Grice e Micalori: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Ganimede e l’implicatura sferica di Giove – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Roma, Lazio. Grice: “I took my ideas on longitude and latitude from
Micalori” -- Grice: “By calling it ‘sfera,’ Micalori’s statement ENTAILS rather
than implicates that the Romans were wrong.” Professore a Urbino.
Opere: “Della sfera mondiale” In Urbino, Mazzantini, M., Antapocrisi, In
Roma, Francesco Roma Cavalli. Zeus features heavily in a lot of starlore, and the
Eagle constellation is no exception. The predominantly accepted mythos
for this constellation is the abduction of Ganymede. Zeus had facilitated the
kidnapping, fancying the beautiful mortal boy as his personal cup-bearer.
In the constellation, which is situated south of Cygnus on the equator, making
it visible from both the Northern and Southern hemispheres, poor Ganymede can
be seen hanging from the claws of the eagle as he is swiftly taken to the
heavens. The constellation appears alongside several other bird
constellations. The Eagle’s wings are spread, giving it the appearance of
gliding through the stars. As Hyginus states, the beak is separated from the
body by a milky circle. It was also said to set “at the rising of the Lion and
rises with Capricorn”. (Hyginus, Astronomy, 3.15) Greek astronomy
Humans have a natural urge to identify familiar things amongst the twinkling
stars of the mysterious abyss above us. These narratives came out of
astronomical observations and ancient time tracking. The study of the sky began
long before the earliest Greek sources that (sparsely) discuss them, Homer and
Hesiod. They likely developed during the transition from oral to written
transmission, but to what is extent is unknown. Even though the Greeks
were late to the constellation conversation, they received a lot of their
knowledge from their Eastern neighbors. The Greeks introduced the word
katasterismos, or catasterism, which refers to the process of being set in the
heavens. Constellations were used for navigation and an indication of seasonal
change; many extravagant mythic connections were added later. Today,
there are 88 constellations officially defined by the International
Astronomical Union, and many of them have been accepted since Ptolemy’s The
Almagest. Constellations created by the Mesopotamians between 1300-1000
BC originate in older lands, but the Greek astral mythos canon was solidified
by Eratosthenes, in a work now lost to us. Zeus and his trusted companion
The myth of Ganymede is very ancient lore, being told in the tale of Troy by
Homer (Illiad) – albeit with no mention of an eagle escort. In the fifth
Homeric Hymn to Apollo, Ganymede was said to be whisked off to Olympus by a
‘heaven-sent whirlwind’. The eagle was not connected to this tale until
the 4th century BC. The constellation was accepted as an eagle prior to this,
so it is presumed that this addition was made to make the story fit the stars,
probably because Ganymede is said to feature in his own nearby constellation,
the water-pourer (Aquarius). Micalori.
Keywords: implicatura sferica, planifesferio, Casali. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Micalori” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Miccoli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale d’ANTONINO -- homo loqvens filosofia lazia – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “Miccoli is a great philosopher – and surgeon – My favourites are
his ‘Corpo dicibile,’ which trades on my idea of what it means to ‘say’
something; and his ‘Homo loquens,’ a play on Aristotle’s ‘zoon logikon,’ but
which Aristotle would find otiose: man is the ‘vivente’ that speaks, or the
‘animal’ that speaks. To say that it is the ‘homo’ that speaks relies on
Darwin’s classifications and phyla of homo sapiens sapiens and the rest!” La divertente commedia umana Incipit Chi si accinge
alla lettura dell' Elogio della follia di Erasmo farebbe bene a non dimenticare
taluni antecedenti biografici dell'autore che spiegano meglio l'ironia bonaria
dell'opuscolo. Li richiamiamo. Geertsz, latinizzato secondo il costume degli
umanisti in Desiderio Erasmo, nacque figlio di illegittimo coniugio. La
famiglia paterna, in auge nella borghesia di Gouda, come apprendiamo dallo
stesso Erasmo, si oppose alle nozze riparatrici del figlio, costringendolo, con
inganno, a far intraprendere la carriera ecclesiastica al malcapitato
giovanotto. Citazioni Come umanista
Erasmo si sente apparentato alla società dalla duttile forza della parola che
ne saggia criticamente le valenze in termini di ironia, sarcasmo, gioco
allusivo, bonarietà lungimirante, tolleranza magnanima, moralismo contenuto. Fin
dalla dedica dell'opuscolo a Moro si arguisce che l'autore non vuol propinare
sapientia austera e compassata, ma buon senso brioso che permei di sé la vita
quotidiana della gente, fosse anche d’ANTONINO che sul letto di morte, lui
filosofo, esclama, a un certo momento: «Sentenzio me cacavi! La sapienza dei
dotti è tanto altezzosa quanto sterile, diversamente dal buon senso che cambia
in meglio l'esistenza non sofisticata. (Sotto la penna dell'insigne umanista
olandese si fronteggiano al femminile Sapientia e Stultitia: la prima, per
voler essere austera ad ogni costo, diventa stolta; la seconda, in quanto
«forza vitale irrazionale e creatrice», si palesa veramente saggia alla resa
dei conti. L' Elogio della follia conserva un fascino di imperitura attualità.
Lo si desume dall'analisi di Histoire de la Folie, dove Foucault evidenzia il
confine sfumato tra ragione e sragione in epoca di alta tecnologia, e altresì
dalle invettive di Nietzsche contro lo smunto bibliotecario, lo stitico
correttore di bozze, il pallido burocrate stipendiato, emblemi tutti del moderno
«uomo alessandrino». (Explicit Erasmo conosce e cita perfino pagine della
Bibbia a riprova della bontà dei doni che Follia concede ai mortali. Un modo
questo, di prendere in giro anzitempo la presunzione dispotica delle società
economicistiche che intendono mantenere sotto loro tutela il cittadino
«minorenne» sempre bisognoso di dande e mordacchie. Gli autori classici sono,
tra l'altro, spiriti lungimiranti. A tali società alienanti di oggi e di domani
Blake, con spirito erasmiano, potrebbe ripetere: «esuberanza è bellezza. La divertente
commedia umana, introduzione a Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia, TEN, Introduzione
a "Vita di Gesù" Incipit Il contesto storico culturale della Vita di
Gesù La recente edizione storico-critica delle Opere complete di Hegel consente
di far chiarezza sulle discussioni e congetture che hanno tenuto a lungo il
campo nella letteratura hegeliana a proposito dei cosiddetti Scritti teologici
giovanili, la cui indole cronologica vengono ora sancite su base filologica e
critica più accorta. Più che ai titoli apposti da Nohl ai vari frammenti e più
che alle congetture sulla data probabile di tali scritti, è più fruttuoso
rifarsi agli anni di formazione filosofica e teologica di Hegel nello Stift di
Tubinga e reperire nel curriculum studiorum le ascendenze prossime che hanno
influenzato maggiormente l'autore in una speculiare lettura dei quattro
Evangelisti, da cui desume Das Leben Jesu. Citazioni Gli interessi culturali di
Hegel, negli anni tubinghesi, sono prevalentemente filosofici, incentivati
dalla lettura di Rousseau, Jacobi, Lessing, Kant, Fichte su temi sociopolitici
ed etico-religiosi. (Hegel, studioso di filosofia, si sente chiamato a
lumeggiare «spiritualmente» la situazione storica del suo tempo e a porre le
premesse di carattere razionale per l'avvento di un «ordine uguale di tutti gli
spiriti». Il lettore del Leben Jesu si accorge subito di trovarsi di fronte a
una forma di scrittura audace, che desacralizza e sdivinizza la persona di
Gesù, riducendolo a maestro di morale sublime. M., introduzione a Hegel, Vita
di Gesù. TEN. “Filosofia della storia”, “Corpi dicibili”, “Homo louqens”. Paolo
Miccoli. Miccoli. Keywords: homo loquens, corpo dicibile, corpi dicibili. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Miccoli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Miccolis: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – BRVNO – filosofi italiani al rogo – la scuola di Corato -- filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Corato). Filosofo italiano. Corato, Bari, Puglia. Grice:
“Miccoli reminds me of G. Baker, who dedicated most of his life to Witters! Miccolis to Labriola.” Considerato uno dei massimi studiosi di Labriola. Si trasferì a Perugia per gli studi
universitari, laureandosi in filosofia a pieni voti con una tesi dal titolo «Il
pensiero politico crociano e la genesi del liberalismo». Abilitatosi cum laude
all'insegnamento di storia e filosofia, professore in vari licei della
provincia, occupò una cattedra stabile presso l'Istituto tecnico per geometri a
Perugia, accostando l'insegnamento di estetica all'Accademia di belle arti Vannucci.
Divenne responsabile del settore culturale del PCI per la regione Umbria; ma,
preso dagli studî e dall'insegnamento, lasciò l'incarico, comunque seguendo
sempre le vicende politiche con attenzione e passione. La sua è stata una
formazione liberale: considerava suoi padri spirituali Labriola, Croce, Gobetti.
Dalla fine degli anni Settanta la sua vita sarà rivolta allo studio del
filosofo cassinese Labriola, da Miccolis ritenuto «un buon punto per capire la
storia d'Italia». Nascerà quindi il Carteggio labrioliano, in cinque volumi,
presentato da Cesa all'Accademia dei Lincei, edito per gli auspici e con il
contributo dell'Istituto italiano per gli studi storici e dell'Università degli
Studi di Napoli "L'Orientale" e favorito dalla consultazione, nel
frattempo divenuta possibile, delle carte Labriola del Fondo Dal Pane,
acquistato dalla Società napoletana di storia patria. Su tale monumentale
lavoro è stato scritto: «un evento letterario, probabilmente l'acquisizione più
importante tra le fonti della cultura italiana postunitaria; e, di più, senza
esagerazione, si presenta come un capolavoro ecdotico, per accuratezza
filologica ed esaustività del commento. Miccolis era certo divenuto col tempo
l'esperto più sicuro della impervia grafia del suo autore, della quale
conosceva ogni piega e ogni anomalia, dei contesti politici e culturali in cui
Labriola si muoveva della spezzettata, dispersa e contorta labrioliana, difficile da padroneggiare: si
era anche impadronito, in base a una sensibilità linguistica non comune, del
"vocabolario" dell'Autore in tutte le sue sfumature, ed era perciò in
grado di respingere o di dubitare di attribuzioni di testi, datazioni
improbabili, letture sghembe». Miccolis scrisse inoltre sistematicamente per
varie riviste (Rivista di storia della filosofia, il Giornale critico della
filosofia italiana, Belfagor, Critica storica, Nuovi studi politici, etc.); numerosi
sono i suoi saggi e notevoli gli ulteriori apporti documentari alla labrioliana. Collabora intensamente con
l'Istituto italiano per gli studi storici e la Fondazione Biblioteca Croce:
aveva il compito di revisionare i carteggi crociani, e sotto il suo controllo
passavano i volumi dell'Edizione nazionale delle opere di Croce. È stato anche
uno dei principali animatori dell'Edizione nazionale delle opere di Labriola,
per la quale aveva contribuito a definire il piano editoriale, i criteri
metodologici, e il problema del rapporto tra l'opera edita di Labriola e il
fondo manoscritto della Società napoletana di storia patria. Adnkronos, Filosofi, E' morto M., massimo
studioso di Labriola, Bari, SAVORELLI, Rivista di storia della filosofia, Opere:
“ Il carteggio di Labriola conservato nel Fondo Dal Pane” «Archivio storico per
le provincie napoletane», «Con la Sua
calligrafia che mi ricorda i papiri greci...». La filologia, la guerra, la
Crusca nel carteggio di Croce con Pistelli e Lodi, a c. di M. e Savorelli, in
Gli archivi della memoria, Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, (rist. in
Gli archivi della memoria e il Carteggio Salvemini-Pistelli, a c. di R.
Pintaudi, Firenze, Biblioteca Medicea Lauenziana, Polistampa, Labriola, La politica
italiana Corrispondenze alle « Basler Nachrichten », M., Napoli, Bibliopolis, Labriola,
Carteggio, M., Napoli, Bibliopolis, M., Labriola, Dizionario biografico degli
italiani, A. Labriola, L'università e la libertà della scienza, M., Torino,
Aragno, Labriola, Bruno. Scritti editi ed inediti M. e Savorelli, Napoli,
Bibliopolis, M., Labriola. Saggi per una biografia politica, A. Savorelli e M.,
Milano, UNICOPLI, M., Gli scritti
politici di Labriola editi da M., A. Savorelli e M., Napoli, Bibliopolis, G. Bucci, M., il ricordo a un anno dalla morte,
"Corato live", W. Gianinazzi, M. Prat, In memoriam "Mil neuf
cent", Savorelli, M., «Rivista di storia della filosofia», fa A. Meschiari,
M. studioso di Labriola, Rivista di
storia della filosofia. Stefano Miccolis. Miccolis. Keywords: filosofi italiani
al rogo. BRVNO. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miccolis” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Michelstädter: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – il giovane divino -- l’implicatura persuasiva di Platone – filosofia
giudea – filosofia nel ventennio fascista – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Gorizia). Filosofo italiano. Grice: “It’s difficult to grasp
Michelsteadter’s implicature: his study on ‘persuasion’ is brilliant – he was a
close reader of Plato, and he uses figurative language, as ‘il giovane divino.’
My favourite is his account of the persuasive rhetoric of Cicero.” Grice:
“Michelsteadter plays with the etymology of persuasion, which is cognate with
‘suave,’ as it should – sweet talk, we should say – which I could make into a
maxim which would not be strictly ‘conversational’ unless under the category of
modus – ‘be sweet’ –But the sweetness applies in general to my framework: the
emissor aims to be sweet if he is going to try to influence the other, and will
be influenced by a sweeter co-emissor.” essential Italian philosopher. Ultimo di quattro
figli, da un'agiata famiglia. Il padre, Alberto, dirige l'ufficio goriziano
delle Assicurazioni Generali ed è presidente del Gabinetto di Lettura
goriziano. È un uomo colto, autore di scritti letterari e di conferenze,
rispettoso delle usanze tradizionali ma solo formalmente, per rispetto borghese
-- è, anzi, un laico, un tipico rappresentante della mentalità materialistica.
Il semitismo non sembra quindi incidere molto sulla sua formazione culturale,
che scoprire solo più tardi e con non poca meraviglia di avere un antenato
cabalista. Iscritto al severo Staatsgymnasium cittadino, fa propria la rigida
Bildung asburgica. Con le traduzioni dal greco e dal latino ha i primi approcci
colla filosofia. A iniziarlo sono Schubert-Soldern, solipsista gnoseologico,
secondo il quale tutto il sapere va ricondotto alla sfera del soggetto; e
l'amico Mreule che gli fa conoscere Il mondo come volontà e rappresentazione,
di cui resta traccia soprattutto ne La Persuasione e la Rettorica. Nella
soffitta di Paternolli, oltre a Schopenhauer, legge e discute, con gli amici
Nino e Rico, i tragici e i presocratici, Platone, il Vangelo e le Upanishad; e
poi ancora Petrarca, Leopardi, Tolstoj, e l'amatissimo Ibsen. Conclusde
gli studi ginnasiali e progetta di iscriversi a giurisprudenza; in seguito
abbandona l'idea e si iscrive alla facoltà di matematica a Vienna. Ma l'anima è
giàper dirla con Leopardi nel primo giovanil tumulto verso un altrove che non
riesce a riconoscere nella ferrea logica matematica. Si iscrive al corso di
Lettere dell'Istituto di Studi Superiori Fiorentino, città in cui vivrà per
quasi quattro anni e dove conoscerà, fra gli altri, Chiavacci, futuro curatore
delle sue Opere, ed Arangio-Ruiz, noto filosofo. Continua a ritrarre, fra
tratto espressionistico e schizzo caricaturale, la varia umanità in cui
s'imbatte, sia nei mesi di studio che nei periodi di vacanza al mare e in
montagna. Scrive moltissimo, in modo quasi ossessivo, dalle lettere ai
familiari (in particolare alla sorella Paula) alle recensioni di drammi
teatrali. Un evento luttuoso segna la sua vita: la morte, per suicidio, del fratello
Gino. Due anni prima si era suicidata anche una donna da lui amata, Nadia
Baraden. Mreule parte per l'Argentina. Questa partenza è segnata da un evento
significativo, una sorta di passaggio del testimone. Si fa consegnare da Rico
la pistola che porta sempre con sé. Completati gli esami, ritorna a
Gorizia e inizia la stesura della tesi di laurea, assegnatagli da Vitelli,
concernente i concetti di persuasione e di retorica in Platone e Aristotele. La
sua attività è febrile. Oltre alla Persuasione scrive anche la maggior parte
delle Poesie e alcuni dialoghi, tra cui spicca il Dialogo della salute. Il suo
isolamento diventa pressoché totale, mangia pochissimo e dorme per terra, come
un asceta. Vede solo la sorella e il cugino Emilio. Comunica al padre che dopo
la tesi non avrebbe fatto il professore, ma che appena laureato sarebbe andato
al mare, forse a Pirano o a Grado. Dopo un diverbio con la madre, impugna
la pistola lasciatagli da Mreule e si toglie la vita. Sul frontespizio della
tesi aveva disegnato una fiorentina, una lampada ad olio, e aggiunto in greco:
apesbésthen, «io mi spensi». Amici raccolsero i suoi saggi, ora alla
Biblioteca di Gorizia. Sepolto nel cimitero ebraico di Valdirose (Rožna
Dolina), oggi nel comune sloveno di Nova Gorica, a poche centinaia di metri dal
confine con l'Italia. La breve vita di Michelstaedter scorrecome risulta
dall'Epistolarioall'insegna di una volontà di vivere continuamente illuminata
dal desiderio di un altrimenti e di un altrove metafisico che fa di lui un
impulsivo, un irrequieto esploratore di linguaggi e di mezzi espressivi, capace
di spaziare dalla pittura alla poesia passando per le ripide vette della
filosofia. Nell'apologo dell'aerostato incluso ne La Persuasione e la
Rettorica, l'essenza del pensiero occidentale, la rettorica, viene fatta risalire
da M. a un parricidio: quello di Aristotele nei confronti di Platone. Questi,
nella metafora costruita da M., escogita un mechánema, una macchina volante per
abbandonare il peso del mondo e giungere all'assoluto. Maestro e discepoli
riescono a librarsi negli alti spazi del cielo, ma restano a metà strada, fra
una mera contemplazione dell'essere e del tempo e la nostalgia della terra e
delle cure mondane. A riportarli sulla terra ci pensa allora un discepolo più
scaltro e intraprendente degli altri, Aristotele, il quale, tradendo il
maestro, fa scendere il mechánema restituendo così a tutti la gioia d'aver la terra
sicura sotto i piedi. Questa nostalgia del mondo intelligibile platonico fa
quindi di lui un discepolo di Schopenhauer, più che di Nietzsche. La
costituzione della metafisica è per lui una storia di rettorici tradimenti, la
vicenda di una verità dai grandi persuasi tanto proclamata agli uomini quanto
da questi disattesa e inascoltata. Quanto io dico è stato detto tante volte e
con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni
volta dopo che erano suonate quelle parole. Lo dissero ai Greci Parmenide,
Eraclito, Empedocle, ma Aristotele li trattò da naturalisti inesperti; lo disse
Socrate, ma ci fabbricarono su 4 sistemi... lo disse Cristo, e ci fabbricarono
su la Chiesa. La persuasione è la visione propria di chi ha compreso la
tragicità della finitezza e ad essa vuol tener fermo, senza ricorrere a quegli
«empiastri»i kallopísmata órphnes, gli «ornamenti dell'oscurità»che possano
lenire il dolore scatenato da tale consapevolezza. L'essere è finitezza che si
rivela solo nella dimensione tragica di una presenza abbacinante, ma gli uomini
rigettano questa tragica consapevolezza ottundendosi, pascalianamente, nel
divertissement. Persuaso è chi ha la vita in sé, chi non la cerca alienandosi
nelle cose o nei luoghi comuni della società perdendo l'irrinunciabile hic et
nunc del proprio esserci, ma riesce «a consistere nell'ultimo presente»,
abbandonando quelle illusioni di sicurezza e di conforto che avviluppano chi
vive abbagliato dalle illusioni create dal potere, dalla cultura, dalle dottrine
filosofiche, politiche, sociali, religiose. È questa «la via preparata» dalla
quale a tutti fa comodo non discostarsi troppo; è questo restare perennemente
attaccati alla vitala philopsychìaa far sì che la "rettorica" trionfi
sempre. La vita, soffocata dalla ricerca dei piaceri, della potenza, finanche
dalla presunzione filosofica di possedere la via e quindi la vita stessa, non
vive, perché in ogni istante ciascuno rimane avvolto dalle cure per ciò che non
è ancora o dal rimpianto per ciò che non è più, mancando sempre l'attimo
decisivo, quello che i greci chiamavano kairós, il tempo propizio. Perciò nella
vita facciamo esperienza della morte, di quella «morte nella vita» cantataquasi
una danse macabrenel Canto delle crisalidi: «Noi col filo / col filo della vita
/ nostra sorte / filammo a questa morte». Il pensiero di M. procede di
conseguenza, per liberare il potenziale di tragicità dell'esistenza, attraverso
violente contrapposizioni concettuali (persuasione-rettorica, vita-morte,
piacere-dolore), senza alcun tentativo di mediazione dialettica. M. respinge,
con un gesto iniziatico, l'idea di costruire una dottrina sistematica della
persuasione e della salute, in quanto «la via della persuasione non è corsa da
'omnibus', non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare,
ripetere. Ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore
l'indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e
non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione:
non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato». La salvezza individuale è
possibile solo in una singolarità irripetibile, irriducibile, concentrata in
sé. Il solipsismo di Michelstaedter è perciò radicale: non ci sono vie,
non ci sono cammini, c'è solo il viandante che nel deserto dell'esistenza è «il
primo e l'ultimo», crocefisso al legno della propria sufficienza e schiacciato
dalla croce di falsi bisogni. Poiché il mondo è negatività assoluta, al
pensiero non resta che negare questa stessa negatività rifiutando i dati
dell'immanenza: «Solo quando non chiederai più la conoscenza conoscerai, poiché
il tuo chiedere ottenebra la tua vita». Si tratta di una sentenza di sapore
quasi buddistico: non a caso Mreule enfatizzerà la figura dell'amico
descrivendolo come «il Buddha dell'occidente». Produzione artistica La
produzione poetica e quella pittorica di M. possono essere considerate un
prolungamento e un completamento di questo sentimento tragico e mistico. Come
nel verso poetico egli tenta di esprimere l'inesprimibile, di dire con parole
ciò che sfugge al sistema di segni codificato e perciò già da sempre istituito
retoricamente, così nel segno pittorico, nello schizzo rapido e scherzoso come
nel ritratto composto e meditato, traluce l'impossibilità di giungere a quella
che Parmenide chiamava la ben rotonda verità. Non siamo giocati solo dalle
parole, ma anche dalle immagini di una realtà fatta di colori e di forme che ci
sfuggono nella loro immediatezza e alterità, «come chi vuol veder sul muro l'ombra
del proprio profilo, in ciò appunto la distrugge». Anche l'arte e la poesia,
come la retorica filosofica, si rivelano infine per quello che sono: fragili
orpelli di cui si orna l'oscurità dell'essere e che ogni linguaggio escogitato
dall'uomo sarà sempre impotente a esprimere. Saggi: Saggi Chiavacci,
Sansoni, Firenze); “Scritti scolastici, Campailla, Gorizia, Opera grafica e
pittorica, S. Campailla, Gorizia, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Campailla,
Adelphi, Milano Poesie, Campailla, Adelphi, Milano, La Persuasione e la
Rettorica, Arangio-Ruiz, Formiggini, Genova, edizione critica Campailla,
Adelphi, Milano poi, con le Appendici critiche, ivi,). Epistolario, S. Campailla,
Adelphi, Milano nuova edizione riveduta e ampliata, ivi, Parmenide ed Eraclito. Empedocle, SE, Milano,
L'anima ignuda nell'isola dei beati. Scritti su Platone, Micheletti, Diabasis,
Reggio Emilia, Dialogo della salute. E
altri scritti sul senso dell'esistenza, a cura e con un
saggio introduttivo di G. Brianese, Mimesis, Milano, La melodia del
giovane divino, S. Campailla, Adelphi,
Milano La persuasione e la rettorica,
edizione critica, A. Comincini, Joker. M.-Winteler, Appunti per una biografia
di M.. M. si riferisce, nell'Epistolario, al bonno Isacco Samuele Reggio, confondendolo
con il padre di questo, Abram Vita Reggio Campailla, Il segreto di Nadia B.,
Marsilio,. Da articoli di cronaca americani dell'epoca, si apprende che il
suicidio avvenne con un colpo di pistola alla tempia destra. La persuasione e la rettorica La persuasione e la rettorica Poesie La persuasione e la rettorica Magris,
Un altro mare Il dialogo della salute, Biografie e studi critici Acciani
Antonia, Il maestro del deserto. M., Progedit, Bari Arbo Alessandro, Carlo
Michelstaedter, Studio Tesi, Pordenone (Civiltà della memoria). Arbo
Alessandro, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana,. Arbo Alessandro, Il suono instabile. Saggi sulla
filosofia della musica nel Novecento, Neo Classica, Roma, Giuseppe Auteri,
Metafisica dell'inganno, Università degli Studi, Catania, Benevento, Scrittori
giuliani. M., Slataper, Stuparich, Otto/Novecento, Azzate, Brianese, L'arco e
il destino. Interpretazione di M., Abano Terme (PD), Francisci); Camerino, La
persuasione e i simboli. M. e Slataper, Liguori, Napoli Sergio Campailla,
Pensiero e poesia di M., Patron, Bologna. Sergio Campailla, A ferri corti con la
vita, Comune di Gorizia Sergio Campailla, Controcodice, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli Valerio Cappozzo, La passione, Les Cahiers d'Histoire de l'Art
nº2, Parigi Valerio Cappozzo, Il percorso universitario di dall'archivio dell'Istituto di Studi
Superiori, in Un'altra società. M. e la
cultura contemporanea, Campailla, Marsilio, Venezia, Un'introduzione, Perego,
Storace e Visone, AlboVersorio, Milano); L'Essere come Azione, Erasmo Silvio
Storace, AlboVersorio, Marco Cerruti, Carlo Michelstaedter, Mursia,
2Milano (Civiltà letteraria, Sez.
italiana). Cerruti, Ricordi, L'Essere come Azione", Erasmo Silvio Storace,
AlboVersorio, Milano; Cinquetti, M.. Il nulla e la folle speranza, Edizioni
Messaggero, Padova Tracce del sacro nella cultura contemporanea, Colotti, La
persuasione dell'impersuadibilità. Saggio su M., Ferv, Roma, Acunto, La parola
nuova. Momenti della riflessione filosofica sulla parola nel Novecento, Rubbettino,
Soveria Mannelli Martino Dalla Valle, Dal niente all'impensato. Saggio su M.,
Imprimitur, Padova Daniela De Leo, M. filosofo del frammento con Appunti di
filosofia di M., Milella, Lecce Daniela De Leo, Mistero e persuasione in M.
Passando da Parmenide ed Eraclito, Milella, Lecce Roberta De Monticelli, Il
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Ricordo di una giovinezza,[ "M.. L'Essere come Azione", Erasmo Silvio
Storace, AlboVersorio, Milano Martire della persuasione", tesi di laurea
di Mirizzi, Biblioteca Statale Isontina, Gorizia Dialoghi intorno a M., Sergio
Campailla, Biblioteca Statale Isontina, Gorizia. Eredità di M., Silvio Cumpeta
e Angela Michelis, Forum Edizioni, Udine Laura Furlan, L’essere straniero di un
intellettuale moderno, Lint, Trieste Vie
di fuga. L'immagine irraggiungibile. Dipinti e disegni di M., Gallarotti,
Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli, Galgano Andrea, Il vortice del
nulla, in Mosaico, Roma, Aracne, Giordano,
Il pensiero e l'arte di Carlo Michelstaedter, in "Riscontri", Ora,
revisionato, in Il fantastico e il reale. Pagine di critica letteraria da Dante
al Novecento, Napoli, Edizioni Scientifiche italiane, Francesco, M.: frammenti
da una filosofia oscura, Ripostes, Salerno-Roma I tascabili. Vincenzo
Intermite, M. Società rettorica e coscienza persuasa, Firenze Atheneum (collana
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(Biblioteca di "Teoria" 2). Rocca,
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Humanitas, un classico, Michelis, Magris,
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diventa grande stile, Quodlibet, Macerata,; Fabrizio Meroi, «Michelstaedter,
Carlo» in Il contributo italiano alla storia del Pensiero Filosofia, Istituto
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L'identico e i molteplici. Meditazioni michelstaedteriane, Loffredo, Napoli.
Perniola, La "persuasione" tra marginalità e centralità, Eredità Cumpeta
e Michelis, Udine, Forum Pieri, Il pensiero della poesia. Il Romanticismo della
tragedia, Nautilus, Bologna, Pieri, "Esorcismo e ironia nella critica del
primo M.", Il lettore di provincia, Pieri, "Modelli di cultura alle
origini della Persuasione di M.", in «Il lettore di provincia» P. Pieri,
"Il rischio dell'autoinganno (Una errata attribuzione di incisione a M.)",
in «Metodi e ricerche, Pieri,"La scienza del tragico. Saggio su M.,
Bologna, Cappelli, Pieri, Nello sguardo della trascendenza. Intorno alla figura
dell'ermafrodita e del satiro nella Persuasione", in «Intersezioni», a. X,
n. 1, P. Pieri, "Due diverse ma non opposte interpretazioni de La
persuasione e la retorica di M., Studi sulla modernità, F. Curi, Bologna,
Clueb, Pieri, "Per una dialettica storica del silenzio. La “vergogna” del
filosofo e l'autoinganno dello scrittore", in Eredità di M., Forum, Udine, Pieri, La
differenza ebraica: grecità, tradizione e ripetizione in M. e altri ebrei della
modernità, nuova edizione, Pendragon, Bologna, Pieri, "M. Forme del
tragico contemporaneo", Transeuropa, collana «Pronto intervento», Massa,.
Piromalli, M., La Nuova Italia, P. Pulcina, M.: estetica. L'illusione della
retorica, le ragioni del suicidio, Atheneum, Firenze); Pulina, L'imperfetto
pessimista. Lalli, Poggibonsi (Materiali di filosofia). G. Pulina,
"L'incompiuta imperfezione. Note sul pessimismo di M.", Storia,
antropologia e scienze del linguaggio», Università degli Studi di Cassino, Pulina,
"Capitini e M.: un dialogo sulla persuasione", «Satyāgraha», N
Gabriella Putignano, L'esistenza al bivio. La persuasione e la rettorica di M.,
Stamen, Roma. M. Raschini, M., Marsilio, Venezia; M. Raschini, M.. La disperata
devozione, Cappelli, Bologna, Chiavacci, Il pensiero di M., articolo sul
«Giornale critico della filosofia italiana», Russo, Chiavacci interprete di M.,
in M. un secolo dopo, Marsilio, Sanò, Le
ragioni del nulla. Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e
Novecento, Città aperta, Troina, Laura Sanò, Leggere La persuasione e la
rettorica di M., Ibis, Como. Semeraro, Lo svuotamento del futuro. Note su M.,
Milella, Lecce); G. Sessa, “Oltre la persuasion,
Settimo Sigillo, Roma Stella Vittori, M., FERV, Milano Storace, L'Essere come Azione, E. Storace,
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Platone, Nietzsche, Heidegger, M. e Rilke, Mimesis, Milano. G. Taviani, M.,
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metafisica della gioventù, Albo Versorio, Milano. Verri, M. e il suo tempo, Longo
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L'incidenza di Schopenhauer sul pensiero di M., Liguori, [Archivio di Storia
della Cultura, Visone, La via alla persuasione come deviazione dalla noluntas,
in M.. L'Essere come Azione, Storace, Albo Versorio Treccani Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Catalogo
Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza. LA PERSUASIONE
E LA RETTORICA Della Persuasione La persuasione L’illusione della
persuasione Via alla persuasione Della rettorica La rettoric Un esempio
storico La costituzione della rettorica La rettorica nella vita Il
singolo nella società Gli organi assimilatori. I modi della significazione
sufficiente. Note alla triste istoria che viene narrata a Abbandono della
vita socratica Il Macrocosmo Il riflesso del sole La decadenza Il discepolo Proiezione
della mente d’Aristotele sui modi della significazione Della composizione della
Rettorica d’Aristotele La Rettorica d’Aristotele c il Fedro di
Platone Della dialettica e della rettorica IL DIALOGO DELLA
SALUTE POESIE II canto delle crisalidi. Dicembre.
Nostalgia. Marzo. Aprile. Giugno
. Risveglio. Alla sorella Paula. Onda per
onda batte sullo scoglio. Ognuno vede quanto l’altro falla.
Aon è la patria — il comodo giaciglio. Per ora a bordo — non
è lavorare. I figli del mare. A Seni a - Le cose ch’io
vidi nel fondo del mare Da le lontano nelle notti insonni. Ili - Non
sorridente sotto il sole estivo .Dato ho la vela al vento e in mezzo
all’onde V - Se mi trovo fra gli uomini talvolta Ti son vicino e tu
mi sei lontana .... VI — Parlarti? e pria che tolta per la vita
All’Isonzo. EPISTOLARIO SCELTO Alla Famiglia . .
. Gorizia-Venezia Venezia Ferrara
Bologna-Firenze Firenze
Firenze Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla Madre Firenze
Alla Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Alla
Paula.Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Alla Paula Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Firenze Firenze
Firenze Firenze Al Padre Venezia Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Al Padre Firenze Alla
Paula Firenze Alla Famiglia Firenze Al Padre
Firenze Grado A Chiavacci Gorizia Firenze Alla
Famiglia Firenze Firenze Firenze Alla Madre
Firenze Alla Famiglia Firenze Firenze Gorizia
A Chiavacci Gorizia Alla Famiglia Vicenza
Firenze Firenze Firenze Alla Madre Firenze Alla
Paula. » rie Firenze Alla Madre Firenze Alla Paula
Firenze A Chiavacci Firenze Gorizia Al Padre Firenze
Alla Famiglia. Firenze Al Padre Firenze Alla Famiglia Firenze A
Chiavacci Gorizia Gorizia Alla Madre Firenze Alla Paula Firenze Alla
Famiglia Firenze A Chiavacci. » Gorizia Gorizia A
Chiavacci Gorizia Firenze Alla Famiglia Firenze A
Mreule Bologna Alla Paula Firenze Alla Famiglia
Firenze A Patcrnolli Firenze Alla Paula Firenze
A Paternolli Firenze Alla Famiglia Firenze Alla
Paula .Firenze Alla Famiglia Firenze Alla Paula
.Firenze A Mreule Gorizia A Chiavacci S. Lucia
A Mreule S. Lucia A Marino Caliterna S. Lucia A
Mreule S. Lucia Allo zio Giovanni Luzzatto S. Lucia A
Marino Caliterna. igog Gorizia A Chiavacci
Gorizia A Paternolli .Gorizia Gorizia A Marino
Caliterna Gorizia A Mreule A Chiavacci .... Gorizia
Gorizia A un amico Gorizia A Mreule S. Valentin
Gorizia Gorizia A Paternolli Gorizia
igio Gorizia III. igio Gorizia igio
Gorizia igio Gorizia A Chiavacci Gorizia
A Paternolli Gorizia A MreuleGorizia Al Padre Gorizia A
Paternolli Vili, igio Pirano Pirano Gorizia
Gorizia A Paternolli A Emilio Alla Madre Al Sig. Gelati,
Segretario dell’Ist. Studi Sup. di Firenze SCRITTI VARI
A. APPUNTI - NOTE - CRITICHE LETTERARIE - DIALOGHI - BOZZETTI
Una messa. Da un notes. Da un notes. Commento
a un brano di Stirncr. Su Wenn wir Toten erwachen di
Ibsen Sull educazione del fanciullo (a proposito di una
conferenza di S. Sighele). 7 - Salvini c gli Spettri
.' Più che l'amore Tolstoi. La bora. Nota su Ortis Poesia
d’occasione. A Benedetto Croce. D* fuori la vita
rumoreggia. II (igog-io) Discorso al popolo. w
16 - H&r) xéxQnai ó v/J ~ Con cert’aria eroica. I utta la
natura non è che volontà dell’Uomo Bacio le mani ai rozzi
materialisti Voi vivete perché siete nati. Non sei né il
primo né l’ultimo »... L’individualità illusoria.
’ASiaipogla . Insulta novantanovc su cento. Aiace non dice a
Eurisace « tu non intendi » Quando si guasti il filo al mio coltello
Conoscere è dolce a chi conosce per vivere. La donna che ama.
Diritto di possesso. La rct lorica crede di fornir le chiavi
.Achille insensibile alle parlate. Sicurezza di fronte al freddo
Della vanità. L’individualità piccola vive con 1 ’insouciance
Anche le conoscenze credute speciali .... ! Huss a un
contadino. ’Evlxi](JE &iì/iòv éxdarov. Frammento
sull’amore. La ferma connessione dei tegoli ~ Tò gwóv
. La morte è detta solo in riguardo alla vita Prima forma della fine
del Dialogo della salute APPUNTI PER TRATTAZIONI SISTEMATICHE Ardan
va nella luna per un tratto di spirito. La catarsi
tragica. FI eoi aotpiaq xai evdaijuovlaq (In ogni punto della
vita...Aia tcov òia25 - Questione centrale. Aristotele vuol organizzare e
sistemare . Le virtù. La dialettica. Platone ha bisogno dello
Stato (negl dtxaioadvtjq Chi cerca il giusto. Giusto è chi
giudica sempre ogni cosa trasfe rendosi nella necessità causale di
questa. Chi è debole ha tutto lo stesso (xc.Montanara
ÒQfviii). Il prediletto punto d appoggio della dialettica
socratica. Premessa metodologica. .. vorrei comunicar la ribellione /
all'universo. Carlo Michelstaedter Carlo Michelstaedter è un pensatore che
disarma e, per usare un suo lemma, "coinvortica": disarma
l'interprete, nel senso che lo coglie alla sprovvista, immettendolo all'interno
di una teoria di riferimenti e di allusioni, così ben congegnata nel tessuto
connettivo della Persuasione, da scoraggiare ogni pretesa od ogni buon
proposito di "esatta" acribia filologica'. Allo stesso tempo,
addentrandosi nella lettura, l'interprete non solo rinuncia alla sua perizia di
glossatore, alla sua pazienza di risolutore di trame, ma si trova costretto a
tralasciare ogni impegno asettico, scientifico, oggettivo di compilazione.
Michelstaedter, infatti, impone di non essere neutrali, il suo pensiero è
soprattutto, e consapevolmente, provocazione: chi lo affronta, vi si scontra,
ed è chiamato direttamente in causa, ne viene ammonito innanzitutto come uomo.
Questa violenza (e leggendo il nostro lavoro s'intenderà tutto il peso di
questo termine usato qui), cui il Goriziano sottopone il suo lettore, e dunque
anche noi, può indurre due e solo due effetti: o suscita riluttanza e
irritazione, più o meno ironica, più o meno seria, oppure reclama una disperata
devozione**. Comunque, non permette accomodamenti o sufficienze o imparzialità.
Noi apparteniamo alla schiera dei devoti, e la nostra tesi ha in ciò molti dei
suoi innumerevoli difetti, ma anche - ce lo si lasci dire - tutti i suoi pregi.
Se ci è lecito, a questi ne aggiungiamo uno ulteriore, di natura metodologica,
per quanto la cosa possa sorprendere, vista la particolare curvatura che
prenderà la nostra impostazione: frequentando Michelstaedter, infatti, nelle
nostre assidue riletture, ci siamo alfine persuasi che il Goriziano richiede
una personalissima metodologia, ritagliata su misura, che egli stesso ci ha
suggerito. Michelstaedter aborre la filologia fine a se stessa, dichiara a
chiare lettere che non gl'interessa, che anzi lo infastidisce, e a chiare
lettere confessa piuttosto l'interesse per la viva espressione
dell'intelligenza e del pensiero, per opere da cui spremere "succo
vitale"?; com'egli stesso ammonisce (seppur di passaggio, in una nota), 1
Ci trova poenamente concordi la posizione del Piovani, secondo il quale «non
c'è scienza storica [e dunque anche filosofica] là dove il metodo filologico,
che è il metodo della storiografia, non è seguìto»: «onestà d'indagine, che è
pazienza e sacrificio, attenzione di analisi, che è amore dell'altro, dicono la
moralità della filologia, anzi dicono della filologia come moralità».
Puntualizza il filosofo, tuttavia, che quello filologico «ovviamente, è un metodo
che ogni ricercatore segue a suo modo, con maniere personali e personalissime».
Questa sottolineatura ci rinfranca e c'incoraggia in questa rostra nostra
difficile ermeneutica d'approccio a Carlo Michelstaedter, pensatore che - a
nostro giudizio - richiede, forse più che altri, una scepsi filologica ed un
taglio di ricerca molto peculiari, diremmo addirittura ad personam (ma cfr. nel
seguito della nostra analisi). [Le citazioni da Piovani sono tratte da P.
Piovani, Conoscenza storica e coscienza morale, ed. Morano, Napoli, 19722,
pagg. 48-51 passim]. 2 Espressione-concetto di Michelstaedter. Altre
espressioni tipiche del pensatore goriziano, riscontrabili in questa Premessa,
verranno asteriscate [*]. 3 Indicativo, a tal proposito, questo stralcio di una
lettera al padre Alberto, scritta da Firenze il 31maggio 1908: 1 chi si
avvicina al suo pensiero deve «far forza alla propria erudizione» [PR 14],
perché - aggiungiamo noi - la voce della Persuasione non è apofantica e, come
tale, è insofferente ad ogni approccio razionalizzato o erudito o
categorizzante o puramente storiografico. Michelstaedter, "profeta"
di Persuasione, non può essere soltanto letto, né può essere decisamente
soltanto "studiato", ma semplicemente accostato, in maniera
inesorabile, e condiviso o combattuto. Diventare, come lui, «povero pedone che
misura coi suoi passi il terreno» [PR 4], diventare compagno di viaggio, e con
lui - durante il cammino - conversare, come i discepoli amati e amanti amavano
fare con Socrate. Oppure, divenire intralcio al viaggio e cercare occasioni di
sosta forzata. Così, se s'intende per filologia la puntigliosa computazione del
dettato, la sua scolastica e la sua patristica, la mera analisi testuale, la
collazione, l'idolatria della parola e dei suoi rimandi eruditi, il gusto per
la citazione affine e raffinata, allora La persuasione e la rettorica non è
un'opera filologica. Se invece per filologia s'intende, com'era per Vico, il
rispetto e l'amore della parola come espressione del pensiero e della
sensibilità umana, come risonanza intellettuale ma soprattutto morale, come
pretesto per far filosofia "civile", allora essa è anche un'opera
filologica. Parimenti, se s'intende per ricerca la compilazione archivistica,
l'interesse esclusivo per l'inedito, la serietà sterile e compassata di chi
affronta un'opera coi ferri del mestiere, tacendo la propria umanità in favore
dell'esattezza scientifica, allora la tesi di laurea del Goriziano non è una
tesi di ricerca. Se invece per ricerca s'intende l'ascolto della voce interiore,
lo scandaglio dell'umano, l'elezione degli autori che si leggono come
istigazione dirompente a rimeditare la propria contemporaneità e la propria
condizione, se insomma è ricerca di se stessi attraverso il testo che ci è di
fronte, laddove la voce dell'autore, seppur muta nel foglio, ci parla nel
profondo prendendo a prestito le nostre parole, allora il suo lavoro è anche
ricerca, e ricerca sofferta. Se infine s'intende per critica l'individuazione e
la risoluzione di problemi testuali fini a se stessi, la ricognizione delle
contraddizioni dell'autore, la destrutturazione e la ricomposizione dell'opera
al fine di svelarne soltanto i punti deboli o quelli forti, nel raffronto con
la tradizione, ancora una volta l'opera di Michelstaedter non è critica; lo è
invece se la critica è un'operazione di pensiero, che non chiama in causa il
concetto, ma il giudizio, se porta ad un punto di discernimento e di crisi il
pensiero di entrambi (dell'interprete e dell'autore), laddove la crisi segna
non soltanto il vacillare delle «lo in queste 2 settimane ho lavorato. La prima
settimana in casa, la seconda in biblioteca dove stavo dalle 8 alla una o le 2
a far lo 'studioso' [virgolettato ironico di Michelstaedter] a uso e consumo
dei forestieri che venivano a visitare la meravigliosa sala della Laurenziana.
Il semplice studio d'analisi d'una traduzione di Brunetto Latini d'un'orazione
di Cicerone m'impigliò nella questione del testo che Br. Latini poteva aver
avuto sott'occhio; dovetti occuparmi della storia dei manoscritti di Cicerone,
ed esaminare quanti ho potuto trovare qui anteriori a Br. Lat. per confrontarli
colla sua trad.[uzione]. Poi studiai pure i manoscritti fiorentini della
traduzione per correggere in parte l'edizione. Non sono lavori fatti per me.
[...] L'unica cosa che mi interessò sono le osservazioni che ho potuto fare
sull'eloquenza e sulla "persuasione" in genere». [E 320-321]
convinzioni e delle convenzioni, ma anche un elemento di svolta, un nuovo
inizio di sensibilità e di riflessione. Queste distinzioni non cavillose ma
sostanziali, che abbiamo addotto per render ragione dell'atipicità del lavoro
accademico di Carlo Michelstaedter, possono comodamente adottarsi anche per ciò
che riguarda il nostro lavoro accademico, il cui intento, o pretesa, non è far
la pantomima o la fotocopia di quello: in Michelstaedter, abbiamo trovato
confermati convincimenti che, da sempre, sono stati radicati in noi. In realtà,
il Goriziano è un autore che - data la stratificazione complessa del suo
dettato e l'estrema eterogeneità dei suoi referenti speculativi e letterari -
si presta volentieri anche ad accostamenti arditi e più o meno raffinati: la
fantasia dell'interprete corre a briglia sciolta e viene incoraggiata nel far
aderire Michelstaedter ad una propria, personalissima Weltanschauung. Quasi
sempre, il risultato che se ne ricava è quello di un sostanziale tradimento
della parola genuina del Goriziano, che diventa il viatico - e spesso, il
"megafono" - di convinzioni e "persuasioni" esistenziali, speculative
e politiche che in realtà, nella maggior parte dei casi, appartengono
esclusivamente all'interprete: basti pensare (e speriamo che questi
esempi-limite esauriscano la portata della questione) a come il nome di
Michelstaedter ricorra, e sempre con pretesto corroborante alle proprie
posizioni, in opere tanto diverse quali possono essere quelle di un Massimo
Cacciari (dove il Goriziano diventa un'ulteriore epifania della Krisis), di un
Aldo Capitini (laddove la Persuasione diviene religiosità autentica e umana) e
addirittura di un Julius Evola (dove Michelstaedter vien chiamato a
testimonianza del valore metafisico della "purità")‘. Il nostro
accostamento, dunque, è stato progressivo, talora blando, talora, e più spesso,
esasperato: come dire, volentieri il gioco ci ha preso la mano e, rileggendo
quanto abbiamo scritto su Michelstaedter, ci accorgiamo d'aver spesso confuso,
anche noi, la nostra prospettiva con la sua, o meglio, d'aver reso trasparente
la nostra "persuasione" attraverso la sua, utilizzando anche noi il
suo dettato come viatico di una ricerca ed urgenza esistenziale che, in primo
luogo, ci appartiene. Un qualcosa di analogo accadde del resto anche al
Goriziano, tal che la sua tesi, nata come uno studio scientifico sui concetti
di persuasione e retorica in Platone ed Aristotele (il cui nucleo originario si
conserva nella sezione "maledetta", come qualcuno l'ha definita,
delle Appendici critiche), si tradusse ben presto in un'apologia della
Persuasione. La sua tesi scientifica si era risolta in una ipotesi
esistenziale, e Michelstaedter non ebbe scrupoli a ritenerla
"ufficiale", a "sottoporla in commissione di laurea",
perché se è vero che una tesi di laurea è 4 Per una motivazione che non ci
vergogniamo di confessare esclusivamente politica (una salutare posizione
antidemocratica, una tantum), abbiamo ignorato del tutto l'odiosa
interpretazione evoliana; quella di Cacciari la abbiamo assorbita nel corso
della nostra trattazione, senza palesarla più di tanto; riguardo a Capitini,
invece, cui va tutta la nostra simpatia, ci riserveremo di approfondirla nelle
nostre Conclusioni. un'opera di ricerca, è altrettanto vero che la vera ricerca
è quella umana, socratica, soprattutto se poi - e qui facciamo riferimento alla
nostra - è una tesi di filosofia morale. Nel suo scritto accademico,
Michelstaedter si disincagliò dalla "scientificità", per porsi in
diretta sintonia con la voce della Persuasione. Ma non fu assunzione di
sregolatezza o di a-criticismo, frutto esclusivo di un'operazione di gusto o di
genio; bensì, semplicemente, l'escussione di una strategia ermeneutica altra
(ogni strategia di scrittura comporta, del resto, una specifica strategia di
lettura), una tecnica d'interpretazione dialogica che collabora col testo e che
trova nel divino Platone * il suo teorico più convinto ed esemplare: leggere
non glossando, ma filosofando, e intender la filosofia non (soltanto) come
scienza del pensiero, ma come sapere a vantaggio dell'uomo’ [cfr. Eutidemo,
288e - 290d], e quindi etica e politica: pensiero che si svolge tra, e non
sugli, uomini, con le parole degli uomini, anche se il suo linguaggio è talora
più suggestivo che rigoroso. In tal senso, assumendo in pieno anche noi questo
profilo euristico, abbiamo tentato un "romanzo storico-filosofico"
della persuasione in Michelstaedter e abbiamo accompagnato l'autore nella
ricostruzione eccentrica, ma fedelissima (fedele alla sua eccentricità), del
suo pensiero. Proprio a questa oculata scelta metodologica rispondono sia
l'andamento narrativo della nostra esposizione, e qualche confidenza che ci
siam presi durante il suo corso, sia l'accostamento del pensiero del Goriziano
a pensieri "alternativi" (il Buddismo, ad esempio), laddove
l'accostamento non è arbitrario, ma confortato da effettivi riscontri
biografici e testuali; sia le forzature cui sottoponiamo i testi dell'antichità
classica filosofica e tragica (forzature, ancora, non nostre, ma dello stesso
Michelstaedter, filologo "patologicamente" originale: ci siamo
limitati a seguirlo e, in certi punti, ad assecondarlo), sia infine il
privilegiare testi ed autori in apparenza estranei alla storiografia filosofica
"ufficiale" (Ibsen e Tolstoj, sopra tutti), solo perché è quasi
esclusivamente su tali testi ed autori che si innesta e si forgia l'immaginario
persuaso di Michelstaedter. Di contro, abbiamo adottato anche noi un opportuno
(o per noi tale) armamentario euristico per avvicinare il Goriziano.
Innanzitutto, l'orizzonte - morale, ma appunto anche euristico - entro il quale
si muove la nostra tesi è quello delineato dalla ragion pratica kantiana, non
solo qui assunta come la prospettiva etica, per noi, più alta mai raggiunta dal
pensiero in assoluto, ma anche - nell'economia del nostro discorso - come
valido modello per indagare e segnare "i limiti e le possibilità"
della condizione persuasa in Michelstaedter. Il punto più importante di
contatto tra il cosiddetto imperativo iperbolico del goriziano e l'imperativo
categorico kantiano è da riscontrarsi, a nostro avviso, nella forte esigenza -
5 Definizione, questa, tra l'altro cara ad uno dei nostri maestri putativi,
Nicola Abbagnano. 6 In questo, è possibile accostarlo al Nietzsche de La
nascita della tragedia e de La filosofia nell'età tragica dei greci.
necessaria, ma non sufficiente - di autonomia, che le suddette posizioni presuppongono:
il regno della Rettorica viene, di contro, a palesarsi per antonomasia come
regno della eteronomia, in tutte le manifestazioni, dalle più subliminali alle
più sublimi, dalla sua componente prima e fisiologica (la deficienza *) alla
sua realizzazione più completa (la tecnica politica e panoptica del corpo,
tanto per esprimerci con una fraseologia foucaultiana). Alla luce di quanto
detto, cercheremo di assimilare il vir” persuaso alla volontà santa, così come
descritta da Kant. Quando, invece, la nostra analisi s'appunterà nella
de-costruzione del dispositivo rettorico, ci avvarremo proprio dell'aiuto di
quella lezione di "smascheramento" retorico (lezione profonda e
pervicace, intelligente ed irriverente), ch'è il grande lascito di Foucault,
inteso da noi come apice della cosiddetta "scuola del sospetto". La
difficoltà del concetto di Persuasione, difficoltà quindi prima di
concettualizzazione che di realizzazione, acquisterà - a nostro giudizio -
nuova chiarezza e nuovo valore in questo tentativo di approccio critico che, a
quanto ci consta, appare inedito nelle letteratura critica sul Goriziano. Gli
ulteriori elementi sinergici, di cui si terrà conto, sono quegli stessi retaggi
esistenziali che Michelstaedter rielabora ed "attualizza",
ritenendoli egli stesso le cifre più essenziali di una vita sana*, ovvero il
messaggio e la simbologia cristologica e (nella sua variante laica, se ci è
permesso di esprimerci così) il messaggio e la simbologia socratica. Secondo un
taglio, invece, chiaroscurale, si evidenzieranno distanze/vicinanze con i
mostri sacri della Rettorica, ovvero Hegel e ancor più Aristotele. A tal
proposito, si utilizzerà l'opera dello Stagirita - paradossalmente? - come una
delle chiavi più adatte per penetrare l'assunto michelstaedteriano, e da essa
si ricaverà la formula euristica di entelechia etica per designare appunto
l'atto autentico della Persuasione. Persuasione che acquisterà, per quanto
possibile, contorni ancor più definiti nel confronto con la fede (si tenterà
una correlazione tra il Persuaso e il "cavaliere della fede", figura
kierkegaardiana), tal che, ancora una volta, la Persuasione apparirà coi crismi
di una esperienza e di un esercizio l'è vero religioso, ma di una religiosità
"laica", che si slaccia dall'eteronomia del rapporto con Dio, per
vestirsi di una propria spiritualità umana tutta particolare, democratica e
libertaria, ovvero fondatrice di democrazia e di libertà (in questo contesto si
accennerà all'opera di Aldo Capitini, che proprio in tal senso intese il monito
michelstaedteriano). Insomma, l'approccio che tenteremo al "concetto"
di Persuasione mirerà anzitutto a far terra bruciata intorno ad esso:
giocoforza, l'avvio a tale approccio verrà inaugurato in 7 Utilizzeremo, d'ora
in poi, con preferenza questa dizione per indicare l' "essere
persuaso", sia per evidenti ragioni di brevità, sia innanzitutto a ragione
della forte valenza semantica- morale-storica che i latini assegnavano a questo
termine [cfr. almeno C. Nepote, De viris illustribus]; vi contrapporremo homo
per designare l' "uomo della Rettorica" legato alla terra [homo >
humus]; e soprattutto dominus, colui che detiene i fili del potere all'interno
della "comunella dei malvagi" [per il significato di quest'ultima
espressione, cfr. il prosieguo del nostro lavoro]. media re, ovvero con
riferimenti diretti agli scritti ultimi del giovane filosofo goriziano e con
iniziale preferenza per le lettere e le poesie, rispetto alla stessa tesi di
laurea, ch'è il suo lavoro più conosciuto: ciò nella convinzione, nostra
personale, che in quelli il concetto di Persuasione abbia acquistato una
dimensione, come dire, più consapevole e vitale, urbanizzata e
"politica" (insisteremo su questo punto), quanto mai avesse nello
scritto accademico, laddove ogni definizione a riguardo - soprattutto nelle
prime battute - si risolve volentieri in forme ermetiche e tautologiche, talora
francamente impenetrabili. Il tutto, nel tentativo - che è paritempo pretesa -
(autocitandoci) «di individuare il nocciolo etico di quel suo [di Michelstaedter]
stesso pensiero, e di finalizzario ad una sana eudemonia (quella che il
Goriziano assimila alla vera 'salute') a vantaggio del nostro tempo, cercando
d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e 'coerente' la
consistenza e la realtà - la possibilità di quel porto di pace *, da lui stesso
vagheggiato», convinti che «la cifra autentica del suo pensiero sia riposta in
un'esigenza davvero semplice e umana: la ricerca, ch'è l'esigenza appunto,
della felicità possibile per l'uomo». In questa ricerca e in questa esigenza
convergono significativamente, per l'appunto, anche la prospettiva socratica,
quella cristiana e - non ultima - quella kantiana: e su una cattiva (in senso
proprio e lato) deflessione di tale ricerca e di tale esigenza si è fondato, e
si fonda tuttora, il mondo della Rettorica. Postille metodologiche. a) Nella
stesura del nostro lavoro, abbiamo preferito riprodurre la falsariga
michelstaedteriana: strutturare il discorso sulla Persuasione e sulla Rettorica
in due grandi blocchi, "monotematici", opportunamente articolati in
paragrafi atti a focalizzare i singoli progressi dell'analisi. Ovviamente, i
due capitoli non conducono esistenza autonoma, ma presuppongono una serie
indefinita di rimandi reciproci, evidenziati - nel nostro caso -
dall'Intermezzo (ma non solo), ponte di passaggio dall'uno all'altro e
frapposto ad essi. b) Sempre seguendo suggestioni michelstaedteriane,
accordiamo grande valore alle epigrafi: queste abbonderanno in riferimento a
paragrafi di estrema importanza e complessità. L'epigrafe, infatti, per
Michelstaedter riassume, e in certo modo "scolpisce", il senso e la
prospettiva di un discorso, e, allo stesso tempo, lo arricchiscono di
sottointesi atti a favorire una "complicità etico-ermeneutica" tra lo
scrittore e il lettore. c) Durante il nostro lavoro, indicheremo generalmente
(ovvero, a meno che non si avverta il bisogno di approfondire l'appunto) con le
seguenti sigle i testi di Michelstaedter più citati, facendole seguire dal numero
delle pagine cui le citazioni fanno riferimento, e apponendo il tutto, in
parentesi quadre, a fianco del brano citato: 8 Paradossalmene, perché
Michelstaedter individua proprio in Aristotele il suo nemico dichiarato [cfr.
oltre]. - Opere, a cura di G. Chiavacci, Firenze, Sansoni. 1958: 0; - La
persuasione e la rettorica, con Appendici critiche, a cura di S. Campailla,
Milano, Adelphi, 1995: PR; - Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano,
Adelphi, 1983: E; - Poesie, a cura di S. Campailla, Milano, Piccola Biblioteca
Adelphi, 19945: PP; - Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S.
Campailla, Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 19952: D. Quest'espediente ha
una doppia utilità metodologica: 1) evitare un continuo e fastidioso
affastellarsi di note e di rimandi spiccioli a pie' di pagina, elemento di
distrazione durante la lettura; 2) (e più importante) mostrare la ferrata
logica di rimandi e di allusioni che informa tutta l'opera di Carlo
Michelstaedter, secondo l'intima consapevolezza, che è propria al filosofo goriziano,
del fatto che ciò che si sta comunicando è in fondo un unico, anche se
articolato, pensiero [cfr. nota 161]. d) Trascriveremo, con spaziatura e
formattazione di paragrafo e carattere diversi da quelli comunemente assunti
dalla nostra scrittura, periodi o espressioni di Michelstaedter o di altri
autori, o che comunque non ci appartengono. e) Riguardo espressioni e citazioni
in greco, fatta eccezione per talune ricorrenti nel dettato di Michelstaedter,
si preferirà la translitterazione latina (ad es. gui --- philia); le citazioni,
tratte da filosofi o scrittori non italiani, in linea generale si riporteranno
direttamente in traduzione. f) Infine, invitiamo - si licet - a non trascurare,
durante la lettura, le note a pie' di pagina, alcune particolarmente
strutturate e complesse: molte note, infatti, rappresentano vere e proprie
"appendici critiche" al paragrafo in questione, e articolano un
discorso tangenziale e approfondito di taluni aspetti del pensiero
michelstaedteriano che, di non minore importanza, tuttavia avrebbero
appesantito, in prolissità, il corpus del paragrafo stesso. Capitolo | La
persuasione more geometrico demonstrata. Persuadere: 1 - indurre qlc. in una
convinzione o spingerlo a compiere determinate azioni; 2 - ottenere
approvazione, ispirare fiducia. Definizioni (rettoriche) del dizionario
Garzanti [...] guardar in faccia la morte e sopportar con gli occhi aperti
l'oscurità e scender nell'abisso della propria insufficienza: venir a ferri
corti colla propria vita. "Definizione" di Michelstaedter, nel
Dialogo. 1. Introduzione metabiografica. Mi pardi non aver voce, così m'opprime
questo triste incubo d'inerzia faticosa dal quale non ho saputo ancora
riscuotermi. Quella voce che viene dalla libera vita, quella m'era necessaria
per fare il mio lavoro come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere: e mi
son trovato invece a desiderar solo di non parlare, a non aver nessun interesse
per ciò che pur m'ero proposto di dire quasi con entusiasmo. E d'altronde finir
la tesi era la necessità per me per uscir da questo abbominio, almeno per poter
sperar d'uscirne, per aver almeno una via. Ma scrivere senza convinzione parole
vuote tanto per poter presentar carta scritta, questo ancora m'era
impossibile... E in questo triste giro mi son dibattuto questi mesi malato
nell'anima e impigrito nel corpo, a volte giungendo a raccogliermi e a riaver
in me vive e concrete le cose che altrimenti mi danno solo un tormento oscuro;
altre volte e per lo più vinto dall'inerzia disperdendo le mie forze in questo
e in quello che sembrava distrarmi dalla noia e tanto più fortemente mi
stringeva nella brutta necessità [E 440-441], Queste parole - scritte da
Michelstaedter all'amico Enrico Mreule, quasi ad un anno dalla partenza di
quello per l'Argentina - rappresentano, nella loro disperata sincerità, come
un'epitome esistenziale dell'impasse (almeno per poter sperar d'uscime, per
aver almeno una via...) in cui grava il nostro giovane autore, a pochi giorni
oramai dalla sua morte. L'onere della tesi di laurea, questo «mostro informe
qui crescit eundo et quod crescit non it» [E 417], viene affrontato in ultimo
con la pedanteria (anzi, ci vien d'usare un ossimoro: con la dotta sciatteria°)
di chi è già consapevole dell'inutilità, travestita da illusione, di poter fare
«con le parole guerra alle parole» [PR 134]'°; di chi - forte di questa
consapevolezza - si presta tuttavia al gioco della Rettorica, fatto di scadenze
e note filologiche (fumo negli occhi per un "messaggio" che tanto i
professori non capiranno, ironizza altrove Michelstaedter)'', di vita
consegnata alla carta, e per questo non più vita. Una consapevolezza, infine,
affidata in forma definitiva e paritempo programmatica alla famosa prefazione
all'opera maggiore: «o lo so che parlo perché parlo, ma che non persuaderò 9
«L'interesse d'aver fatta una cosa non è l'interesse di farla» [E 441]. 10
Tratto dall'epigrafe alle Appendici critiche. 11 «Il mio lavoro procede a lenti
passi, anzi non c'è un progresso materialmente sensibile. Ma non me ne
impensierisco, perché ormai è questione di tempo e difficoltà grosse non ne
troverò più. - Tanto poi per quei professori è tutto buono; per loro è come
arabo, non hanno vie e criteri per dire se va bene o male; tutt'al più
potrebbero rifiutarlo e perciò è stato prudente aspettare fino a Ottobre, che
così potrò buttar loro negli occhi tutta la polvere necessaria e che andrò
raccogliendo in questo tempo. -» [E 392]. Antimo Negri, giustamente, fa notare
che «solo le Appendici, del resto esse stesse non fino in fondo, sembrano, vertendo
su autori classici, soprattutto Platone e Aristotele, obbedire alle regole del
gioco dello "studio scientifico" accademico» [A. Negri, Il Lavoro e
la città, Roma, Ed. Lavoro, 1996, pag. 45]. In un notevole passo della sua
tesi, Michelstaedter destruttura i "meccanismi di potere" sottesi
alla dinamica succitata: «"[...]Tu devi far uno studio su Platone o sul
vangelo" gli [al giovane studioso] diranno "è perché cosi ti fai un
nome, ma guardati bene dall'agire secondo il vangelo. Devi esser oggettivo,
guardare da chi Cristo ha preso quelle parole o se omnino Cristo le abbia dette
e se non meglio le abbiano prese gli Evangelisti o dagli Arabi o dagli Ebrei o
dagli Eschimesi, chi lo sa... Naturalmente parole che valevano in riguardo
all'epoca, adesso la scienza sa come stanno le cose, e tu non te ne devi
incaricare. Quando tu hai messo insieme il tuo libro sul vangelo - allora puoi
andar a giuocare". [...] Così si conforta il giovane a perseguire nel suo
studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: "tu
cooperi all'immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po'
anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno
"». [PR 131; corsivi di Michelstaedter]. Abbiamo preferito anticipare già
qui espressioni- conclusioni del Goriziano, al fine di proiettare da subito chi
legge nel vivo della polemica michelstaedteriana. nessuno: e questa è disonestà
- ma la retorica "mi costringe a forza a far ciò"? - o in altre
parole "è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la
risputi"» [PR 3]. Una citazione, questa, che è a la page, tra coloro che
affrontano il filosofo goriziano, anche se talora mal intesa o superficialmente
valutata. Tuttavia, a ben vedere, è già qui che si delinea, si dibatte, e
implode, il problema (l'aenigma) della persuasione e della rettorica. Ed è
questa (ci si perdoni quest'ulteriore incursione metodologica), anche, una
delle peculiarità che caratterizza il nostro Michelstaedter: ovvero, il fatto
che da qualunque prospettiva si prenda la sua opera, qualunque suo scritto si
abbia sottomano, ci si trova già subito e prepotentemente proiettati nel cuore
dello scontro millennario, umano e storico, tra persuasione e retorica appunto.
E' altresì anticipato, in forma lata ma altrettanto perentoria, un assunto che
informa e struttura e, in un certo modo, pregiudica ogni assoluto tentativo di
discorso su "che cosa sia" la Persuasione: la Persuasione è dopo
tutto l'indicibile, l'impensabile: una "condizione" senza pensiero,
che non possiamo visualizzare e nemmeno interpretare concettualmente, né
tantomeno comunicare, secondo le leggi della logica della cosiddetta
"ragione occidentale". Ogni "parola sulla", ogni
"pensiero sulla" Persuasione, già solo per essere concepito, deve
prima essere elaborato, sottoposto ad artificio, manipolato, interpretato, per
separarlo dalla sua primigenia e consustanziale assurdità: ogni pensiero sulla
Persuasione si profilerebbe, così, già di per se stesso come Rettorica. Appare
chiaro, inoltre, ma non è male ribadirlo da subito, che il progetto originario
- di trattare, nella sua tesi di laurea, | concetti di persuasione e rettorica
in Platone ed Aristotele - si allarga e sviluppa, inevitabilmente per
Michelstaedter, nella considerazione dell'intera vita umana, culturale e
sociale. Non solo. In effetti, l'applicazione di questi due principi o
categorie (per ora definiamoli in questo modo) investe una dimensione ancora
più ampia, assurgendo a cifra dell'intero esistente. Ovvero, tutto il mondo,
inteso sia come "totalità dei fatti" (tutto ciò che accade) sia come
"totalità delle cose" (tanto per parafrasare Wittgenstein), risulta
permeato, intriso, e quindi - dalla prospettiva del Nostro - rimeditato alla
luce di questi due principi. Questo è un punto nodale. La persuasione e la
rettorica, nell'accezione del giovane filosofo, subiscono così non soltanto uno
slittamento concettuale rispetto alla concezione che di questi due principi,
che di queste due parole, il "senso comune" ha. La rettorica - ad
esempio - non è più un'ars, una téchne, con una sua patente di nascita,
storicamente contestualizzata e con un'applicazione "pratica":
ovvero, non è larte del parlare e dello scrivere in modo da convincere, o
persuadere” un uditorio, non è una professione di eloquenza e non denota 12 in
greco nel testo 13 E' interessante come la denotazione povera di questi due
termini s'incontri in questa definizione, tratta dal dizionario Garzanti, quasi
a testimoniarne un significativo appiattimento. altresì, per estensione, un
atteggiamento o comportamento che mira solo all'effetto esteriore e non è
determinato da un'autentica esigenza spirituale (la retorica del bel gesto, ad
esempio). Tutti questi aspetti non sono altro che i "modi" e gli
"attributi" in cui si manifesta la Rettorica originaria: ne sono la
mera fenomenologia, e anche la più povera. Le parole-chiavi di questo pensiero,
dunque, sono da Michelstaedter essenzialmente intese «in un senso diverso da
quello corrente, che rivela influenze ebraiche, greche e proto-cristiane. Come
osserva Mario Perniola, persuadere si dice in greco peitho, e l'uso transitivo
del verbo, persuadere qualcuno, non appartiene al greco arcaico ma ne
rappresenta una successiva trasformazione. Dunque la prima accezione di
persuasione era essere persuasi, aver fiducia. Anche nella Bibbia dei Settanta
[...] la radice greca peith- traduce la radice ebraica bth-, usata nei libri
sapienziali dell'Antico Testamento per indicare la disposizione d'animo del
giusto: la fiducia. Mentre la fede, pistis, nel Nuovo Testamento implica il
rinvio al futuro, l'attesa di una salvezza a venire, la fiducia-persuasione è,
nell'Antico, qualcosa di presente, un possesso attuale. Il senso della
persuasione michelstaedteriana è molto simile»'*, come avremo modo di
approfondire. Giusticato appare, dunque, il nostro confessato imbarazzo
nell'approntare la presente tesi, e ci figuriamo l'espressione ironica di
Michelstaedter, se potesse leggere le nostre pagine, e le altrui, sulla sua
opera e sul suo pensiero. Ma ancora una volta, la rettorica ci spinge a far
ciò: un dispositivo machiavellico così diabolicamente ben congegnato da
riuscire a rendere la voce della verità la propria pubblicità, ammantandola
casomai di simbolismo o conferendole una sistemazione ch'essa, invece,
disdegna; e da riuscire a rendere, altresì, i contestatori del sistema i propri
martiri, o - alla men peggio - «naturalisti inesperti», o meri facitori di bei
versi, di bei drammi e di belle musiche. E Michelstaedter stesso un nichilista,
un mistico, un cristiano devoto, un ebreo autentico, un filosofo mancato,
soltanto uno scrittore, una promessa non mantenuta, un teorico dell'arte, un
teorizzatore del dominio, un filosofo del linguaggio, un imperfetto pessimista,
un filosofo col martello, un pensatore morale, un precursore
dell'esistenzialismo, un povero anonimo giovane goriziano suicida, l'ultimo
allievo di Socrate, uno spirito della vigilia; e l'elenco, credeteci, potrebbe
stendersi all'infinito, perché infiniti sono gli uomini ed, ergo, infiniti sono
i modi di porsi della rettorica. Il che vale a dire che il "sistema"
(ed è questo il suo raffinamento, come vedremo) è divenuto capace di tollerare,
al proprio interno, riassorbendole, anche le contraddizioni e le contestazioni
più sottili e acute, apparendo per molti aspetti davvero come un Moloch o un
Leviatano invincibile. 14 Cfr. Michelis Angela, Carlo Michelstaedter: il
coraggio dell'impossibile, Roma, ed. Città Nuova, 1997, pagg. 124-125 [la
stessa autrice rimanda a M. Perniola, La conquista del presente, in Mondo Operaio,
n. 4, aprile 1987, pagg. 108-109]. Questa che ci accingiamo a scrivere,
tuttavia, non vuole essere una riflessione su Michelstaedter e sulla sua opera
e il suo tempo, non pretende cioè di coltivare (soltanto) una critica
filologica e filosofica del suo pensiero. La sua pretesa è addirittura più
grande: ovvero, quella di individuare il nocciolo etico di quel suo stesso
pensiero, e di finalizzarlo ad una sana eudemonia (quella che il Goriziano
assimila alla vera «salute») a vantaggio del nostro tempo, cercando
d'intravedere - non potendone visualizzarne in modo corretto e
"coerente" la consistenza e la realtà - la possibilità di quel «porto
di pace», da lui stesso vagheggiato. Per quanto possa sembrare riduttivo,
soprattutto in confronto alle vertiginose elucubrazioni che si sono tessute
intorno all'opera del nostro giovane autore, siamo infatti convinti che il
tratto autentico del suo pensiero sia riposto in un'esigenza davvero semplice e
umana (esigenza che non è soltanto letteraria o speculativa, ma che nasce
soprattutto da un'amara esperienza di vita, così com'è esperita da un giovane
intelligente e molto, molto sensibile): la ricerca, ch'è insieme l'esigenza, di
una felicità possibile per l'uomo. «Gli uomini non sono infelici perché
muoiono; muoiono perché sono infelici», afferma Michelstaeater, e questa
antimetabole non vuol essere una frase ad effetto giocata sul capovolgimento di
un luogo comune, bensì in essa è compendiata la grande utopia etica (ma quanto
utopica, poi?) che il Nostro ci propone. Michelstaedter, redivivo Socrate, si
assume un difficile compito esistenziale prima che speculativo (condividendolo
col suo "maestro" e con tutta la temperie greca), e lo affronta con
tutta l'esuberanza e la fiducia della sua giovane età, esuberanza e fiducia
temprate tuttavia dal rigore della sua mente eletta: quel compito è insegnare
agli uomini ad essere veramente felici. Glissando per ora considerazioni che
approfondiremo durante tutto il nostro discorso, possiamo anticipare già qui,
dunque, la pregnanza socratica ed, insieme, evangelica (nonché, aggiungiamo
noi, kantiana) di suddetta utopia. Detto in parole molto semplici: se
l'infelicità è frutto di "ignoranza esistenziale" (come c'insegna
Socrate, appunto, e - in certo modo - tutta la schiera di Persuasi che
Michelstaedter annovera nella prefazione alla sua tesi), ebbene bisogna fugare
le tenebre di questa ignoranza (ovvero, di questa rettorica), bisogna «uscir
della tranquilla e serena minore età» [PR 131]'°, ed indagarla secondo una
prospettiva "archeologica" - ovvero, "eziologica" - che la
conduca appunto allo scoperto. Michelstaedter scoprirà (come già notava a suo
tempo il Piovani’) le radici di 15 Sono le parole con le quali,
significativamente, si conclude la tesi di laurea. Ma cfr. il seguito del
nostro lavoro. 16 Piovani Pietro, Michelstaedter: filosofia e persuasione, un
inedito di P. Piovani a cura di Fulvio Tessitore, Nuova Anologia, fasc. 2141,
vol. 548°, gennaio- marzo 1982, p. 214. Piovani, innanzitutto, ci avverte che
«(...) occorre molta prudenza critica nell'avvicinarsi a Michelstaedter con la
piena fiducia che il suo discorso abbia una tratteggiata autonomia di linee
ricostruibili al di là del loro frammentarismo sostanziale."; quindi, poco
dopo, quasi a proporci un possibile approccio metdologicamente corretto:
"A tal fine giova, secondo noi, individuare come determinante il tema
della deficienza». quella Rettorica nella stessa struttura - fisiologica, prima
che ontologica - dell'uomo, penalizzato da quel «deficere» ch'è l'alfa e
l'omega di ogni sofferenza, di ogni illusoria(«lusinghiera», «adulatrice»)
soddisfazione, e - insieme - di ogni possibilità di riscattoautentico. Quella
"deficienza" che la critica, unanimemente, ascrive ad un retaggio
schopenhaueriano del nostro autore, e che noi, invece, preferiamo assimilare al
concetto di privazione (steresis), contenuto nella Fisica di Aristotele. Il che
non vuol essere un cavillo ermeneutico, ma vuol rendere chiara - da subito,
senza indugi - quella ch'è la nostra prospettiva di approccio a Michelstaedter:
siamo convinti, infatti, che l'aenigma della Persuasione (e di tutte le ardue,
tautologiche "definizioni" che ad essa il Goriziano associa) si
risolva in quella che potremo chiamare, con una formula che diamo già qui per
definitiva, entelechia etica, laddove per entelechia intendiamo proprio ciò che
intendeva lo Stagirita'”, ovvero l'atto finale o perfetto, cioè la compiuta
realizzazione di una potenza. Ebbene, a nostro parere, il dilemma
Persuasione-Rettorica si gioca appunto sul trinomio privazione-potenza-atto (e
ci sentiamo autorizzati a ciò da alcune "tracce" che Michelstaedter
stesso lascia nei suoi scritti), tale che la Persuasione si evincerà come la
piena, perfetta attuazione, realizzazione dell'uomo, secondo la sua (vera) natura.
Si converrà che una tale impostazione ribalta, in modo deciso, ogni evenienza
critica - per quanto legittima, perché giustificata, in un certo senso, da
talune affermazioni "forti" dello stesso Goriziano - circa
l'impossibilità (per l'uomo) della Persuasione. In effetti, proprio
Michelstaedter, se non nell'opera maggiore, soprattutto nell'Epistolario e
nelle Poesie? sconfessa - e ci sentiamo di dire che lo fa con una certa gioia
che sa di liberazione - quella presunta impossibilità della Persuasione,
individuando nell'amico Mreule l'acme, cronologico ed etico, della Persuasione
realizzata: l'atto di coraggio del compagno Enrico dimostrò al giovane filosofo
(e dimostra a noi) che la Persuasione non ha soltanto una sua storia (né
tantomeno soltanto una sua storia letteraria e filosofica), ma anche una sua
attualità viva e concreta, che ci può essere accanto e ci può guidare '°, pur
nella consapevolezza che una cosa è conoscere la «via della Persuasione», altra
cosa è avere la forza e il coraggio di imboccarla. Volendo, il dramma del
suicidio del giovane goriziano si consuma tutto qui (ma lungi da noi ogni
riduzionismo e ogni retorica a tal proposito). 17 Cfr. almeno Metafisica, IX,
8, 1050a 23. 18 Nel confronto (soprattutto) con le ultime lettere e poesie
(intendiamo quelle del 1909-1910), ci azzardiamo a considerare la tesi di
laurea già "datata", per quanto concerne la dimensione persuasa
dell'uomo; o quantomeno, a considerare le suddette lettere e poesie l'
"urbanizzazione" più completa e più efficace del messaggio della
Persuasione stessa. Ragion per cui, ad esse va tutta la nostra predilezione. 19
Sul valore e sul senso di questa "guida" della Persuasione - che non
ne pregiudica l'assunto autonomo, cioè di esperienza che si realizza nello
spazio di autonoma sacralità di ogni uomo - si articola un difficile e
intricato equilibrio (tra autonomia ed eteronomia), sullo
"scioglimento" del quale s'impernia tutto il nostro lavoro. Già da
quanto detto finora, appare chiaro che Michelstaedter si presenta subito come
un autore "difficile": questa sua difficoltà deriva non solo (com'è
ovvio) dal carattere decisamente e consapevolmente anti-sistematico, se non
ermetico, del suo linguaggio e del suo "messaggio"? - per quanto
quello stesso messaggio contenga una sua certa "banalità" (la
"banalità del bene", per alcuni sintomo di "pensiero
adolescenziale" [sic]) paradossalmente non accolta, inascoltata™ o,
peggio, mal interpretata; non deriva soltanto dalla vastità (davvero
impressionante, per un giovane) dei suoi referenti culturali; né soltanto dalla
"irritabilità" cui può indurre chiunque ad esso si avvicini
(un'irritabilità che egli condivide appieno con la torpedine-Socrate); bensì
essa deriva, forse soprattutto, dalla collocazione "liminare" della
vita stessa e dello stesso pensiero del Goriziano: storicamente sospeso in
un'età per definizione di transizione e di decadenza (quella tra Ottocento e
Novecento), con tutte le inquietudini "millennaristiche" annesse e
connesse, ampiamente testimoniate, del resto, dalla cultura coeva’;
geograficamente (e dunque culturalmente, linguisticamente...) oscillante tra
Austria e Italia (e non solo; non si approfondirà mai abbastanza l'impronta
mitteleuropea di questo autore”), situazione - questa - complicata, e di molto,
dall'appartenenza ebraica dell'autore stesso (altro nodo abissale); attratto e
disperso in una molteplicità passionale di ispirazioni (il teatro, la musica,
la letteratura, la poesia, la pittura), sia per quanto concerne le
"fonti", sia per quanto concerne le sue stesse realizzazioni; calato
in una Weltanschauung tragica - filosofica e religiosa - di amplissimo respiro
storico-geografico, di cui si propone originalmente e appassionatamente di
riannodare le fila; dibattuto tra un lacerante bisogno di indipendenza (non
solo "culturale" e affettiva, ma anche economica) e un altrettanto
forte bisogno di rifugio nell'alcova della sua Gorizia e della sua famiglia. 20
Riguardo a ciò, solo per la chiarezza con cui è svolta l'argomentazione,
riportiamo l'equilibrata valutazione di G. Cavallero, nella prefazione alla sua
tesi di laurea, valutazione praticamente condivisa da tutta la critica: «Alla
filosofia del Michelstaedter (caso singolare nella storia dei pensiero) va
riconosciuta subito una dote rara: quella di non porsi mai come tale, almeno
nel significato ormai consacrato del termine. Di diritto essa rientra piuttosto
nella storia della cultura che, non propriamente, in quella della filosofia o
della letteratura occidentale. La sua peculiare forma espressiva è strutturata
in un originale amalgama linguistico, da cui affiorano, armonizzati su di un
antico ritmo greco, stilemi biblicoplatonici, modi di prosare
"vociano" oltre, naturalmente, ad una congerie varia di altri
influssi - tra i più disparati - della cultura contemporanea. Questo complesso
problema linguistico, lasciato tuttora irrisolto dai numerosi critici del
Michelstaedter ad oltre sessant'anni [la tesi di Cavallero è del 1972] dalla
morte, ha così indirettamente favorito le più arbitrarie interpretazioni della
Persuasione, nel tentativo di ricondurla, di volta in volta, al denominatore
delle più svariate ideologie del Novecento europeo». [G. Cavallero, Itinerario
di Michelstaedter, Tesi di laurea, Anno accademico 1971-1972, presso Biblioteca
di Gorizia, Fondo Carlo Michelstaedter, Prefazione p. VI. ] 21 «Eppure quanto
io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il
mondo abbia ancora continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole»
[PR 3]. 22 Ma cfr., per quanto or ora diremo, il nostro profilo biografico, più
dettagliato, contenuto nel paragrafo 6 del Il capitolo (sulla Rettorica): Il
pretesto cronologico della proposta persuasa di Michelstaedter 23 Lo studio di
L. Furlan, L'essere straniero di un intellettuale moderno, ed. Lint- lavoro
dettagliato, composito, anche se discutibile per certe sue conclusioni - si
propone di adempiere appieno a questo gravoso compito. Tutto questo risulta poi
complicato da una tempra caratteriale certamente particolare, diremmo per certi
aspetti umorale, tanto da rasentare a volte manifestazioni depressive- reattive
(in specie, ad esempio, nelle ultime lettere), altre volte lampi di
vitalistico, ottimistico entusiasmo. Delicato, suo malgrado, come un fiore di
serra (psicologicamente, beninteso non fisicamente), sarebbe forse più
opportuno dire che la severità, o meglio il forte rigore morale, che egli usò
con se stesso dovette applicarlo anche agli altri uomini, ricavandone sovente
sonore smentite: da ciò, negli ultimi anni della sua vita, una sorta di involuzione
caratteriale: un animo, col tempo, sempre più appartato e deluso, che tuttavia
non perde la sua essenziale forza, energia e consapevolezza. Alla luce di tutto
ciò, se volessimo compendiare, in una sorta di prosopopea, il dramma
esistenziale del nostro giovane autore (che è, in definitiva, quello di un
"aspirante alla Persuasione" che si trova invischiato giocoforza
nello strame rettorico), proporremmo - in alternativa alla chiave di lettura
legata alla ben nota "coscienza infelice" hegeliana, avanzata dal
Garin% - la figura di Qohélet, il saggio ebreo autore di quell'operetta biblica
(tanto cara al Goriziano) che vien chiamata Ecclesiaste. Nel corso della sua
esistenza, Qohélet ha vissuto sulla propria pelle - giungendo ad una
consapevolezza tanto profonda quanto disincantata - la sconcertante (per quanto
"banale") verità che «tutto è vanità», come recita l'inizio [1,2] e
la fine [12,8] del libro biblico, a confermare che tutta la riflessione in esso
contenuta non è altro che un dipanare la trama e l'ordito di quell'assunto
unico, dominante e paradossale. Orbene, Qohélet - per quanto saggio, di una
saggezza che lo discrimina rispetto all'umanità intera - è tuttavia e comunque,
come tradisce l'etimologia stessa del suo nome, "l'uomo che partecipa
all'assemblea (degli uomini)". Proprio come Michelstaedter. Questo,
insomma, il complesso intrico di fattori che si trova costretto ad affrontare
chiunque si avvicini al filosofo. Lo stesso autore della Persuasione, quasi a
pregustare questa difficoltà, afferma che «ci sono degli uomini che sono dei
mostri, che si sono liberati del tutto dal loro tempo e dagli altri tempi e
fanno la disperazione degli storici» [O 810]. Difficoltà che, tuttavia, a 24
Ma, per dirlo in parole molto semplici, se il dramma della "coscienza
infelice" è quello di non poter identificarsi con Coscienza Immutabile,
ch'è Dio e l'Assoluto, l'infelicità di Michelstaedter ha un fondamento
quantomeno opposto: propri quello di essere costretto all'identificazione, con
qualsivoglia "struttura" o "identità". Michelstaedter
illustra questa inconciliabile dicotomia, ascrivendola anzi ad una delle più
pericolose e "lusingatrici" illusioni dell'uomo, di ascendenza
platonico-hegeliana, in un passo sotto questo punto di vista memorabile: «Egli
[l'uomo] vive di ciò che gli è dato, di cui non ha in sé la ragione, ma nella
sua conoscenza assoluta egli ha la Ragione; se il fine delle sue affermazioni
vitali è in ogni punto paura della morte, ma nel suo Assoluto egli ha il Fine;
se egli è in balia delle cose e non ha niente, e se pur questo niente difende
come valevole con ingiustizia verso tutte le altre cose, ma nell'Assoluto egli
ha la Libertà, il Possesso, la Giustizia. Così egli porta intorno l'Assoluto
per le vie della città. Egli non è più uno ma sono due: c'è un corpo, o una
materia, o un fenomeno o non so cosa, e c'è un'anima, o una forma, o un'idea. E
mentre il corpo vive nel basso mondo della materia, nel tempo, nello spazio,
nella necessità: schiavo; l'anima vive libera nell'assoluto». [PR 54-55] o ov
ben vedere, ci tocca fino ad un certo punto, se è vero - come ribadiamo - che
la presente tesi non vuol essere tanto un lavoro di critica e storiografia
filosofica, né vuol essere una meditazione su Michelstaedter, bensì riflessione
attraverso Michelstaedter, ovvero vuol rintracciare (vuol recuperare) in certo
modo l'attualità della sua ingiunzione morale, e non al fine di espungere «ciò
che è morto» e di decantare «ciò che è vivo» del nostro autore (operazione che,
per noi, nasconde sempre presunzione ed ingratitudine), bensì di riguadagnare
una voce autentica - che nasce da un'esperienza esistenziale altrettanto
autentica - che possa aiutarci nella difficoltà del tempo presente, diventando
nostra ingiunzione, al di là di ogni categoria storica e filosofica stabilita.
Del resto, coerente alla sua formazione eminentemente "letteraria", e
non specificamente filosofica (gli autori da lui citati, a rigore, sono più
"profeti" che filosofi, ed è indicativo: la verità non si esprime per
sistemi, ma si veicola nelle forme originali ed autentiche della creazione
umana); e, soprattutto, consapevole che la verità stessa è una «sorba amara e
perfida», «povera e nuda», che si vive e non si dice (com'egli afferma della
Persuasione), lo stesso Michelstaedter non intende pagare «l'entrata in nessuna
delle categorie stabilite» né fare da «precedente a nessuna nuova categoria»;
ma procede, a suo dire, nel rilevare il testimone della verità, «né con dignità
filosofica né con dignità artistica»?°. Il nostro filosofo si pone, dunque,
quale «povero pedone che misura coi suoi passi il terreno»? e da subito fa
professione di non-originalità””, laddove però questa non-originalità non è
pedissequa ripetizione scolastica di istanze e di imperativi morali, non è il
disdegno intellettuale (anch'esso "borghese") di chi rifiuta per
principio il mondo degli altri (sentenziando «pereat mundus sed fiat iustitia»)
e gli contrappone una realtà sua propria tanto edenica, quanto astratta e
utopica: è, invece, il rinnovellarsi e il ribadirsi di un appello all'esistenza
vera ed originale, vissuto veramente e profondamente sulla pelle di coloro che
l'hanno professato: Parmenide, Eraclito, Empedocle, Qohèlet, Cristo, Eschilo,
Sofocle, Simonide, Socrate, Petrarca su su fino a Leopardi, Ibsen e Beethoven.
Il carattere "viatorio" di queste espressioni ci rimanda a quella che
ci pare essere la chiave di volta della loro testimonianza: una testimonianza
che matura, si muove e soffre tra e con gli uomini, un'ingiunzione morale che
decade dal piedistallo del mal inteso imperativo categorico kantiano, divenendo
- in questa deformazione - astratto e universale (i due termini, da un punto di
vista esistenziale, si combinano), e rapprendendosi, In una lettera a Enrico,
in un contesto ironico, Michelstaedter butta giù, en passant, un «si duo idem
faciunt non est idem» [E 423; ma il modo di dire ricorre anche altrove: cfr, ad
es., PR 62]Questa notazione, evidentemente, meriterebbe molto di più che una
semplice nota. 25 Per quanto questo poi sia vero: si veda comunque come
appaiano scontate ed inopportune, alla luce di ciò, le accuse di coloro i quali
tacciano Michelstaedter di scarso rigore filosofico: Gentile fra i primi. 26Per
le espressioni citate in questo contesto, rimando - ancora una volta - alla
prefazione di C. Michelstaedter, La Persuasione..., op. cit. storicamente,
nell' "uomo e nello Stato hegeliano", avviluppato nella matassa del
dovere, della responsabilità e della sicurezza”; un'ingiunzione morale, infine,
che si fa veramente "urbana" e concreta, in una parola:
etico-politica. Ovvero, Michelstaedter cala - incarna - lo sforzo
etico-speculativo teso alla ricerca di soluzioni (scelte) esistenziali, volte
al vero vantaggio degli uomini? - o meglio, della sola autentica scelta esistenziale,
ch'è la Persuasione - nella magmatica, pragmatica ed altrettanto paradossale
quotidianità che ognuno vive. L'unica valida alternativa - rispetto alla nostra
decadenza - per una felicità possibile per gli uomini, per una xya9wv gui (il
corrispettivo speculare, persuaso, della rettorica xowwwx xxxwv?9) veramente
realizzabile. 27 Cfr. nota 21. 28 L'etica kantiana, nella sua interpretazione
distorta, va a rappresentare proprio la forma più moderna e palese e dinamica
di "etica borghese della sicurezza", ch'è il cavallo di battaglia
della Rettorica. 29 Preferiamo utilizzare sempre il plurale. 30 Per il senso di
queste espressioni, rinviamo al seguito del nostro lavoro. 2. Il demone Enrico.
In un noto passo dell'Apologia [31, D; ma cfr. anche Fedro 242 C, 551], il
persuaso Socrate afferma: «[...] questo che si manifesta in me fin da fanciullo
è come una voce che, allorché si manifesta, mi dissuade sempre dal fare quello
che sono sul punto di fare, e invece non mi incita mai a fare qualcosa»?!
[corsivo nostro]. Poco prima, Socrate aveva definito quella voce «alcunché di
divino». E' il famoso, controverso, "demone" socratico”, una delle
voci più antiche ed autentiche della Persuasione, la cui caratteristica
singolare è quella di essere, piuttosto, una voce della dissuasione”. Compendia
e glossa G. Bastide®*, considerando tutti i passi in cui questa
"figura" ritorna: «nnanzitutto Socrate spiega il suo comportamento
ricorrendo a un dio interiore, ad un avvertimento intimo, ad una voce demoniaca
che non l'abbandona mai. Poi, tranne una o due eccezioni, questa voce interiore
prende forma di divieto, quando si tratta di distogliere Socrate da questo o
quell'atto o da questo o quel coinvolgimento preciso. Infine, il dio è una
forza imperiosa che determina in modo totale la vocazione spirituale di Socrate
»”. In Teagete [129 E - 130 A], la potenza del demone socratico si
"politicizza": «[...]la potenza di questo demone è determinante,
anche nei rapporti con coloro che mi frequentano: a molti, infatti, è ostile ed
essi non traggono profitto alcuno dalla mia compagnia, tanto che anche a me non
è possibile stare con loro; a molti non impedisce di frequentarmi, ma, dalla
mia vicinanza, non ricevono vantaggio alcuno; quelli, invece, che la potenza
del demone assiste, perché godano della mia compagnia, sono coloro dei quali
anche tu [Teagete36] ti sei accorto; infatti ne ricevono un profitto immediato;
ma anche tra questi, alcuni godono di un 31 Le citazioni tratte dalle opere di
Platone, qui e altrove, sono riportate secondo la traduzione offerta in Platone,
Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi, 19912. 32 Cfr. la
diapositiva C [Demone] nel supporto iconografico. 33 Si tenga altresì presente
ciò che Nietzsche afferma nella Nascita della tragedia, sempre a proposito del
demone socratico: «Una chiave per comprendere la natura di Socrate ci viene
offerta da quel meraviglioso fenomeno che viene designato come "demone di
Socrate". In particolari situazioni in cui il suo portentoso intelletto
vacillava, egli ritrovava l'equilibrio in virtù di una voce divina, che si
faceva udire in tali momenti. Questa voce, quando viene, dissuade sempre. La
saggezza istintiva si mostra in questa natura interamente abnorme soltanto per
contrastare qua e là, ostacolandolo, il conoscere cosciente. Mentre in tutti
gli uomini produttivi l'istinto è proprio la forza creativo-affermativa, e la
coscienza si rivela critica e dissuadente, in Socrate l'istinto diventa
critico, la coscienza si trasforma in creatrice - una vera mostruosità per
defectum!" [Nietzsche, La Nascita della Tragedia; in Opere 1870/1881,
Roma, Newton, 1993, pag. 153]. L'acrimonia con cui Nietzsche offende e
offenderà Socrate è la stessa con cui Michelstaedter affronterà Aristotele; se
il motivo propulsore di questa acrimonia è, praticamente, identico (la critica
alla pretesa del sapere, nella fattispecie quello
teoretico-scientifico-tecnico), i differenti bersagli critici sono - a nostro
parere - non solo mera testimonianza di una dissimile "inclinazione di
gusto" dei nostri due autori, ma tradiscono - e profondamente - anche la
diversità delle alternative possibili e plausibili ch'essi propongono alla
decadenza (l'oltre-uomo e il persuaso), come vedremo in seguito. 34 G, Bastide,
Le moment historique de Socrate, Parigi 1939, pag. 236; riferimento contenuto
in J . Brun, Socrate, Milano, Xenia 1995, pag. 71 35 Ma si tenga anche
presente, anzi soprattutto presente, l'istruttivo capitolo IX [La dimensione
del religioso in Socrate] del lavoro di G. Reale, Socrate. Alla scoperta della
sapienza umana, Milano, BUR 2001, pagg. 265-294, capitolo sottinteso al nostro
discorso. 36 E' ovviamente Socrate che parla. vantaggio sicuro e duraturo,
molti, al contrario, fin tanto che stanno con me, progrediscono in modo
soddisfacente, ma, una volta lontani, ridiventano come tutti gli altri»
[corsivi nostri]. Orbene, crediamo che, in questo passo esemplare, sia
contenuta una chiara parafrasi delle differenti e possibili modalità di
relazione che il Persuaso intrattiene con gli altri uomini: Michelstaedter
"aggiorna" il topos affermando, in modo pregnante, che «ognuno deve
trovarsi la via da sé - e da sé batterla passo per passo - ché non ci sono né
carte né mezzi di trasporto; chi non sente di doverla, di saperla, di volerla
fare, non è buono a farla e invano spera l'aiuto altrui, invano altri vorrebbe
aiutarlo - la può batter colui che già è sano - e la salute è un dono di Dio.
-»° [D 93-94; corsivi nostri], che fa da eco a quella, più famosa, contenuta
nella tesi di laurea: «La via della persuasione non è corsa da "omnibus",
non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere. Ma
ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l'indice, ognuno
deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar
aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non
adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato. | pochi che l'hanno percorsa
con onestà, si sono poi ritrovati allo stesso punto, e a chi li intende
appaiono per diverse vie sulla stessa via luminosa. La via della salute non si
vede che con gli occhi sani» [PR 62-63; corsivi nostri]. Ora, ritornando al
passo socratico del Teagete, approntiamone un'utile schematizzazione. Socrate
distingue: a) individui a cui il demone è ostile, e che non traggono vantaggio
dalla compagnia con Socrate; b) individui «che la potenza del demone assiste»
[parafrasi quasi Michelstaedter: «a salute è un dono di Dio»], e che traggono
vantaggio dalla compagnia con Socrate: b,) quelli - e son soltanto alcuni - che
«godono di un vantaggio sicuro e duraturo»; bə) quelli - e sono invece molti -
che [PR 169]?°. Nel penultimo passo, del
resto, affiora (anche) la differente posizione, sempre nella prospettiva
persuasa, che Michelstaedter ha consapevolezza di occupare rispetto all'amico:
mentre lo Mreule - agli occhi del Goriziano - ha raggiunto la Persuasione e vi
permane, egli invece è ancora sulla difficile e tormentata via che porta alla
Persuasione stessa. La «consistenza» di Enrico è indipendente, in senso
assoluto, come indipendente e assoluto è il monito persuasivo del suo esempio;
al contrario, Michelstaedter avverte la necessità - per la propria consistenza
- che il suo amico «ancora lo pensi e si curi di lui». E' più del bisogno di
una tangibile comunione fraterna, è più del desiderio di essere nei pensieri
dell'amico; è l'esigenza, bensì, di fondare la propria consistenza di uomo, di
legittimare - attraverso quasi il giudizio del demone-Enrico - la propria
aspirazione alla permanenza?*: 40 In base al nostro schema, è il rapporto delineato
in bi. 41 E «il coraggio non vuol la prudenza ma l'atto» [PR 63]. 42 Ma
riguardo la dialettica lontananza-vicinanza, cfr. la parte finale del presente
capitolo. 43 Ma - edè significativo - è lo stesso Michelstaedter a condannare
in modo risoluto - in alcuni passaggi fondamentale della sua tesi e del Dialogo
- questo illusorio "meccanismo di reciproca compiacenza": «[...]
ognuno, se racconta la sua «Quella voce che viene dalla libera vita [quella
voce che Enrico aveva accolta e fatta sua], quella m'era necessaria per fare il
mio lavoro [la tesi] come io lo volevo; m'ero illuso di poterla avere [...]>
[E 441]. Mentre Enrico ha affrontato il mare e «s'è conquistato il suo posto di
lotta e di lavoro» [E 435], Michelstaedter si trova ancora impelagato nelle
pastoie della Rettorica, sociale familiare culturale accademica. Il Nostro non
nasconde una punta di benevola invidia, e di dispetto per quegli oneri (alibi
facilmente smontabile, tuttavia) che lo costringono alla falsa permanenza, al
soggiorno "forzato" in Gorizia, al soggiorno forzato nella vita
retorica: «La lettera di Rico [...] mi mise il fuoco addosso per quanto penso a
noi, che, invidiandolo, siamo impediti nel volerlo raggiungere dalle cose
stesse che c'impedirono di partir con lui [... > [E 436; corsivo nostro]. E'
altresì interessante notare come, invece, dalla prospettiva stavolta di Enrico
(testimoniata da C. Magris, nella bella e suo malgrado dissacrante biografia
romanzata che gli dedica‘*), le posizioni risultino addirittura ribaltate: se
Enrico «tanto per cominciare, è andato via per non fare il militare» [Magris
15], di contro - per lui - è Michelstaedter ad essere «un santo» [ib. 83];
insieme con Buddha (vedremo successivamente il rilievo di questa affermazione),
che lo è per l'Oriente, Carlo per Enrico è il «grande risvegliato» [ib. 94]:
solo Carlo può essere sicuro [ib. 45]. Non si tratta soltanto, qui, di una
reciproca attestazione di stima profonda e sincera; è una testimonianza -
questa - che tradisce il fatto che la delineazione dell' "essere
persuasi" era ancora in fieri, chiara ed evidente, certo, nella intima
consapevolezza dei due, ma ancora insufficientemente attingibile nella
concretezza della vita reale o anche della pura elaborazione concettuale.
