’effetto e gli comunica qualche cosa del proprio essere. Si è soliti
distinguere tra r. reali e logiche: le prime sono quelle che influiscono
sull'essere dei termini rapportati, le seconde non influiscono. La categoria di
r. riveste, infine, una importanza fondamen- tale nel personalismo
contemporaneo, che, centrato sulla struttura dia- logica della persona umana,
ne coglie come costitutiva la r. io-tu, fonda- mento di ogni possibile forma di
comunicazione. Una sintesi concettuale che accomuna i personalisti è quella
relativa all'uomo come essere-di- relazione. Religione - Dal latino religare =
legare insieme. È l'insieme dei miti (racconti, testi sacri) e dei riti
(preghiere, azioni, sacrifici) con cui l’uo- mo esprime e attua i suoi rapporti
con Dio. La r. è l’espressione spon- tanea, naturale della condizione di
finitezza e creaturalità dell’uomo. Ogni popolo, sviluppando la propria
cultura, si crea anche una r. (che nella maggior parte dei casi, storicamente,
assume un carattere animi- stico, politeistico, mitologico, magico). Oltre alle
r. « naturali » esistono anche tre r. « storiche » o rivelate: l’ebraismo, il
cristianesimo e l’isla- mismo, a cui forse va aggiunto anche il buddismo, se lo
si considera una r. e non una semplice filosofia. Riflessione - Vedi «
Autocoscienza ». Rivoluzione - R. è «lo sviluppo di nuove forme di potere che
divi- dano ed indeboliscano il vecchio ordine e facciano posto al sorgere del
nuovo, e che nello stesso tempo siano in grado di stabilizzare il nuovo al suo
sorgere in mezzo al vecchio » (R. Schaull). È una categoria che si applica a
qualsiasi ordine di cose, così si può parlare di r. religiosa, filosofica,
scientifica, letteraria, economica, politica, ecc. Ma più comu- nemente si usa
per l'ordine socio-politico. In tutti i casi, la r. è un valore strumentale e
non assoluto, ed è un valore positivo quando serve la causa dell'uomo {della società,
della nazione, del popolo) non gli inte- ressi di una sola classe, di un
partito e tanto meno di una sola persona. 433 Sacro - In senso generale e più
proprio, questo termine denota un ordine di cose separato, riservato e
inviolabile, che deve essere oggetto di rispetto religioso da parte di un
gruppo di credenti. È correlativo di profano. Il s. è la qualità specifica che
caratterizza la dimensione religiosa (questa è per definizione la dimensione
del s.), come il vero è la qualità specifica della dimensione gnoseologica e il
bene della dimen- sione appetitiva. È una qualità analogica che ha per
analogato principale Dio (che è il s. per eccellenza) e per analogati secondari
tutte le cose o persone che si trovano o vengono messe in rapporto con Lui: come
libri (libri s.), attività (arte s., musica s., ecc.) persone (persone consa-
crate). Scienza - Termine polivalente, la cui gamma semantica va dal conosce-
re in generale alla conoscenza metodica più rigorosa e sofisticata. Di soli-
to, comunque, si intende una conoscenza sistematica intorno ad un deter- minato
oggetto, condotta con rigore ed obiettività. È un concetto essen- zialmente
analogico, in quanto sia il rigore sia la obiettività variano da oggetto ad
oggetto. Grazie alla sua metodologia assai precisa e al- l'obiettività
facilmente verificabile nell'epoca moderna e contempora- nea non solo si è
visto nella scienza sperimentale il tipo ideale del sapere scientifico, ma
spesse volte si è identificato la s. con esso sic et simpli- citer (così l’illuminismo,
il positivismo, il neopositivismo, il materiali- smo, ecc.). Oggi che le
ambizioni della s. sono state fortemente ridimen- sionate sia quanto alla
portata sia quanto al rigore e all’obiettività, si ritorna a riaffermare il
valore analogico del termine s. Segno - Tutto ciò che ha il potere di
richiamare l’attenzione oltre che su se stesso anche su un'altra cosa. Così, il
fumo in quanto richiama l'idea del fuoco, le nubi in quanto richiamano l’idea
dell’acqua, la co- lomba in quanto richiama l’idea della pace, un suono
vocalico in quanto richiama l’idea di un determinato significato, ecc. Il regno
dei s. è va- stissimo, infinito. Se ne distinguono molti generi: naturali e
conven- zionali, iconici e arbitrari, vocalici e scritti, ecc. Area massimamente
importante è quella dei s. linguistici. In effetti, il linguaggio non è altro
che un insieme di s. volto alla comunicazione tra gli uomini. Due sono le
discipline principali che si occupano dello studio del linguaggio: la
linguistica che studia i s. dal punto di vista fonetico, grammaticale e
sintattico e la semantica che studia il linguaggio dal punto di vista del
significato. Simbolo - Dal greco symballo = comporre, mettere insieme. Il ter-
mine si adopera per significare tutto ciò che si collega intenzionalmente con
qualche altra cosa e perciò serve a richiamarla. In genere viene con- siderato
come sinonimo di segno; ma qualche autore (per esempio, Tillich) assegna al s.