Riteniamo opportuno, allora, soffermarci sul gesto assoluto di Enrico Mreule.
Così, il 28 novembre 1909 - in gran segreto, la famiglia completamente ignara
di tutto - questa sorta di Neal Cassady carsico, giovane, bello, geniale,
disperato, "maledetto"* - s'imbarcava a Trieste per l'Argentina,
sulla Columbia; accanto a motivi di ordine eminentemente "pratico", a
spingerlo era la decisione di dare una possibilità di nuovo inizio alla propria
vita, di rescindere ogni legame con la passata, di fondare - non solo con le
parole, ma con i fatti - un proprio mondo autonomo e libero, una propria
«consistenza indipendente ». Perché (avrebbe detto non molti anni dopo un altro
giovane "maledetto", Paul Nizan‘9) «a libertà è un potere reale». Si
trattava di mettere in pratica, di esercitare vita sciagurata e i fatti
dolorosi di cui porta la colpa e le conseguenze, trova nella compiacenza dei
compagni integra almeno l'illusione della sua individualità. -», «[...] la
dolce illusione d'esser qualcuno»; in questo meccanismo, gli uomini retorici
«considerano i loro simili come specchi compiacenti, - che raddoppino la vita.
Ma il nulla che non si raddoppia...» [D 55-56] 44 C. Magris, Un altro mare,
Garzanti, 1998. 45 Cfr. la diapositiva B [Ritratto di Enrico Mreule (2)] nel
supporto iconografico. 46 Paul Nizan: Aden Arabia (con saggio-prefa zione di
J.P. Sartre), Mondadori, 1996. Sarebbe suggestivo mettere a confronto gli
esiti, nonché le motivazioni e le "ideologie" sottese alla
"compulsione del viaggio" che spinse questi due questo potere.
Dunque, un gesto improvviso, ma non improvvisato, evidentemente; azzardato, se
vogliamo, ma non gratuito; frutto concreto di una decisa e persuasa visione del
mondo e della propria esistenza; risultato coerente, ancora, dei discorsi e
degli "ammaestramenti", riguardo le proprie convinzioni, che il
giovane Mreule elargiva ai suoi altrettanto giovani amici. Un gesto che
acquista ancor più valore, e lo stesso Michelstaedter ne è consapevole, di
fronte al puro astratto gesto di ribellione e di fuga (se non
"fisica", almeno intellettuale) che il Goriziano insieme persegue e,
sotto sotto, paventa. L'inquietudine (complicata dalla giovane età),
l'infelicità, derivante dall'intuizione amara dell'impasse retorica, è la
stessa; ma Enrico è riuscito a rimettere in gioco se stesso e la propria
esistenza, è riuscito a passare dalla mera rivendicazione verbale all'atto,
dalla potenza all'entelechia. In Enrico Mreule, la parola persuasa - come
risuonava nei discorsi (nei simposi) "in soffitta" dei tre giovani -
si è tradotta, senza tradirsi, in attualità pura, assoluta, permanente, eterna;
la parola si è fatta carne e sangue, si è esposta al rischio
dell'imprevedibilità, alla possibilità aperta e pericolosa che ogni scelta
autentica implica e prepara. Alla stregua di Cristo, Enrico è il Verbo (della
Persuasione) Incarnato. E' in lui, cioè, che la Persuasione scende dal
piedistallo dell'astrattezza, dell'utopia, dell'atopia, della letterarietà e
del passato, per farsi vivo, concreto, persuaso presente. Perché la «salute»
non è soltanto un'idea, la sua sede non è l'iperuranio separato dal mondo della
vita sublunare: la salute - ancora "sostanza seconda" nelle stesse
pagine che Michelstaedter le dedica nel lavoro accademico - assurge a
"sostanza prima" - e quindi veramente reale - nel synolon dell'essere
persuaso, che è Enrico. Un esempio, quello dell'amico, infine, che disattende e
confuta, come detto, quelle affermazioni, frequenti ancora nella tesi, per le
quali la Persuasione era attestata come una possibilità... impossibile: lo
Mreule è l'esempio vivente, così, che la Persuasione non è un luogo ideale,
inattuale ed inattuabile; che non è una mera idea regolativa nella prospettiva
non solo etica, ma ontologica; che non è un "mito", (soltanto) una
stella polare che indichi e guidi il nostro cammino; che non appartiene,
ancora, soltanto ad eletti del mondo delle arti e del passato filosofico,
letterario ed artistico; che non è, infine, una condizione edenica,
improponibile nel mondo della Rettorica. Al contrario, nello Mreule, la
Persuasione irrompe come l'eternità nel tempo, squarcia la verbosità delle
concettualizzazioni, lega il passato e il futuro nella decisione (nella scelta)
dell'eterno presente, si indica come possibilità sempre aperta - per quanto
latente - all'uomo, ad ogni uomo che mostri il coraggio di accoglierla e di
farla sua. giovani intellettuali - Mreule e Nizan (divisi da poco più di un
ventennio) - a cercare in un lontano altrove scampo alla congerie rettorica. 47
La famosa soffitta del P aternolli, di cui abbiamo anche un bozzetto
autografato di Michelstaedter. Scrive Michelstaedter ad Enrico: «Col tuo atto e
con questo fatto già in parte avvenuto, quasi con argomenti sopportando solo la
mole degli argomenti teorici, coi quali tu nelle nostre conversazioni ci aprivi
la via alla giusta valutazione delle cose, hai compiuto per noi l'unico
beneficio che si possa fare da un amico agli amici» [E 421]; e ancor più
esplicitamente «[...] come le tue parole si son fatte azione! lo mi nutro
invece ancora di parole e mi faccio vergogna» [E 442; il corsivo è dello stesso
Michelstaedter, a sottolineare l'importanza dell'espressione]; fino a rendere
testimonianza e omaggio al vero persuaso Enrico, nella bellissima lettera
datata 29 giugno 1910: Ti vedo sempre cosi come t'ho visto l'ultima volta a
Trieste, determinato in tutte le tue possibilità, vivo così, che nessuna cosa
della vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta
attraverso tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente. Perché tu non
chiedi niente. E come non t'accorgi del tempo perché nell'atto in ogni attimo
sei intero, così in ogni tua parola si ha l'imagine [sic] concreta della tua
vita [E 440; i corsivi sono nostri] In questo denso passo, affidato
significativamente ad una lettera (e dunque ad un testo privato), tuttavia la
Persuasione trova una delle sue espressioni più limpide e convincenti, in
assoluto. Visto il particolare andamento di questo capitolo, e alla luce di
quanto detto finora, riteniamo opportuno analizzare il succitato brano
abbastanza a fondo, allo scopo di rintracciare alcuni notevoli punti fermi che
ci consentano di anticipare, per maggiore chiarezza di visione, importanti
conclusioni riguardo l'idea che ci siam fatti dell' "essere
persuasi". Innanzitutto, ancora una volta ribadiamo questa considerazione:
Enrico Mreule è exemplum storico della salute: egli è «determinato in tutte le
[sue] possibilità». Soffermiamoci sull'attributo "determinato" e sul
sostantivo "possibilità", entrambi pregni di straordinarie
significanze etico-filosofiche. Qui, "possibilità" - a differenza di
quanto tanto "esistenzialismo negativo" ci ha insegnato (da
Kierkegaard, ad Heidegger a Jaspers a Sartre) - ha una forte valenza positiva:
se per i suddetti la possibilità esistenziale si risolve, in fondo (chi in più,
chi in meno), in impossibilità, nello scacco di quell'«essere che progetta di
essere Dio», nell'improponibilità della scelta esistenziale ed autentica, che
determina angoscia e disperazione; in Michelstaedter sta ad indicare, invece,
il dispiegarsi delle energie vigorose e positive, originarie ed originali,
autentiche ed incorrotte dell'uomo stesso. Qui, piuttosto, il termine e il
comprensivo "possibilità" trova il suo affine nella
"potenzialità", nella già richiamata dynamis, in tutta la sua portata
di «preformazione e predeterminazione [rispetto all'atto]», «modo d'essere
diminuito o preparatorio all'atto »*°: la possibilità esistenziale autentica
trova il suo telos nell'entelechia etica. Le parole di Enrico si son fatte
azione, la sua dynamis appunto si è dispiegata e realizzata, giungendo alla sua
"perfezione". Non può non emergere la forte componente 48 Ovviamente
utilizziamo come sinonimi Persuasione e Salute, sentendoci autorizzati a tale
uso dall'uso stesso che ne fa Michelstaedter.dinamica che permea tale
condizione esistenziale. Difatti, l' "essere persuaso" non è un
monòlito, per quanto il suo sia un permanere nella Persuasione; ma il permanere
- dice Michelstedter - non è uno stare: «non c'è sosta per chi porta un peso su
un'erta, ma quando lo deponga dovrà andarlo a riprender sotto ove sarà
ripiombato: ogni sosta è una perdita; tanto sosti e tanta strada devi rifare»
[PR 35; corsivo nostro]. E poco più avanti, raccoglie e ripropone il monito
contenuto nell'E/ettra di Sofocle (monito che, a nostro parere, è l'elemento
veramente drammatico della tragedia sofoclea e della vita stessa del
Goriziano): «non è più il caso di indugiare, ma di agire» [ib.; in greco nel
testo]. Ancora più avanti, le parole di Michelstaedter in proposito si fanno
adamantine, raccogliendo le estreme conseguenze di quanto finora affermato: «il
diritto di vivere non si paga con un lavoro finito, ma con un'infinita
attività» [PR 41; corsivo nostro]. E' svelato, così, l'alone misterioso che
avvolge la premessa del giovane studioso: «Nell'eBroc BoA potenza e l'atto sono
la stessa cosa!, poiché l'Atto trascendente, "l'eternità raccolta e
intera", la persuasione, nega il tempo e la volontà in ogni tempo
deficiente» [PR 12]. Come per quest'altro capoverso, che è forse la "definizione"
più completa - presente nella tesi -dell'essere persuaso, pur nella sua
sinteticità: «Colui che è per sé stesso (ever) non ha bisogno d'altra cosa che
sia per lui (evot «vtov) nel futuro, ma possiede tutto in sé» [PR 9]. La
determinazione che il vir mostra nella gestione delle proprie possibilità è -
insieme, dunque - risolutezza e consapevolezza. Il vir è "risoluto",
sciolto (come c'insegna l'etimologia) dai lacci della Rettorica, e in questo è
veramente libero e assoluto; è altresì consapevole delle sue potenzialità volte
alla realizzazione della vita vera. Per gli Stoici, la chiusura della mano nel
pugno rappresentava la "comprensione": immagine felice: il virha in
pugno tutte le proprie possibilità e comprende la possibilità di dispiegarle in
modo pieno e compiuto. Nel punto appena successivo del passo che stiamo
esaminando («[...]nessuna cosa della vita, mi sembra, possa trovarti
insufficiente, ma che anzi tutta attraverso tutti i perigli debba volgersi a te
spontaneamente [... ]}»), Michelstaedter ritorna su uno dei fulcri inossidabili
della sua posizione teoretica-etica-ontologica, cui abbiamo già accennato:
l'insufficienza; c'è da rilevare, qui, il ribaltamento, anzi la vera e propria
"rivoluzione copernicana" che viene ad operarsi tra il 49 cfr.
Aristotele, Metafisica, X, 8, 1049 b4 50 Vita che non è vita. Tuttavia, come
chiosa puntualmente Campailla, «non nel senso in genere dispregiativo che è
proprio dell'aggettivo greco, ma in quello di "vita che è fuori della
vita", "vita impossibile": la vita, insomma, della Persuasione»,
51 Qui, Michelstaedter sembra parafrasare proprio Aristotele. Troviamo,
altresì, molto interessante notare l'analogia, sotto questo punto di vista, tra
il Persuaso e il dio (sparse nel capitolo specifico sulla Persuasione, nel
lavoro accademico), che nella fattispecie - a nostro parere - corrisponde al
dio aristotelico, così come tratteggiato nei libri VIII e XII della Metafisica
(un'opera che Carlo tenne sicuramente presente, oggetto di studio e di
riflessione continui): il dio di Aristotele non ha in sé nulla in potenza, è
Atto e Forma puri, è un essere perfetto, il quale non manca di nulla, non ha
nulla da realizzare (se possiamo esprimerci così), e in esso tutto è pienamente
attuato; da qui, la sua "immobilità" e la sua eternità. Esso -
proprio come il Persuaso - non protende verso alcunché, avendo già in se stesso
la sua completezza e la sua perfezione. Questo dio è in pace con se stesso. vir
e il mondo delle cose: nessuna «cosa della vita» trova insufficiente il vir,
perché egli «non chiede niente », perché ha sciolto i lacci della dipendenza.
L' "autarchia" dell'essere persuaso è diretta espressione e
conseguenza della sua consapevolezza: egli non chiede niente perché è
consapevole che la vita, che la Rettorica niente può veramente dargli, e che
ogni elargizione che dal mondo retorico proviene è, parimenti, ottriata, falsa,
illusoria, inadeguata. Questa posizione, in tutta la sua profondità, è limpida
nella coscienza di Michelstaedter: «Ma chi vuole la vita veramente, rifiuta di vivere
in rapporto a quelle cose che fanno la vana gioia e il vano dolore degli altri
- e non accontentandosi d'alcun possesso illusorio chiede il vero possesso,
così che in lui prende forma e si rivela il muto e oscuro dolorare di tutte le
cose» [O 705]; «[...] se c'è via che possa in qualche modo liberarci dalla
nebbia, è quella che insegna a non chiedere ciò che non può esser dato» [D 73];
«...]- non c'è niente da aspettare, niente da temere - né dagli uomini né dalle
cose. Questa è la via. - » [D 81, ribadito pari pari in D 85; corsivo di
Michelstaedter] et similia. L'autarchia del vir non è tuttavia l'egoistico
ripiegamento su se stesso dell'Unico di Stirner”, frutto della disperazione del
nulla che si dispiega in violenta autoaffermazione di dominio solipsitico; essa
è piuttosto - se vogliamo - affine? (ma con i dovuti distinguo) all'ideale del
saggio stoico, affine quantomeno nella matrice etica che presuppone e prepara
quell'esito: ovvero, l'accettazione del dolore e della morte e l'indifferenza
rispetto ai più comuni beni della vita (salute, ricchezza, bellezza...) e ai
loro contrari”*. Secondo gli Stoici, "vivere secondo natura"
significa, da un lato, mantenersi in accordo con gli eventi, accettandone il
carattere di necessità-provvidenza; dall'altro, favorire la propria natura
realizzando e conservando il proprio essere razionale. Orbene, detergendo tale
prospettiva dalle connotazioni di necessità, provvidenza e razionalità (o
almeno non ritenendole esclusive), essa viene a convergere proprio con la dimensione
persuasa del vir. Di poi, il "bastare a se stesso" non si risolve in
una posizione ascetica (come da 52 «il triste filosofo dell'anarchia», lo
definisce Michelstaedter. 53 Un'affinità cui ci autorizza lo stesso
Michelstaedter; cfr. Dialogo tra Napoleone e Diogene, in D 101-110. 54 «Poiché
in quanto virtus essa è disposizione a una cosa (possibilità), in quanto tua
virtus è bisogno di questa cosa (anche in rapplorto] alle virtutes negative
degli stoici che sono neglative] inrigluardo] ai bisogni ma positive riguardo
alla vita, cioè esser felici senza quei bisogni: gli stoici avevano
d'accorgersi che esistevano anche senza quei bisogni, essi esistevano e
cred[evano] d'essere solo in quanto negavano l'una cosa e l'altra e affermavano
così in rapporto a queste cose della vita la loro individualità. Dunque gli
Stoici hanno possibilità di vivere senza bisogni ma bisogno di viver come tali.
- Si ergo virtus se ipsa contenta est - homo virtuosus plane adnihilatus est...
in quanto tua virtus - è bisogno d'esplicarla, di viverla nel tempo, tutta. E
come l'esplicarla non è mai in un punto, così tu non puoi possederti in nessun
punto» [ib. 107; è Diogene che parla a Napoleone; i corsivi sono di
Michelstaedter]. Invitiamo a leggere questo passo anche alla luce di quanto
detto sulla dinamica potenza-atto nell'ottica persuasa. 55 La virtù stoica,
ancora, così come la Persuasione è tale da non ammettere gradi intermedi (essa
è o non è), come descrive efficacemente Cicerone: «Come infatti chi è sommerso
nell'acqua, sebbene poco distante dalla superficie, sì da poterne quasi
emergere, non può respirare affatto più che se fosse nella profondità [...]
così chi si sia avanzato alquanto verso l'abito della virtù non è affatto meno
in miseria di chi non vi si sia avanzato per nulla» [De finibus, III, 48].
L'ideale di saggio stoico, quindi, anche qui si mostra come valido strumento
euristico per indagare il carattere peculiare della Persuasione: ma, come
visto, le differenze sono importanti almeno quanto le somiglianze. In effetti,
il tentativo chetaluni è stato rimproverato); tutt'altro: il vir non si
allontana sdegnosamente dal mondo, ma si fonda il mondo: l'entelechia etica è
un atto di fondazione, è la possibilità di un nuovo, autentico inizio, e in ciò
consiste la sua vera libertà. Libertà, dunque, che non è solo apatheia, non è
solo "libertà da", ma anche soprattutto "libertà di":
libertà di permanere nell'esistenza persuasa e di fondare il mondo della
propria autenticità: il vir «deve creare sé e il mondo, che prima di lui non
esiste » [PR 34]. Ci piace, allora, richiamare le parole del già citato Paul
Nizan, che descrive in modo prezioso e vibrante tale condizione: «La libertà è
un potere reale e una reale volontà di essere se stessi: è capacità di costruire,
inventare, agire, soddisfare tutte le possibilità umane il cui dispendio dà
gioia» [Nizan 82] (vedremo tra non molto questo peculiare legame tra attività e
gioia, che ritorna anche nel Goriziano). Poco più avanti, è lo stesso scrittore
francese che segna con nitidezza e con un certo sdegno i distinguo tra questa
reale libertà e saggezza da quella dei saggi "stoici"; la libertà che
egli auspica e pretende non è quella dei «...] saggi che paralizzano a una a
una le parti dell'umanità e chiamano saggezza questa mutilazione. E' certo il
tempo di non essere più stoici, non avrete più un cielo dove recuperare
iltempo» [ib. 83]. Nel concludere questo paragrafo, proponiamo un lungo brano,
tratto dal romanzo / cosacchi, di un (allora; siamo nel 1863-64) giovane autore
russo, Lev N. Tolstoj, un autore che il nostro Michelstaedter amò a dismisura,
traendone profitto e sostanza morale. Questo romanzo è, indubbiamente, un'opera
giovanile, eppure - pur nell'acerbità a suo modo perfetta - già contiene in
nuce lo slancio etico-esistenziale appassionato, ed i motivi ad esso connessi,
che informeranno tutta l'opera del grande scrittore, e che confluiranno nella
speculazione del Goriziano, assorbiti in modo originale, ma fedele. Il brano
che proponiamo è cruciale sia nell'economia del romanzo, sia nella vita del suo
protagonista, il giovane nobile Olenin, il quale - pieno di entusiasmo e
spinto, da un'oscura sensazione di estraneità al mondo a cui appartiene per
nascita, alla ricerca della felicità [Olenin- Michelstaedter-Mreule] - intraprende
un lungo viaggio che da Mosca lo porta in un lontano villaggio del Caucaso
(inutile dire che ogni tentativo di Olenin di adattarsi alla nuova realtà,
soprattutto per quanto riguarda i "rapporti umani", sarà destinato
allo scacco). Ebbene, questo brano contiene - in modo davvero disarmante, a
nostro parere - parecchi punti di contatto (non solo "ideologico", ma
addirittura espressivo) con talune pagine michelstaedteriane; esso, inoltre,
riassume in maniera opportuna tutto il discorso da noi fin qui tenuto e, in
maniera altrettanto opportuna, soprattutto nell'interrogativo che lo conclude,
ci offre il destro per proseguire questo nostro difficile cammino ermeneutico.
stiamo facendo - e in questo campo è giocoforza procedere per tentativi - è
quello di setacciare il concetto di Persuasione: circoscriverlo, per quanto
possibile, per meglio individuarne vigore e valore. «Egli [Olenin] si sentiva
fresco e a suo agio; non pensava a nulla, non desiderava nulla. E a un tratto
fu assalito da un così strano senso di felicità senza motivo e di amore per
ogni cosa che, seguendo una vecchia abitudine infantile, si mise a farsi il
segno della croce e a ringraziare non so chi. Gli venne a un tratto in mente
con particolare chiarezza che lui, Dmitri Olenin, un essere così diverso da
tutti gli altri, se ne stava ora disteso solo, Dio sa dove, in un luogo dove
viveva un cervo, un vecchio cervo e bello, che forse non aveva mai visto un
uomo, e in un posto dove nessun uomo mai s'era posto a sedere, né aveva avuto
quel suo pensiero. "Sono seduto, e attorno a me stanno degli alberi
giovani e vecchi, uno di essi è tutto avvolto dai tralci della vite selvatica;
vicino a me brulicano i fagiani, inseguendosi l'un l'altro, e fiutano forse i
loro fratelli uccisi". Egli tastò i suoi fagiani, li esaminò e asciugò la
mano lorda di sangue ancor tiepido nella sopravveste circassa. Forse li fiutano
anche gli sciacalli e coi musi scontenti vanno a cacciarsi altrove; vicino a
me, volando tra le foglie, che sembrano loro isole immense, stanno nell'aria e
ronzano le zanzare: una, due, tre, quattro, cento, mille, un milione di
zanzare, e tutte ronzano attorno a me per qualche ragione e dicono qualche
cosa, e ciascuna di esse è un Dmitri Olenin, distinto da tutti gli altri come
sono io stesso". E s'immaginò chiaramente quello che pensano e dicono
ronzando le zanzare. "Qui, qui, ragazzi! Ecco chi si può mangiare",
dicono ronzando e lo ricoprono tutto. E gli si fece evidente che egli non era
punto un nobile russo, un membro della società moscovita, amico e parente del
tale e del tal altro, ma semplicemente una zanzara, o un fagiano o un cervo,
come quelli che ora vivevano attorno a lui. "Come loro e come zio J
eroska, vivrò e morirò. Egli dice la verità: soltanto l'erba mi crescerà
sopra". "Ma che importa se l'erba mi crescerà sopra?",
continuava a pensare, bisogna tuttavia vivere, bisogna essere felici; perché io
una cosa sola desidero: la felicità. Qualunque cosa io sia: una bestia come
tutte, sulla quale crescerà poi l'erba, e niente più, o una cornice in cui si è
inserita una particella dell'unica Divinità, è pur tuttavia necessario vivere
nel modo migliore. Ma come dunque bisogna vivere per essere felice, e perché
prima non ero felice?", E prese a ricordare la sua vita passata; e gli
venne schifo di se stesso. Apparve a se medesimo come un esigente egoista,
mentre, in realtà, per sé non aveva bisogno di nulla. E continuava a guardare
attorno a sé: la verzura trasparente, il sole che declinava e il cielo sereno,
e si sentiva felice come dianzi. "Perché sono felice e a che scopo vivevo
prima?", pensò. Quanto ero esigente, quante cose escogitavo, e non mi son
procurato altro che vergogna e dolore! Ed ecco che non ho bisogno di nulla per
essere felice!" E a un tratto gli parve che gli si fosse dischiuso un
nuovo mondo. "La felicità, ecco quello che è", disse a se stesso: la
felicità consiste nel vivere per gli altri. E questo è chiaro. Nell'uomo è
stato posto il bisogno della felicità; esso quindi è legittimo. Appagandolo in
modo egoistico, cioè cercando per sé la ricchezza, la gloria, le comodità della
vita, l'amore, può accadere che le circostanze si combinino in modo che
appagare questi desideri sia impossibile. Di conseguenza, questi desideri sono
illegittimi, ma non è illegittimo il bisogno di felicità. Quali desideri però
possono essere sempre appagati indipendentemente dalle circostanze esteriori?
Quali? L'amore, l'abnegazione!". E tanto fu contento e tanto si agitò,
scoprendo questa verità, che a lui pareva nuova, che balzò in piedi e si mise
con impazienza a cercare per chi potesse al più presto sacrificarsi, a chi far
del bene, chi amare. "A me infatti non occorre nulla", seguitava a
pensare, "perché dunque non viver per gli altri? "»5°. 56 Tolstoj, |
cosacchi (a cura di G. Faccioli), BUR, 1952, pagg. 98-99-100. 3. Il porto della
pace. Essendo [Gesù] poi salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed
ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta
dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo:
"Salvaci, Signore, siamo perduti!". Ed egli disse loro: «Perché avete
paura, uomini di poca fede?». Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si
fece una grande bonaccia. | presenti furono presi da stupore e dicevano:
"Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono? ". Questo
passo è tratto dal Vangelo secondo Matteo”, Vangelo - questo in particolare,
tra i quattro - che dovette colpire particolarmente Michelstaedter®, per la
forza e la nitidezza - e insomma per la "fisicità"°° - etiche e
storiche, con le quali viene delineata la figura del 57 Si tratta di Mt. 8,
23-27; ma cfr. anche Mc 4, 35-41 e Lc 8, 22-25. 58 In una lettera del maggio
1909 alla sorella Paula: «Se sapessi scriver note e se tu le comprendessi ti
scriverei il tema dell'andante della IX sinfonia; sarebbe più eloquente di me
per dire quello che voglio dire; oppure - non ridere! - leggi il Vangelo di S.
Matteo», [E 383]. Del resto, pochi giorni dopo, in una lettera allo Mreule,
Michelstaedter confessa che «in questo tempo, invece di far la tesi ho imparato
a conoscer Cristo e Beethoven - e le altre cose mi si sono impallidite» [E 398;
corsivo nostro]; nella lettura del Vangelo, egli «ci trova con gioia la
grandezza e la profondità che si aspettava - tanto superiore alle filosofie e
alla scienza moderne» [adattato da E 381] 59 Il Cristo di Michelstaedter
possiede connotati straordinariamente umani: è questo, infatti, «un Cristo
monofisita che possiede soltanto la natura umana [...]. Un Cristo monofisita e
pelagiano, che non conosce pertanto il peccato originale e il mistero del
Riscatto e vive in un cosmo tragico senza possibilità finali di composizione»
[cfr. S. Campailla, Carlo Michelstaedter tra esistenzialismo ateo e
esistenzialismo religioso, "Iniziativa Isontina", gennaio-aprile
1974, 60, Pag. 23]. E anche interessante notare come proprio il Cristo di S.
Matteo abbia influenzato (ma sarebbe meglio dire: inquietato) sensibilità che
poco o nulla hanno a che fare col cattolicesimo: ci riferiamo, tra gli altri,
oltre che a Michelstaedter, a Tolstoj [per cui vd. oltre], (perché no?) a
Nietzsche, nonché a Pasolini, che proprio sulla falsariga del Vangelo di Matteo
scrisse una delle sue sceneggiature più belle ed importanti, da cui ricavò un
film. Vale la pena riportare uno stralcio di una giovanile poesia pasoliniana -
La domenica uliva - dove lo scrittore-regista, tormentato come sempre,
liricizza questo suo particolare rapporto col Cristo: «Piove un fuoco scuro nel
mio petto: non è sole e non è luce. Giorni dolci è chiari volano via, io sono
di carne, carne di fanciullo. Se piove un fuoco scuro nel mio petto, Cristo mi
chiama, ma senza luce» [lirica contenuta in Pasolini, II Vangelo secondo Matteo
- Edipo Re - Medea, a cura di M. Morandini, Garzanti 19982, pagg. 280-286].
Sempre per meglio rifinire la suggestione cristologica in Michelstaedter,
riteniamo opportuno riportare anche questa critica, ma attenta, esatta
valutazione di Dilthey, che ben ci sembra enucleare la forza dirompente che
scaturisce dalla figura etica del Cristo di san Matteo: «Indubbiamente i logia
contenuti nel vangelo di Matteo sono quanto di più originario ci è pervenuto di
Cristo, e contengono solo una potente e illimitata profonda coscienza etica, in
cui il mondo trascendente si riflette, per così dire, come le stelle in un
fiume. Il nucleo di questa coscienza costituisce il vero e proprio legame del
sentimento etico attivo della vita, cioè della dottrina del regno di Dio, con
il riconoscimento che nella connessione di questa vita dolore, bassezza, sacrificio
producono tanto la perfezione quanto l'elevazione del Sé nello spiegamento
della forza» [W. Dilthey, Sistema di etica, a cura di G. Ciriello, Napoli,
Guida editori, 1993, pag. 126; corsivi nostri]. E' altrettanto interessante
quanto il filosofo tedesco aveva affermato poco prima, ascrivendo a Ibsen e
Tolstoj (tra gli altri) un tentativo «antiquato» [ib. pag. 122] di riferirsi al
messaggio cristiano, contribuendo - col loro «individualismo» [ib.], o anzi
«animalismo» [ib. pag. 121] - all' «inefficacia» [ib. pag. 122] contemporanea
del cristianesimo. Questo, in effetti, secondo Dilthey, «agisce su singole
anime semplici, che oppongono la loro esperienza interna alla tendenza della
scienza moderna. Non vi è ancora nessuno che abbia compreso la verità cristiana
in maniera così nuova e profonda, da permettere che essa possa determinare
seriamente l'epoca. Anche in questo campo vi sono soltanto tentativi e inizi»
[ib.; corsivi nostri]. Questo giudizio, equilibrato e corretto, per quanto
polemico, copre di riflesso anche Michelstaedter, se è vero che il Goriziano
privilegiò proprio Ibsen e Tolstoj come epifanie concrete di persuasione.
Tuttavia, Michelstaedter ci sembra comprendere e approfondire (e cercheremo di
dimostrarlo nel corso del nostro lavoro) in «maniera nuova e profonda» il
monito persuaso di Cristo e arrovellarsi nel tentativo di valorizzarlo come
un'euristica etica atta a «determinare seriamente l'epoca» in cui visse. Certo,
anche l'impresa michelstaedteriana appartiene alla congerie dei «tentativi ed inizi»,
e la sua ricerca esistenziale conobbe una cocente sconfitta. E' altrettanto
vero, però, che Carlo Cristo, uno dei Persuasi della storia dell'umanità, anzi
- per il Goriziano - il Persuaso per eccellenza. Ciò che ci colpisce del passo
evangelico è innanzitutto l'efficacissimo contrasto tra l'infuriare della
tempesta e la serenità (la "pace") del Cristo: mentre la barca è
pericolosamente sballottata dalle onde, rischiando di ribaltarsi, Gesù dorme.
In mezzo alla tempesta, Cristo è nel porto della pace, ha in sé (è) il porto
della pace. Quella serenità non Gli proviene dalla Verità di essere Figlio di
Dio, per il qual motivo niente di questo nostro mondo potrà toccarLo o
nuocerGli; non Gli proviene da un'indifferenza per le cose terrene (parlando
del Cristo, sarebbe davvero un controsenso); Gli proviene, bensì, dalla
consapevolezza di avere un destino da compiere (il sacrificio sulla Croce) e
che nulla può impedire il compiersi di questo destino. E' la pura
consapevolezza dell'essere persuasi, che permette di conquistare quel
"porto", quella «permanenza in un punto», anche nella furia del mare
(il miracolo che ne succederà, l'aver calmato le acque e i venti, appare
davvero accessorio, rispetto a quel riposo). L'infuriare della tempesta, di
contro, si riflette nel baratro di paura che infuria nell'intimo dei discepoli
che L'hanno accompagnato, e il loro tormento è un ulteriore, efficace scarto
contraddittorio se paragonato al riposo di Gesù. Gesù li aveva invitati a
passare all'altra riva®, all' "oltre" della riva, ad «imbarcarsi sul
mare di questo mondo »5': l'invito era piaciuto, ma tra l'invito e la meta
c'era un tragitto; la folla lasciata sulla riva non restò rassegnata a veder
partire la brigata: si inoltrò nel mare, turbò le onde, agitò una tempesta mortale,
e Gesù - quello stesso nocchiero che, rivolgendo loro l'invito aveva messo loro
in cuore il desiderio di partire - salito con essi sulla barca si addormenta,
ed essi sembriamo davvero abbandonati. Uno sconforto pesa sul cuore dei
discepoli e forse il pentimento di essersi incautamente affidati a uno che non
li soccorrerà nel bisogno, ad uno che non garantirà loro la sicurezza. Allora,
quando tutte le risorse dell'arte e tutte le speranze sembrano crollare di
fronte alle minacce della tempesta, quando l'uomo dispera di sé stesso, non
fidando più delle sue forze mortali, allora comincia a chiedere, sperando,
l'aiuto del Figlio di Dio e in virtù di tale speranza egli sveglia
imperiosamente il Signore che dorme: «Come, Tu dormi? non Ti importa niente che
moriamo ?». Non c'è giaculatoria più efficace Michelstaedter caldeggiò una
«posizione del tutto nuova dell'etica», un'etica che doveva «agire sui grandi
problemi della società [per lui, della Rettorica] a partire prevalentemente dai
suoi principi», qual è appunto l'auspicio di Dilthey [ib. 122]. Concludiamo
questa importante noi - importante innanzitutto perché contiene in nuce la
valenza della "strategia persuasa", così com'essa ci appare - con un
inciso: non abbiamo fatto riferimento alla Vita di Gesù di Hegel, perché essa
ci sembra più che altro forgiata sulla lezione evangelica giovannea, con tutte
le profondissime, e sottintese, differenze che questa diversa prospettiva
comporta. 60 Mt, 8, 18; ma anche Lc 8, 22 e 9, 57-60 61 Invitiamo, altresì, a
confrontare quest'apologo evangelico con l' "esempio storico"
dell'aerostato di Platone [PR 66-73]: entrambi tentativi di allontanarsi dalla
solida terra (l'uno attraverso il mare, l'altro attraverso il cielo), ma con
motivazioni, prospettive, significati, ma soprattutto esiti diversi. di questa
per scuotere Dio dal suo letargo e comandargli di venire in nostro soccorso:
abbiamo lasciato tutto e Ti abbiamo seguito, Tu sei nostro padre, nostro amico
e Maestro, non Ti importa nulla che noi moriamo? Perché ci hai messo in mare e
posti nella barca se i nostri piedi stavano più sicuri piantati sulla solida
riva? L'ammonimento che il Cristo - una volta ridestatosi - rivolge ai suoi
discepoli («Perché avete paura, uomini di poca fede?»)?° riecheggia, spogliato
ovviamente della sua componente "religiosa", in tutta l'opera di
Michelstaedter, rivolto agli uomini rettorici: potremmo anzi dire che
quell'opera rappresenta - nella sua interezza - il tentativo sofferto, ma a suo
modo compiuto, di offrire una risposta etica a quella lacerante domanda. Il
timore vanifica la Croce. Il monito ad aver fede - e a dipanare quel timore -
si traduce, nell'autore della Persuasione, nel monito che «[...] non fai
niente, non sai niente, non dici niente, fosse anche la via dove credi di
trovarti la via del più saggio uomo sulla terra. Che se a lui t'affidi e lo
incarichi di ciò che pesa a te, resti invalido sempre. [corsivi nostri] Le sue
parole in cui ti fingi un valore assoluto sono perte un arbitrio che tanto ne
comprendi quanto ne puoi prendere. - Non c'è cosa fatta, non c'è via preparata,
non c'è modo o lavoro finito pel quale tu possa giungere alla vita, non ci sono
parole che ti possano dare la vita: perché la vita è proprio nel crear tutto da
sé, nel non adattarsi a nessuna via: la lingua non c'è ma devi crearla, devi
crear il modo, devi crear ogni cosa: per aver tua la tua vita» [PR 61]. Quella
fede a cui Cristo richiama non è, dunque, per il giovane filosofo, un invito a
"credere in Lui", bensì piuttosto - detto con espressione semplice -
un invito ad "aver fede in noi", nelle nostre possibilità, nelle
nostre proprie responsabilità sulla via della Persuasione. Michelstaedter
infatti prosegue, proprio in riferimento al Cristo e ai suoi credenti: «- |
primi Cristiani facevano il segno del pesce e si credevano salvi; avessero
fatto più pesci e sarebbero stati salvi davvero, ché in ciò avrebbero
riconosciuto che Cristo ha salvato sé stesso poiché dalla sua vita mortale ha
saputo creare il dio: l'individuo; ma che nessuno è salvato da lui che non
segua la sua vita: ma seguire non è imitare, mettersi col 62 E' ancora
interessante, a questo proposito (anche al fine d'individuare
assonanze-dissonanze con la nostra lettura), riportare le considerazioni
"tropologiche" di S. Agostino (contenute nel suo Commento al Vangelo
di San Giovanni) su questo stesso episodio [cfr. omelia 49]: «Lo dice
l'Apostolo: Per mezzo della fede, Cristo abita nei vostri cuori (Ef 3, 17). La
presenza di Cristo nel tuo cuore è legata alla fede che tu hai in lui. Questo è
il significato del fatto che egli dormiva nella barca: essendo i discepoli in
pericolo, ormai sul punto di naufragare, gli si avvicinarono e lo svegliarono.
Cristo si levò, comandò ai venti e ai flutti, e si fece gran bonaccia (cf. Mt
8, 24-26). E' quello che avviene dentro di te: mentre navighi, mentre
attraversi il mare tempestoso e pericoloso di questa vita, i venti penetrano
dentro di te; soffiano i venti, si levano i flutti e agitano la barca. Quali
venti? Hai ricevuto un insulto e ti sei adirato; l'insulto è il vento, l'ira è
il flutto; sei in pericolo perché stai per reagire, stai per rendere ingiuria
per ingiuria e la barca sta per naufragare. Sveglia Cristo che dorme, E' per
questo che sei agitato e stai per ricambiare male per male, perché Cristo nella
barca dorme. Il sonno di Cristo nel tuo cuore vuol dire il torpore della fede.
Se svegli Cristo, se cioè la ua fede si riscuote, che ti dice Cristo che si è
svegliato nel tuo cuore? Ti dice: lo mi son sentito dire indemoniato (Gv 7,
20), e ho pregato per loro. Il Signore ascolta e tace; il servo ascolta e si
indigna? Ma, tu vuoi farti giustizia. E che, mi son forse fatto giustizia io?
Quando la fede ti parla così, è come se si impartissero comandi ai venti e ai
flutti: e viene la calma. Risvegliare Cristo che dorme nella barca è, dunque,
scuotere la fede; allo stesso modo Cristo frema nel cuore dell'uomo oppresso da
una grande mole e abitudine di peccato, nel cuore dell'uomo che trasgredisce
anche il santo Vangelo; Cristo frema, cioè l'uomo rimproveri se stesso. Ascolta
ancora: Cristo ha pianto, l'uomo pianga se stesso. Per qual motivo infatti
Cristo ha pianto se non perché l'uomo impari a piangere? Per qual motivo
fremette e da se medesimo si turbò se non perché la fede dell'uomo, giustamente
scontento di se stesso, impari a fremere condannando le proprie cattive azioni,
affinché la forza della penitenza vinca l'abitudine al peccato?». proprio
qualunque valore nei modi nelle parole della via della persuasione, colla
speranza d'aver in quello la verità. Si duo idem faciunt non estidem» [PR
61-62]. La condizione inautentica, eteronoma e dunque non libera (come spiega
Michelstaedter in un capoverso che sembra parafrasare proprio il senso del
brano evangelico proposto), è propria di coloro ai quali «fragili imbarcazioni
in mezzo all'uragano, la grande nave» appare ingannevolmente «come un porto
sicuro» [PR 42], mentre di converso «[...] ognuno è il primo e l'ultimo, e non
trova niente che sia fatto prima di lui, né gli giova confidar che sarà fatto
dopo di lui, egli deve prender su di sé la responsabilità della sua vita, come
l'abbia a vivere per giungere alla vita, che su altri non può ricadere [questi
ultimi due corsivi sono nostri]; deve aver egli stesso in sé la sicurezza della
sua vita, che altri non gli può dare; deve creare sé ed il mondo, che prima di
lui non esiste: deve esser padrone e non schiavo nella sua casa» [PR 36]. La
grande nave. Non può non venire in mente un passo del Fedone [85 C-D-E] -
divenuto cruciale per i più attenti studiosi di Platone - in cui Simmia, uno
degli interlocutori privilegiati di Socrate nel dialogo, esprimendo le sue
perplessità a proposito di talune "dimostrazioni" socratiche
sull'immortalità e la reincarnazione delle anime, ci suggerisce un aut-aut che
è allo stesso tempo metodologico ed esistenziale: «attraversare con una zattera
[quella del ragionamento umano], a proprio rischio, il mare della vita» o «fare
il tragitto più sicuramente e meno pericolosamente su più solida barca, cioè
affidandosi a una divina rivelazione [logos theios}»®. Il dilemma - di cui
conosciamo la risposta socratica e, indirettamente, quella agostiniana - si
risolve in Michelstaedter, come abbiamo anticipato, in una posizione netta di
autonomia del vir, e ci rende conto anche della collocazione (estremamente
personale ed originale) che il giovane studioso assume nei confronti di quelli
che pur sono i principali riferimenti speculativi ed etici della sua
formazione: Cristo e Socrate si richiamano fin quasi a confondersi, superando
barriere storiche e religiose, nell'individuazione di un 63 Le espressioni che
utilizza Michelstaedter richiamano ancora, ma in via negativa e in modo davvero
singolare, analoghe considerazioni che riscontriamo di nuovo in Agostino,
sempre nel suo Commento al Vangelo di Giovanni [cfr. omelia 2]: «[i discepoli,
i.e. gli uomini] non vollero aggrapparsi all'umiltà di Cristo, cioè a quella
nave che poteva condurli sicuri al porto intravisto. La croce apparve ai loro
occhi spregevole. Devi attraversare il mare e disprezzi la nave? Superba
sapienza! Irridi al Cristo crocifisso, ed è lui che hai visto da lontano: In
principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio. Ma perché è stato
crocifisso? Perché ti era necessario il legno della sua umiltà. Infatti ti eri
gonfiato di superbia, ed eri stato cacciato lontano dalla patria; la via era
stata interrotta dai flutti di questo secolo, e non c'è altro modo di compiere
la traversata e raggiungere la patria che nel lasciarti portare dal legno.
Ingrato! Irridi a colui che è venuto per riportarti di là. Egli stesso si è
fatto via, una via attraverso il mare. E' per questo che ha voluto camminare
sul mare (cf. Mt 14, 25), per mostrarti che la via è attraverso il mare. Ma tu,
che non puoi camminare sul mare come lui, lasciati trasportare da questo vascello,
lasciati portare dal legno: credi nel Crocifisso e potrai arrivare». 64 Da
notare, ancora, il ricorso ad una terminologia peculiarmente evangelica. Ci si
perdonerà, tra l'altro, la riproposizione fedele di interi passi del Goriziano;
ci sentiamo, tuttavia, autorizzati a far ciò dall'importanza che essi assumono
nell'economia del nostro discorso e dal fatto che essi stessi rappresentano, a
nostro giudizio, passaggi fondamentali (anche per la loro chiarezza, che non
necessita scolii, caso quasi raro nella scrittura di Michelstaedter) nella
determinazione/enucleazione di quell'esigenza di autonomia che leggiamo come
cifra essenziale della Persuasione, e che ci offrirà l'aggancio per rivisitarla
sotto la prospettiva dell'etica kantiana, per una sinergia feconda di sviluppi.
65 Cfr. la diapositiva D [Barca] nel supporto iconografico.comune assunto
morale: /a forza autentica degli uomini come unica bussola nel paradossale
viaggio. Sullo sfondo, il mare. Dunque, il mare come luogo privilegiato del
vir. Ma perché proprio il mare? Qual è il senso di questa complessa simbologia
o presunta mitologia? Ed è davvero e soltanto una simbologia/mitologia atta a
rendere la condizione persuasa? Anticipiamo la nostra risposta negativa. Certo,
il topos del mare ha anche un fascino ed una suggestione prettamente letteraria
e filosofica. Non dimentichiamoci che le immagini del mare e dei flutti
ricorrono nelle opere di alcuni filosofi del primo e del secondo Ottocento, per
esprimere, metaforicamente, la natura reale, libera e vitale del mondo: con
tale immagine, questi filosofi segnalavano la propria opposizione alla
dimensione necessaria, ordinata e razionale, puramente teoretica del mondo
("il mare dell'essere") descritto da Hegel e richiamavano la
riflessione filosofica alla realtà concreta, alla possibilità, alla libertà. Di
contro, l'immagine del mare è una significativa costante che lega, ad esempio,
direttamente o indirettamente, molte delle "eroine fuggitive" del
teatro ibseniano (altra componente di ispirazione prima per i nostri giovani
intellettuali della "soffitta del Paternolli", come sappiamo)
nell'aspirazione ad una svolta autentica della propria vita: la Dina dei
Pilastri della società, la Nora di Casa di bambola, la Bolette della Donna del
mare, la Asta del Piccolo Eyolf, la Frida di John Gabriel Borkman. Una
particolare suggestione, a tal proposito, emana proprio il dramma La donna del
mare, uno dei capolavori ibseniani più ermetici e, a suo modo, inquietanti,
dove l'ambientazione prevalentemente in luogo aperto e il «luminoso lirismo»
[M.P. Muscarello]?” che caratterizza molte scene e molti dialoghi stride con la
complessa simbologia sottesa a tutta l'opera: quel contrasto vive soprattutto
nella figura combattuta (tanto per usare un eufemismo) di Ellida, nell'enigmatica
presenza-assenza dello "straniero del mare", nell'attrazione
paritempo magica e terribile di cui è causa il mare stesso. Ellida soffre fino
in fondo l'ambiguità di questo torbido rapporto d'attrazione: da una parte si
reca spesso, durante le sue giornate, a contemplare quel mare e si bagna nelle
sue acque quasi per ritemprare la proprie forze vitali; dall'altra, avverte
tutta la potenza e la forza misteriosa ed ammaliatrice del suo richiamo, che si
incarna nello Straniero e nella promessa matrimoniale che, un giorno, li legò.
Quel legame ha ancora, per Ellida, nella sua vita tutta borghese, un sapore e
una speranza di autenticità e di vita: eppure, ella avverte una sua propria
incompiutezza, una condizione d'insofferente eteronomia in quel legame, che
allo 66 L.A. Feuerbach - solo per citare uno tra i tanti - nei suoi Principi
della filosofia dell'avvenire definisce l'uomo «come un ente reale, vivente,
che, in quanto tale, è calato nelle onde vivificanti e refrigeranti del gran
mare del mondo». 67 Utet, Dizionario dei Capolavori, 1987, vol. I, pag. 485.
stesso tempo ne falsa la portata vitale: ella non aveva potuto scegliere
liberamente, neanche allora, come confessa all'esterrefatto marito Wangler.
Ellida, dunque, si propone una condizione di assoluta autonomia di scelta:
dev'essere libera da ogni vincolo sociale ed affettivo, da ogni istigazione o
subordinazione emotiva, per poter valutare con neutralità (e quindi con
giustizia) le alternative’: divenire finalmente «sirena del mare» o
«acclimatarsi»®° alla vita di terra. La sorpresa - ammettiamolo, che un po' ci
delude - è che Ellida decide per la vita di terra: Ellida fon una scherzosa
espressione di gravità): «Vede, professore... Ricorda l'oggetto della nostra
conversazione di ieri? Una volta diventati creature terrestri... non si riesce
a riprendere la via del mare». Ballested: «Lo stesso è successo alla mia
sirena! Con una differenza però! La sirena può morire mentre gli uomini sanno
acclo... accla... acclimatarsi, signora Wangel!». Ellida: «Possono farlo se
sono liberi». [Ibsen 64] Il dramma di Michelstaedter è che egli non riesce ad
"acclimatarsi" al mondo rettorico: nel suo anelare il mare c'è come
un respiro nostalgico, c'è quasi la volontà di un ritorno a casa: noi siamo
fondamentalmente esseri marini, e l'aver abitato la terra è un tradimento della
nostra condizione primigenia. E' ciò che afferma, tra il serio e il faceto,
proprio Ellida”° (che condivide col Nostro quella nostalgia), e lo si evince
ancor più chiaramente, e più a proposito, dall'epopea di Itti e Senia, le due
creature del mare che popolano l'ultima produzione poetica michelstaedteriana.
E' triste il destino di Itti e Senia, che nel doloroso risveglio si ritrovano a
vivere la morte dei mortali, provenienti - essi, invece - «dalla pace del mare
lontano», catapultati - ora, invece - nel mondo della «falsa permanenza», nel
gioco retorico della vita quotidiana, nelle sue espressioni più comuni, e anche
più apprezzate: il mondo della famiglia, le passioni, i sentimenti, il
linguaggio e, in ultimo, l'illusione in alto grado sublime, l'amore. 68 Ellida:
«Voglio essere libera quando gli sarò di fronte. Non voglio che pesi tra noi il
fatto che sono la moglie di un altro; non voglio trincerarmi dietro il pretesto
che non m'è possibile scegliere. Se così fosse, che valore avrebbe una mia
decisione?» [Ibsen, La donna del Mare, in Ibsen, Tutto il teatro, Newton, IV
vol. pag. 511. 69 E' la "battuta" ricorrente (ed emblematica) di un
altro personaggio, il sedicente pittore Ballested, alla quale vengono
consegnati il congedo e il compendio del dramma. 70 Bolette (con un sospiro):
«Noi dobbiamo contentarci della terra ferma». Amholm: «Dopo tutto, è la nostra
sede naturale». Ellida: «Non sono d'accordo. lo ritengo che se gli uomini si
fossero abituati a vivere sul mare, o addirittura nel mare, adesso saremmo più
perfetti di come siamo. Più buoni e più felici».Arnholm (scherzando): «Ora però
quel che è stato è stato. Abbiamo preso la decisione sbagliata e siamo animali
terrestri anziché felici creature marine, Mi sembra sia troppo tardi per poter
riparare quello sbaglio». Ellida: «Sta dicendo una crudele verità. lo penso che
tutta l'umanità lo intuisca e ne provi un segreto rammarico. Creda a me:
questo, proprio questo è il motivo più segreto della tristezza degli uomini».
Arnholm: «Per esser sinceri, cara signora, non m'era sembrato che gli uomini
fossero così tristi come dice lei. Direi, anzi, che prendono la vita sin troppo
alla leggera... a volte anche allegramente... ». Ellida: «Invece non è così, purtroppo!
La gioia di cui parla lei è la stessa che ci danno alcune serate estive, quando
si ha appena il presentimento della notte e del buio. E' questo presentimento
che appanna tutta la gioia dell'umanità, come una nuvola passeggera che lascia
la sua ombra in permanenza sul fiordo [...]» [Ibsen 36]. Ebbero padre ed ebbero
madre e fratelli ed amici e parenti e conobbero i dolci sentimenti la pietà e
gli affetti e il pudore e conobbero le pa role che conviene venerare Itti e
Senia i figli del mare E credettero d'amare. [PP 79-80] Michelstaedter - ebreo
che rinnega la "terra promessa", filosofo che rinnega il "regno
dell'aria" (l'aerostato platonico è la vana speculazione ebbra di sé, e
altrettanto vuota) - elegge a dimora persuasa un «terzo regno»”, quello appunto
del mare: egli si sente un «perduto figlio del mare» (è inevitabile
sottolineare l'iterazione davvero ossessiva con cui il significante
"mare" ricorre nelle ultime liriche, con tutte le implicazioni e le
sfumature di senso ch'esso assume in un contesto simile); eppure trova la forza
di consolare la sua Senia, in un intreccio di poesia, saggezza, speculazione,
amore, che prova disperatamente a scongiurare il pericolo (l'angoscia) della
morte e della vita ed esprime, nel finale, la speranza di «giungere al nostro
mare», di giungere a quel porto, che non è il porto della sicurezza degli
uomini, ma paradossalmente proprio «la furia del mare». Il ritorno al mare, col
suo richiamo, è infatti vicino: il mare si staglia in tutta la sua forza
vitale, il frutto di una conquista sofferta che alla fine conduce alla pace: si
staglia, oltre le sponde che lo serrano, oltre le «case ammucchiate/dalle
trepide cure avare», oltre il «commercio degli uomini» che il poeta-filosofo
disprezza e combatte”: Altra voce dal profondo ho sentito risonare altra luce e
più giocondo ho veduto un altro mare. Vedo il mar senza confini senza sponde
faticate' vedo l'onde illuminate che carena non varcò. Vedo il sole che non
cala lento e stanco a sera in mare ma la luce sfolgorare vedo sopra il vasto
mar. Senia, il porto non è la terra dove a ogni brivido del mare corre pavido a
riparare la stanca vita il pescator. Senia, il porto è la furia del mare, è la
furia del nembo più forte, quando libera ride la morte 71 cfr, S. Campailla: Il
terzo regno, introduzione alle PP. 72 Ovviamente, Michelstaedter non è un
misantropo. Il "commercio" ch'egli combatte è in modo esclusivo,
quello rettorico. a chi libero la sfidò» [PP 81-82] Ma il ritorno al mare non è
il risultato conseguente e gratuito di una scoperta: esso comporta una perdita
di innocenza e un duro esercizio di persuasione: "No, la morte non è
abbandono" disse Itti con voce più forte ma è il coraggio della morte onde
la luce sorgerà. Il coraggio di sopportare tutto il peso del dolore, il coraggio
di navigare verso il nostro libero mare, il coraggio di non sostare nella cura
dell'avvenire, il coraggio di non languire per godere le cose care. Nel tuo
occhio sotto la pena arde ancora la fiamma selvaggia, abbandona la triste
spiaggia e nel mare sarai la sirena. Se t'affidi senza timore ben più forte
saprò navigare, se non copri la faccia al dolore giungeremo al nostro mare.
Senia, il porto è la furia del mare, è la furia del nembo più forte, quando
libera ride la morte a chi libero la sfidò» [PP 83-84] Questo stralcio di
lirica, non a caso emblematica per tutta la critica michelstaedteriana, è il
luogo dove la dimensione persuasa si definisce in tutta la sua possibile
esattezza e si scioglie definitivamente da ogni difficoltà o ambiguità
interpretativa: l'assunto, consegnato a quello ch'è un vero e proprio
"pentalogo", è davvero chiarissimo: la persuasione è coraggio, il
coraggio di una vita libera ed autonoma, in una parola assoluta. Una vita che
non fugge la vita, il suo dolore e le sue contraddizioni insensate
(l'insensatezza per eccellenza: la morte), ma che vi s'immerge con un agonismo
feroce e mai domo, perché, insieme, consapevole e senza compromessi o deroghe.
La Persuasione, infatti, come avremo modo di vedere meglio in seguito, ma come
può già qui apparire abbastanza chiaro, non è una categoria astratta e
monolitica, che si oppone alla Rettorica n una mitica gigantomachia, così come
il Bene al Male nell'immaginario comune e religioso, o la Verità alla Menzogna
nella speculazione filosofica e morale: la Persuasione si puntualizza, si
concretizza, in una rete di "rapporti di forza" agonistici
disseminati in un vasto orizzonte che va dalla famiglia alle istituzioni,
dall'interiorità dell'uomo alla sua esteriorità, dall'esistenza privata alla
vita pubblica, dalla solitudine al contatto con gli altri: in una sola
espressione, è interamente calata nella congerie politica e quotidiana. E' un
«Venire a ferri corti» con un avversario così apparentemente invincibile
(Davide contro Golia) e così vicino, che è possibile avvertirne il fiato sul
collo, una continua incombente minaccia, la forza di una presa terribile che
non molla mai. Di fronte alle istanze di dominio dell'apparato (del
dispositivo) rettorico, che avvolge gli uomini nelle lusinghiere maglie della
eteronomia, il vir oppone un'identica, strenua, determinazione di autonomia, al
costo del sacrificio di sé stesso, che è un sacrificio libero, e non vincolato
o ingannato, come quello che ci chiede la Persuasione Inadeguata. Non bisogna
credere, dunque, che la Rettorica sia un universale che subirebbe, nel tempo,
una progressiva realizzazione o delle variazioni quantitative o delle
risultanze più o meno gravi, delle occultazioni più o meno rilevanti, atte esse
stesse al suo scopo di dominio. Essa, come sistema, non è un universale che si
specificherebbe nel tempo storico e nello spazio geografico: non è insomma lo
Spirito o l'idea hegeliana, bensì non è mai altro che un rapporto attuale tra
uomini, che si concreta in una tensione infinita, dinamica e fisica di poteri,
di «relazioni sufficienti». AI "campo" dei poteri (laddove il campo è
l'insieme di quelle dinamiche e di quelle forze) si contrappone il campo delle
possibilità: /a libertà è appunto lo spazio aperto di tali possibilità, in cui
l'esistenza si slancia nelle sue aspirazioni e realizza i suoi progetti. La
consapevolezza della Rettorica nel mondo, infatti, non deve chiudere l'uomo
nell'amarezza e nel disfattismo di una scepsi e di una prassi nichilistiche,
bensì deve richiamarlo alla sua responsabilità di "potere" e di
"essere", deve aprirgli e trasmettergli la fiducia nelle proprie
capacità umane, nella propria possibile apertura alla Persuasione. E' questo il
messaggio di Michelstaedter, che abbiamo fatto nostro. Ebbene, non c'è immagine
migliore che rappresentare poeticamente questa lotta e questa conquista come la
«furia del mare». A tal proposito, scrive efficacemente P. Amato”: «Per rendere
la persuasione un'alternativa vivibile non solo nella scrittura, Michelstaedter
indica all'uomo persuaso il suo luogo: il mare. Nella catastrofe - nel pericolo
dell'attimo irripetibile - dobbiamo liberare l'a gire, rifiutando l'angoscia
senza scampo del deserto. Il mare è lo spazio del persuaso. Il mare è
l'ou-topia, il suo mai luogo privo di confini dove sempre si è stranieri,
presenti solo a se stessi, è il luogo dove sentirsi, ovunque - come mai - nella
propria casa. Il mare - prima delle due guerre mondiali - è la terra senza
leggi, dove padroni non sono gli stati, piuttosto i pirati, dove ogni individuo
può affermarsi e non cedere, non più osservato dalla violenza di
un'organizzazione che lo trascende. È il territorio del persuaso ormai libero
dal se stesso sofferente, unico amministratore della vita donatagli. Per lui
ogni azione è la risolutiva, l'ultima, ogni gesto può essere quello estremo.
[...] Il mare è il luogo della libertà che Michelstaedter sogna per la sua vita
dispensata dall'agire soffocante che la società pretende ». 73 cfr. P. Amato,
L'attimo persuaso, filosofia e letteratura in Carlo Michelstaedter, in Studi
Goriziani n. 89-90, pag. 190. Appare dunque chiaro che, con Michelstaedter, ci
troviamo di fronte - più che ad una simbologia - ad una vera e propria
"fenomenologia esistenziale" del mare”. AI di là del riferimento
evangelico, un qualcosa di simile, forse, possiamo riscontrarlo soltanto nella
dottrina buddista. Ora, nel proporre i passi che seguono (quasi nella loro
interezza, datane l'importanza), non intendiamo certo forzare l'ispirazione o
l'influenza che la lettura buddista ha esercitato sulla formazione del pensiero
michelstaedteriano, specificamente in riguardo al pensiero dell'
"ultimo" Michelstaedter”°. Né vogliamo assumerlo come dato acquisito.
Del resto, in base alla documentazione in nostro possesso (e dai pochissimi
accenni che si riscontrano nelle opere del Nostro), non saremmo in grado di
sincerare se quella lettura (e quindi, quell'influenza) fu diretta ovvero
mutuata da fonti di seconda mano”. Resta il fatto, tuttavia, che molte
espressioni (e non solo nel loro senso meramente letterale, ci pare)
riscontrabili nei testi seguenti (e in special modo, quelle che abbiamo
evidenziato in corsivo), possono rinvenirsi - ovviamente riadattate
all'atmosfera della speculazione michelstaedteriana - quasi pari pari in
passaggi fondamentali dell'autore goriziano: invitiamo, anzi, ad un suggestivo
raffronto. Troviamo altresì significativa la continua serie di rimandi che
l'autore intreccia tra la "dottrina della Persuasione" e il mare
appunto, parallelismo ch'è lo stesso adottato dai due saggi buddisti. Dunque,
in un passo del Milindapahna”, il Reverendo Nagasena afferma che il Nirvana «ha
alcune qualità in comune con cose a noi note»: quattro ne ha in comune proprio
con il mare: «Come il mare si libera dai cadaveri, œsì il Nirvana si libera
dalle cose cattive. Come il mare è vasto, immenso, non colmato dai fiumi: così
il Nirvàna è vasto, immenso, non colmato dagli esseri. Come il mare è la sede
di esseri grandi e portentosi; così il Nirvana è la sede di esseri grandi e
portentosi, quali sono i santi, che hanno raggiunto l'estinzione. Come il mare
è, per così dire, tutto fiorito con i fiori delle sue onde, varie, possenti,
innumerevoli: cosi il Nirvana è tutto fiorito con i fiori della purità, della
conoscenza, della redenzione, varii, possenti, innumerevoli» [corsivo nostro].
Ma forse ancora più interessante quest'altro riferimento, tratto stavolta da
Anguttara”, e che s'intitola - manco a dirlo - La dottrina è come il mare: 74
Una riprova di ciò può fornirci la testimonianza della aspirazione ultima del
Goriziano - che può far anche sorridere, ma che è evidentemente frutto di una
forte esigenza personale e "filosofica" insieme - di fare il
marinaio, una volta terminata la tesi cui stava lavorando. 75 Cfr. la
diapositiva F [Autoritratto del 1908] nel supporto iconografico. 76 Sappiamo,
ad esempio, che Michelstaedter si avvicinò al Buddismo per intercessione di
Enrico Mreule. Ma cfr. il profilo biografico nel par. 6 del nostro capitolo
sulla Rettorica. 77 Parabole Buddhiste, a cura di Burlingame, Roma-Bari,
Laterza, 1995, pag. 158. 78 Ib, pagg. 137-138. Così come il mare si abbassa
gradatamente, s'inclina gradatamente, si affonda gradatamente: così appunto la
Dottrina si apprende gradatamente, si comprende gradatamente, si pratica
gradatamente. Questa è la prima mirabile proprietà, che la Dottrina ha comune
col mare. Cosi come il mare è chiuso nel suo bacino, senza sorpassare i limiti:
così appunto i seguaci della Dottrina sono fermati dalle sue regole, senza
trasgredirne i limiti. Questa è la seconda proprietà. Cosi come il mare non
soffre un cadavere, ma lo respinge sulla spiaggia, sulla terra, cosi l'Ordine
della Dottrina non soffre un monaco, che venga meno ai suoi voti, e lo respinge
via da sé. Questa è la terza proprietà. Così come i grandi fiumi, la Ganga, la
Yamuna, I 'Aciravati, la Mahi, raggiungendo il mare, perdono il nome e la forma
e si fondono in esso: così appunto le quattro caste, i guerrieri, i sacerdoti,
i borghesi, i servi, quando rinunziano alla casa per la mendicità, ed entrano
nella Dottrina e nell'Ordine del Compiuto, perdono i loro nomi e le loro
distinzioni e diventano figli dell'asceta Sakya. Questa è la quarta proprietà.
Cosi come tutti | fiumi della terra fluiscono nel mare e le acque dell'aria
cadono in esso, senza che il mare aumenti o diminuisca: così appunto molti
asceti raggiungono nella Dottrina il Nirvana, senza che questo aumenti o
diminuisca. Questa è la quinta proprietà. Cosi come il mare ha un solo sapore,
il sapore del sale: così appunto la Dottrina ha un solo sapore, il sapore della
redenzione. Questa è la sesta proprietà. Così come il mare contiene molte
gemme: cosi appunto la Dottrina contiene molte gemme, quali le quattro
contemplazioni, le quattro esercitazioni, le quattro potenze, i cinque poteri,
i sette risvegli, il santo ottuplice sentiero. Questa è la settima proprietà.
Cosi come il mare è la sede di grandi esseri: cosi appunto la Dottrina è la
sede di grandi esseri, quali colui che è entrato nella corrente, colui che
raggiunge il frutto della conversione, colui che rinasce solo una volta ancora
e il santo che ha raggiunto la santità. Questa è l'ottava proprietà. Queste
sono le otto mirabili proprietà, che la Dottrina ha comuni col mare. [tutti i
corsivi sono nostri] La bellezza di quest'ultimo passo è coinvolgente, e le
stesse affermazioni di Michelstaedter ci sembrano acquistarne nuova luce,
soprattutto se spogliamo la metafora e le conferiamo concretezza umana: ci
sembra, anche, che aiuti a discriminare la proposta michelstaedteriana da
quelle varianti titanisiche e
vitalisiche che pericolosamente le si avvicinano, tradendone lo spirito
originario. Verrebbe la tentazione, ad esempio, di assimilare il tuffo di Itti
in A Senia ad un più celebre tuffo, quello di Esterina, in Falsetto”, di
Montale, poeta di cui certa critica, forse non a torto, si affanna a trovare
consonanze col Nostro. Esterina, minacciata dalla «grigiorosea nube» dei suoi
vent'anni e dalla «dubbia dimane», pur appare impavida, addirittura sorridente:
con «un crollar di spalle» liquida ogni minaccia, del tempo e della vita (abbattendo
addirittura i «fortilizi» del destino), e si tuffa nel mare, il suo «divino
amico» che l'accoglie come una sirena: Esterina è il simbolo della vita che si
realizza, della giovinezza che prorompe e tutto travolge, scrigno di una forza
tanto esuberante quanto spontanea e naturale, a cui naturalmente sorridono
quella vita e quella felicità tanto agognata da chi appartiene alla «razza/ di
chi rimane a terra»5°. Tornando alla felice battuta di Ballested, Montale si
sente consapevolmente, e colpevolmente, acclimatato: per lui, l'alternativa
alla Rettorica, al «male di vivere», sono la «statua», la 79 Montale, Falsetto,
in Ossi di seppia, raccolta contenuta nell'ed. Mondadori Grandi Classici
(Milano, 1990) Tutte le poesie (a cura di G. Zampa), pagg. 14-15. 80 «Esterina
è creatura che attinge una divina, pagana felicità nell'immedesimazione stessa
con la natura, nell'adesione totale e irriflessa alla vita e alla realtà»
[Guglielmino]. «nuvola» o il «falco»8', simboli di uno stanco, inappagabile
stoicismo, come appare nella sua lirica più famosa”. In Falsetto, invece, si
affaccia questa Esterina, alter-ego desiderato e perduto, non attingibile nella
sua freschezza, nella sua scorciatoia verso la felicità, attraverso quella
«maglia rotta nella rete» dell'esistenza ch'ella ha trovato, ha anzi
indovinato, e attraversato con una ingenuità spensierata, vigorosa e
disarmante. Ma quanto Esterina è diversa da tti! Rimanendo nella metafora
poetica, se ella con una scrollata di spalle si lascia tutto indietro, il mondo
e la vita, Itti - novello Atlante - si carica sulle spalle quel mondo e quella
vita. Non c'è traccia di spensieratezza in Itti, verrebbe da dire che quasi non
c'è traccia di giovinezza, tanto è consumata la sua adesione all'esistenza,
tanto è profonda la disperata consapevolezza che lo caratterizza: egli si tuffa
(anzi, si rituffa «con più forte lena») nel mare a dare or la patria all' esule
sirena, la patria a me stesso e all'uomo abbattuto svelare la via del suo regno
perduto,ché ogni uom manifeste le tenebre arcane conosca e vicine le cose
lontane. [PP 85] Di una siffatta dolorosa conoscenza («quel che già vidi nel
fondo del mare/ i baratri oscuri, le luci lontane e grovigli d'alghe e creature
strane»), Itti vuol far dono esclusivo alla sua sirena («Senia, a te sola lo
voglio narrare»). La gioia e la naturalezza di Esterina appaiono un miraggio:
eppure Itti rassicura: [...]se freddo e ruvido io ti sembri, ma tu lo sai: è
per vieppiù andare, è per nutrir più vivida la fiamma, perché un giorno
risplenda nella notte, perché possiamo un giorno fiammeggiar liberi e uniti al
porto della pace. [PP 86] 81 Facciamo notare che la figura del falco ritorna in
Michelstaedter (ma con tutta un'altra simbologia e significato) e, come osserva
giustamente Campailla, sempre più frequente: il critico chiama a testimone una
lettera di Carlo a Mreule (quella del 14 aprile 1909) e, ancor più, un
esplicito passo della tesi di laurea, dove il Goriziano asserisce che il vir,
come appunto il falco e a differenza delle cornacchie, «mantiene in ogni punto
l'equilibrio della sua persona». Per Campailla, l'immagine michelstedteriana
del falco sta a significare «la libera affermazione della volontà». [cfr. S.
Campailla, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Patron, 1973, pagg.
68-69] 82 Alludiamo appunto al Male di vivere [in Ossi di Seppia, cit., pag.
35]. Commentano giustamente Barberi Squarotti - J acomuzzi: «AI male, alla
sofferenza senza ragione, cieca, presente sempre nella natura, alla condizione
negativa delle cose e dell'esistenza che si rivela nei fenomeni più usuali, non
si può opporre, per Montale, che una posizione stoica, di indifferenza, di
insensibilità, di rifiuto a lasciarsi coinvolgere nel lamento, nella pena,
nella partecipazione sentimentale: essere statua, pietra, roccia di fronte al
dolore o nuvola o falco alti nell'aria, del tutto staccati dalla terra e dal
suo male». [cfr. Barberi Squarotti - J acomuzzi, La poesia italiana
contemporanea, D'Anna, Messina-Firenze, 1963, pag. 257] 83 Cfr. la diapositiva
L [Carlo da vecchio] nel supporto iconografico. La senilità è scongiurata:
ritorna la gioia e il sogno propri della florida giovinezza, ritorna quella
naturalezza, ancor più vigorosa e sublime, perché non ingenuo e impavido punto
di partenza, ma coraggioso, consapevole, sofferto punto di approdo. La
naturalezza è recuperata, ma come termine di un faticoso lavoro di ricerca
esistenziale, che non disdegna di "sporcarsi" col mondo: giunti al
«porto della pace», la persuasione proseguirà ultro, e altrettanto spontaneamente
le cose si volgeranno al vir®*. Il porto della pace, ch'è la furia stessa del
mare, è il frutto dell'esperienza del dolore e della consapevolezza, di una
consapevolezza che si conquista attraverso - direbbe l'autore della
Bhagavadgita - lo «Yoga dell'azione»: «attraverso l'attività verso la pace», è
appunto il motto del Goriziano: la Persuasione conduce al riposo, il riposo di
Gesù sulla barca nel mare in tempesta. E proprio ritornando, ad anello,
all'episodio evangelico che ha introdotto questo capitolo, vogliamo trarre le
provvisorie conclusioni di quest'ulteriore tappa del nostro lavoro, altro
tassello di quell'intricato mosaico ch'è Michelstaedter. Ci avvaloriamo, così,
della notazione dell'ottimo Campailla, il quale ci avverte che il riferimento
al brano evangelico su riportato si complica di un doppio registro di rimandi,
non solo testuali: «l'ideale michelstaedteriano del "persuaso"
espresso nella conclusione di "Onda per onda" con un'immagine
giovannea ("di sé stessa in un punto faccia fiamma") conferma nel
lavoro poetico il suo spessore religioso nelle due figure di Itti, il Pesce (
’IySuc) e Senia (eva): il rinnovato simbolo cristiano del "Salvatore di se
stesso" in un'epoca di diffuso quovadismo, e la "Straniera"»®®.
Di queste considerazioni, condividiamo tutto: suggeriamo, tuttavia, di non
lasciarsi fuorviare dallo «spessore religioso» che il Campailla finisce con
l'attribuire al senso delle parole di Michelstaedter; come lo stesso critico
chiarisce altrove, e come si evincerà nel seguito del nostro lavoro, questa non
è un'attribuzione o un'illazione ad un'eteronomia che 84 Abbiamo già trovato
l'avverbio ultro in una lettera scritta allo Mreule a proposito del "nuovo
comportamento" del Paternolli; l'avverbio ritorna altrove, nella sua dizione
latina e nella sua traduzione, con una cadenza se non frequente, però
significativa: cfr. D 90 «[...] ma la via è nel nulla chiedere giusto per sé e
tutto dare ultro [... J»; in un'altra lettera, anch'essa già riportata,
Michelstaedter scrive, riguardo sempre Enrico, che «[...] nessuna cosa della
vita, mi sembra, possa trovarti insufficiente, ma che anzi tutta attraverso
tutti i perigli debba volgersi a te spontaneamente [... J». Sarà un caso, ma il
termine ricorre ossessivamente anche nella Donna del mare ibseniana: Wangel
[allo Straniero che è giunto alla loro casa per riscuotere il pegno d'amore di
Ellida]: «E allora che vuole? Pensa di portarmela via con la forza? Contro la
sua volontà?» Lo Straniero: «No, questo no. Non servirebbe a niente. Se vorrà
venire con me, deve farlo spontaneamente». Ellida (trasalendo):
«Spontaneamente... » [sl Ellida (fra sé): «Spontaneamente...» [[Ibsen, La donna
del Mare, cit. pag. 39 e, per es., anche pag. 40 e oltre] E questa eco
accompagna la protagonista, in pratica, fino alla fine del dramma. 85 cfr. S.
Campailla: Il terzo regno, cit., pag. 22. 86 Campailla, aggiunge, in una nota
istruttiva, che «per la situazione figurativa si pensi ai meravigliosi mosaici
della basilica paleocristiana di Aquileia, sicuramente non ignota a Michelstaedter,
dove in vaste allegorie Cristo è rappresentato come il mare, e i cristiani come
i figli del mare» [ib.]. pregiudicherebbe, anzi pregiudica in toto, la
"purezza" dell'atto e dell'essere persuaso, così come lo stiamo
portando a definizione. Cristo è esempio di salvezza, ma non è la salvezza: la
salvezza è in noi, noi siamo la salvezza a noi stessi. noi, attraverso la
lotta, verso la pace, verso il riposo. Riposo che non è un abbandonarsi al
«riposo in Dio», come invece affiora, in modo estasiato ed esasperato, in
questa pur bella pagina di Edith Stein, che assumiamo ad emblematica - in
questo contesto - più come termine di opposizione, che di confronto, con
l'assunto del Goriziano, e che riportiamo in larga parte, convinti che, alla
luce di quanto detto, una lettura franca e critica del passo possa valere più
di qualsiasi commento: Esiste uno stato di riposo in Dio, di totale sospensione
di ogni attività della mente, nel quale non si possono più tracciare piani, né
prendere decisioni, e nemmeno far nulla, ma in cui, consegnato tutto il proprio
avvenire alla volontà divina, ci si abbandona al proprio destino. Questo stato
un poco io l'ho provato, in seguito a un'esperienza che, oltrepassando le mie
forze, consumò totalmente le mie energie spirituali e mi tolse ogni possibilità
di azione. Paragonato all'arresto di attività per mancanza di slancio vitale,
il riposo in Dio è qualcosa di completamente nuovo e irriducibile. Prima, era
il silenzio della morte. Al suo posto subentra un senso di intima sicurezza, di
liberazione da tutto ciò che è preoccupazione, obbligo, responsabilità riguardo
all'agire. E mentre mi abbandono a questo sentimento, a poco a poco una vita
nuova comincia a colmarmi e - senza alcuna tensione della mia volontà - a
spingermi verso nuove realizzazioni. Questo afflusso vitale sembra sgorgare da
un'attività e da una forza che non è la mia e che, senza fare alla mia alcuna
violenza, diventa attiva in me. Il solo presupposto necessario a una tale
rinascita spirituale sembra essere quella capacità passiva di accoglienza che
si trova al fondo della struttura della persona [tutti i corsivi sono nostri”.
87 Come ci scrive Fr. Egidio Ridolfo s.j. (curatore della rivista Il Gesù Nuovo
di Napoli), con cui siamo entrati in contatto e che ci ha fatto conoscere
ilbrano di cui sopra, esso «fa parte del saggio Causalità psichica, che è stato
pubblicato negli Annali di Edmund Husserl nel 1922, ma che è anteriore alla
conversione [della Stein]. Non abbiamo questo testo, quindi non posso
specificare la citazione delle pagine». 4. La Persuasione more geometrico
demonstrata. 4a) La felicità difficile. 4b) La differente prospettiva: la
premessa maggiore del sillogisma michelstaedteriano. 4c) L'uomo bandito da Dio
e il filo d'Arianna della Persuasione come Armonia: la lezione di Empedocle.
4d) La Persuasione "al bivio": l'incontro di Parmenide e Cristo. 4a)
La felicità difficile. "La morte non mi avrà vivo", diceva. E rideva,
lo scemo del paese, battendosi i pugni in viso. Giorgio Caproni Nell'approccio
che abbiamo tentato finora, la Persuasione ci si è rivelata in tutta la sua
portata reale: non tanto come una dottrina, un ammaestramento, quanto piuttosto
come un'esistenza, una testimonianza, che si conquista strenuamente il suo
diritto di parola e di realizzazione nel mondo degli uomini: persuasi lo si è
soltanto nel concreto esercizio della Persuasione, esercizio che ci costituisce
a sua volta come persuasi, in una tautologia non del pensiero, ma della vita, e
dunque non vana o eristica, ma veritiera e concreta. La «consistenza»
dell'essere persuasi, dunque, la sua "autarchia", si è dispiegata
come forte esigenza di autonomia, che non è ripiegamento autosufficiente, non è
esplosione (vitalistica, più che vitale) di forze "anarchiche",
violente - ovvero, spinte al dominio - e sedicenti superiori, ovvero volte alla
conquista di un non meglio precisato oltre dell'uomo (chi si dichiara al di
sopra degli uomini spesso vi si ritrova al di sotto...). La consistenza,
dunque, anche e soprattutto come coesistenza, come rivela l'etimologia identica
dei due termini. E il suo dispiegarsi (abbiamo accennato) dà gioia, una gioia
difficile da comprendersi secondo i comuni parametri del buon senso, che
confonde la felicità con l'appagamento del bisogno, la realizzazione con la conquista
di una dignitosa posizione sociale. Anche Kant provò a destreggiarsi con questo
concetto difficile di felicità (o concetto di felicità difficile), nel
tentativo di espungerne ogni pericolosa concessione all'istanza eteronoma, ogni
elemento spurio che ne contraddicesse o pregiudicasse l'autenticità. Questo
riferimento all'autore delle Critiche non è un rilievo marginale, ma si
incastona perfettamente - diremmo in modo conseguente - nel nostro tentativo di
un'esatta definizione del concetto felicità e di autonomia, all'interno
dell'ottica persuasa. Infatti, forse senza neanche che l'autore se ne rendesse
ben conto fino in fondo8*, quel concetto rappresenta - a nostro giudizio - il
movente segreto e il perno intorno al quale 88 In effetti, Kant sembra affrontare
malvolentieri, almeno nella suddetta critica (ma questa è evidentemente solo
una nostra impressione), un discorso sulla felicità, condizione ch'egli ritiene
sempre in certo modo "sospetta" di eteronomia e che, di conseguenza,
"subordina", se possiamo dir così, al dovere, al rispetto, in una
parola alla virtù (troviamo significativo, altresì, che Kant consegni tale
discorso praticamente soltanto alle pagine che aprono il capitolo Il Della
ruota tutta la sua Critica della Ragion Pratica. Il filosofo tedesco parla, più
precisamente, di «contentezza di sé» [Selbstzufriedenheit], la quale «nel suo
significato proprio, denota sempre soltanto un compiacimento negativo della
propria esistenza, per cui si è coscienti di non aver bisogno di nulla»®®.
Questa contentezza di sé è il "brivido" dell'intelletto di fronte al
mistero della libertà; prosegue, infatti, Kant: «a libertà, e la coscienza di
essa come di una capacità di seguire con intenzione preponderante la legge
morale, è indipendenza dalle inclinazioni, per lo meno in quanto motivi
determinanti (anche se non in quanto influenti) del nostro appetito; e,
avendone io coscienza nell'osservare le mie massime morali, essa è l'unica
fonte di una contentezza immutabile, ad essa necessariamente connessa, la quale
non riposa su alcun sentimento particolare. Tale contentezza si può chiamare
intellettuale ». Poco più avanti, la prospettiva kantiana si fa scoperta e
definitiva: «...] un compiacimento negativo per il proprio stato [...]è
contentezza della propria persona. In questa guisa (e cioè indirettamente) la
libertà stessa diviene capace di un godimento che non si può chiamare felicità,
perché non dipende dalla positiva presenza di un sentimento e neppure, parlando
esattamente, beatitudine Beligkeit], perché non implica una indipendenza
completa da inclinazioni e bisogni; ma che, tuttavia, è simile a quest'ultima,
in quanto, cioè, per lo meno la determinazione della propria volontà può
mantenersi libera dal loro influsso, e quindi, almeno per la sua origine, è
analoga all'autosufficienza che si può attribuire soltanto all'Essere supremo».
La vera felicità, dunque, sembra essere appannaggio esclusivo di Dio, o
comunque di una volontà santa: quella, per intenderci, in cui si realizza la
«perfetta adeguatezza [vollige Angemessenheit] dell'intenzione alla legge
morale». Nell'individuo santo, questa perfetta adeguatezza avviene per una
sorta di «nclinazione spontanea» (e si ricordi il valore che abbiamo accordato
al concetto di spontaneità in Michelstaedter) alla «totale purezza delle
intenzioni del volere»; di contro, «il gradino morale su cui si trova l'uomo» è
quello di una virtù ch'è piuttosto (bellissima espressione) «un'intenzione
morale in lotta» [moralische Gesinnung im Kampfe]. Appare ovvio, dunque, che,
per definizione, la santità è una condizione irrealizzabile nell'uomo: essa si
profila piuttosto come concetto-limite, o idea regolativa, e comunque esula dal
mondo fenomenico, dal mondo «dei costumi». dialettica della ragion pura nella
determinazione del concetto di sommo bene, dedicate in particolare alla
posizione ed alla risoluzione dell'antinomia della ragione pratica, vertente
sul sommo bene). Se, infatti, la virtù è «il meritar di essere felici»,
tuttavia essa virtù «come condizione, è sempre il bene supremo, non avendo
altre condizioni al di sopra di sé», mentre«la felicità è sempre qualcosa che,
a chi lo possiede, riesce gradito, però non è buono per sé solo assolutamente e
sotto tutti i rispetti, ma presuppone sempre, come condizione [una condizione
che Kant si ostina a sottolineare in modo continuo e vigoroso in tutto il corso
della trattazione], il comportamento morale conforme alla legge». Poco più
avanti, si spinge a dire, nella foga polemica contro l'eudemonia classica
(nelle forme dell'edonismo o dell'atarassia, soprattutto), che quelli di virtù
e felicità sono due concetti «radicalmente eterogenei». E' ovvio che
bisognerebbe, a questo punto, procedere con metodo analitico, e individuare e
correggere tutte le ambigue oscillazioni di senso che, nel discorso kantiano,
assume il termine felicità [Gluckseligkeit]. Per le presenti citazioni, e per
le altre contenute nel corpo del paragrafo, in riferimento a Kant e non
"annotate", rimandiamo a Kant, Critica della ragione pratica, (a cura
di V. Mathieu), Rusconi, 1993, pagg. 228-245, passim, ovvero - dell'opera - il
corrispondente a Parte |, Libro Il, Capitolo Il, Pargg. ill: Della dialettica
della ragion pura nella determinazione del concetto di sommo bene).E' lo stesso
destino di esilio cui sembra condannata la Persuasione, che ci si mostra
anch'essa come una condizione innanzitutto inafferrabile, quindi
irrealizzabile, per l'uomo. E quella stessa gioia, tratto distintivo della
condizione non-rettorica, appare sempre più come una chimera azzardata, come un
complicato esercizio della ragione, nella sua aspirazione di libertà. Non può
non colpire, di fatto (ed è questa la più ferrata, nonché la più scontata
smentita), come la Persuasione sia sempre destinata allo scacco, quasi fosse
perseguitata dalla malasorte. La schiera di Persuasi, che Michelstaedter
elegge; questa schiera di individui «eroico-cosmici» (per dirla con Hegel),
questa genealogia della Persuasione (per dirla con la Bibbia), questa
«ghirlanda di reincarnazioni», quasi, in cui si realizza BA Persuasione (per
dirla infine con Arya Sura, l'autore degli vataka), sembra portare con sé,
insita nei propri atti, il segno di una colpa che la condanna ad una sconfitta
(la sua voce non viene accolta o compresa), o peggio a una pulsione di morte,
per giunta autoinferta, col sacrificio o col suicidio. Questi individui hanno
in sé il demone, eppure sembrano lontani dalla felicità: il loro sembra non
essere un "demone propizio". Socrate accettò il verdetto di morte, in
coerenza col suo dettato; Cristo accettò la Croce, nel suo sacrificio di
redenzione; Enrico Mreule non riuscirà a sopportare l'enorme ingiunzione morale
che gli assegnò l'amico, e la sua vita si risolse infine in un fallimento”;
Michelstaedter stesso si uccise... Del resto, «gli uomini si stancano su questa
via [la via che conduce alla Persuasione], si sentono mancare nella solitudine:
la voce del dolore è troppo forte » [PR 53]. La piena attualità della propria
autentica natura, che abbiamo designato come entelechia etica, a conti fatti o
conduce all'annichilimento, oppure è esposta al forfait. è in gioco la
"sostenibilità" della Persuasione. Possibile che gli uomini si
stanchino della vera felicità e si accontentino della falsa felicità che la
Rettorica propina loro, come falsa sicurezza e falso appagamento? 90 Si tenga
presente l'etimologia di felicità, nell'accezione greca di
"eudemonia", ovvero - appunto - "eu" (bene) e "dàimon
- onos" ("demone, sorte"), ovvero "che ha un demone
propizio", quindi "felice, fortunato". Per la questione del
dèmone, nella fattispecie in Socrate ed in Enrico Mreule, si ricordi quanto
detto supra. 91 Claudio Magris, intervistato sul Corriere del Ticino, riguardo
la stesura e il significato del suo romanzo Un altro mare, così riassume - in
modo davvero efficace - la dialettica Carlo-Enrico sulla via della persuasione:
Intervistatore: «La personalità di Michelstaedter "bruciata" dal
suicidio rappresenta in un certo qual modo il fallimento esistenziale di
Enrico?», Magris: «Il suicidio di Michelstaedter è un problema fondamentale.
Certo, sul suicidio in sé non si può dire nulla mai, perché, per capire
veramente cosa è successo nel cuore e nella mente di uno che si uccide,
bisognerebbe averlo accompagnato fino al passo estremo. Si può dire che i due
amici, senza volerlo, si giocano uno scherzo terribile. Da una parte Carlo
mostra a Enrico un assoluto, senza il quale Enrico non potrà vivere ma che non
riuscirà a raggiungere. Così, in un certo modo, Carlo arricchisce ma anche
distrugge la vita di Enrico. Inoltre, forse, il suicidio di Carlo lo lascia
solo, toglie a Enrico il sole della sua esistenza. Dall'altra parte, Carlo
forse aveva capito che la persuasione che egli insegue, ossia il possesso vero
e presente della vita, non può essere teorizzata o predicata (come non si può
teorizzare la felicità), ma può essere solo vissuta, e per questo aveva visto
in qualche modo in Enrico il suo vero erede, una specie di san Giovanni, colui
che doveva realizzare nella vita la persuasione. Ed Enrico, col suo struggente
fallimento, dà un colpo mortale a tutto questo». [Sul Corriere del Ticino del 5
maggio 1998, pag. 49]. Questa impossibilità della persuasione è da noi
fortemente contestata. Kant aveva escluso la realizzazione di una volontà santa
tra gli uomini: Michelstaedter, di contro, individua i protagonisti di questa
volontà santa, che da "statica", noumenica, diviene storica e
politica: Socrate, Cristo e via dicendo sono la realizzazione terrena di quella
volontà, di quella Persuasione; essi rappresentano l'eccezione che smentisce la
regola: quel postulato che, appunto, sancirebbe il carattere esclusivamente
divino della santità. Eppure, la Persuasione, quand'anche realizzata, sembra
tingersi di toni lugubri, di una gioia "masochista", di una condotta
schizofrenica che la divide tra una gioia che è dolore e un dolore che è gioia:
scrive Michelstaedter, in un noto passo del Dialogo della salute che «finché la
morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga - se nulla
abbiamo. - Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo-» [D 39].
Eppure, sotto lo sguardo della Rettorica, il vir sembra davvero passare come do
scemo del paese» del frammento di Caproni: lo scemo che - ridendo e «battendosi
i pugni in viso» - gridava: «a morte non mi avrà vivo». 4b) La differente prospettiva:
la premessa maggiore. I... J foschia d'oro, l'occidente illumina la finestra.
L'assiduo manoscritto aspetta già carico di infinito. Qualcuno costruisce Dio
nella penombra. Un uomo genera Dio. E'un ebreo dai tristi occhi e dalla pelle
citrina; lo porta il tempo come porta il fiume una foglia nell'acqua che
declina. Non importa. Il mago insiste e scolpisce Dio con geometria delicata;
dalla sua malattia dal suo nulla, continua ad erigere Dio con la parola. Il più
prodigo amore gli fu concesso, l'amore che non aspetta di essere amato.
[Borges, B.Spinoza Dalla raccolta La moneta de Hierro, 1976.) Eppure, a
dispetto della sua complessità, Michelstaedter sembra liquidare il discorso sul
concetto di Persuasione in quel breve capitolo, fatto davvero di pochissime
pagine”, che inaugura, dopo la prefazione, il suo lavoro e che si intitola,
appunto, in modo perentorio La persuasione. Una sorta di epitome, dove ogni
parola - in uno sforzo di sintesi che rasenta l'esoterico - assume un peso ed
una portata grandiosi. Tutto ciò che segue - l'affastellarsi di analisi
"scientifiche", "ontologiche" o personali sulla Rettorica,
l'annoverare gli equivoci ed i pericoli di una falsa Persuasione [«Persuasione
Inadeguata »], la critica al sistema in se stesso come «comunella di malvagi»
sempre e comunque... - sembra essere, di quel denso capitolo, uno scolio
complesso. E' un procedimento, e una capacità di (ardua) sintesi, che - forse,
non a caso - possiamo riscontrare in un altro ebreo eretico, che si cimentò in
una "geometria" dell'etica: Spinoza. 92 Nella citata edizione maior
adelphiana della tesi sono quattro: da pag. 7 a pag. 10, incluse. Avvisiamo che
sono queste le pagine da cui traiamo i "virgolettati" relativi alle
espressioni autoctone di Michelstaedter. Ci dispensiamo, così, dal riferirli
ogni volta. L'autore dell'Ethica esordisce, parlando di Dio: «Per causa di sé
intendo ciò la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non può
essere concepita se non come esistente»°°. Dio non ha bisogno di null'altro,
che non di sé stesso, per esistere: a suo modo, questa è un'ammissione -
permettendoci di renderla con termini michelstaedteriani - di una condizione
persuasa di Dio. E Michelstaedter, nella sua definizione di persuasione (la
"premessa maggiore" ch'egli ci fornisce) - definizione che spicca,
sottolineata dalla citazione petrarchesca - sembra rispondere con una eco:
«Colui che è per sé stesso (pever) non ha bisogno d'altra cosa che sia per lui
(evo vtov) nel futuro, ma possiede tutto in sé». Dunque, il vira suo modo è
egli stesso causa suit Nel presupposto, entrambi i pensatori, come dire, si
muovono nell'ambito dell'ortodossia: negli esiti, cadono entrambi in una comune
eresia fondamentalmente antiebraica: per Spinoza, si tratterà di sconfessarne
la Trascendenza: la causalità di Dio si dispiegherà in causalità immanente al
mondo, realizzandosi in quel noto "panteismo" che il pensatore di
Amsterdam svolgerà con grande rigore (anche "geometrico") e
consapevolezza durante tutta la sua vita; per Michelstaedter si tratterà di
sconfessarne non solo la trascendenza (l'uomo, come persuaso, è il dio), ma
soprattutto il monoteismo: sosterrà quello che potremmo chiamare un
"politeismo della Persuasione", essendo ogni vir dio a se stesso,
causa sui, singola (e singolare) natura naturata della Persuasione. Il
confronto tra i due pensatori potrebbe trovare sbocchi inauditi (ci siamo
limitati alle frasi iniziali delle loro opere); tuttavia ci troviamo costretti
a troncare di netto una simile tangenziale al nostro discorso, innanzitutto
perché potrebbe essere (data la vastità del raffronto) argomento di un'altra
tesi, e poi per non compromettere la fluidità del nostro ragionamento. Che
verte, ricordiamolo, sul concetto di Persuasione, così come affrontato da
Michelstaedter nel breve, fondamentale capitolo cui abbiamo accennato. Il
concetto di Persuasione: ben detto. Mai come qui, infatti, l'uso del termine
"concetto" non si presenta inadeguato. | viri sono scomparsi
dall'orizzonte, nella loro pluralità: la Persuasione perde la sua composizione
politica, si staglia come un' "entità" perfetta, come la
perfettissima sfera di Parmenide, come una monade che abbia chiuso porte e
finestre, come l'aleph del noto racconto di Borges. Il Persuaso si disincarna:
diviene simbolo senza antropologia o antropomorfismo, segno di una condizione
che accomuna l'uomo ad ogni altro essere del mondo sublunare: non a caso, quasi
un terzo dell'intero capitolo è occupato da un esempio tratto dall'osservazione
fisica: il peso, ch'è tale perché la forza di gravità lo spinge verso una
ricerca inappagata 93cf, Spinoza, Etica (a cura di E. Giancotti), Editori
Riuniti, 1993, pag. 87. 9% Ci si permetta un rilievo passeggero: questo
"bastare a sé stesso" è una connotazione che, in modo singolare, attraversa
- come presupposto di estrema qualificazione - gli esiti più alti della
speculazione filosofica e religiosa umana di tutti i tempi e di tutti i popoli:
il dio degli Ebrei, il Buddha, il dio di Aristotele, il dio di Tommaso, la
monade di Leibniz, il dio di Spinoza, la volontà santa di Kante via dicendo
sono tutte "entità" che "bastano a se stesse". del suo
"luogo naturale" («la fame del più basso»), la cui vita corrisponde
proprio in quella discesa, perché - una volta raggiunto il punto della sua
soddisfazione - in quel punto la sua vita «cesserebbe d'esser vita», perché «
in quel punto esso non sarebbe più quello che è: un peso». Dunque: «Il peso non
può mai esser persuaso»®9. La Rettorica si rivela quale condizione condivisa da
ogni ente terreno, costretto dalla forza di gravità che lo lega necessariamente
alla terra; di contro, la Persuasione non è una aspirazione o prerogativa
esclusivamente umana: anche il peso vuol conquistarla. La forza di gravità si
delinea come la più patente espressione fisica della Rettorica, e ci testimonia
come la Rettorica stessa non sia soltanto una "costruzione" umana, ma
al contrario appartenga alla matrice bio-fisica o bio-fisiologica, prima che
ontologica, dell'intero universo. Nel capitolo che stiamo esaminando, dunque,
si può avvertire quel cambio di prospettiva che annunciammo nell'esordio della
nostra analisi: a differenza che nelle lettere e nelle poesie, dove si respira
il pullulare della vita persuasa, nel lavoro accademico il Goriziano è più
attento a quella che potremmo definire (con qualche concessione agli
heideggeriani) un' "ermeneutica esistenziale della Persuasione". O,
più esattamente, si propone di ricavare quell'apriori della Persuasione, che ne
fondi /a possibilità e i limiti di realizzazione nel mondo fenomenico. E' una
prospettiva più povera dal punto di vista esistenziale, rispetto a quella delle
lettere e delle poesie, perché più astratta, e dunque più aliena dai nostri
interessi, e da quelli dello stesso Michelstaedter, evidentemente. Eppure, una
prospettiva più imponente dal punto di vista speculativo, che s'impone nella
sua necessità di analisi, se è vero che ogni Weltanschauung, come visione o
"intuizione" del mondo, presuppone di necessità un fondamento
ontologico, un'immagine concettuale, in cui si rapprenda visivamente il senso
di quel mondo. Sotto questo rispetto, Michelstaedter appartiene ancora al
declino di quella "storia dell'essere" denunciato dal filosofo di
Baden. In Michelstaedter, nella sua tesi, l'Essere si pone come Persuasione, ed
è a partire da questa posizione che si sviluppa, nel corso del suo studio,
l'analitica esistenziale, ovvero la diagnostica e la prognostica,
apparentemente aliena qui da ogni considerazione 95 Ma cfr. anche la nostra
integrazione sul "peso che dipende" e la diapositiva G ĮI peso al
gancio] nel supporto iconografico. % Questo stralcio heideggeriano può sancire
ed illuminare il senso di questi nostri ultimi passaggi: «La comprensione
dell'essere, definita così, in pochi tratti, si mantiene sul piano senza scosse
e senza pericoli della più pura evidenza. E tuttavia, se la comprensione
dell'essere non avesse luogo, l'uomo non sarebbe mai in grado di essere l'ente
che è, anche qualora fosse dotato delle più straordinarie facoltà. L'uomo è un
ente che si trova in mezzo all'ente, e vi si trova in modo tale, per cui l'ente
che egli non è e l'ente che egli stesso è gli sono sempre già manifestati. A
questo modo d'essere dell'uomo diamo il nome di esistenza. L'esistenza è
possibile solo sul fondamento della comprensione dell'essere. Nel rapportarsi
all'ente che egli non è, l'uomo si trova già davanti l'ente come ciò che lo
sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che, con tutta la sua cultura e la
sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo, signoreggiare. Assegnato all'ente
diverso da lui, l'uomo non è in fondo, padrone nemmeno dell'ente che egli
stesso è» [M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, introduzione di
V. Verra, Laterza, Bar-Roma, 1989, pagg. 195-196]. morale, della società umana,
nei suoi singoli e nel suo complesso, come condizione depotenziata di quello
stato edenico annunciato come proprio di «colui che è per sé stesso». Così,
dell'energia autentica del vir, in queste pagine, sopravvive solo un opaco
barlume, nel tentativo di concettualizzazione, nel titanico sforzo del
pensiero, che si districa nel novero di citazioni di cui il breve capitolo in
esame è infarcito: citazioni che - almeno nell'intenzione - non appesantiscono,
ma che si dispongono quali ausiliari "puntelli di persuasione", nello
sforzo di delucidare il senso del peve”. Essi tracciano un confine intorno alla
Persuasione stessa: ci muoviamo in un mondo i cui due poli sono rappresentati,
rispettivamente, dalla grecità (dalla Grecia di Empedocle e di Platone, e chi
fra essi) e la dimensione biblica (l'Ecclesiaste, S. Luca, S. Matteo): è dalla
sinergia di questi due poli che, evidentemente, si forgerà e si dovrà evincere
il concetto di Persuasione. 4c) L'uomo bandito da Dio e il filo d'Arianna della
Persuasione come Armonia: la lezione di Empedocle. Anch'io sono uno di questi,
esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente Contesa. Empedocle,
fr. 31 B 115, 13-1498 Ahimé, o infelice stirpe dei mortali, o sventurata, da
quali contese e gemiti nasceste. Empedocle, fr. B 124 Piansi e mi lamentai,
vedendo un luogo a cui non ero abituato. Empedocle, fr. B 118 Un'epigrafe
informa e precisa il senso e la direzione di tutta un'opera, riassume e
anticipa il pensiero dell'autore, dà limprimatur. La Persuasione e la Rettorica
si apre®° con una citazione di Empedocle, una citazione da rivalutare, anche in
riferimento alla sua amenità: Michelstaedter chiama subito in causa un
personaggio la cui vita e il cui pensiero sono avvolti da un'aura rarefatta di
leggenda, un filosofo che si muove in una dimensione di inappartenenza a
categorie ben definite (addirittura, più che gli stessi altri presocratici), in
un'apparente contraddizione tra il fisico e lo scienziato e il medico, e il
sacerdote e il poeta 97 Campailla fa notare che «Michelstaedter ricorre al greco
per sviluppare la contrapposizione tra la forma transitiva di pever (aspettare
qualcuno o qualcosa) e quella intransitiva (stare, permanere, consistere)»
[nota 7 alla Persuasione, PR 309] 98 La presente citazione, e le altre che
seguono nel paragrafo e nel prosieguo della nostra tesi, relative ad Empedocle
ed agli altri presocratici, sono adottate secondo la traduzione presente in |
Presocratici. Testimonianze e frammenti (a cura di G. Giannantoni), 2 voll.,
ed. Laterza (4a), 1990. 99 La famosa Prefazione, presente nelle stesura A della
tesi (ovvero, quella primitiva, completamente autografa), risulta poi omessa in
quella che Campailla chiama redazione C, quella destinata alla lettura del
relatore e della commissione dei professori, e che, dunque, «rappresenterebbe
la volontà ultima dell'autore». [cfr. nota introduttiva alla Persuasione, PR
304; in particolare, si rimanda proprio alle pagg. 303-304 per un opportuno
approfondimento della questione], e il profeta taumaturgo e il dio.
Evidentemente, il filosofo goriziano, con questa personalità ibrida, ravvisa
una certa affinità di atmosfere e di metodologia non proprio ortodosse. Dunque,
inoltriamoci nel sottobosco empedocleo che si dirama in queste e altre pagine
del nostro autore. Innanzitutto, una premessa scontata, ma opportuna:
Michelstaedter anche con Empedocle, come con tutti gli autori ch'egli utilizza
per supportare le proprie analisi, affila le armi di una propria,
personalissima filologia, di un'interpretazione che "pecca" di
estrema originalità °: ci troviamo al di fuori di una certa canonica, e
sbrigativa, storiografia filosofica (inaugurata da Aristotele, che definì
Empedocle, tra gli altri, un «naturalista inesperto »'°'), storiografia che
comodamente classifica l'agrigentino in posizione intermedia e mediatrice tra
l'essere parmenideo e il divenire eracliteo (al contrario, come sappiamo,
Michelstaedter assegna a pari merito, sia ad Empedocle che a Parmenide ed
Eraclito, la conquista della "palma" della Persuasione). Ma
analizziamo il frammento empedocleo: L'impeto dell'etere invero li spinge nel
mare il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi del sole
infaticabile!92, che a sua volta li getta nei vortici dell'etere: ogni elemento
li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. | versi sono attestati da
Plutarco!, Il quale commenta: «Empedocle dice che le anime pagano la pena dei
loro errori e dei loro peccati [segue il frammento], finché così punite e
purificate non raggiungono nuovamente il loro posto e il loro ordine
naturale»..'°4 Ci preme innanzitutto far notare (quand'anche fosse solo una
nostra impressione: la critica non ne fa parola) la sfumatura che avvertiamo
nella scelta fatta da Michelstaedter di questo frammento: nella
"diaspora" delle anime, che espiano una terribile hybris alla ricerca
inesausta del «loro posto e del loro ordine naturale», ci sembra adombrarsi
quell'ulissismo giudaico (che possiamo integrare a proposito delle nostre
analisi sul mare), ci sembra affiorare quell'inquietudine ancestrale di
colpa-espiazione, che appartiene alla 100 Emanuele Severino, ad es., che allo
studio di Parmenide ha dedicato tutta la sua vita, bolla l'interpretazione
michelstedteriana del filosofo eleate come un "colossale equivoco":
ma ravvisa proprio in quell'equivoco uno dei picchi di feconda originalità del
Nostro. Ci trova d'accordo. 101 Cfr. la già cit. Prefazione. Per il giudizio di
Aristotele, cfr. Fisica, 191a - 25: «[...] quelli che primamente filosofarono,
indagando sulla verità e sulla natura degli enti, furono tratti, per così dire,
verso una via sbagliata, spinti dalla loro inesperienza» [tad. A. Russo, in
Aristotele, Fisica, 3° vol. delle Opere, a cura di G. Giannantoni, Laterza,
2001 (VI ed.), pag. 21]. 102 Sono i vv. 9-12 del frammento B 115 [i versi della
nostra epigrafe sono immediatamente successivi]. Come nota anche il Campailla,
nell'edizione del Diels si legge waedovtoc (splendente), anziché axauavtoc
(infaticabile). Abbiamo utilizzato la traduzione contenuta in | P resocratici,
cit., pag. 411 [cfr. la nostra nota 9], sostituendo però opportunamente i due
termini, 103 De Iside, 361 c matrice profondamente ebraica di Michelstaedter,
per quanto egli stesso cercasse con forza di separarsene'. Il popolo ebreo,
nella sua tormentata storia, questo condivide con le anime di Empedocle: «ogni
elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano». Ma ovviamente, questa
condizione di esilio eterno, così specifico per l' "ebreo errante",
si amplifica subito a cifra dell'intera condizione umana: lo nota a suo tempo
già Plutarco, il quale in un'altra sua opera afferma: «Empedocle [...] mostra
che non soltanto egli stesso ma tutti noi siamo qui come emigrati, stranieri ed
esuli... Va in esilio [scil. l'anima] ed è errabonda spinta dal volere e dalle
leggi degli dei».'°9 Eppure, queste anime espiano un delitto di cui non hanno
in fondo colpa, essendo vittime addirittura innocenti di un polemos che le
trascende: quello, universale e perenne, tra l'Amicizia [Phila] e la Contesa
[Neikos], le due forze divine che, a questo punto, data la curvatura della
nostra interpretazione, ci arrischiamo d'assimilare alla Persuasione e alla
Rettorica, così come delineate - nella loro impersonalità e quasi-trascendenza
- nella tesi 104 contenuto in | Presocratici, cit., pag. 440 105 In più passi
di lettere, Michelstaedter mostra insofferenza nei confronti della coeva
gioventù ebraica, che pullulava a Gorizia (città da tempo immemorabile, data la
sua vocazione commerciale, sede di una nutrita comunità ebrea [ma, per ciò,
cfr., tra gli altri, A. Arbo, Carlo Michelstaedter, ed. EST, pagg. 4-5 e
oltre): anzi, i coetanei ebrei diventano bersaglio di feroce ironia, quella
medesima ironia che il giovane filosofo ostenta nei confronti dello stesso
apparato religioso ebraico, soprattutto nelle sue forme più esteriori, retrive
e "teopompe". Si prenda ad es. la lettera del 29 febbraio 1908 alla
famiglia: «Molto piacere mi fece il furto delle corone - era un principio di
dissolvimento quale si doveva alla memoria di zio Samuel [probabilmente,
Samuele Luzzato]. Rabbia mi fa la reazione degli altri che fanno subito la
sottoscrizione - porci - neocattolici! - faranno di nuovo Hanukà [la
"festa dei Tabernacoli", nella religione ebraica, appunto] per
purificar i tempio? E se la prendono con te questi imbecilli perché non dai il
sacro obolo; ma che cosa pretendono? -». [E 295; le esplicazioni in parentesi
quadre, riportate all'interno del brano, anche del seguente, appartengono al
Campailla, leggermente ritoccate da noi] AI contrario, il Goriziano si mostra
interessato al misticismo cabalistico (si legga con attenzione il passo che
riportiamo, dato che, tra i tanti importantissimi rilievi, in esso si scorgerà
anche l'embrione della filogenesi speculativa del Nostro): «A proposito di
misticismo ho in mente una cosa graziosa. Tu sai [Michelstaedter si sta
rivolgendo a "Gaetanino" Chiavacci] che la ragione dell'antisemitismo
filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il razionalismo della religione ebraica
(pensa al Pentateuco e a Spinoza!!!) e la mancanza dell'elemento mistico nelle
menti ebraiche (Nietzsche dice ‘elemento dionisiaco'; quello che è distrutto da
Socrate; osserva le parallele: da Socrate attraverso Platone al misticismo
neo-platonico - da l'ebraismo a Cristo). - Ora io sono convinto [...] che
l'appunto è giusto [...]; tanto più mi meraviglia l'esistenza di un'intera
letteratura cabbalistica [sic, anche oltre], e una diadoché di taumaturghi che
finisce [...] col mio bisnonno, il rabbino Reggio, detto il Santo [è Isacco
Samuele Reggio, uno dei fondatori del Collegio Rabbinico Italiano; nota di
Campailla]. lo voglio sapere qualcosa di più preciso su quella letteratura
cabbalistica, specialmente sulle sue origini, poi voglio farmi consegnare
dall'archivio i resoconti protocollati di tutte le sedute in cui quel mio
bisnonno compì atti solenni di purificazione con mezzi cabbalistici [... ];
peccato siano scritti in ebraico, ci dovrò faticare per capirli bene [... |»
[lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267-268; le parentesi tonde e i
corsivi all'interno del brano sono di Michelstaedter]. Notiamo, en passant, che
Michelstedter (parafrasando Canetti) dell'ebraismo non ha "salvato"
la lingua («... peccato siano scritti in ebraico...»); che l'accusa di
"razionalismo" ch'egli rivolge al Pentateuco e a Spinoza noi l'abbiam
fatta ricadere anche su lui medesimo; e infine il significativo accenno all'
«elemento dionisiaco» nicciano, su cui avremo modo di tornare largamente nelle
integrazioni sulle varianti deboli della Persuasione. Per tutto questo, ci
rammarica aver relegato in una nota un aspetto così importante e complesso
della formazione michelstaedteriana, spinti da una certa selezione
argomentativa (se si volessero approfondire tutti gli aspetti di quella
formazione si stilerebbe una tesi mastodontica). Un'ultima cosa: per la cronaca,
la famiglia di Carlo apparteneva al ceppo occidentale prevalente nella comunità
goriziana, quello ashkenazita [cfr. A. Arbo, Carlo Michelstaedter, cit. pag.
5]. 106 Plutarch. de exil. 17 pag. 607, come recita l'edizione | P resocratici,
cit., pag. 410, in cui è contenuto il riferimento. accademica del Goriziano
[cfr. supra]. E, sotto questo rispetto, le analogie sono davvero sorprendenti
ed istruttive. Vediamole. | due princìpi empedoclei si contendono il mondo, in
una lotta infinita che si realizza in una successione alterna di fasi diverse,
col ritorno periodico di ciascuna: quando predomina la Philìa, tutte le cose
(anzi, le loro radici: il fuoco, la terra, l'aria e l'acqua; in se stesse
immutabili, l'una inconfondibile con l'altra, irriducibile all'altra) sono
ricondotte all'unità, allo Sfero, l'universo omogeneo, il dio [cfr. fr. B 31]:
«d'ogni parte» uguale a se stesso. [fr. B 29; da notare l'affinità di
linguaggio col Goriziano] [... ]nei compatti recessi di Armonia sta saldo lo
Sfero circolare, che gode della solitudine che tutto l'avvolge. [fr. B 27]
Quando invece predomina l'Odio, si ha la disgregazione assoluta, la disarmonia
e il conflitto, il «vortice». «Nell'Odio [tutte le cose, le loro radici] sono
tutte diverse di forma e separate» [B 21, v.7]: all'inizio del prevalere della
Contesa sull'Armonia, «alla terra spuntarono molte tempie senza collo, e prive
di braccia erravano braccia nude, e occhi solitari vagavano senza fronte».
Questa "anarchia" delle membra, che suscitò parecchie ilarità anche
tra i contemporanei di Empedocle, vien quasi riprodotta da Michelstaedter, in
forma aneddotica, nel bizzarro dialogo tra l'io e il piede [PR 160-163]. Ma
altre simili situazioni si riscontrano in pagine, altrettanto importanti, del
lavoro accademico [almeno PR 16] e del Dialogo della salute. In particolare in
quest'ultimo: Rico: Ora la bocca non lavora più per il corpo ma lavora per sé,
l'occhio non considera più le cose vicine e distanti a difesa del corpo ma si
dà alla pazza gioia per il proprio gusto, così l'orecchio, così il tatto, le
membra a lor volta rifiutano la fatica, e ognuna per quanto sa e può ricerca e
moltiplica quelle cose che le facevano piacere prima nel servizio del corpo -
ora che hanno fatto sciopero - e ognuna le ricerca per sé. - [D 49]. Nella
situazione contemporanea, caratterizzata dal predominio assoluto della
Rettorica/Contesa, «la mala cupidine della vita [...] ha fatto perdere ogni
consistenza» a quel «nucleo di disposizioni organizzate» ch'è il nostro corpo:
«il corpo se consiste per la coesione delle molecole, perduta la solidità si
versa liquido sulla superficie del suolo e fitra in ogni fessura [...]. Noi
diciamo del gaudente che è un uomo senza solidità; i nostri padri dicevano che
liquescit voluptate » [D 50-51; corsivi di Michelstaedter]. In questa
condizione, «la fame insaziata perdura pur sempre: e la sua legge è il
godimento: e ancora le singole parti si disgregano nei loro elementi chimici
più piccoli più piccoli [sic]: che ognuno vuol vivere per sé. L'individualità si
dissolve infinitamente: e infinitamente fugge il piacere. -» [ib.]. «Ma avviene
uno strano fatto: quella dolcezza che c'era prima non c'è più poiché
apparteneva al corpo e alla sua continuazione: ognuna delle parti prova delle
amare delusioni che minacciano di guastarle la festa » [ib.]; e «chi ha perduto
il sapore delle cose è malato » [D 46]. Eppure, in questa confusione
disordinata, il «dio pudico» del piacere assicura una certa consistenza: Rico:
lo credo che egli [il dio] abbia a mano ogni disposizione del corpo e tutta la
varietà delle cose. E benevolo al corpo, egli metta nelle cose che gli sono
utili una luce, e la faccia brillare fin quando la cosa è utile - e poi la
spenga così che la cosa resti oscura all'animale che ne è sazio. [D 42-43] Questo
«dio sapiente spegne la luce quando l'abuso toglierebbe l'uso», assicura una
sorta di omeostasi all'organismo, ne scongiura la dispersione, lo fa continuare
a vivere come individualità: da questo principio di equilibrio (accenno di
Armonia), che ci assicura una consistenza per quanto falsa ed illusoria, si
spiega il filo d'Arianna che può condurci alla vera consistenza, quella della
Persuasione, Armonia eccellente. Il meccanismo sarà, almeno nelle modalità, il
medesimo: «togliere l'uso» delle cose attraverso il piacere, vanificare la
forza rettorica del desiderio, perché «più il vano chiede e più bisognoso si
rende» [D 58]. AI contrario, il vero piacere giungerà al Persuaso «dalla
sicurezza interna della pace» [D 66], quando le cose più non «ci avranno» [cfr.
D 38-39]. Questo filo di Arianna, che abbiamo ipotizzato nel Dialogo, si fa
decisamente manifesto nelle parole di Michelstaedter nel suo piccolo ma
densissimo saggio sul Prediletto punto d'appoggio della dialettica socratica
del 1910, anno della sua morte, e dunque espressione ultima del suo pensiero.”
Riportiamo per intero il passo, data la sua estrema importanza, a questo punto:
L'unica via di chi permane è la sua forza. La sua forza di non esser schiavo
nel futuro, di tener raccolta nel presente la propria vita. Socrate non può che
appellarsi a quello che ognuno può aver sperimentato della propria forza, o che
almeno conosce indubitatamente necessario, della quale a ognuno son noti gli
effetti, e della cui mancanza a ognuno noti i danni. Ed è quella che in
rapporto al giro finito dei bisogni elementari, concreti e vicini al nostro
corpo, si manifesta cminarli e tenerli nascosti, ognuno col criterio della
salute del tutto. La forza colla quale uno insegna alla sua bocca a starsi
contenta a quello che è conveniente al bisogno del corpo, e a non correre nel
tempo sempre nuove cose mangiando, perciò che la gola ribelle le finga l'ultima
felicità sempre via nel prossimo boccone. Per questa forza che la maggioranza
degli uomini ha, il loro corpo è un corpo. E quello e questo vicini a ognuno!®,
«'Enucleando' il senso e i modi di questa vita elementare, Socrate ha modo di
portar vicina la vita lontana [...}>: «egli dà valore alla salute dei
bisogni elementari solo come analogia del bisogno della persuasione »'°9
[significativo corsivo di Michelstaedter]. Alla luce di quanto detto, troviamo
incredibile come anche la critica più attenta - alludiamo soprattutto al
Campailla e alla Raschini - non abbia sviluppato a sufficienza questa
"dritta" che il filosofo goriziano ci consegna in questo importante
scritto; noi siamo invece d'altro107 La redazione cui si fa riferimento nella
nostra analisi e nelle nostre citazioni è quella contenuta nell'edizione curata
da Gian Andrea Franchi, per i tipi dell'Agalev, 1988; ovvero, le pagg. 95-100.
108 Ib. pag. 97, come quella appena successiva. 109 Ib, pagg. 97-98-99 passim.
avviso, e cerchiamo di trarne coerente sviluppo, approfondendo ancora il
parallelismo con Empedocle. Dunque, c'è analogia tra il bisogno elementare e il
bisogno della Persuasione: è come se, in tempi magri, un'immagine sbiadita
della Persuasione sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio
omeostatico (chimico-fisiologico) del nostro corpo. Ancora Plutarco, che si sta
rivelando anche agli esegeti moderni come uno dei più validi interpreti di
Empedocle, ammette che i due principi cosmici dell'Armonia e della Contesa si
riflettono in certo modo, secondo il filosofo agrigentino, in ciascuno di noi:
«ciascuno di noi, nascendo, è preso e guidato da due destini e demoni [... ]10:
cosicché, accogliendo la nostra nascita i semi di ciascuna di queste affezioni
e per ciò stesso avendo molteplici anomalie l'uomo assennato si augura bensì le
cose migliori, ma si aspetta le altre, e di entrambe si serve evitando l'eccesso»!!!.
Certo, evitando l'eccesso. Perché un eccesso di Armonia è foriera di morte
almeno quanto un eccesso di Contesa. Nota Aristotele: «...] la Contesa è causa
della corruzione non meno che della realtà delle cose; similmente neppure
l'Amicizia è la causa della realtà delle altre cose, poiché le distrugge
raccogliendole nell'uno»'!7. L'Armonia porta vita, attraverso un processo prima
di "distinzione", quindi di "ri- compattazione" degli
elementi dalla dispersione discorde; ma porta morte, perché un suo eccesso fa
ricadere a sua volta gli elementi in un'omogeneità letale''° ch'è propria dello
Sfero (proseguendo nel parallelismo, la Persuasione conduce alla vera
consistenza, alla vera vita; ma, a sua volta, raggiunto il suo apogeo, il suo
appagamento, coincide con la morte, perché - in quel punto - la vita perde
"il suo esser vita", che coincide proprio col conatus, con la
deficienza). Di contro, la Contesa conduce alla morte, perché distrugge la
consistenza assicurata dall'Armonia; ma porta anche vita, dato che promuove la
distinzione degli elementi (delle radici) dall'indistinzione dello Sfero, del
dio (la Rettorica, al suo apogeo, per Michelstaedter fa /iquefare il nostro
corpo, nella dispersione puntuale del piacere; eppure essa assicura la vita,
che consiste nel retto conatus verso la Persuasione: come detto, c'è analogia
tra il bisogno elementare e il bisogno della Persuasione). 10 "{...]la dea
Ctonia e la dea Solare dall'acuto sguardo a Discorde sanguinosa e l'Armoniosa
dal grave sguardo, a Bella, la Brutta, la Veloce e la Lenta a Vera Amabile e
l'Oscura dai neri capelli" [fr. 122] 11 Plutarch. de trang. an. 15 pag.
474 B, come recita l'edizione | Presocratici, cit., pag. 413, in cui è
contenuto il riferimento. 12 L'appunto è volto criticamente all' "incoerenza"
di Empedocle, ma non per questo motivo c'interessa. Inoltre, perché a nostro
parere più consona all'atmosfera del nostro discorso, preferiamo questa
traduzione di Metafisica B 4 1000b 10 sgg., contenuta in | Presocratici, cit,
pag. 344, alla corrispondente traduzione di G. Reale, nell'edizione della
Metafisica da lui curata per i tipi della Rusconi [1993, pag. 113], che è pure
l'edizione che teniamo presente nella nostra tesi. 113 Letale, perché
compromette il principium individuationis. Quindi, sia per il filosofo
goriziano che per quello agrigentino Duplice è la genesi dei mortali, duplice è
la morte: l'una è generata e distrutta dalle unioni di tutte le cose, l'altra,
prodottasi, si dissipa quando di nuovo esse si separano. [fr. B 17, vv. 3-5]
Entrambi, quando parlano di vita e di morte, si rendono ben conto che « è
giusto chiamarle [così], ma anche io parlo secondo il costume» [fr. 9, v. 5].
Per entrambi si tratta di definire esattamente il senso opportuno delle parole,
e di adagiarsi solo per comodità sul loro senso comune. Per entrambi, ancora,
si tratta di tracciare un difficile equilibrio (l'equilibrio del falco) tra le
due facce bifronti dell'Armonia e della Contesa, della Persuasione e della
Rettorica: per entrambi, nel «retto discorso» [fr. 131, v. 4] sono unificate e
armonizzate nell'unità, ad opera dell'Amicizia, le cose divise dalla
Contesa." Il difficile equilibrio si gioca tra Phila e Neikos, ed in
questo equilibrio consiste il principium individuationis che concretizza la
sostanza informe nell'attualità dell'individuo, altrimenti irrealizzabile
nell'incongruenza discorde o nell'omogeneità armonica «avvolta dalla
solitudine». Empedocle, tuttavia, avverte per quest'ultima condizione una sorta
di nostalgia (e si rammenti la nostalgia di Itti per il mare): come visto,
l'uomo per lui è come un esule cacciato da un mondo perfettamente armonico ed
omogeneo (alla stregua di un'età dell'oro), e deve perciò rassegnarsi a vivere
nella realtà dei fenomeni che nascono e muoiono: similmente, nell'individuo
rettorico (anch'esso «bandito da dio») sopravvive una non ben definita
aspirazione per una condizione edenica di completezza, che non si rassegna, ma
che si svia in un desiderio inautentico di appagamento, sbiadito ricordo di
quella completezza, come l'amore è sbiadito ricordo della condizione androgina
nel noto dialogo platonico. Empedocle, inoltre, condivide con Eraclito e
Parmenide (e Michelstaedter con tutt'e tre) la polemica contro il sapere comune
e superficiale, che disdegna la verità dello Sero, si accontenta delle
multiformi apparenze delle cose e non perviene ai fondamenti dell'Autentico:
gli uomini (che si mettono in «posizione conoscitiva», direbbe il Goriziano)
sono come bambini cui sfugge il significato ultimo delle cose. Ed una delle
espressioni più alte di questo Autentico è la consapevolezza, che dovrebbe
essere una delle fondamentali conquiste umane, di una consustanzialità che
attraversa, senza soluzione di continuità, tutti gli enti: proprio l'identità
delle cause che regolano le trasformazioni naturali fa dell'universo un'unica
comunità dove tutti gli enti, viventi e no, coesistono allo stesso titolo, e
dove tutti gli enti partecipano sia degli aspetti divini o eterni (le radici,
Amicizia e Contesa) sia degli aspetti (apparentemente) transeunti (i fenomeni):
114 Cfr. Ippolito, ref. VII 31 pag. 261, come recita l'edizione | P
resocratici, cit, pag. 415, in cui è contenuto il riferimento. similmente,
nella prospettiva che abbiamo adottato, Michelstaedter - nella sua tesi -
allarga la sua dicotomia Persuasione-Rettorica a tutto il mondo delle cose che
esistono: il sasso, l'idrogeno e il cloro'', etc., vivono in una condizione
rettorica ed aspirano ad una condizione persuasa non meno che l'uomo. Ora,
avviandoci alla conclusione di questo complesso confronto, assicuriamo che,
ovviamente, non c'è in noi l'intenzione di adagiare la prospettiva
michelstaedteriana su una matrice di ingenuo "naturalismo dinamico":
tuttavia, ribadiamo che questa è altresì una sfaccettatura non secondaria, per
quanto interpolata, della sua Weltanschauung, almeno stando al suo lavoro
accademico (già meno nel Dialogo, praticamente assente nelle Poesie e nelle
lettere). E con Empedocle egli ha più che punti di contatto: ha punti di
incontro. Nei presupposti: il filosofo d'Agrigento, al pari del Goriziano, è
ben conscio che le cose che si appresta a dire «non sono vedute né udite dagli
uomini né abbracciate con la mente» [fr. 1, vv. 6-8; si tenga a mente l'esordio
della Persuasione]. E punti d'incontro non meno, anzi soprattutto,
nell'aspirazione finale: ch'è quella, in Empedocle, di uomini che tra gli
immortali abitando e mangiando delle angosce umane non [saranno] più partecipi,
[bensì] indistruttibili [fr. 147]; di uomini «digiuni di colpa » [fr. 144], che
aborriranno infine «l'intollerabile Ananke» [cfr. fr. 116] e che infine
abiteranno di nuovo un mondo in cui: [... ]erano tutti mansueti e benigni nei
confronti degli uomini fiere ed uccelli, e la benevolenza brillava [fr. 130]
Ovvero, tradotto in linguaggio michelstaedteriano, di uomini che abbiano
raggiunto la vera consistenza, assisi allo stesso banchetto al pari degli
immortali [gli uomini che si danno da sé la salvezza = gli dèi], in un mondo in
cui il rapporto tra gli enti sia quello di un reciproco donarsi, spontaneamente
(e si ricordi il valore dell'u/tro). Volendo davvero concludere, un appunto che
giunge /ast but not least è singolare come, a fronte di tutto questo, in
Empedocle sia individuata, già dai suoi contemporanei, la nascita, anche se non
ufficiale, della téchne retorica: suo allievo sarebbe stato addirittura uno dei
sofisti più ferrati e temuti, Gorgia. Allo stesso modo, nota già da subito
Michelstaedter, la lezione persuasa di Socrate produrrà cattivi discepoli:
Platone e soprattutto Aristotele. Ma la questione del "cattivo
apostolato" - strano e triste destino della Persuasione - sarà affrontata
in modo più opportuno e approfondito nel paragrafo dedicato all' «educazione
corruttrice» nella nostra analisi del sistema rettorico. 4d) La Persuasione
"al bivio": l'incontro di Parmenide e Cristo. La dottrina assomiglia
a due strade. Una attraversa un grande fuoco, l'altra attraversa un grande
gelo. Come comportarsi? Si scelga la via di mezzo se si vuole sopravvivere.
Proverbio cinese. La Persuasione, negli uomini''5, è una verità, una
testimonianza trasversale: attraversa la storia dell'umanità, rapprendendosi in
individui non incasellabili in specifiche categorie storiografiche, la cui
discriminante non è il tempo, la collocazione geografica o il credo religioso e
filosofico e politico. La Persuasione, pur nella sua saldezza e
nell'espressione cristallina e insieme inafferrabile del suo contenuto, pur
nell'attimo ineffabile che la "17 Il vir è sostanzia, percorre il tempo e
il mondo degli uomini, ad esso "si adatta Qohelet: vive, o sopravvive,
nella comunità rettorica in un drammatico (ma il dramma è l'agire, c'insegna
l'etimologia greca) stato di emulsione!', mentre aspira alla comunità vera,
alla agathon philia. Quest'ultima si realizza con la rottura dei labili, ovvero
falsamente saldi e sicuri, legami della Rettorica, nella costruzione di legami
nuovi, più profondi ed autentici: il vir è venuto infatti a «separare il figlio
dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera» [Matteo 10, 35]!!°.
Il suo "adattamento", dunque, non è compromesso: la Persuasione è
intransigente, severa, anche se talora più con se stessa, che con gli altri
uomini. Essa dice al suo vir (il vir dice a se stesso): «Chi non è con me è
contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» [Matteo 12, 30]. Non ammette
repliche, non ammette cedimenti o dialettiche. Non concede appelli o
ripensamenti. Il Persuaso non tentenna: è forte come la roccia, risoluto come
un dio. La sua forza non è violenza, il suo coraggio non è temerarietà: il suo
messaggio è di amore, ma il suo amore non è rassegnazione o condiscendenza al
male; il suo amore conosce lo sdegno, è capace di ira, perché è sentimento
dirompente, è un sentimento che spezza: il 115 Cfr. PR 13-14; l'idrogeno e il
cloro "si suicidano" nell'acido cloridrico, scorgendo nella valenza
l'immagine (inautentica) della loro reciproca persuasione. 116 La
specificazione, a questo punto, è d'obbligo: infatti finora, nel capitolo,
abbiamo inteso la Persuasione (e la Rettorica) come matrice strutturale
dell'intero universo: in questo paragrafo, il discorso s'incentra nuovamente
sugli uomini, ovvero, sul problema dell'uomo, nella misura in cui l'uomo è (o
quantomeno, dovrebbe essere) quell'ente che - dato il suo orizzonte di
consapevolezza e comprensione - si "apre" già sempre (o meglio,
dovrebbe guadagnarsi già sempre), per una via privilegiata, l'accesso all'
"essere persuaso". 17 Ma sul senso di questo adattamento, che non
consente malleabilità ma che invoca la "durezza", cfr. la nostra
integrazione sulla "variante flessibile" (leopardiana) della
Persuasione. 18 Un termine "tecnico", mutuato dall'ambito
chimico-fisico, ci aiuta a rendere più chiaro il concetto: come è noto,
‘emulsione indica la mescolanza di due liquidi non solubili tra loro, uno dei quali
è disperso nell'altro sottoforma di minutissime gocce [definizione del diz.
Garzanti] 19 Nel'affrontare questo punto, assumiamo ad esempio assoluto di
Persuasione il Cristo, il vir per antonomasia, secondo le conclusioni dello
stesso Michelstaedter. Per le citazioni che seguono, privilegiamo la fonte del
Vangelo di Matteo, data l'importanza che tale Vangelo assunse, come visto,
nell' "îÎmmaginario persuaso" del Goriziano. vir scaccia i mercanti
dal tempio, perché il tempio è divenuto una «spelonca di ladri» [Matteo 21,13].
Egli dimostra zelo per il tempio, per la propria casa: quello zelo lo divora
[Giovanni 2,17]. «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» [Giovanni 2,21]. Il
vir si mantiene puro per il sacrificio di se stesso, perché il sacrificio acquisti
più forza e significato. Fino a quel momento, la sua è «un'intenzione morale in
lotta». Infatti, il suo grido, seppur non di vendetta, è tuttavia un appello
alla lotta, a non cedere: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla
terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada» [Matteo 10, 34], dice
il vir. Il Cristo - il Persuaso'” - dunque, ci pone dinanzi ad una perentoria
dicotomia esistenziale: una ed una sola è la via della Persuasione; tutto il
resto appartiene alla Rettorica. Tertium non datur. La soluzione che ci
suggerisce il proverbio cinese di cui sopra (di «Scegliere la via di mezzo se
si vuole sopravvivere») non è messa in minimo conto: è valutata come situazione
di compromesso, di malafede. C'è una sorta di ostinata coerenza che accompagna
la Persuasione, dall'inizio alla fine della sua testimonianza. Ora, è proprio
su questa comune terra di confine che Michelstaedter allestisce l'originale
incontro di Cristo con Parmenide: in modo significativo, il vertice (o uno dei
vertici) della genuina speculazione greca si sposa col vertice della più grande
testimonianza della Persuasione in assoluto, nella comune forza e perentorietà
del loro autaut'’’. E' solo il caso di accennare che, anche qui, come sempre,
siamo in presenza di una "lettura forzata" condotta dal Goriziano sul
filosofo di Elea: per la sua comprensione, noi siamo costretti a seguire questa
eterodossia. L'impressione che ne ricaviamo è che Michelstaedter
"corregga" (se ci è lecito esprimerci così) l'assunto parmenideo in
direzione cristiana, anzi cristologica, ovvero etico-esistenziale; e che,
viceversa, corrobori l'ipostasi cristologica con apporti del "metodo"
parmenideo, ovvero assicurando a quell'ipostasi una "piattaforma" logico-ontologica.
Il testo parmenideo (dunque particolarmente caro a Michelstaedter, come
testimoniano le citazioni che ne trae, non solo numerose, ma anche cruciali)
esordisce con la narrazione di un viaggio compiuto attraverso la «via del dio»:
ogni contorno fisico sfuma però subito nell'allegoria: l'Eleate è scortato
dalle figlie del Sole e condotto al cospetto della dea Giustizia, l'Immutabile
Legge del cosmo, la verità che si svela. E' proprio la Giustizia che,
«benevolmente », rivolge la parola a Parmenide: O giovane, [...] 120 Cfr. la
diapositiva E [Volto di Cristo e Schizzi di alberi] nel supporto iconografico.
121 Per una sorta di automatismo mentale, si tende ad associare l'aut-aut
michelstaedteriano all'omologo conio kierkegaardiano: ma è solo una questione,
come dire, "sinonimica": l'aut-aut del filosofo danese non è
indicativo di una scelta (essendo la vera scelta quella della fede), non è
neanche, a ben vedere, un "o-o": a rigore è un "né-né": né
vita estetica, né vita etica. In Kierkegaard, tertium datur. Il terzo termine
è, appunto, la vita nella fede. salute a te! Non è un potere maligno quello che
ti ha condotto per questa via (perché in verità è fuori del cammino degli
uomini) ma un divino comando e la giustizia. Bisogni che tu impari a conoscere
ogni cosa sia l'animo inconcusso della ben rotonda Verità [alethéie] sia le
opinioni [dóxai] dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità. [B
1 v 24 e vv. 26-30]. Dunque, in modo rigoroso, ci sono due e solo due
"vie", ovvero possibilità, aperte all'esistenza e al pensiero; il filosofo
"venerando e terribile" le presenta come rivelazione di una dea, da
ritenersi quindi espressione adamantina e necessaria della verità: l'una
consistente nel pensare ciò «che è [estin] e che non è possibile che non sia»,
l'altra consistente nel pensare ciò «che non è [ouk estin] e che è necessario
che non sia»; e appena dopo aggiunge, sempre per bocca della dea, che la prima
via è quella conforme a verità, della quale dunque si deve essere persuasi [«è
il sentiero della Persuasione»], mentre la seconda è impercorribile, perché «il
non essere» [to me eon] non può essere né pensato né detto [cfr. frammento B 2
passim]. Quest'ultima è «impensabile e inesprimibile (infatti non è la via
vera)», «l'altra invece esiste ed è la via reale» [cfr. frammento B 8 vv.
21-22]. Ora, quello che c'interessa non è tanto indagare l'ontologia rigorosa
che segue simili affermazioni: ovvero, le caratteristiche del "ciò che
è" (l'eternità, la finitezza come perfezione, l'omogeneità, il vincolo cui
è costretto dalla Necessità...) sussunte nella nota immagine della Sfera; anche
se sarebbe istruttivo individuare - ma non è neanche molto difficile farlo -
certune ispirazioni che il filosofo goriziano mutua dall'essere parmenideo per
la definizione del suo "solido" peve’. Quel che ci interessa,
piuttosto, è vedere il legame che viene ad intrecciarsi tra Persuasione e
Verità, nel senso genuinamente greco del termine, tradito nella traduzione
posteriore (ad esempio, già in Cicerone). Heidegger (e forse prima di lui Ortega
y Gasset nelle Meditaciones del Quijote) ci ha insegnato che, in proposito,
bisogna far ricorso ancora una volta all'etimologia per giungere al cuore della
questione: infatti, il termine greco sembra derivare da /anthano che vuol dire
"coprire". Da /anthano proviene Lete, che è il fiume della
dimenticanza, il fiume che copre. Alètheia, con l'alpha privativo, è il
contrario di ciò che si copre: il "non-nascondimento", il
"dis-velamento"'8. Ma in cosa consiste quel "velamento",
che cos'è quell'oblio? Per Michelstaedter - ed è qui il senso della lettura
forzata ch'egli fa di Parmenide - esso coincide col mondo della Rettorica. La
seconda parte della sua tesi di laurea - la pars destruens - è interamente
dedicata appunto alla "de-costruzione" dell'inganno rettorico, allo
smascheramento del suo dispositivo: la Persuasione si porrà, in quelle pagine,
innanzitutto come "dissuasione" 122 Da confrontare, ad esempio, le
affinità tra espressioni che connotano il dio-Persuaso di Michelstaedter e i
sémata dell'Essere di Parmenide nel frammento B 7 vv. 7-10 soprattutto. 123 In
questo senso, è anche possibile che, ad un orecchio greco, oltre che al
"nascondimento", la verità si opponesse all' "oblio": così,
si spiegherebbe il legame della Verità con il carattere rivelativo della
memoria Imnemosyne], tipico del pensiero arcaico greco, faro principe
d'illuminazione per il Nostro. (il valore dell'alpha privativo), come verità
negativa, o meglio, che si evince dalla negazione dialettica e puntuale della
Rettorica, negazione giocata nel concreto della vita e del mondo‘. Eppure,
l'interpretazione michelstaedteriana di Parmenide non è, poi, del tutto
gratuita o fuori luogo: a ben vedere, lo stesso Eleate autorizza lo slittamento
del discorso in prospettiva etica: in lui, l'opposizione tra "essere"
e "non essere" (ovvero tra ragione e sensibilità) è così radicale che
su di essa egli fonda la distinzione tra due tipi di uomini - appunto, quelli
che seguono la ragione e quelli che si fermano ai sensi: il frammento B 6 ne è
prova palese; gli uomini rettorici - ci dice Michelstaedter - assomigliano
molto da vicino alla «gente dalla doppia testa» stigmatizzata da Parmenide:
uomini che [... ] vengono trascinati insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente
che non sa decidersi, da cui l'essere e il non essere sono ritenuti identici e
non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino. [B 6, vv. 7-10
J15. Lo slittamento di cui sopra viene sostanziato con l'opportuno innesto
della lezione evangelica: la dicotomia essere/non-essere si svincola dalla
strettoia ontologica per ampliarsi nell'apertura etica, secondo la
testimonianza del Cristo: le due vie annunciate da Parmenide divengono
esclusivamente, o prima di tutto, alternative esistenziali: l'accesso ad esse
si avrà attraverso le due porte indicate dal vir: 124 Questo aspetto è stato
colto solo in parte da buona parte della critica, e qualora lo sia stato, è
stato a nostro parere non esattamente interpretato: Maria Adelaide Raschini,
che rappresenta l'approccio della critica cattolica al Nostro, ne desume ad
esempio una sorta di «antropologia teologica negativa» (o addirittura «teologia
antropologica», per cui vd. oltre) bic, in M. A. Michelstaedter, La disperata
devozione, ed. Cappelli, 1988, pag. 138], facendo del Goriziano un redivivo
Pseudo-Dionigi. L'appunto, dicevamo, per noi non è corretto: Michelstaedter,
come stiamo tentando di dimostrare nella nostra analisi, non appronta una
"definizione" per viam negationis della Persuasione: tutt'altro, ed è
qui proprio la sua (e la nostra) difficoltà. E' altrettanto vero, comunque, che
la "monadologia persuasa" del filosofo goriziano acquista più senso e
più nitidezza nello scontro, nell'agonismo con la Rettorica, perché si cala dal
piano astratto a quello esistenziale. E' bene ribadire, anche se in nota,
questa nostra posizione, e proprio in contrasto con le conclusioni della
studiosa su citata: la Raschini, infatti, coerentemente alla sua impostazione,
compendia e sottolinea che «l'uomo della persuasione si afferma del tutto
negativamente, attraverso la pura negazione di tutto ciò che è finito.
Rifiutato il mondo, nessuna categoria mondana gli vale più, vuole per sé la
dimensione teologica; tuttavia, avendo respinto, di questa, il contenuto di
verità, la dimensione teologica si trasforma per lui nell'atto assoluto del
negare: teologia antropologica costruita per negazioni, nella quale l'esigenza
mistico-panteistica viene soddisfatta dal puro e assoluto atto del negare».
[ib. pag. 125; corsivi dell'autrice]. Come si può vedere, ci troviamo agli
antipodi: per noi, il momento della negazione in Michelstaedter non è assoluto,
ma funzionale (ovvero, condizione mediatrice, e non conclusiva)
all'affermazione positiva dell'ipostasi persuasa; un'ipostasi che non nega,
pregiudizialmente, ogni "finito", ogni "categoria mondana"
in toto, ma solo quelle attinenti alla falsità ed al dominio rettorici: in
questo non c'è alcuna aspirazione teologica, ultramondana, o peggio
anti-mondana, come sembra trasparire dai giudizi della studiosa cattolica; tutt'altro:
se il vir nega il mondo rettorico (la precisazione è sempre d'obbligo), lo fa
in funzione di un'apocatastasi del mondo umano stesso in una società
"globale" (diremmo oggi) persuasa, di cui l'amore e l'armonia
riusciranno ad essere le sole leggi. E' questa la potenza, e l'utopia positiva
e "programmatica", del messaggio michelstaedteriano, come stiamo
affermando - sempre, e con insistenza - nel corso del nostro lavoro. 125 Versi
importanti che il Goriziano, non a caso, pone ad epigrafe del Il capitolo del
suo lavoro accademico: L'illusione della Persuasione [PR 11]. Chi cerca trova e
a chi bussa sarà aperto... Entrate per la porta stretta, perché larga è la
porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che
entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce
alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano [Gesù, nel Vangelo di
Matteo 7,1-14]. L'inclusione degli uomini nella agathon philia, nella ekklesìa
persuasa, avverrà attraverso l'accesso non privilegiato della «porta stretta»,
il che vuol dire che comporterà una tempra ed un sacrificio
"sovraumani", cioè al limite delle possibilità dell'uomo: l'uomo
nuovo dovrà rinunciare alla sua condizione sicura, dovrà rimettere in
discussione ed esporre al rischio la propria "stabilità" quotidiana,
per aprirsi alla dimensione autentica, all' "attimo carismatico"
della Persuasione. Come vir, l'uomo nuovo vive la sua vita in profonda
relazione con la Persuasione, già immerso nell’eternità che trascende il tempo
nell'attimo della «vita che non si nega», eppure accetta contemporaneamente di
indugiare nel tempo del mondo, nella storia, nella carne, per condividere la
vita degli uomini, per soffrire e "risorgere" con loro, per essere
testimonianza. Nel momento in cui il Persuaso si emancipa dalla sua condizione
umana (rettorica), egli realizza la sua condizione umana autentica, la sua
entelechia come uomo: la Persuasione è, a dispetto di quanto si sia disposti a
credere, la condizione totale dell'uomo, la realizzazione completa e assoluta
delle sue possibilità in atto. «Non ti meravigliare se t'ho detto: dovete
nascere di nuovo. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di
dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito» [Gv 3,7-8]. Il
fatto paradossale è che per conquistare questa sua autenticità in atto,
espressione piena ed estrema delle proprie potenzialità, l'uomo deve
attraversare il golgota che conduce sulla, o che coincide nella, via della
Persuasione '?9. Già solo da questo punto di vista, dunque, già solo nel suo
accostamento a Parmenide, la proposta di Michelstaedter dovrebbe essere
costantemente ammirata come esempio di un pensiero così rigoroso e coraggioso
da non fermarsi neanche di fronte alle affermazioni più "assurde" e
contrarie all'esperienza, neanche di fronte al confronto con i
"grandi". In effetti, l'apporto parmenideo, nella prospettiva del
Nostro, non si fermerà alla considerazione di una possibilità esistenziale
vera, e non filistea, o rettorica; le intuizioni del filosofo di Elea, svolte
con lucida logica deduttiva a partire dal paradosso dell'Essere che soltanto ha
diritto di essere, coinvolgeranno anche la componente linguistica e
"scientifica" che pregiudica un corretto accesso alla Verità: per
Parmenide il linguaggio e la scienza (entrambi strumenti della doxa) degli
uomini «dalla doppia testa» ne 126 L'eccessivo ricorso al dettato
neotestamentario e il tono "ispirato" di certe nostre espressioni
rischierebbero di denunciare un appiattimento della Persuasione sull'esperienza
cristiana: per scongiurare un simile equivoco, e per ristabilire un certo
equilibrio, riteniamo opportuno ricordare che per Michelstaedter il vir
mantiene una sua forte, assoluta valenza autonoma, non riconducibile affatto
alla testimonianza del Cristo come figlio di Dio: certo, utilizzare la vita e
la parola di Gesù, ci aiuta - a mo' di scorciatoia e secondo indicazioni dello
stesso filosofo - a diradare la complessità della dimensione persuasa; ma si
tenga sempre a mente il ribaltamento di prospettiva (laica, o - azzardiamo -
ebraica) con cui egli si pone di fronte alla sua preferita prosopopea del vir:
per dirla in parole davvero semplici, il Cristo - quel Cristo
"monofisita" che ricordava Campailla - è soltanto uno della schiera
dei Persuasi. E, non per nulla, condivide la sua condizione con un Parmenide o
un Empedocle, giusto per accennare ai filosofi appena trattati.rappresentano la
via artefatta e deleteria, «il sentiero della notte», la scorciatoia che
pretende di assegnare valore alle cose e agli uomini con la vana sostanza dei
nomi, delle convenzionali parole poste dagli uomini stessi, immagini di
concetti, e dunque copia di copia. La scorciatoia che prende in prestito la
genuina aspirazione della Persuasione: quella di vedere le cose, benché
lontane, [...] col pensiero saldamente presenti [cfr. fr. B 4, v.1] e la
vanifica, perché la risolve in un presente che non è l'attimo del vir, ma l'hic
et nunc della storia, dove le cose - sottratte con la violenza al loro
"luogo naturale", alla loro condizione persuasa - sopravvivono nelle
ipostasi rettoriche di ma falsa consistenza, nelle maglie di relazioni logiche
e linguistiche che garantiscono solo una corrotta permanenza, un'illusione di
permanenza e autonomia. Le cose, e gli stessi uomini, divengono - direbbe
Heidegger - semplice-presenza, oggetti a portata di mano [vorhanden]. Una
situazione di hybris, determinata da una sacrilega immissione della temporalità
e della alterità nella perfezione sferica dell'Essere, hybris per la quale
l'essere [è distaccato] dalla sua connessione con l'essere [cfr. fr. B 4, v. 2]
che per Parmenide è peggio di una bestemmia. Michelstaedter svilupperà con
fedeltà e coerenza queste indicazioni dell'Eleate: anche per lui il linguaggio
e la scienza (col suo braccio armato, la tecnica) rappresenteranno le estreme
conseguenze del feticismo rettorico per la falsa permanenza della
"cosa" e del "fatto", in un'oggettività che esercita
violenza, perché strumentale e appunto "tecnica". La loro [i.e. degli
uomini rettorici] memoria è fatta di [...] cumuli di disposizioni che aspettano
le forme consuete per riconoscerle; ed essi riferendovisi con parole non le
comunicano, non le esprimono ma le significano agli altri così da bastare agli
usi della vita. Come uno muove una leva o preme un bottone d'un meccanismo per
aver date reazioni, che le conosce per le loro manifestazioni, per ciò che
d'indispensabile gli offrono, ma non sa come procedono, ma non le sa creare -
egli vi si riferisce soltanto con quel segno convenuto. Così fa l'uomo nella società:
il segno convenuto egli lo trova nella tastiera preparata come una nota sul
piano. E i segni convenuti si congiungono in modi convenuti, in complessi
fatti. Sul piano egli suona non la sua melodia - ma le frasi prescritte dagli
altri. - [PR 112; corsivi di Michelstaedter] Ma la vera funzione organica della
società è l'officina dei valori assoluti, la fornitrice dei 'luoghi speciali' e
‘comuni’: la scienza. Che con l' 'oggettività' che implica la rinuncia totale
dell'individualità, prende i valori dei sensi, o i dati statistici dei bisogni
materiali come ultimi valori, e fornisce alla società col suggello della
saggezza assoluta ciò che per la sua vita le è utile: macchine, e teorie d'ogni
genere e per ogni uso - d'acciaio, di carta, di parole. [PR 125; corsivi di
Michelstaedter] Ma approfondiremo la questione a tempo debito, nel capitolo
dedicato alla Rettorica. Qui, quel che ci preme evidenziare è che è proprio il
suddetto nesso vicinanza-lontananza [quello del frammento B 4] a contessere la
trama e l'ordito del lavoro accademico del Goriziano: quel nesso sembra davvero
assurgere a pietra limite del corretto rapporto delvir con se stesso e con il
mondo e il filosofo individua in esso il perno intorno al quale ruota tutta la
sua visione persuasa. L'homo, infatti, sfalsa la giusta prospettiva tra
vicinanza e lontananza del/dal vero, alla stregua di un binocolo rovesciato:
ritiene di allontanare la morte, che sempre gli è vicina; ritiene di avvicinare
le cose, di averle a portata di mano, dando loro una valenza, una strumentalità
che invece è lontana dal loro giusto valore. La prospettiva distorta
dell'ilusoria persuasione ci crea un presente che è un gigante coi piedi di
argilla, dato che si frantuma sotto l'incessante, sempre incombente premere
della deficienza, la quale ci differisce puntualmente il riposo della (falsa)
persuasione, finta nell'appagamento del desiderio di continuare la vita. Perché
non possediamo mai la nostra vita, l'aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle
cose che ci sono care perché ‘contengono per noi il futuro', per essere anche
in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care
per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di tutto. [D 39] L'uomo
rettorico, così facendo, ovvero [...] mancando di sé stesso nel presente egli
si vuole nel futuro - questo egli non può che per la via delle singole
determinazioni organizzate a farlo continuar a voler così anche nel futuro.
Egli si gira per la via dei singoli bisogni e sfugge sempre a sé stesso. Egli
non può possedere sé stesso, aver la ragione di sé, quanto è necessitato ad
attribuir valore alla propria persona determinata nelle cose, e alle cose delle
quali abbisogna per continuare. Ché da queste è via via distratto nel tempo. -
Il suo avvenire alla vita mortale: il suo nascere è nella altrui volontà; il
pernio [sic]intorno cui si gira gli è dato, e date gli sono le cose ch'ei dice
sue. [PR 20] Questa condizione differita il dominus se la fa scivolare addosso,
mentre essa coglie drammaticamente di sorpresa l'homo. La tecnica retorica
preferita dal dominus è la preterizione, perché egli simula una persuasione che
non ha, una lontananza che non ha attinto: in questo, egli dimostra di avere
una «previsione più organizzata a una più vasta vita», ed è in ciò la sua forza;
la debolezza dell'homo è invece nella sua disperata, vulnerabile, contingente
"inesperienza" esistenziale. Ragion per cui, l'homo si adatterà a
strumento passivo di violenza, mentre il dominus si arrogherà il ruolo di
strumento attivo. L'homo, l'«uomo ammaestrato », «è ridotto a non uscir dal
punto colla sua realtà, il suo modo diretto è il segno d'una data vicina
relazione: simile all'uomo che sogna [...] s'avvicina alle cose lontane per
vedere» [PR 113]. Ma egli viene a trovarsi «come il tiratore inesperto accanto
al cacciatore [nella metafora, il dominus]»: [...] è il debole che vuole
affermarsi là dove il forte s'afferma. Ché questi ha la vicinanza dell'animale
lontano nella sua mano e nel suo occhio sicuro; quello vede l'animale in una
lontananza che come non è finita pel suo occhio è xrtopocperla sua mano: egli
ha negli occhi un'incertezza di punti, nella mano... l'arma. Nella coscienza
più vasta la stessa cosa è più reale, poiché riflette quella vita più vasta.
Questa lha di più poiché nella sua affermazione ci sono i modi della previsione
più organizzata a una più vasta vita, sufficiente a eliminare maggior vastità
di contingenze, che ha certa, finita, vicina nell'attimo una maggior
lontananza. [PR 20-21] La stessa filosofia, o ideologia (nell'accezione davvero
larga del termine), sembra offrire il destro al dominus, escogitare il pretesto
di dominio, lo autorizza sostanziandolo di sapere. La filosofia è la versione
umanistica della scienza, è la sua giustificazione "ideale": questa
ci avvicina (falsamente) le cose attraverso l'esperimento, ci fornisce
l'illusione di possederle entro i dettami razionali della formula; quella ci
avvicina (altrettanto falsamente) le cose "sublimandone" il valore in
concetto, il concetto in idea, l'idea in parola. In questo senso, per
Michelstaedter, Platone (il Platone oramai sganciato da Socrate, il Platone del
Fedro, della Repubblica e delle Leggi) è davvero il padre di tutti i domini,
per giunta scalzato da uno ancor più forte, Aristotele. Quanto il Goriziano
scrive a proposito ha una sua innegabile forza di contestazione e di
"smascheramento": Ma la necessità per gli uomini è appunto il
muoversi: non bianco, non nero [come suggerisce l'aut-aut parmenideo della
Persuasione], ma grigio: sono e non sono, conoscono e non conoscono: il
pensiero diviene [la temporalità e la differenza irrompono e trasgrediscono
l'omousia dell'essere]. | dati per sé non sono niente, dicono gli uomini: noi
dobbiamo ora prenderli, considerarli sub specie aeterni, contemplarli, e
pensando andare verso la conoscenza. Il valore, la realtà è la via: la macchina
che muove i concetti: l'attività filosofica [PR 60-61]. Nella Appendici
critiche, l'attacco diviene ad personam, ovvero condotto - volendo continuare
l'espressione del Goriziano - contro il deus ex machina dell'attività
filosofica: Ma Platone ha bisogno d'aver dagli altri il segno della propria
persona, vuol esser per loro il sapiente sufficiente a ogni cosa, e, se non può
dare vicine le cose lontane, ma le cose vicine dice e le chiama lontane -
perché esse pur siano accette alla corta vista del comune degli uomini, e
insieme conservino il nome di cose lontane: di sapienza assoluta. E perciò i
nomi che questa sapienza costituiscono, e che rifulsero di tutta la loro luce
nella bocca del vero Socrate e del vero Parmenide, devono ora per la loro
stessa bocca scendere nel fango a dar bella apparenza all'oscurità [PR 176].
1277 commesso da Platone. Sarà il vira Sarà il vir a riscattare il «parricidio»
di Parmenide ristabilire il giusto equilibrio con le cose, a
"riaggiustare" la prospettiva dialettica di vicinanza-lontananza, a
reintegrare l'omousia, operando quella che già definimmo la sua personalissima
"rivoluzione copernicana" nei rapporti con le «altrui vite» delle
cose e degli uomini. Le cose saranno davvero vicine al vir, vicina la stessa
morte, nella loro accezione autentica, nel loro valore in atto: il Persuaso
ridona valore al mondo, sospende la «relazione sufficiente» con le cose e le
sostituisce un rapporto di comunione in atto, che si realizzerà in un reciproco
donarsi ultro: le cose, potremmo dire, si "ammansiscono"; avendo
riconquistato il luogo naturale che loro compete, acquisteranno nuovo, vero
"sapore". Esse «non ci avranno» più, noi non c'illuderemo più di averle,
l'avere stesso sarà bandito, perché espressione di coartazione: gli uomini e le
cose coopereranno al senso persuaso del nuovo mondo, e la legge sarà quella che
gli uomini, anche oggi, chiamano 127 Cfr. Sofista, 241 d3. C. Mazzarelli -
curatore del dialogo in Platone, tutte le opere, cit. - fa notare che «la
ferita mortale al Parmenidismo è inferta dallo straniero di Elea, uno dei figli
spirituali di Parmenide». Notiamo noi che Platone si è riservato il pudore di
non metterla in bocca a se stesso o a Socrate. («illudendosi d'averli») amore,
o armonia. E così l'essere, per riprendere le espressioni di Parmenide e di
Empedocle, si «ricucirà» all'essere, «il simile col simile», «con legami
d'amore connettendoli Afrodite » [Empedocle, fr. 87]'”. Scrive Michelstaedter:
Ma (ancora una volta e mille volte!) soltanto se questa vastità di vita viva
tutta attualmente, saranno vicine le cose lontane. Soltanto se essa chieda nel
presente la persuasione, essa potrà reagire in ogni presente con una sapienza
così squisita, ed enunciando il sapore che le cose hanno per lei, costituire la
presenza d'un mondo che poi gli uomini dicano sapere o arte o sogno o profezia
o pazzia a piacer loro [PR 169]. Così, «l'uomo libero gode dell'altrui vita -
poiché tutte [le cose, le vite] egli vede e conosce e ama non per quanto gli
siano utili ma per loro stesse» [D 90]. Il Persuaso avrà «la gioia
dell'esistenza in mezzo a 128 Non a caso abbiamo indugiato sull'analisi di
Empedocle e Parmenide, secondo l'ottica del filosofo goriziano (ci dispenseremo
dall'accordare analoga attenzione ad Eraclito, dato che egli sostanzialmente
condivide con gli altri due, da questo punto di vista, il senso fondamentale
del suo messaggio, che Michelstaedter fa proprio). Molta critica, infatti, si
ostina a semplificare l'assunto del giovane tesista su posizioni
schopenhaueriane o leopardiane: le pagine di Michelstaedter si presenterebbero
come una parafrasi, per quanto originale, di motivi analoghi riscontrabili
nell'autore del Mondo come volontà e rappresentazione e del poeta-filosofo
recanatese (soprattutto per quanto riguarda i Pensieri e lo Zibaldone). Ora,
non vogliamo certamente negare l'evidente influenza di queste due ispirazioni
(Michelstaedter lesse di sicuro Schopenhauer e rilesse e annotò più volte i
Canti di Leopardi), come non vogliamo negare il ripetersi dei motivi conduttori
tra i tre autori: la deficienza con la Volontà (a partire dall'esempio del peso
che troverebbe un esempio "siamese" nel Mondo); la polemica
antirettorica con la polemica antilluministica e antiborghese di Leopardi nelle
Operette o nella Ginestra, tanto per far citazioni ovvie; le medesime
riflessioni sulla natura illusoria de piacere, così tipicamente umana; la
conseguente (analoga) concezione della vita come «pendolo che oscilla tra
dolore e noia»; una certa, affine, disperazione esistenziale in concreto
(soprattutto col giovane Leopardi); e via dicendo. E' de tutto palese che
Michelstaedter provi "simpatia" per questi due filosofi; altrettanto
palesi ne sono i motivi. Tuttavia, per noi, la questione è più complessa.
Cerchiamo di spiegarci: l'orizzonte entro il quale si muove la riflessione di
Michelstaedter è innanzitutto l'orizzonte greco: la sua riflessione nasce dalla
lettura e dalla intensa meditazione degli autori tragici e presocratici, e anche
di Platone e di Aristotele. Michelstaedter non solo scrive, ma pensa
grecamente. | punto di partenza è la grecità: in Leopardi e Schopenhauer (nel
loro "pessimismo") egli avrebbe trovato piuttosto un confortante e
corroborante riscontro contemporaneo di una verità che appartiene agli albori
della civiltà tragica, verità consegnata già alle beffarde e ammutolenti parole
del Sileno: «Stirpe misera e caduca, figlia del caso e della pena, perché mi
costringi a dirti ciò che è per te il meno profittevole a udire? Ciò che è per
te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile: non essere nato,
non essere, essere niente. Ma, dopo questa, la cosa migliore per te è morir
subito». Ora, il senso del nostro appunto è il seguente: Michelstaedter non
parte dalle riflessioni di Schopenhauer e di Leopardi, ma arriva ad esse
attraverso la sua consapevolezza greca (ovvero, tragica), si riscopre in esse -
si incontra con esse - sul comune terreno della grecità. E la grecità, nel
nostro autore, come nel Nietzsche della Nascita della tragedia, non è un
referente culturale e storiografico, non è un passato lontano e irrecuperabile:
è un modus vivendi sempre attuale e sempre attingibile. Il Greco, come il
Cristo, è l'Uomo par eccellence, il vir; il popolo greco non è (soltanto) il
progenitore, ma l'auspicabile rendez-vous dell'umanità occidentale,
dell'umanità tutta: Nietzsche conclude il suo capolavoro giovanile con parole
di straordinaria bellezza: « Beato popolo degli Elleni! Come deve essere grande
tra voi Dioniso, se il Dio di Delo reputa necessari tali incantesimi per
guarirvi dalla vostra follia ditirambica!' [...] - Ma un vecchio ateniese,
guardando col sublime occhio di Eschilo colui che così parlasse, potrebbe
ribattere: 'Aggiungi però anche questo tu, singolare straniero: quanto dovette
soffrire questo popolo per diventar così bello! Ora però seguimi alla tragedia
e sacrifica con me nel tempio delle due divinità' » [Nietzsche, Nascita della
Tragedia, in Opere, cit., pag. 187]. L'occhio di Eschilo diviene lo sguardo di
Michelstaedter: attraverso quello sguardo il Goriziano valutò il mondo, ed
accolse chiunque lo accompagnasse sulla via della Persuasione. Anche Leopardi e
Schopenhauer. 129 Facciamo notare che, secondo Michelstaedterr, il
ristabilimento della corretta prospettiva lontananza-vicinanza è a suo modo
anticipata, ma solo in modo molto vago e inguenuo (come dire: solo per
analogia), nell'esperienza artistica: «Una facoltà potente di sogno è quella
dell'artista che vede le cose lontane come levicine, e perciò le può dare così
ch'esse tutte le cose. Gli sono care non solo le cose vicine e come possano
soddisfare un bisogno ma tutte - egli sa godere della luce del sole» [D 89-90].
Se l'uomo rettorico è «malato », perché «ha perduto il sapore d'ogni cosa» [D
46], la salus del vir - la sua salute, la sua... salvezza - al contrario,
consisterà nel riassaporare una nuova dolcezza. Perché la Persuasione, come
rivela la sua variante etimologica latina, la più bella e forse la più vera, è
uno stato di dolcezza. Tuttavia, quella dolcezza appare (apparve a Cristo,
apparve a Michelstaedter, appare ad ogni vir) un miraggio, essa stessa una
condizione differita. Oggi la Rettorica domina, e il suo dominio è sempre più
forte e serrato, è sempre più nascosto e plausibile. Siamo ancora in un periodo
di esodo. La "pasqua" della liberazione è rimandata. Il mio tempo non
è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. Il mondo non può
odiare voi, ma odia me perché io testimonio di lui, che le sue opere sono malvagie.
Salite voi a questa festa, io non vi salgo ancora, perché il mio tempo non è
ancora compiuto. [Giov. 7, 6-8] Nel capitolo sulla Rettorica, analizzeremo le
radici di questo odio e l'incompiutezza di questo nostro tempo, così come
apparvero allo "sguardo eschileo"'*' del Goriziano. appaiono nella
loro reciproca relazione di vicine e di lontane» [PR 113]. Ma, appunto, quello
artistico è un sogno non meno illusorio e fallace del "sogno"
rettorico. 130 Persuasione > per + suav(itattem: condurre (attra)verso la
dolcezza. Già Aristotele, però, intese quella dolcezza come escamotage
retorico, come dolcezza di parole, per attrarre a sé l'uditorio, per
lusingarlo, ed assicurare una posizione vincente all'oratore. Siamo nel cuore
della Retorica aristotelica, per l'analisi della quale rimandiamo al seguito
del nostro lavoro. 131 Cfr. quanto da noi detto supra, in nota 120. Intermezzo.
Notò che essi collegavano le questioni scientifiche con quelle che riguardavano
l'anima, e a momenti pareva che toccassero il punto essenziale, cioè quello che
a lui pareva tale, ma subito se ne allontanavano e s'immergevano nel campo
delle distinzioni sottili, delle riserve, delle allusioni, delle citazioni, dei
richiami alle autorità, e allora gli riusciva a stento di capire il senso del
loro discorso. Considerazioni di Levin, in Anna Karenina La Persuasione non
soggiace ad alcun atto apprensivo, sfugge ad ogni concettualizzazione: è alla
disperata ricerca di una propria, peculiare, semantica, di un «linguaggio
rappresentativo» [Piovani] che ne dipani il velo di Maia. Condividiamo con
Michelstaedter questa difficoltà, e con Michelstaedter siamo giocoforza spinti
ad una serie di riferimenti prismatici ed aleatori, che chiamano in causa
autori e dottrine, espressioni artistiche e risonanze filosofiche, anche
"alternative", che corrono il pericolo di franare in pastiche, o
quantomeno di mostrarsi quali fili sospesi ed equivoci, difficilmente
riassettabili in un nodo stretto e sicuro. La cosa sconcertante è che questa
situazione di stallo ha insita una sua ineluttabilità. Socrate medesimo, uno
dei vertici assoluti della Persuasione, in fondo, non trovava risposta al suo
ti estì, sciogliendola in un'aporia esistenziale che trovava esclusivamente
nella sacra finitudine dell'uomo la propria soluzione. Allo stesso modo che per
Socrate, tentare d'evincere dalla scrittura magmatica di Michelstaedter la
definizione "esatta" della valenza del suo essere persuasi varrebbe
press'a poco quanto chiedere ad un credente di rendere ragione della propria
fede. Montale avrebbe risposto: «Non chiederci la parola che squadri da ogni
lato / l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda
come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato ». Eppure, proprio il
riferimento alla fede (riferimento da assumere però con molta cautela, ché può
dar adito a pericolosi equivoci) può contribuire a sostenere, almeno un poco, e
seppure in un chiaroscuro di affinità e divergenze, lo scandaglio ermeneutico
che stiamo tentando; sotto questo rispetto, ci appelliamo alla testimonianza di
uno dei cristiani veramente onesti che siano mai vissuti, Soren
Kierkegaard!'*?. In effetti, non sarebbe difficile riscontrare suggestivi punti
di contatto tra il «cavaliere della fede» e il vir innanzitutto, i due filosofi
condividono la polemica contro l'«individuo sognato da 132 E' assodato che
Michelstaedter non conobbe l'opera di Kierkegaard, anche in virtù della tardiva
diffusione e fortuna che essa ebbe in Italia (e non solo), data la difficoltà
della lingua. Non è improbabile, tuttavia, che il giovane studioso abbia
assimilat elementi o atmosfere kierkegaardiane attraverso la mediazione e il
filtro dell'opera teatrale di Ibsen. [Ma cfr. anche S. Campailla, Pensiero e
poesia..., cit., pagg. 30-31] Inoltre, si noterà, nel seguito della nostra
trattazione, in particolare nel capitlo riguardante la Rettorica come
specifiche "categorie" kierkegaardiane - l'angoscia, la disperazione,
la scelta, il salto e via dicendo - risulteranno efficaci strumenti euristici
nell'affrontare il complesso discorso della Rettorica connaturata all'uomo.
133. imbastita in un noto Hegel» - tanto per intenderci, quello della gustosa
scenetta a tavola passaggio della Persuasione [PR 89-91]: borghese che (notiamo
en passant), forte della sua logica ferrea della sicurezza e dello stato («la
botte di ferro», dice il Goriziano), riesce a controbattere punto per punto, da
consumato sofista, le obiezioni, che Michelstaedter gli propina cercando invano
di farne vacillare la speciosa logica rettorica (invincibile se affrontata sul
suo stesso campo d'azione). Ora, è risaputo l'astio del filosofo danese contro
il sistema hegeliano, tanto che non è opportuno neanche soffermarcisi;
analogamente, Michelstaedter diagnostica la «copertura ideologico-teoretica»'°*
della società rettorico-borghese proprio nella hegeliana dottrina dello Stato
etico, che trova il suo corrispondente nella copertura ideologico-giuridica,
rappresentata dal Codice austriaco'*. Contro la pretesa razionale, necessaria e
totalizzante di Hegel, che risolveva l'individuo nei vari momenti dello spirito
oggettivo (l'eticità, la vita politica, lo Stato), Kierkegaard fa valere la
dialettica (che non è dialettica) del paradosso, del singolo, dell'autaut che
sfocia nello scandalo della fede; similmente, all'«individuo cacanico»'°,
Michelstaedter oppone le ragioni del vir, altrettanto "scandalose",
agli occhi della comune ragione. Entrambi - il cavaliere della fede e il vir -
cercano la gioia della propria realizzazione esistenziale, gioia che, ancora entrambi,
sperimentano come paradosso, perché l'assurdo è che «a felicità eterna di un
uomo sia commensurabile con una decisione presa nel tempo», come scrive
Kierkegaard in un bel passaggio del suo Diario. Costui, analogamente a
Michelstaedter,ascrive la possibilità di attingere quella gioia ad un atto di
coraggio, anche se per lui - ed è qui il discrimine essenziale - quel coraggio
è piuttosto il «coraggio della fede»: «Occorre [...] un coraggio umile e
paradossale per poter ora affermare tutta la realtà temporale in virtù
dell'assurdo e questo è il coraggio della fede», come asserisce in Timore e
tremore. Frase sottoscrivibile da Michelstaedter, anche se l'accenno pregnante
alla fede si mutuerebbe, senza ombra di dubbio, nell'asserzione di autonomia
persuasa, creando un piano parallelo e inconciliabile di valutazione
dell'esistenza umana, seppur accomunato dalla forte esigenza
"realizzativa" del singolo o del vir che sia. 133 Cfr. la diapositiva
N [La botte di ferro] nel supporto iconografico. 134 Cfr. A. Negri, Il
lavoro..., cit, pag. 26 135 In pagine importanti della sua tesi di laurea,
nella sezione dedicata alla Rettorica nella vita, il giovane filosofo fa
esplicito riferimento, in nota, alla Philosophie der Geschichte di Hegel, di
cui - ci avvisa - non tradurrà le citazioni, poiché dispera «di poter
riprodurre in italiano il loro ineffabile callopismatismo » [PR 92-93]; poche
pagine più avanti [cfr. 99], un altro riferimento esplicito, stavolta al codice
austriaco, che sancisce/garantisce (ma il condizionale sarebbe d'obbligo) che
«ogni uomo ha per natura diritti già da sé stessi evidenti alla ragione». Il
riferimento è, ovviamente, polemico, di una polemica che si sostanzia anche e
soprattutto nel richiamo reciproco, e non nascosto, tra il codice e i passi
hegeliani appunto citati nelle pagine appena precedenti. [ma per un'analisi più
approfondita, cfr. il nostro capitolo sulla Rettorica] 136 Cfr. A. Negri, Il
lavoro..., cit., pag. 16. 68 Ancora, il cavaliere della fede (Abramo) soffre
l'incomprensione della massa, perché vive un rapporto speciale con l'Assoluto:
appare come un assassino, mentre invece - a suo dire - egli compie soltanto un
sacrificio che gli viene richiesto da Dio. Il suo è, dunque, un dramma di
incomunicabilità, che condivide - ma solo apparentemente - col vir: infatti,
per entrambi, l'istanza realizzativa si risolve in una ricerca solitaria, l'uno
di Dio, l'altro della condizione persuasa. Tuttavia: analogia di presupposti,
ma differenza totale di esiti: al dialogo "monogamico" che apre il
singolo a Dio (gli fa dare a Dio del "Tu") ma che gli preclude
l'orizzonte "politico" («il segreto della vita è che ciascuno deve
cucire la sua propria camicia», recita una massima kierkegaardiana),
l'individuo persuaso - all'apice del suo percorso difficile sulla via della
Persuasione, ch'è l'entelechia etica - preferisce la relazione plurale. Il che
è come dire che lorizzonte etico e politico, la cui liceità vien prima messa in
discussione e quindi definitivamente annichilita dall'atto di fede, è invece il
presupposto essenziale dell'agire persuaso: l'eteronomia dell'assurdo comando
divino di uccidere Isacco viene condannato dal vir sia in quanto eteronomo, sia
in quanto (e soprattutto) lesivo della dignità, prima che della persona,
dell'altro. Certo, quando Kierkegaard scrive "morale" vuol far
intendere l'universale (il Generale) hegeliano: eppure, il sacrificio
dell'altro non ha attenuanti, per quanto l'amore che ci lega a quell'altro
possa superare noi stessi, e quindi valorizzare in maniera estrema quel
sacrificio. Insomma, a fronte della visione "veterotestamentaria" che
ancora avvolge l'assunto kierkegaardiano, e che lega il credente ad un
Dio-che-mette-alla-prova e pretende assoluta dedizione (il sacrificio di
Isacco) in un rapporto di insostenibile disperazione, Michelstaedter aggiorna
la propria prospettiva - rendendola ancora più personale - in direzione
neotestamentaria, di un (Dio)Cristo incarnato che non chiede l'altrui
sacrificio, ma sacrifica se stesso, in un progetto di redenzione e perdono. Lo
stato di grazia divina raggiunta da Abramo, allora, perde di senso a confronto
dello stato di "grazia umana" di cui il vir è scrigno e portavoce. O,
quantomeno, si pone su un altro livello di senso: di qui la cautela annunciata.
Incomunicabilità, dunque. E' questa vicendevole «impenetrabilità degli
spiriti», come la chiamava Croce, questa impossibilità di completa osmosi o
"simpatia" razionale ed emotiva che sembra compromettere ogni
possibile ricerca (in senso ampio) condivisa, ogni comunicazione autentica ed
integrale con gli altri a riguardo delle proprie esperienze fondanti:
un'impenetrabilità che potrebbe facilmente degenerare in un'anarchia pericolosa
del pensiero e delle verità, ma che allo stesso tempo ci protegge, non ci rende
completamente esposti all'altro, e dunque vulnerabili. Una comoda corazza
rettorica, così avvolgente, così sicura, così esclusivamente nostra. Il
Persuaso avverte il bisogno di svincolarsi da quell'ingannevole egida, di
tentare un punto di incontro, di recuperare un orizzonte condivisibile, di
senso e di esistenza, perchsolo nella comunione con gli altri si realizza la
vera felicità, e non nelle zone di franchigia della Rettorica. La posta in
gioco è immensa: la scommessa è la trasposizione "urbana" e umana
della scommessa di Pascal, e addirittura più avvincente, perché più pericolosa,
essendo in gioco non la felicità in un'altra vita, presunta o vera che sia,
bensì la felicità nel mondo che abitiamo e nell'esistenza che conduciamo, ché
solo essa, qui e ora, ci appartiene '?”. La schiera dei Persuasi è tale perché
ha attinto questa verità: la loro forza è nell'aver mosso il primo passo verso
quell'incontro con gli altri, fondando quel loro atto nel sacrificio di sé, che
è più un donarsi che un sacrificarsi, un atto gratuito - presupposto ineludibile
- che non pretende di essere contraccambiato, perché conosce e perdona la
debolezza e la miseria degli uomini, e pur accorda loro la fiducia, la
persuasione appunto: «l'attività che non chiede è il beneficio, che fa non per
avere, ma facendo dà» [PR 42]. Scrive bene Eugenio Garin", a questo
proposito: «Il consistere [ovvero, la Persuasione] è veramente il salto oltre
il mondo della violenza, dell'asservimento, verso la vita vissuta non contro,
ma con gli altri e con le cose». 137 Forse questa allusione, velatamente
critica, al pari non rende giustizia alla portata autentica del tentativo di P
ascal: che è proprio quello di conquistare profondità e felicità all'esistenza
umana, nel mondo, seppur fondandola nell' "azzardo" trascendente (cfr.
il famoso pensiero 377, su quell'essere "nobile" ch'è l'uomo,
"canna che pensa" [P ascal, Pensieri a cura di P. Serini, Mondadori
1969, pagg. 216 e 217], e lo si integri appunto con l'argomento della
"scelta di Dio" [cfr. pensiero 164 "Infinito, nulla", ib.
pagg. 123 - 129]). «170. Obiezione. Coloro che sperano nella loro salvezza sono
per quest'aspetto felici, ma, in cambio, soffrono per la paura dell'inferno.
Risposta. Chi ha maggior motivo di temere l'inferno: chi ignora se ci sia un
inferno e vive nella certezza della dannazione, se c'è, oppure chi vive nella
sicura convinzione che c'è un inferno e, se questo esiste, nella speranza di
salvarsi? » [ib. pagg. 130-131] Diversamente, la Rettorica della fede (nelle
posizioni e nelle istituzioni che ha assunto) ha sempre e volentieri
strumentalizzato l'argomento della "scommessa" come alibi di una
promessa o di una dannazione eterna; alibi volto - in questo gioco angoscioso -
a svalutare la componente "terrena" ed autonoma del credente, e
funzionale ad una migliore "gestibilità" dello stesso, in coerenza
con la propria logica di dominio delle coscienze e soprattutto dei corpi. 138
E, Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Ed. Riuniti, 1974, pag.
98. 139 Due spettri si aggirano nella critica michelstaedteriana, e rispondono
ai nomi di Giorgio Brianese ed Emanue Severino; quest'ultimo elogia la tesi del
primo come «lo studio migliore oggi esistente in Italia sulla filosofia di Carl
Michelstaedter». Brianese, in un passaggio tanto preliminare quanto fondamentale
della sua tesi, scrive: «Michelstaedter pensa una sola cosa: l'autenticità
dell'esistenza, che egli connota come esistenza "persuasa"; oltre la
quale è la "rettorica", la valenza inautentica dell'esistere, la
quale va smascherata come una situazione che bisogna oltrepassare.
Nell'oltrepassamento della rettorica va rintracciato l'unico dovere al quale
l'uomo è indubbiamente chiamato. E tuttavia Michelstaedter resta, suo malgrado,
prigioniero di quella che egli crede sia l'inoltrepassabile polarità di persuasione
e rettorica. Prigionia che discende, primariamente, dal permanere tanto della
persuasione come della rettorica all'interno della logica del dominio e della
violenza. Con l'unica differenza che la rettorica è inesa da Michelstaedter
come quella modalità depotenziata della volontà che non sa conseguire quello
che vuole (sì che il suo possesso è, dal punto di vista della persuasione, una
mera illusione di possesso), mentre la persuasione è quell'atto della volontà
che mette in opera il massimo del dominio concreto (anche se va chiarito sin
d'ora che, nell'atto stesso in cui tenta questa realizzazione, la persuasione
attua pure l'annientamento dell'esistenza). Anche se, esplicitamente, la
persuasione intende porsi come toglimento radicale della rettorica, tuttavia
l'atto decisivo del persuaso non esce dalla logica volontaristica che
caratterizza la rettorica (perché è l'atto con il quale il persuaso vuole il
dominio più vasto); e dunque anche la sopraffazione non può che ripresentarsi
come figura del dominio, della separazione, della violenza, la sua differenza
con la rettorica consistendo unicamente in questo: che essa ottiene ciò che
quella meramente si illude di o D La morte di Cristo e di Socrate vale, così,
più di mille risposte all'interrogativo "che cos'è" il bene. Itti,
l'ipostasi autobiografica di Michelstaedter'‘°, che si rituffa nel mare, è lo
schiavo platonico che torna nella caverna, sapendo di rischiare il linciaggio,
eppure desideroso, più di ogni altra cosa, di comunicare la verità ai suoi
sfortunati compagni e condividere con loro la gioia di quella conquista,
foriera di liberazione. Il dramma, allora, della fiducia disattesa?
Nient'affatto: la sofferenza è nel cammino di rinuncia di sé che porta all'atto
del donarsi, non nell'atto stesso, o ad esso posteriore: il Persuaso, giunto
all'apogeo della sua consapevolezza, non si aspetta alcuna risposta dagli
uomini, non si attende adesioni, né apprezzamento: è una possibilità che non
pone neanche in conto. La sua gioia non è conseguente al sacrificio, è nel
sacrificio: una gioia paradossale e insensata ad uno spettatore retorico, pago
e cinico, e che invece, nell'ottica persuasa, rappresenta la discesa
dall'Iperuranio di quell'idea di bene, vero e bello che si fa carne e sangue,
consiste, permane in eterno presente, in un attimo che trascende il tempo,
nelle persone che la vivono fino in fondo. Gli dei, e le idee, finalmente,
scendono e vivono tra gli uomini. Attraverso l'attività verso la pace.
L'«acerbità» di Michelstaedter, dunque, non è la mancata refrattarietà
filosofica che lamenta il Piovani''; se proprio di acerbità della Persuasione
si deve parlare nel ottenere. Il persuaso, non meno del rettorico (ed anzi:
molto di più di lui) permane saldamente nell'ambito della volontà di potenza,
proprio perché "persuaso" è colui che si propone la messa in atto
della maggior violenza al fine di ottenere il massimo del dominio: il dominio
della totalità. Ed è tuttavia, il persuaso, un trionfatore che non si avvede
dell'essenziale incongruenza esistente tra ciò che ci si propone di ottenere
(il dominio del tutto) e i mezzi messi in opera per il conseguimento del voluto
(il raggiungimento di una unità-identità del tutto che blocca definitivamente
la pretesa stessa del dominio). Donde l'inevitabile dello scacco e il
suicidio». [G. Brianese, L'arco e il destino. Interpretazione di
Michelstaedter., Abano Terme, Fravisci editore, 1985, pagg. 10-11; | corsivi
sono dell'autore del brano, che ce li ha assecondati] Il nostro dissenso,
rispetto tali conclusioni, è totale: il critico e il suo mentore,
evidentemente, confondono il vir col superuomo nicciano, e addirittura
nell'accezione più becera, quella della vulgata nazionalsocialista. Per una
lettura opposta, e a questo punto salutare, del messaggio michelstaedteriano
consigliamo il bellissimo testo di Aldo Capitini, Elementi di un'esperienza
religiosa (ora disponibile nell'ed. Cappelli, 1990). Ma consigliamo anche di
cfr. il nostro appunto sulla "variante" nicciana e le conclusioni
alla nostra tesi. 140 cfr, S, Campailla, Pensiero e poesia..., cit., pag. 85.
141 «Il fatto è che il ‘caso Michelstaedter', nella dimensione in cui è
veramente tale, non riguarda tanto la cronaca di una vita interrotta o di una
fortuna critica mancata, quanto una storia da cui ogni storiografia rifugge: la
storia dell'acerbo come tale. Per ogni storia, l'acerbo è il momento germinale
di una maturazione che si annuncia e si attua. Di fronte a vite eccezionali,
che si realizzano nell'acerbità scegliendola o accettandola come unico spazio
temporale, bruciando nella brevità l'interezza vitale, la storia è
disorientata. Da un lato deve registrare una maturità precoce, dall'altro deve
costatare i limiti insuperabili, biologici, psicologici, intellettuali, di
quell'acerbità culturale e biografica. La filosofia di Michelstaedter è stata
poco ‘storicizzata' proprio per questo: la storia dell'acerbo è poco
storicizzabile. [...] Ma non bisogna farsi troppe illusioni: l'acerbità rimarrà
un ostacolo spesso invincibile alla coerente storicizzazione e continuerà ad
invitare, con seduzione tentatrice, a un'esegesi che trovi sistematica coerenza
unitaria anche dove essa non può esserci» [P. Piovani, Michelstaedter:
filosofia e persuasione, cit., pp. 212-213]. L'autorevole giudizio del Piovani,
condivisibile o meno nella sua sostanza, ma che ammette concessioni anche a
dispetto della matrice filosofica che lo fonda, si riflette purtroppo
(ovviamente volgarizzato) nella cattiva "Storia della fortuna"
michelstaedteriana. Volendo, solo a facile riprova, dare una scorsa ai
famigerati manuali scolastici, si potrebbe notare come il giovane goriziano
risulti malamente emarginato sia dalla storia ufficiale della filosofia -
evidentemente perché ritenuto "acerbo" come filosofo, e come tale
delegato ai colleghi di lettere - sia dalla storia ufficiale della letteratura
- Goriziano, essa consiste piuttosto nel fatto che egli si lascia prendere
dallo sconforto, da un'amara perplessità che lo combatte e lo sfianca'*: il
Persuaso, di contro, non si sconforta, anzi conforta (il verbo da riflessivo si
traduce in transitivo), oltre e dopo tutto, sempre e comunque. Quell'equilibrio
di falco [PR 68], che è una delle immagini più belle e ardite del vir,
Michelstaedter lo presentì, lo intravvide, talora gli fu tanto vicino da
sfiorarlo, ma alla fine non seppe attingerlo, o almeno non seppe assumerlo fino
in fondo, in tutte le sue lancinanti e complicate conseguenze! .
Quell'equilibrio di falco, ancora, che è possibile rendere - anche noi un
escamotage matematico, come per il giovane tesista - con un'immagine tratta
dalla chimica fisica: quella di equilibrio dinamico, un equilibrio che si
realizza nel trapassare nascosto (non evidente all'occhio umano), ma reale, di
una sostanza entro i confini dell'altra, e viceversa. E' l'impercettibile, ma
costante, trapassare della vita nella morte e della morte nella vita, come
recita il celebre Canto delle crisalidi [PP 54-55], un'amena litania dai labili
contorni orfici'‘*, quasi a richiamare quell'identico equilibrio dinamico, e
perciò tragico nel suo evidentemente perché ritenuto "acerbo" come
scrittore, e come tale delegato ai colleghi di filosofia. Un rimbalzo di
competenze davvero esilarante. 142 Un esempio per tutti: Michelstaedter
immagina (auspica?) un ritorno di Gesù tra gli uomini: eppure, si dimostra
convinto che, al punto in cui è giunta la Rettorica, «se Cristo tornasse oggi,
non troverebbe la croce ma il ben peggiore calvario d'un'indifferenza inerte e
curiosa da parte della folla ora tutta sufficiente e borghese e sapiente - e
avrebbe la soddisfazione di essere un bel caso pei frenologi e un gradito
ospite dei manicomi -» [PR 126, in nota]. 143 Ci siamo già ripromessi di non
esprimere, per una sorta di rispetto e di affetto, e per una palese difficoltà
oggettiva, alcuna valutazione sul suicidio di Michelstaedter. Campailla fa
altrettanto; ma come lui, se proprio dobbiamo cedere alla tentazione di
esprimere un giudizio, al di là delle interpretazioni psicoanalitiche o
metafisiche che di quel suicidio si sono date, e che ne impoveriscono sicuramente
la portata, ci sentiamo di condividere le conclusioni del Ranke, il quale
ascriveva quell'atto «"non ad un compimento, ma ad un cedimento"
rispetto alla sua [di Michelstaedter] posizione teorica, ormai vittoriosa di
quell'estrema "rettorica della morte" riconosciuta nel suicidio»
[cfr. S. Campailla, Pensiero e poesia..., cit, pagg. 136-137], Detto per
inciso, «l'avvincene lettura dello studioso tedesco, innestando con energia la
meditazione di Michelstaedter sul ceppo comune della filosofia dell'esistenza
[...], traeva forza singolare per procurare alla figura del Goriziano quella
cittadinanza internazionale il cui tributo tarda ancora e che tuttavia sembra
spettargli di diritto». [ib.; la lettura cui fa riferimento Campailla è
contenuta in J. Ranke, Il pensiero di Carlo Michelstaedter. Un contributo allo
studio dell'esistenzialismo italiano, in Giornale critico della filosofia
italiana, XLI, 1962, IV, pagg. 518-519] 144 Piero Pieri appronta una bella e
dotta analisi di questo testo cruciale nel capitolo "Il canto delle
crisalidi: il ‘pensiero poetante' e le crucialità dell'ipertesto" [cfr. P.
Pieri La scienza del tragico. Saggio su Carlo Michelstaedter. Cappelli, Bologna
1989]. L'approccio del critico, che condividiamo appieno, «intende sottolineare
la posizione tematica del testo, rispetto alle prove del pensiero maturo (La
Persuasione e il Dialogo della salute) e rispetto ad una lirica del 1910
(Risveglio)»: nella lirica, «'la morte nella vita' e 'la vita nella morte'
indicano uno stadio binario dell'esserci dentro il quale l'uomo vive una
preagonica condizione, irrisolta e malinconicamente rassegnata; uno 'stadio
binario' che "mostra i segni di una condizione generale spossessata di una
identità sicura che non sia quella arida ed elementare della vita depressa
dalla inerte polarizzazione della morte che filtra nella vita, ma non
l'affranca, e della vita che si avvolge nel manto della morte senza che ciò
porti al martirio o alla illuminazione » [come invece, aggiungiamo, avverrà
nelle opere e nella vita dell' "ultimo" Michelstaedter]. «Nel testo
appare invece preponderante il concetto indeterminato della vita il cui palpito
di morte non produce tuttavia istanze liberatorie», continua Pieri, tale che
«[...] l'uomo-crisalide indica lo stadio bilicato dell'esistenza non più larva,
ma neppure farfalla di persuasione ». E conclude richiamando l'immagine
"speculare" dell' "uomo-insetto" ontenuta in Risveglio [PP
69-70] e istituendo una suggestiva comparazione con testi similari di D'Annunzio,
Tennyson, Coleridge, dai quali - presumibilmente - il sintagma "la morte
nella vita" ha avuto la genitura agonismo, che sussiste tra apollineo e
dionisiaco nella visione nicciana della Nascita della Tragedia. Ma la crisalide
nicciana eromperà in una metamorfosi dell' "uomo nuovo", l'oltreuomo,
figlio di una «superfetazione» del dionisiaco; tentativo di recuperare quel
dionisiaco inutilmente perseguito, perché oramai irrimediabilmente contaminato
e dunque privo della forza e della genuinità (della "bontà') originarie“.
Di contro, l'individuo persuaso romperà il bozzolo della Rettorica, in
un'effusione di vita autentica che, a quelle analoghe, ma deliranti, tessute
dal filosofo tedesco, assomiglia evidentemente (e neanche troppo) solo per la
terminologia. Se l'oltreuomo nicciano si brucia nella rottura di un equilibrio,
trtasbordando nel polo dionisiaco, il vir aspira - come sua completezza - al
restaurarsi di un nuovo equilibrio, tra sé e il mondo. Detto questo, si tratta
ora di contemperare una certa sregolatezza espositiva con una sana iniezione di
metodo, in un'amena oscillazione tra i due livelli che condividiamo volentieri
col nostro autore. Due conclusioni provvisorie: gli esiti possibili del
Persuaso autarchico e del vir politico. Il momento di passaggio tra le due ipostasi.
Cominciamo allora col tirare dei bilanci, anche se provvisori, e cerchiamo
d'approntare delle definizioni icastiche di Persuasione. L'operazione, che può
apparire azzardata e che in certo modo sconfessa quanto pronunciato finora
riguardo l'ineffabilità della Persuasione stessa, ci permetterà di uscire dal
vizioso e irritante diallele persuaso: e le conclusioni stesse si prestano a
nuove aperture. Abbiamo marcato stretto, durante la nostra indagine, il vir,
abbiamo preferito accostare la condizione persuasa partendo dagli esiti ultimi
della sua fenomenologia: nell'epistolario e nelle poesie di Michelstaedter
abbiamo, dapprima, scoperto la Persuasione nella sua già ri-stabilita armonia
con il mondo, nella sua realizzazione "politica" in Enrico Mreule;
una realizzazione, come ci è parso, non del tutto pacifica, non senza rischio,
eppure compiuta: la monade persuasa che vive la relazione con le "altrui
vite" (degli uomini e delle cose), e viceversa - in un reciproco,
spontaneo, donarsi. Con un passo indietro, poi, abbiamo cercato d'individuare
l'apriori di tale condizione: considerando le prime pagine de La Persuasione e
la Rettorica, abbiamo concentrato la nostra attenzione piuttosto sulla
Persuasione prima della sua Incarnazione, more ispiratrice. Ci piace
soprattutto il riferimento a La ballata del vecchio marinaio di Coleridge,
laddove l'ossimoro morte-vita si innesta sul motivo del mare. 145 Rivolgiamo,
contro Nietzsche, ribaltandola, l'accusa ch'egli stesso rivolge a Socrate, l'
«individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una
superfetazione, è sviluppata così eccessivamente quanto lo è la sapienza
istintiva del mistico» [cfr. Nietzsche, La nascita della tragedia, in Opere
Complete, vol. I, ed. Newton, a cura di F. J esi, pag. 153]. Per un
approfondimento della questione, rimandiamo - ancora una volta -
all'integrazione sulla variante nicciana della Persuasione. geometrico
demonstrata. Ovvero, potremmo dire che abbiamo tracciato dapprima un
"nuovo testamento" della Persuasione (il vir come Cristo) e quindi un
"vecchio testamento": il Persuaso come nel tetragramma YHVH, «lo Sono
colui che E'» - nella ‘consistenza’ - o meglio «lo Sono Colui che fa essere»,
«lo Sarò colui che Sarò»!#9. Abbiamo visto, altresì, che alla scandalosa
domanda della Rettorica - «Che cos'è la Persuasione?» - la Persuasione risponde
come Dio alla domanda di Mosè: «Eiè asher Eiè». L'Identità, la tautologia della
Persuasione. Il Nome della Persuasione. Il Nome, l'Identità: il nome è
identità: nell'ebraismo il nome identifica tutte le caratteristiche di un
individuo o di un oggetto: la storia dell'uomo nella Bibbia comincia con Adamo
che dà i nomi a tutte le cose che lo circondano. Ma l'identità deve uscire
dalla sua solitudine, deve calarsi nell'esistenza degli uomini: deve legarsi,
in un certo modo, alla libertà. Il vir nuovo Adamo, darà nuovi nomi alle cose,
ovvero reciderà i legami della «valenza» (il falso valore che le cose e gli
uomini detengono nel falso, reciproco legame dell'eteronomia) e riscoprirà -
per sé e per esse - un nuovo "valore", una nuova dolcezza: le
valuterà per ciò che esse stesse veramente sono, le rispetterà ricollocandole
nel loro luogo naturale: un'armonia di rispetto e comunione si ristabilisce nel
mondo, durante e per mezzo di questo rinominare le cose. L'esodo può condurre
ad una festa. Non a caso, ci sembra a questo punto, il libro della Torah, che
si occupa della "identità" legata alla libertà, non si chiama Esodo,
ma appunto Shemot, Nomi. a) Il Persuaso come «id, in quo plenitudo inhabitat
corporaliter» (risvolto autarchico: la Persuasione acerba). Chi vede J ehovah,
muore! Agnes, nel Brand, citando le Scritture Scrive Michelstaedter che la
Persuasione non può essere vissuta: essa è «impossibile», è l'Impossibile (c'è
chi direbbe il Mistico), di un'impossibilità che l'uomo condivide con «la vita
inorganica delle cose». Solo il dio è persuaso («ev ouvveyeg il persuaso: il
dio»). E, di contro, «se non è il dio, è il sasso», ovvero l'alternativa
esclusiva alla Persuasione è nient'altro che la Rettorica, e nella prospettiva
"inadeguata" c'è consustanzialità tra sasso e uomo, entrambi
«infinitesimale coscienza della relazione infinitesimale ». Già in questi
accenni fugaci, precedentemente riferiti, Michelstaedter scolpisce un assunto che
abbiamo ritenuto assiomatico nell'economia della nostra linea interpretativa:
il regno della Rettorica coincide con tutto il regno del reale, del sublunare:
esso coincide col manifestarsi di ogni realtà, e pertiene ad ogni realtà,
animata ed inanimata, consapevole 146 | Maestri ci fanno notare che in ebraico
non esiste il presente del verbo 'essere' perché solo Dio è nel presente. Per
Michelstaedter il vero, unico presente è quello della Persuasione: gli uomini
rettorici vivono sfilacciandosi nel futuro, o nel passato. ed inconsapevole,
razionale ed irrazionale (con la differenza - come vedremo - che nell'uomo la
Rettorica si complica e si rinvigorisce, diviene "sapida" col
"sale della ragione"). In modo identico, ogni ente sublunare aspira alla
Persuasione. La Persuasione, dal canto suo, è possesso presente e stabile e
assoluto della propria vita; ma «se si possedesse ora qui tutta e di niente
mancasse, se niente l'aspettasse nel futuro, non si continuerebbe: cesserebbe
d'esser vita»: «la vita sarebbe una, immobile, informe, se potesse consistere
in un punto». La vita stessa della Persuasione sarebbe, dunque, non-vita,
«xfioc Biog», vita che non è vita. Se la vita è mancanza («deficienza») e
insieme volontà di compensare tale mancanza; se questa volontà «è in ogni punto
volontà di cose determinate», e come tale si proietta nel tempo (nel futuro),
poiché «la soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso
delle determinazioni di deficere ancora»; se la vita è tutto questo, appare
chiaro come la Persuasione («una, immobile, informe ») in questo senso non è
vita. Alla luce di tutto ciò, proponiamo di definire la Persuasione, o meglio
il "Persuaso", come «id, in quo plenitudo inhabitat corporaliter».
Adottiamo questa circonlocuzione latina, mutuandola, e opportunamente
flettendola, da Rabano Mauro a proposito del «caelum caeli»: «Caelum autem
iuxta allegoriam aliquando ipsum Dominum salvatorem significat, ut est illud
Caelum caeli domino (Ps. 113, 16), quia Sanctus sanctorum et Deus deorum; ita
et iam caelum caeli recte ipse dicitur, in quo plenitudo divinitatis
inhabitat»; e soprattutto, da Agostino: «Videte, ne quis vos decipiat per
philosophiam et inanum seductionem secundum traditionem hominum, secundum
elementa huius mundi et non secundum Christum, quia in ipso inhabitat omnis
plenitudo divinitatis corporaliter», [Confessioni 111, 4]; e Ambrogio e altri.
Da notare che gli autori suddetti utilizzano tale espressione per tentare una
perifrasi di Cristo (e per Michelstaedter, per l'appunto, Cristo è un Persuaso).
Analizziamo il senso dell'espressione: - id, in quo: preferiamo utilizzare il
neutro, perché, secondo la nostra ipotesi di lavoro, la Persuasione "non è
maschile né femminile" [neu+uter, nessuno dei due], ovvero non è
prerogativa esclusiva dell'essere umano, ma appartiene ad ogni ente sublunare;
- plenitudo: il termine oscilla tra "pienezza" e (nel senso della
Vulgata) "perfezione" [temporis, potestatis vel divinitatis: temporis
atque potestatis, la "plenitudo" secondo le coordinate del tempo e
dello spazio, vel divinitatis]; - inhabitat. intensivo di "habito", a
sua volta frequentativo di "habeo": rende bene, a nostro avviso, la
"permanenza pregnante", l' "eterno presente" che è nel (che
è il) Persuaso, tutt'altro che il semplice presente, ch'è l'attimo esistentivo
del nunc. Ora, il risvolto politico (che poi risvolto politico non è) del
Persuaso autarchico ci sembra essere costituito dall'ibseniano Brand, la
traduzione drammaturgica del "cavaliere della fede" kierkegaardiano
(di cui sopra). Ibsen descrive la vita del suo personaggio come un inferno,
seppur la sua aspirazione è la salvezza. In ciò ci appare chiara la posizione
polemica dello scrittore norvegese di fronte a questo esito estremo (alla
turris eburnea) della Persuasione "autarchica", anche se - in fondo -
egli ricopre la sua creatura di un'aura di sacro, perplesso rispetto (come non
associargli, in questo senso, un'altra figura emblematica, l'insigne sinologo
Peter Kien, dell'Auto da fè di Canetti?). Brand significa "incendio",
e «far di se stesso fiamma» è, per Michelstaedter, l'imperativo poetico
dell'agire persuaso. Il fuoco della predicazione, ma anche il senso di un
destino (il nome e l'identità). Brand è un pastore di anime, una persona che
intende riformare l'umanità attraverso un rigore religioso totale e una volontà
inflessibile, che applica a se stesso e agli altri; è un uomo di fede estrema,
di una religiosità tutta sua, in cui la compassione e il perdono cedono il
passo per raggiungere una meta prefissata: redimere il mondo alla luce del
monito manicheo «o tutto o nulla» (è il monito della Persuasione): «La vittoria
suprema sta nel perdere ogni cosa. La sconfitta, la perdita di tutto, è la vera
grande vittoria. Solo ciò che si perde, si possederà in etemo»'*; o ancora:
«Quanto durerà la lotta, volete sapere? Ebbene: tutta la vita! Fin quando
avrete sacrificato tutto, fin tanto che avrete rotto ogni compromesso... E
quanto costa la lotta? Tutto: tutti quanti i beni della festa, del dì di
festa... E i vantaggi? Purezza di spirito, fermezza di fede, un'anima sublime!