una pregnanza semantica più forte, in quanto, mentre i segni possono essere
prodotti puramente convenzionali, ciù non si avvera nel caso dei s., in quanto
questi comportano una partecipa- zione nella realtà della cosa di cui sono
simboli (così, per esempio, l’ac- qua battesimale, s. della purificazione
dell'anima). Nel linguaggio eccle- siastico la parola s. è stata adoperata sin
dalle origini per indicare una formula di fede ufficiale, che serve come carta
di identità, come tessera distintiva anzitutto di appartenenza alla Chiesa e in
secondo luogo di 434 ortodossia (per esempio, il Simbolo apostolico, il Simbolo
costantino- politano, ecc.). Sintesi - In generale significa composizione: il
mettere insieme ele- menti dapprima separati. In particolare e in senso
tecnico, s. indica quel processo logico — tipico delle scienze sperimentali — per
cui si passa da nozioni più semplici o da dati particolari per ottenere
asserzioni più complesse e universali. Società - Qualsiasi gruppo di individui
che si riuniscono per il con- seguimento di determinati obiettivi. In questo
senso il termine s. ha un'estensione vastissima: si applica alla famiglia, alla
Chiesa, allo Stato, ai gruppi sportivi, culturali, economici, ecc. In senso
proprio, il termine designa un « insieme di individui i cui rapporti sono
consolidati in isti- tuzioni nonché, per lo più, garantiti dall'esistenza di
sanzioni, sia codi- ficate sia diffuse, che fanno sentire all'individuo
l’azione e la costrizione della collettività » (Lalande). Sociologia - Termine
di accezione recente nel linguaggio filosofico e delle scienze umane e risale
alla filosofia positivistica di Augusto Comte (metà del sec. XIX), il padre
della s. Egli l’ha considerata la forma di sapere positivo per eccellenza,
essendo lo studio del predotto proprio della natura umana: la società. Anche
successivamente il termine ha continuato a mantenere il significato di scienza
dell’« attività sociale » e, poiché questa attività è sempre orientata a
sistemi sociali, si può anche dire che la s. è la scienza dei sistemi e dei
gruppi sociali (piccoli e grandi). Sostanza - In filosofia questo termine ha un
significato tecnico ben preciso: secondo la classica definizione che ne ha dato
Aristotele, la s. « è ciò che è in sé e non in un'altra cosa ». S. è qualsiasi
realtà dotata di un proprio atto di essere e ha quindi una sua consistenza
ontologica. È il contrapposto di accidente, che non ha un proprio atto di
essere, ma per esistere, deve appoggiarsi, deve inerire (inesse) alla s. di cui
è un frutto più o meno avventizio (per questo si distingue tra « accidenti
propri» e « accidenti accidenti » o « accidenti puri»). Nella filosofia
moderna, a partire da Locke, il termine s. è stato svuotato di questa densità
ontologica e ridotto a mero sustrato, inattingibile dall'intelletto umano, in
quanto questo, ristretto ai dati dell'esperienza sensitiva, non può andare
oltre i fenomeni. Spazio - Nel linguaggio filosofico questo termine significa
il luogo o ambiente illimitato e indefinito in cui gli oggetti reali appaiono
collo- tati. Questo concetto è stato variamente inteso dalle scuole filosofiche
antiche e moderne. Le soluzioni proposte si possono ridurre a tre: quel- la
ultrarealistica o realistica che vede nello s. una realtà interamente oggettiva
sussistente in se stessa, come un grande recipiente che con- tiene tutte le
cose materiali (Platone, Newton); una idea puramente sog- gettiva, una forma a
priori della sensibilità, che mette ordine ai feno- meni materiali (Kant); una
costruzione mentale con fondamento nelle cose (Aristotele). Speranza - Il
termine indica un atteggiamento fondamentale dello spirito umano: quello di
fiducia verso il futuro, più precisamente di 435 attesa fiduciosa di qualche
futuro evento. C'è una s. umana, quando è fondata su calcoli umani; c’è una s.
cristiana o religiosa quando è fon- data sulla parola di Dio, le sue promesse,
la sua grazia. Generalmente trascurata da tutta la riflessione filosofica
antica e moderna, la s. è diventata argomento fondamentale nelle riflessioni e
nei « sistemi » di Bloch (Il principio speranza), Marcel (Homo viator), «Pieper
(Speranza e storia). SPIRITO. Con questo termine si denota qualsiasi realtà
immateriale, cioè superiore alla materia e indipendente da essa, quanto meno
nel- l'ordine ontologico. Con riferimento all'uomo si dice dell'anima, in
con-trapposizione al corpo; con riferimento all'universo si dice di Dio in
contrapposizione al mondo e alla materia. La parola s. viene adoperata spesso e
volentieri anche da una cultura fortemente sensistica e mate- rialistica qual è
la nostra. Pur negando Dio e tutto il mondo della tra- scendenza, che — in sede
ontologica — è l'unico mondo che meriti effet- tivamente il nome di s., la
cultura laica, e talvolta ostentatamente atea del nostro tempo, non esita a
parlare con rispetto di « valori spirituali », ad esaltarne l’importanza e a
invocarne la riabilitazione per salvare la nostra società. Ma è chiaro che
tutto questo è vaniloquio se nell'uomo e al di sopra dell’uomo stesso non
esiste una dimensione, una realtà effet- tivamente spirituale. Storia - È
l'insieme degli eventi di cui l’attore principale è l'uomo. Analogicamente il
termine si applica anche alla natura e perciò si parla anche di s. naturale. La
s. nel senso che si è detto è un concetto squisi- tamente biblico e cristiano,
ignoto alla filosofia greca, anche se come sequenza di eventi il concetto è già
presente nei narratori greci (Tuci- dide, Erodoto). Sulla natura, senso,
periodizzazione della s. e sulla co- scienza storica la riflessione filosofica
s'è concentrata soltanto nell'epoca moderna a partire da Vico, dando luogo a
tre soluzioni principali: cri- stiana (che fa intervenire nelle vicende umane
anche la Provvidenza di- vina), idealista (che fa della s. una manifestazione
diretta dello Spirito Assoluto), atea, che esclude totalmente Dio dal processo
storico e lo con- sidera esclusivamente un'opera dell'uomo. I due orientamenti
più re- centi circa l’interpretazione della s. sono quelli dell’Historie e
della Geschichte: il primo considera la storia solo in relazione al fatto nella
sua contingenza e relatività; il secondo considera la storia come « tempo-
ralizzazione » dei valori (o degli anti-valori), che contrassegnano la condotta
umana. Tecnica - È l'insieme di procedimenti ben definiti e trasmissibili de-
stinati a conseguire un risultato utile. In altre parole: sono i procedi- menti
e gli strumenti escogitati dall'uomo per dominare la natura e as- servirla ai
propri bisogni. È una delle componenti.fondamentali della cultura insieme al
linguaggio, ai costumi e ai valori: costituisce in un certo qual modo la sua
esteriorizzazione. La t. rappresenta il risvolto pratico, applicato, della
cultura: è l'applicazione al mondo della natura delle acquisizioni simboliche.