Una corona di spine sulla vostra fronte: questo è il vostro premio!» [B 76].
Brand è pronto a sacrificare allo spietato Dio biblico che si è raffigurato
tutto ciò che ha di più caro, anche i sentimenti più semplici e più naturali:
il suo unico figlio (quasi a ripetere l'orrendo sacrificio di Isacco), la
moglie, la madre. Il pastore sa a cosa va incontro, ne è consapevole: ma è
altresì convinto che mancare la propria missione significherebbe una viltà o un
atto di diserzione davanti al proprio, irrinunciabile dovere. Per lui tutto,
tutto il resto non è che feticismo ed idolatria. Dopo la morte della moglie,
Brand decide di innalzare un nuovo tempio, più grande e più degno, a Dio. Ma
quando infine la chiesa è stata costruita e sta per essere consacrata, egli
getta via la chiave, perché sente che quella non è la vera casa di Dio e che
lui stesso non può accettare il compromesso di sottomettersi all'autorità della
Chiesa di Stato. Alla guida di tutto il popolo, il pastore allora si avvia
verso la montagna e verso la Chiesa di Ghiaccio situata tra le nevi eterne,
promettendo, a chi vorrà seguirlo, di condurlo sulla vera via del cielo. La
folla dapprima lo segue, con entusiasmo ed esaltazione; poi, spaventata dai
disagi cui va incontro, lo abbandona e lo lapida quale falso profeta. Egli
rimane così, solo ed indomito, impassibile anche di fronte alla visione celeste
della moglie che lo invita a recedere dalla sua durezza e ad accettare la più
umana via del compromesso. Nell'ultima scena, tuttavia, di ambigua
interpretazione e piena di chiaroscuri, prima di essere travolto da una
valanga, il pastore si chiede, riuscendo finalmente a piangere dopo tanta
rigidezza, se non abbia sbagliato tutto. E una voce, che sovrasta il fragore
della valanga, inneggia al Deus Charitatis e denuncia il fallimento della sua
vita. Il fallimento della Persuasione autarchica. Ora, a nostro parere, la
Persuasione e la Rettorica deve moltissimo al Brand: del resto, la sorella di
Michelstaedter, Paula, insiste sull'enorme impressione che il dramma fece sul
nostro autore’. 147 Cfr. Ibsen, Brand, in Ibsen, Tutto il teatro, cit., IV vol.
pag 61. Le citazioni tratte dall'opera saranno segnalate, nel corpo del testo,
con la notazione B cui segue il numero di pagina relativa. 148 E' quanto ci
rivela Paula Michelstaedter Winteler in un passo importante dei suoi Appunti
per una biografia di Carlo Michelstaedter, contenuti in appendice al volume di
Campailla Pensiero e poesia..., cit, ovvero alle pagg. 147-164. Riteniamo opportuno
riportare per intero lo stralcio in questione [pagg. 161-162, corsivi
dell'autrice], anche per rendere un'idea di quanto "brandiano" stesse
rischiando di diventare lo stesso Goriziano: «Non leggeva più molto [la
Winteler sta parlando dell'ultima fase della vita del fratello]: rilesse in
quell'anno Ibsen che conosceva già e di cui era sempre più appassionato. Di
tutti i drammi quello che l'aveva fatto più pensare era Brand e nel suo volume
ci sono nel margine delle pagine molti commenti. A poco a poco, come
semplificava il suo genere di vita, il suo modo di sentire, [Carlo] si limitava
nei bisogni, nel nutrimento che era diventato sempre più sobrio, così si
liberava da tutta l'inverniciatura venuta dal di fuori, da tutta la scienza
infusa, da tutte le influenze ataviche, era come se si stesse riformando da sé
un'altra volta. Così pure andava man mano eliminando dal suo repertorio gli
autori riducendoli a pochi scelti. In una delle sue carte che si trovò sul suo
tavolo fra gli appunti della tesi c'era scritto a matita: Bibliografia oppure:
Dio ama gli analfabeti: 'Invece di leggere suonate o fatevi suonare della
musica di Beethoven, perché gli orecchi non vi potrebbero far altro miglior
servizio. - Gli occhi non sono fatti per legger libri. Ma se li volete ad ogni
costo abbassare a questo servizio, leggete: Parmenide, Eraclito, Empedocle,
Simonide, Socrate (nei primi dialoghi di Platone), Eschilo e Sofocle. -
L'Ecclesiaste, e i Vangeli di Matteo, Marco e Luca - Lucrezio - De rerum natura
-, i Trionfi del Petrarca e i Canti di Leopardi, Le avventure di Pinocchio del
Collodi - i drammi di Enrico Ibsen. E non leggete mai altro, soprattutto nessun
Tedesco, se avete cara la vostra salute, ché quelli sono contagiosi in vista
(come i giornali, le riviste, i libri di scienze)”. Questo passo è importante,
tra le altre cose, perché ci indica (insieme con la prefazione alla tesi) la
"bibliografia ideale" con cui è possibile tentare l'accosto a
Michelstaedter (interessante il riferimento al Finocchio di Collodi). E perché
ci testimonia, in certo modo, il disfattismo che pare attanagliare l'
"ultimo" Michlestaedter, che pare far sue le parole del suo amato
Brand: «Sono stanco: si combatte, si combatte, e sempre senza speranza» [B 67].
A parte questo, Michelstaedter stesso esprime, più volte e a chiare lettere, il
suo enorme debito di riconoscenza nei confronti di Ibsen: in una lettera alla
madre, dell'aprile 1908, ad esempio scrive: «[...] ho letto quasi tutto Ibsen.
Quello è un uomo, perdio! m'ha fatto pensare e mi fa pensare ancora. Certo dopo
Sofocle, è l'artista che più m'è penetrato e m'ha assorbito. E' un grand'uomo
[... J»; altrove scrive che il Norvegese lo «fa fremere e vibrare come una
corda al minimo soffio». Infine, in un importante articolo per Il corriere friulano
[contenuto in O pagg. 652-654 passim], scritto per celebrare l'ottantesimo
compleanno di Tolstoj, Michelstaedter costruisce un intenso ed originale
parallelo tra Ibsen e lo scrittore russo: «Ibsen vuole dall'uomo che egli
sappia rompere la cerchia di menzogna che lo stringe, che sappia volere la sua
verità,che sappia farla trionfare; egli deve combattere la menzogna che è in
lui ed educare la volontà alla lotta. Il processo psicologico può isolversi
così con pochi individui rappresentativi o simbolici quali li vediamo negli
ultimi drammi ibseniani. Tolstoi non chiede all'uomo la lotta, ma la devozione;
egli deve saper resistere alle seduzioni della società che egli giudica basata
sul falso e sulla prepotenza; egli deve uscirne e abbandonarne del tutto il
sistema di vita; la sua maggiore attività egli non la deve spendere a preparare
se stesso a far trionfare sugli altri le proprie idee e a trasformare la
macchina sociale, ma deve devolverla a riparare i mali che la società produce
sulle classi povere facendo del bene, aiutando, consigliando. - E' quindi
necessaria la rappresentazione viva della società nel suo complesso». Questi
due autori «non s'accontentarono di esprimere le sensazioni superficiali della
loro anima, ma ne scrutarono le profondità per cavarne la nota più alta. -
Entrambi presero pel petto questa società soffocata dalle menzogne e le
Infatti, le parole di Brand risuonano con tutta la loro forza nelle parole di
Michelstaedter: pur non intendendo istruire parallelismi "alla lettera",
ci sembra opportuno, a tal proposito, richiamare alla memoria talune
affermazioni "forti" di Brand: «Il mio canto festivo tace; bisogna
scender dal cavallo alato; ma io vedo una meta più alta, che non sia una
giostra di cavalieri, - un duro lavoro quotidiano, il dovere di una vita
attiva, verrà nobilitata con un'opera santa» [B 30]. Oppure: «Dove non c'è
forza non c'è missione. [...] Se non puoi essere ciò che devi, sii almeno ciò
che puoi [...}» [B 24]; «se darai tutto, tranne la vita, sappi che non avrai
dato nulla» [B 23]. O ancora: «Quali sono i peggiori, i più ribelli? Chi si
svia più lontano dalla pace?.. Lo spirito leggero incoronato di fronde che
danza sull'orlo del precipizio... lo spirito fiacco che segue la strana
monotona perché così vuole l'usanza... lo spirito selvaggio che possiede tanto
vigore da far apparire bello ciò che ha tutte le apparenze del male? Lottiamo,
lottiamo senza tregua contro questi tre nemici tra loro alleati. lo vedo con
chiarezza la mia missione; brilla come un raggio di sole attraverso uno
spiraglio socchiuso» [B 17]; o infine: «No, sono sano e forte, come il pino e
il ginepro dei monti; ma è la razza malata di questi tempi che ha bisogno di
essere curata. Voi volete amoreggiare, scherzare, ridere, volete credere un
poco, ma non vedete... volete caricare tutto il peso del fardello su di uno,
che vi è detto sia venuto per prendere su di sé la grande espiazione. Per voi
prese la corona di spine, e perciò vi è permesso danzare... danzate... ma dove
la danza conduca è un'altra cosa, amico mio!»; «abbiamo perduto ogni traccia
del nostro sentiero»; «E' la ‘volontà' che conta! La volontà o redime o uccide,
la volontà, intera, disseminata dappertutto, nella vita facile e nella vita
dura» [B 13, 8, 30]. Già nel dramma di Ibsen, dunque, Michelstaedter trovava
tracciata la linea discriminante tra il Persuaso e il Rettorico, e -
soprattutto- ritrovava la rigorosa e paradossale etica che segnava quella
discriminante (anche, ad esempio, nelle antitetiche figure del falco e
dell'avvoltoio, che presenziano già in Ibsen all'autentico e
all'inautentico!'‘). Ma se anche Brand parla di amore, di sacrificio, si tratta
tuttavia di un amore e di un sacrificio eteronomi, perché vincolati alla
terribile ingiunzione di Dio, destinati ad esiti altrettanto terribili:
nell'attuare il suo personale piano di redenzione, il pastore di anime
sacrifica i suoi cari, attraverso la parvenza del sacrificio di se stesso.
Brand non rispetta la gridarono in faccia: verità! verità!» [e, secondo
Michelstaedter, ciò in modo diametralmente opposto di quanto facessero invece i
maestri del Decadentismo, Oscar Wilde e D'Annunzio, sopra tutti]. 149 Cfr. ad
esempio: Gerd: «[...] l'avvoltoio non entra là dentro [scil. nella chiesa]; si
posa sul Picco Nero e là sta, la brutta bestia, come una banderuola... [... |»
[B17]; vita delle persone che gli sono accanto. Le sue intenzioni, invero, sono
sincere, coerenti alla sua fede: egli lotta sinceramente per la salvezza. Ma la
sincerità e la coerenza si volgono in distruzione e fallimento, perché il suo
amore non è l'amore caritatevole, come gli rivela la voce di Dio, nel finale:
il suo amore è severo, esclude e castiga. Il vero amore è perdono e
conciliazione; vuole casomai il sacrificio di se stessi, non mai dell'altro
uomo. Il Persuaso deve aprirsi agli altri, non può vivere nell'esclusività
della sua Persuasione, tanto "masochista", quanto "sadica".
II suo consistere dev'essere un coesistere. Nello stesso dramma ibseniano, in
una delle scene più intense ed enigmatiche (siamo nell'Atto II), l' "Uomo
delle Apparizioni" si rivolge a Brand con parole come di rimprovero, volte
a richiamarlo alla comunità: L'Uomo: «Mille parole non valgono la traccia
dell'azione. Noi ti cerchiamo in nome della comunità; lo vediamo, ci manca
proprio un uomo». Brand (agitato): «Cosa volete da me?» L'Uomo: «Sii il nostro
prete» [B 23]. L'Uomo delle Apparizioni è la persuasione matura che parla alla
persuasione acerba, il demone che chiama alla "conversione politica"
e alla realizzazione del Verbo nella comunione con le altrui vite, che è la
vera Persuasione. L'acerbità della persuasione permea il lavoro accademico di
Michelstaedter. Egli stesso ne fu a suo modo consapevole, come visto. Chi ha
ingoiato una sorba amara convien che la risputi, scrive, sin dall'inizio. Il giovane
filosofo non vide l'ora di terminare la sua tesi (l'ultimo compito rettorico
che gli era rimasto), per far le sue parole azione, per donarsi definitivamente
al mare. b) La Persuasione come francescanesimo laico (risvolto politico: la
Persuasione matura). Il loco della Persuasione, «il qualunque punto dove uno è,
purché vi permanga», diviene alfine il luogo politico del mondo, rappresenta il
risultato di una vera e propria rivoluzione copernicana del rapporto dell'uomo
con le altrui vite. Se prima l'homo gravitava, necessariamente, intorno alle
cose, laddove quella necessità era dettata dalla (strutturale) deficienza,
incompletezza fin già (se non soprattutto) del suo stesso organismo; ora
invece, sono le cose, è il mondo a gravitare intorno al vir, al Persuaso, a
donarsi a lui ultro, senza che quello «nulla chieda secondo la voce del suo
bisogno». Tutto questo l'abbiamo già ripetuto più volte. Ora, il vir domina il
mondo. Ma questo suo dominio non implica in sé violenza, non vuol essere
sopraffazione. E' il dominio, per renderlo con un'immagine, dello Brand: «[...]
Vedere, Iddio vuol trarvi dal fango; un popolo che vive [...] attinge dalle
avversità forza e potenza; l'occhio smorto acquista vista di falco, e vede
lontano e vede bene, la fiacca volontà si riscuote e vede certa la vittoria
dopo la lotta [...]» [B 19]. sguardo che dalla vetta domina la vallata, e si
compiace e gode dello spettacolo, sentendosi esso stesso parte di quel
miracolo, di quel tutto. E lo protegge ™. Dopo la rottura delle catene del
"peccato" rettorico, nel vir si eventualizza il ristabilimento della
condizione edenica, descritta nei primi passi della Genesi: il mondo è creato
per l'uomo e a lui offerto, come dono: Adamo dà nome alle cose, ostentando la
sua fraterna supremazia, ridonando alle cose ed agli animali il loro giusto
valore: e quelli a lui si sottomettono, ultro, secondo il comando del Signore,
secondo lo scopo per il quale essi furono creati. Il vir si riappropria del
mondo, scioglie i vincoli dell'alienazione, riconferma il suo primato e il
mandato "divino" della Persuasione, scacciando per sempre il dio
luciferino della puopuyix, giungendo altresì al vero Piacere, ch'è la Pace.
L'uomo finalmente libero - dal bisogno, dalla deficienza, dalle cose; l'uomo
che é riuscito nella dolorosa e faticosa pratica - ch'è la via alla Persuasione
- a ribaltare a proprio favore il rapporto di dipendenza con il mondo; ebbene,
quest'uomo - ricordando il già citato passo del Dialogo della Salute - «ha la
gioia dell'esistenza in mezzo a tutte le cose. Gli sono care non solo le cose
vicine e come possano soddisfare un bisogno, ma tutte - egli sa godere della
luce del sole». Anche la morte gli è cara, il «[...]il coraggio della morte /
onde la luce risorgerà».. Non può non tornare in mente, a questo proposito, il
meraviglioso Cantico delle creature di San Francesco, il suo lodare il Signore
per tutte le creature della terra, e anche «per sora nostra morte corporale»'!.
Per quanto la distanza tra la posizione michelstaedteriana e quella francescana
sia dettata dalla diversa prospettiva esistenziale (quella di uno strano
ebraismo laico, per l'uno; quella di una prisca religiosità cristiana, per
l'altro), il messaggio ci pare aprirsi un senso d'identica, intima convinzione:
la comunione col mondo, l'accettazione - non rassegnata, ma coraggiosa, e in
questo suo coraggio, serena - della nostra condizione umana, nella sua
perfezione assoluta, per l'uno intesa nell'adeguamento (solitario, intimo,
drammatico, ma alla fine gioioso) al pentalogo della Persuasione, per l'altro
intesa 150 Lo spunto per quanto or ora affermato ci viene da una lettera ad
Enrico Mreule dell'aprile 1909 [E 359-360]. Michelstaedter sta raccontando
all'amico di aver intrapreso la lettura della Metafisica di Aristotele, con «la
pazienza d'andargli a corpo, di seguirlo di citazione in citazione » fin che
non giunse «al capitolo I° e 2° del Ill libro, dove assistetti al mirabile
capitombolo della povera bestia». Rispetto ad Aristotele, Michelstaedter
confessa di sentirsi come «[...] un falco che difendesse la purezza dei sassi e
dell'aria sulla cima del S. Valentin contro un volo di cornacchie
[aristoteliche, evidentemente)». 151 La suggestione "francescana"
dovette provenire a Michelstaedter da Tolstoj, soprattutto a riguardo - come
vedremo - delle ultime opere dello scrittore russo, ovvero La sonata a Kreutzer
[che leggiamo nell'ed. BUR, 2000, a cura di E. Bazzarelli] e Resurrezione [ed.
Newton, 1995, a cura di E. Affinati]. Come si ricorderà, ipotizzammo anche
un'ispirazione da | cosacchi. Similmente a Tolstoj, Michelstaedter
"riscrive" il Vangelo (sulla falsariga di quello di Matteo)
censurandovi tutti i dati sovrannaturali, sopprimendovi l'avvenimento
ontologico della redenzione, e specialmente eliminando la realtà della divinità
trascendente d Cristo e della sua resurrezione. Per il Goriziano, come detto,
Cristo è il vir. E proprio questa riscrittura permise al nostro giovane
filosofo d'individuare il nucleo etico-laico del messaggio evangelico: farsi
salvatori dinell'adeguamento (anche qui solitario, intimo, drammatico, ma alla
fine gioioso) alla volontà di Dio. E la dicotomia fra gli empi e i giusti (ai
quali «la morte secunda no'I farrà male»), che si delinea nella seconda parte
del Cantico, si ripropone pari nella laica dicotomia, altrettanto insanabile,
fra gli homines rettorici e i viri persuasi: per entrambi i casi, la
discriminante in fondo è la stessa, e coincide sostanzialmente - con la
trasgressione dell'ordine universale, di una cattiva prospettiva di
vicinanza-lontananza con le cose e con gli altri 5°. Francesco (come rivela
anche il suo nome: ancora: nome e identità), come il vir, è "franco",
libero, assoluto: si è liberato dai lacci mondani, si è sottomesso di buon
cuore al giogo della croce: tuttavia rimane per lui il vincolo più potente,
quello del Dominus divino, che si riflette nel «messor lo frate sole» e che
permea tutta la vita e la speranza del santo, in una fede forte, vincente,
quanto semplice (cfr. l'ultima parte del cantico, quella più drammatica e
"manichea"). In questo senso, la condizione di Francesco è
decisamente eteronoma, e solo per un'analogia topica (di condizioni, e non di
esiti estremi) può essere avvicinata a quella del vir. Eppure, la "vita
nuova", il senso di comunione fraterna col mondo, la presenza di una
dimensione esistenziale votata alla consapevolezza della verità, dell'armonia e
dell'amore - seppur nelle due diverse prospettive - ci suggeriscono, ci
costringono quasi, a pensare la dimensione persuasa quale quella di un /aico
francescanesimo. Il momento del passaggio: la forma retorica
dell'anti-Rettorica: tecnica persuasa della retorica, ovvero tattica persuasa.
L'atipicità della tesi di laurea di Carlo Michelstaedter traspare già da una
semplice lettura del testo. Ma qual è il vero senso, la vera ragione di questa
atipicità? In cosa essa consiste? Soltanto nella "stravaganza"
filosofico-narrativa del suo autore? O forse nell'enorme ingiunzione morale
ch'egli affida ad un mero scritto accademico? La questione si presenta
complessa e feconda, soprattutto se analizziamo la dispositio e l'actio che il
Goriziano adotta nel prometeico tentativo di un'esaustiva esposizione del
proprio pensiero.se stessi, «eliminare la violenza alle radici», aprire il
mondo ad una rinnovata armonia. In questi senso, la linea ideale, che
tracceremo, è per l'appunto Tolsto-Michelstaedter-Capitini. 152 E' indicativo
quanto ci tramandano gli apologhi popolari dei Fioretti: Francesco parlava alla
natura, riuscì ad ammansire e a convertire il ferocissimo lupo. Come spesso avviene,
l'ingenuità popolare anche qui coglie nel segno, disperando di sciogliere nella
semplicità del racconto la profondità della verità francescana: ovvero, la
comunione con quanto ci circonda e la possibilità di rivolgerci alle cose con
un linguaggio che non è più il tecnicismo retorico del dominio, bensì una
persuasione che conduce alla mansuetudine, all'armonia, alla dolcezza, che non
ha bisogno per esprimersi, a ben vedere, neanche più delle parole. «La parola
eloquente è il premio di chi cerca la persuasione, di chi ha il coraggio del
dolore per non averla - chi nella parola finge già finita la persuasione e del
cercar parole si fa una persona per chiedere i premi delle vie degli uomini -
obbedisce alla sua prAopuvyta: è un vile o un retore a piacere», scrive
Michelstaedter. Si pone dunque la necessità di un'aerea digressione sugli
aspetti "formali" della sua opera: ciò non esula dalla sostanza
morale del nostroapproccio, poiché l'etica non si realizza soltanto nell'atto,
ma anche nel linguaggio, preparazione all'atto, esso stesso atto, atto
linguistico. L'indagine non è inappropriata, e il suo risultato ne varrà da
riprova. Il valore persuasivo della parola, dunque. La ricerca di Aristotele ci
ha insegnato che la scienza e la filosofia coincidono nella "formalizzazione"
del loro linguaggio, nella sua struttura sillogistica, razionale. Il linguaggio
riproduce, per lo Stagirita, la razionalità dell'Essere: l'essere, l'è vero, si
dice in molti modi, ma i suoi modi sono sempre razionali. Che vuol dire, ciò?
Che cos'è la razionalità per Aristotele? Problema inaudito '®. La nostra
ipotesi di lavoro, semplice e funzionale, asseconda quella di Carlo
Michelstaedter: secondo il Goriziano, la razionalità aristotelica coincideva
con ciò che Aristotele vedeva, la sua theoria trovava senso compiuto nella
vista, anzi nella pura visione: Ma il punto teoretico è l'atto del mio
guardare, e può girare dove anche io voglia fra la varietà delle cose: sempre
sarà in lui l'entelecheia delle cose guardate, poiché il mio guardare è
attribuzione di fine: la stessa permanenza del movimento nel tempo, poiché il
mio guardare commosso con le cose è attribuzione di stabilità; altro fine,
altra natura, altra forma, altra ragione, e in altro riguardo supposta la
materia inconoscibile [PR 208]. Il retore si muove su punti controversi non per
tutti, ma per quelli ai quali parla. Il vero è detto per Aristotele secondo
l'attualità fenomenica [c.n.], e l'attualità fenomenica nel campo del retore
più vicina, così che il più delle volte è noto a tutti che il retore dimostra
contro questa stessa attualità. Ma non per questo egli è disprezzato e con
nuovo nome quasi a insulto chiamato, ma anzi tenuto in gran stima e col nome di
retore ad onore significato appunto in quanto egli lo sappia fare né per alcuno
scrupolo si trattenga dal farlo [PR 268]. La conclusione errata di un
sillogismo, dunque, sarebbe tale non per un principio logico, ma per un errore,
come dire, di prospettiva ottica; lo sguardo razionale è l'occhio dello
scienziato Aristotele o di Aristotele scienziato: lo sforzo del pensiero è di
riprodurre nella vista intellettuale, nella sua "intelligenza",
l'atto del vedere garantito dall'organo di senso (l'attualità visiva -
fenomenica - coincide con quella intellettiva - noumenica), purificandolo. Il
sogno del filosofo Aristotele (che coincideva con quello del suo maestro,
Platone) era poter scorgere l'Essere nella sua "nudità" ontologica
(l'idea come vista nuda, pura, dell'Essere). Il sogno dell'Aristotele
scienziato era quello di compilare l'enciclopedia delle 153 Quanto ci
apprestiamo a dire si propone, consapevolmente, su un livello di lettura e
d'interpretazione dell'opera aristotelica - nella fattispecie la Metafisica
[che abbiamo letta nell'ed. Rusconi, 1993, a cura di G. Reale], l'Etica Nicomachea
[Rusconi, 1993, a cura di C. Mazzarelli], la Retorica [Mondadori, 1996, a cura
di M. Donati] e la Politica [Laterza, 1993, a cura di R, Laurenti) -
"viziato" dalla prospettiva michelstaedteriana. Tuttavia chiediamo di
accettare quanto segue almeno in vista della sua funzionalità all'analisi che
stiamo conducendo. Per tal motivo, non surroghiamo il nostro discorso con
pedisseque corrispondenze "alla lettera" degli p 4v pe, > Commenta Michelstaedter, in
calce alla sua figura: «Questo [qualcosa è - qualcosa è per me - mi è possibile
la speranza - sono sufficiente] è il cerchio senza uscita? dell'individualità
illusoria, che afferma una persona, un fine, una ragione: la persuasione
inadeguata, in ciò ch'è adeguata solo al mondo ch'essa si finge» [PR 19]. Le
parole del Goriziano, in apparenza involute, trovano comunque ampia
"dimostrazione" nel corso della sua tesi. Anzi, non è difficile
ricavare il filo di un argomentare lineare e lucido, che palesa una logica
ferrea di concatenazioni assiomatiche, che possiamo definire decisamente
spinoziana, senza timore di sbagliarci: se la Persuasione, la Salute, è il
«possesso presente della [propria] vita» [36]!9', ossia (in forma negativa) se
essa «non vive in chi non vive solo di sé stesso» [9], l'uomo al contrario si
rivela, già nella sua conformazione fisiologica, come segnato dalla deficienza.
Questa è senza dubbio il corrispettivo del Wille schopenhaueriano: la vita è a
tutti gli effetti volontà di vivere e la volontà «è in ogni punto volontà di
cose determinate» [12]: ne consegue che l'uomo è «schiavo della contingenza di
questa correlazione» [31]. In questo senso, la correlazione tradisce una sua
"puntualità", perché «noi isoliamo una sola determinazione della
volontà [per volta» [13] e ogni determinazione è «attribuzione [puntuale] di
valore: coscienza » [12]. 60 Aggiungiamo noi: anche senza fine e senza inizio:
Nietzsche, grecamente, avrebbe detto l'«eterno ritorno». 61 Nei periodi che
seguiranno, accompagniamo Michelstaedter nella sua dimostrazione: preferiamo
aderire molto al testo, per non pregiudicare l'amenità delle sue espressioni,
anche se ricomponiamo l'argomentare in una successione più, come dire,
didascalica, ricostruendo la logica che in apparenza smarrisce nell'enfasi
della scrittura. | numeri assoluti, in parentesi quadre, si riferiscono alle
pagine della Persuasione da cui sono tratte le citazioni. Il riferimento alle
altre opere seguirà l'espediente utilizzato nel resto del nostro lavoro.
Espediente che, mai come ora, rivelerà anche la sua importanza metodologica,
lasciando trasparire come l'opera del Goriziano si strutturi tutta secondo una
stretta logica di rimandi interni, fatta di ripetizioni e richiami di concetti,
che non è il mero saltabeccare della retorica della metabasi che punta all'attenzione
del lettore, ma risponde all'intima consapevolezza del fatto che ciò che si sta
comunicando è in fondo un unico, anche se articolato, pensiero. E' altresì
vero, tuttavia, che «...]la volontà non sopporta la noia, e da questa attesa
inerte della vicinanza si muove, allargandosi la coscienza dalla determinazione
puntuale attraverso l'infinita varietà delle forme: le determinazioni si
collegano così a complessi, da procurarsi previdenti ogni volta la vicinanza
per la quale via via ogni determinazione s'affermi e non resti morta, ma per la
forza del complesso si continui per poter altra volta affermarsi. [...] [Così]
la soddisfazione della determinata deficienza dà modo al complesso delle
determinazioni di deficere ancora [...]: nel complesso di quella determinazione
c'è come criterio la previsione delle altre: il complesso delle determinazioni
non è un caos ma un organismo» [16]. Detto in altre parole, «Ia [...] volontà
di essere è così volta a continuare, in ciò che nell'affermarsi presente essa
crea la prossima vicinanza per l'affermarsi d'un'altra determinazione: in
ognuna c'è la previsione delle altre». [17]. Da una parte, dunque, l'organismo
umano si profila come un «complesso delle determinazioni» [16]; dall'altra, in
modo speculare, «i valore [del] mondo [appare come] il correlativo della sua
valenza» [20] - ossia «la stessa cosa è il mio vivere e il mondo che io vivo»
[20], dato che «nessuna cosa è per sé, ma in riguardo a una coscienza» [13]: e,
amplificando questo dato, la stessa «vita [si rivela quale] un'infinita
correlatività di coscienze». Questa correlatività - che abbiamo scoperto
puntuale nella sua manifestazione più immediata, complessa in quella mediata -
si delinea «sempre ugualmente intera e infinita nell'attualità che corre nel tempo;
il passato e il futuro sono in lei, l'avvenire e il non avvenire sono
indifferenti» [14-15]. E' proprio in seno a questa correlatività che si
struttura, poi, la piopuyix, «amore alla vita, viltà» [17], owero la Rettorica,
la «determinazione» della vita, la «persuasione inadeguata » [19]. Se infatti
la persuasione è l' agathon (postulato socratico-platonico), il bene, la
Salute, e gli uomini ad essa naturalmente tendono (anch'esso postulato
socratico-platonico, formalizzato da Aristotele'9) - è il nostro stesso
deficere che aspira alla sua più completa soddisfazione - è altrettanto vero
che, dati i presupposti "volontaristici", essa risulta inattingibile,
poiché, qualora fosse conquistata, la vita «cesserebbe d'esser vita» [8], cioè
la volontà cesserebbe d'esser volontà, il che è già una contraddizionein
termini: infatti, la persuasione implica il possesso presente, attuale, mentre
la volontà è «volontà di se stesso nel futuro» [20], è «distratta nel tempo »
(e così l'uomo). La vita nega, in modo paradossale, se stessa: l'uomo sembra,
senza soluzione, essere votato al dolore ed alla sofferenza e la sua condizione
risulta insostenibile: «il principio della deficienza [viene a costituirsi]
come principio sostanziale» [146]. E' proprio in questo punto, dunque, che
s'inserisce l'azione quotidiana, ostinata, del «dio pudico»'9° della popuyia,
che in modo nascosto (in ciò è la sua pudicizia), ma efficace (in 162 cfr.
Etica nicomachea |, 1, 1094, a3 163 È il piacere un dio pudico, fugge da chi
l'invocò; ai piaceri egli è nemico, fugge da chi lo cercò. ciò sta la sua
divinità), tesse la trama di una consistenza altrimenti compromessa. Il dio
della priopuyia è un lare (un «dio famigliare» [21]) che ci è accanto come un
malefico angelo luciferino («la luce è il piacere» [17]), che ci accompagna in
ogni nostra attività, la veicola, la custodisce. Il lare crea il "velo di
Maya" attraverso l'adulazione del «tu sei» [18]: presiede all'integrità
del nostro organismo (ovvero, scongiura l'anarchia delle membra, strutturando
ogni puntuale determinazione in una rete di correlazioni organiche, spegnendo
da luce quando l'abuso toglierebbe l'uso»'** [16]) e spaccia la mera continuità
dell'organismo stesso per la permanenza persuasa: «il saggio dio lo [l'uomo,
l'animale] conduce attraverso l'oscurità delle cose con la sua scia luminosa
perché egli possa continuare e non esser persuaso mai» [16-17]. L'uomo, in
questo abbaglio, in questo "stordimento", irretito nel gioco del dio
[21], si finge un mondo posticcio [19], credendo che le «sue cose che lo
attorniano e aspettano il suo futuro, sono l'unica realtà assoluta
indiscutibile» [18], ossia per lui «a realtà è [...] le cose che attendono il
suo futuro»; e, ciò facendo, scambia la Persuasione per l'«attualità della sua
affermazione» [18]. L'illusione raggiunge il suo ultimo scopo: «ciò che vive si
persuade esser vita la qualunque vita che vive» [19], «l'esser vivi si fa
un'abitudine » [28], l'uomo «si dice contento e sufficiente e soddisfatto di
sé» [24-25]: «d'uomo si gira sul pernio che dal dio gli è dato [...] e cura la
propria continuazione senza preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il
futuro per lui» [18]. La voce del dolore - il «sordo continuo misurato dolore
che stilla sotto a tutte le cose» [23], la voce «che dice: tu non sei» [27] - è
apparentemente messa a tacere. L'uomo si bea della nuova, insperata sicurezza,
guidato dal piacere [17]: «nel sapore [della momentanea, puntuale affermazione
si risolve] la presenza di tutta la sua persona. Questo sapore accompagna ogni
atto della sua vita organica [e, come vedremo, sociale]» [18]. L'uomo insomma
«non vede [integriamo noi: non vuole vedere] l'opera che il dio ha fatto» [17].
Tuttavia l'illusione della permanenza - ch'è la Persuasione inadeguata - non
tarda a rivelarsi per quella che appunto è: illusione. "«[...] L'uomo, pur
mentre gioisce dell'affermazione, sente che questa persona non è sua, ch'egli
non la possiede» [21], sospetta che «la sua potenza nelle cose in ogni punto è
[sempre e comunque] limitata alla limitata previsione». «[...] AI disotto della
superficialità del suo sapere egli sente il fluire di ciò che è fuori della sua
potenza e che trascende la sua coscienza »: così, ilÈ il piacere l'Iddio pudico
ch'ama quello che non lo sa: se lo cerchi se' già mendico, t'ha già vinto
l'oscurità. - Sono la prima e l'ultima delle quattro quartine del famoso peana,
che Michelstaedter intona al dio della grAdopuyia in D 43. 164 Cfr. il
paragrafo 4c del | capitolo. «suo piacere è contaminato» [21] irrimediabilmente
e suo malgrado, perché da sorda voce dell'oscuro dolore non però tace, e più
volte essa domina sola e terribile nel pavido cuore degli uomini» [22]. Nella
prospettiva della persuasione inadeguata, la voce del Tragico si rivela (si fa
fenomenologia) attraverso la paura della morte: difatti, se «il senso delle
cose, il sapore del mondo è solo pel continuare», se «esser nati non è che
voler continuare », ciò allora vuol dire che «gli uomini vivono per vivere: per
non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che
temere la morte » [32]. La voce del dolore, dunque, fa breccia nella trama
dell'illusione: «quando per ragioni che non stanno in loro, il lembo della
trama si solleva, anche gli uomini conoscono le spaventevoli soste» [23],
ovvero «quando la trama dell'illusione s'affina, si disorganizza, si squarcia,
gli uomini, fatti impotenti, si sentono in balìa di ciò che è fuori della loro
potenza, di ciò che non sanno [...]; si trovano a voler fuggire la morte senza
aver più la via consueta che finge cose finite da fuggire, cose finite
cercando». [22] La persuasione inadeguata ha un colpo di coda: se nei bambini
il dolore esistenziale è più forte - perché ancora incontaminati dalla finzione
del dio luciferino - e se in loro la rivelazione del Tragico prende la forma
dei piccoli terrori e delle piccole superstizioni da esorcizzare (la paura del
baubau, ad esempio) [22-23], negli uomini esso fa capolino nelle forme delle
nevrosi e dei grandi dispiaceri della quotidianità: il Tragico ha le sue
manifestazioni "esistentive" (existenziell, direbbe Heidegger) nel
rimorso, nella malinconia, nella noia, nell'ira, nel dolore, nella paura, nella
«gioia "troppo" forte» [25-26]: in questi sentimenti, l' [A.
Piromalli, in Sotto il segno di Michelstaedter, ed Periferia, Cosenza, 1994,
pag. 22; ci appoggiamo all'analisi e alle parole di Piromalli anche per quanto
stiamo per dire]. La retorica di Aristotele rappresenta, così, l'apice estremo
della degenerazione cui Platone conduce l'originaria, autentica, dialettica
socratica. Socrate si chiedeva, ad esempio, se la giustizia fosse un bene,
Platone che cosa fosse la giustizia. Entrambi (dunque, tutto sommato, anche
Platone) conservano una relazione col «valore individuale» dell'oggetto.
L'approccio di Aristotele diviene invece «una raccolta di fenomeni», «delle
questioni particolari giudiziarie o politiche e la ricerca dei trucchi
rettorici» conduce Aristotele a perdere di vista il vero ed a «teorizzare sui
discorsi che dimostrano» in modo che «lo scopo e la potenza di chi analizza e
teorizza i discorsi è sovrapposta allo scopo e la potenza dell'oratore».
«Questo - scrive ancora Michelstaedter - è l'errore di ogni metodistica, che
caratterizza utta la filosofia aristotelica, o meglio ogni forma aristotelica
della filosofia sotto qualunque nome, in qualsiasi tempo o paese, ed è di
fronte alla Persuasione la Rettorica» [per le citazioni virgolettate di questo
periodo cfr. Appendici critiche, PR 151- 263-278-282]. Di conseguenza, arguisce
Michelstaedter, la Rettorica non è per Aristotele - proprio in quanto
«metodica», «metodologismo classificatorio» - solo una téchne specifica, ma una
sorta di criterio che informa tutte le scienze e tutta la conoscenza. Potremmo
azzardare che essa, come la virtù, diviene un habitus. —_ La valenza politica
della retorica aristotelica viene evidenziata molto bene da Roland Barthes: il
quale - in un volumetto esemplare sulla Retorica antica (trad. it. Bompiani,
1998) - trova molto «allettante mettere in rapporto questa retorica di massa
[quella appunto aristotelica, di massa poiché verte su un
"verisimile" che nient'altro è, secondo lo studioso, se non «quel che
il pubblico crede possibile»] con la politica di Aristotele; era, com'è noto,
una politica del giusto mezzo, favorevole ad una democrazia equilibrata,
incentrata sulle classi medie e incaricata di ridurre gli antagonismi tra i
ricchi ed i poveri, tra la maggioranza e la minoranza; donde una retorica del
buon senso, volontariamente sottomessa alla 'psicologia' del pubblico» [pagg.
21-22; corsivo nostro], -------- Tutto questo non è in contraddizione con
quanto abbiamo affermato nel corso del nostro lavoro: è vero, la
"costituzione della Rettorica" - almeno nella sua accezione comune e
quotidiana - ha un inizio storico, e ha un autore storico; eppure Aristotele
non ha "inventato" la Rettorica; le ha dato soltanto una patente di
legittimità, se vogliamo dirla così, ontologica e (soprattutto) pratica. 184
Etica Nicomachea 1103b 1-5 passim. microcosmo umano: come nell'anima la condizione
ottima è quella d'un equilibrio tra la parte appetitiva (epithymetikon),
irascibile (thymoeidés) e razionale (/loghistikon), nello Stato ideale (lo
Stato giusto) - laddove i tre aspetti dell'anima si incarnano nelle tre classi
sociali dei "produttori", dei "guardiani" e dei
"governanti-filosofi" - il singolo svolge la sua funzione
nell'armonia del tutto, "temperando" il proprio egoismo privato. La
virtù civile per eccellenza sarà proprio la sophrosyne, ovvero quella saggezza
che permette di stare "entro i limiti", cioè di lasciarsi guidare
docilmente dai sapienti'®. Lo Stato - nato dalla necessità che gli uomini hanno
di soddisfare i propri bisogni vitali - diviene insomma la condizione (insieme
etica e logica) dell'individuo, «secondo una relazione di reciprocità in cui individuo
e Stato, virtù e legge, anima e classi sociali vengono a coincidere» [Francesco
Adorno]. Per quanto Platone allegorizzi il destino di appartenenza
dell'individuo ad una determinata "classe sociale" attraverso il
famoso mito di Er - secondo il quale quel destino è in effetti frutto di una
scelta libera e responsabile dell'anima prima dell'incarnazione '°8; per quanto
- almeno nei presupposti e negli intenti - la superiorità di una classe
rispetto alle altre non significhi supremazia ed oppressione, ma risponde
semplicemente alle esigenze di una suddivisione di compiti e di funzioni
necessaria in ogni vita organizzata (nella quale gl'interessi dell'individuo
debbono essere subordinati ai superiori interessi della collettività);
nonostante tutto ciò, Platone - in apparente contraddizione, ma in effetti
seguendo un'estrema logica di coerenza - struttura la sua utopia politica
secondo le linee di un rigoroso, oculato, analitico progetto educativo '®.
Dalla moltiplicazione dei bisogni nasce dunque la differenziazione dei ruoli,
secondo le attitudini di ciascuno: l'educazione confermerà (nel senso del
confirmare latino) quell'attitudine. Ma Michelstaedter, come suo solito, adotta
il suo drastico smascheramento e individua proprio nella formazione dello Stato
platonico il paradigma ontogenetico di qualsivoglia sistema sociale rettorico:
[... ] accettato come base della città della giustizia il fatto della
convenzione dei violenti che è a base d'ogni città - [è nostro compito] fingere
nuovamente con presunzione di giustizia tutte le forme della vita che gli
uomini chiedono a chi voglia far loro da maestro. Accettata come vita libera
quella che è fatta dei bisogni elementari, fondiamo nella città la libertà
d'esser schiavi; accettato come giusto il principio della violenza che afferma
la necessità del continuare, è giusta a ogni bisogno la sua affermazione. E se
troviamo [un qualche espediente]perché ogni bisogno giunga alla sua 185 Cfr. il
II libro della Repubblica e anche 441c-445e (IV libro), dove la questione viene
ricapitolata in modo sintetico e definitivo; sono questi, più o meno, anche i
passaggi del testo (e altri affini nella sostanza) che tiene docchio
Michelstaedter nella sua analisi davvero spietata dello Stato platonico, cui
dedica l'intera, complessa, splendida Appendice II, quasi un'opera a sé stante.
186 cfr. id. libro X 614a ss. . La divinità è fuori causa: Aitia eloménou,
theos anaîtios. 187 cfr. id. libro Ill 386a - 417b; IV 419a - 427b 105 giusta
affermazione senza scapito della giusta affermazione degli altrui bisogni,
abbiamo fondato la città giusta. Che gli uomini siano ognuno schiavo della
propria miseria e per questa sottomesso ai modi a lui oscuri della comune
convenienza, ognuno inteso al proprio utile e per sua natura nemico e ingiusto
a ogni utile altrui, ognuno nell'oscurità del suo travaglio ignaro di tutto
nella vita fuorché del suo bisogno, non importa; egli sarà saggio e giusto e
libero, avrà la persona della libertà, della giustizia, della saggezza, poiché
egli sarà detto secondo la città libera e giusta e saggia. - La città isola le
singole necessità [... e] così costituisce la produzione della vita elementare:
l'agricoltura, le arti, i mestieri, il trasporto; costituisce gli organi dello
scambio: il piccoloegrandecommercio; costituisce tutte le altre forme della
vita; costituisce la necessità della guerra; e del difender la giustizia di
quelle necessità con la violenza finge persona sufficiente ai puAxxec [sono
appunto i "guardiani" platonici]; dell'affermare, sorvegliare, correggere
la giusta affermazione di quelle necessità finge persona sufficiente ai capi
dello stato [PR 147] !88. Se l'educazione di Socrate era dunque «creatrice di
uomini» [PR 150], il suo discepolo infedele si mostra piuttosto attento a
formare cittadini: [...] Platone non ha da fare uomini, egli ha da fare
agricoltori, calzolai, fabbri, mercanti, banchieri, guerrieri, politici, che
compiano ognuno la sua funzione necessaria ai singoli bisogni della città,
perché questa pur si continui. Platone ha bisogno che ognuno s'adatti alla
sufficienza di quell'astrazione di vita che egli a ognunoha macchinato [PR
151]. La "giustizia" platonica si rivela, dunque, per quella che è:
"Ma intanto la città è costituita, e colla città sono costituite la
giustizia, la saggezza, il coraggio, la padronanza di sé. La città è saggia per
la saggezza dei suoi moderatori. La città è coraggiosa pel coraggio dei suoi
puiarnec. E i guàxxes sono coraggiosi se vestono la persona della legge così
che, la salvezza di quella come la loro essendo, da nessuna cosa possano esser
trattenuti che non la difendano fino alla morte. - [...] E se ognuno di loro si
sappia costringere a quel determinato ufficio e all'obbedienza alle leggi
costituite, ognuno sarà padrone (!!) di sé stesso, e la città anch'essa sarà
padrona di sé, in cui l'idea del bene, per consiglio dei saggi moderatori e per
virtù dei difensori e per l'ossequio del popolo, si imporrà alle necessità
della vita così ch'esse abbiano armoniosamente a cospirare alla continuazione
del tutto [PR 156-157; corsivi ed esclamativi di Michelstaedter]. Nel far ciò,
completa Michelstaedter, Platone - diversamente da quanto ci tramandi la
storiografia filosofica e da quanto Platone stesso affermi - non si discosta
molto dall'orizzonte di dominio e di violenza perpetrato dai sofisti, anzi:
«Altro che i sofisti! Se i sofisti erano ladruncoli, ma Platone - absit iniuria
verbo - è il ladro in guanti gialli, che ha il suo sistema per rubare non più,
come quelli facevano, questo o quello a caso, dicendo a ognuno: 'io sono un
ladro'; ma con metodo e seriamente, per poter rubare tutto, e dicendo agli
uomini: 'io son quello che ti salva per sempre dai ladri. Infatti è il modo più
sicuro. Infatti, legittimando i compromessi dell'umana debolezza, egli toglie
[...] all'uomo ogni possibilità di sentirsi in quella insufficiente, ogni
bisogno d'affrancarsi da quella -» [PR 190; corsivi di Michelstaedter]. 188 ||
periodo è preso della sezione II (Il Macrocosmo) della Il Appendice critica,
dedicata nello specifico a Platone, in qualità di «note alla triste istoria»
dell'aerostato; come appare chiaro, ci stiamo appoggiando alle polemiche
citazioni di Michelstaedter (sottintendendole), tratte appunto dalla
Repubblica, per puntellare anche il nostro discorso. Queste parole, che si impongono
per lucidità e forza al lettore, bastano a se stesse'®. Rimane solo da rilevare
che la ri-proposizione di una simile istanza totalitaria di dominio e di
violenza (stavolta sublimata nella rete necessaria e compiacente -
«callopismatica» dice 189 In effetti, La critica di Michelstaedter può, ad
orecchio, richiamare Popper. Il primo volume del capolavoro di quest'ultimo, La
società aperta e i suoi nemici [che noi leggiamo nella traduzione proposta
dall'ed. Armando, 1973], infatti, è in pratica interamente dedicato a una
critica acerrima contro il platonismo politico (il titolo la dice lunga:
Platone totalitario). Volendo davvero ridurre all'osso l'argomentazione
popperiana, possiamo dire che tutto il pensiero politico di Platone, secondo il
filosofo austriaco, può essere ricondotto a un progetto totalitario di
restaurazione della società chiusa (ovvero, della società tribale, che
interpreta se stessa come naturale, sacra e immutabile, ed è collettivista,
gerarchica, organica, fondata sulle relazioni faccia a faccia). A questo scopo,
Platone si varrebbe di strumenti euristici,concettuali e politici, che
s'innestano l'uno con l'altro e che riassumiamo così: essenzialismo
metodologico (la teoria delle idee); collettivismo (come visto, gli individui
hanno valore solo come parti della totalità più ampia ch'è lo stato); teoria
organica o biologica dello stato (cfr. quanto detto sopra); tecnocrazia (il
governo va affidato ai competenti); "storicismo" (sotto questo
termine Popper accomuna tutte le dottrine che s'illudono di enunciare le leggi
dello sviluppo storico nel suo insieme). [Com'è noto, a Platone Popper
contrappone la propria prospettiva - che definisce "umanitaria" - di
"società aperta", modellata/articolata secondo i criteri degli Stati
di diritto e delle democrazie dei paesi occidentali, le cui istituzioni
sarebbero (preferiamo utilizzare il condizionale) modificabili/riformabili
secondo il metodo della libera discussione]. Ma più che alle risapute
affermazioni di Popper, siamo interessati ad una pagina, lasciata nella forma
di intuizione, di Althusser; pagina evidentemente meno conosciuta, ma che si
avvicina più di Popper al discorso di Michelstaedter. Althusser inserisce
quest'appunto su Platone in un discorso generale sull'ideologia e ovviamente
legge la Repubblica (e ne smonta il progetto educativo) alla luce del
"sapere scientifico liberatore" - ovvero "rivoluzionario" -
marxista-leninista, com'egli stesso confessa. E questo segna la sua profonda
differenza col Goriziano. Eppure, quanto scrive Althusser converge in modo
indiscutibile e impressionante con le valutazioni di Michelstaedter (anche se,
come detto, l'accostamento è soltanto "topico"): entrambi individuano
nell'educazione il nocciolo/presupposto rettorico della struttura statale. Scrive
il filosofo francese, col suo caratteristico stile senza reticenze: «Questo
[ovvero che «gli individui concreti 'agiscono', e che è l'ideologia che li fa
agire'»], Platone lo sapeva già. Egli aveva previsto che occorrevano dei
poliziotti (i 'Guardiani') per sorvegliare e reprimere gli schiavi e gli
'artigiani. Ma sapeva che non si può mai mettere un 'poliz iotto' nella testa
di ogni schiavo o artigiano, e nemmeno mettere un poliziotto personale al culo
di ogni individuo (altrimenti occorrerebbe anche un secondo poliziotto per
sorvegliare il primo e così di seguito... e alla fine non ci sarebbero altri
che poliziotti nella società, senza nessun produttore, e di che cosa vivrebbero
allora gli stessi poliziotti?). Platone sapeva che occorreva insegnare al
‘popolo", sin dall'infanzia, le 'belle menzogne' che lo ‘fanno agire' da
solo, e insegnare al ‘popolo' queste Belle Menzogne in maniera che esso ci
creda, al fine di ‘agire’. [l'insistere di Althusser sulle 'belle menzogne!
ordite dall'educazione platonica è il punto di maggiore convergenza con le
riflessionidel Goriziano, ma cfr. la citazione in seguito]. Platone non era
certo un ‘rivoluzionario’, benché intellettuale... egli era un sacrosanto
reazionario. Ma aveva abbastanza esperienza politica per non raccontare storie
e credere che, in una società di classe, la semplice repressione può assicurare
da sola la riproduzione dei rapporti di produzione. Egli sapeva già (senza
averne il concetto) che sono le Belle Menzogne, cioè l'ideologia, che assicura
per eccellenza la riproduzione dei rapporti di produzione. | nostri moderni
‘dirigenti’ ‘anarchici rivoluzionari" non lo sanno. Essi farebbero bene a
leggere Platone, senza lasciarsi intimidire dall' ‘autorità del sapere' che vi
troveranno, poiché, benché puramente ideologici, possono trovarvi, diciamo,
'insegnamenti' di base sul funzionamento di una società di classe» [L.
Althusser, Lo stato e i suoi apparati, trad. it. Editori Riuniti, 1997, pag.
182], Michelstaedter, più di mezzo secolo prima, aveva scritto (e si tenga
presente quanto or ora citeremo, dato che proprio qui si trova il perno
dell'argomentazione critica-filosofica del Goriziano, non solo in riferimento a
Platone, bensì a tutto l'apparato rettorico): «[Nello Stato platonico] la
violenza cacciata per la porta è già rientrata per ogni fessura [..., infatti]
perché ogni singolo a uno di questi scopi bcil. gli scopi sufficienti alla
vita, astrazioni dei bisogni materiali] di indirizzar la sua vita e pei begli
occhi della felicità e della giustizia astratta accetti di tenervela sempre
diritta - bisogna che ognuno al suo posto sia colla violenza ammaestrato»
[corsivo nostro].Michelstaedter - dello Spirito) il Goriziano la riscontrò, a
distanza di millenni, nella Filosofia dello Spirito di Hegel'°° [PR 92-93]. L'ou-topia
platonica, trovava purtroppo - attraverso Hegel - la sua reificazione concreta
e storica nel codice morale-penale austriaco [cfr. soprattutto PR 99-101]. Col
filosofo tedesco l'umanità realizzata (ovvero, l'umanità politica) consisteva -
proprio come insegnava Platone - nella spontanea consonanza fra quel che vuole
l'individuo e quel ch'è richiesto dalla famiglia, dalla società civile e dallo
stato. Per Hegel, questo è lo stato normale - fisiologico - della vita pratica,
che può riscontrarsi nei periodi di equilibrio e di "sanità" dei
popoli (Hegel credeva d'individuarlo, realizzato in tutta la sua pienezza e
fulgore, nella grecità classica: basterebbe, in questo senso, analizzare il
diverso rapporto del Tedesco e del Goriziano proprio nei confronti della
grecità per scorgere l'enorme divario che li allontana). Il «momento etico»,
nella dialettica dello Spirito Oggettivo, supera l'astrattismo morale, che si
arrovellava nell'antagonismo fra intenzione individuale e legge. Lo spirito
oggettivo - in cui 190 In particolare, aggiungiamo noi, nei Lineamenti di
filosofia del diritto. In effetti, Michelstaedter trae le sue citazioni dalla
Enciclopedia delle scienze filosofiche, dalle pagine in cui Hegel parla dello
Spirito Oggettivo, il moment della realizzazione della volontà dello spirito
libero, nella fattispecie il momento del concreto attuarsi della storicità
sociale attraverso la famiglia, la società civile e lo stato. Come si sa, Hegel
approfondì e delucidò tali presupposti nei Lineamenti; riteniamo allora opportuno
richiamarne almeno alcuni paragrafi (tra l'altro famosi) per integrare le
polemiche citazioni michelstaedteriane con i luoghi dove più evidente si mostra
la cosiddetta "statolatria" del filosofo di Stoccarda: $ 257. Lo
stato è la realtà dell'idea etica, - lo spirito etico, inteso come la volontà
sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta a
compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo stato ha la sua
esistenza immediata, e nell'autocoscienza dell'individuo, nel sapere e
nell'attività del medesimo, la sua esistenza mediata, casi come l'autocoscienza
attraverso la disposizione d'animo ha nello stato, come in sua essenza, in fine
e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. [...] § 258. Lo
stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch'esso ha
nell'autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale
in sé e per sé.Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine in se stesso,
nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo scopo
finale ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è
d'esser membri dello stato. [...] $ 260. Lo stato è la realtà della libertà
concreta; ma la libertà concreta consiste nel fatto che l'individualità
personale e i di lei particolari interessi tanto hanno il loro completo
sviluppo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della
famiglia e della società civile), quanto che essi, o trapassano per se stessi
nell'interesse dell'universale, o con sapere e volontà riconoscono il medesimo
e anzi come loro proprio spirito sostanziale e sono attivi per il medesimo come
per loro scopo finale, così che né l'universale valga e venga portato a
compimento senza il particolare interesse, sapere e volere, né gli individui
vivano come persone private meramente per l'ultimo, e non in pari tempo
vogliano nell'universale e per l'universale e abbiano un'attività cosciente di
questo fine. Il principio degli stati moderni ha questa enorme forza e profondità,
di lasciare il principio della soggettività compiersi fino all'estremo autonomo
della particolarità personale, e in pari tempo di ricondurre esso nell'unità
sostanziale e così di mantener questa in esso medesimo. $ 261. Di fronte alle
sfere del diritto privato e del benessere privato, della famiglia e della
società civile, lo stato è da un lato una necessità esteriore e la loro
superiore potenza, alla cui natura le loro leggi, così come i loro interessi
sono subordinati e da cui sono dipendenti; ma dall'altro lato esso è il loro
fine immanente ed ha la sua forza nell'unità del suo universale fine ultimo e
del particolare interesse degli individui, nel fatto ch'essi in tanto hanno
doveri di fronte ad esso, in quanto hanno in pari tempo diritti [...] § 265.
Queste istituzioni costituiscono la costituzione, cioè la razionalità
sviluppata e realizzata, nell'ambito del particolare, e sono perciò la base
stabile dello stato, casi come della fiducia e della disposizione d'animo degli
individui per il medesimo, e i pilastri della libertà pubblica, poiché in esse
la libertà particolare è realizzata e razionale, quindi in esse stesse sussiste
in sé l'unione della libertà e della necessità. [Siamo nella parte terza -
L'eticità; Terza sezione - Lo stato; le citazioni sono desunte dalla trad. it.
dei Lineamenti peri tipi della Laterza, 2000, a cura di G. Marini, e
corrispondono, rispettivamente, alle pagg. 195, 201 e 204; i corsivi sono di
Hegel]. finalità individuale e finalità collettiva coincidono - si realizza pienamente
nello Stato, «a sostanza etica consapevole di sé». La sua essenza è costituita
da quello stesso amore che sta a fondamento della famiglia, innalzato però a
«universalità saputa», a consapevolezza cioè del proprio valore universale. In
questo senso, lo Stato non conosce altri poteri al di sopra di sé. Ovvero,
tradotto il tutto in termini michelstaedteriani, i rapporti sufficienti che
l'uomo intrattiene con la propria vita) e con le altrui vite assurgono
all'ordito - ovvero si camuffano - di rapporti razionali e dunque razionalmente
necessari, e la Rettorica sociale (statale) prende vita, e acquista diritto e
giustificazione del proprio esistere, nella forma pudica e "benevola"
dell'Astuzia della Ragione [List der Vernunft], la parca che tesse nel segreto
le ragioni e le finalità degli uomini. 4. La Rettorica come tecnica della
violenza e violenza della tecnica. Non c'è maggior potenza di quella che si fa
una forza della propria debolezza. Carlo Michelstaedter La Rettorica, dunque, è
es-propriazione: in ciò consiste la sua violenza. L'unico modo per sconfiggere
la Rettorica sarebbe - afferma Michelstaedter, nelle ultime, sconcertanti
pagine della sua tesi - scongiurare appunto ogni educazione: questa, in
sintesi, la pretesa davvero rivoluzionaria (e quanto veramente rivoluzionaria
rispetto a tante altre sedicenti tali) del Goriziano: «togliere la violenza
dalle radici» è il suo motto, nella forma del conosci te stesso: Reagisci al
bisogno d'affermare l'individualità illusoria, abbi l'onestà di negare la tua
stessa violenza, il coraggio di vivere tutto il dolore della tua insufficienza
in ogni punto [PR 45-46]. Utopia, è vero. Perché la Rettorica si impone, è
onnipresente, è tutto ciò che accade: e lo è in modo irrimediabile. Perché,
oltre che una sua forza, ha una sua intelligenza (conosce paure e debolezze
degli uomini, degli esseri, e le sfrutta), una sua estrema capacità di
adattamento. La sua storia universale è anzi la storia del suo adattamento: il
dispositivo rettorico - quasi entità a sé stante, quasi entità pensante - ha
inteso la grande forza del "segreto", la strategia vincente della
"dissimulazione": ha inteso che «sarebbe povero nelle sue risorse,
economo nei suoi procedimenti, monotono nelle tattiche che usa, incapace d'invenzione
ed in un certo senso condannato a ripetersi sempre» * '°": avendo
nient'altro «che la potenza del 'no', del divieto, dell'ingiunzione, della
coartazione, esso «sarebbe essenzialmente anti-energia» *: «tutti i modi di
dominio, di sottomissione, di assoggettamento si ridurrebbero in fin dei conti
all'effetto di obbedienza » * «C'è una ragione generale e tattica che sembra
autoevidente: il potere [nella nostra prospettiva: il dispositivo rettorico, ma
nel taglio ermeneutico che stiamo dando è lo stesso] è tollerabile a condizione
di dissimulare una parte importante di sé. La sua riuscita è proporzionale alla
quantità di meccanismi che riesce a nascondere. Il potere sarebbe accettato se
fosse interamente cinico? Il segreto non è per lui un abuso; è indispensabile
al suo funzionamento » *. Il sistema della violenza, alle proprie
manifestazioni esterne, ai risultati di azioni cogenti di istituzioni deputate
al "sorvegliare e punire" (che tuttavia sopravvivono, propaganda
della ventilata sicurezza), al suo porsi come "stato di diritto",
preferisce le forme dell'interiorità (le forme della morale farisaica che si
oggettivano, nei codicilli del diritto morale-penale), preferisce assumere le
ammalianti sembianze di giustizia sociale e di razionalità sociale: si è fatto
carne e sangue forgiando i tipi del "soggetto" in filosofia, dello
"scienziato" nella conoscenza e in ultimo - figura in cui le prime
due si compendiano - del "cittadino 191 Cfr. la nostra nota 167.
modello" nella società cosiddetta civile, come denuncia il Goriziano, in
pagine davvero forti e risentite. Sono queste le forme, insomma, in cui -
secondo Michelstaedter - la violenza rettorica si è sublimata (nel senso
davvero freudiano del termine), sono questi i meccanismi attraverso i quali
l'ideologia si è fatta idealità, e il Leviatano si è fatto società ideale e
addirittura vagheggiata. Ironia del dispositivo rettorico: «ci fa credere che
ne va della nostra liberazione » *. Ma seguiamo più da vicino il dettato del
nostro giovane filosofo, riprendendo opportunamente la dimostrazione del
"teorema-Michelstaedter" là dove l'abbiamo interrotta nel paragrafo
precedente, amplificandola qui proprio al contesto sociale'””. Abbiamo lasciato
l'uomo nella condizione sospesa tra l'illusione della permanenza e la consapevolezza,
che nella trama dell'illusione s'insinua, della effettiva condizione tragica
della propria esistenza: l'uomo «sente d'esser già morto da tempo e pur vive e
teme di morire» [24]: perché «chi teme la morte è già morto» [33]. A questa
condizione insostenibile, il dio luciferino della yopoyw trova - o pretende di
trovare - un più collaudato ed efficace «schermo [o empiastro] al dolore» [34 e
58]: il dispositivo sociale, appunto. L'uomo chiede «ad altri appoggio alla sua
vita» [34], «dà e chiede, entra nel giro delle relazioni» [43]. Se prima il
compromesso della consistenza si consumava, come dire, nella percezione
"onanista" del proprio corpo, ora gli uomini - con maggior insistenza
- «chiedono di esser per qualcuno e per qualcosa persona sufficiente con la
loro qualunque attività, perché la relazione si possa ripetere nel futuro;
perché il correlato sia per loro sicuro nel futuro» [53]: «egli [l'uomo] si
vuol ‘costruire una persona' con l'affermazione della persona assoluta che egli
non ha: è l'inadeguata affermazioned'individualità: la rettorica» [57]. Ma nel
volgersi «a ricercare quelle posizioni dove il senso attuale della sua persona
lo aveva altra volta adulato colla voce del piacere: ' tu sei' [ovvero,
appunto, nella rettorica sociale], [..., egli] già è fuori del giro sano della
sua potenza» [64], in modo definitivo e irrimediabile. Insomma, gli uomini
decidono di «adattarsi ragionevolmente» [89] l'uno all'altro: cosa davvero
singolare, ammette Michelstaedter, la contraddizione che si viene a creare: nella
società «tutti hanno ragione» quando invece «nessuno ha la ragione» [39, ma
anche 54] della propria esistenza. Difatti, e qui le parole del nostro filosofo
sono chiarissime, nello stipulare la «cambiale della società » [102] gli uomini
si comportano «non però, come ci aspetteremmo, vittime della loro debolezza -
in balia del caso, ma 'sufficienti' e sicuri come divinità » [95]. E' dunque il
punto più alto dell'illusione del dio del piacere, il punto in cui la sua
"arte tessile" assurge a livelli di "regale" maestria'”.
192 Cfr. nota 161. 193 Le nostre espressioni vengono ispirate da un passo del
Politico di Platone, che ci restituisce la valenza della sua rettorica politica
in forma pressoché conclusiva. La nostra citazione, dunque, si allinea a quelle
(davvero numerose) di Michelstadter, e inende compendiarle, condividendone il
contesto polemico:Nella stipulazione del "contratto sociale" gli
uomini «si son fatti una forza della loro debolezza, poiché in questa comune
debolezza speculando hanno creato una sicurezza fatta di reciproca convenzione»
[95, ma anche D 66]: essi, cioè, hanno trovato definitivamente «il modo di
poter continuare con sicurezza ad aver fame in tutto il futuro» [94]. Così, da
una parte, la società «largisce loro sine cura tutto quanto gli è necessario»
[adattato da 96]; dall'altra, essi fingono di ignorare che «a loro
degenerazione è detta educazione civile, la loro fame è attività di progresso,
la loro paura è la morale, la loro violenza, il loro odio egoistico - la spada
della giustizia» [95]. Questo perché, in effetti, la sicurezza - per quanto
graditi siano i suoi servigi e privilegi - si paga comunque con un grandissimo
scotto: essa «è facile ma è tanto più dura: la società ha modi ben determinati,
essa lega, limita, minaccia: la sua forza diffusa è concreta in quel capolavoro
di persuasione che è il codice penale. La cura di questa sicurezza asservisce
l'uomo in ogni atto » [100-101]. E dunque, l'uomo da un lato si trova costretto
ad accettare la propria «libertà d'esser schiavo » («cercando la sicurezza
nell'adattamento a un codice di diritti e doveri») [94], e così pratica
violenza contro se stesso; dall'altro, «impone al resto della materia [alle
cose] la stessa forma» [96] che a lui risulta utile («violenza sulla natura:
lavoro» [97]) e, cosa ancor più grave, «subordina il suo simile alla propria
sicurezza » [97] («violenza verso l'uomo: proprietà » [97]). Questo meccanismo,
leggermente complicato nell'esposizione ma semplice nel suo funzionamento, ha
la forza di un potentissimo abbrivo: date queste premesse, la Rettorica ha
facile gioco nel «coinvorticare» («come la corrente d'un fiume ingrossato »)
[59] tutta la congerie umana e tutti gli aspetti dell'esistenza del singolo
individuo, riuscendo a contaminare ogni sana e onesta persuasione in
"disonestà". Il procedimento si reduplica e si estende, possiamo
dire, per inerzia di moto e per sineddoche di comportamento (la Rettorica, come
la Fama virgiliana, eundo crescit), seguendo una parabola che Michelstaedter
spiega e sintetizza, mirabilmente, nel suo Dialogo: [...] la preoccupazione
della vita spingerà pur sempre gli uomini a curare e a cercare le posizioni
dove videro vivere altrui, dove forse anche parve a loro stessi per qualche
tempo vivere. Nasce per questa preoccupazione, dalla vita sana del corpo, la
degenerazione sensuale e la rettorica dei piaceri; dalla diritta attività d'un
uomo che ha una sua missione da compiere, l'ambizione della potenza - e la
rettorica dell'autorità; dall'opera d'un uomo che aveva qualche cosa da dire -
la posa dei creatori e la rettorica artistica; dalle parole degli uomini che
mostrarono agli altri la retta via - la presunzione dei pensatori - e la
rettorica filosofica con la sua sorella minore: la rettorica scientifica [D
64]. La prima cambiale per l'uomo è il suo corpo, poi viene la camicia con la
quale è nato - e la camicia è contesta di posizione, diritti acquisiti, affetti
acquisiti come i diritti, non solo, ma anche di ciò che il socialmente povero
«Ecco tutta la funzione regale di tessitura: non lasciare mai che entri in
azione una separazione fra il carattere temperato e il carattere energico, che
devono invece essere orditi insieme, in una comunità di intenti e di opinioni,
in una condivisione di onori e di gloria, e in una sorta di giuramento comune,
per farne un tessuto armonioso e, come si dice, ben serrato, e confidare a
questi due elementi le magistrature della città [...] Ecco pronta la buona
stoffa prodotta dall'ordito dell'azione politica, allorché, partendo dai
caratteri umani di energia e di temperanza, la scienza regale assembla e unisce
le loro due vie per mezzo della concordia e dell'amicizia, e realizzando così
il più magnifico e il più eccellente di tutti i tessuti, vi avvolge, in
ciascuna città, tutto il popolo, schiavi e uomini liberi, serrandoli insieme
nella sua trama e assicurando alla città, senza pericolo di insuccesso, tutta
la prosperità di cui può godere quando è ben governata» (Politico, 310e -
311c).trova già nell'atmosfera: le vie, i modi, tutto il lavoro accumulato dai secoli
e di cui i posteri godono i frutti nella vicendevole sicurezza e nella
sicurezza di fronte alla natura [D 67-68]. Questa sicurezza dissimula e copre
con un velo di «prudente ipocrisia» [D 68] una reale situazione di conflitto,
quella sociale, dove in realtà l'homo è homini lupus, dato che «invidia
ambiziosa, prepotenza e timor degli uomini» («le virtù consacrate» della
rettorica sociale) [D 68] la fanno da padrona. Tuttavia, come nella singola
individualità la voce del dolore si fenomenologizza nelle nevrosi quotidiane o
esplode nelle situazioni-limite della perplessità esistenziale, nel contesto
sociale essa prende fiato attraverso la rabbia dei popoli: «la rabbia è il
Leitmotiv della vita sociale», il «cigolio continuo della macchina sociale»;
attraverso di essi, gli uomini sfogano la loro «impazienza e l'insopportabile
senso della dipendenza » [D 69, ma anche PR 120-121]. Ma quali sono gli
strumenti attraverso i quali la Rettorica assicura la «sicurezza fatta di
reciproca convenzione», ovvero, quali sono le reificazioni del /avorio di
(falsa) persuasione ch'è proprio della Rettorica? Possiamo utilmente
schematizzare le indicazioni del Goriziano (del resto, ne abbiamo parlato a
sufficienza nel paragrafo su Parmenide): a) il denaro, «concentrato di lavoro»'*,
destinato a diventare «del tutto nominale, un'astrazione, quando le ruote
saranno così ben congegnate che ognuna entrerà nei denti dell'altra senza
bisogno di trasmissione» [118]'®; 194 In questa definizione del denaro si può
scorgere, netta, l'influenza della lettura di testi di Marx, a Michelstaedter
non alieni. Un importante appunto autografo, riportato dal Cerruti [cfr. in
appendice alla sua monografia cit. alle pagg. 167- 168], mostra ad esempio che
Michelstaedter lesse, annotò e schematizzò, in brevi linee e concetti-chiave,
Il capitale. Questo non deve far pensare, secondo noi, a velleità
rivoluzionarie-proletarie (nel senso marxiano del termine) nel nostro giovane
filosofo - che comunque pur scrisse, in gioventù, un Discorso al popolo -; o addirittura
ad un inserimento della sua Persuasione "contestatrice" all'interno
di una temperie marxista, come da alcuni pur è stato tentato. In realtà,
Michelstaedter ci si mostra lontano da ogni engagement politico, e questa sua
posizione la valutiamo più che come sintomo di un' "ignoranza" o
indifferenza politica, come conseguenza di una ben ponderata presa di
posizione. Evidentemente, il gioco politico (nella fattispecie, quello dei
partiti) dovette apparire al Goriziano come una delle forme più lampanti e più
"scanzonate" del compromesso rettorico: all'interno della
"comunella di malvagi" esiste solo un apparente fronteggiarsi, su
posizioni solo in apparenza contrarie, che mirano esclusivamente al potere
(oggi si chiamerebbe partitocrazia). La politica del tempo gli si doveva
rivelare come conferma di ciò; vale la pena, allora, riportare l'unico appunto
politico (nel senso gretto del termine) che abbiamo ris contrato nella nostra
lettura dei suoi testi, anche a testimonianza della lucidità della sua analisi
in proposito: «[...] Il socialismo [Michelstaedter sta parlando delle
manipolazioni che la Rettorica ha prodotto a scapito dei "sinceri"
moniti della Persuasione] - mantenendo le forme, il nome, gli schemi delle
argomentazioni, tutto il frasario di Marx - ha ridotta la sua negazione della
società borghese a un elemento di riforma nella società borghese, volto a scopi
più o meno particolari e materiali: più o meno mite, a seconda che più o meno i
capi del partito avevano bisogno della società borghese e, approfittando della
forza che loro concedeva il partito, ambivano a un posto in quella. Così che in
Francia il socialismo è giunto al governo, in Germania ha creato una classe
benestante più borghese dei borghesi, in Itali... dell'Italia è pietoso tacere.
-» [PR 124-125 in nota; corsivi dell'autore], Possiamo con comodità riassumere
la questione, e segnare i distinguo, dicendo che, a differenza di Marx,
Michelstaedter non approntò una critica/analisi della Rettorica a partire da
strutture economiche, bensì a partire da strutture ontologiche (la deficienza).
b) il linguaggio, che «arriverà al limite della persuasività » [118], tale che
«gli uomini si suoneranno vicendevolmente come tastiera» [119] "°° e il
linguaggio giungerà alla sua «cristallizzazione» [112] definitiva”; niente
paura, tuttavia: seppure un giorno «gli uomini non riusciranno ad intendersi
certo giungeranno [comunque...] ad intendersela » [88]/®8; c) la scienza,
esasperazione della pretesa conoscitiva, «officina dei valori assoluti» [125],
il baluardo dell'oggettività, che ri-formula a suo arbitrio la consistenza
dell'esistere ricavando «dalla contemporaneità o dal susseguirsi d'una data
serie di relazioni una presunzione di causalità» [84; corsivo nostro]; in
questo rivelandosi lo strumento preferito della yiaopuyia [84]. 95 Si pensi
alle transazioni "virtuali" che oggi avvengono mediante bancomat e
carte di credito, o anche attraverso internet. %6 Si pensi alle... tastiere dei
nostri PC che permettono di chattare (come si dice in gergo) attraverso
internet. 97 «[...] Date parole sulle quali gli uomini senza conoscerle
s'appoggiano per gli usi della vita e senza conoscerle come ricevute le danno»
[87, corsivi di Michelstaedter]. 98 Come visto più volte, per Michelstaedter lo
strumento del linguaggio nasce innanzitutto da un bisogno di
"consistenza"; vale a dire che la "solidità" della parola,
e soprattutto dei luoghi comuni e dei "te cnicismi", serve da una
parte a creare sostanza (illusoria) alla propria deficienza attraverso il
rapporto con gli altri (nel circuito linguistico) [La utilità, quella
originaria], dall'altra ad economizzare la transazione rettorica, se possiamo
esprimerci così [2a utilità, quella definitivamente artefatta]. Questa
situazione di "stordimento" (in riferimento soprattutto alla prima
utilità), il vano tentativo di stornare la voce del dolore/deficere attraverso
il frinire "innaturale" del linguaggio, denunciata più volte da
Michelstaedter, e con insistenza, viene allegorizzata in questa breve, bellissima
favola di Rilke, che ci piace riportare, convinti che se il Goriziano l'avesse
letta l'avrebbe di sicuro, a sua volta, citata (si leggano con attenzione
soprattutto gli ultimi capoversi):«C'erano due creature, un uomo e una donna,
che si amavano. Amarsi vuol dire non accettare nulla, da nessuna parte,
dimenticare tutto e volere ricevere tutto da una sola persona, quello che già
si possedeva ed il resto: e questo è quanto desideravano reciprocamente le due
creature. Ma nel tempo, nei giorni, nel flusso di tutto quello che va e viene,
spesso, prima ancora di avere stabilito un rapporto, un simile modo di amare
non può essere mandato ad effetto: gli avvenimenti incalzano da ogni lato ed il
caso apre loro ogni porta. Per questo i due risolsero di passare dal tempo alla
solitudine lontano dal suono delle ore e dai rumori della città. Si costruirono
dunque una casa dentro un giardino; e la casa aveva due porte, una sul lato
destro e una sul lato sinistro. La porta di destra era la porta dell'uomo, e di
qui doveva entrare tutto quanto era dell'uomo. Ma quella di sinistra era la
porta della donna; e sotto questo arco doveva passare tutto quello che
apparteneva alla donna. Così avvenne. Chi primo si destava il mattino scendeva
ad aprire la sua porta, e fino a tarda ora della notte entravano molte cose,
anche se la casa non era posta lungo una strada. Per chi sappia come riceverli,
arrivano fino in casa paesaggio luce e una brezza dalle spalle cariche di odore
e molte altre cose ancora. Ma anche giorni trascorsi, figure, destini, entravano
per quelle due porte, e a tutti era riservata la stessa accoglienza, tanto
semplice che ognuno credeva di avere sempre abitato in quella casa solitaria.
Così procedettero le cose per un lungo periodo di tempo, e le due creature
erano molto felici. La porta di sinistra veniva aperta un poco più spesso, ma
per quella di destra entravano ospiti più vari. Dinanzi a questa, un mattino
era ad attendere la Morte. L'uomo, non appena la ebbe veduta, chiuse in fretta
la porta e la tenne ben serrata per tutto il giorno. Poco dopo la Morte apparve
dinanzi all'ingresso di sinistra. La donna chiuse tremando la porta elasbarrò
con un robusto chiavis tello. Essi non si dissero nulla dell'accaduto; ma
aprirono più di rado le due porte e cercarono di accomodarsi con quanto avevano
in casa. La loro vita divenne così molto più povera di prima. Le loro riserve
si fecero scarse, sorsero le prime preoccupazioni. Cominciarono a dormire male;
e durante una di quelle lunghe notti insonni, entrambi udirono improvvisamente
uno strano rumore, quasi uno scalpicciare e un picchiare insieme. Veniva di là
dal muro di casa, a eguale distanza dalle due porte, ed era come se qualcuno
cominciasse a scalzare pietre per aprire una nuova porta al centro di quel
muro. Nel terrore improvviso che li colse, i due si comportarono come se non
udissero nulla di strano; cominciarono a parlare, a ridere in modo innaturale;
e quando si furono stancati, il rumore alla parete era cessato. Da quella notte
in avanti le due porte rimangono definitivamente chiuse. | due vivono come
prigionieri; sono malati, soffrono di strane fantasie. Il rumore si ripete di
tempo in tempo. Allora essi ridono con le labbra, ma i loro cuori sono sul
punto di mancare dallo spavento. Ed entrambi sanno che il rumore diventa sempre
più forte e distinto, e debbono parlare e ridere sempre più forte con le loro
voci sempre più fioche». [cfr. R. M. Rilke, Le storie del buon Dio, trad. it.,
Milano, Rizzoli, 1978, pp. 119-122].La società, soprattutto attraverso la
scienza, non soltanto assicura "oggettività esistenziale" ma
scongiura agli uomini ogni «tovog - ogni pericolo che esiga tutta la fatica
intelligente e tenace per esser superato » [105] (ma, in effetti, i due
"pregi" s'identificano). Nel far questo, essa si autopromuove, come
si dice oggi, a "scienza con fini operativi", ovvero a tecnica. La
vita si tecnicizza, il che wol dire, secondo Michelstaedter (il quale non fa
differenza fra tecnica e tecnologia), che la vita si de-potenzia'’. La tecnica,
cioè, viene a 199 La critica di ispirazione heideggeriana può, a buon ragione,
individuare soprattutto in questo punto uno dei più espliciti
"precorrimenti" di Michelstaedter rispetto al filosofo tedesco.
Tuttavia, a prescindere da una certa, effettiva consonanza di diagnosi che pare
accomunarli, ribadiamo quello che, a nostro parere, è l'irriducibile
"cavillo" che li contraddistingue e che rende vana, per noi, ogni
operazione di accostamento: per Heidegger, l'oblio dell'Essere e il richiamo
all'esistenza autentica (come riappropriazione dell'orizzonte ontologico del
Dasein) si giocano sul piano appunto dell'ontologia; per Michelstaedter la
Rettorica ha una natalità fisiologica, se possiamo esprimerci così, e il
richiamo all'esistenza autentica si consuma sul piano del socratismo, ovvero di
una forte istanza etica (etica che, come si sa,Heidegger ci tenne ad escludere
dalla sua "analitica esistenziale"). E' comunque indicativo come,
seppur partendo da differenti presupposti, i due filosofi si fanno interpreti
di una comune "perplessità" del pensiero di fronte ai risvolti
"violenti", neanche tanto nascosti, che la tecnica porta con sé.
Evidentemente, la traduzione politica del dominio tecnico veniva presentita
come pericolo in un'età incerta per eccellenza, che - volendo - Michelstaedter
apre e Heidegger chiuderà, con gli esiti contraddittorii che tutti conosciamo.
E' altrettanto ovvio che Michelstaedter non fu il primo ad individuare, e a
denunciare, l'essenza tecnica, diciamo il "tecnocratismo", del suo
tempo: a partire dalla rivoluzione industriale, almeno, la polemica -
moralistica e/o scientifica (intendiamo, per quest'ultimo punto, marxista) -
contro la riduzione dell'uomo a ingranaggio era addirittura un fatto alla moda.
E prima di Michelstaedter, già un Carlyle, ad esempio, ci dava un ottimo resoconto
di prospettiva: «Se ci si chiedesse di caratterizzare questa età, che è la
nostra, con qualche epiteto unico, saremmo tentati di chiamarla non Età Eroica,
Religiosa, Filosofica o Morale, ma l'Età Meccanica, sopra ogni altra. E' l'Età
del Macchinismo in tutti i significati della parola, esterno e interno; l'Età
che con tutto il suo potere indiviso, fa progredire, insegna e pratica la
grande arte di adattare i mezzi allo scopo. Nulla si fa ora direttamente, o a
mano; tutto colla regola e colla combinazione calcolata. [...] Da ogni parte
l'artigiano vivente è cacciato dalla sua officina per lasciare il posto ad un
altro più rapido ed inanimato. La spola sfugge alle dita del tessitore e cade
in dita di ferro che la maneggiano con maggiore velocità. [...] Per tutti gli
scopi terrestri e per alcuni scopi non terrestri ci sono macchine e aiuti
meccanici; per tritare i nostri cavoli, per immergerci in un sonno magnetico.
[...] Che meravigliosi incrementi furono cosi portati e sono ancora apportati
alla potenza fisica dell'umanità; quanto meglio nutriti, vestiti, alloggiati, e
sotto i rapporti esteriori, quanto meglio accomodati sono ora, o potrebbero
essere, gli uomini con una certa misura di fatica; ecco una riflessione
piacevole che si impone ad ognuno. Quali cambiamenti, inoltre stia apportando
nel sistema sociale questo accrescimento di potenza; come sia sempre più
cresciuta la ricchezza e nello stesso tempo si sia sempre più accumulata in
masse, alterando stranamente le vecchie relazioni e aumentando la distanza fra
il ricco e il povero, sarà un problema per gli economisti politici. [...] Ma
lasciando per ora queste materie, osserviamo come il genio meccanico del nostro
empo si sia esteso in campi affatto estranei. Non è soltanto l'esteriore e il
fisico che sono retti dal meccanismo, ma anche l'interiore e lo spirituale.
Anche qui nulla segue il suo corso spontaneo, nulla è lasciato in balia degli
antichi metodi naturali [...}». A tal proposito, troviamo interessante
riscontrare anche un'indiscutibile analogia descrittiva all'interno della
comune polemica (di Carlyle e di Michelstaedter) contro l'età del Macchinismo:
entrambi fanno riferimento a esempi concreti, minimi, 'tecnici"; entrambi
denunciano una meccanizzazione non solo dell'aspetto "esteriore e fisico",
ma anche dell' "interiore e spirituale". E'anche interessante
valutare l'alternativa che Carlyle propone all'età della tecnica; poco dopo il
passo citato, egli scrive:«Il Filosofo di quest'epoca non è un Socrate, un
Platone, [...] che inculca agli uomini la necessità e il valore infinito della
bontà morale, e questa grande verità, che la nostra felicità dipende dallo
spirito che è in noi e non dalle circostanze che sono fuori di noi; ma uno
Smith, [...] un Bentham, che inculcano precisamente il contrario, - cioè che la
nostra felicità dipende intieramente dalle circostanze esteriori; e che anche
la forza e la dignità dello spirito che è in noi sono esse pure la creazione e
la conseguenza di quelle circostanze. Se le leggi e il governo fossero bene
ordinati, tutto andrebbe bene per noi; il resto si accomoderebbe a suo
piacere!», Un resoconto che Michelstaedter avrebbe controfirmato (a meno che da
esso non sia stab anche ispirato, ma sinceramente non ce la sentiamo di
avanzare l'ipotesi). Quest'ultima citazione da Carlyle non vuole certo
appiattire l'originalità della proposta persuasa di Michelstaedter, né il suo
riferimento alla lezione genuina del socratismo come sostanza etica della
Persuasione (ci mancherebbe altro); vuol soltanto far intendere come la ricerca
esistenziale dicoincidere con la razionalizzazione estrema della relazione
sufficiente poiché essa, in sostanza, s'impegna - potremmo dire, in base al
nostro assunto interpretativo - a sufficere homines [cfr. supra],
meccanizzandone quella che la Arendt chiamava, in senso pregnante, vita activa.
In base a questa diagnosi, che Michelstaedter snocciola non tanto a livello
teoretico 200, il Goriziano conclude che «ogni quanto piuttosto indugiando su
esempi di vita concreta progresso della tecnica istupidice per quella parte
[ch'essa intende sufficere] il corpo dell'uomo» [104]: «le vesti, la casa, la
produzione artificiale del calore rendono inutile la facoltà di reazione
dell'organismo», tale che «l'individuo per sé non è più una forza pericolosa in
mezzo agli animali». Siamo convinti che queste affermazioni di Michelstaedter,
che corrono il rischio di esser lette come un grossolano parossismo
anti-tecnologico, trovino il motivo della loro esagerazione soprattutto in una
velata polemica "ideologica" individuabile tra le righe: esse, cioè,
ci appaiono non solo come ammissioni, ma anche come contestazioni, se si tien
conto (e invitiamo a farlo) delle contemporanee tecno-apologie del futurismo,
altrettanto parossistiche?°'. Inoltre, le conclusioni del Goriziano confortano
anche la nostra linea interpretativa, che legge "foucaultianamente"
la Rettorica, nella sua espressione più pura, come tecnica politica del corpo:
difatti, proprio attraverso la tecnica, secondo Michelstaedter essa sollecita
un processo (diremmo, danwiniano) di atrofia progressiva delle potenzialità
organiche dell'individuo, condizione sufficiente all'asservimento totale (e in
questo contesto, invitiamo anche a tener conto delle "ragioni" della
servitù secondo Aristotele, nelle prime pagine della Politica). Michelstaedter,
oltre che essere frutto di un impegno, di una esigenza e di una sofferenza
personali, evidentemente s'inseriva anche all'interno di una temperie culturale
- che accomunava le voci più alte non solo del socialismo e del radicalismo, ma
anche del liberalismo, dell'anarchismo e addirittura del fronte reazionario -
che auspicava all'unisono un ritorno dell'uomo alle autentiche radici della sua
umanità. [Per le citazioni dei passi di T. Carlyle, cfr. dell'autore: Segni dei
tempi, contenuto in Ideologie nella rivoluzione industriale,a cura di F. Papi,
Zanichelli, 1976, pagg. 121-124 passim] 200 O meglio, lascia al lettore la
facoltà di evincere il livello teoretico dai riferimenti "empirici".
Per gli esempi polemici adottati da Michelstaedter cfr. ib. pagg. 106-107. Ma
cfr. anche la nostra nota precedente. 201 Anzi, la posizione di Michelstaedter
(tecnologia come atrofia dell'organo per delega della funzione, se possiamo dir
così) pare offrirsi come il ribaltamento speculare di quella futurista
(tecnologia come potenziamento dell'organo per ausilio nella funzione). E, in
questo senso, c'è forse anche un intento ironico nel sottolineare l'effetto d'
"evirazione" che la tecnica produce. L'esaltazione del meccanismo e
della velocità, già esplicita nel Manifesto del 1909 (l'anno in cui
Michelstaedter cominciò a scrivere la sua tesi), diviene in Marinetti
addirittura utopia di un nuovo uomo meccanico e "moltiplicato": «Il
giorno in cui sarà possibile all'uomo di esteriorizzare la sua volontà in modo
che essa si prolunghi fuori di lui come un immenso braccio invisibile il Sogno
e il Desiderio, che oggi sono vane parole, regneranno sovrani sullo Spazio e
sul tempo domati. Il tipo non umano e meccanico, costruito per una velocità
onnipresente, sarà naturalmente crudele, onnisciente e combattivo. Sarà dotato
di organi inaspettati: organi adattati alle esigenze di un ambiente fattodiurti
continui. Possiamo prevedere fin d'ora uno sviluppo a guisa di prua della
sporgenza esterna dello sterno, che sarà tanto più considerevole, inquantoché
l'uomo futuro diventerà un sempre migliore aviatore».La tecnica dunque è il
punto più alto e più subdolo della violenza verso l'uomo e verso la natura
[97-98], poiché l'organizzazione tecnica della vita - ossia l'orizzonte tecnico
di dominio - presuppone e valuta tutti gli enti del mondo sublunare alla
stregua di risorse- corpi a disposizione, momenti-corpi di un ingranaggio,
materiali-corpi impiegati/impiegabili secondo piani prestabiliti?°?, Il danaro,
il linguaggio, la scienza, e la sua escrescenza tecnica, rappresentano così la
cementazione dell'intreccio delle relazioni sufficienti, e - garantendosi
fondamenta così salde - la Rettorica ha facile gioco nell'edificare il suo
sistema sociale, la sua geniale architettura di dominio. «Questa camicia di
forza o camicia rettorica - scrive Michelstaedter - è contesta di tutte le cose
nate dalla vita sociale: 1°, i mestieri; 2°, il commercio; 3°, il diritto; 4°,
la morale; 5°, la convenienza; 6°, la scienza; 7°, la storia» [120]. Ed ha per
giunta una sua deontologia, un suo pentalogo”° a uso e consumo della sua
violenza: 1 non impegnarti con tutta la tua persona 2 distingui tra teoria e
pratica 3 prendi la persona della sufficienza che t'è data 4 misura i doveri
coi diritti 5 informati a ciò che è convenuto [108] In definitiva, la genialità
della Rettorica è nel far calzare ai propri "sudditi", coi modi della
lusinga, una convenienza che più che un abito sociale è divenuta una vera e
propria nuova pelle [156; vedremo più avanti come ci riesca]; tal che essi,
beati per l'azione dell'oppiaceo rettorico, «galleggiano alla superficie della
società come un ago asciutto alla superficie dell'acqua per l'equilibrio delle
forze delle forze molecolari» [120; corsivo di Michelstaedter], senza sforzo e,
soprattutto, cosa più grave, senza responsabilità [108]. Gli uomini si adattano
volentieri ad essere partes materiales dell'organismo sociale [148, ma anche
114], scambiano la Salute per la felicità e | benessere, che la Rettorica propina
loro nelle sembianze dell'«armoniosa soddisfazione delle singole necessità»
[154] e dell'«ottimismo sociale» [117]. La Rettorica sociale è il paese dei
balocchi” e l'uomo, come Pinocchio, «non è un E così via. E' altresì
interessante notare che Marinetti, pochi capoversi prima, aveva dileggiato i
Lavoratori del Mare di Victor Hugo come opera emblema di «un leitmotiv
dominante tedioso e sciupato [quello della «divina Bellezza- Donna»]», opera
invece adorata da Michelstaedter. [per le citazioni da Marinetti, cfr.
dell'autore L'uomo moltiplicato e il Regno della Macchina, contenuto in Filippo
Tommaso Marinetti e il Futurismo, Oscar Mondadori, 2000, a cura di Luciano de
Maria, pagg. 38-42]. 202 Per Heidegger, l'essenza della tecnica - il punto
estremo dell' "oblio dell'Essere" - si rivela come Gestell,
"impianto", ossia unione di tutti i modi dell'impiegare. Gli
heideggeriani, giocando sull'etimologia, fanno notare che Gestell vuol dire
anche "scaffale", dove il Ge (che traduce il cum latino), sta per il
modo della raccolta. E che il Ge lo ritroviamo nel Gefahr, nel
"pericolo" della tecnica come orizzonte planetario in cui il
"pensiero calcolante" oblitera definitivamente l'essenza dell'Essere.
203 Si confronti col già citato Pentalogo della persuasione; per cui cfr. anche
oltre, in relazione ad un altro pentalogo, quello tolstoiano. Mittwisser,
ovverdwc, conscius, ma complice in buona fede» [108] del lucignolo dio della
popoya, nel disporre e nel gioire del suo "svago" e delle sue
comodità. 204 Leggiamo in questo senso la simpatia di Michelstaedter per
l'opera di Collodi (come ricordato in precedenza, secondo la testimonianza
della sorella Paula) e abbiamo inserito apposta qui il riferimento, anche per
esigenze di variatio. 118 5. L'insoluto scontro universale di Rettorica e
Persuasione. Le proposte di Michelstaedter per un definitivo affermarsi della
Persuasione. Lo scontro coni fatti. Di fronte alla Rettorica, in un assetto
dunque non monolitico, ma dinamico, plurale, sta la forza della Persuasione, la
forza della resistenza, l'autonomia "politica" (autonomia, ma
politica) del vir: quest'ultimo, come dicemmo, vive in uno stato di emulsione.
«Questi punti di resistenza sono presenti dappertutto nella trama del potere.
Non c'è [...] rispetto al potere un luogo del grande Rifiuto - anima della
rivolta, focolaio di tutte le ribellioni, legge pura del rivoluzionario. Ma
delle resistenze che sono degli esempi di specie: possibili, necessarie,
improbabili, spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente,
irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali»* “°°. La forza
del vir sta nel distinguersi in questo coacervo di opposizioni più o meno
consapevoli, più o meno sincere, più o meno innervate nella (o esposte alla)
malafede: l'opposizione alla Rettorica rischia a sua volta di farsi rettorica,
talora è lo stesso dispositivo che maschera se stesso nelle forme della sua
opposizione”. 205 Cfr. nostra nota 167. 206 Troviamo interessante, a tal
proposito, il tentativo già di Quintiliano di confutare questo carattere
ancipite della retorica: ovviamente, lo scrittore latino fa riferimento alla
retorica intesa nella sua fenomenologia più povera, ovvero come "arte del
dire"; eppure, già qui, Quintiliano si mostra consapevole della potenza del
dispositivo, tale da riuscire a rovesciare una posizione nel suo contrario; si
mostra altresì persuaso che una retorica che rinnega se stessa è piuttosto
un'eristica; e che, di converso, il vero retore segue una morale (quella del
credibile, del verosimile) che non può essere confutata, perché mira al bene
della comunità. C'è una lunga tradizione latina dietro alle parole del
pedagogista, che risale almeno a Catone: l'oratore è il vir bonus dicendi
peritus. Tuttavia, l'autore del brano, verso la fine, quasi sconfessa se
stesso: la retorica si scopre come mero strumento di dominio (seppure volto al
bene della comunità), strumento eminentemente politico che, in un certo
momento, si dissocia volentieri da quella stessa moralità che dovrebbe invece
permearla e che lo scrittore appassionatamente pur le ascrive. E' altresì
interessante, secondo noi, valutare le arti "gemelle" che Quintiliano
associa alla retorica nel corso della sua confutazione: la scherma, il
pilotaggio, la strategia condividono - con la stessa "arte del dire"
- il medesimo sfondo polemico, la medesima finalità di sconfiggere
l'avversario. Ovvero, il meccanismo retorico ad un certo punto si astrae dal
suo luogo di origine e diviene elemento strutturale e caratterizzante di tutto
l'agire umano. Dunque, anche la confutazione di Quintiliano finisce col
ritorcersi contro se stessa. [Del testo, abbiamo evidenziato in corsivo i
passaggi che riteniamo cruciali]. «Assai spesso si fa quest'altra cavillosa
accusa alla retorica, che la discussione abbia luogo da una parte e dall'altra;
ne segue che, mentre nessun'arte è opposta a sé stessa, per la retorica avviene
il contrario; mentre nessun'arte distrugge quello che ha fatto, ciò tocca alla
retorica; parimenti, essa insegna o quanto è da dire o quanto non è da dire, quindi
essa non è arte o in quanto insegna quel che non si deve dire o in quanto, dopo
aver insegnato quel che si deve dire, insegna pure il contrario. Evidentemente
queste considerazioni riguardano solo quella retorica che è aliena dalla
moralità dell'oratore e dal concetto stesso di virtù: del resto, dove la causa
è ingiusta, ivi non ha luogo la retorica, per cui è quasi inverosimile che sia
un buon oratore, cioè un uomo onesto, a difendere l'una e l'altra parte in
causa. Tuttavia, essendo nell'ordine naturale delle cose che due giuste cause
dividano in campi opposti due saggi, dal momento che essi pensano di dover
venire a scontrarsi tra loro, se la ragione cosi comanderà, risponderò a tali
argomenti e certamente in modo da dimostrare che tali idee sono state vanamente
escogitate anche contro quanti concedono il titolo di oratore pure alle persone
dai cattivi costumi. Intanto la retorica non è in contrasto con se stessa:
perché si mette a confronto una causa con un'altra causa, non la retorica con
sestessa. E se tra loro contendono due oratori che hanno imparato la stessa
cosa, sarà sempre arte quella che è stata insegnata sia all'uno che all'altro;
d'altro canto, ciò si verifica nella scherma, perché sovente gladiatori
allenati dallo stesso maestro vengono messi l'uno di fronte all'altro; nel
pilotaggio, perché nelle battaglie navali un pilota fronteggia l'altro; nella
strategia, perché un generale combatte contro l'altro. Allo stesso modo la
retorica non sovverte quel che ha creato. Infatti, l'oratore non distrugge le
argomentazioni da lui proposte e neppure fa questo la retorica, perché tra
quanti pongono come finalità di quest'arte il persuadere o tra due galantuomini
che, come ho detto, qualche caso abbia posto di fronte, oggetto della ricerca è
ciò che più si avvicina alla verità: e se una cosa è più attendibile di
un'altra, essa non sarà opposta a quella che pure apparve attendibile. In
sostanza, come non c'è Di contro, la Persuasione deve trovare una sua coerenza,
una sua consapevolezza, una sua "bontà gratuita", che la distolga
dalla tentazione di invischiarsi anch'essa nella trama di potere, o di essere
inglobata (e dunque di divenire inoffensiva) in una delle tante "sacche di
tolleranza" che la Rettorica ha a sua disposizione. La voce della
Persuasione (soprattutto attraverso l'insegnamento socratico, che ne
rappresenta la trasposizione umana più fedele) [... ]risveglia nell'uomo la
richiesta del bene attuale e lo affranca dal pericolo di dar valori a nomi così
da esser per questi tratto a adattarsi all'irrazionalità di una qualsiasi vita
sufficiente; lo libera dalla vana attesa d'un futuro che porti ciò di cui nel
presente non abbia in sé la potenza, lo libera dalla soggezione dell'ambiente
in ciò che gli nega il possesso di quanto dalle cose e dagli uomini gli possa
esser dato diverso da lui, additandogli come unico possesso da seguire la
propria anima [PR 150]. Ecco perché, a nostro parere, la forza rivoluzionaria
di Michelstaedter non può essere assimilata alla contestazione, filosofica e
politica, della scuola di Francoforte (strascico dell'istanza marxista), come
pure qualche critico" ha proposto. Certo, vien quasi naturale conchiudere
l'analisi michelstaedteriana sul dispositivo rettorico nelle parole
programmatiche che un Marcuse appone al suo capolavoro: «Una confortevole,
levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà
industriale avanzata »°°8, Altrettanto spontaneo nascerebbe l'accostamento tra
gli uomini rettorici e i «salauds» di Sartre (o i «fieri benpensanti», ma per
il Francese è lo stesso), «quelli che passeggiano in riva al mare nei loro
abiti primaverili», credendo (o fingendo di credere) a quell'edificio ordinato
di valori, diritti, abitudini che si sono costruiti per dare un ruolo, un senso
a sé e alle cose, occultando l'abisso della gratuità e assurdità del mondo e
dell'esistenza?°’. opposizione tra ciò che è bianco e ciò che è più bianco, tra
ciò che è dolce e ciò che è più dolce, così opposizione non c'è tra quanto è
credibile e quanto è più credibile. La retorica non insegna mai quello che non
dev'essere detto, né il contrario di quello che dev'essere detto, ma quel che
in ciascun processo dev'essere detto. E non sempre, anche se molto spesso, la
verità va difesa a tutti i costi, perché in certi casi l'interesse generale
impone la difesa di ciò che è falso» [Quintiliano, Institutio oratoria, II, 17,
30-36, trad. P. Pecchiura]. 207 Ad esempio, il Cerruti: ma l'opinione è
divenuta oramai quasi un luogo comune. Il critico, comunque, fa un rilievo che
possiamo accettare, e preporre anche alla nostra analisi: Michelstaedter quando
attacca il "sistema rettorico" - o la Rettorica fatta sistema,
com'egli dice - rivolge invero le sue critiche ad un paradigma assoluto di
"comunella di malvagi" (ogni comunella è, sempre e dovunque,
malvagia); tuttavia la sua spietata disanima ha buon gioco nel prender di mira
l'epifania storica di quella comunella a lui contemporanea, cioè la società
borghese di fine ottocento - inizio novecento, come risultante ultima, almeno
in ordine di tempo, della degenerazione "politica" dell'uomo (e ciò,
nota il Cerruti, si esplicita soprattutto nel Discorso al popolo; ma cfr. la
sua monografia su Carlo Michelstaedter, Mursia - Civiltà Letteraria del
Novecento, 1987 2ed, pag. 48] 208 Cfr. Marcuse, L'uomo a una dimensione,
Einaudi, 1999, pag. 15. 209 Cfr. J .P.Sartre, La Nausea, Einaudi, 1989 nella
fattispecie le pagg. 165-178. L'ipocrita rettorica dei salauds trova il proprio
corrispettivo, amabile e ingenuo, nell'ostinazione di Anny nel creare «momenti
perftti», sforzi tanto minuziosi quanto vani per ricomporre il mondo intorno a
lei. Per Sartre, l'esistenza che si svela (la vera esistenza) è appunto la
Nausea, una pozza tiepida di terribile consapevolezza del putridume che intride
l'aria, la luce, i gesti della gente. Se Michelstaedter avesse potuto leggere
Sartre, avrebbe chiamato certamente anch'egli Nausea la disgustosa
"condizione onirica" che attanaglia l'uomo nelle situazioni limite
della propria esistenza [per cui cfr. supra]. Ma nondimeno l'avrebbe
combattuta. Eppure, la distanza tra le due posizioni - quella di Michelstaedter
e quella francofortese- sartriana - non è solo di prospettiva storica, ma
innanzitutto di prospettiva etica’: un Adorno, un Marcuse, un Horkheimer, un
Sartre (il loro stesso progenitore: Marx) si muovono ancora nella rete dei
poteri, traggono ancora ispirazione dalla spirale di violenza: la
trasformazione ch'essi prospettano, la contestazione di cui essi si fanno
portavoci mira, l'è vero, ad essere destabilizzante, a minare dalle fondamenta
le forme costituite della Rettorica (ovvero, com'essi la chiamano,
dell'amministrazione”'') ; eppure la loro contestazione alla violenza avviene
attraverso la violenza per l'instaurazione di una nuova violenza, ch'è la
stessa Rettorica con nome solo mutato: i giacobini della rivoluzione si
affannano a riscrivere una nuova "enciclopedia" della mappa del
potere, contraddittoria ma non contraria a quella che già esiste. Se proprio
vogliamo trovare un riferimento, più o meno attuale, alla soluzione
michelstaedteriana, potremmo casomai chiamare in causa l'utopia di un Bloch. Ma
anche qui il paragone non tiene. Perché Michelstaedter si pone su un piano
decisamente "altro": la sua Persuasione non consiste in una
riorganizzazione del potere, neanche nelle parvenze di una sua
"castrazione". La Persuasione del Goriziano mira piuttosto a
scardinare ogni sufficiente relazione, ovvero - lo ripetiamo ancora una volta -
a svellere la violenza dalle sue radici, in maniera definitiva. L'atto di
accusa contro le "scuse" della Rettorica è in lui totale, esasperato,
e in questo potrebbe dirsi utopico: eppure contiene una sincerità che non ci
sentiamo di attribuire ai teorici della violenza contro la violenza. Il nostro
giovane filosofo avviò una disperata ricerca di "punti di appoggio" a
questa sua proposta di Persuasione, e - come visto - la individuò in un
/eitmotiv che legava esperienze storiche e culturali eterogenee, da Sofocle,
Socrate, Cristo, Buddha, a Ibsen a Beethoven e Leopardi: voci - quasi confuse
(intendiamo: eccentriche, molto diverse tra loro) - che il tesista riassettò,
compilando una propria, personalissima storia dell'umanità persuasa decisamente
alternativa ad ogni ufficiale, pacifica, compassata storia della razionalità
occidentale (che è poi la storia del potere occidentale). Quei punti di
appoggio dovevano corroborare una sua intima persuasione, ovvero dovevano
garantirle (anche) una dignitosa piattaforma speculativa, che ne scongiurasse
il pericolo di essere mal intesa (come ancor oggi purtroppo avviene) quale
mera, epidermica, gratuita pulsione eversiva e contestatrice rispetto a quanto
la circondava. 210 Come giustamente lamenta il Campailla. Scrive molto bene lo
studioso: «[da un simile accostamento] vien fuori un travisamento del pensiero di
Michelstaedter; il quale ha lottato non per avviare una rivoluzione sociale, ma
per ricostruire il valore etico dell'esistere sul non senso dell'essere» [cfr.
Campailla, Pensiero e Poesia..., cit, pagg. 142-143; corsivi nostri]. 211
Facciamo notare che Michelstaedter vede negli «impiegati [... ] le anime
'implicate' per eccellenza» [PR 110],Una storia della Persuasione, infine, che
sembra scandirsi, anzi che effettivamente s'identifica, con una storia del
Tragico. La Persuasione, dallo scontro «a ferri corti con la vita», esce
perdente. Certo, è così, ribadisce Michelstaedter: è un fatto innegabile, un
esito che "le accade" comunque, suo malgrado. Come è ‘anche vero che
la Rettorica ha assorbito, metabolizzato le testimonianze persuase e le ha
fatte diventare le proprie testimonianze, esplicito ribaltamento effettuato con
malafede: la Rettorica «mangia e beve e prolifica in nome di Buddha, in nome di
Cristo» [adattato da PR 123]; ripetiamo: «Ironia del dispositivo: ci fa credere
che ne va della nostra liberazione». Eppure la voce della Persuasione, seppur
agonizzante, resiste con tenacia, sorvola anche ogni sua strumentalizzazione,
s'insinua nelle falle del "divertimento" rettorico, approfitta dei
suoi cedimenti (ogni pletorica ha i suoi punti deboli, per quanto minimi): la
sua voce di disincanto, per taluni irritabile, "sgomita" insomma per
arrivare fino a noi, ad inquietarci. E a volte ci riesce, neanche questo si può
negare. E' la "profezia" di Socrate, l'anatema del Persuaso rivolto contro
i suoi accusatori ed assassini: [... ]lo dico, o cittadini che mi avete ucciso,
che una vendetta ricadrà su di voi, subito dopo la mia morte, assai più grave
di quella onde vi siete vendicati di me uccidendomi. Oggi voi avete fatto
questo nella speranza che vi sareste pur liberati dal dover rendere conto della
vostra vita; e invece vi succederà tutto il contrario: io ve lo predìco. Non
più io solo, ma molti saranno a domandarvene conto: tutti coloro che fino ad
oggi trattenevo io, e voi non ve ne accorgevate. E saranno tanto più ostinati
quanto più sono giovani; e tanto più voi ve ne sdegnerete. Ché se pensate,
uccidendo uomini, di impedire a qualcuno che vi faccia onta del vostro vivere
non retto, voi non pensate bene. No, non è questo il modo di liberarsi da
costoro; e non è affatto possibile né bello; bensì c'è un altro modo bellissimo
e facilissimo, non togliere altrui la parola, ma piuttosto adoperarsi per
essere sempre più virtuosi e migliori?!?.6 Il pretesto cronologico della
proposta persuasa di Michelstaedter. La violenza a lui contemporanea. Se tento
di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima
guerra mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso
possibile dicendo: fu l'età d'oro della sicurezza. Nella nostra monarchia
austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva
il garante supremo di tale continuità. | diritti da lui concessi ai cittadini
erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente
eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona
austriaca, circolava in pezzi d'oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno
sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel
che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi
possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo
corrispondente; il funzionario, l'ufficiale potevano con certezza cercare nel
calendario l'anno dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva
un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l'affitto e il vitto,
per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola
riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa
la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende
passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in
culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il
primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto
nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il
sovrano vegliardo, ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere)
che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine
prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni
atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della
ragione. Questo senso di sicurezza era il possesso più ambito, l'ideale comune
di milioni e milioni. La vita pareva degna di esser vissuta soltanto con tale
sicurezza e si faceva sempre più ampia la cerchia dei desiderosi di partecipare
a quel bene prezioso. Dapprima furon solo i possidenti a compiacersi del
privilegio, ma a poco a poco accorsero le masse; il secolo della sicurezza
divenne anche l'età d'oro per tutte le forme di assicurazione. Si assicurava la
casa contro l'incendio e il furto, la campagna contro la grandine e i
temporali, il proprio corpo contro gli infortuni e le malattie, si acquistavano
pensioni per la vecchiaia e si offriva alle neonate una polizza per la dote
futura. Alla fine si organizzarono anche gli operai, conquistandosi paghe
regolate e le casse malattia, mentre i domestici si preparavano coi risparmi
un'assicurazione sulla vecchiaia e pagavano in anticipo un obolo per i propri
funerali. Solo chi poteva guardare l'avvenire senza preoccupazioni, godeva il
presente in tutta tranquillità. In questa commovente fiducia, di poter chiudere
anche l'ultima falla all'irrompere della sorte, c'era, malgrado l'apparente
austerità e modestia nel concepire la vita, una presunzione pericolosa.
L'Ottocento, col suo idealismo liberale, era convinto di trovarsi sulla via
diritta ed infallibile verso 'il migliore dei mondi possibili' Guardava con
dispregio le epoche anteriori con le loro guerre, carestie, rivoluzioni, come
fossero state tempi in cui l'umanità era ancora minorenne e insufficientemente
illuminata. Ora invece non era più che un problema di decenni, poi le ultime
violenze del male sarebbero state del tutto superate. Tale fede in un
'progresso' ininterrotto ed incoercibile ebbe per quell'età la forza di una
religione; si credeva in quel progresso già più che nella Bibbia ed il suo
vangelo sembrava inoppugnabilmente dimostrato dai sempre nuovi miracoli della
scienza e della tecnica. In realtà, sulla fine di questo secolo di pace
l'ascesa generale si fece sempre più rapida e molteplice. Nelle strade
splendevano di notte al posto delle tremolanti lanterne le lampade elettriche,
i negozi portavano dalle vie centrali sino alla periferia il loro splendore
seducente; già in grazia del telefono si poteva comunicare da lontano, già si
poteva correre nei carri senza cavalli con velocità impensate, già l'uomo si
lanciava nell'aria attuando il sogno di Icaro. Le comodità della vita passarono
dalle dimore signorili a quelle borghesi; non si dovette più attingere l'acqua
dal pozzo o dal ballatoio, non più accendere con pena il fornello. Si
diffondeva l'igiene, spariva la sporcizia. Gli uomini diventavano più belli,
più sani, più forti da quando lo sport ne irrobustiva il corpo e sempre più
raramente si vedevano deformi, gozzuti, mutilati: tutti questi miracoli erano
stati compiuti dalla scienza, arcangelo del progresso. Anche nel campo sociale
si andava avanti; di anno in anno venivano concessi nuovi diritti
all'individuo, la giustizia veniva amministrata con maggiore senso umanitario e
persino il problema dei problemi, la povertà delle masse, non appariva più
insuperabile. Il diritto di voto venne concesso ad una cerchia sempre più vasta
e con ciò anche la possibilità di difendere legalmente i propri interessi;
sociologi e professori andavano a gara nello sforzo di rendere più sana e
persino più felice l'esistenza del proletariato... Come stupirsi che il secolo
si compiacesse dell'opera propria e vedesse in ogni nuovo decennio solo un
gradino verso un decennio migliore? Non si 212 Apologia 39 c-d [qui nella bella
traduzione di G. Reale].temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli
europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri
padri erano tenacemente compenetrati dalla fede nella irresistibile forza
conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le
divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito
per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace
e la sicurezza, i beni supremi. [...]?!3. Abbiamo trascritto per intero le
pagine con cui Stephan Zweig apre la sua splendida autobiografia (ma il termine
le va stretto), perché sono un ritratto fedele e commosso - una riconoscente
biografia - dell'Austria Felix che rappresentò l'humus vitale, politico,
culturale, sociale in cui visse il celebre scrittore ebreo, e in cui visse
anche il nostro Goriziano. Gorizia, infatti, al tempo di Michelstaedter, era
ancora austriaca (passò all'Italia, come si sa, solo alla fine del primo
conflitto mondiale): rappresentava, del mastodontico impero, una delle estreme
propaggini (la sua provincia) e di quello stesso impero, come per ogni
provincia avviene, riproduceva - nel suo piccolo benessere?'* - lo splendore,
ma anche le contraddizioni, complicate dalla sua collocazione liminare.
"Città giardino", "Nizza d'Austria", luogo privilegiato per
le vacanze della nobiltà asburgica, attratta dal clima mite (l'Adriatico dista
non molti chilometri), dalla dolce vita cittadina, dagli ottimi vini già allora
rinomati, da un'architettonica aristocratica e gradevole che ancora oggi la
caratterizza. Questa sua geografia di confine inevitabilmente si rifletteva (e
ancor oggi si riflette) in una multiforme, in sempre fermento, geografia
culturale: un ibridismo, eclettico e non meramente sincretico, che si giovava
delle fecondanti suggestioni d'incontro tra la cultura italiana, slava e
germanica, e che da esse ricavava una sua pur autonoma, originale risultante. A
buon diritto, Gorizia acquisiva dignitosa posizione tra le compagini di quel
multiforme mondo per cui è stato coniato il termine Mitteleuropa, termine che
da geografico è giocoforza slittato ad indicare una particolare connotazione,
appartenenza culturale, anzi addirittura una categoria esistenziale. I
Michelstaedter erano una delle famiglie più stimate della piccolo-media
borghesia benestante della città: e un ulteriore elemento esasperava la loro
posizione sociale: erano ebrei. Alberto Michelstaedter, il padre di Carlo, era
in effetti il ritratto vivente dell'ebreo assimilato: cercava quasi di velare
quella sua discendenza, dandosi da fare alacremente per ottenere il consenso e
il decoro sociale. Era un instancabile lavoratore: aveva messo su un negozio di
cambiavalute, che si era da subito rivelato redditizio; nei ritagli di tempo,
si dedicava alla letteratura: «Fu un autodidatta - ricorda la figlia Paula, nei
già citati Appuntf "° - Era quasi un bibliomane. Comperava libri,
soprattutto d'occasione, e presto si formò una grande biblioteca di 213 S,
Zweig, Il mondo di ieri, Oscar Mondadori, 1994, pagg. 9-11 214 | volti
soddisfatti di una borghesia in ascesa ci sono tramandati dai ritratti del
pittore autoctono Giuseppe Tominz. opere eterogenee che a noi bambini quasi
incuteva rispetto. [...] La nostra casa fu il centro di riunioni intellettuali
e anche di allegri convegni famigliari». Di animo buono e pronto allo spirito,
tuttavia «era conservativo per le usanze tradizionali ebraiche, ma non era
osservante dei riti né possedeva uno spirito religioso. Anzi era il tipico
rappresentante della mentalità materialistica dell'Ottocento». Politicamente è
un liberale, attivo sostenitore della causa irredentista. Raggiunta una certa
sicurezza economica, Alberto può "permettersi" anche un quarto
figlio: il nostro Carlo Raimondo Michelstaedter (il doppio nome è già un
compromesso di italianità ed ebraicità, così tipico del padre) nasce il 3
giugno 1887. Abbiamo indugiato sul ritratto della figura paterna del filosofo
goriziano non per incoraggiare una lettura psicoanalitica, ma perché -
semplicemente - Alberto Michelstaedter, com'era di sua natura, insistette
sempre nel veicolare la formazione del figlio (forse più che per gli altri tre,
nell'ordine Gino, Elda e Paola: Carlo era quartogenito): una presenza costante,
schiva ma opprimente, che alla dimostrazione diretta dell'affetto e del
consiglio preferiva la stesura di veri e propri sermoni scritti: il più famoso
tra essi è quello che appunto si ricorda come Sermone paterno, consegnato a
Carlo all'atto della sua partenza per Firenze”'°. Alberto riponeva nell'ultimo
figlio quella speranza disattesa dal primo, Gino, partito a cercar fortuna in
America (dove invece troverà la morte), non in grado di soddisfare le paterne
velleità culturali. Il nostro Carlo, da parte sua, vide il padre sempre come
una figura, seppur lontana nel senso "fisico" dell'affetto, comunque
degna di ogni rispetto, elogio, e soprattutto riconoscenza: una figura
enigmatica (in un bozzetto lo 215 Sono gli Appunti per una biografia di Carlo
Michelstaedter, contenuti in appendice al volume di Campailla Pensiero e
poesia..., cit, alle pagine 147-164. Gli stralci che riprendiamo dalla
biografia, nel corso del nostro discorso, s'intendano passim. 216 Vale la pena
riportare alcuni passaggi nodali del Sermone, per render conto della pressione
cui la "rettorica familiare" sottoponeva il nostro giovane e per fornire
testimonianza indiretta della patina moralistica (impregnata di "senso del
dovere") che doveva aver informato tutta la sua educazione in famiglia.
Invitiamo anche il lettore ad un raffronto col Sentir e meditar (presente nel
Carme in morte di Carlo Imbonati, vv. 207-215) di manzoniana memoria, che a
nostro parere presenta considerevoli punti di contatto con quanto segue. «Mio
caro Carlo questo ritratto non ti dà l'imagine del papà "bello" e
scherzoso, è il papà serio, | 'hai detto tu; del resto il papà è serio anche
quando scherza ed è poi giusto che oggi io mi ti presenti con fisonomia
pensosa, perché vengo a farti gli ammonimenti della vigilia della partenza.
[...] Hai fatto qui i tuoi studi con onore ed ora vai in un ambiente gajo ed
artistico a nutrirti la mente di discipline piacevoli e utili. Ma spero che la
tua coscienza t'avvertirà sempre che non vai a godere soltanto, che hai doveri
da compiere. - La coscienza deve aver sempre la parola e dev'essere sempre
ascoltata in ogni nostro passo - ogni nostra azione dev'essere retta dal
criterio che prima d'ogni altra cosa dobbiamo compiere il nostro dovere. - Il
dovere è il faro [...] Guardati Carlo da ogni eccesso, ricordati che nella
misura sta il segreto d'ogni benessere, d'ogni buona riuscita.- Misura nei
godimenti e nello studio, negli attaccamenti e nelle predilezione oggettive e
soggettive.- Il senso della misura rende tutto efficace, spreme da tutto il
giusto diletto e l'utilità, l'eccesso sforma e guasta tutto, ritorce a male le
cose migliori.- [...] Pensa sempre, Carlo, specialmente nei momenti di
perplessità nella tua condotta al papà e alla mamma: Cosa mi direbbero essi?
interrogati e tu conosci il nostro cuore e i nostri principi troverai il giusto
responso. [...] Pensa sempre che una tua mancanza all'onore anche inorpellata
da sociali mitiganti, sarebbe la condanna di morte di tuo padre che non ammette
scuse per quelle prevaricazioni, che ha fatto base della propria esistenza
l'onore, sua legge suprema l'onesto lavoro, sua religione il dovere». [il testo
del Sermone paterno è contenuto nei Dialoghi intorno a Michelstaedter, Gorizia,
Biblioteca Statale Isontina, 1988, pagg. 10-13; le nostre citazioni sono
passim], raffigura alla stregua di una Sfinge!), cui voler bene, perché -
Michelstaedter ne era consapevole - anch'egli evidentemente nascondeva una sua
certa, sincera Persuasione che non riusciva però a palesare. Col tempo, il
sermone paterno dovette apparire al giovane filosofo una delle espressioni più
eclatanti della Rettorica familiare, ma egli non ne fece mai parola al padre,
per non ferirlo: per lo stesso motivo, lodava le mediocri prove letterarie di
quello con affettuosa, filiale ipocrisia. Ma, tutto sommato, l'infanzia del
nostro filosofo trascorre in maniera più che serena: l'armonia e il benessere
che regna in famiglia è il riflesso fedele dell'«elogio della sicurezza felice»
di Zweig. Carlo - ci rivela ancora Paula Michelstaedter - «nei primi anni [tra
i quattro figli] era il più mite, dolce, ubbidiente. Si ribellava [...]
soltanto ad una sola cosa: a chieder scusa di una disubbidienza o di un fallo
commesso, anche se sapeva di aver avuto torto [...}». Da piccolo, piuttosto
pauroso e introverso e "speculativo" (a tre anni, a commento di un
fatto luttuoso, dice alla sorella «Ma sai, anche tu, anche io, tutti un giorno
dovremo morire»), riuscì col tempo a superare quegl' "inceppi":
fonda, allora, con la sorella un Periculum club, la sua esuberanza Ad esse ben
presto si associa la sua passione assoluta: i ballo. Divenuto davvero estroverso,
è l'idolo di coetanei e colleghi: considera tutti i suoi amici con lo stesso
affetto e considerazione, non privilegia nessuno: si perdonano volentieri a
vicenda ogni tipo di monellerie, le più e le meno gravi. Pieno anche di sana
autoironia, porta ovunque vada una fresca ventata di gioia e giovinezza (ad una
festa si traveste da donna, facendo furore): gli piace corteggiare le ragazze,
ma non è importuno o maleducato, anzi le tratta tutte con grande rispetto. Gli
piace vestir bene, ma non è oltremisura vezzoso, o affettato. Comincia altresì
a disegnare (anzi, si scopre un vero genio nella ritrattistica caricaturale?'*)
e ad interessarsi di musica. Il suo si rivela un carattere buono, comprensivo,
portato alla pietà: è celebre l'episodio con un cane randagio (episodio che
Carlo avrebbe in seguito raccontato in greco e lo Mreule tradotto in latino),
sfamato e curato dal giovane: alle lamentele dei genitori, per quell'estranea
presenza in casa, Michelstaedter risponde con una notte "randagia"
passata all'addiaccio. A scuola, e la cosa può un po' stupirci, tutto procede
senza infamia e senza lode: studia volentieri, ma non con esagerata diligenza
(le sue materie preferite sono, manco a dirlo, disegno, italiano e matematica)
e si segnala piuttosto per motivi disciplinari (dannazione dei professori le
schermaglie col compagno di banco Ruggero Bressan)"®; quindi, 217 Cfr. la
diapositiva | [Ritratto del padre-sfinge] nel supporto iconografico. 218 Cfr.
Michelstaedter caricaturista, nelle nostre Integrazioni. 219 E' d'uopo, a questo
punto, a compendio di quanto finora detto, riportare la testimonianza di un
collega ginnasiale più giovane, nientepopodimeno che il futuro poeta Biagio
Marin. L'episodio ricordato dal Marin [che noi leggiamo riprodotto in Cerruti,
Carlo Michelstaedter, cit., pagg. 7-8] è piuttosto famoso nella cerchia degli
estimatori del Goriziano e ci testimonia di come già allora un ancor
giovanissimo Carlo apparisse ai suoi colleghi, come dire, circonfuso di un
alone di soprattutto per assecondare le aspirazioni paterne, si mostra propenso
ad iscriversi alla severa università di Vienna. Effettivamente vi si iscrisse,
alla facoltà di matematica e fisica, «ma poi spinto dal suo amore per l'arte [e
per l'ambiente italiano e la lingua] pregò il babbo di lasciarlo andare almeno
un anno a Firenze, che non conosceva, ma poi vi rimase per tutto il corso degli
studi». Come si immaginerà, per Alberto Michelstaedter fu una mezza delusione,
che non mancherà di far pesare al figlio. Ma che cosa era successo, nel
frattempo? Come mai, forse la prima volta (eccezion fatta per poche,
irrilevanti schermaglie), il giovane goriziano si assunse, tutt'ad un tratto,
il rischio di una scelta così decisiva, definitiva, così... autonoma?
L'inflessibile mente del padre non poteva comprenderla fino in fondo (seppur
comunque la rispettasse): più disponibile e comprensiva et madre Emma, come
sempre. Che cosa era successo, quindi? In effetti, Michelstaedter già da tempo
conduceva - in parallelo alla canonica educazione scolastica - una propria
Bildung culturale e umana: ad esempio, «s'interessò moltissimo per la
letteratura ussa e lesse quasi sempre in traduzioni tedesche Tolstoi, Puskin,
DostojJewsky, ecc...». Ma soprattutto un evento doveva aver scosso il giovane,
un incontro evidentemente non occasionale, ma fatale - diremmo
"congiunturale" - nella storia della Persuasione: l'incontro appunto
con Enrico Mreule, con il dèmone Enrico. «Si avvicinarono, mi pare - scrive
ancora Paula Michelstaedter - nell'ultimo anno di scuola. Mreule era una natura
chiusa, aveva avuto un'infanzia triste, si trovava male in famiglia, s'era
isolato e aveva già da giovinetto tendenze filosofiche precoci. Fu lui a far
conoscere a Carlo Schopenhauer e a iniziarlo alla ricerca dei valori della
vita. Con Mreule e con un altro compagno, Nino Paternolli, si trovava spesso in
una grande soffitta in casa di quest'ultimo, dovepassavano delle lunghe sere a
discutere problemi seri». L'incontro cruciale con Enrico, dunque, rivela a
Michelstaedter un'impressione che già lui stesso, per profondità e riflessione
innate, fiutava nell'aria («sotto la cenere ardeva il fuoco», sana Persuasione,
E' quasi superfluo dire che dalle parole del poeta (non poteva essere
diversamente) ci viene consegnato uno dei più bei ritratti del giovane
Michelstaedter. «Ero in quarta ginnasiale quando lui era in ottava. Tutti lo
conoscevano. Come avviene sempre, noi più giovani guardavamo a quelli degli
ultimi corsi con rispetto. Non parliamo poi di quelli dell'ottava. Tra essi il
più notato, per la sua bellezza, per la sua eleganza, e soprattutto per un
cappello grigio che portava tondo alla spagnola, a tese pari, era Carlo
Michelstaedter. Era uno dei "bravi" un "erninentista" come
si diceva allora. Accanto a lui, i suoi amici Rico Mreule e Nino Paternolli, e
uno, che poi non ho più visto, bello alto, che credo si chiamasse Simsig. Un
giorno, deve essere stato di maggio, perché faceva già caldo, ero alla fontana
nel cortile di tramontana, durante la pausa delle dieci. Ed ecco, sopravviene
il gruppo degli splendidi amici. lo, che avevo appena accostata la bocca alla
cannella, mi ritirai per far posto ai signori dell' "ottava". E
Carlo, che era il primo, vedendo nei miei occhi e nel mio gesto quel rispetto
che mi aveva fatto dimenticare la mia sete, mi sorrise con quel suo sorriso
bianchissimo tra le belle labbra violacee, e mi disse: "bevi". Ma io
non volli bere sotto i suoi occhi così vivi e neri, quasi fossi preso da
pudore, e, "bevi prima tu", gli dissi. Allora si tolse il cappello grigio
orlato, che era il tocco in lui più originale e me lo porse dicendomi:
"allora tienmi per favore il cappello". E si mise sotto la cannella
con la bocca ridente e i capelli, che aveva lunghi e neri e riccioluti, gli
fecero nimbo intorno pallido, nobilissimo. Vedendomi, come aveva smesso di
bere, allocchito, mi diede un buffetto e mi disse: "ora tocca a te,
bevi"»ammonisce Paula): l'età della sicurezza celava, al di sotto della
sua patina dorata, un'oscura, sottile malattia: una decadenza. Questa
lancinante consapevolezza, questa verità presentita ma fin allora
"rimossa", squarcia in modo così violento al giovane l'alcova che
premurosamente la famiglia gli aveva costruito intorno, che a un certo punto
Michelstaedter comincia addirittura a somatizzare il morbo del suo tempo. Il
suo corpo si rivela più debole e cedevole di quanto mai avesse sospettato:
soffre continui mal di stomaco, ogni volta che cerca di ripetere le sfuriate
della prima giovinezza, incappa in una slogatura, in una frattura, in una
rovinosa caduta. Il celebre passo di una lettera, scritta alla sorella in un
momento diparticolare sconforto, può darci conto dell'angoscia del nostro
filosofo: [... ] soffro perché mi sento vile, debole, perché vedo che non so
dominar le cose e le persone come non so dominar le idee che m'attraversano il
capo vaghe indistinte, come non so dominar le mie passioni; che mi manca
l'equilibrio morale, e non ho quindi quell'impulso poderoso che fa andar
qualcuno sicuro a testa alta attraverso la vita, che mi manca l'equilibrio
intellettuale, per cui il pensiero va diritto al suo scopo; perché m'accorgo di
vivere quasi n un sogno dove tutto è incompleto ed oscuro, e quando voglio
rendermi conto, fissare ciò che mi aleggia intorno, tutto sfugge dalle mani, e
provo la pena come quando nei sogni si prova il senso dell'impotenza di tutti
gli organi, e mi sembra che ci sia sempre un fitto velo fra me e la realtà; e
mi convinco sempre più che non sono che un degenerato. Lo so che tu griderai
all'esagerazione, forse anche m'accuserai d'affettazione, e di posa e che so
io. Ma t'assicuro, non poso e sono con tutti sempre allegro, e nemmeno ciò per
partito preso ma perché naturalmente al contatto con gli altri quella
superficie di infantilità che ho sempre avuto e che avrò sempre si vivifica, e
assorbe, o sembra assorbire tutto il resto. E non esagero, purtroppo. Un po' è
individuale, un po' è la malattia dell'epoca per quanto riguarda l'equilibrio
morale, perché ci troviamo appunto in un'epoca di transazione della società.
Quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e l'ingranaggio degli interessi si
disperde, e le vie dell'esistenza non sono più nettamente tracciate in ogni
ambiente verso un punto culminante, ma tutte si confondono, e scompaiono, e sta
all'iniziativa individuale crearsi fra il chaos universale la via luminosa
[...][E 158; corsivi nostri]. | sudditi sereni e sicuri dell'Austria Felix, gli
uomini "cacanici", si rivelavano, alla men peggio, «uomini senza
qualità», come avrebbe scritto Musil di lì a poco: la stessa paternalistica
egida dell'impero presentava una doppia faccia da Sileno rovesciato,
nascondendo la più potente, ma anche la più decrepita (allora), macchina della
Rettorica statale. Ovviamente, si trattava del male di tutto un'epoca, che
s'illudeva di vivere un periodo di pace, che anzi si imponeva un'estemporanea
garanzia di pace bellica tessendo un accomodante ordito di sicurezza,
legittimata dalle "rassicurazioni" dell'idealismo hegeliano. Gli
spiriti più attenti erano all'erta. Gli scrittori russi, con leggero anticipo,
avevano già vissuto e denunciato una situazione molto simile: la Rettorica
zarista era da tempo sull'orlo del baratro, e stava cedendo il passo ad una
nuova, non ancora precisata, Rettorica. In questo manifesto (apparente) vuoto
di potere, l'inquietudine segnava profonde ferite. Dostoevskij, col
caratteristico cipiglio polemico, parlava dal suo personalissimo
"sottosuolo", descriveva le più alte aspirazioni umane come
"umiliate e offese" fino all' "idiozia",
esasperava/semplificava la strategia del potere nella dialettica "delitto-castigo";
Tolstoi conduceva (soprattutto) la sua soggettiva polemica contro la menzogna e
il sopruso che si maschera da ipocrisia, e cercava risposte positive in unnuovo
"umanesimo evangelico"; Goncarov tacciava lo spirito russo di "oblomovismo",
senza riuscire del tutto ad evitarne il fascino; Saltykov-Scedrin accompagnava
la nobiltà russa al più basso livello di cupo, allucinante disfacimento,
economico ma soprattutto morale-esistenziale, come l'antesignano Gogol. Checov
si adoperava nell'elevare i motivi contingenti del ristagno spirituale a
emblemi universali. Ma anche nella "nostra" Europa, già si erano
preannunciati i sintomi della malattia post- hegeliana: Stirner già da tempo
aveva ripudiato tutto e tutti; Schopenhauer aveva trovato rifugio nel suo
narcotico Nirvana; il "folle" Nietzsche profetizzava la palingenesi
universale e indicava la sua Germania come la possibilità di una nuova Grecia,
di un nuovo inizio, drammaticamente esaudito. Il "veggente" Rimbaud,
e con lui la schiera dei "maledetti", sanciva nei suoi versi
disturbanti e conturbanti tutto il proprio livore per l'Europa. Freud proponeva
interpretazioni oniriche al disagio della civiltà, che dispiegava nella
dicotomia cosmico-umana di Amore e Morte, e invitava la malattia a confessarsi.
Confessioni tormentate di Gide, che accusava se stesso della malattia di tutta
un'età. Oscar Wilde, da parte sua, pareva avvoltolarsi compiaciuto tra le
lenzuola della decadenza, causticamente stigmatizzata - ma anche qui, non senza
una certa compiacenza - da Huysmans. D'Annunzio si faceva araldo di una rivolta
tanto magniloquente quanto effimera e povera di contenuti, tradendo senza
pudore l'insegnamento giacobino del suo mentore, Carduccf?°, divenuto
anch'egli, nel frattempo, accomodante. Pascoli (tanto per restare in Italia)
trovava conforto nel suo ego e auspicava l'avvento di un socialismo altrettanto
"fanciullesco". Una voce considerata purtroppo minore, Federigo
Tozzi, suggeriva di chiudere gli occhi. Gl' "idealisti" Croce e Gentile,
ognuno a suo modo, invitavano al contrario a tenerli ben aperti, ma a
correggerne la miopia e la presbiopia attraverso la lente (astigmatica) dello
Spirito. Ma ci vorrebbero pagine e pagine ad elencare tutti, e non è il caso:
ci siamo limitati a libere associazioni che si sono generate nella nostra
mente. Fatto sta, che la voce della denuncia e casomai della rivolta (il
disincanto) non riesce a coagularsi, suo malgrado non riesce neanche a
chiarificarsi, disperdendosi nei mille rivoli delle avanguardie e delle
sperimentazioni (letterarie, ma anche pittoriche e musicali: già, non
dimentichiamoci almeno della pittura cruda e filosofica di Klimt, Kokoschka,
Schiele”: e della musica rivoluzionaria di Schoenberg) o nelle voci isolate
delle riviste (soprattutto in Italia)”. 220 Ammiratissimo da Michelstaedter.
221 Ma si tenga conto anche dei riferimenti fatti dal Monai, nell'integrazione
su Michelstaedter caricaturista. 222 Vien da chiedersi come si ponesse
Michelstaedter di fronte a tale fermento, tenendo conto a maggior ragione dei
suoi studi proprio a Firenze, ch'era, allora, davvero la capitale culturale
d'Italia. In linea generale, la critica letteraria tende ad inserire il
Goriziano all'interno dell'area (a dir la verità, molto sfumata) del
frammentismo vociano. Ma in effetti - come puntualizza Pierandrea Amato, nel
suo bel saggio che già abbiamo avuto modo di citare - «Michelstaedter è
'spontaneamente' escluso da Firenze; [...] la [sua] solitudine [...] è
incondizionata"; ciò a differenza di In modo speculare, rispetto a quanto
detto sopra, la filosofia filo-hegeliana e la scienza positivistica-darwiniana
"pompavano" - anche se su opposti versanti - continue, quotidiane
iniezioni di fiducia ad una borghesia che cavalcava il miracolo economico
dell'industria al suo massimo rigoglio: una borghesia che si dilettava tanto in
dettagliate analisi economiche quanto nella lettura dei romanzi di Verne; tanto
in cervellotiche soluzioni politiche di compromesso (l' "Italietta"
giolittiana ne è il più fulgido esempio) quanto nei salotti a lodare il cuore
di De Amicis, a biasmare l'impertinenza di Mann coi suoi Buddenbrook o a
commentare lo strano suicidio di un giovane maledetto, tale Otto Weininger;
tanto in spericolati investimenti quanto in oculati dietrofront assicurativi
(ironia della sorte: l'epoca della sicurezza vede il pullulare delle
Assicurazioni Generali, quasi inconsapevole presentimento dell'imminente
catastrofe). Una borghesia, ancora (stavolta generalmente medio-piccola), che
si dava da fare nell'arginare certe velleità socialiste- comuniste,
collaborando alla creazione dei preziosi alleati sindacali, oppure - laddove
non riusciva - sfrenando la propria piccineria in violenze gratuite e
pseudo-intellettualistiche (leggi: futurismo, ad esempio). Una cordata
borghese-imprenditoriale, infine, che trovava nei governi avallo, protezione,
incitamento. quanto avviene per "altri giovani intellettuali (Ara e Magris
parlano di una vera e propria ‘pattuglia triestina' che nei primi anni del
secolo studia a Firenze: Slataper, Carlo e Giani Stuparich, Spaini, Devescovi,
Marin e altri) [che] trovano a Firenze e nelle sue 'imprese' una seconda
patria». Il critico sottolinea anche l'estraneità di Michelstaedter nei
confronti dei coevi, roboanti e battaglieri, programmi delle Riviste (nella fattispecie,
fa riferimento al Leonardo) e azzarda che «tutta l'opera michelstaedteriana
potrebbe essere letta [...] anche come il rifiuto dell'impegno violento» che
promettevano appunto quelle riviste. Il critico riporta infine l'episodio
(apparentemente periferico) di un'estemporanea relazione epistolare tra il
Goriziano e Benedetto Croce, che allora già era nel pieno della sua carismatica
egemonia culturale. L'episodio - testimonianza lampante dell' «inserimento
frustrato di Michelstaedter nella cultura italiana» - si riferisce alla
proposta («irriverente, probabilmente solo ingenua») del nostro giovane
filosofo di attendere alla traduzione del capolavoro di Schopenhauer per i tipi
della Laterza, la cui sezione di filosofia moderna era diretta proprio da Croce.
Quest'ultimo «mi rispose subito - scrive Michelstaedter alla famiglia - che
Schop[enhauer] pel momento non rientrava nei suoi progetti- ma che prendeva
nota del mio nome e ‘avrebbe occasione di scrivermi in seguito per traduzioni
dal tedesco'» [l'episodio infatti viene ricordato in E 262-263; le citazioni da
Pierandrea Amato fanno riferimento alle pagg. 168-169-170 passim del suo Attimo
persuaso, cit.]. L'ingenuità di Michelstaedter stava proprio nel porgere una
simile proposta di collaborazione all'araldo dell'hegelismo italiano. Col
tempo, dovette rendersi conto che le parole in apparenza "attendiste"
del Croce nascondevano in realtà un netto rifiuto. Anche in seguito a questa
presa di coscienza, nonché evidentemente in seguito ad una lettura più attenta
e critica dell'opera crociana, Michelstaedter, in un appunto famoso, riversò
tutto il suo sarcastico livore e segnò in maniera netta tutta la sua sdegnosa
distanza dal modo di "far filosofia" del pensatore italiano.
Riteniamo utile riportare il breve appunto nella sua interezza, anche perché,
indirettamente, ci rende testimonianza della consapevole
"asistematicità" del nostro filosofo goriziano e, insieme, del suo
porsi polemico nei confront della filosofia "ufficiale" del suo
tempo: «A B. C. [Benedetto Croce, e così anche per il seguito] non per
insultarlo e non per combatterlo, ma per dirgli la mia ammirazione. Ammirazione
per ogni onesta fatica. 'Ho un'ammirazione per questo giovane - diceva un
vecchio commerciante, di un giovane poeta - ho un ‘ammirazione per lui: ché se
io fossi come lui cretino e ignorante non saprei né leggere né scrivere, e lui
fa tragedie'. Così io che sono un vecchio uomo incallito nel lavoro ho
un'ammirazione per Benedetto Croce, ché se io avessi come lui una mente acuta e
astratta, di filosofia non me ne sarei mai curato e avrei fatto il
giureconsulto - lui fa sistemi [corsivi nostri]. Ma i sistemi non si fanno, e
B. C. dopo aver assorbito tutti i libri di filosofia si spreme e dice: Vedete
quest'acqua di indicibile colore è il prodotto di tutte le altre acque, se ne
mancasse una non potrebbe essere quale è; di qui di mio c'è soltanto l'aggiunta
del mio proprio umore, e la mia angoscia è la sete degli umori che mancano e
che ci verranno soltanto dagli stracci del futuro. Così io mi spremo
disperatamente perché è dovere di ogni straccio di filosofo di spremersi fino
all 'ultima goccia dell'acqua propria e altrui, perché altri poi assorba e
risprema con l'aggiunta del suo umore, e altri ancora assorba e sprema, e
riassorbendone rispremendo vivrà l'umanità E' questo, grosso modo, il quadro -
storico, politico, culturale, morale - in cui viene ad inserirsi la singolare,
a suo modo astorica, "intempestiva", valutazione e proposta di
Michelstaedter. AI Goriziano bastò guardarsi intorno con occhi nuovi per
valutare sempre più e più a fondo lo scheletro rettorico che sosteneva la polpa
dell'«esistenza soddisfatta di sé», e per intuire che la ventilata sicurezza
non era altro che una «gaia apocalisse», per dirla con Broch: ovviamente, a
cadere per prime - sotto gli strali del disincanto - furono le costruzioni
rettoriche ch'egli toccava con mano, quelle nelle quali era immediatamente
inserito, le strutture che lui stesso viveva: la famiglia, la vita cittadina (e
solo per riflesso quella nazionale), l'istituzione accademica. Nelle letture
che nel frattempo conduceva trovava casomai un riscontro di quanto già
avvertisse "a pelle". Scrive la preziosa Paula: «Presto [... ]
l'ambiente di cui si era fatto tante illusioni lo deluse, specialmente quello
universitario. Meno alcuni professori ai quali era affezionato, fra cui Villari
e Vitelli, gli altri lo urtavano per la loro rettorica e la loro vanità
[testimonianze esplicite, al limite del blasfemo, fioccano in molte lettere di
quegli anni]. Gli davano ai nervi quelle aule zeppe di uditori del bel mondo di
Firenze che assistevano alle lezioni per posa, per darsi delle arie». Parziale
conforto a queste amare disillusioni sono le nuove amicizie che stringe
tuttavia in quell'ambiente: il Chiavacci (che poi curerà la sua opera postuma),
Arangio-Ruiz e Giannotto Bastianelli, musicista "wagneriano"
(anch'egli tormentato e destinato al suicidio), che Michelstaedter riuscirà a
convertire a Beethoven, in serate per lui indimenticabili di "musica persuasa".
Ma totale conferma delle stesse amare disillusioni Michelstaedter doveva
trovare (appunto) non solo nella lettura rivelatrice di Ibsen, ma anche in
quella "compulsiva" di Tolstoj. Molti si sono meravigliati del fatto
che il Goriziano di costui ammirasse soprattutto La sonata a Kreutzer o
Resurrezione, macchinosi e quasi pedanti rispetto ai più appassionati, e
appassionanti, Anna Karenina o Guerra e pace. La ragione, per noi, invece è
semplice e istruttiva: Michelstaedter dovette apprezzare la "geometria"
che la polarità Persuasione-Rettorica acquistava nei due ultimi capolavori
dello scrittore russo: lì l'ingiunzione e la critica di Tolstoj alla Rettorica
si faceva scoperta, analitica, "scientifica", e in uno stile
risentito, scarno e didascalico (così lontano da quello avvolgente del più
giovane Tolstoj) che sacrificava del tutto l'intreccio romanzato, lo rendeva
addirittura pretestuoso: anche Tolstoj pervenne, a suo modo, ad una chiarezza
di Persuasione more geometrico demonstrata. Basterebbe dare una rapida scorsa
alle parole di quel folle, ma lucido, uxoricida che è Pozdnysev: parole che,
dietro la parvenza della più meschina misoginia, palesano una nei secoli
all'infinito, il prodotto non sarà mai quello, ma sarà sempre perfetto e non
risciacquatura come dicono i maligni ma quasi - spirito assoluto» [O 661-662].
valutazione attenta e perspicace della Rettorica dell'amore. O basterebbe
fermarsi già alla prima pagina di Resurrezione: Allegri erano tutti: piante, e
uccelli, e insetti, e bambini. Ma gli uomini - gli uomini grandi, gli uomini
adulti °° non smettevano d'ingannare e di tormentare se stessi e gli altri.
Credevano, gli uomini, che la cosa più sacra e più importante non fosse quella
mattinata di primavera, non fosse quella bellezza del mondo, concessa per il
bene di tutte le creature, giacché era una bellezza che disponeva alla pace,
all'accordo e all'amore: ma fosse, la cosa più sacra e più importante, ciò che
essi stessi avevano escogitato per poter dominare gli uni sugli altri per poter
leggere in pratica la seconda parte della tesi di laurea del Goriziano anche
(saremmo tentati di dire: soprattutto) come uno scolio (complesso, filosofico)
a questa profonda, sincera intuizione "francescana" del mondo. O
infine, basterebbe accompagnare il principe Nechljudov attraverso i contorti
meandri della Rettorica della giustizia, fino al ribaltamento (persuaso) di
essa in vera e propria pratica della violenza e dell'ingiustizia; ovvero,
accompagnarlo nella ri-scoperta della genuina lezione evangelica (Nechljudov-Tolstoj,
alla fine del romanzo, ri-legge e ri- compone - alla luce della propria
esperienza - la morale persuasa di S. Matteo); basterebbe ciò, dicevamo, per
capire l'enorme portata dell'anti-dispositivo che Michelstaedter riceveva dalle
mani dello scrittore russo”. 223 Questa sottolineatura tolstojana della
differenza tra l'individuo bambino e l'individuo adulto non è una semplice
sfumatura, come può apparire ad una lettura superficiale: ci sembra che
Michelstaedter colga in pieno l'allusione: nel corso della sua tesi di laurea
(volendo limitarci a questa) egli dimostra a chiare lettere la sua preferenza
per l'animo femminile e per i bambini. Da una parte, «le donne sono senza
rettorica», afferma, tendendo in evidente conto non solo le figure femminili
che si stagliano nei drammi di Sofocle e Ibsen o di Tolstoj appunto, ma
soprattutto le donne ch'ebbe modo di conoscere durante la sua vita: in primis
la madre Emma e la sorella Paula, quindi la sfortunata Nadia Baraden - donna
russa che riceveva da Carlo lezioni di italiano e che si uccise prima che quel
"rapporto professionale" sbocciasse in amore; la scrittrice Iolanda
de Blasi - che visse un intenso, quanto effimero, rapporto d'amore col Nostro,
ostacolato, manco a dirlo, dalla famiglia; e Argia Cassini, l'ultima,
avvolgente fiamma di Michlestaedter: Argia, traslitterato in greco, era per
Carlo l'incarnazione fisica del vagheggiato «porto della pace»). Dall'altra
parte, il Goriziano si schiera a difesa della fanciullezza: i bambini, «quasi
vite in provvisorio», come lui li chiama. Anzi, le ultimissime pagine della
tesi michelstaedteriana - e il loro progetto educativo [ma vd. quanto diremo
oltre] - sono dedicate proprio ai bambini, ovvero al tentativo di scongiurarne
l'entrata nella congerie rettorica, che ne mina - in modo definitivo e
irrimediabile - l'innocenza e ne frustra, altrettanto, il dono di ingenua,
sincera persuasione, ch'essi hanno per loro stessa natura. 224 In Tolstoj,
Michelstaedter doveva trovare comprovata anche la Rettorica sociale della
morte, ad esempio nella Morte di Ivan Il'ic, una delle opere più allucinanti e
"cattive" dello scrittore russo. Di quelle pagine, pur nella sincera
espressione del profondo dolore per la scomparsa (suicidio?) del fratello Gino,
molto vediamo trapelare in una lettera che il Goriziano scrive all'amico
Chiavacci, in cui annuncia la luttuosa notizia e dà una amara e dettagliata
descrizione della condizione "esposta", indifesa della propria
famiglia agli attacchi della ipocrita retorica sociale della "condoglianza":
«Noi non ricordiamo di lui [Gino] né un gesto ingeneroso né una sola malattia.
Era fatto per la vita e la viveva con gioia. Mai il sarcasmo della vita non mi
s'è fatto sentire materialmente, in un caso concreto, con maggior forza. - Tiriamo
innanzi. Qui intanto siamo soffocati dalla marea della condoglianza volgare
delle infinite persone che conosciamo, e che in iscritto e a voce si credono in
dovere di debitarci le stesse convenzionalità. In casa una corrente continua di
visite, e il gridio ininterrotto delle stesse frasi. - E i miei ogni giorno
come cavalli stanchi riprendono il cammino, e parlano e si ripetono e si
commuovono. lo soffro anche per questo. Sento l'umiliazione della nostra
famiglia mutilata come d'una piaga aperta - e penso che mentre le piaghe si fa
sciano, il 'lutto' non serve che a étaler il dolore a tutto il mondo. Penso
alla nostra casa chiusa per solito agli indifferenti, raccolta, gelosa della
sua intimità - e invasa ora da tutta la volgarità perché una forza indipendente
da noi ha aperto la porta. E tutti i corvi vengono all'odore della morte; tutti
si precipitano Come Tolstoj, attraverso Tolstoj, Michelstaedter preferì da
subito il Vangelo "monofisita" di Matteo, come uno dei più autentici
luoghi di Persuasione. Come Resurrezione, anche La Persuasione e la Rettorica
termina con un progetto educativo. E il "pentalogo" stilato
(rielaborato) da Nechljudov-Tolstoj trova infine esatta corrispondenza in
quello della Persuasione michelstaedteriana?°°. perché siamo colpiti,
indeboliti; il nostro dolore, la parte più intima di noi esposta in strada,
profanata dagli occhi curiosi e dalla simpatia della sensiblerie dei deboli. -
Ed io non posso addolorare di più i miei, non posso voler liberarmi - e di
tante altre cose non posso liberarmi ora meno che mai [... J» [E 353]. Questo
stralcio di lettera ha una sua importanza non soltanto contingente. Essa ci
testimonia, innanzitutto, del rovinoso velocizzarsi della sfortuna che
perseguita il nostro autore: gli eventi precipitano: alle disillusioni che emergono
per l'estrema sensibilità del suo animo, ai dispiaceri che hanno puntualmente
costellato la sua vita (non ultima la partenza di Enrico, per quanto salutata
con orgoglio), si associa l'evento ferale, per lui più drammatico di quanto
Michelstaedter stesso non voglia manifestare, e il definitivo crollo
dell'alcova familiare, già da tempo vacillante. Il «sarcasmo della vita» è
davvero spietato, e coglie all'improvviso i suoi elementi più validi e più
forti, inspiegabilmente. Questa constatazione fa nascere nel giovane filosofo
collera e indignazione, che riversa acidamente, ancora una volta, sull'istituto
retorico. Qui viene enunciato, in forma "ufficiosa", anche l'anatema
definitivo rivolto contro la macchina sociale, la cui doppia faccia viene
smascherata anche nelle sue manifestazioni di compassione e di solidarietà al
dolore, e dunque, in apparenza, più fraterne e "umane". Qui si
avverte il punto di crisi di quella "paranoia rettorica" che, secondo
noi, attanagliò Michelstaedter già dal momento della "scoperta
persuasa" e che si esacerbò soprattutto nei suoi ultimi mesi di vita. Una
Rettorica qui definita forza oramai «indipendente», cioè totalmente svincolata
dallo stesso controllo umano, e vestita di abiti corvini che sfoggia (ironia
della sorte) soprattutto in occasioni di dolore. Una Rettorica sanguisuga,
famelica, dotata di occhi che profanano, che approfitta dei punti deboli
dell'uomo, allettata dall'odore della morte, che è il suo stesso odore, simile
col simile. Michelstaedter, per ora, non «può volersi liberare» e deve
accettare il gioco del dolore e del dovere (la stesura della tesi) per non
aggravare l'atmosfera pesante ed affranta della famiglia. Accetta quest'ultima
retorica per amore. Ma non vi leggiamo (non vogliamo leggervi) rassegnazione. Certo,
c'è la consapevolezza di un doppio dolore, di una infelicità reduplicata dalla
stessa consapevolezza della Persuasione: «Noi viviamo oscuri, mal delineati,
confusi, doppiamente infelici; gli altri vivono una vita luminosa anche nel
dolore, e non hanno mai il senso ch'essi personalmente sono nel mondo cosi
sportivamente, o lo hanno soltanto quando anche tutto il mondo è ormai per loro
una cosa sportiva» scrive Carlo al Chiavacci, in una delle lettere successive
[E 401], e non può non leggersi l'aspirazione stanca ad una felicità che, per
un triste destino, sfugge sempre di mano: la Persuasione pare quasi una
maledizione che si tira addosso solo malanni: dov'è quella gioia che essa
prometteva? Non sono più felici coloro che vivono «sportivamente» la propria
vita, luminosi anche nel dolore? Ma è solo il nero che riflette, e alla vita
che nasconde la morte bisogna opporre un'esistenza che tende alla vera vita. E
allora, ad un anno esatto dalla morte del fratello, Michelstaedter gli rende
l'ultimo omaggio disegnando di sua mano la pietra tombale e realizzando «con le
mie mani quello che gli altri dicevano di non saper fare»: «Per tre giorni
lavorai da un fabbro per scolpire due maniglie di ferro, che fuse in ghisa
sarebbero state deboli. E allora mentre il lavoro procedeva bene, e mi gettavo
stanco alla sera sul mio letto, mi pareva d'esser ricco di non so che
ricchezza, mi pareva di fare qualcosa, di lavorare per mio fratello come se
dovessi vincer la morte». «Vincer la morte» diviene l'imperativo esistenziale
che traduce l'aspirazione di «togliere la violenza dalle radici»: bisogna fare
[il corsivo sopra è dello stesso Goriziano] qualcosa, re-agire; Michelstaedter
riscopre il piacere del contatto con le cose, come Serafino Gubbio nel noto
romanzo di Pirandello; il piacere della fatica, dell'impegno, della poiesi
bistrattata sin dai tempi di Platone e Aristotele. Fare è anche poesia, e la
Persuasione è anche fare. Pur se non è possibile eliminare l'atroce dubbio che,
sempre e comunque, ci si trova ad aver «lavorato per la morte», sensazione di
sconforto che riduce ad uno stato di «vuoto, miseria e impotenza». [per queste
ultime citazioni, da noi adattate, cfr. la lettera di Michelstaedter ad Enrico
Mreule, 14 febbraio 1910, E 432] 225 La perfetta consonanza (addirittura
numerica!) dei "comandamenti" tolstojani e michelstaedteriani è un
rilievo che è sfuggito purtroppo alla critica (o almeno, nei contributi critici
che abbiamo visionato non se ne fa parola). La lettura di Tolstoj è, a nostro
parere, un inestimabile supporto ermeneutico per tentare di "capire"
Michelstaedter, e ci teniamo a sponsorizzarla. Ora, per dar sostanza al nostro
discorso, iportiamo di seguito il pentalogo di Tolstoj e riproponiamo quello
della Persuasione per poter apprezzare, in modo sinottico, quanto della lezione
di Tolstoj fosse trapelato nel dettato ultimo del filosofo goriziano e
trasposto sul piano "filosofico" (questo senza voler porre in minimo
dubbio l'originalità del Nostro). Ancora, la prospettiva tolstojana (come si
ricaverà dalla lettura), il suo insistere sugli uomini, conferma in modo
definitivo, seppure ce ne fosse a questo punto bisogno, la correttezza della
nostra valutazione "politica" della proposta persuasa. «Con la
speranza di trovare lì nel Vangelo una conferma a questo suo pensiero,
Nechljudov si mise a leggerlo dal principio. Leggendo il discorso della
montagna, che sempre lo aveva commosso, adesso per la prima volta vi scorse non
già dei be semplici, chiari precetti ben eseguibili ne lissimi pensieri astratti,
che in massima parte esprimessero esigenze eccessive e impossibili da eseguire,
ma a pratica, precetti che, se fossero stati eseguiti, come era pienamente
possibile, avrebbero dato una sistemazione assolutamente nuova alla società
umana, tale che in questa non solo si sarebbe d istrutta da sé tutta quella
violenza che aveva tanto indignato Nechljudov, bene accessibile all'uomo: il
regno di Dio sulla terra [corsivi nostri]. Tali precetti erano cinque. primo
precetto (Matteo, v, 21-26) l'uomo non solo non deve uccidere, ma non adirarsi
contro il fratello, non a, un raca, e, se viene a lite con qualcuno, deve
rappacificarsi con lui prima Secondo i deve cons di fare l'off Secondo i
piacere de Secondo i Secondo i colpiscono iderare nessuno un essere da nu erta
all'altare, cioè prima di pregare. secondo precetto (Matteo, v, 27-32), l'uomo
non solo non deve cedere al nessuno rifiutare ciò che si possa volere da lui.
Secondo i amare, aiu quinto precetto (Matteo, v, 43-48), l'uomo non solo non
deve odiare i suo tare, servire. ma si sarebbe raggiunto il più alto a
sensualità, ma deve rifuggire dal la bellezza della donna, e deve - una volta
che s'è unito con una donna - non tradirla mai. terzo precetto (Matteo, v,
33-37), l'uomo non deve promettere nulla con giuramento. quarto precetto
(Matteo, v, 38-42), l'uomo non solo non deve vendicarsi su una guancia, deve
presentare l'altra, deve perdonare le offese e sopportarle con rassegnazione, e
a occhio per occhio, ma quando lo i nemici, né combatterli, ma li deve
Nechljudov aveva fissato lo sguardo sulla luce della lampada, e così rimaneva
assorto. A contrasto di tutto il mostruoso disordine della nostra vita, che
aveva ben presente, si prospettò con chiarezza che cosa questa vita avrebbe
potuto essere, se gli uomini fossero stati educati secondo quei principi
[corsivi nostri]: e un'esultanza come da gran tempo non provava gl ‘invase
l'anima». Michelstaedter fa da contrappunto e munisce i precetti tolstojani di
una salda connessione filosofico-esistenziale: "No, la mo rte non è abbandono"
disse Itti con voce più forte [1] ma è il coraggio della morte onde la luce
sorgerà. [2] Il corag gio di sopportare tutto il peso del dolore, [3] il corag
gio di navigare verso il nostro libero mare, [4] il corag nella cura [5] il
corag gio di non sostare dell'avvenire, gio di non languireper godere le cose
care. La persuasione poetica si cesella, puntualmente, nelle
"definizioni" assolute che troviamo nella tesi di laurea: [1] Il
dolore parla. [PR 46] [2] Il dolore è gioia [49] [3] Dare non è per aver dato
ma per dare (Souvax !) [42] [4] Non può fare chi non è, non può dare chi non
ha, non può beneficare chi non sa il bene [42] [5] Dare è fare l'impossibile:
dare è avere. [43] 7. Come la violenza perpetua se stessa (I). Dall'atomo alla
molecola sociale. Regalasi gattini in cerca di padrone. Annuncio esposto nella
bacheca degli studenti della facoltà di filosofia, Università Federico II,
Napoli Come abbiamo visto in abbondanza, l'organismo "atomico", il
«complesso delle determinazioni», si esprime e si realizza anzitutto come
appetito (volontà determinata, o conatus, se vogliamo utilizzare il termine
spinoziano), cioè nel desiderio di possedere la natura, ovvero di fare del
mondo un polo di sfruttamento esistentivo: il mondo è insomma il ricettacolo in
cui l'organismo atomico reperisce gli elementi atti alla soddisfazione dei
propri bisogni, elementari e/o complessi (questa, in soldoni, la «violenza
contro la natura»). L'appetito segna una diversificazione tra i vari organismi
appetenti: tra gli individui, alcuni si conquistano una posizione di dominio,
altri accettano giocoforza la subordinazione, in un meccanismo in cui ciascuno
comunque pretende di essere riconosciuto dall'altro come a lui superiore, come
unico, assoluto usufruttuario del mondo. Nell'impossibilità dell'assolutezza,
gli uni e gli altri depongono volentieri le armi e si adagiano su una comoda
convivenza. Questo rapporto (chiamiamolo per ora "dialettico", ma
cfr. oltre), che lega le "coscienze empiriche" nel conflitto per la
supremazia, presenta indiscutibili affinità con la «otta per il
riconoscimento», così come viene postulata/descritta nella Fenomenologia dello
Spirito di Hegel (la famosa dialettica servo-padrone). Questo rilievo, avanzato
con intelligenza dal Garin, è stato applaudito da tutta la critica. Ora, noi
non vogliamo certo metterlo in discussione, come non vogliamo mettere in dubbio
le letture hegeliane che Michelstaedter fece. Tuttavia, ci sia concesso almeno
d non esserne del tutto convinti: siamo invece convinti che le analisi di
Michelstaedter partano piuttosto, ancora una volta, dalle pagine di Aristotele,
in particolare dalle prime pagine della Politica. Lo Stagirita scrive: [per la
formazione della società o dello Stato] è necessario in primo luogo che si
uniscano gli esseri che non sono in grado di esistere separati l'uno
dall'altro, per es. la femmina e il maschio in vista della riproduzione [..]e
chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione. In
realtà, l'essere che può prevedere con l'intelligenza è capo per natura, mentre
quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per natura schiavo:
perciò padrone e schiavo hanno gli stessi interessi.226 Proprio come per
Aristotele, per Michelstaedter colui che, in tale lotta, non teme di perdere la
propria vita, si impone su colui che, invece, ha paura della morte”: di
conseguenza il primo diviene dominus e il secondo servo (homo, secondo il
nostro [i corsivi sono dello stesso Michelstaedter: abbiamo altresì ribaltato
consapevolmente la disposizione dei precetti del Goriziano, che nell'ordine
appaiono 3-4-5-1-2, per dar più filo al nostro discorso] 226 Aristotele,
Politica, 1252a 25-30 [che noi leggiamo nella trad. it. dell'ed. Laterza,
2000]; i corsivi sono nostri, funzionali a quanto ci apprestiamo a dire. 227 Ma
cfr. quanto noi detto nella parte finale del paragrafo 4d del nostro |
capitolo, paragrafo che s'intitola La Persuasione al bivio. pediente
ermeneutico). La temerarietà del padrone non è il coraggio esistenziale del
Persuaso, non è fine consapevole ed adeguato, che sfocia nell'autentica epoché
della morte, frutto della consapevolezza della malattia mortale: il dominus ha
una superiorità che potremmo a buon ragione cefinire, anche qui, darwiniana: a
comandare sono gli individui più adatti, ovvero più forti e più risoluti e più
intelligenti, come dice Aristotele gli «esseri che possono prevedere con
l'intelligenza» o - come parafrasa Michelstaedter - gli esseri che possiedono
una «previsione più organizzata a una più vasta vita » [PR 29]7”. Il padrone
non lavora la terra, non è artifex, ma costringe il servo a lavorare in sua
vece e per il suo guadagno: «Il padrone si serve dello schiavo attraverso la di
lui forma: attraverso la potenza di lavoro», scrive il Goriziano. Di contro, lo
schiavo accetta le «catene dure ma sicure» del padrone. Il padrone ha delegato
allo schiavo il «violentamento della natura», tenendo per sé - anzi utilizzando
per sé - il «violentamento dell'uomo». Di per sé, così, la condizione servile
dello schiavo «non è assoluta, ma relativa al suo bisogno di vivere». Tra servo
e padrone, dunque, s'instaura un vero e proprio, benché primitivo (atomico),
patto sociale, fondato - e non si perda di vista questo fondamento - su un
principio biologico simbiotico e "compensativo" (lo chiamiamo
principio di economia sociale): entrambi violenti, entrambi
"carenti", entrambi ansiosi di «conquistarsi il futuro» (ovvero,
entrambi rettorici), essi pongono una convenienza simbiotica che - in
definitiva, come in una perfetta equazione matematica - annulla (semplifica) le
relative "potenze" e "debolezze", tende a superare la
primitiva diseguaglianza fisiologica, pervenendo ad uno status quo per il quale
«uniti: sono entrambi sicuri - staccati: muoiono entrambi». Suddetta simbiosi
si fonda, in definitiva, e si struttura, sulla malafede e sul ricatto,
perpetrati da entrambi, ma da entrambi edulcorati nella reciproca convenienza:
se tu non lavori - dice il padrone - non ti do «il mezzo di vivere»: così
morirai; se non mi assicuri «I mezzo di vivere» - replica lo schiavo - io non
lavoro, e non ricaverò per te «la sicurezza di fronte alla natura»: così
morirai. In tutto questo, ci sembra che Michelstaedter parafrasi ancora
Aristotele, che a sua volta scrive: Il padrone non è tale in quanto acquista
gli schiavi, ma in quanto si serve degli schiavi. Tale conoscenza non ha niente
di grande né di straordinario: quel che lo schiavo deve [per natura] saper
fare, lui [sempre per natura]deve saperlo comandare. [...] Agli uni giova
l'esser schiavi, agli altri l'esser padroni e gli uni devono obbedire, gli
altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura sono stati disposti e
quindi essere effettivamente padroni.[... ] Per ciò esiste un interesse,
un'amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso che hanno meritato di
essere tali da natura ?°° 228 Le citazioni che seguono nel nostro discorso,
tratte dal Goriziano, sono ricavate dalle pagine della sua tesi che appunto
indugiano sulla dialettica servo-padrone, ovvero le pagg. 96-105 soprattutto;
ragion per cui, in nostri richiami s'intendano proprio da lì ricavati passim,
salvo diverse indicazioni. 229 Aristotele, Politica, cit, 1255b passim; i
corsivi sono nostri; abbiamo altresì invertito taluni passaggi per render più
didascalica l'esposizione. Tuttavia questa dialettica, negativa ancorché
conciliata (ma che non è la conciliazione hegeliana nello Spirito), del servo e
del padrone "supera" il suo fondamento negativo nella stipulazione
del patto sociale molecolare?°°: l'entalpia”', che tale dialettica assicura, e
che 230 Le analisi di Michelstaedter sulle motivazioni che inducono gli uomini
a fondare la società nascono in un contesto politico che potremmo, a questo
punto, senza sbagliarci, definire "contrattualistico" (ma trovano
importanti agganci - come stiamo or ora dimostrando - anche nella Politica
aristotelica): a differenza dei teorici del contrattualismo, tuttavia -
decisamente più "pragmatici" - il filosofo goriziano adduce, come
visto, una causa "ontologica" al fatto che gli uomini stringano il
"patto sociale" (o, come lui la definisce, la «cambiale sociale»): il
deficere troverebbe cioè una sua compensazione nella creazione di relazioni
sufficienti tra gli uomini, in un principio di realizzazione/permanenza sociale
che surrogherebbe l'innata impermanenza dell'individuo. L'individuo sociale
insomma, nello stringere il patto, si vede garantite quella sicurezza e quel
benessere - quella stabilità - che l'individuo "naturale" non
possiede. Ovviamente, Michelstaedter - se del contrattualismo mostra indirettamente
di accettare le analisi di filogenesi sociale (il meccanismo praticamente è lo
stesso: compensare il deficere) - tuttavia non aderisce alle sue conclusioni,
soprattutto nella sua curvatura liberale (Locke o Stuart Mill, ad esempio): il
Goriziano, come dire, per principio valuta l'organismo sociale - qualunque
forma esso assuma, e per qualunque motivazione esso la assuma - come regno
dell'eteronomia e della violenza. Anzi, leggendo tra le righe, mostra di
attaccare con maggior virulenza proprio le società sedicenti liberali o
liberal-democratiche, perché esse (a differenza di un regime dispotico
conclamato) occultano la matrice profondamente antilibertaria che le connota,
aggiungendo al danno la beffa dell'ipocrisia e del paternalismo. Pur consapevoli
dell'eterogeneità delle proposte contrattualistiche (sia nelle prospettive di
analisi che nelle individuazioni o giustificazioni degli esiti, a seconda dei
periodi storici o delle appartenenze geografiche e politiche che le hanno
fomentate), tuttavia riportiamo alcune righe di due "classici", per
renderci conto - mediante un raffronto anche veloce - di dove la critica di
Michelstaedter effettivamente attecchisca. Con questo, ovviamente, non vogliamo
dire che il filosofo goriziano avesse costruito la sua critica sociale a
partire dalla meditazione dei testi che proponiamo, anche se mostra di aver
letto il Saggio sulla libertà di Stuart Mill [PR 93]; la critica di
Michelstaedter nasce infatti essenzialmente da una diagnosi dello status quo -
valutato attraverso lo "spettro" della Persuasione - status quo che
però era anche, appunto, la risultante della lunga tradizione liberale, che
assume nei brani che seguono la forma più esplicita e, in pratica, conclusiva.
«Se l'uomo nello stato di natura è [...] libero [...]- scrive Locke - se è
padrone assoluto della propria persona e dei propri beni, pari al più grande
fra tutti e a nessuno soggetto, perché mai rinuncia alla sua libertà? Perché
cede il suo imperio e si assoggetta al dominio e al controllo d'un altro potere?
La risposta ovvia è che, per quanto nello stato di natura egli possieda il
diritto connesso con quello stato, la fruizione di esso è assai incerta e
continuamente esposta alle altrui interferenze. Infatti, tutti essendo re alla
stessa stregua di lui, tutti essendo suoi pari, ed essendo per lo più poco
rispettosi dell'equità e della giustizia, il godimento della proprietà in
questo stato è per lui assai incerto, molto insicuro. Ciò lo induce a
desiderare di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di
rischi e di continui pericoli: e non è senza ragione ch'egli desidera e ambisce
unirsi a una società che già altri abbiano costituito o abbiano in mente di
costituire per la reciproca salvaguardia della loro vita, libertà e beni, cioè
con quello che definisco con il termine generale di proprietà. [...] Al primo
potere - quello cioè di fare tutto ciò che ritiene opportuno per la
conservazione di sé e di tutto il resto dell'umanità - egli abdica lasciando
che sia regolato da leggi fatte dalla società, secondo che lo richieda la
conservazione sua e degli altri membri di quella società: leggi dellasocietà
che in molte cose limitano la libertà ch'egli possiede per legge di natura.
Inoltre egli abdica completamente al potere punitivo [il secondo potere, per
Locke] e consacra la sua forza naturale (che in precedenza poteva usare
nell'esecuzione della legge di natura, per autorità propria, come gli sembrava
opportuno) al potere esecutivo della società, a seconda che lo esiga la legge
di questa. Trovandosi ora in un nuovo stato, in cui gode di molti vantaggi
provenienti dal lavoro, dall'assistenza e dalla società degli altri membri
della comunità, oltre che della protezione che gli deriva dalla forza
complessiva della comunità stessa, egli deve rinunciare anche alla propria
naturale libertà di provvedere a se stesso, nella misura in cui lo richiedono
il bene, la prosperità e la sicurezza della società. E questo non è solo
necessario, ma anche giusto, perché gli altri membri della società fanno
altrettanto.[corsivo nostro] Entrando in società gli uomini rinunciano
all'eguaglianza, alla libertà e al potere esecutivo di cui godevano nello stato
di natura, affidandolo alla società perché il legislativo ne disponga come
richiede il bene della società stessa. Ma poiché ciascuno fa questo con
l'intenzione di meglio salvaguardare la propria libertà e proprietà (ché non è
mai pensabile che una creatura razionale muti condizione nell'intento di star
peggio), è lecito aspettarsi che il potere della società, o il legislativo
costituito, non oltrepassi mai i limiti del bene comune, ma sia tenuto ad
assicurare la proprietà di ciascuno prendendo misure contro i tre difetti sopra
menzionati, che avevano reso lo stato di natura tanto incerto e difficile. [...
] E è la condizione necessaria e sufficiente per la sicurezza reciproca, si
istituzionalizza nel fenomeno sociale (lo chiamiamo principio di entalpia
sociale). Tale istituzionalizzazione è un escamotage funzionale: è il banale,
ma evidentemente valido, motivo che recita un adagio: l'unione rende forti.
Dice Michelstaedter: «La piccola volontà non può difendere quello che ha preso
colla sua violenza - e ne affida la difesa alla violenza sociale». Ora, la
piccola volontà [potremmo anche dire: l'io empirico] è sia quella del padrone
che quella del servo. Entrambi accettano «la cambiale dela società»,
sopportando anche una spersonalizzazione/atrofia del proprio potere («egli è
sotto tutela - non ha voce») e un (apparente) livellamento
"democratico", nel nome della «sicurezza comune». Per raggiungere
altresì questo obbiettivo, è necessario che la violenza contro la natura e
contro l'uomo sublimi nella "violenza sociale". Dunque, la cifra
esistenziale della Rettorica rimane sempre e comunque la violenza. In questo
senso, ci sentiamo di dire che l'appunto del Garin - il suo riferimento alla
famosa figura hegeliana - più che illuminante rischia di rivelarsi addirittura
fuorviante. Hegel parladi autocoscienze”””, Michelstaedter - più modestamente -
di organismi. tutto ciò non dev'essere ispirato ad altro fine che la pace, la
sicurezza e il pubblico bene del popolo» [J ohn Locke, Due trattati sul
governo, Torino, Utet, 1948 (volume II, $8123-131 passim)]. «Il diritto di una
persona - scrive invece Mill - è la tutela che questa può pretendere dalla
società o in forza della legge, o in forza dell'educazione e dell'opinione
[corsivi nostri]. Se essa possiede ciò che consideriamo una ragione sufficiente
per avere, per un qualsiasi motivo, una garanzia da parte della società, vi ha
diritto: se vogliamo dimostrare che qualcosa non le appartiene per diritto,
pensiamo che ciò sia fatto non appena si ammette che la società dovrebbe
abbandonarla alla sua sorte o ai suoi soli sforzi, senza prendere alcuna misura
per proteggerla. [...] Avere un diritto significa, allora, avere qualcosa il
cui possesso va difeso dalla società. Se mi chiedessero, poi, perché la società
dovrebbe difendere questo interesse, non potrei addurre nessun altro motivo se
non quello della utilità generale. Se questa espressione non sembra convogliare
un sentimento adeguato della forza dell'obbligazione né spiegare la peculiare
energia di tale sentimento, è perché nella composizione del sentimento entra
non solo un elemento razionale, ma anche uno animale, la sete della vendetta;
la quale deriva la sua intensità, come pure la sua giustificazione morale, da
quel tipo di utilità straordinariamente importante e incisiva che è in gioco.
L'interesse coinvolto è quello della sicurezza che è, per ogni individuo, di
vitale importanza. Tutti gli altri benefici terreni possono essere necessari a
una persona e non a un'altra. A molti di essi, si può allegramente rinunciare o
sostituirli con qualcos'altro. Ma della sicurezza nessun essere umano può fare
a meno; da essa dipende la nostra immunità dal male e l'intero valore di ogni
bene, al di là delle contingenze. [corsivi nostri] [...] Questa necessità [...]
non può essere soddisfatta a meno che lo strumento per provvedervi non sia
mantenuto in continuo esercizio» [J ohn Stuart Mill, Utilitarismo, Cappelli,
1981, capitolo V passim]. Leggendo questi passi e mettendoli a confronto con
quanto abbiamo riferito riguardo la critica sociale approntata da
Michelstaedter, si potrà evincere senza difficoltà il carattere decisamente
antiliberale che quella critica viene ad assumere, volendo valutarla secondo
"normali" parametri politici di riferimento. 231 L'entalpia è una
funzione di stato di un sistema ed esprime la quantità di energia che esso può
scambiare con l'ambiente. Ad esempio, in una reazione chimica, l'entalpia
scambiata dal sistema consiste nel calore assorbito o rilasciato nel corso
della reazione. Nella nostra metafora, servo e padrone si scambiano, a vicenda,
"energia" esistenziale. 232 Nota Michelstaedter che «quasi per ironia
l'impulso a questo movimento del principio della debolezza [tal che esso
assurge alla cambiale sociale] è dato dai più forti; [...] l'iniziativa è
sempre del più forte: e la "lega dei deboli' s'è fatta proprio a spese dei
più forti: che per sola volontà di sominio o per amore ebbero sempre per campo
naturale alla loro sovrabbondanza di vita, per dominarli o per amarli [nota
l'accostamento, fatto con apparente sufficienza, di dominio e amore], i loro
simili» [PR 122]. Per il filosofo goriziano non c'è alcun sviluppo dello
Spirito da giustificare e la diversificazione dominus-homo ha piuttosto una
connotazione, come afferma Aristotele, già stabilita per natura [cfr. supra];
inoltre, tra le due "posizioni" non si verifica alcun vero conflitto,
ma l'una e l'altra preferiscono vivere (sopravvivere) nella consapevolezza
della propria condizione di reciproca dipendenza (usata come tacito ricatto),
cercando di trarne la condizione più vantaggiosa possibile in un'oculata e
compiacente simbiosi. Infine, il superamento (se di superamento si può parlare)
dell'empirica condizione signorile-servile - quando quel ricatto comincia a
vacillare - non avviene per processo dialettico, ma come dire, per processo
"sinottico", cioè attraverso una mera amplificazione a livello
sociale (molecolare) del rapporto puntuale (atomico) di dipendenza. La
costruzione sociale è anch'essa, dunque, non frutto di un conflitto, ma
risultato di un compromesso nel quale le due figure immediatamente si
rifugiano, quando la loro condizione da stabile rischia di divenire precaria; e
questo superamento non segna un progresso nella storia della coscienza di
entrambi: tutt'altro: segna anzi un vero e proprio regresso, nel senso che
nello stipulare la cambiale sociale la deficienza non si svelle, ma si innesta
in una profondità ancor più radicata e più ignorata, ch'è appunto la Rettorica
sociale. A questo punto, per Michelstaedter, la società diviene davvero il
Leviatano: essa padrona, gli uomini (quelli che prima eran servi e padroni)
novelli servi («gli uomini hanno trovato nella società un padrone migliore dei
singoli padroni»): e tra i due nuovi poli si instaura una dialettica
altrettanto nuova e altrettanto irrisolta, che mantiene tutte le deviate
caratteristiche della prima, la sua malafede e la sua convenienza simbiotica:
se tu rispetti le mie leggi - 233 Come sappiamo, la storia di queste
autocoscienze, così come scandita da Hegel nella Fenomenologia, non è un
processo pacifico e lineare, ma affronta una sofferta e faticosa maieutica
pratica che trova nel conflitto tra il sé e l'altro- da-sé la molla dialettica
che, passaggio dopo passaggio, assurge alla pienezza onnicomprensiva @llo
Spirito. L'autocoscienza sorge nell'avvertimento del limite e si manifesta e
sviluppa anzitutto nel desiderio soggettivo di superare l'ostacolo che le si
pone incontro. Ma quest'ostacolo non è soltanto il mondo delle cose: è
soprattutto l'altra autocoscienza, che limita e minaccia e lotta a sua volta
per la propria sopravvivenza. E' qui che s'inserisce la dialettica
servo-signore Herr und Knecht), come momento "storico" di esordio del
conflitto delle autocoscienze diverse e indipendenti: conflitto che si delinea
come mortale, ma che si risolve col subordinarsi dell'una autocoscienza
all'altra: infatti, chi riesce a sopraffare l'altro, ostentando di non temere
la morte, lo rende schiavo e lo piega al proprio progetto di affermazione. Ma,
a sua volta, nel lavorare per l'altro, per il dominus, il servo vive un
rapporto più autentico con la realtà, acquistando progressiva consapevolezza
del proprio potere condizionante e quindi (arguirebbe Marx) una capacità
maggiore di emancipazione. Così, il rapporto finisce col capovolgersi (la
libertà e la potenza del signore si scopre mediata dall'operare del servo, che
a sua volta scopre la potenza "immediata" del proprio lavoro) e
attraverso questa lotta tra l'autonomia e la dipendenza s'ottiene un risultato
concreto nello sviluppo dello S pirito: il sorgere cioè del sentimento della
libertà nell'autoriconoscersi (l'autocoscienza nasce infatti proprio quando il
soggetto riconosce - erkennt - qualcosa di sé nell'oggetto, o comunque
nell'altro-da-sé). «[Il servo è] per il signore l'oggetto costituente la verità
della certezza di se stesso. E chiaro però che tale oggetto non corrisponde al
suo concetto; è anzi chiaro che proprio là dove il signore ha trovato il suo
compimento, gli è divenuta tutt'altra cosa che una coscienza indipendente; non
una tale coscienza è per lui, ma piuttosto una coscienza dipendente; egli non è
dunque certo dell'esser per sé come verità, anzi, la sua verità è piuttosto la
coscienza inessenziale e l'inessenziale operare di essa medesima. La verità
della coscienza indipendente è di conseguenza la coscienza servile. Questa
dapprima appare bensì fuori di sé e non come la verità dell'autocoscienza. Ma
come la signoria mostrava che la propria essenza è l'inverso di ciò che la
signoria stessa vuol essere, così la servitù nel proprio compimento diventerà
piuttosto il contrario di ciò che essa è immediatamente; essa andrà in se
stessa come coscienza riconcentrata in sé e si poggerà nell'indipendenza vera»
[Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, 1967, vol. I, pag. 161].
ingiunge il Leviatano - io ti assicuro la vita: altrimenti morirai; se non ci
assicuri la vita - replicano i servi - noi non rispetteremo le tue leggi: e tu
morirai. La società come necessità e "banalità" della sicurezza: ma
se «a sicurezza è facile», essa - lo abbiamo visto - «è tanto più dura». E
allora, nella violenza istituzionalizzata, «nella società organizzata ognuno
violenta l'altro attraverso l'onnipotenza dell'organizzazione, ognuno è materia
e forma, schiavo e padrone ad un tempo per ciò che la comune convenienza a
tutti comuni diritti conceda ed imponga comuni doveri» [tutti i corsivi sono
nostri]. Insomma, padroni e schiavi finiscono con l'essere entrambi vittime di
un dominio che si congegna in sistema o in "amministrazione"
tacitamente, doverosamente accettati; strutture che - seppur fabbricate dalle
mani stesse dell'uomo - ora lo superano e si svincolano dal suo controllo: anzi
- di converso - sono le dette costruzioni ad esercitare stavolta il controllo
diretto. Ciò vuol dire che ciascuno (padrone o servo, non conta), all'interno
del sistema stesso, si trova preconfezionato il proprio ruolo, il proprio destino:
a lui non resta che la scelta del modo di viverlo; ma questa stessa scelta -
individuale o sociale - obbedisce a sua volta alla logica del potere e del
dominio e quindi, in definitiva, alla logica della violenza. 8 Come la violenza
perpetua se stessa (II). L'educazione corruttrice secondo Michelstaedter. Il
ribaltamento operato dalla Persuasione. Ora: quali sono gli strumenti
attraverso i quali la Rettorica indottrina gli uomini all' "accettazione
felice" della scelta fasulla ed inadeguata?°*? Quali meccanismi
mefistofelici essa pone in atto? In che modo riesce ad inculcare il senso del
dovere, garanzia necessaria e sufficiente alla sopravvivenza della società
rettorica ed ipocritamente "giusta"? In che modo, insomma, essa
riesce a farsi (come si dice oggi) egemonia? O, infine, volendo usare le stesse
parole del Nostro, «per qual via la natura ha tessuto e tesse contro a sé tale
trama? E come si tiene questa e si riafferma sempre via in ogni figlio
dell'uomo che, forte o debole nasca e di quella difesa bisognoso, pur sempre
nasce ignaro del suo artifizio?» [121]; ovvero, ancor più chiaramente: in che
modo si costituisce [122] e si diffonde [127] l'«adulazione» (xoXaxew) sociale?
Come sostiene giustamente il Campailla, nell'introduzione all'edizione minor?
della Persuasione e la Rettorica, «il mito della Persuasione [e noi
aggiungiamo: il problema della Rettorica], coerentemente, culmina in un
problema pedagogico». E proprio qui si apre la sezione più interessante ed
"inattuale" della tesi del Goriziano . La risposta al complesso di
interrogativi appena posti è a questo punto semplice e consequenziale: è
l'«educazione corruttrice» (Svoradaywyia) [127] lo strumento raffinato
attraverso il quale la società, la comunella dei malvagi, si arroga e si
assicura la sopravvivenza”. Ma in realtà, alla luce di quanto detto, e leggendo
attentamente le 234 Qui viene presa in esame la sezione conclusiva della tesi
di laurea di Michelstaedter - corrispondente alle pagg. 121- 131 incluse, in
particolare da pag. 127 in poi - che s'intitola Gli organi assimilatori: per un
accenno introduttivo alla questione, cfr. anche il nostro paragrafo Il momento
del passaggio, contenuto nell'Intermezzo. 235 || concetto - fa notare Campailla
- è platonico, e invita a cfr. Gorgia, 463 b, c e passim. 236 Edizione curata
nella Piccola Biblioteca Adelphi, 1994 6a. Il riferimento che riportiamo è a
pag. 25; il corsivo è nostro. 237 Possiamo dire che, dal punto di vista
ideologico, l'asse Platone-Hegel è il riferimento più immediato della polemica pedagogica
michelstaedteriana. Come abbiamo visto, le analisi di Michelstaedter sul
problema educativo avevano luogo d'origine nella riflessione sulla pedagogia
platonica, funzionale alla "statolatria" della Repubblica. Ancora una
volta, la prospettiva platonica si "aggiornava" in Hegel, il quale
scriveva ad esempio nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia (e la
citazione vuol essere riassuntiva della posizione hegeliana): «[...] Solo nello
Stato l'uomo ha esistenza razionale. Ogni educazione tende a che l'individuo
non rimanga qualcosa di soggettivo, ma divent oggettivo a se stesso nello
Stato. [...] Tutto ciò che l'uomo è egli lo deve allo Stato: solo in esso egli
ha la sua essenza». [Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, trad. it, La
Nuova Italia, Firenze, 1975, vol. I, pag. 105] In coerenza con le linee guida
del suo panlogismo dialettico e storicistico, Hegel dunque vedeva nella
formazione [Bildung] dell'uomo il "movimento consapevole, il divenire del
suo essere per sé», e, cioè, «l'estraneazione del proprio immediato se stesso»
istintivo e irrazionale mediante il quale il singolo - ripercorrendo le tappe
dello sviluppo storico dell'umanità - si libera da ciò che ha in sé di
individuale per oggettivarsi, com'è noto, nelle istituzioni etiche della
famiglia, pagine che Michelstaedter dedica alla questione”, appare chiaro come
l'espressione «educazione corruttrice» sia, per lui, a tutti gli effetti,
tautol/ogica. Ogni modalità e pretesa educativa, infatti, in ogni luogo e in
ogni tempo, presenta la stessa "radice" viziata e corrotta: come
abbiamo visto, l'ex-ducere, per il Goriziano, esprime sempre un atto di
forzatura, anzi propriamente di violenza: un "trarre fuori" delegato
ad un agente esterno (i maestri, i pedagoghi...°°°), un trarre fuori che è
soprattutto un sottrarre l'uomo a sé stesso al fine di uno scopo supposto
ultimo e massimamente utile, qual è quello della conformazione al cosiddetto
benessere sociale (quella che il Nostro chiama «eciproca convenienza »
sociale). Nel far ciò, arriva a scrivere il giovane filosofo, la società rende
alle sue giovani "promesse" un servizio ch'è analogo a quello che
«l'uomo fa ai vitelli, agli agnelli, ai polli, ai puledri, per farsene più
buone macchine da lavoro o più buoni produttori di came» [128, in nota; corsivo
nostro]. E i risultati di tale operazione sono, sempre e comunque, quelli di
produrre «un degno braccio irresponsabile della società» [130; corsivo nostro]:
un giudice, un maestro o, addirittura, un boia [130; il significativo accostamento
michelstaedteriano delle tre figure sociali, senza soluzione di continuità, è
violentemente polemico]. In questo senso, l'educazione si manifesta come la
traduzione più coerente e più funzionale della tecnica [per cui cfr. supra], lo
strumento più opportuno ed efficace per oliare gl'ingranaggi del
meccanismo/dispositivo rettorico. In ultima analisi, leggiamo tra le righe, la
diagnosi critica di Michelstaedter non prende di mira solo o esclusivamente il
sistema educativo borghese a lui coevo (e, nello specifico, la scuola borghese,
deputata principe a quell'educazione): quello stesso sistema educativo e quella
stessa scuola non sono altro che le forme e le formule perfette e ultime (ma
solo nell'ordine del tempo) in cui l'organizzazione "conformatrice"
della Rettorica stessa si è strutturata, in vista e a garanzia del suo
perpetuarsi. Il problema non è neanche di puntare il dito verso un tipo di
educazione o di organizzazione scolastica errata o quantomeno della società e
appunto dello Stato; anzi lo stesso Stato «non esiste per i cittadini: si
potrebbe dire che esso è il fine e quelli sono i suoi strumenti» [ibidem],
Sostanzialmente, la posizione hegeliana avrebbe trovato un originale sviluppo
in Gentile [cfr. almeno il suo Sommario di pedagogia (1913-14)], che tra
l'altro fu ministro fascista dell'educazione e autore della riforma scolastica
del 1923. Facciamo quest'appunto, perché Gentile - come scrive Campailla -
"nel gioco delle parti, rappresentava idealmente il megapresidente di
quella commissioni di professori" che doveva esaminare la tesi di laurea
del Nostro; e proprio a Gentile toccò, nel 1922, "sulla ‘Critica’, il
compito di formulare il giudizio ufficiale di una cultura" riguardo
Michelstaedter [cfr. l'introduzione di Campailla alla Persuasione..., cit.,
pag. XI]. 238 Pagine in cui la sua critica si fa davvero profonda, serrata e
piena di feroce e amara ironia; ben poche pagine, verrebbe da notare, rispetto
all'importanza ed alla complessità del problema, che investe le radici stesse del
perpetuarsi della Rettorica, come sua prerogativa necessaria e sufficiente; ma,
d'altronde, lo stesso Michelstaedter avvisa che ciò che "fa l'educazione
disonesta della società coi giovani uomini, è vicino, credo, e manifesto ad
ogni occhio" [128-129, in nota]; tal che, il nocciolo è sempre lo stesso:
è l'occhio che si rifiuta di vedere... 239 | più importanti
rappresentanti-chiave (i latini direbbero i principes) del consorzio umano.
perfezionabile: vogliamo dire che non è questione se l'educazione sia affidata
ad un cattivo o ad un buon maestro, ad una cattiva o ad una buona scuola, ad un
cattivo o ad un buon metodo: si rammentino gli "insuccessi" di
Socrate e di Cristo, a tal proposito, se li si vogliano intendere come meri
precursori di una scuola o di un'istituzione. Non è questione, dunque, di
proporre un modello educativo alternativo e più pertinente. Questo perché la
Persuasione non può avere maestri, scuole e proseliti: qualora li avesse, essa
stessa giocoforza si mutuerebbe in Rettorica. Attraverso la Svoreidaywyta,
l'individuo vien de-responsabilizzato””” e condotto, motu proprio, ad abdicare
alla propria umanità autentica. L'educazione ha il fine di preparare il singolo
alle esigenze della vita sociale, in modo che egli sappia inserirsi e vivere
nel meccanismo rettorico, senza traumi e senza velleità di contestazione:
formare coscienze, consapevoli di tutte le idealità familiari e sociali, capaci
di perpetuare lo svolgimento e di garantire la sicurezza stabile del
dispositivo, la sua cultura e le sue tradizioni, seppur talora sotto le mentite
spoglie del progressismo. Con un'espressione riassuntiva, potremmo dire che la
società rettorica garantisce e protegge sé stessa attraverso le forme e le
formule della Rettorica sociale. Appare chiaro, sotto questa prospettiva, che è
errata in assoluto ogni pretesa vicinanza o anche una semplice analogia topica
(vista la distanza temporale e geografica) tra le riflessioni di Michelstaedter
e gli assunti di quella che vien detta "pedagogia del dissenso",
" 241, Nella "della liberazione", o le posizioni dei movimenti
cosiddetti di "descolarizzazione pratica, l'è vero, le linee dell'analisi
e delle critiche sembrano convergere, sotto certi rispetti (inerenti, comunque,
soltanto alla pars destruens del discorso): entrambi le posizioni (quella
michelstaedteriana e quella rivoluzionaria) ritengono che scopo dell'educazione
- come comunemente s'intende - non sia quello di far evolvere un individuo
verso la propria realizzazione al fine di renderlo felice, ma purtroppo far sì
che l'individuo si adatti a quel tanto di infelicità che gli è imposto da un
sistema dato e considerato immutabile (0, come dice Marcuse, l'educazione
tenderebbe a fare in modo che l’uomo viva liberamente la propria mancanza di
libertà). Tuttavia, le posizioni di fondo sono divergenti, anzi si pongono su
due piani decisamente diversi. 240 Si ricordi che, per Michelstaedter, la
condizione "naturale" dell'individuo sociale è quella in cui
l'individuo risulta privato del suo «senso di responsabilità» [108, corsivo del
Goriziano; ma cfr. anche quanto detto a tal proposito nel nostro paragrafo
sulla Rettorica come tecnica della violenza e violenza della tecnica]. 241
Intendiamo quella pedagogia "rivoluzionaria" o "radicale"
rappresentata negli USA da Ivan Illich e da Paulo Freire (mentre in Italia è
stata rappresentata da Marcello Bernardi), che elegge a suoi padri putativi
Godwin (in Inghilterra), Francisco Ferrer (in Spagna) e, guarda caso, il nostro
Tolstoj e che prende le mosse, o comunque viene allo scoperto, durante i movimenti
sessantottini di protesta studentesca. «Descolarizzare la società» è il
celeberrimo motto di Illich. Quelle "nuove" pedagogie, si muovono,
infatti, comunque nell'ambito della necessità di un'educazione, prendendo di
mira soltanto le modalità, i modelli ed i metodi di quell'educazione. Il loro
problema reale è: l'educando deve adattarsi e conformarsi all'identità sociale,
rappresentata ad esempio dal maestro, o invece, come persona viva deve essere
educato ad adoperare, un giorno, la sua originale vitalità per migliorare la
società (ci immaginiamo come avrebbe reagito Michelstaedter)? Quelle nuove
pedagogie, insomma, appuntano la loro critica solo su di un dato, effettivo,
sistema educativo (quello borghese e sedicente "liberale"), perché lo
ritengono "statico" e quindi nocivo alla società stessa, cui
l'educazione rimane sempre e comunque "funzionale". Per questo, si
affaticano nell'approntare un metodo educativo che elimini ogni costrizione o
dipendenza apparente (prescrizioni, regolamenti, orari), che ridefinisca
quell'insieme di atteggiamenti e di comportamenti che aiutano un individuo ad
essere se stesso, a realizzare pienamente la propria personalità, a 'progredire
secondo le proprie linee evolutive", come si suol dire. Per dirla in
breve, quelle pedagogie non eliminano l'eteronomia, ovvero non obliterano la
figura dell'educatore (ritenuta sempre necessaria), ma si limitano ad
evidenziare la difficoltà e la delicatezza del rapporto interpersonale
educatore-educando, lo riformulano e lo re-inquadrano assimilandolo
sostanzialmente all'amore della famiglia e/o della città; rischiando, così, di
pervenire, e in effetti pervenendo - nell'ottica del Goriziano, non esplicita
in questo senso, ma consequenziale, a questo punto - ad un'operazione ancora
più subdola e pericolosa: propinare e formare il "culto della
comunità" attraverso la maschera del paternalismo più becero. Questa
autorità (quella del genitore, quella del maestro, quella della Rettorica)
rimane sempre tale, anzi si rinforza, perché si mimetizza sotto le mentite
spoglie dell'amore e della cura dell'altro («il verxog avrà preso l'apparenza
della puua» [118]): essa non s'impone più dall'esterno o dall'alto, ma conduce
il discepolo (anzi, meglio, il bambino, o il giovane) ad attuare se stesso secondo
(presunta) verità; comanda come se consigliasse o supplicasse; influisce e
penetra nelle anime senza apparentemente lederne l'autonomia... Come si vede,
nell'ottica del disincanto che la lettura di Michelstaedter ci suggerisce, la
violenza permane tal qual è, anzi addirittura si amplifica e diviene più
efficace, perché si fa subliminale e si edulcora, e in questo suo edulcorarsi
riesce a rendersi perfino ben accetta. Alla luce di tutto ciò, appare allora
cristallino quanto il Goriziano scrive (e vale davvero la pena trascriverlo):
La peggior violenza si esercita così sui bambini sotto la maschera dell'affetto
e dell'educazione civile. Poiché con la promessa di premi e la minaccia di
castighi che speculano sulla loro debolezza, e con le carezze e i timori che
alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si
stringono alle forme necessarie in una famiglia civile: le quali come nemiche
alla loro natura si devono appunto imporre con la violenza e con la corruzione.