Per questo, scienza e t. camminano di pari passo. Man mano che progredisce la
conoscenza teorica delle leggi della natura, avanza anche la capacità dell'uomo
di sfruttare le sue ri- sorse. Così la storia della t. coincide sostanzialmente
con la storia della scienza. Alle conoscenze prescientifiche corrispondono t.
estremamente 436 elementari di tipo manuale ed artigianale. Poi, col
sopraggiungere della conoscenza scientifica, ha inizio l'invenzione di i.
sempre più complesse, che trasformano l’uomo da semplice homo faber in homo
tecnologicus (vedi anche « Lavoro »). Tempo - In generale per t. si intende una
durata infinita di momenti, simile all'estensione spaziale, entro la quale
durata trovano posto tutte le altre durate più o meno lunghe degli anni, delle
stagioni, dei mesi, dei giorni, delle ore, ecc. La riflessione dei filosofi sul
tempo ha camminato di pari passo con la riflessione sul t. e ha dato luogo
sostanzial- mente alle stesse soluzioni: ultrarealistica o realistica (Platone,
New- ton), concettualistica (Kant) e logico-realistica (Aristotele). È di
Aristo- tele la celebre definizione: « Il tempo è la misura del movimento
secondo il prima e il poi ». Intendiamo, infine, per « tempo cronologico »
quello segnato dagli eventi inconsapevoli della natura e per « tempo storico »
quello che è oggetto della coscienza riflessa dell’uomo, che contrassegna il t.
cronologico con l'incidenza delle sue azioni consapevoli e libere. Teodicea -
Termine coniato da Leibniz e che etimologicamente signi- fica « difesa di Dio »
(dal greco dîìke = difesa e theòs = Dio). Si dice di quella parte della
filosofia che si occupa dell’esistenza di Dio, della sua natura e dei suoi
attributi. Questa parte si chiama anche « teologia na- turale ». Intorno alla
possibilità di questa disciplina i filosofi sono di- visi in due grandi
partiti: quelli che, assegnando alla conoscenza razio- nale un valore obiettivo,
la ritengono possibile (e sono quasi tutti i filo- sofi antichi, medioevali e
moderni fino a Kant) e quelli che, riconoscendo al conoscere un valore
puramente soggettivo, la giudicano impossibile (questa è la tesi di molti
filosofi dopo Kant). TEORIA. Dal greco theoria = visione di uno spettacolo,
oppure visione intellettuale. Nel linguaggio filosofico ha due valenze
semantiche prin- cipali, una in opposizione alla conoscenza volgare e l'altra
in opposizione a quella pratica. Nel primo caso, significa una concezione
metodica organiz- zata sistematicamente e rigorosamente (e ciò vale sia per il
campo scienti- fico sia per quello filosofico); nel secondo, t. significa ciò
che è oggetto di una conoscenza disinteressata, indipendentemente dalle sue
applica- zioni. Tradizione - Comunemente il termine t. significa ciò che in una
so- cietà, piccola o grande, si irasmette in maniera viva, sia per mezzo della
parola sia della scrittura e dei modi di agire. In questo senso, la t.
rappresenta la vita stessa di una cultura, la sua storia. Pertanto non ci può
essere cultura senza t. né t. senza cultura. Il valore di una t. va controllato
con la bilancia del valore-uomo. Questo controllo consen- tirà di constatare
che, analogamente alle culture, nessuna tradizione è un valore interamente
positivo sotto ogni aspetto in tutte le circostanze, perché in nessuna t. si
realizza pienamente quel valore o quei valori in cui una cultura intende
specializzarsi e tanto meno tutto l'universo dei valori. Per questo, nessuna t.
dal punto di vista della ragione appare divina, assoluta, perfetta, sacra e
intoccabile. Per contro, ci sono culture e anche t. molto povere e talvolta
anche gravemente difettose ed er- rate. Colui che le possiede ha il diritto e
il dovere di rivederle, criticarle, correggerle e, se necessario, anche
abbandonarle. 437 Trascendentale - In filosofia questo termine conosce due usi
princi- pali, quello aristotelico-scolastico e quello kantiano. Nella filosofia
ari- stotelico-scolastica sta ad indicare le proprietà fondamentali
dell'essere, che secondo alcuni autori sono tre: l'uno, il vero e il bene,
secondo altri sono quattro (ai tre precedenti aggiungono anche il bello). Nella
filosofia kantiana t. sta ad indicare le condizioni a priori del conoscere e il
loro studio (estetica t., analitica t. e logica t.). Trascendenza - Dal latino
trans-ascendere = salir su, valicare. Il con- cetto di t. è attinto
dall'esperienza sensibile e in tale ambito denota una relazione spaziale: di
superamento, sconfinamento, oltrepassamento, ecc. Successivamente questo
concetto dalle cose materiali è stato tra- sferito a quelle spirituali e
astratte. Così si è potuta, dire che il mondo dello spirito trascende quello
della natura, che Dio trascende il mondo, ecc. In termini recenti in filosofia,
ha acquisito un significato tecnico e sta ad indicare la realtà divina; la t. è
Dio. Però, oltre che per parlare di Dio, il termine t. viene adoperato oggi
anche per parlare dell’uomo e lo si adopera soprattutto per indicare la
capacità che l’uomo ha di superare costantemente se stesso in tutto ciò che fa,
che dice, che pensa e che è. È questa, dell'autotrascendenza, una delle
proprietà specifiche dell'uomo e più ricche di significato al fine di una
comprensione del suo essere profondo. Umanesimo - Questo termine è usato sia
come nome proprio sia come nome comune. Nel primo caso indica quel movimento
spirituale rappre- sentato dagli « umanisti » del Rinascimento (Ficino, Valla,
Pico della Mi- randola, Erasmo, ecc.) e caratterizzato dallo sforzo di sollevare
la dignità dello spirito umano e di rimetterlo in valore richiamandosi
all’antichità classica greca e romana. Come nome comune significa qualsiasi
dot- trina che esprime e sottolinea il valore dell'uomo. Ciò si può fare asso-
lutizzando il valore dell’uomo con l'esclusione di Dio e allora si parla di u.