Più ancora, la stessa fede, la stessa volontà del bene è sfruttata per l'utile
della società. La grande aspettazione d'un valore è via via adulata con la
finzione d'un valore nella persona sociale, che gli si tien sempre davanti agli
occhi come quella che egli debba, imitando, in se stesso educare. Tu sarai un
bravo ragazzo, come quelli che vedi là andare alla scuola, sarai come un
grande'. Gli si forma il mito di questo raro scolaro grande, e ogni cosa
appartenente allo studio, alla scuola acquista un dolce sapore: l'andare a
scuola, la borsa per i libri ecc. E si forma la gerarchia dei valori in
rapporto alla superiorità della classe: 'Se sarai bravo, il prossimo anno, non
scriverai più sulla lavagna, ma su un quaderno! e con l'inchiostro". Tutti
approfittano di quest'anima in provvisorio che sogna 'il tempo quando sarà
grande', per violentarla, 'incamiciarla', ammanettarla, metterla in via assieme
agli altri a occupare quel dato posto e respirar quella data aria sulla gran
via polverosa della civiltà. [129] E in modo ancor più esplicito e sarcastico:
Fin dai primi doveri che gli si impongono, tutto lo sforzo tende a renderlo
indifferente a quello che fa, perché pur lo faccia secondo le regole, con tutta
oggettività. 'Da una parte il dovere, dall'altra il piacere'. 'Se studierai
bene, poi ti darò un dolce; altrimenti non ti permetterò di giuocare' .E il
bambino è costretto a mettersi in capo quei dati segni della scrittura, quelle
date notizie della storia, per poi avere il premio dolce al suo corpo. - 'Hai
studiato: adesso puoi giuocare!". E il bambino s'abitua a considerar lo
studio come un lavoro necessario per viver contenti, se anche in sé sia del
tutto indifferente alla sua vita: ai dolci, al giuoco ecc. Così gli si
impongono le determinate parole, i determinati luoghi comuni, i determinati
giudizi, tutti i kallwpismata della convenienza e della scienza, che per lui
saranno sempre privi di significato in sé ed avranno sempre soltanto tutti quel
costante senso: è necessario per poter avere il dolce, per poter giuocare in
pace: la sufficienza e il calcolo. Quando al dolce e al gioco si sostituisca il
guadagno, "la possibilità di vivere" - "la carriera",
"la via fatta", "le professioni" - lo studio o la qualsiasi
occupazione conserveranno il senso che il primo dovere aveva: indifferente,
oscuro, ma necessario per poter giocare poi, cioè per poter vivere ai miei
gusti, per mangiare, bere e dormire e prolificare [130; in queste ultime righe,
tutto il corsivo è nostro]. Tutto l'apparato rettorico viene spazzato via con
un colpo di spugna, viene anzi ridicolizzato (s'immiserisce in caricatura) da
queste considerazioni sprezzanti che non concedono alcun appello. La
demolizione dell'illusoria permanenza, da semplice breccia che era, assume
dimensioni a dir poco apocalittiche, coinvolgendo tutti gli aspetti della
nostra gratuita, artefatta esistenza, dalle espressioni più banali e quotidiane
a quelle più meschine e smaliziate. Lo smascheramento si è mutato in condanna
esplicita, perentoria, battagliera, irriverente, colpendo nel cuore il dio
della prAopuyix, braccandolo negli anfratti più reconditi, smitizzandone
l'ostentata onnipotenza. Ad un orecchio distratto, le parole di Michelstaedter
potrebbero suonare come l'ennesima, stancante riproposizione di un impertinente
nichilismo. Tutt'altro, ci pare. Il nichilismo è il travestimento
carnascialesco della Rettorica, il tiro mancino più azzeccato e beffardo e più
a la page. La forza di Michelstaedter non è soltanto nel disincanto: il
disincanto è un momento di passaggio, obbligato, ma di passaggio; la forza
della Persuasione risiede soprattutto nella speranza di un nuovo inizio: lo
spegnersi dell'illusione luciferina del piacere non ci immerge nelle tenebre ma
ci apre lo spiraglio di una nuova luce, di una recuperabile Salute. Per quanto
tutto ciò che ci attornia sembri comprovare una resa incondizionata, forse non
è ancora tutto compromesso, ci suggerisce il nostro filosofo. Abbiamo ancora
una possibilità di riscatto, un perno autentico intorno al quale tentare di
ricostruire ciò che abbiamo perduto. E' dall'insegnamento socratico che bisogna
ricominciare, è il nosce te ipsum - secondo il Goriziano - il punto di
riferimento di ogni corretta ri-valutazione dell'umano, il «prediletto punto di
appoggio», il veicolo autentico e genuino della Persuasione, la garanzia
pertinace dell'autonomia del vir : Questa educazione (ed è l'unica) [la
precisazione parentetica ha valore risolutorio] dà all'uomo le gambe per
camminare, e gli occhi per vedere: non gli dà vie fatte, non gli fa veder date
cose. - questa fa l'uomo sicuro e indipendente da qualunque offrirsi di cose e
non può temere che l'una o l'altra vita sufficiente lo vinca [PR 150; corsivi
di Michelstaedter]. Solo attraverso la voce di Socrate” si formerà il vero
uomo, il vir persuaso, l'eroe tragico, l'uomo d'azione, che ha fatto del dolore
il punto di partenza della propria gioia, e che ha aperto quella gioia al
mondo, creando i presupposti di un nuovo rispetto tra gli enti e di un nuovo
principio di responsabilità e di amore. Le parole di Michelstaedter sono,
ancora una volta, devastanti nella loro bellezza, definitive pur nella loro
programmaticità (le sottolineamo tutte in corsivo, visto che esse compendiano e
confermano il senso della nostra interpretazione): L'uomo d'azione, l'eroe è
come uno zampillo d'acque che erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo,
riscende a ristorare il suolo. (...) L'eroe è uno slancio della volontà verso
l'essere, la libertà, 'dio" nelle cose, con le cose, per le cose; nella
vita e non fuori della vita; bisogna esser nella vita per uscirne - e l'unica
via è l'universalizzazione della vita, lo slancio verso il principio della vita
in un amore eguale per tutte le cose viventi: libertà e amore: quanto più
l'uomo è libero tanto più sente sé identico all'universo: nell'amore verso
l'intima ragione accomuna sé e l'universo; sente sé (nel proprio divenire verso
l'essenza) la ragione dell'universo, ama sé in tutte le cose e tutte le cose in
sé; in quanto ama e cerca quell'unica universale essenza. L'eroe vive in questa
ultima fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la vera vita: il
regno dei cieli è in te. (...) L'eroe presuppone negli uomini la medesima
essenza, la stessa volontà che è in lui, rispetta sé negli altri. Cioè suppone
negli altri la ‘direzione verso l'assoluto, verso dio": nega e afferma per
sé e per gli altri in nome di questa smisurata speranza. Respinge la vita
terrestre, ma vive, nel pensiero de 'la vita'24, Sta dunque a noi - che, seppur
"storditi", avvertiamo comunque il riflusso della voce socratica -
farne «attività infinita» o destinarla al bivacco dell'utopia, ostinandoci a
bazzicare nelle rilassate menzogne della nostra «tranquilla e serena minore
età» °, perché - direbbe Kant - in fondo «è così comodo essere minorenni!» °°,
242 L'eristica potrebbe obiettare che l'eteronomia, cacciata dalla porta, è
rientrata per la finestra: in fin dei conti, anche Michelstaedter elegge un suo
educatore, in Socrate. Ma l'appunto è inesatto. L'educazione socratica,
infatti, ha il suo valore proprio nel negare... il proprio valore (ilsapere di
non sapere, tanto per usare un comodo luogo comune), ovvero nell'indicare
all'individuo la strada della propria autonomia, disattendendo ad ogni sua
stessa pretesa educativa (e qui è il fulcro del paradossale "messaggio"
di Socrate, che si riflette nella paradossalità della Persuasione). In questo
senso, nel richiamare l'individuo alla "reminiscenza" dell'autentico
"demoniaco", più che un'educazione, quella socratica è una
provocazione. 243 La figura dell'eroe tragico, come qui è tratteggiata, appare
negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg. 798-799. 244 Sono le parole con cui si
conclude la versione "ufficiale" (prescindendo dalle Appendici
critiche) de La persuasione e la rettorica. Confessiamo che sono state proprio
queste parole, che suggellano il messaggio di persuasione michelstaedteriano,
ad incoraggiare il nostro approccio ermeneutico attraverso la prospettiva
dell'etica kantiana, casomai non esplicita, ma sempre presente durante la
stesura del nostro lavoro. Perché «uscire dalla minore età» è l'augurio e il
monito programmatico (a tutto il suo pensiero) che Kant pone a principio di uno
dei saggi che riteniamo tra i più belli e sardonici: Risposta alla domanda: che
cos'è l'iluminismo? [cfr. anche nota successiva]. E la coincidenza non c'è
sembrata solo una contingente questione d'assonanza. 245 Cfr. Kant, : Risposta
alla domanda: che cos'è l'illuminismo?, contenuto in Scritti politici e
filosofia della storia e del diritto, UTET, 1965, pag. 141. Capitolo
integrativo. A - Le varianti deboli della Persuasione. A1- La variante
nichilistica di Schopenhauer. A2- La variante Nietzsche, il "terzo
Dioniso". A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla
Persuasione. A4 - Kierkegaard: la variante "relazionale" della
Persuasione. B - Variazioni sul tema michelstaedteriano del "peso che
di-pende". C - La critica alla Rettorica come caricatura della Rettorica.
A - Le varianti deboli della Persuasione. Intendiamo quali "varianti
deboli" della Persuasione taluni esiti filosofici che hanno conosciuto,
rispetto alla proposta michelstaedteriana, maggior fortuna nella storia del
pensiero occidentale, pur condividendo, con quella proposta, presupposti e
finalità, ovvero - per dirla con estrema sintesi - la mechané tragica per
sopravvivere al Tragico (in questo senso le diciamo varianti). Esiti (l'egoismo
di Stirner, il titanismo di Foscolo e Leopardi, il dionisismo di Nietzsche, il
volontarismo di Schopenhauer, il "cristianesimo" di Kierkegaard e via
dicendo) cui molto spesso la critica si è appoggiata nel tentativo di risolvere
la complicata sciarada della Persuasione, incasellandola nel rapporto a
soluzioni già note e definite, ma in questo modo giocoforza equivocando e/o
svalutando la pregnanza e l'originalità profonde della sua portata. Soluzioni,
ancora, che Michelstaedter effettivamente tenne in conto, e che anzi
costituirono (quale più quale meno) l'humus fertile della sua formazione
culturale e soprattutto umana: ma esiti, infine, che Michelstaedter stesso ad
un certo punto superò (nell'accezione, ci vien da dire, hegeliana), ritenendoli
parziali o comunque non sufficientemente "persuasi" (e in questo
senso le varianti le diciamo debolì). Non sufficientemente persuasi significa,
come oramai si capirà, non garanti di quella autonomia e di quell'orizzonte
politico che invece costituiscono per noi i tratti distintivi e forti della
Persuasione michelstaedteriana. Focalizzeremo la nostra analisi soprattutto
sulle varianti schopenhaueriana, nicciana, leopardiana e kierkegaardiana, dato
che - vista la loro portata - esse si impongono su altre satellitari, nel senso
che ad esse possono comodamente riferirsi. In realtà, riguardo Kierkegaard, la
questione è già stata ampiamente trattata nel corso del nostro lavoro, anche se
per via indiretta, soprattutto nell'accostamento al Brand, trasposizione
drammaturgica (come dicemmo) del cavaliere della fede; riguardo Leopardi, uno
dei Persuasi per eccellenza secondo Michelstaedter, ci soffermeremo soltanto
sulla lieve (ma in ordine di quantità e non di qualità) "sfumatura"
che a nostro parere li distingue nelle soluzioni della mechané; per quanto
concerne Schopenhauer, invece, ci limiteremo a sottolineare le
affinità-differenze del Wille con la deficienza e il valore della Persuasione
anche come decisa risposta alternativa al Nirvana, o comunque all'ideale
ascetico; infine, la nostra analisi indugerà piuttosto su Nietzsche, dato che
l'ermeneutica filonicciana rappresenta, secondo il nostro giudizio, l'equivoco
più problematico e pericoloso della Persuasione, anche se, purtroppo, il più
accreditato. Nel tracciare la sinossi di questi autori con Michelstaedter,
ovviamente si procederà con andamento sintetico piuttosto che analitico, ovvero
sorvolando elementi critici oramai 149 assodati e casomai soffermandoci su spunti
che, in apparenza tangenziali o cavillosi, possono rivelarsi cruciali
nell'economia del nostro discorso. Questa nostra metodologia
"antagonista", infine, vuol far emergere, nel raffronto
chiaroscurale, una evidenza della Persuasione chiara e distinta, chiara perché
appunto distinta. E vuol ribadire il fatto che la riflessione di
Michelstaedter, seppur originalissima, fermentò comunque nella sinergia di
riflessioni affini alla sua°*°: il Goriziano, cioè, cercò continue conferme
alla sua ipotesi di Persuasione (e di riflesso, alla sua analisi sulla
Rettorica), spaziando tra le esperienze più complesse e
"alternative", volte a garantirle anche un saldo impiantito
speculativo. Apparirà chiaro, dunque, come tra Michelstaedter e i quattro
pensatori di cui sopra si venga a stabilire un vincolo che può apparire di
filiazione, ma che in effetti è di "assonanza" (si respira, come
dire, aria di famiglia): ossia apparirà sintomatico come la
"consapevolezza del disincanto" acquisti, a certi livelli, una quasi
perfetta corrispettività di intenti e di diagnosi e di espressioni talora anche
(addirittura) terminologica. Laddove, però, le differenze si rivelano
importanti almeno quanto le somiglianze. Questo, a nostro parere, getta luce
definitiva sul rapporto che il giovane filosofo instaura con i "suoi"
autori: è come se da essi - volendo usare una perifrasi aritmetica - traesse il
"minimo comune multiplo" o il "massimo comun divisore", e
lo rielaborasse nel saldo tessuto connettivo della sua Persuasione. Persuasione
che, in un balzo, oltrepassa anche gli esiti dei suoi riferimenti privilegiati,
e ciò davvero senza la pur minima ossequiosità; Persuasione che, infine, e non
solo per l'ameno che la contraddistingue, può a buon diritto figurare accanto a
quelli nel firmamento della storia della filosofia persuasa di tutti i tempi,
seppur figlia "soltanto" dell'ibrida provincia italo-austriaca. 246
Sullo sfondo, non dimentichiamolo, l'orizzonte greco, presupposto di tale
sinergia, già ampiamente trattato.A1- La variante nichilistica di Schopenhauer.
Come accennato più volte, alla lettura di Schopenhauer - all'unanimità
riconosciuto come uno dei vertici speculativi di ispirazione per Michelstaedter
- il nostro giovane filosofo fu introdotto dall'amico Enrico Mreule”", e
presumibilmente attraverso Schopenhauer (si pensi alle suggestioni nirvaniche
di intere pagine del Mondo) si avvicinò anche alla riflessione, se non proprio
alla pratica, del Buddismo”. Eppure, il "filosofo della volontà" è il
grande assente dagli scritti michelstedteriani: gli accenni che lo riguardano
in modo diretto sono davvero scarsi, ammontano a quattro o cinque - egualmente
distribuiti tra la tesi, l'epistolario e due saggi raccolti nelle Opere
complete - e, nella maggior parte dei casi, ci sentiamo di dire, davvero di
poco conto, accessorii?”. 247 Cfr. almeno il nostro capitolo II, nella
fattispecie il paragrafo sul Pretesto cronologico della proposta persuasa di
Michelstaedter. 248 Cfr. il nostro capitolo |, nella fattispecie il paragrafo
sul Porto della pace. 249 Schopenhauer aveva individuato nella Volontà [Wille]
il nome proprio del noumeno kantiano, vale a dire la radice strutturale di ogni
realtà: un impulso cieco, inarrestabile, irrazionale, che non ha altro fine se
non perpetuare sé stesso e che, in questo autoprodursi, informa il mondo (si
"oggettiva" nel mondo) segnandolo di dolore e male. Essa è «la
sostanza intima, il nocciolo di ogni cosa particolare e del tutto» (cfr. almeno
Mondo I, $ 21). «Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il mondo,
in tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo
dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo dalla Volontà.
Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la Volontà, quale essa
medesima in sé e fuori del tempo si determina. Il mondo non è che lo specchio
di questo volere; ed ogni limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo
contiene, appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali
sono, perché essa così vuole» [ib. § 631. Secondo il "filosofo del
pessimismo", la Volontà stessa trova nell'uomo un insperato, inconsapevole
alleato: essa, sempre più chiaramente oggettivandosi, agisce, prima come forza
meramente impulsiva, poi come forza istintiva, infine, proprio nell'uomo, come
conoscenza. Nell'uomo, nella conoscenza, la Volontà diviene forma organizzata,
assume la falsa consistenza del "quadruplice principio di ragione
sufficiente" (necessità logica, fisica, matematica, morale). Ora, ad
avviso di Schopenhauer, ci si può liberare dal dolore e dalla noia e sottrarsi
alla catena infinita dei bisogni - tutte manifestazioni in cui appunto la
Volontà si oggettiva nell'uomo - attraverso l'arte e l'ascesi. Un grado
"intermedio" di liberazione è la compassione, che nasce quando l'uomo
ha saputo superare ogni distinzione fra la propria e l'altrui persona,
considerando il destino dell'altro uomo come uguale al proprio e sentendo come
proprio l'altrui dolore. La morale ha come virtù la giustizia (che è un freno
all'egoismo e quindi è una virtù negativa: "non fare il male") e la
carità (virtù positiva: "allevia il male"). Tuttavia, se con la pietà
si vince l'egoismo, comunque non ci si libera totalmente della vita e dunque
della volontà. Difatti, per Schopenhauer il comportamento che nega in modo
assoluto l'individualità e la volontà dell'uomo è piuttosto quello ascetico.
Nell'ascesi la Volontà cancella ogni affermazione di sé negando tutte le forme
"positive" di vita e trasformandosi in quella che il filosofo chiama
appunto la nolontà (ossia il riflesso speculare - ma opposto, negativo - della
Volontà). L'ascesi si profila come un insieme di pratiche che mortificano la
volontà, che fanno capire come essa sia causa reale di sofferenza e sia essenza
stessa del mondo: la noluntas è la perfetta castità, la povertà volontaria, la
rassegnazione ed il sacrificio [cfr. almeno $$ 70-71]. Quello ascetico si
configura come lo stato di chi ha annullato in se medesimo ogni pulsione
vitale, di chi si è distaccato dall'ordine degli eventi mondani e dai piaceri
della vita e accetta serenamente la morte come liberazione dai lacci della
volontà e delle sue illusioni. La completa soppressione dell'impulso vitale
produce, per Schopenhauer, l'annullamento totale del mondo: pervenuto alla
perfezione della noluntas, l'uomo scopre che il traguardo della propria
autonegazione gli dona la contemplazione del nulla (cfr. almeno ib. $ 71, ma
vd. anche nel prosieguo del confronto). Ma è proprio nella formazione di questo
"nulla mortificante" artefatto che, secondo noi, Michelstaedter
costruisce la propria critica e segna il suo distacco da Schopenhauer. [le
citazioni qui riportate da Il mondo come volontà e rappresentazione, e quelle
che si riscontreranno nel corso del confronto, sono tratte dalla trad. it.
proposta dall'ed. Laterza, 1968, a cura di C. Vasoli. Delle citazioni ci siamo
limitati a riportare i paragrafi da cui esse son prese]. 250 Alle citazioni che
incontreremo nel corpo del confronto, si aggiungano queste altre tre, e il
quadro è completo: Schopenhauer, del resto, non rientra nell'eletta schiera dei
persuasi: non è inserito neanche nell'elenco dei «perfetti pessimisti» (che
coincide in pratica con quello dei persuasi), nel noto frammento contenuto
negli Scritti Vari. Questo silenzio e queste assenze sono a dir poco
imbarazzanti, e molta critica tende a sua volta a sottacerli, dato che,
diversamente, crediamo noi, verrebbe a cadere uno dei più importanti pretesti
per incasellare Michelstaedter all'interno di una tradizione di riferimenti già
stabilita. E' altrettanto vero, comunque, che da molte pagine della tesi di
laurea e del Dialogo trapela netta la voce del Wille, soprattutto quando il
Goriziano svolge la sua analisi sul deficere fisiologico-ontologico che
struttura il mondo sublunare”; com'è vero che, «con buona probabilità, [ritrae
il volto di] Schopenhauer un disegno di Michelstaedter pubblicato da VI.
Arangio-Ruiz252, [al di sotto del quale disegno] è significativamente riportata
la formula 'AT ENEPIEIAX® EX APTIAN' [dall'attività verso la pace] in cui il Goriziano
ha più volte sintetizzato i compiti della [sua] ricerca filosofica»“°°. E,
ancora, è forse proprio lo stesso ritratto che s'intravvede sullo sfondo, tra i
libri sulle scaffalature, nel famoso autografo Disegno della soffitta di casa
Paternolli (il «ritratto della mia vita», com'egli lo chiama allegandolo ad una
lettera al Chiavacci), la soffitta dove Michelstaedter letteralmente si segregò
per ultimare la tesi, trascorrendo (come scrive) una «vita che non è vita», ma
con la consapevolezza, comunque, che lì nasceva «una grande opera». Quasi che
l'immagine del filosofo tedesco, come l'icona di un santo, vegliasse e
"supervisionasse" il lavoro del Goriziano, dunque. Del resto,
Schopenhauer suggerisce a Michelstaedter anche il luogo privilegiato attraverso
il quale, come filo d'Arianna, individuare la possibilità di un'armonia
persuasa da estendere alla totalità delle cose viventi: il filosofo tedesco
aveva visto, cioè, proprio nel corpo - che pur ad una considerazione
superficiale si dà come mera rappresentazione tra le rappresentazioni -
l'espressione più adamantina e perfetta dell'oggettivazione del Wille, e quindi
la condizione della conoscenza della Volontà stessa, lo strumento euristico che
permette di oltrepassare il "velo di Maia" interposto tra noi e la
vera essenza del «E' scritto in qualche parte (credo in Schopenhauer) che chi
potesse guardare internamente in un vaso di terra non vi vedrebbe che un oscuro
tendere al basso e un'oscura forza di coesione» [PR 162]; «Tu sai che la ragione
dell'antisemitismo filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il razionalismo
della religione e della letteratura ebraica (pensa al Pentateuco e a Spinoza!)
e la mancanza dell'elemento mistico nelle menti ebraiche [...]» (la già citata
lettera al Chiavacci, del 22 dicembre 1907, E 267, che richiameremo anche in
riferimento a Nietzsche); «Schopenhauer dice che ogni dialettica è in fondo
un'eristica. Quella dialettica non è un'eristica dove l'uomo si comporta verso
l'altro come verso di sé - dov'è presupposta in tutti e due un'eguale realtà,
sicché tutti e due arrivano a purgare singoli concetti dalla relatività,
giungendo ad affermare così l'assolutezza della loro comune fede» [O 711-712].
251 Ma riguardo a ciò, ovvero alla re-interpretazione del Wille, cfr. quanto
diremo oltre. 252 In Convegno, luglio 1922, pag. 357. 253 Sono le parole di S.
C ampailla, in Pensiero e poesia..., cit., pag. 25, in nota. 254 La lettera cui
il disegno e le parole citate fanno riferimento è quella del 25 aprile 1910.
mondo. Similmente, Michelstaedter individua un'analogia tra il bisogno
elementare del nostro corpo e il bisogno della Persuasione: come ricorderete,
dicemmo che «è come se [...] un'immagine sbiadita della Persuasione
sopravvivesse nella forza che sottende all'equilibrio omeostatico (chimico e
soprattutto fisiologico) del nostro corpo» °°. Ciò nonostante, il silenzio del
Goriziano riguardo Schopenhauer è, secondo noi, non privo d'importanza, è anzi
indicativo della curvatura autonoma che ben presto prese la sua ricerca
esistenziale. A tal proposito, ci sembra utile riportare l'unico passaggio che
abbiamo designato come significativo: (Schopenhauer, in fin dei conti] non si
occupa di far vedere la necessità dell'errore stesso implicito nel principio
generale della vita che fece vivere chi aveva negato ogni ragione di vivere.
Infatti così accadde proprio a lui che visse tutta una lunga vita a fare
professione di pessimismo. Tanto che poi le sue negazioni gli divennero sistema
e che morì accarezzando anche lui [s'intende, tra le righe, (soprattutto) come
Hegel] una certa forma di 'assoluto' [O 839-840]. Come appare chiaro,
Michelstaedter denuncia che nella pratica della vita il filosofo tedesco arrivò
a sconfessare se stesso, o che comunque fece assurgere il suo pessimismo a
sistema, la qual cosa è una contraddizione in termini. Appare altrettanto
chiaro che, in questo senso, Schopenhauer diviene addirittura l'avversario
privilegiato, seppur indiretto, di molte pagine michelstaedteriane incentrate
sulla critica dell'«imperfetto pessimismo», cioè di quel pessimismo che viene
infine a coincidere con «un punto alto dell'ottimismo vitale»"99. Il
meccanismo, che in effetti ricorre in più passaggi della sua opera, viene
descritto con limpidezza in un capoverso del Dialogo: Il suo non è pessimismo,
cioè conoscenza del non-valore, e conseguente indifferenza, ma ottimismo. Cioè
fede in un valore (la felicità nella morte) sconosciuto, per solo stimolo del
suo bisogno presente [D 78]. Qui, in verità, Michelstaedter sta fustigando
coloro i quali, "forti" del loro pessimismo, credono di realizzarne
con coerenza i presupposti nichilisti uccidendosi. Mentre invece Schopenhauer,
come sappiamo, considerò il suicidio come «un atto di forte affermazione della
volontà stessa» in quanto il suicida «vuole la vita ed è solo malcontento delle
condizioni che gli sono toccate» (Mondo, $ 69), per cui anziché negare
veramente la volontà egli nega piuttosto la vita; e in questo Michelstaedter lo
segue fedelmente (ed è importante, e deve far riflettere, una simile presa di posizione
da parte di un suicida?”). 255 Cfr. ci sia concessa questa autocitazione dal
paragrafo su Empedocle, nel nostro Capitolo V, per rendere più scorrevole il
discorso. 256 in Scritti Vari, cit., pag. 825. 251 Cfr. le analisi contenute ad
esempio in D 75-78. Tuttavia, pur se non morte, cos'altro è la noluntas se non
una forma di "mortificazione", di consapevole eutanasia? La pace del
Nirvana? si propone come esperienza del nulla, un nulla relativo al mondo,
cioè, in definitiva, una negazione del mondo. Certo, anche la Persuasione
presuppone una spoliazione progressiva delle "valenze inadeguate" che
il vir intrattiene col mondo: ma il risultato non è un divorzio del Persuaso da
ciò che lo circonda, non è una sua mortificazione, bensì - e lo abbiamo più
volte ripetuto - un recupero del mondo nell'apprezzamento di una rinnovata
dolcezza. Per semplificare la questione, possiamo ammettere che talune
affermazioni del Goriziano tradiscono, in effetti, già nell'argomentazione, una
discendenza molto chiara dal dettato schopenhaueriano (ad es., passaggi
importanti come il seguente: «Vita è volontà di vita, volontà è deficienza,
deficienza è dolore, ogni vita è dolore»°°°): e proprio seguendo la falsariga
del Tedesco (e con profonde affinità anche con Leopardi) per Michelstaedter la
vita - e non solo quella rettorica - oscilla decisamente tra dolore, piacere
effimero e noia. L'argomentazione è addirittura sillogistica, come sappiamo:
ogni essere vivente, oggettivazione puntuale/empirica del Wille/deficere, è
afflitto dal bisogno e dal desiderio, da una brama che pone in lotta le forme
viventi tra loro. Unica alternativa, dopo i brevi e occasionali istanti
dell'appagamento (natura negativa del piacere), è la noia. 258 «Davanti a noi -
scrive Schopenhauer - non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella
contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch'essa
nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi,
volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è
se non un'altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente
siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo
sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che
superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di
sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò;
coloro, che attendono di vedere svanire ancor solamente l'ultima traccia della
volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'ncessante, agitato
impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al
dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è formato il
sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in
alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari alla calma del
mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia [...] La conoscenza
sola è rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia
a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la
miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa
durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto essere
insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della volontà, al
mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione della volontà dissolversi il
mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque,
considerando la vita e la condotta dei santi [...] dobbiamo discacciare la
sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a
ogni virtù santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini.
Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno
gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento
in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente
dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è
invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma
viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e
rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue
vie lattee, è il nulla » [Mondo $ 71 passim]. 259 In Scritti Vari, cit, pag.
705. 260 «Qualsiasi soddisfacimento - scrive Schopenhaurer - o ciò che in
genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre
negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé
entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un desiderio.
Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d'ogni
piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere.
Quindi l'appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da
un dolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ogni vero, Dolore,
piacere e noia sono le passioni, potremmo dire con Cartesio, «semplici e
primitive», da cui si diramano passioni più particolari; di queste, il Goriziano
fornisce una vera e propria casistica eziologica ed ontologica, che può
ricordare altre simili presenti, ad esempio, nell'Ethica di Spinoza:
l'impotenza, il rimorso, la malinconia, la paura, l'ira, la «gioia 'troppo'
forte»™®' . Ontologica perché esse tutte, primitive e derivate, in effetti
poggiano sulla passione fondamentale, quella esistenziale per eccellenza,
quella insomma che gli esistenzialisti (ma già Kierkegaard) chiameranno
Angoscia [Angs{ ovvero, secondo il giovane tesista, la condizione per la quale
l'uomo «sente d'esser già morto da tempo e pur vive e teme di morire»”®?:
l'angoscia testimonia «dappertutto lo stesso dolore della vita che non si sazia
e crede di saziarsi, reso perspicuo per la qualunque contingenza dell'una
coscienza col fluire delle altre coscienze». E' l'angoscia, la malattia
mortale, la passione "motrice" che, nella pratica, induce gli uomini
a stringere la "cambiale" della società, per una sorta
dicompensazione/conservazione del proprio impulso vitale, altrimenti annichilito.
Tuttavia, se tale analisi ha una radice palesemente schopenhaueriana, il nostro
filosofo già da subito reinterpreta/sussume il Wille all'interno di
un'originalissima «ontologia della privazione che concepisce la vita secondo i
termini di una deficienza originaria »?9°, ovvero «la volontà per
Michelstaedter non è un oscuro impulso fondato in se stesso [come appunto in
Schopenhauer], ma una ‘deficienza’, una mancanza, la maniera d'essere
dell'esistenza finita, della falsamente infinita ‘vita» 9. E i nostri
approfondimenti in proposito dovrebbero rendere questa differenza oramai
scontata. La Persuasione, di contro, non sarà un riparo egoistico nella turris
eburnea dell'autosufficienza nichilista (così come appare nella noluntas), ma
una consapevolezza viva e politica del Tragico, volta a creare una nuova
solidarietà tra tutti gli enti del mondo sublunare, al di là di ogni
pregiudiziale cesura metafisica?®. Il Persuaso, infine, è il vero pessimista
perché sa farsi ragione della «brutalità della vita», e ciò facendo - scrive
Michelstaedter - «vive con la chiara coscienza dei valori e delle possibilità:
non spera dalle cose più di quanto possano dare, non teme più di quanto sia da
temere». Ancora una volta, il pessimismo persuaso coincide con la
consapevolezza del Persuaso, ovvero con la consapevolezza aperto soffrire, ma
anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la
mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza». [cfr. Mondo, § 58] 261 Per
l'analisi delle quali, cfr. - del nostro Il capitolo - il paragrafo sul Cerchio
della violenza. 262 Per queste considerazioni, e quelle che seguono
immediatamente, cfr. ibidem. 263 Cfr. G. Pulina, L'imperfetto pessimista -
Saggio sul pensiero di Carlo Michelstaedter, ed. Lalli, pag. 61. 264 Cfr. A.
Michelis, Carlo Michelstaedter, cit., pag. 71. 265 P er i riferimenti e le
citazioni che seguono immediatamente, cfr. almeno, del nostro capitolo II, il
paragrafo sulle Radici della violenza. In effetti, che tra l'uomo e gli altri
enti non ci fosse alcuna cesura metafisica è un lascito anch'esso
schopenhaueriano (tutto è Volontà). dell'impermanenza esistenziale”, e quindi
con la gioia che da questa consapevolezza scaturisce. Ne vien fuori una figura
di eroe tragico che nulla ha a che vedere con l'asceta schopenhaeuriano, o col
superuomo nicciano (che più che tragico, apparirà grottesco?9”). Un eroe
tragico che, come abbiamo concluso”, è uomo d'azione, uno zampillo d'acqueche
erompe dalla terra, s'innalza verso il cielo, ma riscende a ristorare il suolo:
vive in uno slancio che è nella vita e non fuori della vita: lo slancio verso
il principio della vita in un amore eguale per tutte le cose viventi. L'eroe
vive in questa ultima fede e afferma se stesso trascinando il mondo verso la
vera vita; e poiché presuppone negli uomini la medesima essenza, la stessa
volontà che è in lui, rispetta sé negli altri, creando un vincolo di libertà e
di amore??? 266 Come la chiamerebbero anche i maestri orientali; e la
coincidenza terminologica che non può essere soltanto un caso. 267 Ma cfr.
quanto diremo fa poco in proposito della variante Nietzsche, 268 || riferimento
è alla parte conclusiva del nostro capitolo Il. Di quelle conclusioni
riprendiamo, in parafrasi, nelle parole che appena seguono, i punti salienti
della descrizione dell'eroe tragico così come tratteggiata dal Goriziano, come
detto, negli Scritti vari, cit, n. 110, pagg. 798-799. 269 In questo modo,
Michelstaedter recupera e rivaluta anche l'orizzonte importante della
compassione, che Schopenhauer aveva inteso soltanto come uno dei momenti -
inadeguato e transitorio - per assurgere alla contemplazione nullificante del
Nirvana [per cui cfr. supra]. A2- La variante Nietzsche, il "terzo
Dioniso". C'è un pessimismo della forza? Nietzsche, Tentativo di
autocritica Confessiamo che affrontare la variante nicciana della Persuasione
ci mette un po' a disagio. Nietzsche è un autore che attrae inevitabilmente nel
vortice del suo pensiero e della sua "follia" ogni tentativo di
accostamento; anche il nostro, per quanto contingente e irrisorio, cioè votato
a tracciare esclusivamente eventuali affinità o meno col dettato
michelstaedteriano. Proprio il fatto che quest'accostamento nostro malgrado
"ci si imponga" pur parlando di Michelstaedter (che è per noi, negli
esiti, un altro mondo rispetto al filosofo tedesco) testimonia, nel suo
piccolo, di come la potenza e il fascino "ambiguo" di Nietzsche
faccia valere tutta la sua autorità; ossia di come si sia iniettato a livello
genetico nell'orizzonte pensante della sua posterità al punto che, a tutt'oggi,
ogni nuova ricerca filosofica, ogni nuova proposta etica, insomma ogni
"progresso" della speculazione deve fare innanzitutto i conti col suo
nichilismo, eletto all'unanimità a spartiacque, e deve innanzitutto difendersi
dall'accusa terribile di essere un valore, la più immediata che le viene
rivolta contro, al pari di un'offesa. Ribaltando la prospettiva (ma il senso
permane identico), ogni affermazione di forza genuina, ogni progetto di nuova
umanità, ogni rinnovato accenno "persuasivo" viene inteso come
partorito, per germinazione più o meno consapevole, in seno alla
transvalutazione, come se nella debacle di cui siamo gli omertosi testimoni
Nietzsche fosse l'unico garante di sincerità, l'unico punto di riferimento,
l'unico abbrivo di pensiero che prometta onestà. Così, anche la Persuasione
michelstaedteriana è passata al vaglio del "pensiero danzante", e a
tal proposito il travaglio ermeneutico dei suoi esegeti filonicciani è stato
alacre: si è visto, cioè, nel vir un figlioccio o un fratellastro minore
dell'Ubermensch, nella sua aspirazione "autarchica" (ovvero,
autonoma) una volontà di potenza più ingenua ma non meno violenta: una sorta di
carbonio impoverito. Michelstaedter sarebbe la traduzione provinciale del nichilismo
cosmico-europeo: egli starebbe a Nietzsche come il grimaldello al martello. Ci
viene voglia di liquidare il discorso con due battute: [1] la Persuasione è
effettivamente e fieramente un valore; [2] definire nicciano Michelstaedter
sarebbe come chiamare nicciano Socrate (è Socrate, infatti, il riferimento
dichiarato del Goriziano), il che paleserebbe la vanità e la risibilità
dell'accostamento. Tuttavia, per non prestare il fianco ad inevitabili
contrappelli, preferiamo - come sempre - parlare di Michelstaedter (e qui della
sua presunta filiazione da Nietzsche) attraverso le sue stesse parole.
Innanzitutto, è da dire che chi cercasse riferimenti espliciti al filosofo
tedesco nelle opere del Goriziano, come nel caso di Schopenhauer, rimarrebbe
deluso. Si contano a stento sulle dita di una mano, e Nietzsche risulta
praticamente ignorato ne La persuasione e lrettorica. Difatti, Michelstaedter
menziona Nietzsche cinque o sei volte - in maniera incidentale e mai in un
contesto "pacifico" - solo nelle lettere e in qualche appunto
"minore" contenuto nelle Opere complete a cura del Chiavacci. Ma
procediamo con ordine, partendo da un elemento in apparenza occasionale. Una
sera del gennaio 1907, Michelstaedter va a teatro (una delle sue attività preferite)
ad assistere ad una pièce allora in voga: Più che l'amore, di Gabriele
D'Annunzio. Il Goriziano, com'era solito fare, in una lettera alla famiglia
descrive puntualmente le impressioni che ne ricavò [E 167-168]: Questa sera
andai a sentire Più che l'Amore. - Il concetto è prettamente Dannunziano, o
meglio Nietzschiano: L'uomo superiore nel suo immediato congiungimento d'amore,
d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita, al di fuori della
società, al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare
senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società gli mette
fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale. - A me pare che non solo si
esplichi ciò (come i giornali dissero sempre) nell'uccisione del baro ma anche
e più, nel calpestare che Corrado Brando [il protagonista del dramma] fa e
dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio. Anzi unicamente in questo
consiste l'azione, nell'altro soltanto l'antefatto e il mezzo per poter
esprimere tutti i concetti che l'autore magnificamente fa esporre continuamente
a Corrado, e ci spiegano l'azione la quale azione invece è di fatto soltanto,
non di parole. Più che l'amore agita Corrado la passione per la natura
africana, in nome di questa egli spezza il cuore di Virginio e di Maria. Non
èvero dunque che il lavoro manchi d'azione. Anzi è azione psicologica serrata
continua. La forza individuale di Corrado non cozza meschinamente contro
l'impossibilità di aver 3000 o 4000 lire ma contro i legami sociali, contro i
legami della coscienza, sopratutto contro i legami del cuore che dalla società
nascono, quei legami che sono i più forti di tutti. Quindi la situazione è
corrispondente esattamente a quelle del D'Annunzio stesso di fronte alla sua
famiglia nelle Laudi quando prende quasi commiato da lei, corrispondente a
tutta l'Attività sua poetica e pratica, corrispondente alla situazione attuale
della società (come si diceva quella sera). - Ma perché questa azione spicchi è
necessario drammaticamente l'ambiente sociale con tutte le sue leggi, i suoi
affetti, i suoi pregiudizi, o un suo rappresentante convinto inesorabile, che
non possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine un resto di questo mondo
nell'animo dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi, la catastrofe. Invece
l'autore piega tutti i presenti sotto il fascino di Corrado: Virginio
malintende e tentenna, Maria lo segue con entusiasmo, il servo negro si farebbe
in pezzi per lui. Quindi l'azione resta avviluppata, affidata quasi
all'immaginazione del pubblico, che, se sente, deve intendere lo schianto
dell'animo dei due altri, deve capire come la società calerà la sua mano
pesante sul capo di Corrado: il fato. E l'autore per aiutar l'immaginazione
appoggia tutta l'azione al fatto dell'uccisione che produce la catastrofe
dell'intervento della polizia. - In conclusione credo che abbia tutti gli
elementi ma che non sia affatto un dramma. E però un gioiello, una cosa
splendida per concetto ed immagini. - Questo stralcio, che può leggersi anche
come un piccolo e acuto saggio di critica teatrale, c'introduce proprio nel
cuore della nostra questione. Cerchiamo di de-costruirlo. E' nota la
deformazione dannunziana del mito del superuomo, reinterpretato in chiave
estetizzante e decadente: l'intuizione nicciana si volgarizzava, in tutti i sensi,
nell'ambigua figura di Andrea Sperelli, il protagonista del Piacere, alter ego
dello stesso D'Annunzio, personaggio insieme raffinato e gelido, aristocratico
e spregiatore di quel «grigio diluvio democratico moderno che tante belle cose
e rare sommerge miseramente» (l'ispirazione nicciana doveva intensificarsi nei
cosiddetti romanzi del giglio, fiore simbolo appunto del superuomo, della
passione che si purifica). Fu soprattutto attraverso questa distorta
prospettiva (sin dai primi anni novanta dell'Ottocento, quindi) che il pensiero
di Nietzsche 158 fece il suo ingresso e la sua fortuna in Italia, andando ad
affascinare una gioventù ancora scapigliata e destando voluttuoso, e dunque
ipocrita, scandalonella borghesia giolittiana. L'intelligente Michelstaedter,
tuttavia, mostra di non leggere Nietzsche attraverso D'Annunzio (qual era
l'abbaglio del suo tempo e a quanto presumono i critici michelstaedteriani di
oggi), bensì D'Annunzio attraverso Nietzsche: «il concetto è prettamente
Dannunziano, o meglio Nietzschiano», dice, e confessa indirettamente, in questo
rilievo correttivo, di aver avuto tra le mani le opere del filosofo tedesco e
di poter valutare criticamente i distinguo. Distinguo che, in questa sede, non
interessano: interessa piuttosto individuare in cosa consistesse quel «concetto
prettamente nietzschiano» che Michelstaedter menziona. Ovvero, qual era
l'impressione ch'egli aveva desunto dalla lettura di Nietzsche? Le parole del
Goriziano sono chiare: «L'uomo superiore nel suo Immediato congiungimento
d'amore, d'entusiasmo con la natura, con le forze vive della vita [la «fedeltà
alla terra», il «SÌ alla vita», dice Zarathustra], al di fuori della società,
al di fuori quindi da tutti i suoi concetti morali, ha diritto di schiacciare
senza riguardo a questi concetti, tutte le barriere che la società gli mette
fra il suo amore e il conseguimento del suo ideale». L'impressione si
metallizza in una serie di nette opposizioni: individuo (uomo superiore) -
società; aspirazione alla realizzazione/autenticità (forze vive della vita) -
sua castrazione/inautenticità (concetti morali, barriere); dinamismo (forze
vive della vita) - stabilità sociale. In effetti, sembra già enuclearsi la
dicotomia Persuasione-Rettorica?”°. Ma prestiamo attenzione a un punto essenziale:
in che modo si realizzano le aspirazioni dell'uomo superiore, ossia in che modo
esso reagisce all'impasse sociale e riesce a «conseguire il suo ideale»? Il suo
aderire alla natura, alle forze della vita è «immediato», «entusiastico»: c'è
una sorta di processo di accumulazione energetica in questa immediatezza,
un'integrazione di "vitamine esistenziali": si galvanizzano forze
pericolose per il labile equilibrio salutare (l'armonia vitale). Questa
continua tensione, scrive Nietzsche, «sarebbe fatale per nature troppo delicate
[ma] fa parte degli stimolanti della grande salute». In un appunto tralasciato,
relativo alla Volontà di potenza, il 270 Come s'evince dall'indiretta accusa di
estetismo "psicologizzante" che Michelstaedter rivolge a D'Annunzio.
L'appunt è anche qui in apparenza estemporaneo, cioè si offre come un mero
rilievo di critica teatrale (la vera "azione", il ver
"dramma" della pièce), mentre a ben vedere Michelstaedter mostra già
di presentire quelle che sarebbero state le ragio motrici dello scontro
Persuasione-Rettorica nella sua visione matura. Perché l'azione drammatica
decolli, dice Goriziano, «è necessario drammaticamentel'ambientesocialecon
tutte le sue leggi, i suoi affetti, i suoi pregiudizi, o u suo rappresentante
convinto inesorabile, che non possa nemmeno intendere altre idee, oppure infine
un resto di quest mondo nell'animo dell'eroe, a produrre la lotta, la crisi, la
catastrofe». Spostando, per analogia, il rillevo nel "teatro del
vita", il gioco è fatto. Di contro, D'Annunzio «piega tutti i presenti
sotto il fascino di Corrado»: questo sposta, ed elude, consapevolezza dello
scontro effettivo e del suo effetto tragico, che dovrebbe corrispondere allo
smacco sociale. E' una critica embrionale, qui ancora inconsapevole, anche ai presumibili
risvolti sociali e politici di un'operazione simile: chiunque indugi a
effondere il carisma dell'uomo superiore falsa la portata tragica del conflitto
impersonale-universale, rischiando di risolverlo (e dunque di ridimensionarlo)
a livello esclusivamente personale-individuale. Giocando col riferimento di
Michelstaedter a Corrado, possiamo dire che Nietzsche, in questo senso, «piega
tutti i presenti sotto il fascino di Zarathustra», ossia di se stesso. o 5-29 6
DD 15filosofo affina il suo concetto: «Salute e malattia: si vada cauti nel
giudicare! Pietra di paragone resta l'efflorescenza del corpo, l'elasticità, il
coraggio e la giocondità dello spirito; ma, naturalmente, anche quanto di
malato esso può prendere su di sé e superare - rendere sano» [il corsivo è di
Nietzsche]. La grande salute è, possiamo dire, una questione di
"entropia"?! del superuomo. Come si sa, l'aspetto forse più
importante dell'entropia è quello per cui noi, studiando appunto le variazioni
entropiche di un dato sistema (nel nostro caso, del superuomo), possiamo
"predirne il futuro", siamo in grado cioè di capire quali sono gli
stati verso cui il sistema può evolvere e quali sono invece quelli che gli sono
preclusi. La fisica, infatti, ci insegna che l'energia si conserva, è costante,
ma altresì che essa evolve, assumendo forme non tutte ugualmente pregiate:
l'energia può infatti dissiparsi (e la trasformazione è irreversibile) oppure
essere opportunamente imbrigliata, e realizzarsi in lavoro (energia utile,
trasformazione almeno parzialmente reversibile). Come evolve allora l'energia
del superuomo, qui incarnato in Corrado Brando? Il superuomo - scrive
Michelstaedter - «ha diritto di schiacciare senza riguardo». La sua energia,
cioè, esplode in violenza. Sottolinea il Goriziano: «A me pare che non solo si
esplichi ciò [...] nell'uccisione del baro ma anche e più, nel calpestare che
Corrado Brando fa e dell'amore di Maria e dell'amicizia di Virginio». E' questo
un tratto tipicamente michelstaedteriano: la violenza (del superuomo) non si
esplica solo nel "fatto" brutale (qui, dell'omicidio), ma ancor più
nel rescindere, nel tradire, nel calpestare i sentimenti umani più veri e più
belli: l'amore e l'amicizia; ovvero, la violenza non è soltanto sopraffazione:
è anche - soprattutto - contraffazione, mancanza di rispetto per la dignità
dell'uomo che ci è accanto, preclusione dell'orizzonte politico del confronto e
della relazione umana nell'imposizione rutilante della propria
"egoità", attraverso un progressivo, disonesto avvelenamento
(Rettorica, appunto, avrebbe detto pochissimi anni dopo Michelstaedter). La
Rettorica nasce dunque da una dissipazione di energia esistenziale, e si
profila, conseguentemente, come un processo irreversibile. Lasciamo per ora in
sospeso questo punto; teniamolo tuttavia bene a mente. E così, Michelstaedter
lesse Nietzsche. Il Cerruti, convinto di una parabola evolutiva del pensiero
michelstaedteriano, appronta una schematizzazione utile, per quanto giocoforza
farraginosa, fotografando i «momenti dell'esperienza ideologico-esistenziale»
del nostro giovane filosofo: in essa, portando a testimonianza soprattutto la
primissima parte dell'Epistolario (laddove effettivamente il tono espressivo e
la sensibilità emotiva rasentano posizioni dannunziane e nicciane), il critico
dimostra che Michelstaedter, almeno nella sua prima giovinezza, aderì al culto
del superuomo e alla sua "morale eroica". Nel suo schema, questo
periodo di eroico furore corrisponderebbe agli anni immediatamente precedenti
il 1906 (dunque, 1905 incluso), anni in cui «oltre i diversi stimoli di una
cultura eclettica e ancora in certa misura scolastica, [il Goriziano si
collocherebbe appunto] entro una temperie logico-sentimentale di ascendenza
nietzschiana, o meglio [...] nietzsche-dannunziana». L'analisi del Cerruti,
puntuale ed argomentata, alla fine riesce anche convincente: evidentemente,
pensiamo noi, Michelstaedter dovette ritrovare in quei due autori, a quel
tempo, gli unici o almeno i massimi punti di riferimento per una germinale
polemica anti-rettorica che già agitava la sua intelligenza e la sua
sensibilità.””? Questa sinergia si può arricchire, secondo noi, di un ulteriore
innesto””?: se si tiene a mente l'analisi demolitrice dell'apparato rettorico
fornita da Michelstaedter, si può scoprire che, almeno nelle linee essenziali,
essa deve in realtà molto al giovane Nietzsche, che scriveva, non molti anni
prima del Nostro, cose altrettanto "inaudite" nel libello Su verità e
menzogna in senso extramorale’”. In esso, il filosofo tedesco indagava col
medesimo cipiglio le costruzioni del filisteismo intellettuale e sociale e,
soprattutto, traeva conclusioni analoghe di disincanto: rispetto al male, al
dionisiaco, all'assurdo della vita (non solo umana, ma universale) l'intelletto
- «strumento ausiliario alle più infelici, alle più fragili, alle più
transitorie delle creature» - «come mezzo per la conservazione dell'individuo,
sviluppa le sue forze più importanti nella simulazione». La
"patetica" (nel senso del pathos in Nietzsche) verità dell'uomo non
è, piuttosto, nient'altro che «un esercito mobile di metafore, metonimie,
antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state
sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga
consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono
illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni,
metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza ». 271 L'entropia, in
fisica, è la misura del grado di casualità e di disordine di un sistema, ovvero
della sua energia. 2712 Riferimenti che Michelstaedter abbandonerà altrettanto
presto, come visto. Lo stesso Cerruti, nella sua schematizzazione, alle
convinzioni del 1905 fa subentrare due anni di «ricerca e crisi» (il 1906-1907),
anni che non a caso preluderanno alla scoperta di Ibsen e Tolstoj da parte del
Nostro (nel 1908). In questo periodo di travaglio intellettuale, Michelstedter
si presenta «secondo una prospettiva interiore se non contraddittoria, certo
complessa. Nietzsche-dannunziano per un verso, inteso a superare inquietudini e
dubbi in un incontro profondo e rigenerante con le forze vive della natura; ma
preoccupato al tempo stesso di risolvere quei dubbi e quelle inquietudini sulla
base di un rigoroso esercizio intellettuale, di un'analisi disincantata e
penetrante della propria condizione; tutt'altro che chiuso infine sia pure
ancora entro certi limiti, nei riguardi del mondo contemporaneo, anzi già
consapevole di talune obiettive difficoltà di quest'ultimo». Nel 1908, infine,
«l'incontro con Ibsen e Tolstoi» segnerà «il superamento della morale eroica».
[Per queste analisi del Cerruti, che abbiamo riassunte, rimandiamo alle pagg.
7-56 della sua monografia Carl Michelstaedter, Mursia (Civiltà Letteraria del
Novecento), 1987 2ed.; in particolare, le nostre citazioni sono tratte dal
pagg. 12-24-33] 273 Innesto ch'è una nostra supposizione, non avvalorata, ma
neanche smentita, da effettivi riscontri testuali. Tuttavia, data la profonda
affinità che dimostreremo, crediamo che l'innesto sia semplicemente sottaciuto.
(©) 274 Sia detto per inciso, è questo uno scritto che noi consideriamo già
cruciale (ovvero, frutto di un pensiero già compiuto) e rispetto al quale, a
nostro parere, tutta la riflessione successiva del Tedesco si pone come
complessa e sofferta postilla, da quella più immediata e "ponderata"
della Nascita della tragedia e della Filosofia nell'età tragica dei greci su su
fino alle forme più esasperate dello Zarathustra e della Volontà di potenza.
Leggiamo lo scritto nicciano nella traduzione dell'ed. Newton, Nietzsche,
Opere, cit., pagg. 93-101 (a cura di S. Givone). Le nostre citazioni si
intendano passim. Ma perché gli uomini si ostinano «attraverso questa
incoscienza»? "semplicemente" perché - spiega Nietzsche - «l'uomo
vuole anche esistere, sia per bisogno sia per noia, socialmente e come in
gregge», e per far ciò «stipula un patto di pace e si adopera per cancellare
dal suo mondo almeno il più brutale bellum omnium contra omnes. Questo patto di
pace porta qualcosa con sé, che è come il primo passo verso il raggiungimento
di quell'enigmatico impulso alla verità. A questo punto cioè viene fissato ciò
che da allora in poi dovrà essere la 'verità', il che significa che si è
trovata una connotazione vincolante e uniformemente valida delle cose e che la
norma linguistica istituisce anche le prime regole della verità ». L'assoluta
aderenza - ci sentiamo di dire - delle parole nicciane col dettato
"maturo" michelstaedteriano è a dir poco imbarazzante: anche per Michelstaedter
la ratio umana è relatio, e si risolve in una «costruzione di ragnatele, così
leggera da lasciarsi trasportare dalle onde e così salda da non essere soffiata
via dal vento» [corsivo nostro], come scrive Nietzsche (l'immagine della
ragnatela ritorna significativamente anche in Schopenhauer e Leopardi). Anzi,
Michelstaedter è addirittura più drastico: come detto, la relatio per lui non è
soltanto conoscitiva, ma strutturale, coinvolge cioè tutti i rapporti di
interazione con le altrui vitespressione di violenza, perché termine ultimo di
quel "moto violento" cui l'uomo sottopone il mondo [cfr quanto
affermato sul luogo naturale e sul moto violento nel nostro cap. I]. Ancora,
similmente che in Nietzsche, la relatio trova la sua espressione più palese e
nello stesso tempo la sua giustificazione e realizzazione più completa nella
comunità sociale: alibi "politico" della menzogna comune per l'uno,
comunella di malvagi per l'altro; per entrambi, sovrastruttura di un bisogno di
tutela, di sicurezza reciproca, che si concreta in un patto di pace come dice
ironicamente Nietzsche o - in modo più forte Michelstaedter - nella
stipulazione di una cambiale (assicurativa) sociale. Per entrambi, inoltre, la
(presunta) "verità" si costruisce un saldo impiantito (sottile come una
ragnatela, l'è vero, ma «resistente al vento», tant'è intricata e ben tessuta)
nel linguaggio, nella scienza-tecnica e nella filosofia: a tal proposito, come
visto, le analisi del filosofo goriziano arrivano ad eguagliare, per acrimonia
e per forza di "smascheramento", quelle del filosofo tedesco. Per
entrambi, infine - ma era presentimento anche di Schopenhauer e di Leopardi -,
la Rettorica si manifesta, soprattutto negli uomini, così come inganno, ma come
inganno a ben vedere indifferente, e in certo senso addirittura involontario,
vale a dire necessitato dalla stessa matrice bio-fisiologia, prima che
ontologica, della Rettorica stessa: l'insensato procedere della natura (non più
madre, ma neanche matrigna, direbbe Leopardi), del Wille, del dionisiaco, della
Rettorica, appunto perché insensato, nella sua forma più nuda e cruda, è...
«extramorale». Ma torniamo alle conclusioni della critica professionale.
Campailla dà in pratica per assodato che Michelstaedter lesse, tra le altre
opere (di sicuro almeno lo Zarathustra””°) anche La nascita della tragedia”: la
cosa a questo punto non ci stupisce, anzi ci appare ovvio che il capolavoro di
un allora giovane geniale originale filologo quale fu Nietzsche capitasse tra
le mani di un altrettanto geniale ed eterodosso ermeneuta della grecità, qual
era Michelstaedter?”. Anzi, se c'è davvero un importante punto d'incontro tra i
due pensatori, noi presumiamo che esso si consumi soprattutto qui, nel loro
amore per il mondo greco, nella riscoperta di un equilibrio, di un'armonia che
si realizzò nella tragedia classica, breve ma intenso bagliore di autenticità
agli albori della nostra storia occidentale, che poi andò incontro al declino
che tutti conosciamo. Corollario di quell'incontro (ma non secondo per
importanza) la considerazionedellafigura di Cristo: per Michelstaedter Cristo è
il vir per Nietzsche l'unico vero, onesto cristiano morì sulla croce: voleva
dire, secondo noi, l'unico vero uomo?”?. Come dicemmo”?, i due pensatori
aspirarono a riprodurre, ognuno a suo modo, quell'armonia, ritenendola foriera
di autenticità: per il giovane Nietzsche era l'equilibrio dinamico di Apollo e
Dioniso, l'elemento "letargico" che "gioca" con l'
"impulso 275 Campailla fa notare che, a chiosa di un passo centrale della
Hedda Gabler di Ibsen, Michelstaedter scrisse queste parole: «Stirb zur rechten
Zeit», una chiosa che altro non è che una citazione testuale dal paragrafo
Della libera morte dello Zarathustra. Il critico utilizza il rilievo a prova
del sostrato nicciano che sottende alla lirica | figli del mare (che abbiamo
già analizzato), il cui refrain a suo parere riproduce l'esaltazione della
morte fatta da Zarathustra nel succitato paragrafo, e addirittura chiama quel
riferimento a testimoniare «la componente nietzschiana della prima formazione
culturale di Michelstaedter, sulla cui concretezza storica critici di valore
hanno espresso la loro perplessità » [l'analisi e il giudizio dello studioso,
che abbiamo semplicemente parafrasati, si trovano a pag. 23 dell'Introduzione
alle PP], 276 Cfr. Campailla, Due lettere inedite di VI. Arangio-Ruiz a
Michelstaedter, in Giornale critico della filosofia italiana, anno LIV,
gennaio-marzo 1975. 277 Un punto a favore del Goriziano è il fatto che
praticasse correntemente, tra le altre, la lingua tedesca, potendo così rezzare
in immediato il testo, senza alcun filtro di traslitterazione. 218 Cfr.
Nietzsche, L'Anticristo (in Opere complete, cit.), 39, pag. 795. Per Nietzsche,
Gesù fu un «santo anarchico», un «lieto messaggero», che decise, in prima persona,
di «contraddire l'ordine dominante». Tutto questo «lo portò sulla croce»: Egli
dunque «morì per colpa sua» e non «per colpa altrui»: Cristo [e si noti
l'affinità con la posizione michelstaedteriana] «morì come visse, come aveva
insegnato - non per 'redimere gli uomini', ma per indicare come si deve vivere.
La pratica della vita è ciò che egli ha lasciato in eredità agli uomini: il suo
contegno dinanzi ai giudici, agli sgherri, agli accusatori e a ogni specie di
calunnia e di scherno - il suo contegno sulla croce». «Le parole rivolte al
ladrone sulla croce» racchiudono il senso dell'intero Vangelo (che è per
Nietzsche «non difendersi, non andare in collera, non attribuire
responsabilità», amare perfino il malvagio) [ib., 27 e soprattutto 35, pagg. 792-793
passim; tutti i corsivi sono del filosofo]. Ora, il riscontro di affinità (come
ad esempio queste appena accennate, e quelle che seguiranno) tra i due nostri
filosofi non contraddice il nostro assunto di fondo di una totale disparità di
esiti: ripetiamo: non vogliamo mettere in dubbio influenze e suggestioni che
certamente Michelstaedter trasse dalla lettura delle opere del pensatore
tedesco (soprattutto in relazione allo smascheramento rettorico); quel che ci
preme piuttosto sottolineare è come non si debba concepire la Persuasione sulla
falsariga della "nuova umanità" nicciana, rispetto alla quale
Michelstaedter stesso prende posizioni anche dirette di distacco [ma cfr.
oltre]. E' bene dunque ribadire che la matrice profonda e unica della
Persuasione non è il superomismo, bensì il socratismo. 279 Cfr. il nostro
Intermezzo. 163 n280 primaverile e che si realizzava nelle forme perfette
dell'arte e nelle compite costumanze dell'umanità greca; per Michelstaedter il
trasfondersi di vita e morte nella crisalide umana”. Entrambi i pensatori
attraversarono il Tragico, e tradussero la loro sincera, sofferta testimonianza
nella formulazione di un progetto etico. Abbiamo altresì già segnato gli esiti
di tali progetti: in Nietzsche, dicemmo, l'equilibrio era destinato a bruciarsi nell'esasperazione, nella
"superfetazione" della volontà dionisiaca (si dovrebbe citare a
questo punto tutto lo Zarathustra e tutta la Volontà di potenza, almeno); nel
pensatore 280 Ricordiamo che nella già citata lettera al Chiavacci del 22
dicembre 1907, Michelstaedter fa riferimento esplicito all'«elementodionisiaco»
[sic], assimilandolo all'«elemento mistico» che - per il Goriziano -
mancherebbe nella «razionalistica» religione ebraica: proprio questa assenza,
dice Michelstaedter, spiegherebbe «la ragione dell'antisemitismo filosofico»
(Schopenhauer e Nietzsche, annota in parentesi). E' forse l'unico caso in cui
Michelstaedter cita il Tedesco per nome, e per ben due volte nel giro di poche
righe, in un contesto - e questo è indicativo - aspramente polemico. In
effetti, la datazione della lettera la fa cadere proprio nel mezzo degli anni
di «ricerca e crisi», come li chiama il Cerruti [riguardo a ciò, cfr. supra].
281 Com'è noto, la dialettica apollineo-dionisiaco intesse tutta La nascita della
tragedia, in modo ampio e poetico; tuttavia, ha il suo luogo natale in uno
scritto giovanile, La visione dionisiaca del mondo, uno di quei saggi che poi
andranno a confluire nel capolavoro. Privilegiamo, in questa sede, proprio quel
saggio, perché in esso - anche in virtù della sua brevità - la suddetta
dialettica ci appare più focalizzata e meno ridondante [lo leggiamo nella
traduzione contenuta in Nietzsche, Opere, cit., pagg. 60-73; segnaliamo con
numeri in parentesi quadre eventuali riferimenti delle citazioni]. La visione
dionisiaca del mondo contiene l'intuizione che accompagnerà il filosofo in
tutta la sua speculazione: Nietzsche, cioè, scopre nel principio di equilibrio
dinamico tra Apollo e Dioniso la cifra che spiegherebbe la "possibile
vita" dei Greci, altrimenti compromessa dalla dolorosa consapevolezza del
Tragico, l'inquietante verità del Sileno. «Qui - dice Nietzsche - si tocca il
limite più pericoloso che la volontà ellenica con il suo principio fondamentale
apollineo- ottimistico abbia concesso di toccare. Qui essa operò con la sua
naturale forza guaritrice, per piegare nuovamente quella disposizione negativa:
suo strumento è l'opera d'arte tragica e la concezione tragica. La sua
intenzione non poteva in alcun modo essere quella di temperare o di reprimere
lo stato dionisiaco: soggiogarlo direttamente era impossibile, e anche se non
lo fosse stato, restava pur sempre una cosa pericolosa, dal momento che se
quell'elemento fosse stato trattenuto nella sua espansione si sarebbe aperto altrove
una via e sarebbe penetrato in tutti i vasi sanguigni della vita. Per prima
cosa si trattava di trasformare quei pensieri di disgusto sull'assurdo e
l'orrore dell'esistenza in rappresentazioni con le quali convivere: esse sono
il sublime in quanto imprigionamento artistico dell'orrore e il comico in
quanto liberazione artistica dalla nausea dell'assurdo. Questi due elementi
intrecciati insieme si riuniscono in un'opera d'arte che imita l'ebbrezza e
gioca con essa» [67, i corsivi sono nostri]. Dunque, Nietzsche individua nel
gioco l'unica ipotesi euristica plausibile per esprimere la relazione tra le
due divinità: entrambi potenti - potenze contrarie che si equivalgono e si
annullano - preferiscono alla insidia reciproca (che mai porterebbe frutto e
vittoria definitiva) una “ludica convivenza" che spinge addirittura
all'identificazione, laddove Dioniso viene a porsi come il lato oscuro,
terribile e segreto di Apollo, ed Apollo (per usare un tecnicismo informatico)
come l'interfaccia di Dioniso. Per dirla con le stesse parole di Nietzsche, fra
le due divinità viene a crearsi un "vincolo di fratellanza"
(realizzato concretamente nella tragedia), tale he «Dioniso parla la lingua di
Apollo, ma infine Apollo parla la lingua di Dioniso» [cfr. La nascita della
tragedia, in Opere, cit., pag. 178; corsivo nostro]. Michelstaedter, da parte
sua, riproduce un simile equilibrio nel già citato Canto delle crisalidi,
attraverso la tensione esistenziale di vita e morte che intride l'essere
dell'uomo: un oscuro peana che siamo tentati di decifrare proprio ricorrendo
alle "categorie" nicciane di apollineo e dionisiaco, con tutti i più
profondi significati ch'esse coprono. Ma, a parte questo, è l'elemento del
gioco che ci interessa, perché in Nietzsche si rivelerà fondante: la componente
ludica è forse il tratto più caratteristico del suo pensiero, ed anche il più
terribile: perché l'equilibrio del gioco (per quanto questo sia
"nobile" e "difficile") è per definizione precario, e
perché il gioco non è solo capacità della coscienza dell'homo ludens di darsi
delle regole e vivere in esse (nel suo "spazio sacro"), il che
sarebbe la situazione ottimale, ma più volentieri - e l'accezione comune del
termine lo conferma - è un'attività in cui "non ci si prende sul serio".
Apollo e Dioniso giocano nell'orizzonte tragico greco, segnando appunto lo
spazio del sacro; nell'orizzonte tragico nicciano, invece, Dioniso rinuncerà al
suo "compagno di giochi", le sue regole diventeranno di esclusione, e
pretenderà di poter giocare da solo, ossia, fuor di metafora, di poter
sostenere da solo il peso dell'assurdo. E' questo ciò che noi intendiamo per
"superfetazione" del dionisiaco [ma cfr. quanto diremo tra poco].
tedesco l'equilibrio collassa e si esaspera nell'opposizione senza continuità:
al male estremo della Rettorica (superfetazione dell'elemento apollineo, il
"socratismo", la menzogna, il "cristianesimo", l'Europa, si
oppone l'estremo rimedio del pensiero negatore, del dionisiaco travolgente e
beffeggiante, che assume su di sé anche il passato e dice: non così fu, ma così
volli che fosse, anzi «così voglio! così vorrò». Ma c'è un'infinita tristezza
che cova sotto l'ilarità paradossale del profeta del nulla, una coscienza
infelice che caldeggia la scissione, il superamento, il ribaltamento ma che
soffre, al tempo stesso, la frattura, il distacco che quella negazione
comporta; e che si lenisce la ferita ripetendosi che tutto, dall'avvicendarsi
dei mondi e degli universi ai singoli gesti dei singoli uomini, non è altro che
il gioco di un fanciullo eracliteo che è dis-umano e sconveniente fingere di
ignorare™®. Su opposto versante, Michelstaedter avrebbe trovato l'espediente
per preservare l'equilibrio del vir col mondo e con le altrui vite nel tornio
della Persuasione: un equilibrio difficile, ma saldo, faticato ma gioioso,
perché riscopre il mondo nella sua bellezza, l'umanità nella sua dolcezza
persuasa, l'esistenza non come un "gioco innocente" che necessita
(amor fati) e che quindi de-responsabilizza”*, ma come un'attività infinita e impegnata,
che si realizza con e tra gli uomini. Da un lato, Nietzsche stringe il mondo in
un abbraccio troppo forte: è come un amante goffo e patologicamente premuroso
che finisce per soffocare la sua compagna per un eccesso di amore, e ne viene
lasciato; l'amore intenso, allora, nell'abbandono, ci vuol poco a mutarsi in
gelosa e passionale violenza, come la fede intensa in fanatismo. L'
"ultimo" Nietzsche stilla il suo odio e il suo disprezzo, anche se
parla di amore, proprio 282 Dice Zarathustra: «In verità, amici miei, io vado
tra gli uomini come tra frammenti e membra di uomini! Questo è spaventoso per
il mio occhio: trovare gli uomini spezzettati e sparsi come su un campo di
battaglia o in un macello. E se il mio occhio fugge dall'oggi a un tempo trova
sempre lo stesso: frammenti e membra e atroci casi, ma niente uomini!». [cfr.
il capitolo Della redenzione di Così parlò Zarathustra (in Opere complete,
cit.), pag. 305. Si ricordi, a questo proposito, come Michelstaedter abbia
descritto la Rettorica, nella sua accezione estrema, come un' "anarchia
delle membra", anche su suggerimento di Empedocle [cfr. il nostro
paragrafo corrispondente, nel | capitolo]. L'Armonia empedoclea, la Persuasione
michelstaedteriana, la volontà affermatrice (la "felicità del circolo")
di Nietzsche si offrono come tre proposte diverse, anche se in certo modo
affini, per far fronte alla dis-integrazione dell'umano: affermazioni di vita
che si realizzano nello strenuo tentativo di conferire senso a tutto ciò che
altrimenti si presenterebbe come frammentario ed enigmatico. 283 Cfr. ancora il
capitolo Della redenzione di Così parlò Zarathustra, stavolta soprattutto pag.
306. 284 «[... ] l'Uomo non può essere considerato responsabile per nulla, né
per il suo essere né per i suoi motivi né per le sue azioni né per i suoi
effetti. Si è con ciò arrivati a riconoscere che la storia dei sentimenti
morali è la storia di un errore, dell'errore della responsabilità - che, come
tale, poggia su quello della libertà del volere. [...] Giudicare equivale ad
essere ingiusti». [Nietzsche, Umano, troppo umano (in Opere complete, cit.),
II, 39, pag. 541] «Che nessuno sia reso più responsabile, che non sia
consentito ricondurre a una causa prima la natura dell'essere, che il mondo non
sia un'unità né come sensorium né come 'spirito': solo questa è la grande
liberazione - solo così si ripristina l'innocenza del divenire» [Nietzsche,
Crepuscolo degli idoli (in Opere complete, cit.), | quattro grandi errori, 8,
pag. 727; i corsivi sono del filosofo]. Sull'intuizione dell'eterno ritorno,
propinata all'uomo da un dèmone beffardo, cfr. il famoso aforisma 341 della
Gaia scienza. come farebbe un amante rifiutato: io sono un uomo-fanciullo ed è
il Mondo degli uomini a non apprezzare la mia bellezza: per ciò, merita il mio
disprezzo, o anche solo il mio disinteresse, e la mia gioia è nella mia
autarchia e nella mia creazione di nuova bellezza?®®. L'Ubermensch, una volta
privato della memoria di sé e della permanenza dell'essere, appare come
l'eterno fanciullo che cerca l'ebbrezza adolescente dell'Io sono nella propria
autoaffermazione, dentro l'istante che gli restituirebbe l'eterno del destino,
e dunque (direbbe Michelstaedter) la permanenza: l'uomo nuovo è tale perché
vive (o crede di vivere) senza risentimento, bensì sospeso tragicamente
all'assenza di significato del tutto ed imprigionato in una libertà che, in
fondo, gli permetterebbe soltanto di accettare il proprio destino di nulla;
egli dunque dovrebbe essere un eroe tragico, la cui unica "dignità"
risiederebbe nell'accettazione del flusso degli eventi, misurati da un atto di
disperata fedeltà alla terra?89, Un destino che egli, con un testa-coda, pur si
ostina a non subire e ad intendere piuttosto come istituzione di nuovi valori:
e allora se l'uomo è colui che misura, dice Nietzsche con Protagora, egli è
tale perché è innanzitutto un creatore, e in questo agisce come volontà di
potenza. Nel far ciò, direbbe ancora Michelstaedter?®, egli si finge una
persuasione che non ha, tesse relazioni sufficienti, in cui irretisce le altrui
vite in un atto di creazione, ch'è poi un atto di ri-organizzazione intorno al
perno della propria falsa consistenza; ovvero, integriamo noi, dà libero sfogo
al suo urgente bisogno di liturgie rassicuranti, ma anche escludenti (secondo
la nostra interpretazione, una comunità di "eterni fanciulli" sarebbe
un sistema energetico di punti di forza, laddove "cariche dello stesso
segno" si porrebbero alla massima distanza possibile). Il Dioniso
dell'armonia panica si muta in un «terzo Dioniso» la cui parola d'ordine (o di
disordine) è il dominio?88, 285 Cfr. il pensiero Per l'anno nuovo [276] nel IV
libro della Gaia scienza (in Opere complete, cit.), pag. 145. «[...] Oggi
chiunque si permette di esprimere il suo desiderio e il suo pensiero più caro:
orbene, anch'io voglio dire ciò che oggi desidero da me stesso e qual è stato
il primo pensiero che, quest'anno, mi ha sfiorato il cuore; quale pensiero sarà
motivo, pegno e dolcezza della mia vita a venire! Voglio imparare sempre più a
vedere la bellezza nella necessità delle cose: così diverrò uno di coloro che
rendono belle le cose. Amor fati: questo sia, d'ora innanzi, il mio amore! Non
voglio condurre nessuna guerra contro il brutto. Non voglio accusare, non
voglio accusare neppure gli accusatori. La mia unica negazione sia distogliere
lo sguardo! E, complessivamente e grossolanamente: voglio arrivare ad essere
uno che dice soltanto di sì! » [corsivi di Nietzsche]. 286 Tale posizione della
volontà di potenza si sostituisce nelle intenzioni di Nietzsche - alla figura
della perfezione, incarnata nel saggio filosofo o nel santo cristiano. 287
Stiamo utilizzando la terminologia michelstaedteriana per "smontare"
il superuomo, espediente per far apparire al lettore questo
"smontaggio" (operazione che ovviamente Michelstaedter non fece) alla
luce della posizione persuasa. 288 L'espressione ci viene ispirata da quanto
Nietzsche stesso asserisce nella Nascita della tragedia, uno dei suoi scritti
che preferiamo. Richiamare quei passaggi del testo non solo significherà
rendere dovuto omaggio al "primo" Nietzsche, lì vero poeta e vero
filosofo, ma ci aiuterà anche a discernere la parabola involutiva cui, a nosto
giudizio, il pensatore andò incontro. Nel Dioniso dei cori bacchici greci,
Nietzsche vide l'incarnazione del «vangelo dell'universale armonia»
[espressione di Nietzsche, ma corsivo nostro; cfr. quanto detto sopra in
considerazione della "nuova armonia" vagheggiata dal filosofo Di
contro, come abbiamo più volte visto, il Goriziano ristabilisce la misura
dell'amore tra gli esseri nella gratuità del reciproco donarsi: l'equilibrio
dell'armonia che la Persuasione forgia e protegge non è i compromesso della
"compravendita" morale (do ut des, do ut facias, facio ut des, facio
ut facias), ma non è neanche la sdegnosa, "egregia" solitudine
zarathustriana, pur mascherata da amore panico per la "terrestrità":
l'equilibrio persuaso è piuttosto un rapporto di fiducia e gratitudine senza
pretesa di risposta, che fonda la comunità autentica, la philia (do quia do,
scilicet relinquo: ci viene in mente la parola evangelica: «Pacem relinquo
vobis, pacem meam do vobis: non quomodo mundus dat ego do vobis. Non turbetur
cor vestrum neque formidet» [Giovanni 14, 27, nella Vulgata]). tedesco], dove
«ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma
una sola cosa con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e
soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità
originaria». Infatti, «con l'incanto del dionisiaco non solo si rinsalda il
legame fra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o soggiogata,
celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto,
l'uomo. Liberamente offre la terra i suoi doni e pacificamente si avvicinano i
feroci animali delle rocce e dei deserti. Con fiori e ghirlande è coperto il
carro di Dioniso: sotto il suo giogo avanzano la pantera e la tigre. Si
trasformi l'inno alla ‘gioia' di Beethoven [il preferito anche da
Michelstaedter] in un quadro e non ci si attardi nell'immaginazione quando a
milioni si prosterneranno rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà
avvicinare al dionisiaco. Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le
rigide, maligne delimitazioni che la necessità, l'arbitrio o la ‘moda
sfacciata' hanno posto fra gli uomini. [...] Cantando e danzando, l'uomo si
mostra come membro di una superiore comunità: ha disimparato il camminare e il
parlare ed è sulla via di volarsene in cielo danzando. Nei suoi gesti parla
l'incantesimo. Come ora gli animali parlano e la terra dà latte e miele, così
anche in lui risuona qualcosa di soprannaturale: egli si sente come dio e
cammina così estasiato e sollevato, come insogno vide camminare gli dèi. L'uomo
non è più un artista, è divenuto opera d'arte: la potenza artistica dell'intera
natura, con il massimo appagamento estatico dell'unità originaria, si rivela
qui fra i brividi dell'ebbrezza». Nietzsche parla di armonia, di
riconciliazione, di liberazione, di incantesimo vitale che lega l'uomo alla
terra, a tutti gli esseri che la vivono, in una nuova solidarietà, e rende
l'uomo simile a un dio. E' questo il grande dono di Dioniso. Poche pagine dopo,
tuttavia, Nietzsche smaschera l'ebbrezza di Dioniso (operazione, del resto,
ampiamente preparata) e scopre, con perplessità ma anche con profondità
tragica, che quell'ebbrezza "equilibrava" una persuasione di morte, e
nel far ciò - ovvero nel garantire la propria stessa sopravvivenza -
abbisognava dell' "apporto" di Apollo, del principium
individuationis: «l'unico Dioniso veramente reale - scrive il filosofo - appare
in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe che lotta, preso, per
così dire, nella rete della volontà individuale. Così ora il dio che appare nel
parlare ed agire assomiglia ad un individuo che erra, lotta e soffre: e che
egli appaia in generale con questa epica determinatezza e chiarezza è effetto
dell'interprete di sogni Apollo[...]». Ma se l'individuazione "salva"
Dioniso, tuttavia gli è fonte di dolore, perché ne tarpa l'impulso vitale: «In
verità però quell'eroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che prova
su di sé i dolori dell'individuazione, e di cui meravigliosi miti narrano come
da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi, in questo stato, fosse
venerato come Zagreus: con ciò è significato che questo smembramento, la vera e
propria sofferenza dionisiaca, sia come una trasformazione in aria, acqua,
terra e fuoco, e che dunque dobbiamo considerare lo stato d'individuazione come
la fonte e la causa prima di ogni soffrire, come qualcosa in sé riprovevole».
Dioniso appare dunque come una divinità smembrata, scissa in due: «Dal sorriso
di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini. In
quell'esistenza, come dio smembrato, Dioniso ha la doppia natura di un demone
crudele e selvaggio e di un dominatore mite e clemente. La speranza degli
epopti andava però ad un una rinascita di Dioniso, che ora noi pieni di
presentimento dobbiamo intendere come la fine dell'individuazione: per la
venuta di questo terzo Dioniso risuonava l'ardente canto di giubilo degli
epopti». Queste considerazioni autografe sono per noi di capitale importanza
non solo nell'economia di una corretta valutazione della Nascita della
tragedia, ma anche dell'intero pensiero nicciano: sono parole inconfutabilmente
programmatiche: Nietzsche assume su di sé il compito di preparare «la venuta di
questo terzo Dioniso», che nell'intenzione doveva risanare lo
"smembramento": ma l'epopta diviene egli stesso il dio. Un nuovo dio,
un terzo dio, che ricorda le trasformazioni dei personaggi di Tolkien quando
calzano il famoso anello: pèrdono, cioè, per rimanere alle parole del filosofo
tedesco, la "mitezza" e la "clemenza", per rendersi solo ed
esclusivamente "dominatori". L'involuzione di Nietzsche consiste, per
noi, proprio in questo: aver prefigurato l'avvento di un nuovo Dioniso che sta
al suo progenitore (e alla sua intenzione) come un'escrescenza tumorale sta ad
un sano tessuto epidermico. Viene da chiedersi quali fossero i motivi di questa
"metastasi", ma una simile analisi non può essere svolta in questa
sede. [per le citazioni, che si intendano passim, cfr. Nietzsche, Nascita della
tragedia (in Opere complete, cit.), vol. |, soprattutto pagg. 121 e 143]. La
critica agiografica si affatica a scagionare Nietzsche da ogni responsabilità
storica, asserendo che «Quanto all'idea del superuomo, inteso come il giusto
trionfatore di una massa di deboli o schiavi, va senza dubbio corretta:
Nietzsche non fu l'estensore d'un vangelo della violenza, ma intese porre le
condizioni di sviluppo d'una civiltà e di un'idea dell'uomo radicalmente
rinnovate!» Del resto, chi si azzardasse a giudicare (detto in senso
spregiativo) il pensiero del Tedesco, incapperebbe facilmente nella sua
trappola dei valori un pensiero che si autoproclama «al di là del bene e del
male» si sottrae consapevolmente e sdegnosamente (e con astuzia) ad ogni
valutazione. Ma ci sarà pure un motivo per il quale la «grande salute » si sia
tradotta in "sanità razziale", oppure (e ci si perdoni l'accostamento)
per il quale l'est- etica del disincanto abbia trovato la sua trasposizione più
consequenziale in una pièce teatrale dannunziana in cui si respira solo aria di
morte. L'esperienza c'insegna che il retaggio di un pensiero (di uno qualsiasi,
non solo de/ Pensiero) non è consegnato soltanto alle parole che lo sottendono,
ma anche alla storia della sua fortuna (o sfortuna), per quanto ci si industri
in edizioni critiche o si contestino palesi deformazioni”. Le ipotesi allora
sono due: o, come si dice volgarmente, in quel pensiero c'è "nascosto del
marcio", oppure la malafede dei fruitori è così radicata da riuscire a
rovesciare e render funzionali al proprio usufrutto anche le proposte migliori
e più sincere. Michelstaedter, del resto, ci ha rivelato questa eccezionale
capacità di "assorbimento" della Rettorica: in tal senso, il
Nietzsche nazionalsocialista condividerebbe la "sfortuna" di Cristo e
di Socrate e, volendo, dello stesso Michelstaedter. Ancora due ipotesi, allora,
ma in pratica equivalenti alle prime: o la voce della Persuasione è viziata da
una sua intrinseca impossibilità fondativa di "fedele" realizzazione
(è troppo complessa per essere compresa, l'equilibrio dell'autonomia si svolge
sul filo di un rasoio et cetera) o è altrettanto viziata da un'ambiguità che
non riesce a scrollarsi di dosso, tal che la sua ingiunzione perentoria di
autenticità finisce con l'esprimersi soltanto attraverso l'imposizione e
l'equivoco della forza. E qui l'interrogativo, data la sua natura complessa, è
destinato a rimanere tale. Ma barattare le accuse è un'attività futile: ciò che
conta ed inquieta è il dominio presente della Rettorica, e in quest'ottica si
deve meditare non solo sul perché del suo dominio, ma anche, se non
soprattutto, sul poiché dei suoi effetti. Dunque, pur non volendo inficiare la
sincerità nicciana con l'ingratitudine del sospetto, ciò nondimeno non possiamo
tacere che, proprio in Nietzsche, quell'ambiguità s'evince più solida che in
altri: la danza di Zarathustra, che voleva farsi simbolo di un'armonia alternativa
al caos mascherato del filisteismo, si scopriva "tarantolata" già nel
suo stesso autore, precursore di un nuovo caos, i cui sbiaditi epigoni (per
fortuna sbiaditi) scorrazzano tuttora nelle aule dove si pensa, forti della
"debolezza" del loro pensiero. A tal proposito, c'è da ammettere che
l'estrema sensibilità e intelligenza fecero davvero di Michelstaedter uno
straordinario sismografo di ciò che era già in fermento e che sarebbe maturato,
in un futuro a lui non lontanissimo, sulla scena ideologica e politica europea;
ossia, lo resero acuto e (purtroppo) facile profeta?’ quando scrisse di «n
germanico Zarathustra, che fu anche bestialmente fulvo», fautore di un pensiero
«mistico filosoficamente e disonesto artisticamente», padre putativo di tutte
quelle «bestie più o meno fulve che da allora cominciarono a infestare il
mondo» [O 665]. Ma, come si sa, la voce della Persuasione condivide la
maledizione di Cassandra. 289 La spietata eristica potrebbe ribaltarci contro,
e forse non a torto, questa nostra obiezione: anche la Persuasione
michelstaedteriana è andata ad "incrementare"... la purità di Evola.
290 Acuto profeta anche Nietzsche, la cui lungimiranza a questo punto ci si
rivela però in tutta la sua portata beffarda: «L'aspetto dell'attuale Europeo
mi dà molte speranze: va formandosi un'audace razza dominatrice [...] Le stesse
condizioni che favoriscono l'animale gregario provocano anche la formazione
dell'animale-capo». A3 - Leopardi: la variante "flessibile" alla
Persuasione. Portare a radura il sottobosco leopardiano in Michelstaedter
sarebbe tentativo improbo anche per uno scoliaste armato di tutta la perizia e
la pazienza possibili” . Il Leopardi poeta, e soprattutto il Leopardi pensatore
(il pensatore attraverso il poeta), è, per il Goriziano, come una seconda
pelle. Compulsarne le opere alla ricerca di rimandi al Recanatese sarebbe un
po' come riscrivere la Persuasione e i Pensieri, ad esempio. E a differenza che
per altri riferimenti (Nietzsche, lo stesso Schopenhauer), non si può
individuare un momento in cui Michelstaedter fu "leopardiano" stricto
sensu: la voce del poeta attraversò sempre l'esistenza del nostro giovane
filosofo, e i Canti, come mostra l'edizione ritrovata tra i libri posseduti dal
Goriziano, erano una delle sue ri-letture più frequenti e più gradite. E più
annotate e meditate. In effetti, si andrebbe incontro a molte sorprese, ne
siamo convinti, se si leggessero La Persuasione e la Rettorica, le Poesie, o il
Dialogo della Salute alla luce delle meditazioni del Recanatese: si potrebbe
scoprire, ad esempio, come la tesi di laurea fosse anche un vero e proprio
commento "aggiornato" della Ginestra (così almeno essa ci appare), o
come l'aspirazione alla condizione persuasa dovesse molto alla
"vaghezza" dell'Infinito, o di come l'ispirazione poetica (al di là
della forma) fosse fedelmente leopardiana nel farsi veicolo di "vaga"
meditazione, casomai in Michelstaedter solo un po' più trasparente. Ci vien da
dire che, in Leopardi, Michelstaedter trovava innanzitutto la variante
parallela, poetica (ma altrettanto rigorosa) della certezza
"cartesiana" del dolore e dell'inganno, che aveva assimilato in forma
di salda filosofia dai Greci e Schopenhauer; ma riconosceva anche un coetaneo
che, come lui, s'era arrovellato nello sviscerare l'assurdo della vita e nello
scarnificare se stesso, alla ricerca di un'alternativa possibile al Tragico:
l'affinità di una giovinezza eroica e titanica che vorrebbe «comunicar la
ribellione / all'universo» [PP 35], senza alcun compiacimento estetizzante.
Dunque, non ci trova per nulla d'accordo certa critica che, puntando su
un'acribia spropositata, conclude che, nei fatti, il gesto persuaso si affermi
negando «sostanzialmente» il gesto poetico leopardiano”°?. Tutt'altro.
Bisognerebbe innanzitutto ridiscutere il valore di poesia, e non soltanto nei
nostri due autori (ma comunque, non ne è questa la sede); o più semplicemente
saper leggere oltre le parole. Del resto, sbirciando le poesie di
Michelstaedter, non è raro che si aprano squarci leopardiani: 291 Operazione, tuttavia,
egregiamente tentata da S. Campailla, in Postille leopardiane in
Michelstaedter, contenute in Scrittori Giuliani, Pàtron Editore, Bologna 1980.
Lettura, questa, obbligata, nel nostro contesto, e non solo perché riporta con
precisione la presenza dei prelievi leopardiani nel nostro filosofo. 292 Cfr.
ad es. Davide Rondoni, "Neutralizzare" Leopardi. Intorno ai rapporti
tra Michelstaedter e il poeta del Canto notturno, in Testo, rivista di
"studi di teoria e storia della letteratura e della critica", XIII,
23 (gennaio-giugno 1992), pagg. 26-39. "mi parve dolce cosa naufragare nel
seno ondoso che col ciel confina, né temuta ho la morte... "293 solo per
fare un riferimento ovvio. Di contro, se si leggesse, ad esempio, questo
pensiero che si trova nello Zibaldone: Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è
male; che ciascuna cosa esista è male; ciascuna cosa esiste per fin di male;
l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male;
l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono
altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non
essere... non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre
infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non
gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl'individui,
ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi [nn. 4174-4177]. e
si provasse, alla stregua di un semplice gioco enigmistico, a sostituire il
termine "male" dell'appunto col termine "Rettorica", già si
scoprirebbe la punta dell'iceberg. Lo stesso Dialogo della salute, prima di
essere un'etica peripatetica, è - con tutta evidenza - un'operetta morale. Con
una citazione tratta dalla Palinodia al marchese Gino Capponi si apre poi
l'ultima parte della Persuasione (La Rettorica nella vita), ch'è la più
spietata e definitiva nel bacchettare una Rettorica altrettanto «superba e
scocca» quale quella presa di mira a suo tempo dal Leopardi. «Tutti i progressi
della civiltà sono regressi dell'individuo», vi asserisce - tra l'altro -
Michelstaedter, e questa «è una frase che potrebbe essere del Leopardi»?*
(eppoi, non si dimentichi che quest'ultimo occupa un posto di tutto rispetto
nella schiera dei Persuasi). Eppure... eppure, a nostro giudizio, l'accordo
comune su una considerazione del mondo come dominato dalla Rettorica (o dal
male, ch'è lo stesso) non è il vero - o il solo - punto di contatto tra i due
poeti-filosofi. Sarebbe piuttosto semplicistico ridurne la portata a questo rilievo.
Del resto, il pessimismo ha parole e pensiero comuni in tutti i pessimisti di
tutti i tempi, dai più ai meno raffinati. Tralasciamo, allora, eventuali
"omografie", e partiamo, piuttosto, da una giusta osservazione del
Campailla, che fa autorevole resoconto della questione, e dà il "la"
al nostro escamotage interpretativo. Scrive lo studioso: "[L'influenza del
Leopardi] va considerata come la più ricca di sollecitazioni nella produzione
poetica del Nostro. Infatti, è difficile scoprire reminiscenze dai Canti
leopardiani, si deve subito riconoscere che esse non hanno un valore di per sé,
sono disciolte in un'atmosfera sentimentale diversa, divengono le voci di un
dramma irriducibile ad altri che a se stesso. C'è da dire, se mai, che il
Leopardi assimilato da Michelstaedter non è il poeta idillico che riesce a
trasformare il dolore in bellezza nella contemplazione del mistero
dell'universo o nell'operazione magica del ricordo delle proprie deluse
speranze; è invece il giovane che si affaccia alla vita imperioso e reclama un
rendiconto. E, per energia sentimentale, per costruzione sintattica, 293 Versi
di A Senia, in C. Michelstaedter, Poesie, cit. pag. 89. 2945, Campailla,
Pensiero e poesia..., cit., pag. 143; per ritmo della frase, il Leopardi eroico
e agonistico dell'ultimo periodo. Ma di là da ogni possibile richiamo testuale,
l'eredità che Michelstaedter ha raccolto dal Leopardi va considerata in un
senso più alto: nel drammatico intendimento della poesia come sfogo e
liberazione delle proprie pene interiori, presa di coscienza dello stato
esistenziale, determinazione sovrumana a non barare con le cose. Il
Michelstaedter ha sentito nel Leopardi una lezione di vita, un impegno con la
vita. Nella nostra tradizione letteraria che così spesso si è rifatta e si rifà
al Leopardi per ricavarne un magistero formale, quello di Michelstaedter si
rivela uno dei tentativi più incondizionati di riprendere e di svolgere la
parola del grande Recanatese nello spirito in cui essa è stata pronunciata. Ma
nella tensione ad essere se stesso Michelstaedter si è trovato naturalmente
oltre Leopardi: si avverte in lui una eccedenza di volontà, una originaria
disposizione tragica che è la zona più inaccessibile della sua poesia [e non
solo della sua poesia, aggiungiamo noi}. Permettendoci d'integrare b
correttissima valutazione del critico, diremmo che più che «un'eccedenza di
volontà» noi riscontriamo, in Michelstaedter, un'eccedenza di determinazione
(anche se difficile da mantenere). Sciogliamo la complessità di ciò che vogliamo
dire in un semplice riscontro testuale (è questo il senso del nostro escamotage
interpretativo), risparmiandoci una riscrittura di cosa sia la Persuasione in
Michelstaedter e di cosa essa sia in Leopardi e lasciando implicite le
conseguenze. Così Leopardi conclude la sua Ginestra [vv. 297-317]: E tu, lenta
ginestra, che di selve odorate queste campagne dispogliate adorni, anche tu
presto alla crudel possanza soccomberai del sotteraneo foco, che ritornando al
loco già noto, stenderà l'avaro lembo su tue molli foreste. E piegherai sotto
il fascio mortal non renitente il tuo capo innocente: ma non piegato insino
allora indarno codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma non
eretto con forsennato orgoglio inver le stelle, nè sul deserto, dove e la sede
e i natali non per voler ma per fortuna avesti; ma più saggia, ma tanto meno
inferma dell'uom, quanto le frali tue stirpi non credesti o dal fato o da te
fatte immortali. Da parte sua, nella lettera datata 25 aprile 1910,
Michelstaedter così scrive a Gaetano Chiavacci, rassicurandolo: Di che ti
preoccupi? di che temi? Nessuno ci potrà mai togliere niente. La vita non vale
che noi ce ne affliggiamo. Ma andiamo sempre avanti, e cerchiamo noi d'esser
sufficienti a tutto; non c'è cosa che sia troppo grave, non c'è posizione che
sia insostenibile. Dove gli altri gemono, e transigono, noi godremo e resteremo
duri e sempre uguali così da poterci sempre stringer la mano come io ora te la
stringo [E 438. Il significativo corsivo è di Michelstaedter]. 295 S, Campailla,
Pensiero e poesia..., cit., pagg. 53-54-55 [corsivi nostri]. La consapevolezza
dell'ineluttabilità è ovviamente comune a entrambi: la necessità cieca, il
non-senso dell'esistenza, l'innocenza tragica degli uomini... cose note. Ma
Leopardi, in quello che vien considerato da tutti il suo "testamento
poetico ed esistenziale", addita alfine nella ginestra un ideale di
"stoicismo" che non è rassegnazione né presunzione, ma comunque una
"flessibilità" al Tragico, seppur eroica. La Ginestra è /enta, si
piega - come si dice - ma non si spezza. Michelstaedter, invece, invoca la
durezza: il Persuaso è duro, preferisce spezzarsi piuttosto che anche solo
piegarsi. Il fiore del deserto accoglie la morte, china sotto il fascio mortale
il suo capo innocente e non renitente, si copre di eroica umiltà, «al cielo /
di dolcissimo odor [mandando] un profumo / che il deserto consola» [vv. 35-37].
Il Persuaso, libero, sfida la morte nella «furia del nembo più forte / quando
libera ride la morte / a chi libero la sfidò» [Sono i versi conclusivi (ma in
realtà è un refrain) de | figli del mare, PP 84]. La ribellione alla vita, o
meglio la ribellione della vita, per Michelstaedter è ancora possibile. A4 -
Kierkegaard: la variante "relazionale" della Persuasione. AI pensatore
danese abbiamo largamente accennato, e sottinteso, nel corso del nostro lavoro.
Abbiamo cioè detto che, per ragioni fossero solo puramente storiografiche,
Michelstaedter non ebbe la possibilità di avere sottomano i testi
kierkegaardiani, inaccessibili per la lingua (il che rese tardiva una loro
traduzione e diffusione in italiano o in tedesco), oltreché ostacolati
dall'ancora imperante hegelismo. Ma sottolineammo che, seppur per via
indiretta, Michelstaedter respirò comunque la temperie kierkegaardiana desumendola
dalla lettura dei capolavori di Ibsen (la nostra analisi si concentrò
soprattutto sul Brand, un'opera tra le preferite dal Goriziano): del resto,
proprio attraverso Ibsen, si consumò virtualmente anche l'incontro - mai
storicamente avvenuto (cosa strana, visto che studiarono entrambi a Firenze e
che entrambi provenivano dalle regioni carsiche) - con Scipio Slataper, il cui
/bsen è certamente l'opera più bella e profonda dopo quella autobiografica’.
Alludemmo, infine, al crescente "brandismo" di Michelstaedter, che
trascorse i suoi ultimi giorni in un ritiro praticamente ascetico, o comunque
di intenso e raccolto lavoro interiore; brandismo, nei fatti, che
contraddirebbe la nostra interpretazione politica del vir persuaso: ma altresì
sappiamo di quanto Michelstaedter fosse in attesa di "prendere il
largo" (tanto per riesumare l'allegoria marina) nell'infinita vita, e
allora leggiamo quel ritiro non tanto come una condizione definitiva e
rassegnata, quanto come un momento necessario per raccogliere le forze,
temprarle e padroneggiarle, in vista del progetto di persuasione. Sul versante
più prettamente speculativo, invece, abbiamo individuato nel cavaliere della
fede la "figura" ultima e preferita in cui l'autore di Timore e
Tremore compendiò il suo pensiero e la sua sincera persuasione religiosa. E
abbiamo visto come quest'ultima fosse la pietra di paragone più opportuna per
rendere, nell'immaginario comune, una dimensione così "astrusa" quale
quella di Persuasione. Abbiamo allora suggerito come l'utilizzo di
"categorie" e terminologie di ascendenza kierkegaardiana (alto,
scacco, singolo, paradosso, malattia mortale, angoscia e così via) ritornassero
utili - anche alla luce del loro recupero esistenzialista - per cercare di
rapprendere concettualmente taluni aspetti in apparenza frammentari della
Persuasione. Abbiamo, infine, creato un parallelo tra il cavaliere della fede e
il vir persuaso, focalizzando elementi di tangenza (la "dialettica"
del paradosso, svolta nella fattispecie in senso antihegeliano; il coraggio
dell'atto esistenziale; la solitudine a cui quell'atto sembra destinarli e il
sacrificio che imponeva ad entrambi), ma anche marcando differenze altrettanto
sostanziali (e allora il paradosso del vir ci è parso funzionale alla sua liberazione
persuasa, mentre quello del cavaliere ci si è rivelato come la condizione 296
Detto per inciso, l'affinità tra Michelstaedter e Slataper, che qui assurge a
cifra del "mitteleuropeismo" del Goriziano, si può leggere anche
attraverso l'affinità di approccio ch'essi usarono nei confronti del
drammaturgo norvegese. 174 definitiva del rapporto con Dio; coerentemente,
abbiamo rilevato il recupero della dimensione politica della persuasione,
assente nella pratica esistenziale della fede, che si risolve in un rapporto
"monogamico" con l'Eterno; infine, abbiamo considerato il vir nel
sacrificio di se stesso in senso immediato e il sacrificio di Abramo come
sacrificio di se stesso attraverso l'altro, e dunque mediato). Sintetizzammo il
tutto ammettendo che la persuasione kierkegaardiana si muoveva ancora in un
orizzonte veterotestamentario, mentre quella michelstaedteriana riviveva la
suggestione neotestamentaria(correggendola in senso "monofisita")
eleggendo il Cristo di S. Matteo ad emblema assoluto della "virilità"
persuasa. Infine, alla luce di tutto questo, già lasciammo trapelare - e
proprio nell'analisi del Brand - le nostre conclusioni, individuando l'elemento
che, a nostro giudizio, scongiurava in assoluto ogni plausibile accostamento,
pur nella fugace affinità: in una parola, cioè, l'uomo di fede ci apparve come
implicato, in modo irreparabile, in un rapporto di dipendenza, in
un'eteronomia, che non è certo quella della dimensione mondana, ma che comunque
- modo fiero e consapevole, tra l'altro - è una relazione sufficiente, e dunque
l'esatto contrario dell'aspirazione persuasa. Insistiamo su questo punto, e ci
limitiamo ad integrarlo servendoci delle stesse parole di Kierkegaard, il quale
- spogliatosi dei suoi pseudonimi romanzati per calzare quello rigoroso ed edificante
dell'Anti-Climacus, e abbandonata la veste poetica cui affidava la sua
riflessione - così lo affronta e lo delucida nel suo breve scritto La malattia
mortale?”, in periodi di densissima risonanza concettuale: La disperazione è
una malattia nello spirito, nell'io, e così può essere triplice: disperatamente
non essere consapevole di avere un io (disperazione in senso improprio);
disperatamente non voler essere se stesso; disperatamente voler essere se
stesso. - l - L'uomo è spirito. Ma che cos'è lo spirito? Lo spirito è l'io. Ma
che cos'è l'io? E un rapporto che si mette in rapporto con se stesso oppure è,
nel rapporto, il fatto che il rapporto si metta in rapporto con se stesso; l'io
non è il rapporto, ma il fatto che il rapporto si mette in rapporto con se
stesso. L'uomo è una sintesi dell'infinito e del finito, del temporale e
dell'eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi. Una sintesi è un
rapporto fra due elementi. Visto così l'uomo non è ancora un io. Nel rapporto
fra due elementi, il rapporto è il terzo come unità negativa; cioè i due si
mettono in rapporto col rapporto; e nel rapporto sono loro che si mettono in
rapporto col rapporto; un rapporto, in questo senso, è, sotto la determinazione
dell'anima, il rapporto fra anima e corpo. Se invece il rapporto si mette in
rapporto con se stesso, allora questo rapporto è il terzo positivo, e questo è
l'io. Un tale rapporto che si mette in rapporto con se stesso, un io, o deve
esser posto da sé o dev'esser stato posto da un altro. Se il rapporto che si
mette in rapporto con se stesso è stato posto da un altro, il rapporto è
certamente il terzo, ma questo rapporto, il terzo, è poi a sua volta un
rapporto che si mette in rapporto con ciò che ha posto il rapporto intero. Un
tale rapporto derivato, posto, è l'io dell'uomo, rapporto che si mette in
rapporto con se stesso e, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in
rapporto con un altro. Da ciò risulta che possono nascere due forme di
disperazione in senso proprio. Se l'io dell'uomo si fosse posto da sé, si
potrebbe parlare soltanto di una forma, quella di non voler essere se stesso,
di volersi liberare da se stesso, ma non si potrebbe parlare 297 La nostra
citazione fa riferimento alla trad. it. dello scritto proposta dall'ed. Newton,
1995, a cura di Remo Cantoni, pagg. 20-21; abbiamo sottolineato in corsivo i
passaggi per noi più significativi. della disperazione di voler essere se
stesso. Questa formula è infatti l'espressione del fatto che l'io, da sé, non
può giungere all'equilibrio e alla quiete, né rimanere in tale stato, ma
soltanto se, mettendosi in rapporto con se stesso, si mette in rapporto con ciò
che ha posto il rapporto intero [questa impossibilità sancita da Kierkegaard
viene invece sconfessata da Michelstaedter: il vir, da sé, può giungere
all'equilibrio e alla quiete senza porre il proprio rapporto con se stesso nel
rapporto con l'altro: l'autonomia]. Anzi, quella seconda forma di disperazione
(disperatamente voler essere se stesso) non significa affatto soltanto un
genere speciale di disperazione, ma al contrario, ogni forma di disperazione
può, in ultima analisi, risolversi in essa o esserne derivata. Se un uomo in
disperazione osserva come egli pensa la sua disperazione, senza parlarne
insensatamente come di qualcosa che gli capita [...] e ora a tutta forza cerca
di togliere di mezzo la disperazione da se stesso e soltanto a se stesso:
allora è ancora dentro alla disperazione, e con tutti i suoi sforzi presunti
non riesce che ad inoltrarsi di più in una disperazione più profonda. Il
rapporto falso della disperazione non è un semplice rapporto falso, ma un
rapporto falso in un rapporto che si mette in rapporto con se stesso, essendo
stato posto da un altro; quindi il rapporto falso in quel rapporto che è per se
stesso, si riflette nello stesso tempo infinitamente nel rapporto con la
potenza che l'ha posto. Infatti, la formula che descrive lo stato dell'io
quando la disperazione è completamente estirpata è questa: mettendosi in
rapporto con se stesso, volendo essere se stesso, l'io si fonda, trasparente,
nella potenza che l'ha posto [ed è questa, appunto, la Persuasione di
Kierkegaard]. AI di là dell'ostentata cavillosità del dettato kierkegaardiano,
il concetto è semplice: la disperazione - la malattia mortale - nasce quando l'individuo
sfasa la prospettiva del rapporto, obliterando la radice che lo autentica («la
potenza che lo ha posto», ovvero Dio) e pretendendo di autofondarlo nel
circuito della propria esistenza (la hybris): ovvero, l'uomo sostanzia di se
stesso la carenza relazionale - il Goriziano la direbbe deficienza - che lo
fonda in Dio. La disperazione è una malattia mortale perché provoca la morte
spirituale dell'uomo e la malattia mortale è disperazione perché l'uomo non
potrà mai sperare di liberarsi da essa, vista l'eternità del suo essere
spirituale. Rispetto a Michelstaedter, ci troviamo in una posizione antagonista
che possiamo così risolvere: per costui, rapportarsi ad una "potenza
altra" significa tradire l'autonomia della Persuasione; per Kierkegaard,
pretendere di fondare in se stessi un'autonomia che non possediamo significa
tradire l'autenticità del rapporto esistenziale che ci vincola a Dio. Come si
vede, le due posizioni - da un punto di vista puramente razionale - si pongono
come inattaccabili, e solo la persuasione del singolo può dar credito, e
verità, all'una o all'altra. In questo senso, entrambe le persuasioni si danno
come possibilità esistenziali: il fatto che questa possibilità esista non è per
il filosofo danese espressione di libertà, bensì di arbitrio, ed espone l'uomo
alla tragica evenienza del peccato, sempre presente, il che è appunto la
malattia mortale. L'unica libertà (e si noti il paradosso) è quella che ci /ega
a Dio. Per Michelstaedter, invece, ogni relazione sufficiente, per quanto alti siano
i suoi "agganci", è comunque una violazione del uevet, nel quale, al
contrario, «consiste» la vera libertà. B - Variazioni sul tema
michelstaedteriano del "peso che di-pende". La gravità va
essenzialmente distinta dall'attrazione. L'attrazione è, in generale, soltanto
la rimozione dell'esteriorità reciproca e dà luogo a mera continuità. La
gravità, per contro, è la riduzione della particolarità, tanto scomposta quanto
continua, all'unità come relazione a sé negativa, cioè alla singolarità, a
un'unica soggettività (soggettività, tuttavia, ancora del tutto astratta).
Hegel, Enciclopedia. Lui è il pittore stesso, che volteggia nell'aria; in una
torsione impossibile, volge le labbra alla sua donna, per baciarla e
ringraziarla del dono dei fiori che lei sta per fargli, perché è il suo
compleanno; la donna accetta il bacio con uno sguardo mezzo sorpreso (l'occhio
leggermente sbarrato), ma le labbra accennano ad un sorriso, o stanno
semplicemente per aderire a quelle dello sposo. Anche la donna sembra esser lì
lì per spiccare il volo; il suo piede destro (o il sinistro?) appare puntato a
terra, come per darsi la spinta di uno slancio, mentre l'altro è già
leggermente sollevato, come fotografato nell'atto di una piccola corsa. Il
pittore, nell'assenza di gravità, sembra a sua agio: il suo corpo è agile,
allungato: la colonna vertebrale deve essere particolarmente elastica, vista la
torsione: il suo corpo si è felicemente adattato alla nuova condizione: le
braccia aderiscono con forza ai fianchi, vi si confondono, anzi forse sono
addirittura assenti. Il lembo del bavero pare una piccola ala che spunta,
potremmo giurarci. L'artista deve sentirsi libero, nella sua fluttuazione, non
deve avere impacci. Tutt'intorno una prospettiva piatta, senza volume,
destrutturata, schiacciata dalla gravità alle pareti ed al pavimento,
riscattata soltanto dalla gradevolezza riposante dei colori: l'unico volume è
dato dalla torsione del bacio. La visione è particolarmente estatica. Stiamo
parlando del quadro II compleanno di Chagall, del 1919°°: Chagall, un artista
ossessionato dalla legge di gravità, che ci vincola alla terra; al suo
tentativo di liberazione, in questo quadro e in molti altri, egli sacrifica
volentieri tutti i dati dell'anatomia e i principi della logica quotidiana:
nelle sue tele la testa di un personaggio si stacca dalle spalle, e fluttua
libera finalmente del corpo; un passante, che si staglia sullo sfondo di un
paesaggio, occupa più posto degli alberi e delle case d'intorno; un asino suona
il violino; se necessario, questo strumento e la pendola saranno provvisti di
ali; si cammina sui tetti... Chagall, un ebreo che ha sfidato la legge di
gravità, un ebreo che si è ribellato ai vincoli della Terra Promessa. Un
eretico. La critica rettorica ha inglobato il dissenso ed ha etichettato il
tentativo di Chagall come "leggerezza surrealista" (che condivide con
Masson, Mirò, Picasso e Calder), come per Ibsen aveva parlato di
"simbolismo". Più o meno dieci anni prima, un altro ebreo eterodosso,
proprio il nostro Michelstaedter, così descrive la condizione
"sospesa", "aporetica", del suo amato Socrate: 298 Cfr. la
diapositiva P nel supporto iconografico. Nel suo amore per la libertà, Socrate
si sdegnava d'esser soggetto alla legge della gravità. E pensava che il bene
stesse nell'indipendenza dalla gravità. Poiché è questa - pensava - che ci
impedisce dal sollevarci fino al sole. - Essere indipendenti dalla gravità vuol
dire non aver peso: e Socrate non si concedette riposo finché non ebbe
eliminato da sé ogni peso. - Ma consunta insieme la speranza della libertà e la
schiavitù - lo spirito indipendente e la gravità - la necessità della terra e
la volontà del sole - né volò al sole - né restò sulla terra; - E né schiavo;
né felice né misero; - ma di lui con le mie parole non ho più che dire [PR
Socrate sdegna la gravità: il suo discepolo più diretto, agli occhi del
filosofo goriziano, tenta invano di far suo quello sdegno, di conservarne la
lezione genuina, costruendo una macchina volante” che gli permetterà di
sganciarsi dal suolo. Ma Platone scimmiotta Socrate. «La 'leggerezza'» prese a
dire Platone contemplando il mirabile spettacolo delle cose, che al suo sguardo
più forte erano chiare come se fossero state vicine «la 'leggerezza' contiene
tutte le cose; non come sono col loro peso nel mondo basso, ma senza peso; e
come il peso appartiene al corpo, alla leggerezza appartiene, ‘lincorporeo'; e
se al corpo appartiene l'estensione, la forma, il colore, tutto ciò in cui gli
uomini in terra sono implicati, alla leggerezza appartiene l'inestenso [sic],
l'informe, l'incolore, lo spirituale. Colla sola contemplazione della
leggerezza, noi che abbiamo la leggerezza, vediamo e possediamo tutte le cose
non come appariscono [sic] in terra ma come sono nel regno del sole» [PR 68].
Una macchina per sfidare la gravità: l'uomo perde fiducia nelle proprie forze
di Persuasione, e si affida alla scienza, ammantandola di filosofia. Giusto
cinquant'anni dopo le pagine del nostro scrittore-filosofo, e più di duemila
anni dopo il finto esempio storico, Hannah Arendt apre uno dei suoi capolavori
- Vita Activa (è del 1959) - commentando un fatto astronomico stavolta
realmente accaduto: «nel 1957 un oggetto fabbricato dall'uomo fu lanciato
nell'universo, e per qualche settimana girò intorno alla terra seguendo le
stesse leggi di gravitazione che determinano il movimento dei corpi celesti -
del sole, della luna e delle stelle»? La posizione della Arendt - non davanti
all'evento in sé (salutato, volendo, anche con orgoglio, perché ulteriore
conquista dell'intelligenza umana), bensì davanti alle reazioni dell'opinione
pubblica - trasuda perplessità: Questo avvenimento, che non era inferiore per
importanza a nessun altro, nemmeno alla scissione dell'atomo, sarebbe stato
salutato con assoluta gioia se non si fosse verificato in circostanze militari
e politiche particolarmente spiacevoli. Ma, per un fenomeno piuttosto curioso,
la gioia non fu il sentimento dominante, né fu l'orgoglio o la consapevolezza
della tremenda dimensione della potenza e della sovranità umana a colmare il
cuore degli uomini che ormai, sollevando lo sguardo dalla terra verso i cieli,
potevano scorgervi una loro creatura. La reazione immediata, espressa sotto
l'impulso del momento, fu di sollievo per 'il primo passo verso la liberazione
degli uomini dalla prigione terrestre'. E questa strana affermazione, lungi
dall'essere la trovata accidentale di qualche reporter americano,
involontariamente riecheggiava la 299 È l'incipit del famoso "esempio
storico" michelstaedteriano. 300 Si tratta, ovviamente, di un apologo
inventato da Michelstaedter, com'egli stesso del resto giustifica nelle Note
alla triste storia, contenute nella seconda delle Appendici critiche [PR 143
sgg.]. 301 cfr. il Prologo di Vita Activa, La condizione umana, Tascabili
Bompiani, 2000 (VIII ed), pagg. 1-6; questo, e gli altri riferimenti della
Arendt, sono tratti tutti dal prologo, e dunque s'intendano passim.
straordinaria epigrafe che, più di vent'anni prima, era stata scolpita sul
monumento funebre di un grande scienziato russo: "l'umanità non rimarrà
per sempre legata alla terra". La Arendt commenta: La banalità
dell'affermazione [quella riportata dai giornali; cfr. supra] non dovrebbe
farci trascurare il suo carattere straordinario; infatti benché i cristiani
abbiano parlato della terra come di una valle di lacrime e i filosofi abbiano
considerato il corpo come prigione della mente o dell'anima, nessuno nella
storia dell'umanità ha mai concepito la terra come una prigione per i corpi
degli uomini, o manifestato realmente la brama di andare letteralmente fin
sulla luna. Sarebbe questo l'esito dell'emancipazione e della secolarizzazione
dell'età moderna, iniziate con l'abbandono, non necessariamente di Dio, ma di
un dio che era il Padre celeste: il ripudio sempre più fatidico di una Terra
che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo? La risposta, per
banalizzare, è: spero di no, ma credo purtroppo di sì. Ora, se la Arendt avesse
potuto leggere Michelstaedter, e Socrate-Platone (e anche Ibsen) attraverso gli
occhi di Michelstaedter, se avesse tenuto conto delle "estasi" di
Chagall, avrebbe certamente corretto la prima parte del suo intervento («[...
nessuno nella storia dell'umanità ha mai concepito la terra come una prigione
per i corpi degli uomini [...}»). Eppure, siamo convinti, la sua posizione di
fondo non sarebbe per nulla mutata. Il fatto è che, rispetto alle posizioni
forti e polemiche di Michelstaedter e di Chagall, l'autrice di Vita Activa
occupa una posizione, come dire, "ingenua" (ma può darsi benissimo il
contrario): anch'ella ebrea, mostra piuttosto fedeltà alla terra, «a vera
quintessenza della condizione umana»: «la natura terrestre, per quanto ne
sappiamo, è l'unica nell'universo che possa provvedere gli esseri umani di un
habitat in cui muoversi e respirare senza sforzo e senza artificio». Questa
gratitudine nei confronti della Terra (la Terra "naturale",
beninteso, e non quella "artificiale" della scienza e della tecnica)
è anzi il presupposto della sua grande ipotesi d'apocatastasi politica, che
conosciamo. Per la Arendt, il mondo della Rettorica (della "cattiva"
politica, del male) avviene solo nella comunità degli uomini: per
Michelstaedter (e per Chagall), invece, la Rettorica innerva la struttura
stessa del reale fisico, prima che politico, e l'attrazione gravitazionale ne è
la forma più lampante. L'assunto del nostro giovane filosofo è drastico: la
forza di gravità è il segno esplicito di una dipendenza (il peso che
"di-pende"), e ogni di-pendenza, nella sua ottica, viene associata
automaticamente a violazione della libertà (per lui assoluta), a violenza.
L'autarchia del Persuaso non può tollerare che la prima, e più forte,
dipendenza (e dunque la più evidente violazione della propria libertà) sia
insita addirittura, e in modo ineluttabile, nel suo stesso organismo: il
Persuaso deve liberarsi di tutto, anche della gravità: il liberarsi, per lui, è
innanzitutto un /ibrarsi La predilezione, come sappiamo, è per il terzo regno,
quello del mare, dove ogni gravità pare assente, dove la forza delle onde può
essere anche sconfitta dalla potenza delle proprie braccia: mentre neanche il
salto del più ardito pensiero può superare il "gancio" della gravità
terrena. La Arendt, al contrario, ha superato questa "pregiudiziale
naturalistica" presente nell'autore della Persuasione: a suo modo, anche
Michelstaedter supererà se stesso (il se stesso della tesi) nella sua opera
ultima, laddove - anche per lui - la Persuasione e la Rettorica se la
giocheranno ad armi pari sul terreno della politica, nel senso che già abbiamo
più volte ripetuto. Tutto sommato, dunque, nonostante questa diversità, le
proposte di Michelstaedter e della Arendt si muovono entrambe sul terreno della
Persuasione. Bisognerebbe valutare la "sostenibilità" di entrambe, ma
non è questo che ora ci interessa: l'esistenza è un impegno quotidiano che solo
fino a un certo punto ha bisogno di un appiglio o di un'ispirazione eteronoma,
per quanto "persuasivamente" fondata (è questa, ricordiamolo,
l'opinione dello stesso Michelstaedter). Ora, anche nel rispetto dell'economia
del nostro discorso, c'interessa piuttosto valutare la barricata rettorica di
fronte a simili proposte, di fronte alla pericolosa insorgenza umana di
liberarsi dalle maglie della gravità. Lo faremo in modo
"stravagante", ma pilotato. Partiamo da un annuncio pubblicitario: Il
è il metodo creato dalla dr. X per migliorare l'allineamento del corpo umano
nello spazio e in relazione alla forza di gravità. Si attua in un ciclo di 10
sedute di manipolazione del tessuto connettivo e di educazione a un movimento
fluido e corretto. Questo efficace lavoro permette di sentirsi più elastici,
sciolti e leggeri in breve tempo. Gli effetti sono durevoli. Chiunque vuole
"sentire" di più il proprio corpo, viverne meglio le emozioni, o
ritardarne i processi di invecchiamento [... ] può trarre grande giovamento da
questa tecnica. L'ideatore del metodo *** si propone di migliorare
l'allineamento del corpo umano nello spazio e in relazione alla forza di
gravità: Ballested saluterebbe volentieri questo invito ad un felice e comodo
"acclimatarsi"°°, Il metodo per giunta promette effetti durevoli.
Ora, al di là della facezia, invitiamo a concentrare tutta la serietà e
l'attenzione su almeno due passaggi-chiave del messaggio promozionale: la cura
«si attua in un ciclo di 10 sedute di manipolazione del tessuto connettivo e di
educazione a un movimento fluido e corretto. Questo efficace lavoro permette di
sentirsi più elastici, sciolti e leggeri in breve tempo». Entra in gioco la
Rettorica allo stato puro, secondo la curvatura foucaultiana che le stiamo
conferendo: il dominio del corpo, nella sua "fisicità", attraverso la
"manipolazione" (termine davvero infelice, anche per uno spot) e l'
"educazione al movimento"; dunque, una considerazione sportiva del
corpo®°, volta al suo miglioramento: la Rettorica abbisogna di corpi sani; la
sua salus non è Salute ovvero Salvezza (come l'intende il vir), ma valetudo,
benessere". Una congerie di corpi robusti e sani, per giunta controllati,
è infatti il presupposto sufficiente di una sana e forte comunità rettorica.
Secondo punto: subentra il cavallo di battaglia della Rettorica: la paura della
morte, ovvero, qui, della sua fase immediatamente precedente: l'invecchiamento.
Il pubblicitario 302 Ballested è il già citab personaggio della Donna del mare
di Ibsen; cfr. il nostro paragrafo Il porto della pace., nel capitolo |. 303
«Lo sport è la rettorica della vita fisica», scrive Michelstaedter in una nota,
PR 107. 304 Sull'oscillazione ambigua del termine nella traduzione s'impernia
tutto il Dialogo della salute. adesca il consumatore giocando sulla promessa
speciosa che la cura è in grado di ritardare i processi di invecchiamento.
Michelstaedter, nella sua tesi, e non solo, scrisse pagine e pagine per
spiegarci che l' "equivoco" sulla morte è la ragione decisiva che
spinge gli homines, ma anche i domini, a sottomettersi vicendevolmente al
Dominus per eccellenza, il Leviatano sociale. L'analisi del filosofo goriziano
è tutta volta a scongiurare quell'equivoco, a tratteggiare il concetto di una
morte che può essere sfidata dal vire addirittura accettata, come accadimento
che non annichila, bensì potenzia, in prospettiva, la nostra dynamis. Quello
che abbiamo or ora fornito è un esempio molto particolare, esasperato, di
«Rettorica applicata alla vita», come la chiamava il Nostro. Ad esso ne
aggiungiamo un altro, tratto stavolta da un articolo scientifico?°° dei nostri
giorni, che tratta - manco a dirlo - di un'ipotetica vita in un ipotetico mondo
a gravità zero (= assenza di gravità), ad esempio un altro pianeta. L'autore
dell'articolo argomenta che, in simili condizioni, la specie umana, potrebbe
orientarsi, attraverso graduali aggiustamenti «secondo le leggi naturali
dell'evoluzione verso un nuovo tipo di uomo, l'Uomo Cosmico». Tutte variazioni
ipotizzabili, naturalmente: dalla statura (maggiore del comune, perché in
assenza di gravità la colonna vertebrale perde le sue curvature fisiologiche
diventando rettilinea), al torace (più corto, poiché il diaframma si solleverà
in seguito all'alleggerimento dei visceri addominali), dal cuore (più piccolo
per ipotrofia muscolare) agli arti inferiori (più sottili, proprio per la
dislocazione dei liquidi verso le parti superiori del corpo) e al cervello che,
fortunatamente, secondo le ipotetiche previsioni, «verosimilmente continuerà ad
aumentare di volume, come è avvenuto nell'evoluzione del genere umano,
stimolato dalla necessità di un'informazione mentale sempre più copiosa e
intelligente e da una maggiore irrorazione, e quindi nutrizione, in assenza di
gravità». Ora, al di là della vaghezza mondana che l'articolo si ripromette, e
al di là del sempre esplicito riferimento alla corporeità, vi si potrebbe
riscontrare un altro noto (e qui ben nascosto) dispositivo retorico, quello che
i sofisti chiamavano anfibologia. L'articolo, dietro il pretesto di suscitare
curiosità, ci fornisce un quadro del nuovo "Uomo Cosmico" che finisce
con lo scoraggiare il lettore: la vita in gravità zero sarebbe possibile, ma
solo a condizione che la nostra struttura umana, la nostra bellezza umana,
venisse "storpiata": sarebbe un luogo popolato da mostri (e si
confronti, invece, questo ipotetico storpiamento scientifico con l'armonia
raggiunta da Chagall nelle sue "figure fluttuanti"). E' quella che
Michelstaedter chiama la «falsa adulazione», qui rovesciata: l'articolo, cioè,
invita indirettamente i lettori a mantenere le loro belle sembianze umane,
garantite e protette dalla legge di gravità. La Rettorica richiama gli uomini
al vincolo della gravità, necessaria alla perpetuazione del dominio (l'Uomo
Cosmico rischierebbe di essere pericolosamente 305 Purtroppo ne abbiamo perso
la fonte, ma il nostro appunto, a suo tempo, fu abbastanza fedele. forte, e la
sua vita oltremodo allungata: rischi che la Rettorica non può permettersi di correre:
forza e longevità sì, ma sempre "manipolabile"). Ora, abbiamo
volutamente presentato esempi al limite della "fantascieza", e
volutamente abbiamo condotto un'analisi altamente prevenuta, ostentando un
metodo d'approccio viziato oltremisura dal "sospetto": una sorta di
eccesso di zelo dell'ottica persuasa, che rischia di degenerare in una vera e
propria mania di vittimismo di una persecuzione, sempre operante, perpetrata
dalla Rettorica. Ora, siamo convinti che una simile "paranoia rettorica"
dovette aggredire Michelstaedter nei suoi ultimi giorni di vita, attecchendo
per giunta su un fisico stremato dai dolori personali e stressato dal lavoro di
compilazione della tesi. Con questo, non vogliamo alludere a nulla, riguardo al
suicidio del giovane goriziano (benché lo stesso Campailla sembra sbilanciarsi,
ma solo appena, in proposito). Lo assumiamo semplicemente come un fatto.
Concludiamo questo paragrafo richiamando alla memoria, come all'inizio, un
altro quadro celebre: nei suoi Orologi mollf°®, Salvator Dalì sembra denunciare
(o sublimare?), in modo bizzarro ma efficace, il risultato vincente della
Rettorica, come forza di gravità? (l'opera è del 1931; anni bui): gli orologi,
attratti da una vigorosa forza centripeta, cedono mollemente verso il suolo:
una mosca (retorica?) insozza quello in primo piano; una comunità (persuasa?)
di formiche sembra preservare/proteggere quello in primissimo piano. Il
messaggio appare chiaro: anche il tempo si curva dinanzi alla forza di gravità,
vi si sottomette e vi si allea, a meno che.... Sembra un'amenità. Eppure era
ciò che, grosso modo, il genio ebraico di Einstein aveva postulato, pochi anni
prima, nella sua ipotesi di curvatura dello spazio-tempo. 306 Ovvero, La
persistenza della memoria, detto anche Il tempo che si scioglie. Cfr. la
diapositiva Q nel supporto iconografico. 307 La nostra interpretazione è del
tutto funzionale al discorso e, del resto, le opere di Dalì si prestano agli
azzardi più innominabili. Anche se, per la cronaca, il pittore, proprio
riguardo a questo quadro, fu estremamente chiaro: il soggetto gli proveniva
dall'ossessione per tutto ciò che è molle.C - La critica alla Rettorica come
caricatura della Rettorica. A partire da un'intuizione che ha avuto già a suo
tempo il Campailla, e che noi condividiamo in pieno (ovvero che non si può
leggere l'opera di Michelstaedter scrittore- filosofo separatamente da quella
di Michelstaedter "ritrattista"), la critica specializzata nel
settore si è adoperata per trovare punti di riferimento "europei"
all'opera del Goriziano. Il bilancio di tale lavoro (volto comunque a reclamare
anche una decisa originalità michelstaedteriana rispetto alla contemporaneità o
alla più prossima posterità) è stato egregiamente redatto da Fulvio Monai (a
nostro parere, il non plus ultra in questo contesto), di cui riportiamo alcune
valutazioni essenziali, cercando anche noi - in questo modo - di caldeggiare un
simile approccio. Nell'ambito figurativo i pittori dell'angoscia come Munch,
Van Gogh, Ensor, Gauguin avevano creato le premesse per la nascita
dell'Espressionismo che a una prima realizzazione formale giunse tuttavia
soltanto con il gruppo della Brücke (Il Ponte), fondato nel 1905 a Dresda da
Kirchner, Heckel e SchmidtRottluff, e avviato, sulla spinta di un programma di
spontaneismo e di immediatezza espressiva, a estrinsecare per immagini, al di
là di ogni schema preordinato, le inquietudini interiori. Ebbene, in quel
momento, Michelstaedter, che dall'angolo visuale fiorentino non aveva potuto
nemmeno supporre i prodromi della nuova esperienza artistica, anche se nutrito
di cultura tedesca, aveva già fissato sulla carta i segni di un'umanità
demitizzata, i cui connotati volevano corrispondere a una realtà interna più
che alle apparenze sensibili. [...] Quando Michelstaedter schizzava a lapis la
Processione d'ombre nel 1903, a sedici anni (anticipando largamente i disegni
di Klee eseguiti nel 1911), nulla poteva sapere dei fermenti che avrebbero
portato alla figurazione espressionista. Non poteva nemmeno aver conosciuto,
quando l'informazione sull'arte a Gorizia era ancora precaria se non assente,
né la tipologia umana di Tolouse Lautrec, né la visione precorritrice degli
artisti che avevano fatto tesoro della lezione di Cezanne e Van Gogh. Non ci
sono comunque prove [...] che possano documentare un qualsiasi contatto, del
resto cronologicamente insostenibile, con il mondo figurativo che si agitava
nell'Europa centrale osteggiato dalla cultura officiale [...] Indubbiamente
Processione di ombre è una testimonianza stupefacente di un espressionismo
ante-litteram: una sfilata di personaggi tratte ggiati sommariamente, figure
emblematiche la cui deformità impietosa riflette le ipocrisie e le storture
della società conformista. La matita che delinea realisticamente il profilo del
Castello di Gorizia, simbolo del potere, non indugia sui dettagli delle figure
umane ma, guidata da un'intuizione psicologica sorprendente per un sedicenne,
si limita a suggerirne le forme controluce. Processione d'ombre resta dunque
opera di un giovanissimo che, per virtù di un'acuta intelligenza, stava
respirando un'aria comune a tutti gli ingegni più vivi senza ancora rendersene
conto, con le percezioni discendenti da una sofferta coscienza del male del
tempo, in inconsapevole sintonia con artisti che egli non aveva mai conosciuto.
Dopo questa prova [... ], altri disegni confermeranno negli anni successivi la
sua ricerca dell'uomo, il suo bisogno di agire direttamente sulla persona,
interpretandone le contraddizioni, le debolezze, il ridicolo, con segno che non
è caricaturale nel senso corrente della parola, inteso cioè a cogliere gli
aspetti più scoperti del soggetto per metterne a nudo l'immagine apparente o i
sentimenti più manifesti. La sua matita scava e blocca il volto nell'attimo in
cui la mente ne fissa i connotati che meglio corrispondono alla realtà più
intima e tramuta la figura in maschera che sollecita pena e amarezza più che
ilarità. [...] Solitario come filosofo e come pittore, Michelstaedter avrebbe
comunque continuato ad alimentare la segreta vocazione fino a quando, con il
disegno di una lampada dalle fiammelle ormai spente, avrebbe riassunto sul
primo foglio della Persuasione e la rettorica il senso della propria parabola
terrena. [Si può altresì rilevare] la sua estraneità a qualsiasi movimento intellettuale
e filosofico. Si può affermare analogamente che non appartenne consapevolmente
ad alcun movimento artistico del suo tempol... ] Come pittore Michelstaedter
rientra dunque nella sfera dell'espressionismo, di cui preavverte le tensioni.
Ed espressionista rimane fino in fondo, anche dipingendo, prima di morire,
l'olio dedicato alla madre e intitolato nel retro E sotto avverso ciel luce più
chiara. In questo senso è stata concordemente valutata nefgli] ultim[i]
decenni] l'opera grafica e pittorica di Michelstaedter, e si è convenuto che
essa non può essere ignorata, costituendo uno degli aspetti fondamentali per
capire la genesi della Persuasione e la rettorica, e l'autore stesso, come
uomo, nella sua totalità. [...] [Dunque], un rapporto molto stretto lega la
ricerca grafica di Michelstaedter alla sua filosofia... Lo schizzo, il disegno
immediato, l'aforisma figurativo si può considerare una traduzione visiva della
via alla persuasione... La linea, secondo una grammatica preespressionista, si
spezza in segmenti, si anima in curve ed evoluzioni, si condensa con insistenze
e ripetizioni in alcuni passaggi per poi sfumarsi e annullarsi in altri. Esiste
una concordanza di giudizi sul fatto che soltanto un'esigenza interiore indusse
Michelstaedter a farsi testimone di situazioni umane con l'immediatezza di chi
ha in animo non di edulcorare la realtà o di darne una versione umoristica ma
di penetrame i significati, uscendo dalla sfera della rappresentazione per
entrare in quella cruda e disincantata dell'osservazione dei fatti, al di là di
qualsiasi calcolo e senza il desiderio, comune ai protagonisti dell'arte, di
farsi portatore di nuovi linguaggi. Insistere nella ricerca di modelli, di
influenze precise per giustificare formalmente il mondo grafico e pittorico di
Michelstaedter equivarrebbe a sminuire - pur considerando i rarefatti indici di
un'attività non dominante - la portata del suo messaggio, la sua originalità.
Più giusto è constatare che quanto possediamo è sufficiente a dichiarare le sue
innate doti di disegnatore estraneo alla cultura figurativa imperante nei primi
anni del Novecento in Italia, e a rivelare nello stesso tempo con incisiva
evidenza le spinte che, sempre più incalzanti, determinarono la sua ricerca
esistenziale®°8, A tutto ciò, aggiungiamo soltanto due nostre vaghe
considerazioni: innanzitutto, in Michelstaedter ci sembra davvero riproporsi
quella che Nietzsche connotava come capacità «pentatletica» dell'artista
"persuaso" (che lo rendeva davvero «omo integrale»), nella fattispecie
con riferimento agli autori tragici della classicità (ma anche al loro
"pubblico"), come il filosofo tedesco aveva scritto in un passaggio
fondamentale della sua prima conferenza pubblica sulla tragedia [quella sul
dramma musicale greco]: Nietzsche auspicava (e credeva di intravvederne i
prodromi nell'opera wagneriana) una ri- proposizione di tale
"integrità" nella nuova gioventù tedesca’. Anche sotto questo
rispetto, dunque, Michelstaedter ci sembra pare fedele all'orizzonte greco che
struttura lasua speculazione e, perché no?, anche tutta la sua vita. Seconda
considerazione (che approfondisce quanto già profilato dal Monai): è
significativo, per noi, che Michelstaedter s'impegnasse soprattutto
nell'affinmare la sua pratica di "caricaturista": com'è noto, il
pregio della caricatura è quello di scarnificare il soggetto che ad essa si
presta, esagerandone (e distorcendone) i tratti caratteristici: l'effetto che
si vuol provocare è di natura comica o grottesca. Il pittore-filosofo
goriziano, evidentemente, intuì la profonda valenza dissacrante che un simile
strumento gli metteva a disposizione: poter meglio individuare o evidenziare i
"difetti" della Rettorica e utilizzare il pretesto umoristico per
porli, in modo impietoso, all'attenzione di tutti: riconosco qualcosa come
"caratteristico" e lo "carico" distinguendolo dal resto
(che rimane meno percepibile). 308 Estratto dal saggio Michelstaedter
anticipatore in arte dell'espressionismo, di Fulvio Monai (pubblicato in
Dialoghi intorno a Michelstaedter, a cura di Sergio Campailla, Gorizia,
Biblioteca Statale Isontina, 1987), che qui riportiamo per gentile
autorizzazione concessaci dalla redazione di www.michelstaedter.it e del Comune
di Gorizia. 309 Cfr. almeno le sue Cinque prefazioni per cinque libri non
scritti, in particolare le Riflessioni sul futuro delle nostre scuole. 310 In
questo senso, la caricatura, sotto la forma soprattutto della satira
(letteraria) politica e sociale, ha una lunga tradizione nell' "aceto
italico", almeno a partire da Lucilio. A parallele, analoghe e
praticamente contemporanee conclusioni - il suo saggio sull'Umorismo è del 1908
- era giunto anche Pirandello: nel saggio, lo scrittore agrigentino segnalava
nella pratica umoristica uno degli strumenti privilegiati che consentivano di
introdurre nell'arte, e dunque attraverso l'arte, la problematica
dell'esistenza e la critica sociale: l'umorismo si serve del comico -
avvertimento del contrario - per assurgere a riflessione, al sentimento del
contrario, ovvero, associando le immagini in contrasto*'', sottolinea
espressionisticamente gli aspetti disarmonici, deformanti e paradossali
dell'esistenza, come lo scrittore effettivamente fece nei romanzi e
(soprattutto) nelle novelle8"?, Per fortuna, l'interesse per l'opera
grafico-pittorica di Michelstaedter è venuta crescendo col tempo (anche se
fatica ad oltrepassare l'orizzonte della provincia goriziana e triestina), come
testimoniano le sempre più numerose esposizioni del suo catalogo. 311 cfr. L.
Pirandello, Saggi, Poesie e scritti varii, Mondadori, 1977, pag. 127
soprattutto 312 Non a caso, alcuni critici (il Salinari e il Piromalli, sopra
tutti) hanno letto l'opera di Michelstaedter anche attraverso il confronto con
la produzione e la "filosofia" di Pirandello, entrambi massimi
rappresentanti della crisi spirituale apertasi all'inizio del secolo scorso.
Auctoritas, non veritas facit legem. Thomas Hobbes Parte migliore è quella che
cerca il meglio; cercare con persuasione il meglio è l'unico primato; e quando
si vorrebbe ostacolare ciò, si fa, sotto tanti aspetti, del materialismo, e,
prima o poi, si è sconfitti dalla forza dell'anima. Capitini «Mi manca una
concezione salda e universale della vita [...] Oggi io non vedo alcuna
possibilità di trovare un nuovo principio, né di rispettare i vecchi principi.
Cerco dunque questa idea, da cui dipende tutto il resto, senza poterla
trovare», scriveva Flaubert all'amico George Sand, poco più di un secolo e
mezzo fa. Questa urgenza di verità e di valori la facciamo nostra, in un'epoca
in cui - e lo affermiamo al di là di ogni moralismo enfatico ed infame da
parvenu - il rapporto degli uomini col mondo e con i propri simili ci appare
quanto mai irrisolto e problematico, e sembrano venir meno l'orientamento, i
motivi, le ragioni stesse delle scelte etiche. La nostra tesi, benché sia
strano, è nata ed è stata scritta in tempo di guerra, e ciò non ha potuto non
influire sulla veemenza e sulla perentorietà di certe nostre affermazioni,
convinzioni, presupposti. Il fascino che il pensiero michelstaedteriano, misconosciuto,
ha esercitato su di noi si spiega, allora, soprattutto nella sua premura etica,
nel suo "massimalismo etico": solo un'etica forte come quella di
Michelstaedter - per quanto, per i più, "ingenua" - può misurarsi
oggi con la potenza devastatrice del male. La straordinaria energia che ogni
uomo nasconde conosce le espressioni più sublimi e divine, ma anche le
degenerazioni più abiette e nefaste: si tratta di convogliare quell'energia a
vantaggio dell'uomo, ovvero sulla via della Persuasione. Questa è l'epitome del
monito persuaso. La voce della Persuasione è la voce socratica, la voce che
coinvolge, la voce per eccellenza. La voce che invita alla «infinita vita», che
chiama all'autonomia ed all'autenticità del nostro essere uomini, che non si
presta alla risonanza disinteressata o scolastica o intellettuale, ma che
ingiunge un impegno militante ad ogni animo sensibile. Qui, ovviamente, entra
in gioco e in crisi il significato stesso di filosofia, e quindi di esistenza,
e il coinvolgimento personale e responsabile di ogni posizione. La
"lezione" di Michelstaedter è, infatti, un invito alla responsabilità
pura, e dev'essere accolto come tale in un'epoca in cui il totalitarismo non è
esplicito, ma sornione, non punisce, ma sorveglia, 313 Nel contesto di queste
Conclusioni, utilizzeremo una specifica bibliografia minima: 1 - Aldo Capitini,
Elementi di un'esperienza religiosa, con prefazione di Norberto Bobbio,
Biblioteca Cappelli (ristampa anastatica della seconda edizione, pubblicata nel
1947 dall'E ditore Laterza, Bari), 1990; 2 - Martin Buber, La regalità di Dio,
Marietti, 1989; 3 - E. Lévinas, L'aldilà del versetto, a cura di G. Lissa,
Saggi Guida, 1986; 4 - Antimo Negri. Il lavoro e la città. Un saggio su Carlo
Michelstaedter. Roma, Lavoro, 1996. (I grandi piccoli 11). Le citazioni dal
testo di Capitini saranno segnalate da una C con numero di pagina cui si
riferiscono [C ...]; quelle da Buber da una B [B ...]; quelle da Lévinas da una
L [L ...]; quelle da Negri da una N [N ...], non opera soltanto attraverso
l'aperta coartazione, ma s'innesta a presupposto tacito comune, servendosi di
una sopraffina ikebana di prevenzione, volta a scongiurare quello che gli
agenti assicurativi chiamano, come per un gioco di ironia, moral
hazard?"*. In un'epoca in cui il totalitarismo, a volte, addirittura
soffre il proprio mascheramento, ed esplode (stricto sensu) nelle tensioni
belliche del "nuovo ordine mondiale". La sua violenza, oggi, è un
"mal sottile" che avvelena. La Rettorica è un processo di
avvelenamento, scrive Michelstaedter, il che vuol dire non soltanto che è un
veleno, ma che è una continua somministrazione di veleno. Il pensiero di Carlo
Michelstaedter, con tutta la sua giovanile esuberanza, si pone allora come
antagonista, come disinfestazione: si arroga un effetto depurante, si
autopromuove ad antidoto al veleno, e (forse) in questo pecca di presunzione e
corre il rischio, anch'esso, di prestarsi a traduzioni violente ed autoritarie.
Ma ci si mostra come faro quando addita nell'autonomia e nella politica (termini
solo in apparenza contraddittori, termini da assumere piuttosto nella loro
straordinaria bellezza) l'unica istanza regolatrice di ogni persuasione
concreta, «a ferri corti con la vita», l'unica alternativa all'acclimatamento
rettorico, al compromesso eteronomo, all'abulia o alla disperata (per alcuni,
vile) risoluzione del suicidio. Di una persuasione, infine, che non si pone
come compito quello di passare «dalla teoria alla pratica» (uno dei più
ostentati imperativi sociali), ma di far le proprie parole azione, di
sollecitare la propria dynamis umana all'entelechia che, in modo autentico, la
realizza. Come scrisse Aldo Capitini, «dobbiamo essere musica e non statua.
Questo sembra un sogno, un qualche cosa di poetico; e credo invece che sia
prova di realismo. Vi sono forze potenti da fronteggiare, e solo un'opposizione
dal profondo e appassionata può vincerle»3'° [C 31]. 314 Lett. "rischio
morale". Maggior rischio che un evento assicurato si verifichi per effetto
della minore attenzione posta nel prevenirlo da parte di chi ha stipulato
l'assicurazione [def. dizionario Garzanti. Chi ha letto quanto da noi
argomentato in precedenza, apprezzerà la puntualità di questa definizione. 315
Come scrive Norberto Bobbio, compagno e grande estimatore di Capitini, «chiunque
abbia una certa familiarità con gli scritti di Capitini sa che uno dei
termini-chiave del suo linguaggio personalissimo è "persuasione", che
sta per "credenza" o per "fede" (il bel capitolo
autobiografico con cui ha inizio il libro Religione aperta è intitolato La mia
persuasione religiosa), onde "persuaso", parola da lui usatissima
equivale a "credente". Egli stesso ne riconosce la derivazione da
Michelstaedter: «... del quale mettevo in rilievo, anche in una conferenza che
tenni a Firenze, la "persuasione" (un termine che ho assunto,
preferendo "persuaso" a "credente", persuaso nel senso di
"autopersuaso", quasi di "pervaso"), l'antiretorica, quel
tipo di esistenzialismo, che poteva divenire supremo impegno pratico [...]:
insomma mi pareva esatto considerarlo come la premessa di una tensione
etico-religiosa». [Bobbio trae questa citazione dall'opera di Capitini
Antifascismo tra | giovani; la testimonianza di Bobbio su Capitini la si trova
in N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze, Passigli, 1984, nel capitolo a lui
dedicato], Dunque, lo sfondo di Capitini è religioso, la sua è una credenza e
una fede; tuttavia la sua religiosità, "antiistituzionale", ci pare
non identificarsi esclusivamente con la dimensione divina, ma coincidere
piuttosto con la sacra umanità (il sacro dell'umanità) che ogni individuo porta
dentro di sé: dunque, se «la religione è consapevolezza della liberazione
spirituale, del superamento della finitezza mediante la vita spirituale» [C
110], anche noi ci sentiamo di condividere questa religiosità. Michelstaedter
ripropone la visione antica del mondo nel momento di più intensa crisi della
sua visione moderna, e chiama in causa soprattutto due testimonianze inattuali
di Persuasione, nella Persuasione "confondendole": Socrate e Cristo.
Il Socrate di Michelstaedter - ma oramai è chiaro - non ha alcuna paternità del
/ogos, se per logos s'intende una facoltà, ch'è pretesa, di ordinare il nostro
rapporto "scientifico" con la realtà e di promuoverne un'arbitraria
fondazione di valori. In un'espressione, un atteggiamento di dominio che non
riesca a pensare il mondo se non come rapporto di forze e come fruizione senza
mistero. In senso analogo, la verità cristiana viene apprezzata non come pura
verità filosofica o settaria, ma rivissuta quale verità di esistenza e di
salvezza assolute. Nella dimensione persuasa, cui queste due rinnovate
prospettive collaborano, il vero, il giusto e il bello condividono un rapporto
sponsale (l'agathon di socratica e platonica memoria), al cui interno è un non
senso l'imposizione. Un assunto, questo, che Michelstaedter tende
disperatamente a dissuggellare dall'ambito della propria coscienza individuale,
cercando di puntare su di esso non solo per un impegno morale singolo, ma per
una "rivoluzione" sociale ch'è innanzitutto una rivoluzione etica
collettiva. Il vir è completamente titolare dell’azione etica, e in questo è
scrigno d'infinito, perché infinite sono le possibilità di realizzare il bene:
la sua esistenza è un "grande miracolo", che riflette in sé tutta
l'ineffabile portata della Persuasione, una dignità e una libertà di sapore,
diremmo, rinascimentale. L'Europa (il mondo) deve guardare alla Bibbia ed alla
grecità, dunque. Una persuasione di Lévinas, che anche Michelstaedter avrebbe
sottoscritto. Anzi, come visto, la speculazione del Goriziano oscilla proprio,
ed in maniera consapevole e in certo modo sistematica, tra questi due poli.
Tuttavia, nella riconsiderazione ch'egli fece del pensiero biblico, si segna,
secondo noi, una nuova possibilità del pensiero ebraico, che mantiene
dell'ebraismo la valenza etica, la tenacia e la determinazione che quello ha
mostrato nella sua storia millennaria, ma altresì le rinnova, senza cadere, a
nostro giudizio, nell'apostasia dei conversos o dei marranos. Da una parte, infatti,
l'identità ebraica di Michelstaedter - per quanto inconsapevole, sottaciuta o
addirittura rimossa dallo stesso - è fuori discussione: l'appartenenza ebraica
è una questione cromosomica, volendo parafrasare Martin Buber. Dall'altra,
Michelstaedter, ebreo, dell'Antico Testamento predilesse soprattutto
l'Ecclesiaste, e pur vide in Cristo l'eccellenza del vir persuaso,
ritagliandone una figura terrena e sofferta che nulla ha a che vedere col
Cristo figlio di Dio: Michelstaedter, ebreo, pure accettò il messaggio di In
effetti, Capitini appare quale uno dei nichelstaedteriani più
"coerenti", e il fatto che il suo capolavoro, gli Elementi, fosse uno
dei luoghi di spiritualità intorno al quale si condensò molto antifascismo, è
una delle prove più evidenti e più belle di una Persuasione che passa dalla
parola all'atto, che si fa storia ed opposizione anti-rettorica. liberazione
terrena del Cristo, «la circoncisione del cuore, in ispirito, non in lettera»
[S. Paolo, Rom. 2,29], il «battesimo del fuoco» [Lc. 3,16] nella
Persuasione?"9. Il pensiero michelstaedteriano, insomma, è anche un
pensiero ebraico, semplicemente perché Michelstaedter fu un ebreo. E, per
quanto detto, fu un pensiero ebraico sui generis, rivoluzionario, inaudito, e
purtroppo dimenticato. Il pensiero ebraico si pone, per principio, come
inattuale, come Talmud, interpretazione incessante ed appassionata della Torah,
della Legge, la «salvaguardia più sicura e la memoria più fedele dell'etica di
Israele» [L 77]. L'ermeneutica della Torah si assume il compito di individuare
e proteggere l'<«energia misteriosa che scaturisce da [gesti] antiquati» [L
77], e d'imbrigliarla in direzione etica. Questa etica è accoglienza di una
«incitazione divina» [L 102]: «anche Dio incita, anche Dio seduce, come se anche
Dio avesse la sua retorica». L'ascolto, dunque, la pedagogia dell'ascolto come
essenza dell'ebraismo: vi si forgia un'etica che scaturisce da un'interazione
responsabile di uomini: una redenzione, un «faccia-a-faccia degli uomini [...]
che mostrano il loro volto e cercano il volto del loro prossimo» [L 93], in una
«tensione del santo verso il più santo» [L 91], in una «permanenza dell'umano
[...] assicurata dalla solidarietà che si costituisce intorno a un'opera
comune; dallo stesso compito svolto senza che i collaboratori si conoscano o si
incontrino» [L 93], perché «Ia totalità del vero è realizzata dall'apporto di
molteplici persone» [L 218]. Un'etica, inoltre, che non teme, e anzi accoglie,
il confronto con le culture altre, perché «Malgrado tutte le critiche rivolte
contro l'assimilazione, noi usufruiamo dei lumi che essa ci ha apportato,
affascinati dai vasti orizzonti che questi ci hanno aperto » [L 288]. Tuttavia,
«a dialettica del regno che educò il popolo di Israele» - scrive Buber -
coincide con la «storia del dialogo fra la divinità che domanda e l'umanità che
nega la risposta ma che tenta anche di rispondere, il dialogo che ha per
oggetto un eschaton». [B 56]. La risposta dell'essere umano, a questo domandare
che s'impone più che altro come un comandare, non può essere se non
l'obbedienza. Buber non lo nasconde, anzi fonda proprio su questa impari
dialettica la radice dell'istanza etica e ogni possibile dignità dell'uomo,
«costituita dalla originaria possibilità di questo comandamento e dall' 'obbedienza'
intesa come risposta umana ad esso: una risposta balbettante, riluttante,
risorgente, ma pur sempre la risposta del fragile essere umano» [B 136]. «Nel
'monoteismo' - scrive ancora Buber - l'unicità non è [...] quella di un
'esemplare’, bensì quella del Tu nella relazione io- 316 Ancora una volta, è
importante - in questo contesto - ricordare l'interesse esclusivo di
Michelstaedter per il vangelo di Matteo. Questo vangelo è il «più completo,
ordinato e dottrinale dei primi tre e rispecchia più e meglio degli altri la
primitiva catechesi apostolica, motivo per cui fu il più utilizzato nei primi
tempi della Chiesa, per l'istruzione sia dei catecumeni che degli adulti. Esso
fu scritto per gli Ebrei, per provare ad essi che Gesù Cristo è il Messia promesso.
Infatti fin - dal principio, con la genealogia, così importante per gli Ebrei,
Mt intende dare non soltanto la realtà ebraica e davidica di Gesù, ma inserire
lui, la sua storia e la sua opera nel complesso della storia della salvezza,
che forma l'ossatura di tutto l'AT. Così, nel discorso posto come a base del
nuovo Regno fondato da Gesù, egli è proposto come il nuovo Mosè che sul monte
promulga la nuova legge; e in tutto il corso del Vangelo è dato il massimo
valore all'AT, considerato come profetico e pedagogo al nuovo Regno» [F.
Pasquero, Introduzione al vangelo di S. Matteo, ed. Paoline, Milano, 1987]. tu,
che non conosca sospensioni nell'ambito della vita vissuta» [B 123]. Il Tu
divino è una continua presenza nel rapporto io-tu, sia nel rapporto stesso che
nella singolarità dei contraenti: «la fede in Dio di Israele è contraddistinta
in definitiva dal fatto che il rapporto di fede esige per essenza di valere per
tutta la vita e di agire in tutta la vita» [ma cfr. l'intero capitolo JHWH il
melekh, pagg. 106- 120]. E' qui che Michelstaedter segna il suo distacco e il
suo superamento: egli, ebreo, combatte in assoluto ogni adescamento eteronomo,
e intuisce che l'etica è Persuasione, ovvero - e in modo esclusivo - autonomia
responsabile e responsabilità autonoma, conquista che avviene nell'immediato
dell'uomo senza alcun tramite, se non la considerazione dell'altro come
specchio di sofferenza, come omousia del Tragico, e non come riflesso del volto
di Dio o comunque di entità superiori e costituite. Michelstaedter conclude la
prima Appendice critica alla sua tesi di laurea con un enfatico «Evviva
l'imperativo» [PR 142]. Quest'appendice, apparentemente svolta su questioni di
linguistica logico-formale (i modi verbali), s'impernia su un assunto
etico-filosofico che compendia le convinzioni michelstaedteriane su un
linguaggio, quello degli uomini, ch'è la traduzione più concreta ed esaustiva
dei «modi di relazione sufficiente» [PR 135]: infatti, «ogni parola detta è la
voce della sufficienza - quando uno parla, afferma la propria individualità
illusoria come assoluta», ovvero «ogni cosa detta ha un Soggetto che si finge
assoluto» [id., corsivo di Michelstaedter; in base alle analisi approntate nel
corso del nostro lavoro, il significato di queste affermazioni dovrebb'essere
oramai pacifico]. Alla luce di questo assioma, Michelstaedter de-struttura i
modi del linguaggio: quello diretto, quello congiunto e infine quello
correlativo. Fino a che giunge al modo imperativo, «che non è modo» [PR 141].
Perché quello imperativo non è un modo? E perché il giovane filosofo lo
predilige? Perché esso non sottende una "relazione sufficiente", «non
è realtà intesa, ma vita; è l'intenzione che vive essa stessa attualmente, e
non finge attualità in ogni modo finita e sufficiente» [PR 141, c. Mich.]:
insomma, il Soggetto «non fa parole, ma vive» [PR 142, c. Mich.]. Ma in che
modo il Persuaso vive? Innanzitutto, si parta da questa importante sfumatura:
per Michelstaedter, l'imperativo non è il modo dell'ingiunzione, del comando,
della coercizione, non è neanche «imperativo di Dio» [B 58]°'”, ma quello della
libertà, della realizzazione concreta della libertà, ovvero è un atto di
liberazione. Il Soggetto, innanzitutto, si libera da se stesso, dalla falsa
consistenza che lo intride. Ma l'imperativo non è neanche un modo impersonale:
esso è piuttosto un modo che coinvolge, che chiama in causa una relazione, una
responsabilità, che evidenzia la sostanza di un tu cui esso si rivolge.
Delucidando il senso e l'abisso di tale responsabilità, si giunge nel cuore
dell'essenza persuasa. E' la Persuasione che mette in gioco la responsabilità,
e non viceversa. Non è Dio che ci destina in un orizzonte responsabile, non è
YHWH che c'ingiunge o ci dona il senso di responsabilità, che ci forma alla responsabilità.
Per Lévinas, ad esempio, la responsabilità umana è «una responsabilità che
precede la libertà, una responsabilità che precede l'intenzionalità» [L 210]:
poche righe dopo, il filosofo ebreo- francese esplicita il senso delle sue
parole: «si deve comprendere piuttosto questa anteriorità della responsabilità
rispetto alla libertà come l'autorità stessa dell'Assoluto [c. n.], ‘troppo
grande' per la misura o la finitezza della presenza, della manifestazione,
dell'ordine e dell'essere» [L 210]; «l'uomo esercita la sua padronanza e la sua
responsabilità come mediatore tra Elohim e i mondi, assicurando la presenza o
l'assenza di Elohim dal concatenamento degli esseri» [L 246-247].
Nell'orizzonte della Persuasione, al contrario, la responsabilità non è la premessa
teologica al rapporto io-tu, non è il vincolo condizionante preparato da
qualsivoglia Torah, Assoluto o «ileità» [L 211], ma la messa-in-atto di questo
rapporto nel momento in cui esso avviene, sul terreno dell'autonomia senza
presupposti, nella condizione di una consistenza che trova 318. Ovvero nel
fondamento esclusivamente nella propria finitezza, nella propria solitudine
momento in cui la consapevolezza del Tragico assurge alla sua espressione
massima, e si converte da consapevolezza in attualità poietica. La stessa
«responsabilità della responsabilità» [L 158-159] non è una delega etica che un
essere superiore affida agli uomini, lasciandoli liberi o meno di rispondere
(la presenza o l'assenza di Elohim), ma un atto di autofondazione di libertà,
in cui libertà e responsabilità vengono a coincidere; non riflesso di una
Legge, ma essa stessa legge di se stessa. Il vir attraversa la morte, convive
con la malattia mortale ed estende la mortalità a termine di confronto con le
altrui vite: ristabilendo un corretto rapporto con l'essere-per-la-morte
dell'uomo, correggendo la prospettiva lontananza-vicinanza dalla morte, la
Persuasione rende manifesto l'essere-nella-morte dell'homo (la vita che vuole
se stessa e crede d'esser vita, l'horror vacui che diviene propellente del
conatus essendi, il deficere preso a pretesto del proprio sufficere) e nobilita
l'essere-con-la-morte del Persuaso. Di fronte al Tragico, e non di fronte a
YHWH, si fonda la solidarietà e la democrazia di un destino, per il quale tutti
sono miei pari nella morte. Vedendo nell'altro se stesso come mortale, il vir
elegge l'altro in un orizzonte di compassione, e quindi di rispetto: in questo
specchiarsi nell'innocenza tragica dell'altro, il Persuaso abdica alla propria
consistenza, avvertendo già la sua stessa affermazione individuale come
violenza "attuale" agìta ai danni dell'altro. 317 «[...] né la storia
biblica ha altro senso se non quello per cui l'imperativo della natura può
cedere all'imperativo di Dio e così elevarsi, la pura passione alla santità
pura, la creazione al regno» [B 58]. 318 Nella dimensione persuasa, dunque,
espressioni quali «dipendenza senza eteronomia» [L 162], «trascendenza che si
fa etica» [L 208], «decisione umana che interviene in un dominio che oltrepassa
l'uomo» [L 181], o ancora «timore libero: riconoscenza sotto forma
d'obbedienza, ma obbedienza senza servitù etc. etc.» [L 173], o infine la summa
- «idea di un potere senza abuso di potere» [L 266], non hanno alcun senso.La
persuasione, dunque, si pone come eccesso d'amore, come olocausto d'amore, che
sacrifica l'io attuale al tu, e fa del tu non soltanto il termine privilegiato
del rapporto, ma il luogo in cui «brucia come fiamma» il rapporto stesso. Il
sacrificio è l'annullamento del sé per la salvaguardia del tu: l'agire del
Persuaso (Sovva!) è l'accollarsi di un surplus di responsabilità verso il tu.
Per recuperare l'umanità del tu c'è bisogno di un'eccedenza d'umanità nel
Persuaso, tal che il Persuaso - alla stregua dell'Essere plotiniano - trabocchi
di essere e doni, sacrifichi la sua eccedenza in vista della Persuasione del
tu, ch'egli non prepara o sollecita, ma salvaguarda e protegge. In questo atto
di amore puro e assoluto della Persuasione, l'unico rimprovero che le si può
muovere contro è l'essersi arrogata una pretesa di salvazione che nessuno le ha
chiesto. Ma cosa è l'amore, il donare, se non dare anche quando nessuno
chiede? Uno, tra i motivi occasionali
che ci hanno spinto a scrivere una tesi su Carlo Michelstaedter, è stato la
lettura di un libello (in senso proprio e lato), che porta la firma di Antimo
Negri, dal titolo accattivante: // lavoro e la città. Il piccolo studio si
propone come «un saggio su Carlo Michelstaedter» (così recita il sottotitolo)
e, in effetti, la prima metà di esso sorvola l'opera del Goriziano, fissandone
punti fondamentali e azzeccando spunti intelligenti. Ad un certo punto, però -
e siamo al capitolo E' veramente ‘vita che non è vita', quella civile? -
l'analisi del critico prende una svolta inaspettata di sferzante polemica.
Partendo dalla convinzione (del resto per noi condivisibile e sensata) che
«nella società, è giocoforza responsabilizzarsi come uomini civili e lavoratori
divisi» [N 74], per il Negri prospettare ai lavoratori "distinti" e
agli uomini "civili" una vita altra da quella ch'essi conducono è
soltanto grossolana retorica, una presa in giro, una «promessa del diavolo» [N
75], pericolosa e assolutizzante, metafisica e irriguardosa. L'avversario da
ardere al rogo, nel contesto del saggio, è proprio Michelstaedter: [...] se gli
'autori' hanno veramente detto ciò che egli 'ripete' [il riferimento è alla
prefazione della tesi di laurea], Michelstaedter non fa altro che accomunarli
nel destino del fallimento del loro messaggio ‘persuasivo'. La ragione di questo
fallimento? Sta nel fatto che gli uomini, la maggioranza degli uomini,
nonostante ogni 'riduzione' della loro individualità, nonostante il loro
risolversi in persone sociali", nel mondo della sicurezza' borghese, nel
mondo del lavoro diviso o nel 'regno della rettorica', finiscono col credere
più a Platone che a Socrate, più a Hegel che a Schopenhauer, eccetera. Solo
perché disponibili a farsi 'giusti' per naturale desiderio di sicurezza? Solo
perché hanno paura della morte? Forse, anche perché hanno il coraggio di
vivere, lungo le 'sanguinate vie della storia', la ‘piccola vita' delle
‘individualità ridotte', in obbedienza alle ragioni della civiltà del lavoro e
della tecnica. Anche il pescatore stanco de | figli del mare ha questo
coraggio; e gli si deve rispetto, perché è anche un uomo ‘temprato
all'oggettività' nel senso hegeliano, un uomo 'giusto' nel senso platonico.
Rispetto non gli porta di fatto, Michelstaedter. In realtà, la lettura del
filosofo del lavoro è altamente prevenuta, e questo gli obnubila il senso della
Persuasione michelstaedteriana. Ne è prova quanto scrive in seguito,
indirizzando le sue frecciate a «quanti filosofeggiando si atteggiano a flebili
‘pastori dell'essere» [N 192 61], ossia «agli scopritori e ai riscopritori più
o meno nichilisteggianti di Michelstaedter» [N 71] (e anche qui ci trova
concordi). Ma per lui, già in partenza, quello di Michelstaedter è «il
desiderio di un libero volo oltre il mondo in cui vivono le 'anime implicate»
[N 70], e, in quanto tale, «è desiderio di morte»: «Michelstaedter tende a
'persuadere' ad un 'in-curia' o ‘non-curanza' della stessa società» [adattato
da N 81], ed egli, in questo, si rivelerebbe davvero «maestro di Svoradayoyia»
[N 81], ma un maestro così malefico, sottile e coerente da giungere persino ad
uccidersi per far valere tutta la cattiveria delle sue proposte; tal che il suo
suicidio fa] è un «gesto necessario della sua ‘pedagogia', che preferisce l'
‘essere’ al 'vivere', la ‘vita autentica' alla ‘vita inautentica' [[]» e visto
che [b] «c'è pure un egoismo nel darsi volontariamente la morte [!], senza
curarsi di quanto si può fare per gli altri anche o soprattutto come
‘individualità ridotte*». Ciò di cui il Negri priva i suoi lavoratori distinti
e i suoi soggetti civili è quello che Ernst Bloch chiamava principio speranza:
il che sarebbe anche la cosa meno grave. Infatti, egli dimentica altresì che
dietro tali figure sociali, inserite negli ingranaggi della città giusta, ci
sono degli uomini, e che le conquiste - e la dignità che ne deriva - sono
innanzitutto conquiste di consapevolezza umana, prima che acquisizioni
prettamente sociali o giuridiche o politiche. Egli scrive: Il nostro posto è
nella città, nel mondo del lavoro. Non c'è ideologia 'antilavoristica' che
tenga: il nostro compito resta quello di fare più giusta la città, più umano il
mondo del lavoro, non di uscirne fuori, di abbandonarlo [N 81-82]. Parole che
rivelano un grande, e giustificato, "pragmatismo", e ciò detto senza
alcuna allusione spregiativa. Il fatto è che Michelstaedter, scrivendo della
Persuasione, si pone su uno scalino indietro (o avanti, dipende dai punti di
vista) quando appunta il suo interesse piuttosto sulla dimensione dell'umano
che precede la sovrastruttura della giustizia cittadina e della socialità del lavoro.
Sinceramente, non vediamo in ciò alcuna «ideologia antilavoristica», né una
presa di posizione, come dire, gratuita e tignosa contro la "vita
empirica" degli uomini. Il merito di Michelstaedter è stato quello d'aver
individuato, al di là o al di sotto dell'alacrità sociale, un peccato umano tra
i più puniti anche da Dante: l'accidia spirituale. Di contro, il più grande
demerito dell'invincibile illusione sociale della rettorica - propinata
attraverso lo strumento ipnagogico della Svoradaywyix - è quello di obliterare
l'umanità degli uomini e d'incoraggiarne appunto l'accidia: tal che quando
Michelstaedter parla di «possesso presente della propria vita» non intende un
allontanarsi dalla congerie sociale, o semplicemente un disdegnarla (il che
sarebbe, oltre tutto, impossibile, vista la politicità che contraddistingue gli
uomini), ma un vivere la nostra esistenza, anche sociale, alla luce di una
nuova consapevolezza, di tipo socratico, che precede la stessa "coscienza
civile": ovvero, nella consapevolezza che in ogni uomo c'è un fondo di
Persuasione - un «centro religioso», direbbe Capitini - che dev'essere
recuperato e 193 salvaguardato, una plenitudo ed un'aeternitas che non è
astorica o ultramondana o antimondana, ma che rivela una dignità che chiameremmo
ontologica, se non avessimo timore di equivocare adottando un termine abusato.
La vita degli uomini, prima di essere vita di relazione in cui ognuno dà e
ognuno chiede (il cosiddetto mutualismo), è una interminabili vitae tota simul
et perfecta possessio?”9, tanto per prendere in prestito le parole di S.
Tommaso, e in questo l'uomo è assimilabile addirittura a Dio. In suddetta
convinzione michelstaedteriana - che è una bestemmia in bocca ad un ebreo, e
che forse segna il traguardo di presunzione di un pensiero che, al di là della
religiosità che lo sottende, si pone, per via di principio, come pensiero
"laico" - si palesa tutto l'amore e il rispetto di cui il Goriziano
investe gli uomini, il mondo e la vita stessa. Il Persuaso non vuol essere un
"persuasor di morte", un apolide o un paria, e se lo è, è l'ingiusta
conseguenza cui l'emarginazione rettorica lo destina; ed anche allora, il vir
non è un asceta che si rinchiude, beato, nella sua sdegnosa autosufficienza, o
un moralista che, da uno scranno, discetta sull'inettitudine o sulla
"senilità" degli uomini che, ignari del loro non- essere, si
affaccendano nel mondo. Il vir è Qohelet, partecipa comunque all'assemblea
degli uomini, «àncora la [sua] vita nella concreta molteplicità del prossimo»
[C 66]. La sua «anima ignuda» [PR 10] non è un abito di santità ch'egli indossa
per distinguere la propria nobiltà di spirito, ma il risultato di una
spoliazione dei travestimenti rettorici entro cui siamo «incamiciati», un
raggiungere la nudità del nostro essere sfrondando gli orpelli del sufficere, e
non un'angelolatria; e, ancora, l'«isola dei beati» [PR 10] non è un mondo
marziano o iperuranico, ma la città veramente giusta, la Gerusalemme dei
liberati, la agathon philia: «Paradiso non è l'assenza della finitezza, ma il
vincerla, con impeto di spirito sereno» [C 64]. Infine, l'esperienza della
Persuasione non è un'esperienza elitaria od escludente, visto che non ci sono
libri, ricettari o raccomandazioni che ci facilitano sulla via della
Persuasione: essa, per principio, si pone come democratica, e l'unica
condizione ch'essa ingiunge (se si può dir così) è che sta ad ogni singolo
individuo assumersi la responsabilità di imboccarla, prendere su di sé il
compito della propria realizzazione, avere il coraggio di costruire la propria
dignità di uomo: e quale migliore artifex di colui il quale è l'artefice unico
della propria umanità? «La persuasione religiosa suscita un sentimento e
un'iniziativa assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente, e proprio
movendo da sé stessi, anche se soli» [C 113]: «libertà deve essere
continuamente liberazione » [C 108]. La consapevolezza del Tragico, in cui
"consiste" la Persuasione e la sua libertà, dunque, non mortifica
l'attività degli uomini, ma le conferisce un senso e una dignità addirittura
sovraumane, perché non accetta la vita così com'è, o come ci è data, ma
testimonia la "caparbietà" degli uomini, la loro eccedenza di vita,
anche nella consapevolezza di esseri- 319 Tommaso, Summae Theologiae, prima
pars quaestio X, De Dei aeternitate in sex articulos divisa, articulus |.
per-la-morte: e la stessa relazione dare-chiedere ne viene promossa a donare,
in un orizzonte di rispetto e di amore che coinvolge tutti gli enti mondani,
senza alcuna cesura metafisica o etica. E allora, non si incorra nell'equivoco
di scambiare la Persuasione per semplice determinazione, per mera disposizione
di volontà, per arbitrio di proprie convinzioni imposte alla comunità degli
uomini, per malevola, pertinace coerenza d'intenzioni eccentriche o malsane:
diversamente, si potrebbero a buon ragione dire persuasi un Hitler o un
Callicle. La dimensione persuasa non è una dimensione anarchica, dove ognuno
dice o fa ciò che vuole, convinto di realizzare una propria, singolare, gretta
persuasione: essa ha l'unico suo limite e l'unica sua legge (che non è sintomo
di eteronomia, perché autonoma assunzione di responsabilità) nel confine
segnato dalla libertà e dal diritto dell'altra persona: la Persuasione «è
stretta sulla base della non menzogna che è il riconoscimento in altri della
stessa volontà operante vicino alla mia finitezza, superamento della
separazione, atto di fede che attua la vicinanza, la trasparenza» [C 111]. La
Persuasione è trasparenza etica. Che un simile "programma" di umanità
sia destinato al fallimento - o sia guardato con ironia, o sia tacciato di
melliflua retorica, che condisce una "adolescenziale" illusione - non
è una prova schiacciante da ribaltare sardonicamente contro il suo autore, ma
un ulteriore elemento di meditazione sulle dilaganti potenzialità oniriche e
violente - ovvero di una violenza occulta o scoperta, a seconda dei casi - del
dispositivo e dell'armamentario rettorico, che da sempre ci affligge. Carlo
Raimondo Michelstaedter. Carlo Michelstaedter. Michelstaedter. Keywords: l’implicatura
di Platone. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e
Michelstaedter: retorica e persuasione," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Michelstaedter” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Mieli: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’uccello del paradiso; ovvero, la lingua perduta del
desiderio – la Paradisaeidae di Swinton – la scuola di Milano -- filosofia
lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice:
“Speranza has studied this; he calls it ‘Dorothea Oxoniensis,’ and indeed it is
a joint endeavour with C. R. Stevenson – who *knows*!” -- «Spero che la lettura
di questo libro favorisca la liberazione del desiderio gay presso coloro che lo
reprimono e aiuti quegli omosessuali manifesti, che sono ancora schiavi del
sentimento di colpevolezza indotto dalla persecuzione sociale, a liberarsi
della falsa colpa» (Elementi di critica omosessuale. M Attivista e
scrittore italiano, teorico degli studi di genere. È considerato uno dei
fondatori del movimento omosessuale italiano, nonché uno tra i massimi teorici
del pensiero nell'attivismo omosessuale italiano. Legato al marxismo rivoluzionario,
è noto soprattutto come eponimo del Circolo di cultura omosessuale M. e per il
suo saggio Elementi di critica omosessuale pubblicato nella sua prima edizione
da Einaudi nel 1977. M. penultimo dei sette figli di Walter Mieli e di
Liderica Salina. Il padre, ebreo e originario di Alessandria d'Egitto, vive a
Milano dalla metà degli anni venti e aveva fondato con successo un'azienda di
filati, divenuta in seguito una delle più importanti nella torcitura e nella
lavorazione della seta. La madre, milanese, era insegnante di lingue.
Sposati, durante la seconda guerra mondiale i coniugi M. erano sfollati a Lora,
frazione di Como. Mario crebbe in questa cittadina, pur mantenendo forti legami
con Milano dove il padre continuava a lavorare e a risiedere. Il giovane
Mario si stabilì definitivamente nel capoluogo lombardo quando si iscrisse al
liceo classico Giuseppe Parini, raggiunto due anni dopo dalla sorella minore
Paola, alla quale fu sempre molto legato. Già in questi anni diede
dimostrazione della sua viva intelligenza e dichiarò la propria omosessualità.
Secondo quanto testimoniato dal compagno Milo De Angelis, nfondò un circolo di
poesia che divenne anche un luogo di incontro per omosessuali. Fu pienamente
coinvolto nella contestazione ed evocò questo periodo nel suo romanzo
autobiografico Il risveglio dei faraoni. A causa della sua miopia fu
esonerato dal servizio militare alla fine del liceo, si trasferì a Londra per
perfezionare l'inglese, come già avevano fatto altri suoi familiari. Qui frequentò
il "Gay Liberation Front" venendo a contatto con l'attivismo
omosessuale nella sua fase più intensa, subito dopo i moti di Stonewall.
Tornato in Italia, fu, insieme ad Angelo Pezzana, tra i soci fondatori del
celebre Fuori! a Torino, prima associazione italiana del movimento di
liberazione omosessuale italiano. Convinto assertore di una rivoluzione
gay in chiave marxista, si allontanò dal Fuori! insieme a tutta la cellula
milanese dell'associazione quando questa si legò al Partito Radicale.
Nello stesso anno fondò a Milano i Collettivi Omosessuali Milanesi e i
Collettivi parteciparono al Festival del proletariato giovanile di Parco
Lambro, dove Mieli lanciò dal palco lo slogan Lotta dura, Contronatura!. Si
laureò in filosofia morale con una tesi, poi pubblicata con modifiche, da
Einaudi con il titolo di Elementi di critica omosessuale e che divenne un
fondamento delle teorie di genere in Italia e, in misura minore, all'estero,
venendo tradotto e pubblicato in inglese nel 1980 con il titolo Homosexuality and
liberation: elements of a gay critique ed in spagnolo con il titolo Elementos
de crítica homosexual dall'editrice Anagrama. Elementi fu uno dei testi base
dei collettivi autonomi gay. M. fu uno dei primi a contestare apertamente
le categorie di genere vestendosi quasi sempre con abiti femminili. Nel
frattempo si dedicava al teatro, destando scandalo nella mentalità dell'epoca
con opere come lo spettacolo La Traviata Norma. Ovvero: Vaffanculo... ebbene
sì! Dava volutamente scandalo anche per il modo in cui si presentava, utilizzò
anche immagini e ruoli per portare avanti la propria battaglia dei diritti
individuali inalienabili. Nel corso della sua esistenza, cercò di superare i
limiti, fece uso di droghe e si dette a pratiche sempre più estreme, inclusa la
coprofagia. Durante un viaggio a Londra, Mieli, vicino già
all'antipsichiatria, iniziò a interessarsi di psicoanalisi; fu nuovamente
arrestato, quando, semi-nudo e in preda a una crisi psichica, fu fermato
nell'aeroporto di Heathrow, in cerca di un poliziotto con cui avere un rapporto
sessuale. Prima venne incarcerato, poi messo nella sezione psichiatrica del
Marlborough Day hospital, assistito dai familiari venuti dall'Italia in attesa
del processo. Venne ricondotto a Milano, dopo la condanna a pagare una
multa, e ricoverato in una clinica psichiatrica per un mese. Una volta dimesso,
su consiglio del suo psicoanalista Zapparoli, i genitori gli diedero un
appartamento autonomo. L'anno seguente viaggiò ad Amsterdam e di nuovo a Londra
e si laurea con lode in filosofia. Poco dopo lasciò l'appartamento che gli
avevano trovato e interruppe la terapia psichiatrica. Al V congresso del
Fuori!, che sancì la sua rottura col movimento e con Pezzana, M. prese la
parola, si dichiarò transessuale e parlò della sua esperienza di malattia
mentale («sono stato definito uno schizofrenico paranoide, sono stato in
ospedale, in manicomio per questo motivo») e di omosessualità. Dopo questo
periodo si dedicò alla stesura degli Elementi di critica omosessuale.
Negli ultimi anni di vita si dedicò all'esoterismo e all'alchimia, abbastanza
isolato dal resto del movimento omosessuale, e lavorando al romanzo Il
risveglio dei faraoni. Morì suicida infilando la testa nel forno della sua
abitazione di Milano dopo un lungo periodo di depressione. Tra i motivi del suo
gesto estremo fu l'ostruzionismo che il padre, influente industriale milanese,
aveva fatto per impedire la pubblicazione della sua ultima opera, Il risveglio
dei faraoni, ritenendolo troppo autobiografico e lesivo dell'onore famigliare.
A lui è intitolato il Circolo di cultura omosessuale M. sorto a Roma nello
stesso anno della morte. Il pensiero Il transessualismo universale Il
pensiero di M. consiste nel ritenere che ogni persona è potenzialmente
transessuale se non fosse condizionata, fin dall'infanzia, da un certo tipo di
società che, attraverso quella che Mieli chiamava "educastrazione",
costringe a considerare l'eterosessualità come normalità e tutto il resto come
perversione. Per transessualità, non intende quello che si intende oggi nella
comune accezione del termine, ma l'innata tendenza polimorfa e
"perversa" dell'uomo, caratterizzata da una pluralità delle tendenze
dell'Eros e da l'ermafroditismo originario e profondo di ogni individuo.
La liberazione omosessuale in chiave marxista fu tra i primi studiosi ed
attivisti del Movimento di Liberazione Omosessuale Italiano, accanto a
Castellano,Consoli, Modugno e Pezzana.
Tutti partivano dalla certezza che la liberazione dall'ancestrale omofobia
dovesse fondarsi sulla consapevolezza della propria identità, censurata fin
dalla nascita dalla cultura dominante, da loro ritenuta antropologicamente
sessuofoba e pervicacemente omofoba. Da queste basi partivano per
abbattere la discriminazione pluri-secolare nei confronti di chi non si
identificava nella sessualità assiomaticamente definita come naturale e
normale. Abbracciò immediatamente il marxismo, cercando di rimodularlo sulle
istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale e ritenendo la
società capitalista intrinsecamente omofoba. Rilettura della psicanalisi
Negli Elementi di critica omosessuale, volle rielaborare alcuni degli spunti
teorici della teoria della sessualità di Freud, attraverso la lettura che, tra
gli anni Cinquanta e Sessanta, ne aveva fatto
Marcuse. Marcuse, infatti, in opere come “Eros e civiltà e L'uomo a una
dimensione aveva voluto fondere marxismo e psicanalisi. Fu proprio Freud,
infatti, a sostenere che l'orientamento sessuale poteva prendere qualsiasi
"direzione", riconducendo eterosessualità e "omosessualità a
semplici varianti della sessualità umana in senso lato. Una non escluderebbe
l'altra, e anzi, in potenza, tutti saremmo pluri-sessuali,
"polimorfi" o, più semplicemente, bi-sessuali. In base a questa
riflessione, riteneva che si dovesse denunciare come assurda e inconsistente
l'opposizione ideologica "eterosessuale" vs "omosessuale",
essendo viziato il principio stesso di "mono-sessualità". A questa
prospettiva unilaterale, che riteneva incapace di cogliere la natura
ambivalente e dinamica della dimensione sessuale, M. ha preferito opporre un
principio di eros libero, molteplice e polimorfo. Per Mieli era tragicamente
ridicola «la stragrande maggioranza delle persone, nelle loro divise mostruose
da maschio o da "donna.” Se il travestito appare ridicolo a chi lo incontra,
tristemente ridicolissima è per il travestito la nudità di chi gli rida in
faccia». Dean, psicoanalista dell'Buffalo, che redasse l'appendice
dell'edizione Feltrinelli di Elementi di critica omosessuale, afferma: «Nel processo
politico di ristrutturazione della società, M. non esita a includere nel suo
elenco di esperienze redentive la pedofilia, la necrofilia e la coprofagia» e
«ridefinisce drasticamente il comunismo descrivendolo come riscoperta dei corpi.
In questa comunicazione alla Bataille di forme materiali, la corporeità umana
entra liberamente in relazioni egualitarie multiple con tutti gli esseri della
terra, inclusi "i bambini e i nuovi arrivati di ogni tipo, corpi defunti,
animali, piante, cose" annullando "democraticamente" ogni
differenza non solo tra gli esseri umani ma anche tra le specie». A
questa rivoluzione sociale sono di ostacolo determinati elementi, ritenuti da
Mieli come «pregiudizi di certa canaglia reazionaria» che, trasmessi con l'educazione,
hanno la colpa di «trasformare troppo precocemente il bambino in adulto
eterosessuale». Il tema della pedofilia Da provocatore dei
"benpensanti", quale è stato tutta la breve vita, facendo
esplicitamente riferimento a Freud, M. affrontò a modo suo anche il tema della
sessualità infantile, per questo andando incontro a forti critiche. I bambini,
secondo il pensiero di Mieli, potevano "liberarsi" dai pregiudizi
sociali e trovare la realizzazione della loro "perversità poliforme"
grazie ad adulti consapevoli di quanto sopra asserito: «Noi checche
rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro
Edipo, bensì l'essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i
bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di
Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che
profondono, possiamo fare l'amore con loro. Per questo la pederastia è tanto
duramente condannata. Essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società
invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo
erotismo la griglia edipica. La società repressiva eterosessuale costringe il
bambino al periodo di latenza; ma il periodo di latenza non è che
l’introduzione mortifera all’ergastolo di una «vita» latente. La pederastia,
invece, «è una freccia di libidine scagliata verso il feto» (Francesco
Ascoli)» (Elementi di critica omosessuale). Nella nota 88 si legge:
«Per pederastia intendo il desiderio erotico degli adulti per i bambini (di entrambi
i sessi) e i rapporti sessuali tra adulti e bambini. Pederastia (in senso
proprio) e pedofilia vengono comunemente usati come sinonimi» (Elementi di
critica omosessuale). Il tema dell'alterazione psichica, della follia Mieli
faceva uso di sostanze stupefacenti, attraverso le quali mirava a superare lo
stato di normalità in cui riteneva le persone intrappolate. Riteneva che
nevrosi, follia, paranoia, delirio e, soprattutto, la schizofrenia, al pari
dell'omosessualità fossero caratteristiche latenti in tutti gli esseri umani e,
con riferimento a Jung, che tali condizioni permettessero «la (ri)scoperta di
quella parte di noi che Jung definirebbe “Anima” oppure “Animus”». In
riferimento all'omosessualità, considerava che potesse essere una porta verso
il lato inesplorato della personalità, in analogia con la follia: “La paura
dell’omosessualità che distingue l’homo normalis è anche terrore della “follia”
(terrore di se stesso, del proprio profondo). Così, la liberazione omosessuale
si pone davvero come ponte verso una dimensione decisamente altra: i francesi,
che chiamano folles le checche, non esagerano». Opere: “Comune futura,”
“Elementi di critica omosessuale, Einaudi, Torino, Elementi di critica
omosessuale, Barilli e M., Feltrinelli, Milano,
Elementi di critica omosessuale, G. Barilli e Paola Mieli, Feltrinelli,
Milano, “Il risveglio dei faraoni,” preservato da Marc de' Pasquali e Umberto
Pasti, Cooperativa Colibri, Milano, “Il risveglio dei faraoni,” Alfonso Sarrio
Solidago, dR, Milano, “Oro, eros e
armonia,” G. Silvestri e A.Veneziani, Edizioni Croce, Oro, eros e armonia,
Gianpaolo Silvestri e Antonio Veneziani, Edizioni Croce, “E adesso,” S. Laude, Clichy, Teatro La Traviata Norma. Ovvero:
Vaffanculo... ebbene sì!, Film “Gli anni amari, regia di A. Adriatico.. T. Giartosio, Perché non possiamo non dirci:
letteratura, omosessualità, mondo, Feltrinelli,
Barilli, Il movimento gay in Italia, Feltrinelli, L. Schettini, M. in
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Ideologia. Progetto omosessuale rivoluzionario, in Elementi di
critica omosessuale, Dizionario Biografico degli Italiani, in Treccani,
Trascrizione del suo intervento in congresso nazionale del “Fuori!”, in Fuori!
rancobuffoni/ files/pdf/gp_leonardi_mieli.pdf
M., artista contro la violenza, in La Stampa, Elementi di critica omosessuale, Einaudi, M.
Elementi di critica omosessuale. Milano, Einaudi, Estremo e dimenticato. Storia
di un intellettuale provocatore., in Treccani Il tascabile, M., Mieli, Paola. e
Rossi Barilli, Gianni., Elementi di critica omosessuale Il risveglio dei
Faraoni, in A. Solidago, PRIDE, Milano, dR Edizioni, Silvestri, L'ultimo M.:
Oro Eros Armonia: contributi di Ivan Cattaneo e A. Veneziani, 2 ed. riveduta e
corretta, Libreria Croce, De Laude, Silvia,, Mario Mieli: e adesso, A. Pezzana. La politica del corpo. Roma,
Savelli, E. Modugno. La mistificazione eterosessuale. Milano, Kaos. S. Casi.
L'omosessualità e il suo doppio: il teatro di M. Rivista di sessuologia (numero
speciale L'omosessualità fra identità e desiderio,Francesco Gnerre. L'eroe
negato. Milano, Baldini e Castoldi, M. Philopat, Lumi di punk: la scena
italiana raccontata dai protagonisti, Milano, Agenzia, Concetta D'Angeli,
Teatro Talento Tenacia... Mario Mi"Atti&Sipari" Circolo di
cultura omosessuale Mario Mieli Fuori! Marc de' Pasquali Movimento di liberazione
omosessuale Omosessualità Queer Storia dell'omosessualità in Italia Studi di
genere Teoria queer Transessualismo. Biografia, in italiano, su culturagay. Chi
era M. (articolo sul gay.tv), su gay.tv
Circolo di cultura omosessuale "Mario Mieli", su mariomieli.org. Mario
Mieli. Mieli. Keywords: l’uccello del paradiso; overo, la lingua perduta del
desiderio. Refs. Luigi Speranza, “Grice e Mieli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Miglio: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- implicatura ligure – la
LIGVRIA e la PADANIA – la scuola di Como – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Como). Filosofo
Lombardo. Filosofo italiano. Como, Lombardia. Grice: “Berlin, who thought was a philosopher, ended up lecturing
on the history of ideas, i..e. ideology – M. defines ideology so simply that
would put Berlin to shame: an ideology is what politicians propagate to reach
or buy consensus!” -- essential Italian
philosopher. Sostenitore della trasformazione dello
Stato italiano in senso federale o, addirittura, confederale, fra gli anni
ottanta e i novanta è considerato l'ideologo della Lega Lombarda, in
rappresentanza della quale fu anche senatore, prima di "rompere" con
Umberto Bossi dando vita alla breve stagione del Partito Federalista.
Polo scolastico "M." ad Adro. Costituzionalista e scienziato
della politica, fu senatore della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII
legislatura. Ha insegnato presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore
di Milano, ove fu preside della Facoltà di Scienze politiche. È stato allievo d’Entrèves
e Pallieri, sotto la cui docenza si è formato sui classici del pensiero
giuridico e politologico. Colpito da ictusnon si riprese e morì
ottantatreenne nella sua stessa città natale, Como, circa un anno dopo. Il
funerale si tenne a Domaso, sul Lago di Como, comune d'origine del padre e sede
di una villa nella quale il professore si rifugiava spesso; in seguito M. è
stato tumulato nel locale cimitero, a fianco dei membri della sua
famiglia. Laureatosi in Giurisprudenza all'Università Cattolica con la
tesi, “Origini e i primi sviluppi delle dottrine giuridiche internazionali
pubbliche nell'età moderna”, evitò l'arruolamento per la Seconda guerra
mondiale a causa di un difetto uditivo congenito, e poté divenire assistente
volontario alla cattedra di Storia delle dottrine politiche, che d'Entreves
tenne sino alla fine degli anni quaranta nella medesima università.
Libero docente, si dedicò negli anni cinquanta allo studio delle opere di
storici e giuristi, soprattutto tedeschi: dai quattro volumi del Deutsche
Genossenschaftsrecht di Gierke, ai saggi di storia amministrativa di Otto
Hintze, alcuni dei quali, negli anni seguenti, vennero tradotti in italiano dal
suo allievo e ferrato germanista Schiera
(O. Hintze, Stato e società, Zanichelli). Fu di quegli anni l'incontro di
M. con l'immensa produzione scientifica di Weber: il professore comasco fu uno
dei primi ad aver studiato a fondo “Economia e Società”, l'opera più importante
del sociologo tedesco che era stata completamente trascurata in Italia.
Sviluppo del lavoro scientifico Miglio storico dell'amministrazione Alla fine
degli anni cinquanta, M. fonda con il giurista Benvenuti l'ISAP Milano
(Istituto per la Scienza dell'Amministrazione Pubblica), ente pubblico
partecipato da Comune e Provincia di Milano, di cui ricopri per alcuni anni la
carica di vicedirettore. In un saggio memorabile intitolato Le origini della
scienza dell'amministrazione, il professore comasco descriveva con elegante
chiarezza le radici storiche della disciplina. L'interesse per il campo
dell'amministrazione era dovuto in quegli anni alle politiche pianificatrici
che gli stati andavano conducendo per l'incremento della crescita economica.
La Fondazione italiana per la storia amministrativa Ben presto M. sente
tuttavia l'esigenza di studiare in modo più sistematico la storia dei poteri
pubblici europei e, negli anni sessanta, costituì la Fondazione italiana per la
storia amministrativa: un istituto le cui ricerche vennero condotte con
rigoroso metodo scientifico. A tal proposito, il professore aveva appositamente
preparato per i collaboratori della fondazione uno schema di istruzioni
divenuto famoso per chiarezza e organicità. In realtà, fondando la F.I.S.A. M.
si era posto l'ambizioso obiettivo di scrivere una storia
costituzionale che prendesse in esame le amministrazioni pubbliche
esistite in luoghi e tempi diversi: in tal modo egli sarebbe riuscito a
tracciare una vera e propria tipologia delle istituzioni dal medioevo all'età
contemporanea, al cui interno sarebbero stati indicati i tratti distintivi o,
viceversa, gli elementi comuni di ogni potere pubblico. Ma v'era un'altra
ragione che aveva indotto M. a studiare i poteri pubblici in un'ottica, come
scriveva lui stesso, analogico-comparativa. Servendosi di un metodo
scientifico che Hintze aveva parzialmente seguito nella prima metà del
Novecento, il professore comasco intendeva definire l'evoluzione storica dello
stato moderno, storicizzando in tal modo le stesse istituzioni contemporanee.
La fondazione pubblica tre collezioni: gli Acta italica, l'Archivio (diviso in
due collane: la prima riguardante ricerche e opere strumentali, la seconda
dedicata alle opere dei maggiori storici dell'amministrazione) e gli Annali.
Tra i più autorevoli lavori storici pubblicati nell'Archivio, si ricordano il
volume sui comuni italiani di Goetz e il famoso saggio di Vaccari sulla
territorialità del contado medievale. Nella prima serie alcuni giovani studiosi
poterono invece pubblicare le loro ricerche di storia delle istituzioni:
Rossetti, allieva dello storico Violante, vi diede alle stampe un approfondito
studio sulla società e sulle istituzioni nella Cologno Monzese dell'Alto
Medioevo; Petracchi pubblicò la prima parte di un'interessante ricerca sullo
sviluppo storico dell'istituto dell'intendente nella Francia dell'ancien
régime; occorre inoltre ricordare il poderoso volume di Pierangelo Schiera sul
cameralismo tedesco e sull'assolutismo nei maggiori stati germanici. Su
tutt'altro piano si poneva invece la collezione della F.I.S.A. denominata Acta
italica: al suo interno dovevano essere pubblicati i documenti relativi
all'amministrazione pubblica degli stati italiani preunitari: è probabile che l'ispirazione
per quest'ultima serie fosse venuta a M. dallo studio delle opere di
Hintze: lo storico tedesco aveva infatti scritto alcuni saggi
sull'amministrazione prussiana pubblicandoli negli Acta borussica,
un'autorevole collana che raccoglieva le fonti storiche dello stato degli
Hohenzollern. L'edizione dei lavori della commissione Giulini Tra i
volumi degli Acta italica, occorre ricordare l'edizione dei lavori della
Commissione Giulini curata da Raponi uno studio cui M. tenne molto e di cui si
servì, molti anni dopo, per la stesura del celebre saggio su “Vocazione e
destino dei lombardi” (in La Lombardia
moderna, Electa, ripubblicato in Miglio, Io, Bossi e la Lega, Mondadori). La
commissionei cui lavori avevano avuto luogo a Torino sotto la presidenza del
nobile milanese Cesare Giulini della Portaaveva il compito di elaborare
progetti di legge che sarebbero entrati in vigore in Lombardia nel periodo
immediatamente successivo alla guerra. Cavour, che in quegli anni ricopriva la
carica di primo ministro, voleva che il governo, nel sancire l'annessione dei
nuovi territori al Piemonte di Vittorio Emanuele, mantenesse separati gli
ordinamenti amministrativi delle due regioni, lasciando che in Lombardia
continuassero a sussistere una parte delle istituzioni austriache
esistenti. Il saggio Le contraddizioni dello stato unitario Nel saggio
magistrale Le contraddizioni dello stato unitario scritto in occasione del
convegno per il centenario delle leggi di unificazione, M. prese in esame gli
effetti devastanti che l'accentramento amministrativo aveva provocato nel
sistema politico italiano. La classe politica italiana non fu capace di
elaborare un ordinamento amministrativo che consentisse allo stato di governare
adeguatamente un territorio esteso dalle Alpi alla Sicilia. Ricorrendo a una
felice similitudine, il professore scrisse che la scelta di estendere le norme
piemontesi a tutta Italia fu come "far indossare a un gigante il vestito
di un nano". Secondo M., i nostri "padri della patria",
spaventati dalle annessioni a cascata e dalle circostanze fortunose in cui era
avvenuta l'unificazione, preferirono conservare ottusamente gli istituti
piemontesi, costringendo la stragrande maggioranza degli italiani ad essere
governati da istituzioni che, oltre ad essere percepite come
"straniere", si rivelarono palesemente inefficienti. Nel
saggio, M. ha però messo in luce un altro dato fondamentale; il professore
scrisse che il paese, quantunque fosse stato formalmente unito dalle norme
piemontesi, continuò nei fatti a restare diviso ancora per molti anni: le
leggi, che il Parlamento emanava dalle Alpi alla Sicilia, venivano infatti
interpretate in cento modi diversi nelle regioni storiche in cui il Paese
continuava, nonostante tutto, ad essere naturalmente articolato. Era il
federalismo che, negato alla radice dalla classe politica liberal-nazionale in
nome dell'unità, si prendeva ora la rivincita traducendosi in forme evidenti di
"criptofederalismo".[senza fonte] Sono inoltre fondamentali,
nella sua formazione i saggi di Brunner. Di Brunner fa tradurre svariati saggi,
Per una nuova storia costituzionale e sociale (Vita e Pensiero), ma promosse
anche la pubblicazione dell'opera monumentale Land und Herrschaft: in questo
lavorouscito per la prima volta Brunner aveva preso in esame la costituzione
materiale degli ordinamenti medievali, ponendo in evidenza i numerosi elementi
di diversità tra la civiltà dell'età di mezzo e quella moderna, soprattutto nel
modo di concepire il diritto. La traduzione di Land und Herrschaft, affidata
inizialmente alle cure di Emilio Bussi, sarebbe dovuta comparire nell'elegante
collana della F.I.S.A. già negli anni sessanta. Interrotto negli anni seguenti,
il lavoro venne invece portato a compimento solo nei primi anni ottanta dagli
allievi Schiera e Nobili. Pubblicato da Giuffré con il titolo di "Terra e
potere", il capolavoro di Brunner apparve negli Arcana imperii, la collana
di scienza della politica di cui M. era divenuto direttore. Il professore
comasco si occupò inoltre dei contributi recati alla scienza
dell'amministrazione da parte di altri due storici e giuristi tedeschi: Stein e
Gneist. La chiusura della FISA Negli anni Settanta la F.I.S.A. dovette
chiudere i battenti per mancanza di fondi. Il professor M., ricordando a
distanza di tempo la fine di quell'autorevole collana di storia delle
istituzioni, ne espose le ragioni con un breve commento: "Malgrado la sua
efficienza, la F.I.S.A. ebbe vita breve: gli enti che provvedevano al suo
finanziamento, non scorgendo l'utilità politica immediata della sua attività,
strinsero i cordoni della borsa. M. scienziato della politica e
costituzionalista Negli anni ottanta, il degenerarsi del clima politico in
Italia indusse il professor M. ad occuparsi di riforme istituzionali; egli
intendeva contribuire in tal modo alla modernizzazione del paese. Fu così che, raggruppando
un gruppo di esperti di diritto costituzionale e amministrativo stese un
organico progetto di riforma limitato alla seconda parte della costituzione. Ne
uscirono due volumi che, pubblicati nella collana Arcana imperii, vennero
completamente trascurati dalla classe politica democristiana e socialista. Tra
le proposte più interessanti avanzate dal "Gruppo di Milano"così
venne definito il pool di professori coordinati da M. v'era il rafforzamento
del governo guidato da un primo ministro dotato di maggiori poteri, la fine del
bicameralismo perfetto con l'istituzione di un senato delle regioni sul modello
del Bundesrat tedesco, ed infine l'elezione diretta del primo ministro da tenersi
contemporaneamente a quella per la camera dei deputati. Secondo il gruppo
di Milano, queste e numerose altre riforme avrebbero garantito all'Italia una
maggiore stabilità politica, cancellando lo strapotere dei partiti e
salvaguardando la separazione dei poteri propria di uno stato di diritto.
Diversamente dalla F.I.S.A., la collana Arcana imperii era incentrata
esclusivamente sullo studio scientifico dei comportamenti politici. Il citato
volume di Brunner costituì pertanto un'eccezione perché, come si è avuto
modo di accennare, esso doveva essere pubblicato negli eleganti volumi della
F.I.S.A. All'interno della collana Arcana imperii vennero invece inseriti saggi
e contributi di psicologia politica, di etologia, di teoria politica, di
economia, di sociologia e di storia. Intende costituire un vero e proprio
laboratorio dove lo scienziato della politica, servendosi dei risultati portati
alla disciplina dalle diverse scienze sperimentali, e in grado di conseguire
una formazione che si ponesse all'avanguardia. Vi vennero pubblicati più di
trenta saggi. Si ricordano, tra gli altri: il saggio di Ornaghi sulla dottrina
della corporazione nel ventennio fascista, l'edizione degli scritti schmittiani
su Hobbes, la pubblicazione interrotta di alcune opere di Stein, il trattato di
diritto costituzionale di Smend. Degni di nota anche i saggi di Mises e Hayek.
I saggi di squisita fattura, non poterono tuttavia eguagliare l'elegante veste
tipografica di quelli pubblicati dalla F.I.S.A., ed un identico destino parve
accomunare le due collane: anche in questo caso, e infatti costretto a
sospendere le pubblicazioni. Alla sua formazione contribuirono i saggi di
Stein e Schmitt sulle categorie del politico. In ogni comunità sono presenti
due realtà irriducibili: lo “stato” e la “società”. La società è il terreno
della libera iniziativa, ove gli uomini forti vincono sui deboli e tentano di
stabilizzare le loro posizioni attraverso l'ordinamento giuridico. Lo stato è
invece il luogo ove regna il principio di uguaglianza. Lo stato italiano o non
può che identificarsi con la monarchia. Il re d’Italia è infatti l'unica
autorità in grado di intervenire a sostegno dei più deboli. Un monarca, attraverso
il potere di ordinanza, e in grado di modificare la costituzioni giuridiche
cetuali all'interno del suo territorio, una politica che il re d’Italia puo condurre
in porto non senza grosse difficoltà, a vantaggio del BENE COMUNE. Questo e
accaduto nel granducato di Toscana e in Lombardia. Quando si sostene che il
ruolo dello stato italiano dove contro-bilanciare quello della società, si ha in
mente il riformismo illuminato. Ma la sua filosofia si pone all'interno di uno
“stato liberale” e parte dal presupposto che la monarchia, lungi dall'essere un
potere assoluto, dove comunque fare i conti con il potere della “società”
attestato nel parlamento. La omunità prospera solo quando stato e società sono
in equilibrio, ugualmente vitali ed operanti. Una comunità e dominata da due
realtà irriducibili. Lo stato italiano è una realtà storica inserita nel tempo
e, come tutte le creature e specie viventi, destinata a decadere, a scomparire
ed essere sostituita da altre forme di aggregazione politica. La società non e
solo economico-giuridica. E senza dubbio decisivo l'incontro con Schmitt, i cui
saggi sono trascurate dagli intellettuali italiani. L'aiuto che Schmitt presta
al regime hitleriano, in particolare nel sostenere la legalità delle leggi
razziali in un sistema di diritto internazionale, sono più che sufficienti per
oscurare in Italia la sua imponente produzione. I rapporti di Schmitt con il
nazismo sono di breve durata. Prende definitivamente le distanze da Hitler. Di
Schmitt apprezza i saggi di scienza politica e di diritto internazionale. Cura
assieme a Schiera l'edizione italiana di alcuni saggi pubblicati dal Mulino con
il titolo Le categorie del politico. Nella prefazione, si sofferma sui decisivi
contributi portati da Schmitt alla scienza politologica. L'antologia desta
scalpore nel mondo accademico. Bobbio sostenne che destabilizza la sinistra
italiana. È dall'incontro con la produzione di Schmitt che riusce quindi a fabbricarsi
gli strumenti per costruire una parte importante del suo modello sociologico.