ateo, o affermando il valore dell'uomo in coniugazione e subordina- zione al
valore di Dio e allora si parla di u. religioso o cristiano. Univocità - È la
funzione semantica propria di un termine che viene applicato a molti soggetti
sempre con lo stesso significato. Per esempio, l'applicazione del termine «
uomo » a Pietro, Paolo, Giovanni, Marco, ecc. Utopia - Dal greco ou = non e
topos = luogo e pertanto significa una realtà che non esiste in nessun luogo.
Il nome fu introdotto da Tom- maso Moro nel titolo della sua famosa opera De
optimo reipublicae statu, deque nova insula Utopia, nella quale descrive un
popolo perfettamente saggio, forte e felice grazie alle istituzioni ideali di
cui gode, il quale abita appunto nell'isola di Utopia. Organizzazioni ideali ed
immaginarie della società umana, sull'esempio di Moro, furono escogitate da
Cam- panella, da Fénelon e, con pretese più scientifiche, da Comte e da Marx.
Del ruolo dell’u. nella dinamica sociale e culturale la filosofia ha co-
minciato ad occuparsi soltanto recentemente. A questo riguardo occorre evitare
sia la posizione di rifiuto categorico come se l’u. fosse soltanto un fattore
alienante, sia quello di approvazione incondizionata, come se l’u. fosse la
panacea di tutti i mali. Valore - « Il senso esatto di valore è difficile da
definire rigorosa- mente perché il più delle volte questa parola esprime un
concetto in- 438 stabile, un passaggio dal fatto al diritto, dal desiderato al
desiderabile » (Lalande). In italiano v. possiede tre significati principali:
economico, etico, ontologico. In economia significa « danaro », in etica la
virtù con cui si affrontano gravi pericoli e si compiono grandi imprese; in
ontolo- gia la qualità per cui una cosa possiede dignità ed è quindi degna di
stima e di rispetto. La scienza dei v. — cioè l'assiologia — si occupa del
concetto di v. inteso secondo il terzo senso e cerca di comprendere qual è la
sua natura effettiva, le sue caratteristiche essenziali, i suoi rapporti con
gli altri trascendentali dell'essere e di fissare l'ordine e la gerarchia dei
v. Verità - Questo termine assume in filosofia un significato veramente
fondamentale, perché il sapere filosofico si configura anzitutto come amore e
ricerca della v. Secondo la definizione più classica, la v. è la conformità
della mente, cioè della conoscenza con la realtà. Questa si chiama anche v.
logica. Ad essa si contrappone la v. ontologica, che è la corrispondenza delle
cose alla mente divina, che le ha ideate. C'è anche una terza forma di v. ed è
la v. morale che è data dalla corrispondenza delle proprie intenzioni con le
esigenze della moralità. Non c'è dubbio che la v. è un valore fondamentale
anzitutto nell'ordine noetico, perché essa costituisce l’obiettivo principale
di detto ordine, ma è valore primario anche per altri ordini: pedagogico,
epistemologico, onto- logico e culturale. Della v. i filosofi si sono occupati
da sempre sia per definirne l'essenza, sia per scoprire le vie per
raggiungerla, come pure per determinare i criteri per identificarla. Due sono i
criteri per deter- minare ia v.i quello oggettivo dell'evidenza e quello
soggettivo della certezza. L'integrazione dei due criteri è proprio delle
filosofie intellettua- listico-realiste (da Aristotele a S. Tommaso a Maritain,
ecc.). Il primato del criterio della certezza è proprio delle filosofie
idealistico-dogmatiche (da Plaione a Cartesio ad Hegel, ecc.). Virtù - Con
questo termine generalmente si intende un'abitudine, cioè una disposizione
ferma e costante, ad agire bene: è un'’inclinazione al bene che si è
consolidata, tanto che il virtuoso è portato ad agire bene (per esempio, ad
essere casto, generoso, coraggioso, umile, ecc.) con spontaneità, anzi con
veemenza. La v. è oggetto primario dell'etica, in quanto questa studia il fine
dell'uomo e i mezzi per raggiungerlo e la v. è appunto il mezzo principale. La
‘v. si può dividere e classificare in tanti modi. Importante è la divisione tra
v. etiche e v. dianoetiche: le prime sono le disposizioni ad operare bene
nell'ordine morale; le seconde nell'ordine speculativo o intellettuale. Vita -
È la qualità per cui un essere è capace di muovere se stesso. Dal punto di
vista della biologia molecolare la v. consiste esclusivamente in una singolare
e più complessa strutturazione delle molecole rispetto alla strutturazione che
si incontra nella sostanza inorganica. Fenome- nologicamente la v. si manifesta
come un movimento che diversamente da quello meccanico è immanente (cioè va a
vantaggio del soggetto che lo produce) e spontaneo (è prodotto direttamente dal
soggetto stesso grazie alla sua costituzione intrinseca). Le caratteristiche
principali della v. sono: potere di crescere, di rispondere all'ambiente e di
riprodursi. Si è soliti distinguere tre gradi di v.: vegetativa, sensitiva,
razionale; la prima è propria delle piante, la seconda degli animali, la terza
dell'uomo. 439 Vocazione - Con questo termine generalmente si intende la
chiamata che una persona sente dentro di sé a svolgere determinate attività e ad
assumere un certo ruolo nella società. Nella concezione secolarizzata della
vita la v. è semplicemente siffatta inclinazione. Invece nella vi- suale
cristiana, la diversità di attitudini fa parte del piano provviden- ziale che
Dio ha concepito per ogni singolo uomo e la v. non è altro che il modo con cui
Dio fa sentire a ciascuno la chiamata alla realizzazione del suo piano o
progetto. Tema raramente trattato nella storia della filosofia, quello della v.
ha acquisito rilevanza speculativa soprattutto per merito dei personalisti e
degli esistenzialisti cristiani (Marcel). Volontà - È il nome che si dà alla
facoltà che ha l'uomo di tendere verso il bene; si dice anche appetito
razionale, per distinguerlo dall’ap- petito sensitivo che è proprio degli animali.
Mentre l'appetito sensitivo è una tendenza istintiva, quello razionale cioè
l'inclinazione della v., è un appetito guidato, calcolato, libero. Il
privilegio della v. è in effetti quello di essere libera: cioè padrona dei
propri atti e quindi anche degli oggetti verso cui si porta con le sue
decisioni. In filosofia due sono le grosse questioni che sono state dibattute
in ogni tempo a proposito della v.: una riguarda proprio la libertà. La
questione è di sapere se, nono- stante tutti i condizionamenti cui viene
sottoposta la v. umana, essa può dirsi veramente libera (è la controversia tra
i deterministi e gli inde- terministi). La seconda è se nell'uomo conta
maggiormente la cono- scenza o la v. {è la controversia tra intellettualisti
che assegnano il primato alla conoscenza e volontaristi che per contro
assegnano il pri- mato alla v.). Abbagnano Abelardo Adler Adam K., 108 Adorno
Agazzi Agostino Alberto Magno, 28, 248, 272, 276, 341 Alembert (d’) J.B., 331
Alessandro di Hales, 251, 252 Aliotta A., 269 Althusser L., 273 Ammonio Sacca,
249, 327 Anassagora, 245, 273 Anassimandro Anassimene, 242 Anselmo d'Aosta
(sant’), 247, 251, 274 Antistene, 245 Aristippo Ardigò Aristotele Attalo Averroé
Avicebron Avicenna Ayer Bachelard Bacone Bacone Bakunin Balthasar Barbotin
Barth Basilio Bauer Baumgarten Bautain Benoist Berger G., 216 Bergson Berkeley
Bernardo di Clairvaux, 251 Bernstein E., 279, 311 Bloch Blondel M., 86, 106,
107, 263, 280 Bloy L., 320 Boezio Bonaventura da Bagnoregio (Bonifacio VIII,
145, 156 Bontadini G., 263, 282 Boros Boutroux Bradley Brentano Bruni Bruno
Brunschvicg Buber Bultmann Vio Calvino Camus Carabellese Carnap Carneade, 285
Cartesio Cassirer E., 208 Chiang-kai-sheck, 165, 318 Church A., 23, 24 Cicerone
M.T., 8, 285 Alessandrino Comte Copernico N., 67, 135 Cratilo, 326 Crisippo,
291 Crispino, 249 Croce Cullmann Cusano N., 67, 247, 250, 287 Damiani P., 424
Dante Alighieri, 151 Darwin Dawson C., 216 De Finance De Lubach H., 197
Democrito Deng Hsiao-ping, 166 De Saussure F., 264, 294, 314 Descartes (v.
Cartesio) Derisi, 224, 226 Dessauer Vitoria Dewey Diderot D., 255 Dilthey Dollè
Duhem P., 40 Durkheim E., 102 Eckhart J., 289 Eddington Einstein Eliade
Epicuro, 66, 120, 249, 29/ Eraclito di Efeso, 11, 194, 243, 292 Erasmo da
Rotterdam, 438 Eròdoto, 436 Esiodo, 64, 65 Eucken R., 222, 223, 333 Euclide,
41, 246 Fabro C., 263 Fénelon F., 438 L., 81, 102, 103, 290, 292 Feyerabend
Fichte Ficino Filone Alessandrino, 79, 293 Fink E., 77, 425 Foucault M., 208,
265, 293, 421 Frege F.L.G., 22, 44, 344 Freud Gadamer Galluppi P., 295 Garaudy
Gehlen A., 75, 77 Giannone P., 255 Gilson Gioberti Giovanni Damasceno, 298
Giovanni Paolo II Glucksmann A., 267, 298 Gbdel K., 23, 43 Goethe Gogarten F.,
261 Gollwitzer H., 85 Gorgia, 28, 244 Gramsci Guardini Guerin M., 267 Guglielmo
di Champeaux Guitton Guzzo Haeckel E.H., 257 Hammer, 227 Hamelin O., 256
Hartmann Hegel Heidegger Heisenberg W., 43 Helvetius C.A., 119 Herbart J.F.,
257, 303 Herder J.G., 52, 207, 208, 304, 305, 338 Hilbert D., 44 Hildebrand D.,
223 Hobbes Horkheimer Humboldt Hume Husserl di Elide, 244 Innocenzo III, 145
Illich I, 261 Ch., 267 James Jaspers K., 102, 261, 269, 307, 342 Jung C.G., 308
Kant Kautsky K., 309, 311 Keplero G., 67 i KierkegaardKorsch K., 3// Kruscev
N., 339 Kuhn Th., 98, 267 Laberthonnière Labriola A., 3/1 Lachelier J., 263
Lakatos I., 98 Lalande Lamennais H.F.R. (de), 424 Lang Lardreau G., 267 Lavelle
Lavoisier A.L., 67 Lazzarini, 263 Leibniz Lenin Le Senne Lévinas Lipps T., 339
Litt Lonergan B., 216 Lotze Luckmann Th., 77, 216 Lucrezio Lukacs Lutero
Luxemburg R., 317 Lyell Ch., 337 Mach E., 40 Machiavelli N., 145, 151, 152 J.,
54 Maimonide M., 102, 268 Malebranche Mao Marcel Marco Aurelio, 249 Marcuse
Maritain Marsilio da Padova, 151, 156 Martinetti Marx Masnovo McTaggart Mead
Meinong Mercier Merleau-Ponty Metz J.-B., 86 Meyerson E., 45 Mialaret G., 134
Mill Monod J., 428 Montaigne M., 33, 120, 249 Moore G.E., 224 Moro T., 438
Mounier E., 262, 322 Mouroux J., 197 Muller A., 102 Musonio Rufo, 291 Newton
Neuraht O., 260 Niebuhr R., 216 Nietzsche Neleo Occam Ogden-Richards, 54 Olivi
P., 252 Omero, 64,65 Orazio, 249 444 Origene Ortega Otio R., 102, 106, 108,
199, 110 Parmenide Pascal Payet Peano Péguy Ch., 322 Peirce Ch.S., 259, 325
Piaget J., 325 Pico della Mirandola, 67, 438 Pieper Pietro Lombardo, 336
Pitagora Platone Plessner Plotino Poincaré J.H., 40, 42, 43, 44 Polanyi K., 54
Pollock Pomponazzi Popper Porfirio Prini P., 224 Proclo Prodico di Ceo, 244
Protagora Pseudo-Dionigi Quine Quiles J., 262 Rahner K., 86, 252 Ravaisson
Reale Reichenbach, 260 Reid T., 255 Reimarus, 255 Renan J.E., 52 Renouvier
Riccardo di S. Vittore, 25î Rickert Ricoeur Riemann B., 44 Rintelen F.J., 226
Rissi (p.), 342 Rogers C., 421 Rosmini Roscellino, 269 Rousseau Royce J., 256
Russell Saint-Simon C.H., 257, 286, 33/ Santayana G., 332 Sartre Scheler
Schelling Schiller Schlegel Schleiermacher F.D.E., 334 Schlick Schòkel L., 54
Schopenhauer Schmidt Sciacca Scoto Seneca Senofonte, 102 Sesto Empirico, 20,
21, 285 Silvestri, 78 Simmel Socrate Solzenicyn Sorel Sozione, 336 Spencer
Spengler O., 198, 208 Spinoza Spirito Stalin Stefanini Stevenson Stein Strawson
Sturm Sturzo Suarez Taine Talete Taylor Taziano Teilhard Telesio Teofrasto Tertulliano
Tillich Tolomeo Aquino Tonini Toynbee Trotzsky Tucidide Turchi Ullmann Ugo di S.
Vittore Valla Vanni Rovighi Vergote Vico Voltaire Whitehead Wittmann,
Windelband Wittgenstein Wolff Zabarella Zenone Che cos'è la filosofia 1.1 La
conoscenza intellettuale Riflessione filosofica Natura della filosofia Le
origini della filosofia Filosofia elementare e scientifica Mito e filosofia I
problemi filosofici fondamentali I PROBLEMI FILOSOFICI IL PROBLEMA LOGICO
Natura del problema 2. Panorama storico IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO {o problema
della conoscenza) 1. Le forme della conoscenza umana Origine della conoscenza
Valore della conoscenza Il metodo ILPROBLEMAEPISTEMOLOGICO(0problema della scienza)1.Evoluzionedelconcetto
di scienza nel corso dei secoli 2. Classificazione delle scienze e natura del
sapere scientifico secondo gli epistemologi contemporanei IL PROBLEMA
LINGUISTICO (o filosofia del linguaggio) Caratteri del linguaggio Origine del
linguaggio Condizioni essenziali del linguaggio Funzioni e valore del
linguaggio Funzione descrittiva Funzione comunicativa Funzione e valore
esistenziale Rapporto del linguaggio col pensiero, con le cose e con gli
interlocutori IL PROBLEMA COSMOLOGICO 1. Problematicità dell'universo 2. La
cosmologia nel pensiero occidentale 3. La cosmologia nel secolo IL PROBLEMA
ANTROPOLOGICO 1. Natura del problema 2. Panorama storico 3. Il significato
dell'autotrascendenza IL PROBLEMA METAFISICO 1. L'origine del termine 2.
Oggetto della metafisica 2. Metodo della metafisica 4. Sguardo storico IL
PROBLEMA RELIGIOSO 1. I termini del problema 2. Le principali interpretazioni
filosofiche della religione al Demistificazione della religione Difesa della
religione 06) 3. Definizione della religione e sua distinzione dall'arte, dalla
filosofia e dalla morale 4. Fondazione teoretica della religione IL PROBLEMA
ETICO O MORALE 1. La prospettiva critica 2. La prospettiva teoretica 3. Il
problema etico ha delle soluzioni? IL PROBLEMA PEDAGOGICO 1. La pedagogia come
teoria pratica Autonomia della scienza pedagogica e interdisciplinarietà 3.
Soggetto e finalità della pedagogia 4. I tre aspetti fondamentali
dell'educazione 5. Autoeducazione ed eteroeducazione 6. L'attivismo pedagogico
IL PROBLEMA POLITICO E SOCIALE 1. I termini del problema 2. Natura sociale
dell’uomo 3. L'origine dello Stato 4. Le forme di governo 5 . Rapporti tra
politica e morale a partire dall'epoca mo- derna 6. Rapporti tra Stato e Chiesa
7. Rapporti tra fede e politica 8. Lettura politica del messaggio evangelico
Capitalismo o socialismo? Il capitalismo classico Il neocapitalismo Il
labourismo e ia socialdemocrazia Il socialismo marxista Il
marxismo-leninismo-stalinismo L'esperienza del maoismo in Cina (165) - 9.7
Crisi del marxismo ortodosso: i nuo- vi marxismi (166) 10. Le dottrine sociali
di ispirazione cristiana 11. Il cristiano e la promozione della coscienza
sociale e poli- tica: la mediazione culturale e l'impegno politico I nuovi
problemi impongono una nuova concezione di so- cietà ‘La nuova società « post-industriale » o
della comunicazione La «crisi epocale » della società nell'era tecnologica È
necessario un nuovo progetto culturale IL PROBLEMA ESTETICO 1. Natura
dell'opera d’arte Il fine dell'opera d'arte 3. Arte e morale IL PROBLEMA
STORICO Il concetto di storia Possibilità della scienza storica Scetticismo
storico Realismo storico (194) 3. La storia è veramente una scienza?
L'interpretazione della storia IL
PROBLEMA CULTURALE Il probleina della cultura nella storia della filosofia
L'uomo come essere culturale 4. 5 6 Definizione La cultura come forma
spirituale della società . Gli elementi fondamentali della cultura . Rapporti
tra cultura e religione IL PROBLEMA DEI VALORI O ASSIOLOGICO 1. . Definizione
del valore . Lo statuto ontologico dei valori . Gerarchia e classificazione dei
valori . La facoltà dei valori U ASUWUN Informazioni storiche sull’assiologia I
SISTEMI FILOSOFICI PRINCIPALI UDAWNE .
Scuola ionica o di Mileto Scuola pitagorica . Scuola eleatica Scuola atomista
Scuola sofista . Scuola eclettica o ‘fisico-pluralista . Scuola socratica .
Scuola platonica . Scuola aristotelica . Scuola stoica . Scuola epicurea .
Scuola neoplatonica . Scuola agostiniana . Scuola tomista . Scuola francescana
. Scuola razionalista . Scuola empirista . Scuola illuminista . Scuola
idealista . Scuola volontarista. Scuola positivista . Scuola
materialista-marxista Scuola pragmatista Scuola neopositivista Scuola
esistenzialista Scuola personalista Scuola spiritualista Scuola di Francoforte
Scuola strutturalista 30. Scuola fenomenologica 31. Scuola epistemologica ‘Nuovi Filosofi I PRINCIPALI FILOSOFI Schede
sui principali filosofi Abbagnano Abelardo Adler Adorno Agostino Alberto Mo
Althusser Anassagora Anassimandro Anassimene Anselmo d'Aosta Ardigò Aristotele
Averroè Avicenna Bachelard Bacone Bergson Berkeley Bernstein Bloch Blondel Boezio
Severino FIDANZA Bontadini Boutroux Bruno Buber Butler Calvino Campanella
Carnap Carneade Car- tesio Comte Croce Cusano
Darwin Democrito Dewey Dilthey Eckhart Empedocle Engels Epicuro Epit-
teto Eraclito Feuerbach Fichte Filone Foucault Freud Galilei Galluppi Garaudy
Gentile Gilson Gioberti Giovanni Damasceno Glucksmann Gramsci Guardini Habermas
Hartmann Hegel Heidegger Herbart Herder Hobbes Horkheimer Humboldt Hume Husserl
James Jaspers Jung Kant Kautsky
Kierkegaard Korsch Labriola Leibniz Lenin Lessing Lévinas Lévi-Strauss Lévy
Locke Lotze Luk&cs Lutero Luxemburg Malebranche Mao Marcel Marcuse Maritain
Marx Merleau-Ponty Mill Mounier Nietzsche Occam Parmenide VELIA Pascal Peirce
Piaget Pitagora Platone Plotino Popper Protagora Renouvier Rickert Ricoeur
Rosmini Rousseau Russell Saint-Simon Santayana Sartre Scheler Schelling
Schlegel Schleiermacher Schopenhauer Scoto Seneca Socrate Spencer Spinoza
Spirito Stalin Stein Suarez Talete Telesio Aquino Vico Voltaire Whitehead
Wittgenstein Wolff Zenone GUIDA ALLA
LETTURA DI AL- CUNE OPERE DI FILOSOFIA . « IL FEDONE » - PLATONE .
Ambientazione storica dell’opera . Il dialogo, metodo dell’opera . Divisione e
sintesi dell’opera Immortalità dell'anima Argomenti a favore dell'immortalità
dell'anima Metempsicosi Intermezzo Le obiezioni di Simmia e Cebete Risposta di
Socrate alle obiezioni di Sim- mia e Cebete (358) - 3. Conclusione Il mito
deile anime dopo la morte Figura e dimensione della terra La morte di Socrate
IL « DISCORSO SUL METODO » - CARTESIO Origine dell’opera Divisione e sintesi
dell’opera Prima parte: L'esperienza scolastica di Cartesio e la scoperta della
necessità di un metodo rigoroso Necessità del metodo La storia della propria
educazione e l'utilità dello studio delle materie scolastiche Lo studio del
mondo attraverso i viaggi Lo studio di se stesso La scoperta del nuovo metodo e
le sue regole principali Ambientazione Prima considerazione (368) - 3. Seconda
con- siderazione Ammonimento Decisione di procedere alla ricerca di un nuovo
metodo, essendo la logica e la matematica metodi insufficienti Le regole del
nuovo metodo Fecondità del nuovo metodo Applicazione del nuovo metodo alla
matematica Primi risultati Appli- cazione del nuovo metodo alla filosofia Le
mas- sime della morale provvisoria e l'esercizio del metodo Ne- cessità di una
morale provvisoria I principi della morale provvisoria : Rassegna delle varie
azioni per scegliere la migliore Esercizio del metodo viaggiando e studiando I
due principi fondamentali della metafisica: il cogito e l’esistenza di Dio Il
dubbio metodico La prima verità indubitabile: il « cogito ergo sum L’essenza
dell’uomo consiste nel pensiero Il criterio di verità: chiarezza e distinzione
Dimostrazione dell’esistenza di Dio Funzione psicologica del’esistenza di Dio
Verità di ordine fisico - Natura dell'anima umana Il corpo degli animali e
dell'uomo Natura dell'anima Ga Sesta parte: Ragioni della mancata pubblicazione
de « Il ondo » « LA MISSIONE DEL DOTTO » FICHTE Origine e importanza dell’opera
Divisione e sintesi del- l'opera La missione dell’uomo in sé Natura e missione
dell'uomo in se stesso La legge morale dell'uomo considerato in se stesso Il
fine ultimo, il sommo bene, la perfezione Seconda lezione: La missione
dell'uomo in società - Esistenza della società Il criterio per distinguere gli
esseri ragio- nevoli dagli esseri privi di ragione Società e stato Fine e
missione della società (La morale sociale Il fine ultimo e la missione
dell’uomo nella società L’edu- cazione alla socievolezza Terza lezione: La
distinzione tra gli stati sociali -La diseguaglianza tra gli uomini La scelta
dello stato La scelta dello stato non è obbligatoria, ma libera La
partecipazione al perfe- zicnamento dell'umanità assicura come premio
l'immortalità Quarta lezione: La missione del dotto ‘La società perfetta richiede lo stato (la
professione) del dotto Definizione del dotto La missione del dotto La morale
del dotto (La morale professionale) Critica delle affermazioni di Rousseau
intorno all’influsso delle arti e delle scienze sopra la felicità dell'uomo
L'errore di Rousseau Critica dell'errore di Rousseau IL « MANIFESTO DEL PARTITO
COMUNISTA MARX-ENGELS Origine dell'opera 393 2. Divisione e sintesi dell’opera
Introduzione - Prima parte: Borghesi e proletari Proletari e comunisti
Letteratura socialista e comunista Posizione dei comunisti di fronte ai diversi
partiti di opposizione INTRODUZIONE ALLA
METAFISICA » - HEIDEGGER Premessa Origine e obiettivi dell’opera . Divisione e
sintesi dell’opera Cap. I: La domanda metafisica fondamentale La domanda
metafisica fondamentale Caratteristiche della filosofia Oggetto iniziale della
filosofia e della metafisica Il ricominciamento della filosofia Svolgimento
della domanda fondamentale La differenza ontologica tra es- sente ed essere La
ripetizione del cominciamento, supe- rando gli errori della ontologia Urgenza
del ricomincia- mento Sulla grammatica e sulla etimologia della parola « essere
» Condizioni preliminari all'esame grammaticale ed etimologico La grammatica
della parola « essere Etimologia della parola « essere Questioni pendenti La domanda
sull’essenza dell'essere - 1. La strategia da seguire per determinare l'essenza
dell’essere Il significato della parola « essere » Accertamento della
conoscenza dell'essere Importanza e valore della compren- sione dell'essere La
filosofia come accesso all'essere L'orizzonte del senso dell’essere La
limitazione dell'essere -Essere e divenire Essere e apparenza Essere e pensare
Essere e dovere Alcune osserva- zioni intorno alla « Metafisica » di Heidegger.
GLOSSARIO DEI PRINCIPALI TERMINI FILOSOFICI Questa quarta edizione di
Introduzione alla filosofia esce completamen- te rinnovata ed ampliata. Essa è
stata anche aggiornata dal punto di vista didattico, secondo i criteri del
Corso di storia della filosofia (in tre volumi) dello stesso autore, divenendo
così uno strumento vivo di ri- cerca e di riflessione. Nella prima parte del
volume sono trattati: il problema logico, gnoseo- logico, epistemologico,
linguistico, cosmologico, antropologico, meta- fisico, religioso, etico,
pedagogico, politico e sociale, estetico, storico, culturale e assiologico (o
dei valori). L'autore, noto studioso di problemi di filosofia e chiaro
divulgatore, illu- stra le origini e gli sviluppi storici di ogni problema, le
soluzioni pro- spettate dai vari filosofi e, infine, il loro possibile
sviluppo. Si tratta di «panoramiche essenziali, introduzioni in parte
informative ed in parte suggestive e stimolanti ad uno studio più
approfondito». Nella seconda parte vengono presentati, nei loro aspetti
fondamentali, i più importanti sistemi (o scuole) filosofici. Di ogni sistema
sono presen- tati: il fondatore, le dottrine principali e i maggiori esponenti.
Nella terza parte sono raccolte, in ordine alfabetico, delle schede bio-
bibliografiche che di ogni filosofo (dagli antichi greci ai contemporanei) e
scuola, informano sulla vita, sulle opere e, per sommi capi, sul pen- siero. La
quarta parte contiene una guida accurata e critica alla lettura di ope- re
fondamentali per la storia della filosofia: Fedone di Platone; Discorso sul
metodo di Cartesio; La missione del dotto di Fichte, Manifesto del partito
comunista di Karl Marx e Friedrich Engels e Introduzione alla metafisica di
Martin Heidegger. Infine, una quinta parte contiene un «glossario» dei
principali termini fi- losofici. L'opera, data la sua chiarezza espositiva,
oltre che come moderno testo scolastico, è utile per ogni persona di cultura
che desidera approfondi- re la conoscenza della filosofia; essa può essere
consultata come una piccola enciclopedia filosofica. Questo volume, sprovvisto
del talloncino a fronte, è da considerarsi copia di SAGGIO- OMAGGIO esente da
|.V.A. (D.P.R. n. 24, art. 2 sub d) ed esonerato dalla Bolla d'ac-
compagnamento (D.P.R. 627, art. 4) e come tale non può essere messo in
commercio ento (D.P.R. 627, art. 4) e come tale non può essere messo in
commercio. -- Battista Mondin. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mondin” – The Swimming-Pool
Library.
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