L’essenza del politico è fondata sul conflitto tra amico e nemico. E uno
scontro all'ultimo sangue perché la guerra politica porta normalmente
all'eliminazione fisica dell'avversario. L’esempio più emblematico di scontro
politico fosse la guerra civile nella storia dell aroma antica -- tra fazioni
partigiane. Qui il tasso di conflittualità tra amico (Catone) e nemico (Giulio
Cesare) è sempre stato altissimo. Chi ha lo stesso amico non può che avere lo
stessi nemico del proprio compagno di lotta. Si crea la solidarietà tra due
membri (un gruppo) che è decisivo nella guerra contro l’altro gruppo di nemici.
Il rapporto politico è sempre esclusivo. Marca l'identità del gruppo in
opposizione a quella degli altri. L’avvento dello stato italiano portato a
due risultati di eccezionale portata storica. Primo: la fine della guerre
civile all'interno del territorio (le faide e le guerre confessionali) con
l'annientamento del ruolo politico detenuto sino a quel momento dalle fazioni
in lotta (dai partiti confessionali ai ceti). Da quel momento il sovrano e il
supremo garante dell'ordine all'interno dello stato, territorio sempre più
esteso ch'esso governa servendosi di un apparato amministrativo regolato dal
diritto. Il secondo grande risultato e per certi versi una conseguenza del
primo: l'avvento dello stato porta all'erezione di un sistema di diritto
pubblico europeo (ius publicum europeum) assolutamente vincolante per i paesi
che vi aderirono. Anche in questo caso, il tasso di politicità (cioè
l'aggressività delle parti in lotta, gli stati) venne fortemente limitato. La
guerra legittima, intraprese solo dagli stati, vennero condotte da quel momento
in base alle regole dello ius publicum europaeum. Si tratta quindi di un
conflitto a basso tasso di politicità, non foss'altro perché la vittoria di una
delle parti in lotta non puo portare in alcun modo all'annientamento
dell'avversario, il cui diritto di esistenza era tutelato dal diritto e
accettato da tutti gli stati. La crisi dello ius publicum europaeum,
divenuta palese alla fine della Grande Guerrae acuitasi ulteriormente con lo
scoppio delle guerre partigiane nei decenni successivi, resero palese a lui la
fine della regle de droit su cui si e fondato l'universo giuridico occidentale
nei rapporti internazionali tra stati sovrani. La guerra civile e, in modo
particolare, l'estrema politicizzazione avvenuta durante le guerre mondiali con
la criminalizzazione degli avversari lo persuasero che la fine dello ius
publicum europaeum era ormai compiuta. In questo, vide soprattutto il
fallimento della civiltà giuridica occidentale nel suo supremo tentativo di
fondare i rapporti umani unicamente sulle basi del diritto. Prende atto
della fine dello ius publicum europaeum ma non crede che tale processo segna la
fine del diritto e la vittoria definitiva delle leggi aggressive della
politica. Fondando il suo originale modello sociologico, sostenne che la
comunità e sempre rette su due tipi di rapporti: l'obbligazione politica e il
contratto-scambio. Lo stato e un autentico capolavoro perché, apportando un
contributo decisivo alla sua costituzione, il giurista e riuscioi a regolare la
politica inserendola in una norma fondata sulla RAZIONALITA del diritto,
sull'IM-PERSONALINTA del comando e sui concetti di CON-TRATTO e rappresentanza
-- elementi appartenenti alla sfera del contratto/scambio. Il crollo dello
ius publicum europeum ha però messo in crisi la stessa impalcatura su cui si
regge lo stato, che ora dimostra tutta la sua storicità. Non rimane legato
all'idea dell'organizzazione statale. La civiltà occidentale, stesse
attraversando una fase di transizione al termine della quale lo stato e probabilmente
sostituito da altre forme di comunità ove obbligazione politica e
contratto/scambio si reggeranno in un nuovo equilibrio. Lo stato e e giunto al
capolinea. Il progresso tecnologico e, in modo particolare, il più alto livello
di ricchezza cui erano giunti i paesi occidentali lo convinsero che negli anni
successivi sono avvenuti cambiamenti di portata radicale, tali da coinvolgere
anche la costituzione degli ordinamenti politici. Lo stato ha difficoltà nel
garantire servizi efficienti alla popolazione. Ciascun cittadino, vedendo
accresciuto il proprio tenore di vita in forza dell'economia di mercato,
sarà infatti portato ad avere sempre meno fiducia nei lenti meccanismi della
burocrazia pubblica, ch'egli riterrà inadeguata a soddisfare i suoi standard di
vita. L'elevata produttività dei paesi avanzati e la vittoria definitiva
dell'economia di mercato su quella pubblica porterà in altri termini a nuove
forme di aggregazione politica al cui interno i cittadini saranno desti contare
in misura molto maggiore rispetto a quanto non lo siano oggi nei vasti stati in
cui si trovano inseriti. Secondo il professore gli stati democratici, ancora
fondati su istituti rappresentativi risalenti all'Ottocento, non riusciranno
più a provvedere agli interessi della civiltà tecnologica. Con il crollo del
muro di Berlino e la fine della guerra fredda, si creano in altri termini le
premesse perché la politica cessi di ricoprire un ruolo primario nelle comunità
umane e venga invece subordinata agli interessi concreti dei cittadini, legati
alla logica di mercato. La fine degli stati moderni porterà secondo
Miglio alla costituzione di comunità neofederali dominate non più dal rapporto
politico di comando-obbedienza, bensì da quello mercantile del contratto e
della mediazione continua tra centri di potere diversi: sono i nuovi gruppi in
cui sarà articolato il mondo di domani, corporazioni dotate di potere politico
ed economico al cui interno saranno inseriti gruppi di cittadini accomunati
dagli stessi interessi. Secondo il professore, il mondo sarà costituito da una
società pluricentrica, ove le associazioni territoriali e categoriali vedranno
riconosciuto giuridicamente il loro peso politico non diversamente da quanto
avveniva nel medioevo. Di qui l'appello a riscoprire i sistemi politici
anteriori allo stato, a riscoprire quel variegato mosaico medievale costituito
dai diritti dei ceti, delle corporazioni e, in particolar modo, delle libere
città germaniche. Il professore studiò a fondo gli antichi sistemi
federali esistiti tra il medioevo e l'età moderna: le repubbliche urbane
dell'Europa germanica, gli ordinamenti elvetici d'antico regime, la Repubblica
delle Province Unite e, da ultimo, gli Stati Uniti. Ai suoi occhi, il punto di
forza risiedeva precisamente nel ruolo che quei poteri pubblici avevano saputo
riconoscere alla società nelle sue articolazioni corporative e territoriali. M.
si dedica allo studio approfondito di questi temi, progettando di scrivere un
volume intitolato l'Europa degli Stati contro l'Europa delle città. Il libro è
rimasto incompiuto per la morte del professore. L'impegno politico
diretto e il federalism. S iscrisse alla neonata Democrazia Cristiana, che
lascia quando divenne preside della Facoltà di Scienze politiche
dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. M. rimase comunque legato culturalmente alla DC
fnell'immediato domani della Liberazione, fu tra i fondatori, a Como, del
movimento federalista Il Cisalpino, con altri docenti dell'Università Cattolica
di Milano. Ispirato alle idee di Cattaneo, il programma del “Cisalpino”
prevedeva la suddivisione del territorio italiano su base cantonale, secondo il
modello svizzero, con la costituzione di tre grandi macro-regioni (“nord”, “sud”
e “centro”). Il suo nome e proposto per il conferimento del titolo di
Commendatore dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, ma una volta
informato del fatto rifiuta di accettare l'onorificenza, che venne annullata
con un successivo decreto presidenziale. Si avvicina alla Lega Nord. Eletto al
Senato della Repubblica come indipendente nelle liste della “lega nord” “lega lombarda”
(da allora a lui fu attribuito l'appellativo lombardo di Profesùr) lavora per
il partito con l'intento di farne un'autentica forza di cambiamento. Elabora
un progetto di riforma federale fondato sul ruolo costituzionale assegnato
all'autorità federale e a quella delle tre macro-regioni o cantoni (del Nord o,
“Padania”, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea, oltre alle cinque
regioni a statuto speciale). Questa architettura costituzionale prevedeva
l'elezione di un governo direttoriale composto dai governatori delle tre
macroregioni, da un rappresentante delle cinque regioni a statuto speciale e
dal presidente federale. Quest'ultimo, eletto da tutti i cittadini in due tornate
elettorali, avrebbe rappresentato l'unità del paese. I puntisalienti del
progetto, esposti nel decalogo di Assago vennero fatti propri dalla Lega Nord
solo marginalmente: il segretario federale, Bossi, preferì infatti seguire
una politica di contrattazione con lo stato centrale che mirasse al
rafforzamento delle autonomie regionali. Il dissenso di Miglio, iniziato al
congresso leghista di Assago, si acuì dopo le elezioni politiche, dove fu
rieletto al Senato, quando il professore si disse non d'accordo sia ad allearsi
con Forza Italia, sia a entrare nel primo governo Berlusconi. Soprattutto M.
non gradì che per il ruolo di ministro delle Riforme istituzionali fosse stato
scelto Francesco Speroni al suo posto. Bossi reagì spiegando: «Capisco che
Miglio sia rimasto un po' irritato perché non è diventato ministro, ma non si
può dire che non abbiamo difeso la sua candidatura. Il punto è che era molto
difficile sostenerla, perché c'era la pregiudiziale di Berlusconi e di Fini
contro di lui. Di fatto, il ministero per le Riforme istituzionali a lui non lo
davano. (Se M. vorrà lasciare la strada della Lega, libero di farlo. Ma vorrei
ricordargli che è arrivato alla Lega e che, a quell'epoca, il movimento aveva
già raggranellato un sacco di consiglieri regionali». In conclusione per Bossi,
M. «pare che ponga solo un problema di poltrone e la difesa del federalismo non
è questione di poltrone. In aperto dissidio con Bossi, lascia la Lega Nord
dicendo di Bossi. Spero proprio di non rivederlo più. Per Bossi il federalismo
è stato strumentale alla conquista e al mantenimento del potere. L'ultimo suo
exploit è stato di essere riuscito a strappare a Berlusconi cinque ministri.
Tornerò solo nel giorno in cui Bossi non sarà più segretario. Nonostante
ciò, moltissimi militanti e sostenitori leghisti continuarono a provare grande
simpatia e ammirazione per il professore e per le sue teorie. Alcuni dirigenti
della Lega tennero comunque vivo il dialogo con Miglio, in particolar modo
Pagliarini, Francesco Speroni e il presidente della Libera compagnia padana
Oneto, al quale il professore era particolarmente legato. In particolare M. fu
in stretti rapporti con l'ex deputato leghista Negri, col quale fonda il Partito
Federalista. Eletto ancora una volta al Senato, nel collegio di Como per il
Polo per le Libertà, iscrivendosi al gruppo misto. Negli anni in cui la
Lega si spostò su posizioni indipendentiste, il professore si riavvicinò alla
linea del partito, sostenendo a più riprese la piena legittimità del diritto di
secessione della Padania dall'Italia come sottospecie del più antico diritto di
resistenza medievale. Nella sua originale riflessione sul contrasto tra i
regimi giuridici freddi e caldi M. sostenne la necessità di sviluppare,
all'interno delle diverse società e culture, ordini giuridici in grado di
rispondere alle specifiche esigenze. In maniera provocatoria, egli giunse a
dichiararsi favorevole al «mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta.
Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che
cos'è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre
il Meridione al modello europeo, sarebbe un'assurdità. C'è anche un
clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire
dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere
costituzionalizzate». La sua riflessione puntava a cogliere quali fossero le
ragioni profonde alla base di mafia, camorra e 'ndrangheta (insieme a ciò che
genera il consenso attorno a queste organizzazioni criminali), perché solo
istituzioni che sono in sintonia con la comunitànel caso specifico, che non
dimentichino la centralità del rapporto personale piuttosto che impersonale
nella società meridionalepossono creare una vera alternativa al presente. Altre
saggi: “La controversia sui limiti del commercio neutrale: ricerche sulla
genesi dell'indirizzo positivo nella scienza del diritto delle genti,” Milano,
Ispi, La crisi dell'universalismo politico medioevale e la formazione
ideologica del particolarismo statuale moderno, Pubbl. Fac. giurispr. Univ.
Padova, La struttura ideologica della monarchia greca arcaica ed il concetto
patrimoniale dello stato nell'eta antica, Jus. Rivista di scienze giuridiche, Le
origini della scienza dell'amministrazione, Milano, Giuffrè, L'unità fondamentale di svolgimento
dell'esperienza politica occidentale, in: "Rivista internazionale di
scienze sociali", “I cattolici di fronte all'unità d'Italia, Vita e
pensiero, “L'amministrazione nella dinamica storica, in: Istituto per la
Scienza dell'Amministrazione Pubblica, Storia Amministrazione Costituzione, Bologna,
Mulino, Le trasformazioni dell'attuale regime politico, in: "Jus. Rivista
di scienze giuridiche", “ Il ruolo del partito nella trasformazione del
tipo di ordinamento politico vigente. Il punto di vista della scienza della
politica, Milano, La nuova Europa editrice, L'unificazione amministrativa e i
suoi protagonisti, Vicenza, Neri Pozza, La trasformazione delle università e
l'iniziativa privata, in: Atti del I Convegno su: Università: problemi e
proposte, promosso dal Rotary Club di Milano, Centro Una Costituzione in corto
circuito, Prospettive nel mondo", Ricominciare dalla montagna. Tre
rapporti sul governo dell'area alpina nell'avanzata eta industriale, Milano,
Giuffrè, La Valtellina. Un modello
possibile di integrazione economica e sociale, Sondrio, Banca Piccolo Credito
Valtellinese, Utopia e realtà della Costituzione, in "Prospettive del
mondo", Posizione del problema. Ciclo storico e innovazione
scientifico-tecnologica. Il caso della tarda antichità, in Tecnologia, economia
e società nel mondo romano. Atti del Convegno di Como, Como, Genesi e
trasformazioni del termine-concetto Stato, in Stato e senso dello Stato oggi in
Italia. Atti del Corso di aggiornamento culturale dell'Università cattolica,
Pescara, Milano, Vita e pensiero, Guerra, pace, diritto. Una ipotesi generale
sulle regolarità del ciclo politico, in Curi, Della guerra, Venezia, Arsenale,
Una repubblica migliore per gli italiani. Verso una nuova costituzione, Milano,
Giuffrè, Le contraddizioni interne del sistema parlamentare integrale, Rivista
italiana di Scienza Politica, Considerazioni sulle responsabilità, Synesis,
periodico dell'Associazione italiana centri culturali", Le regolarità
della politica. Scritti scelti raccolti e pubblicati dagli allievi, Milano,
Giuffrè, Il nerbo e le briglie del
potere. Scritti brevi di critica politica, Milano, Edizioni del Sole 24 ore,
Una Costituzione per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica,
Roma-Bari, Laterza, Per un'Italia federale, Milano, Il Sole 24 ore, Come
cambiare. Le mie riforme, Milano, Mondadori, Italia. Così è andata a finire,
con "Il Gruppo del lunedì", Collezione Frecce, Milano, Mondadori, ed.
Oscar Saggi, Disobbedienza civile,
Milano, Mondadori, Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei IV anni
sul Carroccio, Milano, Mondadori, Come cambiare. Le mie riforme per la nuova
Italia, Milano, Mondadori, Modello di Costituzione Federale per gli italiani,
Milano, Fondazione per un'Italia Federale, Federalismi falsi e degenerati,
Milano, Sperling e Kupfer, Federalismo e secessione. Un dialogo, con Barbera,
Milano, Mondadori, Padania, Italia. Lo stato nazionale è soltanto in crisi o non
è mai esistito?, con M. Veneziani, Firenze, Le Lettere, Le barche a remi del
Lario. Da trasporto, da guerra, da pesca, e da diporto, con Gozzi e Zanoletti,
Milano, Leonardo arte, L'Asino di
Buridano. Gli italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro
destino, Vicenza, Pozza, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese con
l'ultima occasione di cambiare il loro destino. Nuova edizione, pref. Di Formigoni,
postf. di Romano, Varese, Lativa, M.: un uomo libero, coll. Quaderni Padani, La
Libera Compagnia Padana, Novara, Un M. alla libertà, audiolibro, coll. Laissez
Parler, Treviglio, La Libera Compagnia Padana Facco Editore); li articoli, coll.
Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Gianfranco le interviste,
coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, L'Asino di Buridano. Gli italiani alle prese
con l'ultima occasione di cambiare il loro destino, pref. di Formigoni, coll. I
libri di Libero M., Firenze, Libero); “Padania, Italia. Lo stato nazionale è
soltanto in crisi o non è mai esistito? Firenze, Libero; Federalismo e
secessione. Un dialogo, con Barbera, coll. I libri di Libero M. Firenze,
Editoriale Libero, Disobbedienza civile, coll. I libri di Libero; Firenze,
Libero, La controversia sui limiti del commercio neutrale fra Lampredi e
Ferdinando Galiani, pref. di Ornaghi, Torino, Aragno, M.: scritti brevi,
interviste, coll. Quaderni Padani, La Libera Compagnia Padana, Novara, Lezioni
di politica. Storia delle dottrine politiche. Scienza della politica Bologna,
Il Mulino; Bianchi e Vitale, Bologna, Mulino,Discorsi parlamentari, con un
saggio di Bonvecchio, Senato della Repubblica, Archivio storico, Bologna,
Mulino, L'Asino di Buridano. Gli
italiani alle prese con l'ultima occasione di cambiare il loro destino -- Opere
scelte” (Milano, Guerini); Considerazioni retrospettive e altri scritti, coll.
Opere scelte, Milano, Guerini e Associati,
Lo scienziato della politica, coll. Opere scelte di M., a cura di Galli,
Milano, Guerini, Guerra, pace, diritto, La Nuova Guerra, S.l. Milano, La
Scuola, 1 Scritti politici, Bassani, coll. I libri del Federalismo, Roma,
Pagine, Modello di Costituzione Federale per gli italiani Torino, Giappichelli;
“La Padania e le grandi regioni, L'unità economico-sociale della Padania Fano,
Associazione Oneto); “Il Cerchio, Schmitt. Saggi, Palano, Brescia, Scholé Morcelliana); “Le origini e i primi sviluppi delle
dottrine giuridiche internazionali pubbliche Torino, Aragno; “Vocazione e destino
dei Lombardi” (S.l.Milano); “Regione Lombardia, Prefazioni Oneto, Bandiere di
libertà: Simboli e vessilli dei Popoli dell'Italia settentrionale. In appendice
le bandiere dei popoli europei in lotta per l'autonomia, Effedieffe, Milano,
Morra, Breve storia del pensiero federalista Milano, Mondadori; Governo della
Padania, Manuale di resistenza fiscale” (Gallarate, Oneto, “Croci draghi aquile
e leoni. Simboli e bandiere dei popoli padano-alpini; Roberto Chiaramonte
EditoreLa Libera Compagnia Padana, Collegno; Sensini, Prima o seconda Repubblica?
A colloquio con Bozzi e M., Napoli, Edizioni scientifiche italiane, Ornaghi e
Vitale, Multiformità e unità della politica. Atti del Convegno tenuto in
occasione del compleanno, Milano, Giuffrè, Ferrari, “Storia di un giacobino
nordista Milano, Liber internazionale); Bevilacqua, Insidia mito e follia nel
razzismo; Il rinnovamento, Campi, “Figure e temi del realismo politico europeo,
Firenze, Akropolis La Roccia di Erec, Capua, Scienziato impolitico Soveria
Mannelli Catanzaro Rubbettino, Vitale, La costituzione e il cambiamento
internazionale. Il mito della costituente, l'obsolescenza della costituzione e
la lezione dimenticata, Torino, CIDAS, Luca Romano, Il pensiero federalista una
lezione da ricordare. Atti del Convegno di studi, Venezia, Sala del Piovego di
Palazzo Ducale, Venezia, Consiglio regionale del Veneto-Caselle di
Sommacampagna, Cierre, Lanchester, M. costituzionalista, Rivista di politica:
trimestrale di studi, analisi e commenti, Soveria Mannelli Catanzaro, Rubbettino. Damiano
Palano, Il cristallo dell'obbligazione politica in ID., Geometrie del potere.
Materiali per la storia della scienza politica italiana, Milano, Vita e
Pensiero. Maroni: voglio riprendere l'eredità di M. M. Verde, su miglio verde. eu.
Bossi a sorpresa al convegno su M. a Domaso:"Un grande"Ciao Como, su
Ciao Como, la Repubblica/politica: È morto su repubblica. Ticino COMO: Lunedì a
Domaso i funerali. Riletture. Arianna. il ricordo. Terre di Lombardia, su
terredilombardia. Alessandro, Cristianesimo e cultura politica: l'eredità di
otto illustri testimoni, Paoline, Morra, La vita e le opere, La Voce di Romagna
Il silenzio di M. fa paura alla Lega
Bossi: Pensa solo alla poltrona. "Con Bossi è un amore
finito" Miglio torna nell'arena: è
l'occasione buona M., Una repubblica
mediterranea?, in Un'altra Repubblica?
Perché, come, quando, Laterza, Roma-Bari, U. Rosso, M. l'antropologo. 'Diverso
l'uomo del Sud', in la Repubblica, Non mi fecero ministro perché avrei
distrutto la Repubblica Treccani Istituto dell'Enciclopedia. Dizionario di
storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. su senato, Senato della Repubblica.
Associazione Openpolis. Istituto per la
scienza dell'amministrazione pubblica, su isapistituto. Interviste Intervista
sulla Secessione della Padania, su prov-varese. Lega nord. Commemorazione
di M. nell’anniversario della scomparsa di Campi, su giovani padani. lega nord.
Non mi fecero ministro perché avrei distrutto la Repubblica, Il Giornale, su
new rassegna.camera. Interviste a M. sui "Quaderni della Libera Compagnia
Padana" su la libera compagnia. Documenti politici Sezione di
approfondimento sul pensiero di M., dal sito ufficiale della Lega Nord. Gianfranco
Miglio. Miglio. Keywords: implicatura ligure. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Miglio,” per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Speranza “Saturdays and
Mondays” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Millia: la ragione conversazionale della setta dell’ottimati a Crotone -- Roma
– filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo
italiano. Pythagorean according to Giamblico. He is said to have been one of a
group of Pythagoreans who were ambushed but found their escape route blocked by
a field of beans. Being prohibited by Pythagoreans precepts from even touching
beans, he preferred death to betraying his principles. Millia.
Grice e Milone: la
ragione conversazionale e la setta d’ottimati di Crotone – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According
to Giamblico, a Pythagorean. He studied with Pythagoras himself. He died when
an anti-Pythagorean mob burnt his house down when he was inside it.
Grice e Minicio: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale d’Adriano nel diritto
romano e Plinio minore-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Rescritto di Adriano a
Gaio M. Fundano. L'imperatore Adriano, autore del rescritto a Gaio M. Fundano.
Il rescritto di Adriano a Gaio Minucio Fundano è un rescritto imperiale inviato
dall'imperatore romano Adriano a Gaio Minucio Fundano, proconsole d'Asia. Il
documento giuridico, scritto originariamente in latino, fu tradotto e tràdito
in greco ellenistico da Eusebio di Cesarea che si rifaceva a Giustino. Il
testo è noto agli storici e agli studiosi di Storia del Cristianesimo per
essere uno dei più antichi scritti pagani sul cristianesimo. Il documento
di Adriano, pur indirizzato a Minucio Fundano, rispondeva in realtà a
un'istanza sollecitata da Quinto Licinio Silvano Graniano, predecessore del
destinatario: Graniano aveva chiesto lumi sul comportamento da tenere nei
confronti dei cristiani e delle accuse che venivano loro rivolte. Adriano
rispose al proconsole di procedere nei loro confronti solo in presenza di
eventi circostanziati, emergenti da un procedimento giudiziario e non sulla
base di accuse generiche, petizioni o calunnie: veniva stabilito così il
principio dell'onere della prova a carico dei promotori delle accuse. Eventuali
azioni promosse a scopo di calunnia dovevano, al contrario, essere duramente
perseguite e punite, affinché non fosse permesso ai calunniatori di procurare
del male. Il rescritto, che è una delle prime fonti pagane sul cristianesimo, è
anche di somma importanza per la comprensione della politica tenuta da Adriano
e dal suo predecessore Traiano nei confronti dei cristiani: Adriano, infatti,
si mosse su un piano analogo, e anche più garantista, rispetto a quello del suo
predecessore che si era espresso sull'argomento in un precedente rescritto
sollecitato da una specifica richiesta di Plinio il Giovane che era a quel
tempo legatus Augusti pro praetore in Bitinia e Ponto. Giustino sostenne
l'interpretazione più favorevole del rescritto, accettata da una parte della
storiografia moderna. Dubbi esegetici Il significato esatto del rescritto
adrianeo, pur confrontato con quello di Traiano, rimane per alcuni studiosi
controverso. Se è assodata, infatti, l'affermazione del principio dell'onere
della prova da cui, in definitiva, far dipendere la perseguibilità dei
cristiani che avessero agito «contro la legge», non è per tutti chiaro, invece,
fino a qual punto dovesse spingersi l'assolvimento di quell'onere, se fosse
cioè sufficiente provare la sola fattispecie della professione di fede (quello
che Plinio, nella sua epistola a Traiano, chiama il nomen ipsum) o si rendesse
invece necessario circostanziare anche la contemporanea presenza di reati
ascrivibili all'essere cristiani (flagitia cohaerentia nomini), la distinta
fattispecie che Plinio già individuava e intendeva suggerire all'imperatore
nell'indirizzargli la sua richiesta. Tesi di Marta Sordi Marta Sordi,
storica dell'antichità greco-romana e del cristianesimo delle origini, propendeva
per l'interpretazione più favorevole ai cristiani, una posizione esegetica a
cui peraltro già aderiva l'apologetica cristiana, da Giustino in poi. Secondo
la Sordi, Adriano, in linea con la politica del suo predecessore Traiano,
avrebbe non solo confermato il divieto di perseguibilità d'ufficio[8] ma vi
avrebbe anche aggiunto, di suo, due nuovi elementi: Il primo di essi la
Sordi lo individua in quel passo in cui Adriano afferma la necessità di dover
giudicare «secondo la gravità della colpa» (sempre nel caso - beninteso - di
una denuncia sorretta da prove). Il riferimento a una graduabilità della colpa
escluderebbe, secondo Marta Sordi, che quest'ultima potesse ridursi al solo
'essere cristiani', una fattispecie che poteva rivelarsi vera o falsa, ma che
non poteva ammettere graduazioni: seguendo questa interpretazione, bisogna
quindi ritenere necessaria l'associazione a un diverso reato, ascrivibile allo
status religioso ma non coincidente semplicemente con questo. Questa
interpretazione, inoltre, sempre secondo la studiosa, sarebbe in sintonia con
il tono generale della prosa dell'imperatore, da cui trapela, infine, persino
insofferenza nei confronti di possibili derive intolleranti. L'espressione di
questa insofferenza, sottolineata anche da un'interiezione, è contenuta nella
frase «ma, per Ercole, se qualcuno accampa pretesti per calunniare, tu,
stabilitane la gravità, devi senza indugio punirlo». E proprio in questa frase
si rinviene, secondo Sordi, il secondo elemento di novità rispetto
all'atteggiamento del predecessore: la necessità che le conseguenze di
azioni prive di prova, e pertanto temerarie e calunniose, dovessero ritorcersi
contro gli stessi proponenti. Gianluigi Bastia, Lettera di Adriano, Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, Giustino
Martire, Apologia Il testo greco, in
Giustino, è riportato in calce (v. Apologia. Rescritto di Adriano a Caio M.
Fundano, proconsole d'Asia (o su
Giustino, Apologia Plinio il Giovane, Epistulae Plinio il Giovane, Epistulae.
CIL Sordi, I Cristiani e l'impero romano, Jaca Book, Milano. Sordi, I Cristiani
e l'impero romano, Jaca, Milano, Bastia, Lettera di Adriano. Eusebio di
Cesarea, Storia Ecclesiastica, Giustino
Martire, Apologi, Plinio il Giovane, Epistulae, CIL, M. Fundano, Gaio, in
Treccani Enciclopedie on line, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Voci
correlate Rescritto di Traiano a Plinio il Giovane Fonti storiche non cristiane
sul cristianesimo Gesù storico Storiografia su Gesù Ricerca del Gesù storico
Storicità di Gesù Onere della prova Ius puniendi Portale Antica
Roma Portale Cristianesimo Portale Diritto Portale Gesù
Categorie: Fonti del diritto romanoStoria antica del cristianesimo Adriano [altre]
Military diploma (CIL) attesting his consulship suffect consul. In office Nationality: Roman;
Occupation: politician. A Roman senator who holds several offices in the
Emperor's service, and is an acquaintance of PLINIO MINORE. He is suffect
consul with Tito Vettenio Severo as his colleague. He is best known as being
the recipient of an edict from ADRIANO (si veda) about conducting trials of
Christians in his province. This is known from an inscription recovered at Baloie
in Bosnia. The first office listed is military tribune with Legio XII
Fulminata. Next is quaestor, and, upon completion of this traditional
Republican magistracy, he would be enrolled in the Senate. Two more of the
traditional Republican magistracies follow: plebeian tribune and praetor. The
last appointment, before the inscription breaks off, is his commission as
legatus legionis or commander of Legio XV Apollinaris. Other sources attest
that he was governor of Achaea. The terminus post quem his governorship is when
Gaio Caristanio Giuliano is known to have governed. The terminus ante quem he
leaves his post is the year of his consulate, although the letters he receives
from PLINIO MINORE (si veda) indicate he is no longer in Achaea. The
inscription from Baloie mentions he has been admitted to the Septem-viri
epulonum, one of the four most prestigious ancient Roman priesthoods. Because
this inscription does not mention his consulate, it can be assumed his entrance
precedes that office. Most, if not all,
of the letters PLINIO MINORE (si veda) writes to M. fall before is suffect
consul. In the first letter of his collection, PLINIO declares that living on
his rural estate is preferable to living in Rome, where he is subject to
constant pleas for assistance. The second letter petitions him to appoint the
son of Plinio’s friend ASINIO RUFO as M’s quaestor for M.’s upcoming consulate;
The last letter is another petition to M., canvassing him on behalf of GIULIO
NASONE, who is running for an unnamed office. While all of these letters
demonstrate M. And PLINIO MINORE are acquainted, they fail to show the warmth
of a friendship. Following his
consulate, during the reign of TRAIANO, M. is governor of Dalmatia. It is through a rescript the historian EUSEBIO
preserves at length in his Ecclesiae Historia that we know M. is proconsul of
Asia. M.' predecessor, QUINTO LICINIO SILAVNO GRANIANO, asks ADRIANO how to
handle legal cases where some inhabitants are accusing their neighbours of not
following the Roman cult through informers or mere clamour. ADRIANO’s reply is to
state that any such accusations had to be through a law court, where the matter
may be properly investigated, and if they are guilty of any illegality, thou M.,
must pronounce sentence according to the seriousness of the offence. This
rescript is important as an independent witness to the existence of one or more
non-Roman sects in this part of Anatolia. The only other contemporaneous
evidence we have for these communities is the list of the VII churches of Asia
in the book of Revelation. M.’s wife is
the daughter of a MARCO STATORIO. We know her name from a funerary inscription,
which suggests that she died before M.’s consulship. The name of their
daughter, Minicia Marcella, comes from two independent sources. Minicia dies young.
Her funerary vase has been identified, which states her age at death as XII
years, XI months, and VII days. PLINIO MINORE also attests to her existence,
revealing information about the girl that shows that he and M. are better
friends than the surviving letters he writes to M. suggest. In the letter,
addressed to one EFULANO MARCELLINO, Pliny notes that, although she was not yet
XIV years old, she was betrothed. Pliny describes the preparations for her
wedding, with which M. was busy; and he asks Marcellinus to send M. a letter
consoling him for his loss. It is not known if M. has any other children. Smallwood, Principates of Nerva, Trajan and
Hadrian, Cambridge, CIL, ILJug., Talbert, The Senate of Imperial Rome, Princeton;
Wheeler, "Legio XV Apollinaris: From Carnuntum to Satala—and beyond",
in Bohec and Wolff, eds. Les Légions de Rome sous le Haut-Empire, Paris; Eck,
"Jahres- und Provinzialfasten der senatorischen Statthalter”, Chiron; Pliny,
Epistulae, I.9 Syme, Tacitus, Clarendon;
Eusebius, Ecclesiae Historia; Williamson, Eusebius: The History of the Church, Harmondsworth:
Penguin; Political offices Preceded by Acilius Rufus, and Quintus Sosius
Senecio II Consul of the Roman Empire with Titus Vettennius Severus Succeeded
by Gaius Julius Longinus, and Gaius Valerius Paullinus Categories: Roman
governors of AchaiaSuffect consuls of Imperial RomeRoman governors of
DalmatiaRoman governors of Asia Epulones of the Roman Empire Minicii. Keywords: Roman law, Adriano a Minicio -- Gaio
Minicio Fundano. Minicio.
Grice e
Minnomaco: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia
pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Taranto, Puglia. A Pythagorean
according to Giamblico. Grice: “Cicerone argues: Minnomaco speaks Greek;
therefore he is no Roman!” Minnomaco.
Grice e Minucio: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’eulogio ad Ottavio
da Frontone -- Roma – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He writes “Ottavio” – draws on a
speech by Frontone. La gente: Minucia
Marco Minucio Felice Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Marco M. Felice
(in latino; Marcus M. Felix; Cirta, filosofo, scrittore e avvocato romano. Non è noto
con certezza quando visse. Il suo Octavius è simile all'Apologeticum di Quinto
Settimio Fiorente Tertulliano, e la datazione della vita di Felice dipende dal
rapporto tra la sua opera e quella dello scrittore africano morto nel 230.
Nelle citazioni degli autori antichi (Seneca, VARRONE, CICERONE) è considerato
più preciso di Tertulliano e questo concorderebbe col suo essere anteriore ad
esso, come afferma anche Lattanzio;[1] Girolamo lo vuole, invece, posteriore a
Tertulliano, sebbene si contraddica dicendolo posteriore a Tascio Cecilio
Cipriano in una lettera e anteriore in un'opera Per quanto riguarda gli estremi
della sua esistenza, Felice menziona Marco Cornelio Frontone; il trattato Quod
idola dii non sint è basato sull'Octavius; dunque se quello è di Cipriano, M.
Felice non fu attivo oltre il 260, altrimenti il termine ante quem è
Lattanzio. Anche la zona d'origine di M. è sconosciuta. Lo si ritiene
talvolta di origine africana, sia per la sua dipendenza da Tertulliano, sia per
i riferimenti alla realtà africana: la prima ragione, però, non è indicativa,
in quanto dovuta al fatto che all'epoca i principali autori di lingua latina
erano africani, e dunque il loro era lo stile cui ispirarsi; la seconda,
inoltre, potrebbe dipendere esclusivamente dal fatto che il personaggio pagano
dell'Octavius, Cecilio Natale, era africano, come attestato da alcune
iscrizioni. Cionondimeno, è significativo che entrambi i personaggi
dell'Octavius abbiano nomi citati in iscrizioni africane, e che lo stesso valga
per il nome M. Felice.Octavius L'Octavius è un dialogo che ha per
protagonisti lo stesso scrittore, Cecilio e Ottavio e che si svolge sulla
spiaggia di Ostia. L'opera si è conservata per errore dopo i sette libri
dell'Adversus nationes di Arnobio come (liber) octavus. Mentre i tre
passeggiano sul litorale, Cecilio, di origine pagana, compie un atto di omaggio
nei confronti della statua di Serapide. Da ciò nasce una discussione in cui
Cecilio attacca la religione cristiana ed esalta la funzione civile della
religione tradizionale, mentre Ottavio, cristiano, attacca i culti idolatrici
pagani ed esalta la tendenza dei cristiani alla carità e all'amore per il
prossimo. Alla fine del dialogo Cecilio si dichiara vinto e si converte
al Cristianesimo, mentre Minucio, che funge da arbitro, assegna ovviamente la
vittoria ad Ottavio. Il Cristianesimo di M. è lo stesso dei ceti
dirigenti, che non vogliono che il cambiamento di religione sia accompagnato da
sommovimenti sociali e sono convinti che debbano, comunque, sopravvivere la
finezza e l'equilibrio costruiti da secoli di civiltà greco-latina. Del resto,
di questo ceto sono i personaggi dell'Octavius, tutti e tre avvocatiː il
pagano, Cecilio Natale, era nativo di Cirta (dove l'omonimo registrato dalle
iscrizioni aveva ricoperto cariche sacerdotali) e viveva a Roma, come Minucio,
di cui seguiva l'attività forense; Ottavio, invece, è appena arrivato nella
capitale all'epoca in cui è ambientata l'opera, e ha lasciato la propria
famiglia nella provincia d'origine. Girolamo gli attribuisce una seconda
opera, De fato, di cui però non vi sono tracce. Divinae Institutiones, De
viris illustribus, Ottavio Ianuario a Saldae, CIL, e Cecilio a Cirta. A Tébessa e Cartagine. Bracci, Il linguaggio di M.
Felice. Fra dialogo filosofico e disputa religiosa, in Controversie: dispute
letterarie, storiche, religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura di G.
Larini, Padova, Libreriauniversitaria Vecchiotti, La filosofia politica di M.
Felice. Un altro colpo di sonda nella storia del cristianesimo primitivo,
Urbino, Università degli Studi, De viris illustribus L'Ottavio di Marco M.
Felice in italiano: play. google. com/ books/ reader?id=xj GOJAAAAEAJ& pg=GBS.PA0
Paul Lejay, «Minucius Felix», in Catholic EncyclopediaBracci, Il linguaggio di
Minucio Felice. Fra dialogo filosofico e disputa religiosa, in Controversie:
dispute letterarie, storiche, religiose dall'Antichità al Rinascimento, a cura
di G. Larini, Padova, Libreriauniversitaria.it, M. Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Marco M. Felice, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Marco M.
Felice, Cyclopædia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature,
Harper. Opere di Marco M. Felice, su MLOL,
Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di Marco M. Felice
Marco M. Felice (altra versione), su LibriVox. Marco M. Felice, Catholic Encyclopedia, Robert
Appleton, Higgins, Felix, M., Encyclopedia of Philosophy. Opera Omnia dal Migne, Patrologia Latina, con indici
analitici, su documenta catholica omnia. eu.. V D M Padri e dottori della
Chiesa cattolica Portale Antica Roma Portale Biografie Portale
Cristianesimo Portale Letteratura Categorie: Scrittori romaniAvvocati
romaniScrittori Scrittori Romani Romani Nati a Cirta Apologeti Padri della
Chiesa Scrittori africani di lingua latina Scrittori cristiani antichi [altre]
M. – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. CONGRESSO
DI SCIENZE STORICHE, Roma. Sezione Storia della Filosofìa Storia delle
Religioni. L’APOLOGETICO DI TERTULLIANO E L’OTTAVIO DI M. COMUNICAZIONE di
RAMORINO ROMA LINCEI SALVIUCCI. Ancora non è stata risolta in
modo definitivo la questione dei rapporti che intercedono tra il discorso di
Tertulliano in difesa de’ Cristiani e il dialogo di M. Felice, dove alle accuse
formolate in un discorso d' ispirazione pagana messo in bocca a Cecilio
Natale, op- ponesi una eloquente difesa del Cristianesimo per bocca di
Ottavio dal quale il dialogo prende nome. Ancora non sono state date
sufficienti ragioni per stabilire se Tertulliano abbia avuto sott’ occhio
M., o se invece questi abbia tratto da quello come da sua fonte, e
quindi quale dei due abbia da considerarsi come cronologicamente
anteriore. La questione ha un vero interesse per la storia del
Cristianesimo in Occidente perchè trattasi delle prime scritture latine
d' ispirazione cristiana, e dipende di qui il sapere chi primo abbia
divulgato fra le genti di parlata latina le ragioni addotte dagli
Apostoli del Cristianesimo, già da più decenni diffuse tra i Greci. Tale
questione sorge dal fatto che tra le due opere corrono tali e tante
analogie di pensiero e di frase, da dover senz’altro ritenere che l’un
dei due abbia avuto sott’occhio l’altro. Si può ben congetturare anche, e s’ è
in fatto congetturato, abbiano entrambi attinto a una fonte comune, che
per noi sarebbe perduta. Primo propose quest’ ipotesi l’ Hartel, poi
cercò sostenerla in apposita monografia il Wilhelm. Più tardi De Lagarde pensa
a dirittura a un’apologià scritta da papa Vittore I da cui Tertulliano e
M. avrebbero copiato a man salva; infine l’Agahd in una sua ricerca di cose
Varroniane, voi. supp. dei Jahrbiicher di Fleckeisen, ammettendo anche
egli un’apologià cristiana latina anteriore a Tertulliano e M., ne
investigò le fonti in VARRONE e in qualche altro libro dell’età alessandrina.
Ma noi vedremo che i riscontri verbali tra l’Apologetico e l’Ottavio sono
tanti e tali da escludere l’ipotesi d'una terza fonte co- mune, se non
forse per uno speciale punto di dottrina derivato dalla scuola di
Euemero. Tra quelli che rinunziando all’ipotesi di una terza fonte
comune, riducono la questione ai soli Tertulliano e M., gli uni
credono anteriore M., gli altri Tertulliano, e le due schiere sono
egual- mente notevoli per numero e autorità di aderenti. I fautori della
prio- rità di M., come si fan forti di una espressione di Lattanzio,
così vantano l’adesione di uomini quali Eber, Baehrens, Norden,
ecc. Gli altri si rifanno dall’attestazione di Gerolamo, e hanno compagni
uomini di incontestato valore come Schultze, Neumann, Harnack, nome che
vai da solo per molti. Ultimamente si schierò da questa parte anche il
francese Monceaux che con tanto studio e dottrina s’ è occupato della
letteratura affricana. Non è qui il luogo di ripetere le ragioni
addotte da tutti questi studiosi, nè di discuterle. Intendo qui di
istituire un confronto, il più completo possibile, di luoghi Minuciani e
Tertullianei, presentandoli in modo che ne riesca chiaro il contenuto e
sia facile ai lettori di trarne le debite conclusioni. Prendo per base il
discorso di Tertulliano, seguendone l’argomento come filo conduttore, e
additando via via i luoghi paralleli di M. Nei primi tre capitoli del suo
Apologetico, mira Tertulliano a far vedere, come fosse iniquo l’odio che
si aveva contro i Cristiani. Vol- gendo nell’esordio la parola ai
reggitori del Romano Impero, dice che, se non era loro lecito fare una
pubblica inchiesta intorno alla causa dei Cristiani, se a questo solo
fattispecie o temevano o arrossivano di volgere l’attenzione
pubblicamente, e se le troppe condanne private avevano compromesso la
difesa della setta cristiana, doveva pur essere lecito a lui cercar di
giungere alle loro orecchie per la via letteraria; la verità cristiana
ben sapere di essere peregrina sulla terra e di trovar facilmente nemici
tra gli estranei, ma non voler essere condannata senza essere conosciuta.
Condannarla inascoltata essere una iniquità, e far nascere il sospetto
che i governanti non vogliano ascoltare ciò che non potrebbero più
condannare conoscendolo. La scusa dell’ignoranza non essere che apparente, anzi
aggravare il carico dell’iniquità; perchè qual più trista cosa che
l’odiare quel che si ignora, anche se la cosa meriti effettivamente odio?
Se poi si viene a sapere che la cosa non meritava odio, chi era solo
colpevole d’ignoranza, cessata questa, cessa anche di odiare; come fanno
appunto i convertiti al Cristianesimo, i quali cominciano a odiare quel
che erano e a professare quel che prima odiavano. Invece, dice
Tertulliano, gli avversari nostri segnalano bensì il fatto delle molte
conversioni, ma, anziché arguire che ci sia sotto qualche gran bene,
seguitano a ignorare e a odiare. Si dirà che le molte conversioni non
vogliono dir nulla, perchè ci si volge anche al male. Ma il male,
avvertasi, per natura o si teme o se ne ha vergogna; ed è perciò che i
malvagi voglion rimanere nascosti; sorpresi trepidano, accusati negano,
anche tormentati non sempre confessano, e condannati poi n’han dolore. I
Cristiani non si vergognano, non si pentono; si gloriano d’ esser notati
; accusati non si difendono ; interrogati confessano ; anzi confessano
spontaneamente, e condannati ringraziano. Non è dunque questo un male se
non ha le circostanze connaturate al male, il timore, il rossore! il
pentimento, il rimpianto. Anche la procedura che si segue con noi
Cristiani, continua Tertulliano, è iniqua. Non ci si concede libertà di
difesa, e si vuol da noi soltanto la con- fessione del nome, senza poi
esaminare il crimine. E mentre per un omicida, per un incestuoso, per un
nemico pubblico si indagano le cir- costanze dei fatti, il numero, il
luogo, il tempo, i complici dei delitti, per noi non si procede così ;
anzi un famoso editto di Traiano ha proi- bito che si inizino processi
contro noi, mentre poi ha disposto che data una denunzia, ci si deva
punire ; disposizione contradittoria ed ingiusta. Si viene così ad
applicare per noi un’assurda procedura, quella di torturarci, non per
farci confessare come gli altri, sì perchè neghiamo, mentre se si
trattasse di male, noi staremmo sulla negativa, e la tor- tura ci si
applicherebbe per farci confessare. È evidente che non un delitto è in
causa nel caso nostro, ma solo il nome. Si arriva al punto di biasimare
uno che si riconosce come un galantuomo, solo perchè è cristiano; si
cacciano via dalle case, anche contro ogni interesse, le mogli pudiche e
i buoni servi, solo perchè cristiani; è tutto in odio al nome. Ma che
cos’ ha di male questo nome che significa « unti » o, se si piglia la
forma « Crestiani » usata talvolta per errore, ha a connettersi con «
buono » ? Odiasi forse ia setta per il nome del suo autore ? Ma
anche le sette dei filosofi sono denominate dai loro autori, e niuno se
n’offende. Prima di odiare il nome, conveniva indagare e riconoscere dalle
qualità della setta l’autore o da quelle dell’autore la setta ; invece non si è
fatto e non si fa nulla di questo, e si seguita a far ingiusta guerra al
nome. Fin qui l’ introduzione dell’Apologetico Tertullianeo. Con le
idee qui espresse si ha qualche riscontro nell’Ottavio, a metà
circa del discorso in difesa della nuova dottrina. Accenna Ottavio all’opera
dei cattivi spiriti che insinuano l’odio contro i Cristiani anche prima
che siano conosciuti. Il capitolo seguente tocca la procedura usata coi
Cristiani, e Ottavio ricorda che anche egli prima, credendo alle solite
calunnie, usava le stesse arti diaboliche contro i Cristiani. I demonii
appunto ispirano quelle dicerie sciocche le quali, se mai, hanno un fondo
di verità per i pagani non per i Cristiani. La confu- tazione di tali
calunnie si estende. Si chiude con l’ affermazione delle virtù cri-
stiane, la pudicizia, la temperanza, la serietà. L’aumentare del nostro
numero, dice, non è accusa di errore, ma testimonio di lode, e non è
meraviglia se noi ci riconosciamo al segno dell’ innocenza e della modestia, e
se ci amiamo a vicenda chiamandoci fratelli. Ecco alcuni riscontri
verbali: Min.: nec in angulis garruli sumus si audire nos
publice aut erubesciti s aut timetis » (intendi: non è vero che noi
facciamo pettego- lezzi di nascosto, se invece siete voi che pubblicamente
rifiutate di darci ascolto o perchè arrossite o perchè temete di
farlo. : ic occupant animos (im- puri spiritus) ... ut ante nos
incipiant homines odisse quam nosse, ne cognitos, aut imitari
possint, aut damnare non possint. Anche noi, prima della
conversione, credevamo alle calunniose voci sparse contro i Cristiani, e
non ci accorgevamo che eran tutte dicerie sen- za fondamento ; «
malum autem adeo non esse, ut Cliristianus reus nec eru- besceret
nec timeret, et unum solum- modo quod non ante fuerit paeniteret. Tertull.
Apolog. I princ.: .si ad hanc solam speciem auctoritas vestra de
iustitiae diligentia in publico aut timet aut erubescit inquirere
inauditam si damnent, praeter invidiam iniquitatis etiam suspicionem
merebuntur alicuius conscientiae, noleutes audire quod auditum dan- nare
non possint. Quod vere malum est, ne ipsi quidem
quos rapit defendere prò bono audent. Omne malum aut timore aut
pudore natura perfudit. Denique malefici gestiunt latere, devitant
appa- rere, trepidant deprehensi, negant accu- sati, ne torti
quidem facile aut semper continentur, certe damnati maerent. Dinumerant
in semetipsos mentis malae impetus, vel fato vel astris imputant,
nolunt enim suum esse quia malum agnoscunt. Christianus vero quid simile?
Neminem pudet, neminem paenitet nisi piane retro non fuisse.
Si denotata gloriata, si accusata non defendit, interrogatns vel
ultro confi- tetur, damnatus gratias agit. Quid hoc mali est quod
naturalia mali non habet, fimorem, pudorem, tergiversationem,
paenitentiam, deplorationem? Quid?
hoc malum est cuius reus gaudet? cuius .accusatio votum est et
poena felicitas ? Qui si osservi come a un cenno fuggevole di Minucio rispetto
al non essere un male il cristianesimo, corrisponde in Tertulliano
tutta una spiegazione psicologica della natura del male e del contegno
dei malvagi col quale si confronta quello dei Cristiani. Apolog. c.
IL Si critica la procedura usata coi Cristiani. Tra l’altro, si dice. Ceteris
negantibus tormenta udhibetis ad confitendum, solis Chri- stianis
ad negandum. Quo perversine cum praesumatis de sceleribus no stris
ex nominis confessione, cogitis tormentis de confessione decedere, ut negantes
nomen pariter utique negemus et scelera... Sed, opinor non vultis
noe perire, quos pessimos creditis. Si non ita agitis circa nos
nocentes ergo nos innocentissimos iudicatis cum quasi innocentissimos non
vultis in ea confessione perseverare, quam necessitate non iustitia
damnandam sciatis. Vociferata homo:
Christianus sum. Quod est dicit; tu vis audire quod non
est. Veritatis extorquendae praesides de nobis solis mendacinm elaboratis
audire. Oct.: Noi prima della conversione, mentre assumevamo la difesa di
sacrilegi e incestuosi e anche di parricidi, hos i Cristiani nec
audiendos in toto putabamus, nonnunquam etiam miserantes eorum crudelius
saeviebamus, ut torqueremus confitentes ad negandum, videlicet ne
perir ent, exercentes in his, perversam quaesti onem nòn quae verum
erueret sed quae mendacium cogeret . Et si
qui infìrmior malo pressus et victus Christianum se negasset, favebamus
ei quasi, eierato nomine, iam omnia facta sua illa negatione pur-
gata ». Dopo avere nell’Apologetico confutato il pregiudizio che il
Cristianesimo non fosse permesso dalle leggi romane, facendo vedere come
le leggi potessero essere benissimo pattate, e mu- tate furono tante
volte attraverso ai secoli, Tertulliano passa a confutare le calunnie lanciate
contro i Cristiani, d’ infanticidio e di cene incestuose. Queste cose si dicono
sempre, ma nessuno mai si cura d’ indagare so sono vere. La verità è odiata, e
ha nemici da tutte le parti. Chi ha mai visto a spargere sangue di
bambini, e abbandonarsi, dopa il pranzo e dopo fatti spegnere i lumi da
cani lenone s tenebrarum, a orgie incestuose? Se i nostri ritrovi son
segreti, chi può rivelare quel che vi si fa? non gli iniziati che hanno
interesse a non si tradire; non gli estranei, appunto perchè non
penetrarono mai. È dunque tutto opera' della fama. E qui Tertulliano ha
una bella pagina sulla natura della fama o si dice. È antico il motto :
fama malum quo non aliud velocius ullum Virgilio. Perchè è un male la
fama? perchè veloce? o non anzi perchè essa è per lo più menzognera? anche
quando ha del vero, non è mai senza bugia, togliendo, aggiungendo,
mutande dal vero. Ed è di tal natura che non persiste a essere se non
in quanto mentisce, e vive solo fin quando non si arriva alla prova
dei fatto vero. Quando si ha il fatto, cessa ogni « si dice », e rimane
la notizia del fatto. La fama, nomen incerti > non ha più luogo dov’
è la certezza. Ora alla fama uom savio non deve credere. Si sa come
na- scono le dicerie. Hanno principio da qualcuno che è mosso o da
ge- losia o da dispetto o da mania di dir bugie; e poi passate di
bocca in orecchio, e via ripetute, nascondono sempre più la verità. Meno
male, che il tempo poi rivela ogni cosa, per felice disposizione della
natura- per cui il vero si fa strada. Le accuse sono nient’ altro che
dicerie, ma non hanno fondamento di verità. Si soggiunge che noi
promettiamo la vita eterna a chi uccide bambini e commette incesti. Ma
anche se tu credi a questo, dice Tertulliano, io chiedo se tu stimeresti
tanto questa eternità da arrivarci con simili infamie. Tu nè vorresti
farle queste cose, nè potresti ; dunque perchè crederai che vogliano e
possano farle i Cristiani, che sono uomini come te ? Si dirà che sono
iniziati a tali cerimonie quando non ne sanno ancor nulla; ma in tal
caso, una volta conosciute tali infamie, non continuerebbero a
parteciparvi, per la stessa avversione che avrebbe impedito loro d’
iniziarsi nel caso che ne fossero informati. Tale il contenuto
dell’Apologetico. Vi corrispondono il M., ove con le accuse d’ infanticidio e
di cene incestuose si confutano anche quelle di adorazione d’una testa
d’asino, o dei genitali di sacerdoti, o di un uomo crocifisso, o della
croce stessa. E siccome di queste accuse si parla anche dove Cecilio Natale le
espone facendo eco alla voce comune, così è da tener conto anche di
questo capo per taluni riscontri verbali: Apolog.: quod eversofes
luminum canes, lenones scilicet tenebrarum, libidinum impiarum inverecundiam
procurent candelabra et lucernae et canes aliqui et offulae quae illos
ad eversionem luminum extendant. Veni, demerge ferruin in
infantem, nullius inimicum, nullius reum, omnium filium, vel tu
modo adsiste morienti komini antequam vixit... excipe rudem sanguinem, eo
panerai tnum satia, vescere libenter Nego te velie ; etiamsi
volueris, nego te posse. Cur ergo
alii possint si vos non potestis?... qui ista credis de homine
potes et tacere. Quis talia facinora cum invenisset celavit?... Si semper
latemus quando proditum est quod admittimus? immo a quibus prodi
potuit? Natura famae omnibus nota est (v. il riassunto
precedente)... quae ne tunc quidem cum aliquid veri offerti sine
mendacii vitio est Tam- diu vivit quam diu non probat, siquidem ubi
probavit cessat esse et quasi officio nunciandi functa rem tradit
et exinde res tenetur, res nominatur. Nec quisquam dicit verbi
gratia: 'hoc Romae aiunt factum 1 aut : ‘ fama est illuni provinciam sortitum
sed: sortitus est ille provinciam ’, et : hoc fa- ctum est Romae \ Fama,
nomen incerti, locum non habet ubi certum est. Min. Oct.: canis qui cande- labro nexus est, iactu
offulae ultra spatium lineae qua vinctus est, ad impetum et saltum provocatur.
Sic everso et exstincto conscio lumine impuden- tibus tenebris etc.
Illuni velim convenire, qui initiari nos dicit aut credit de caede
infantis et sanguine. Putas posse fieri, ut tam molle corpus, tam
parvulum corpus fata vulnerum capiat? ut quis- quam illum rudem
sanguinem novelli et vixdum hominis caedat f fundat, exhauriat?
nemo hoc potest credere nisi qui possit audere nec tanto tempore aliquem
existere qui proderet nec tamen mirum, cum omnium (quoniam, Vahlen) fama
quae semper insparsis mendaciis alitur, ostensa ventate consumitur. Anche
qui si noti che il modo di esprimersi di Minucio intorno alla fama non
solo è conciso, ma chi legge quell’ostessa ventate consu- mitur non lo
intende se non quando lo confronta con la pagina di Ter- tulliano, la
quale può servire assai bene di commento. I Cristiani non si contentavano
di scagionarsi dalle accuse calun- niose mosse loro, ma le ritorcevano
contro gli avversari, facendo ve- dere come essi, all’ombra della
religione, molti infanticidi e incesti davvero commettevano. Di ciò
tratta l’Apologetico, da confrontarsi con alcuni passi
dell’Ottavio. Ricordano entrambi i sacrifizi di bambini fatti in Africa
in onor di Saturno, divoratore dei propri figli: Apolog.: cum
propriis filiis Saturnus non pepercit, extran eis utique non parcendo
perseverabat, quos quidem ipsi parentes sui offerebant et libenter
respondebant, et infantibus blan - diebantur, ne lacrimante s
immolarenturi. Oct.: Saturnus fìlios suos non exposuit sed voravit ;
merito ei in nonnullis Africae partibus a parentibus infantes
immolabantur y blanditile et osculo comprimente vagitum, ne
flebilis hostia immolar etur. Ma Tertulliano ha maggiori
informazioni su questi sacrifizi d’infanti in Affrica, durati
ufficialmente fino al proconsolato di TIBERIO, poi vietati ma seguitati a
praticare occultamente: et nunc in occulto per - severotur hoc sacrum
facinuSj perchè nessuna costumanza delittuosa si può sradicare per
sempre, nè gli Dei mutano costume. Oltre questo poi altri sacrifizi
umani vanno imputati alla religione antica. Entrambi i nostri scrittori
ricordano i sacrifizi umani fatti in Gallia in onor di Mercurio, e nella
Taurica (M. aggiunge anche, da CICERONE. Rep., e da LIVIO (si veda), il
ricordo di Busiride Egi- ziano e di antichi riti romani), e l’uso ancor
vigente di sacrificare con- dannati a morte nelle feste di Giove Laziale.
E all* infuori della religione, rinfacciano entrambi agli avversari l’abitudine
di esporre i bambini ap- pena nati o ucciderli, o quello più tristo di
spegnere la vita appena iniziata nell’utero materno. b)
Apolog . IX: « conceptum utero dum adhuc s angui s in hominem deli-
batur, dissolvere non licet. Homicidii festinatio est prohibere nasci ;
nec refert ratam quis erìpiat animam an nascentem
disturbet. Quanto poi al bevere uman sangue, Tertulliano ricorda da
Erodoto (est apud Herodotum, opinor) alleanze strettesi fra alcuni popoli
col ferirsi a sangue le braccia e bevere gli uni il sangue degli altri;
(ISO) Oct.: u snnt quae in ipsis vi- sceribus
medicaminibus epotis originem futuri hominis extinguant et
parricidium faciant antequam pariant ricorda poi Catilina, e alcune genti
Scitiche divoratrici dei proprii morti, e il rito dei sacerdoti di
Bellona consistente nel ferirsi la coscia, rac- cogliere il sangue nel
cavo della mano e darlo a bere. M., più conciso, non menziona che la congiura
di CATILINA e Bellona con brevi cenni. L’uno e V altro poi fanno menzione
dell’uso di dare a bere sangue umano agli epilettici, ma Tertulliano solo
adduce il particolare, che ai raccoglieva a tal fine il sangue scorrente
dalle ferite dei delinquenti .sgozzati nell’arena. In tutto
ciò è strano il modo come Minucio mette questi ricordi in relazione con
la menzione fatta avanti delle cerimonie in onor di Giove Laziale: ipsum
credo docuisse san - guinis foedere coniurare Catilinam et Bellonam
sacrum suum J ecc.; quasi che proprio Giove Laziale abbia insegnato a
Catilina e ai Bellonari i lor sanguinosi usi ; il che è del tutto fuor di
proposito. Infine, sempre intorno alle bibite di sangue, entrambi
gli apologeti ricordano l’avidità con che solevano alcuni acquistare, per
cibarsene, la carne delle bestie uccise nell’arena, dopo che quéste s’
erano empite le viscere di membra umane. Ma Tertulliano è più ricco di
particolari, come è più immaginoso ed energico nell’espressione.
Confrontisi: Tertull.: Item illi qui de harena Min. : non dissimiles ei
qui de haferinis obsoniis cenant, qui de apro qui rena feras devorant inlitas
et infectas se est quandoque memoriara dissipari, et simili error
impegerit, exinde iam tradux proficiet incesti serpente genere cum
scelere. Tunc deinde quocumque in loco, domi, peregre, trans freta
Comes et libido, cuius ubique sal- tus facile possunt alicubi ignaris
filios pangere vel ex aliqua seminis portione, ut ita sparsum genus
per commercia humana concurrat in memorias suas, neque eas caecus
incesti sauguinis agnoscat. Min.: etiam nescientes, miseri, potestis in
inlicita proruere, dum Venerem promisce spargitis, dum passim liber os seritis,
dum etiam dorai natos alienae misericordiae frequenter exponitis, necesse
est in vestros recurrere t in filios inerrare. Nella diversa
disposizione dei pensieri, pur si riconosce l’affinità dei due scrittori,
dei quali Tertulliano è più ricco e compiuto, aggiun- gendo qui tra le
ragioni di figliuoli dispersi anche l’adozione. Alla corruttela
pagana poi opponesi la continenza cristiana la quale o si contenta di
legittimo matrimonio, o aspira anche alla verginità. Tertull.: quidam
multo secu- Min : plerique inviolati corporia riores totam vim
huius erroris virgine virginitate perpetua fruuntur potiua continentia
depellunt, senes pueri. quam gloriantur. Dove non isfugga l’esagerazione
del plerique minuciano di fronte all’espressione tertullianea più conforme al
vero. Gli Dei pagani erano in origine uomini. Nell’ Apologetico,
passa Tertulliano a ragionare di un’altra recriminazione fatta ai Cristiani,
quella che non venerassero gli Dei e non sacrificassero per gli
imperatori ; onde erano fatti rei di sacrilegio e di lesa maestà. Ora
egli dice che i Cristiani cessarono dal prestar culto agli Dei pagani
dacché conobbero che tali Dei non esistevano; e non esser giusto il
punirli se non quando tale esistenza fosse dimostrata. E questa
convinzione soggiunge che i Cristiani ricavavano dalle stesse testimonianze
pagane, concordi nel lasciar chiaramente vedere che i pretesi Dei non
erano altro che uomini di- vinizzati. Infatti se ne adducevano i luoghi
di nascita, le regioni ove avevano vissuto e lasciato tracce dell’opera
loro, e si mostravano anche i loro sepolcri. Serva d’esempio per tutti
Saturno, cui gli scrittori come Diodoro e Tallo fra i Greci, Cassio e
Nepote fra i Latini attestarono essere stato uomo. La qual cosa è
comprovata anche da prove di fatto, verificatesi sopratutto in Italia,
ove egli fu accolto da Giano, ove il monte che abitò fu chiamato
Saturnio, la città che fondò ebbe pari- mente nome Saturnia, e anzi tutta
l’Italia dopo il nome di Enotria ricevette quello di Saturnia. Da lui
l’origine delle legali scritture e del conio monetario, onde la sua
presidenza dell’erario. Dunque era uomo, è nato da uomini, non dal cielo
e dalla terra. Ignorandosene la pa- rentela, fu detto esser figlio di
quelli onde tutti possiamo esser figli, chiamandosi per venerazione il
Cielo e la Terra padre e madre, e figli della terrà denominando il volgo
quelli la cui parentela è incerta. Sa- turno dunque era uomo; e lo stesso
si può dir di Giove e di tutto l’altro sciame di divinità pagane. Si dice
che furono tutti divinizzati dopo morte. Da chi? Bisogna vi fosse un
altro Dio più sublime, ca- pace di regalare la divinità, giacché da sé
questi uomini non si po- tevan certo crear Dei. Ma perchè il Dio Magno
avrebbe donato la divinità ad altri esseri? Forse per esserne aiutato nel
grande còmpito di dirigere l’universo? Ma che bisogno vi poteva essere di
ciò, se il mondo o era ab aeterno, come volle Pitagora, o venne fatto da
un essere ragionevole, come disse Platone? Del resto questi uomini si
lo- dano per aver trovato le cose utili alla vita, ma non le hanno
create, perchè già c’erano. Si dirà egli che la divinizzazione fu un
premio alle loro virtù? Ma, a dir vero, anziché virtuosi, erano costoro
pieni di vizi e piuttosto da cacciar giù nel Tartaro che accogliere nel
Cielo. Ma mettiamo anche fossero buoni, o perchè allora non s’ è dato
lo stesso premio a uomini lodatissimi come Socrate, Aristide, Temistocle,
ecc.P Di tutta questa dimostrazione ragionata a fil di logica,
Minucio non ha nell’Ottavio che un punto solo, l’affermazione che i
pretesi Dei erano uomini. E questa si contiene nel cap. 21 del dialogo, il
quale fa seguito alla parte fisolofica del discorso di Ottavio e alla
sentenza che le favole mitologiche erano tutte finzioni poetiche, da
spiegarsi seconde la teoria di Evemero, della quale cita altri
rappresentanti antichi come Prodico, Perseo, lo stesso Alessandro il Macedone.
Connettesi con tale ordine di idee il ricordo di Saturno già uomo. E qui
diversi riscontri: Tertull. Apol.: Saturnum ita- que, si quantum
litterae docent, neque Diodorus Graecus aut Thallus neque Cassius
Severus aut Comelius Nepos neque ullus commentator eiusmodi anti -
quitatem aliud quam hominem promul- gaverunt. Min. Oct.: Saturnum
enim omnes scriptores vetustatis Graeci Ro- manique hominem prodiderunt.
Scit hoc Nepos et Cassius in historia ; et Thallus et Diodorus hoc
loquuntur. È questo il passo che all’Ebert e a’ suoi seguaci parve e
pare dimostrativo della priorità di Minucio, per la ragione che il
Cassius Severus di Tertulliano in luogo del semplice Cassius (ossia
Hemina) è un errore, e per la presunzione che chi sbaglia copii. Se tale
indu- zione sia giusta, vedremo in seguito. Per ora notiamo solo che
Ter- tulliano aveva fatto lo stesso sbaglio in Ad Nationes: Legimus
apud Cassium Severum, apud Cornelios Nepolem et Ta- citurna ecc. Tertull.
ibid.: in qua Italia Saturnus post multas expeditiones postque Attica
hospitia consedit, exceptus a Iano vel lane ut Salii volunt. Mons
quem incoluerat Saturnius dictus, civitas quam depalaverat Saturnia usque
nunc est, tota denique Italia post Oe- notriam Saturnia cognominabatur. Ab ipso primum tabulae et imagine signa- tus
nummus et inde aerarlo praesidet. Si homo Saturnus utique ex homine, et
quia ab homine, non utique de caelo et terra. Sed cuius parentes
ignoti erant facile erat eorum fìlium dici quorum et omnes possumus videri.
Quis enim non caelum ac terrai matrem ac Min.: Saturnus Creta
profugus Italiana metu filii saevientis accesserat et Iani susceptus
hospitio rudes illos homines et agrestes multa docuit ut Graeculus et politus,
litteras imprimere, nummos signare, instrumenta conficere. Itaque
latebram suam, quod tuto latuisset, vocari maluit Latium, et ur.bem
Saturniam idem de suo nomine ut laniculum Ianus ad memoriam uterque
posteritatis reliquerunt. Homo igitur utique qui fugit, homo utique qui
latuit, et pater ho- minis et natus ex homine. Terrae enim vel
caeli filius (se. est dictus) quod apud Italos esset ignotis parentibus
proditus, ut in hodiernum inopinato visos patrem venerationis et honoris
grati a appellet? vel ex consuetudine humana, qua ignoti vel ex
inopinato adparentes de caelo supervenisse dicuntur. Proinde
Saturno repentino utique caelitem contigit dici; nam et terrae filios
vulgus vocat quorum genus incertum est. Etiam Iovera ostendemus tam
hominem quam ex homine, et deinceps totum generis examen tam mortale
quam seminis sui par. Nunc ego per singulosdecurram? Otiosum est
etiam titulos persequi totum generis examen caelo missos, ignobiles et ignotos
terrae filios nominamus. Eius fìlius Iuppiter Cretae excluso
parente regnavit, illic obiit, illic filios habuit; adhuc antrum Iovis
visitur et sepulcrum eius ostenditur et ipsis sa- cris suis
humanitatis arguitur. Otiosum est ire per singulos. Saturnum principem
huius generis et examinis. Per la divinizzazione
dopo morte, M. ha considerazioni diverse dai ragionamenti di Tertulliano.
Ricorda Romolo fatto Dio per lo spergiuro di Procolo, e il re Giuba per
il consenso dei Mauri ; furono consacrati Dei come si consacrano gli altri re,
non per attestare la divinità loro, ma per onorare la potestà che hanno
esercitato in terra. Queste stesse persone che si divinizzano, dice, non
ne vorrebbero sapere, e sebbene già vecchi declinano quell’onore. Rileva
poi l’assurdo di far Dei esseri già morti o nati destinati a morire. E
perchè non nascono ora più Dei? Porse s’ è fatto vecchio Giove o s’ è
esaurita Giunone? 0 non è da dire anzi che è cessata questa generazione
perchè nessuno ci crede più ? E del resto se si creassero nuovi Dei, i
quali di poi non potreb- bero morire, s’avrebbero più Dei che uomini, da
non poter essere più contenuti nè in cielo, nè nell’aria, nè sulla
terra. Tutte queste riflessioni di Minucio sono differenti da quelle
che fa Tertulliano ; sicché in questo punto non vi possono essere
riscontri. Però confronta: Ad Nationes: qui deum Caesarem dicitis et
deridetis dicendo quod non est, et maledicitis quia non vult esse quod
dicitis. Mavult enim vivere quam deus fieri. Min.: Invitis his hoc
nom.en adscribitur: optant in homine perseverare, fieri se deos metuunt,
etsi iam senes nolunt. Tertulliano passa a considerare che cosa
sieno effettivamente i supposti Dei pagani. E prima parla dei loro
simulacri, i quali son fatti di materia identica a quella dei vasi e
strumenti comuni, o forse dai vasi medesimi artisticamente elaborati. Son
dunque Dei foggiati per mezzo di battiture, di raschiature, di
arroventature; proprio il trattamento che si fa ai Cristiani, di che
questi possono avere qualche conforto. Se non che questi Dei non sentono
i maltrat- tamenti della loro fabbricazione, come non sentono gli ossequi
dei loro fedeli. Tali statue di morti, cui intendono solo gli uccelli e
i topi e i ragni, non è egli giusto non adorare? Come sembrerà che
offendiamo tali esseri, mentre siam certi che non esistono affatto?
Riflessioni analoghe fa M.. Detto delle favole mitologiche
irriverenti e corrompitrici, nota che le immagini di tali Dei adora il volgo,
più abbagliato dal fulgore dell’oro e dell’argento che ispirato da fede
vera; e richiama l’attenzione sul fatto che tali simulacri sono formati
dalla mano d’un artista, e se di legno, forse reliquia di un rogo o di
una forca; sono sospesi e lavo- rati con l’accetta e la pialla, se d’oro
o d’argento, magari tolto da vaso immondo, sono pesti, liquefatti,
contusi tra il martello e l’ incudine, ecc. Ecco
riscontri: Tertull. Apoi.: reprehendo... materias sorores esse
vasculorum instrumentorumque communium vel ex isdem vasculis et
instrumentis quasi fatum consecratione mutantes. Min.: deus aereus
vel argenteus de immundo vasculo, ut accicipimus factum Aegyptio regi
(Amasi, Erodoto) conflatur, tunditur malleis et incudibus figuratur
nisi forte nondum deus saxum est vel lignum vel argentum. Quando
igitur hic nascitur? ecce funditur, fa- bricatur, sculpitur, nondum deus
est; ecce plumbatur construitur, erigitur, nec adhuc deus est; ecce
ornatur consecratur oratur, tunc postremo deus est, cum homo illum voluit
et dedicavit. Piane non sentiunt has iniurias nec sentit lapideus deus
suae et contumelias fabricationis suae dei nativitatis iniuriam ita
ut nec postea, vestri sicut nec obsequia ». de vestra veneratione
culturam. Statuas milvi et mures et Quam acute de diis vestris attinane ae
intellegunt. malia muta naturali ter iudicant ! mures, hirurrdines,
milvi non sentire eos sci uni; rodunt inculcant insident, ae, nisi
abigatis, in ipso dei vestii ore nidificant; araneae vero faciem eius
intexunt et de ipso capite sua fila suspendunt. Vos tergetis mundatis eraditis et illos qoos
facitis, protegitis et timetis. Si noti qui la maggior
quantità di particolari in M., il che come deva spiegarsi diremo in
seguito. Tertulliano invece è poi solo nel notare che i pagani stessi
prendono a gioco illudunt e offendono le loro divività, non riconoscendo tutti
le stesse, e trat- tando alcuni Dei come i Lari domestici con compre-
vendite, pignora- menti, incanti, tal quale s’usa per le case cui sono
annessi, altre volte tsasformando, poniamo, un Saturno in una pentola e
una Minerva in un mestolo. Di nuovo entrambi ricordano, di
passata, le strane cerimonie del culto pagano (Tertull. in., Min. e
rilevano le invereconde leggende dai poeti ripetute intorno agli Dei,
auspice Omero, e l’aver gli Dei combattuto o pei Greci o pei Troiani, e
Venere ferita, e Marte incarcerato, e Giove liberato per opera di
Briareo, ecc., ecc. Tertull.: Quanta inverno ludi- Min.: hic enim
Homerus bria! deos inter se propter Troianos et praécipuus bello Troico
deos vestros, Achivos ut gladiatorum paria congres - etsi ludos
facit, tamen in hominum resos depugnasse, Venererà humana sa- bus et actibus
miscuit, hic eorum pagitta sauciatam, quod filium suum Ae- ria composuit,
sauciavit Venererà, Mar - nean paene interfectum ab eodem Dio- .
tem vinooit vulneravit fugavit. Iovem mede rapere vellet, Martem tredecim
narrat Briareo liberatum, ne a diis cemensiìms in vinculis paene consumptum,
teris ligaretur, et Sarpedonem filium, Iovem ne eandem vim a
ceteris caeli- quoniam morti non poterat eripere, tibus experiretur,
opera cuiusdam moncruentis imbribus flevisse, et loro Ver stri
liberatum, et nunc flentem Sarpe - neris inlectum flagrantius quam in aduldonis
casum, nunc foede subantem in teras soleat cum Iunone uxore consororem sub
commemoratione non ita cumbere. dilectarum iampridem amicarum. L’esempio
d’Omero indusse altri poeti a irriverenti invenzioni: Quis non poeta ex
auctoritate Alibi Hercules stercora egerit, principis sui
dedecorator invenitur Dee- et Apollo Admeto pecus pascit. Laorum ? Hic
Apollinem Admeto regi pa- medonti vero muros Neptunus instituit
scendis pecoribus addicit, ille Neptuni (forse: construit) nec mercedem
operis structorias operas Laomedonti locat. Est infelix structor
accipit. Illic (Vulcanus, et ille de lyricis (Pindarum dico) qui
aggiunge TUrsinus) Iovis fulmen cum Aesculapium canit avaritiae merito,
quia Aeneae armis in ineude fabricatur, cum avaritiam nocenter exercebat,
fulmine caelum et fulmina et fulgura longe ante iudicatum. Malus Iuppiter
si fulmen il- fuerint quam Iuppiter in Creta nasce- lius est, impius in
nepotem, invidus in retur artifìcem. Dal contesto di Tertulliano
apparirebbe ch’egli attribuisse le leggende di Apollo pastore presso
Admeto e di Posidone operaio al soldo di Laomedonte ad altri poeti che ad
Omero, mentre è noto che già in Omero vi è un cenno di queste leggende.
Ma forse Tertulliano aveva in mente ulteriori elaborazioni di dette
leggende forse in drammi (ad es., per Apollo pastore, l’Alcestide d’
Euripide), come dopo fa espressa menzione di Pindaro. In Minucio invece
tutte le ri- cordate leggende par si attribuiscano ancora ad Omero, il
che viene a essere inesatto per il racconto di Ercole che scopa le stalle
d’Augia, in Omero non menzionato, e per il ricordo delle armi di ENEA
opera di Vulcano, tolto da VIRGILIO (si veda) non da Omero. In
connessione col precedente argomento, Tertulliano ricorda an- cora le
irriverenze contro gli Dei scritte dai filosofi, specie dai cinici (tra
cui pone Varrone, che chiama il Cinico Romano
e a cui rimprovera l’aver introdotto ter centos foves sive Jupitros sine
capitibus), e quelle peggiori contenute nei mimi e nella
letteratura istrionica, aggravati dalla circostanza che gli istrioni spesso
rappresentano essi stessi la divinità, e, dice: vidimus aliquando
castratura Attin, Mura Deum ex Pessinunte, et qui vivus ardebat Eerculem
in - dueraL Di tutto ciò nulla in M.. Invece di nuovo vanno di con-
serva nel rinfacciare al paganesimo i sacerdoti corrotti e corruttori.
Apoi.: in templis adul - Oct.: dopo ricordati i molti teria componi,
inter aras lenocinia incesti delle Vestali, continua: «ubi tractari,
in ipsis plerumque aedituo- autem magis a sacerdotibus quam inter
rum et sacerdotum tabernaculis sub aras et delubra condicuntur
stupra, isdem vittis et apicibus et purpuris tractantur lenocinia,
adulterio medithure flagrante libidinem expungi. tantur? frequentius denique in
aedituorum cellulis quam in ipsis lupana- ribus flagrans libido
defungitur. Si avverta nel latino di Minucio il meditantur usato
passivamente con una ripetizione inutile di concetto dopo il condicuntur
stupra ; si noti [Salvo se V alibi di M. voglia interpretarsi:
«presso altri autori. Ma tale interpretazione ripugna al contesto, perchè
poco di poi, ricordato ancora Tadulterio di Marte e Venere, e i rapporti
di Giove e Ganimede, soggiunge : quae omnia in hoc (scil. Homero) prodita
ut vitiis hominum quaedam auctoritas pararetur. pure l’esagerazione del
frequentius quam inipsìs lupanaribus che guasta il concetto espresso dal
plerumque di Tertulliano ; in terzo luogo si avverta l’epiteto flagrans
attribuito alla libido, in luogo del thure fla- grante così significativo
di Tertulliano. Infine quel defmgitur, usato assolutamente, e con
soggetto di cosa in senso di « si sfoga » o in quello passivo di viene
saziata è tanto poco giustificato da altri esempi di scrittori latini
(*), che fa pensare a un errore del testo. Forse in luogo di defmgitur,
va letto: expungitur . Tertulliano dopo le cose dette, si dispone a venire
alla parte po- sitiva della sua Apologia, ma prima confuta ancora le
dicerie sparse sul conto de’ Cristiani, che essi adorassero una testa
d’asino e avessero in venerazione la Croce. Quanto alla prima, ne
attribuisce l’origine a Tacito, che avendo narrato nel quinto delle
Storie l’esodo degli Ebrei dall’Egitto, e la sete patita nel deserto, e
il fatto che una fontana era stata indicata da alcuni asini selvatici,
aveva soggiunto che gli Ebrei grati a queste bestie del beneficio
ricevuto avevano preso a venerarle. Di poi la stessa cosa sarebbe stata
attribuita ai Cristiani come setta affine ai Giudei. Eppure, dice
Tertulliano, lo stesso Tacito narra bene che quando Pompeo presa
Gerusalemme entrò nel tempio, non vi trovò alcun simulacro. Piuttosto ai
pagani possono i Cristiani rinfacciare che i giumenti e gli asini intieri
venerano insieme colla dea Epona. Quest’ultimo punto, e solo questo,
trovasi anche in Minucio onde può riscontrarsi: Tertull.
Apoi.:Tostameli Min.: vos et totos asinos non negabitis et iumenta
omnia et totos in stabulis curri vestra \jveT} Epona concantherios curri sua
Epona coli a vobis secratis, et eosdem asinos cum Iside (cfr. ad
Nationes: sane vos totos religiose decoratis. asinos colitis et cum sua Epona et omnia iumenta et
pecora et bestias quae perinde cum suis praesepibus consecratis. Impersonalmente
trovasi usato defungor in Tee. Adelph.: utinam hic sit modo defunctum,
purché la finisca qui » ; e con soggetto di cosa pub ricordarsi il
barbiton defunctum bello di Orazio, la lira ha finito le sue battaglie
d’amore ». Abbastanza frequente è il defungor usato assolutamente ma con
soggetto personale come in Ter. Phorm.: cupio misera in hac re iam de-
funger e in Ovid. Am.: me quoque qui toties merui sub amore puellae,
defunctum placide vivere tempus erat . Sempre defungi ha senso di « finire
la parte sua, esaurire il proprio mandato. Il ricordo degli asini nel
culto d’ Iside è solo minuciano, e si aggiuuge ancora menzione di altri
culti strani, come quello del bue Api e di altre bestie venerate dagli
Egiziani (forse dal De Nat. Deor. di CICERONE. Quanto al
culto della Croce, osserva Tertulliano che anche i pa- gani adorano i
loro idoli di legno ; sarà dunque question di linee, ma la materia è la
stessa, sarà question di forma, ma è sempre il corpo del creduto Dio. Del
resto, dice, le immagini in forma di semplice palo della Pallade Attica e
della Cerere Paria, che gran differenza hanno dal legno della croce?
poiché ogni palo piantato verticalmente è una parte della croce. Poi gli
statuari, quando fabbricano un Dio, si ser- vono d’uno scheletro ligneo a
croce, tale in fondo essendo la figura del corpo umano ; e un sopporto di
legno della stessa foggia usasi pure nei trofei e nelle insegne militari.
M. parla di ciò. Ecco alcuni riscontri: Tertull.: Qui crucis nos
reli- giosos putat, consecraneus (correligionario) erit noster. Cum
lignum aliquod propitiatur, viderit habitus dura materiae qualitas cadera
sit, viderit for- ma dum id ipsum Dei corpus sit. Diximus originem deorum
vestrorum a plastis de cruce induci » (allusione a Ad Nationes dove
la fabbricazione degli idoli con uno scheletro ligneo a forma di
croce è ampiamente descritta. Sed et Victorias adoratis cum in tropaeis
cruces intestina sint tropaeorum. Religio Romanorum tota castrensis signa
veneratur... Omnes illi imaginum suggestus in signis monilia crucum
sunt; sipbara illa vexillorum et cantabrorum stolae crucum sunt. Laudo
dili- gentiam. Noluistis incultas et nudas cruces consecrare. Ad Nationes:
Si statueris hominem manibus expansis, imaginem crucis
feceris. Tertulliano poi parla ancora della venerazione del Sole
attribuita da alcuni ai Cristiani per l’uso loro di pregare rivolti ad
Oriente Ma anche questo, dice, non è rimprovero che si possa fare ai
Cristiani, Min.: Cruces... nec colimus nec optamus. Yos sane qui
ligneos deos consecratis cruces ligneas ut deorum vestrorum partes
forsitan adorates. Nani et signa et cantabra et ve - xilla castrorum quid
aliunt quam inauratae cruces sunt et ornatae? tropaea vestra victricia
non tantum simplicis crucis faciem verum et adfixi hominis
imitantur. Signum sane crucis naturaliter visimus in navi cum velis
tumentibus vehitur, cum expansis palmulis labitur; et, cum erigitur
iugum, crucis signum est,* et cum homo porrectis manibus deum pura
mente veneratur. praticando anche i pagani la preghiera al levar
del sole. E se i Cri- stiani fanno festa il giorno del sole (la
domenica), fanno ciò per ben altra causa che la religione del sole : pure
i pagani nel dì di Saturno (il sabato) si davano all’ozio e al mangiare,
scimiottando, a sproposito, i Giudei. Di ciò nulla in M..
Infine nell’Apologetico ricordasi la pittura da un miserabile mu-
lattiere messa in pubblico, a Roma, rappresentante una figura umana con
orecchie d’asino, e l’un dei due piedi ungulato, vestito di toga e con un
libro in mano, appostavi la iscrizione: Deus Christianorum òvoxoirjtrjQ.
Era un Giudeo l’autore di questo indecente scherzo (ad Nat.); e la gente
ci credette e per tutta la città scorreva sulle bocche quell’ Onocoetes.
Ma di tali mostri, soggiunge, veneransi più fra i pagani che tra
cristiani; chè essi hanno accolto tra i loro Dei esseri con testa di cane
e di leone, e corna di capri e d’ariete, e coda di serpenti, alati le
spalle o i piedi. Un fuggevole ricordo di tali mostri è anche in M., che
del resto si tace: d) Tertull. : « Illi debebant adorare
statim biforme numen, quia et canino et leonino capite commixtos, et de
ca- pro et de ariete cornutos, et a lumbis hircos et a cruribus
serpentes et pianta vel tergo alites deos receperunt. Solo è invece
M. a scagionare i Cristiani dell’accusa di adorare sacerdoti virilia; alla
quale occasione ritorce contro gli avversari la taccia di impudicizia,
ricordando le licenze sessuali onde quei cinedi si disonoravano. Min.: item bonra capita et capita vervecum et
immolatis et colitis, de capro etiam et de homine mixtos Deos et
leonum et canum vultn deos dedicatis. Ma
venendo ornai alla parte positiva della dottrina, Tertulliano celebra il
Dio unico, creatore del cosmo, invisibile sebben si veda, incomprensibile
sebbene in via di grazia divenga presente, inestimabile sebbene coll’umano
sentimento si stimi. E in quanto si vede, si comprende, si stima, Egli è
minore dei nostri occhi, delle nostre mani, dei nostri sensi; ma in
quanto immenso, a sè solo è noto. Così la sua stessa grandezza lo rende noto
e ignoto insieme a noi. Ecco appunto il gran delitto, consistente
nel non voler riconoscere Dio, mentre non si può ignorare. Non lo
attestano le sue opere? non lo attesta la stessa anima? la quale
sebbene incarcerata nel corpo, svigorita dalla concupiscenza, fatta
ancella di falsi Dei, pure quando rientra in sè e sente la sua sanità
naturale, esce fuori in esclamazioni, quali: Dio buono e grande!, e:
ci sia propizio Iddio!, e : Dio vede, e : a Dio ti raccomando e
simili; e queste cose, esclama, non rivolta al Campidoglio, ma al Cielo,
sede naturale del Dio vivo. In Minucio la parte positiva del discorso,
per quel che riguarda la filosofia o teologia razionale, precede la parte
polemica o negativa. Del Dio unico parla Ottavio in principio del suo
discorso, e trovansi diversi luoghi paralleli a passi di Tertulliano.
Eccoli: Tertull.: deus ... totam molem istam verbo quo iussit,
ratione qua disposuit, virtute qua potuit de nihilo
expressit. Per il dispensare in confronto col disponere, vedi
CICERONE. Orai.: inventa non solum ordine sed edam momento quodam
atque iudicio dispensare atque disponere . Invisibilis est incomprehensibilis... inaestimabilis. quod
immensum est, soli sibi notus est. Anima cum sanitatem suam
patitur, deum nominat. Deus bonus et magnus et quod Deus dederit 1
omnium vox est. Iudicem quoque contestato illum ‘ Deus videt ’ et Deo commendo, et Deus mihi reddet \ 0 testimonium animae
naturaliter Christianae! Denique pronuntians haec
non ad Capitolium sed ad caelum respicit». Su questo tema
dell’anima naturalmente cristiana è noto che Tertulliano scrisse più tardi un
opuscoletto a parte intitolato appunto De testimonio animae, dove le
stesse idee sono esposte con maggiore ampiezza ed efficacia.
Min.: Qui Deus universa quaecumque sunt verbo iubet, ratione dispensai, virtute
consummat hic non videri potest... nec comprendi potest nec
aestimari. Immensus et soli sibi tantus quan- tus
est notus ». « Audio vulgus; cum ad caelum ma* nus tendunt,
nihil aliud quam * o Deus ’ dicunt et ‘Deus magnus est’ et * Deus
verus est’ et ‘ si Deus dederit’. Yulgi iste natoalis
sermo est an Christiani confidente oratio ? L’Apologetico e importante
per le indicazioni delle fonti letterarie della dottrina cristiana.
Ricordati i primi storici ispirati dall’Ebraismo e i profeti e i libri
ebraici tradotti in greco dai Settandue per suggerimento di Demetrio
Falereo al tempo <ìi Tolomeo Filadelfo, ricordata l’antichità
dei primi scrittori ebraici molto maggiore di qualsiasi memoria greca, e
fatto anche un cenno di altre fonti storiche greche, egiziane, caldee,
fenicie fino a Giuseppe Ebreo, notata la concordia e completezza delle
profezie che pronunziarono gli avvenimenti secondo verità, e hanno
acquistata autorità sicura anche per le cose ancora da venire,
Tertulliano espone la dottrina di Cristo uomo e Dio. La teoria della
Trinità divina in unità di sostanza è qui già chiara- mente formolata, e
confermasi l’idea del Àóyog, o parola o ragion divina artefice
dell’universo, con testimonianze di antichi filosofi. Poi si riassume la
storia di Gesù e ricordasi la divulgazione della dottrina di lui fatta dagli
Apostoli, fino alla persecuzione neroniana. Ecco dunque, conchiude, qual’
è la nostra fede, che noi sosteniamo anche fra i tormenti : Deum colimus
per Christum . Cristo è uomo ma in lui e per lui Dio vuol essere
riconosciuto e adorato. Di questa, che è la sostanza del Cristianesimo,
Minucio tace affatto; non nomina neppur Cristo, pur parlando a ogni piè
sospinto de’ Cristiani. È questo il lato debole dell’ Ottavio. Solo in un
punto uvvi una non chiara allusione alle dottrine dell’uomo-Dio, uve per
iscagionare i correligionari dall’accusa di venerare un delin- quente
dice : « molto siete lungi dal vero, se ritenete si creda da noi deum aut
meridie ìioxium aut potuisse terrenum, che un Dio o si rendesse colpevole
da meritar supplizio o potesse come cosa terrena subirlo; parole non
abbastanza chiare nel testo latino, e che diedero luogo a ben disparate
interpretazioni. Minucio in questo luogo è rimasto inferiore a sè stesso,
nè s’avvide come questa dottrina fondamentale meritava più ampio
svolgimento in una difesa del resto eloquente e sentita della nuova
religione. Continuando Tertulliano la esposizione sua, parla dell’esistenza di
sostanze spirituali, esistenza ammessa già dai filosofi e poeti antichi
come dal volgo; e, ricordata la caduta di alcuni angeli e l’origine dei demoni,
parla dell’opera di costoro tutta rivolta a dannar l’uomo; son essi che
eccitano le più strane passioni u pazzi capricci e corruttele dell’anima;
son essi che ingenerano la fede negli Dei falsi e bugiardi, e, colla loro
rapidità di movimenti e parziale notizia del vero anche futuro, ispirano
oracoli e vati, e in tutto contribuiscono a ingenerare inganni e deviar
la mente dal vero Dio. I miracoli dei maghi son da loro ; da loro spesso
i sogni e ogni specie di divinazione. La più bella prova di ciò, dice
Tertulliano, è questa che se uno invaso da un demone si trovi in faccia a
un Cristiano, e questi dia ordine al demone di parlare, quegli senz’altro
si confesserà, quel che è ; e così pure quelli che son creduti invasi da
un Dio, in presenza d’un cristiano confessano di essere nient’ altro che
demoni. Il nome di Cristo basta ad atterrire questi esseri ; una prova di
più cho il nostro è l’unico Dio e vero, e che non esistono gli Dei
pagani. Sicché si vede quanto poca regga l’accusa di lesa religione romana,
mentre di vera irreligiosità si macchiano gli avversari coll’ adorare i
falsi Dei, e diversi nelle diverse regioni, e altresì coll’ impedire a
noi il culto del vero Dio. Tali pensieri trovansi su per giù anche
in M.. Ottavio discorre degli spiriti mali, degradati dalla loro primiera
innocenza e tutti intenti a perdere anche gli altri. Tale discorso
continua r offrendo vari luoghi paralleli a Tertulliano. Tertull.
Apolog,:Sciunt daeraones philosophi, Socrate ipso ad daemonii
arbitrium exspectante. Quidni? cum et ipsi daemonium a pueritia
adhaesisse dicatur, dehortatorium piane a bono. Omnes sciunt
poetaen. Min.: eos spiritus daemones- esse poetae sciunt, philosophi
disserunt, Socrates novit, qui ad nutum et arbitrium adsidentis sibi
daemonis vel deeli nabat negotia vel petebat. Il demonio socratico è da
Tertulliano giustamente detto debortatorium a borio; meno esattamente
Minucio gli attribuisce efficacia e positiva e negativa contro la nota
verità storica. Quid ergo de ceteris ingeniis vel etiam viribus
fallaciae spiritalis edisseram? phantasmata Castorum, et aquam cribro
gestatara, et navem cingalo promotam f et barbam tactu inrufatam, ut numina
lapides crederentur et deus verus non quaereretur ? Min.: de ipsis
daemonibus etiam illa quae paullo ante tibi dieta sunt, ut Iuppiter ludos
repeteret ex somnio, ut cum equis Castores viderentur, ut cingulum
matronae navicula sequeretur. Tali esempi di miracoli erano conosciuti
volgarmente dai libri relativi all’arte divinatoria, e in riassunti
dottrinali non fa meraviglia di veder citati or gli uni or gli
altri. Tertull.: « Iussus aquolibet chrifitiano loqui spiritus ille tam
se daerannem confitebitur de vero quam alibi dominum de falso. Aeque
producatur aliquis ex his qui de deo pati existiraantur Ista ipsa
Virgo caelestis pluviarum pollicitatrix, ipse iste Aesculapius
medicina- Tum demonstrator nisi se daemones confessi fuerint
Christiano mentiri non audentes etc. vobis praesentibus erubescentes.
Credite illis, cura verum de se lo- quuntur, qui mentientibus creditis.
Nemo ad suum dedecus mentitur, quin potius ad honorem de corporibus
nostro imperio «xcedunt inviti et dolentes sciunt pleraque pars vestrum
ipsos daemonas de se met ipsis confiteri, quotiens a nobis
tormentis verborura et oratìonis incendiis de corporibus
exiguntur. Ipse Saturnus et Serapis et Iuppiter... vieti
dolore quod sunt eloquuntur. nec utique in turpitudinem
sui, nonnullis praesertim vestrum adsisten- tibus mentiuntur .
Ipsis testibiis esse eos daemonas credite fassis adiurati per deum verum
et solum inviti miseri corporibus inhorre- scunt et... exsiliunt. Un
altro riscontro ancora notasi volgendo rocchio a Tertulliano ove si riprende il
discorso degli angeli e dei demoni. Licet subiecta sit nobis tota
vis daemonum et eiusmodi spirituum, ut nequam tamen servi metu
nonnunquam contumaciam miscent, et laedere gestiunt quos alias verentur.
Odium enim etiam timor spirat. Inserti mentibus imperitorum odium
nostri serunt occulte per timorem ; naturale enim est et odisse quem
timeas et quem oderis infestare si possis. In Tertulliano sono i demoni
che temendo i Cristiani, appunto per ciò qercano di offenderli, perchè il
timore partorisce odio. In Minucio si fa che i demoni insinuino nei
pagani Todio contro i Cristiani per mezzo del timore. Ma ciò, si noti, è
meno naturale, perchè i pagani non avevano nessuna ragione di temere i
Cristiani. Li odiavano invece senza conoscere la loro dottrina ; ma ciò
non ha a che fare col timore. Non a proposito dunque Minucio fece sua
quest’osservazione psicologica dell’odio figlio del timore. Infine
a riguardo della varietà politeistica, Tertulliano ricorda le bestie venerate
in Egitto ; e qui è da fare un raffronto con M. Tertull.: Aegyptiis permissa
est tam vanae superstitionis po- testas avibus et bestiis consecrandis
et capite damnandis qui aliquem huiusmodi deum occiderint. Min.: nec
eorum (Aegyptiorum) sacra damnatis instituta serpentibus,
crocodilis, belluis ceteris et avibus et piscibus, quorum aliquem deum si
quis occiderit etiam capite punitur. Una delle ragioni che i pagani
opponevano più frequentemente alle censure dei loro Dei fatte dai seguaci
del Cristo, era questa che a buon conto Roma doveva la sua grandezza alla
religiosità tradizio* naie e al rispetto degli Dei e delle cerimonie
istituite in loro onore. Di questa idea appunto si fa interprete Cecilio
Natale presso M. nel suo discorso in difesa del paganesimo. I
Cristiani dovettero ribattere queste ragioni, mostrando che Roma se era
grande non doveva nulla ai falsi Dei. Tertulliano svolge questo punto
nell’Apologetico. Con ironia comincia a chiedere se Dei quali Stercolo e
Mutuno e Larentina hanno potuto promuovere l’imperio ; poiché, dice, non è da
supporre che Dei forestieri, come la Gran Madre, favorissero Roma, a
detrimento dei loro fedeli indigeni. Del resto, soggiunge, molti Dei
romani furono prima re ; da chi ebbero la podestà regia? Forse da qualche
Stercolo. E il potere di Roma già era, molto prima che si costituisse il
culto ufficiale, e che di idoli greci ed etruschi fosse inondata la
città. Ma poi tutta la storia romana è prova di irreligiosità piuttostochè di
religiosità. Guerre e conquiste di città come si fanno senza ingiuria
agli Dei, senza distruzione di templi e stragi di cittadini e di sacerdoti, e
rapine di ricchezze sacre e profane? E come può essere che gli Dei delle
città vinte tollerino poi d’essere adorati dai conquistatori ? Non possono
dunque essersi fatti grandi per merito della religione quelli che
crebbero coll’offenderla o crescendo l’offesero. Anche Ottavio in M., svolge
questi pensieri, ricordando le scelleratezze compiute da Romolo in poi, e
mostrando la improbabilità che i Romani siano stati aiutati dai loro Dei
vernacoli come Quirino, Pico, Tiberino, Conso, Pilunno, Volunno,
Cloacina, il Pavor e il Pallor, la Febbre, Acca Laurenzia e Flora; tanto
meno li aiuta- rono gli Dei forestieri come Marte Tracio, Giove Cretese,
Giunone o Argiva o Samia o Punica che dir si voglia, Diana Taurica, la
madre Idea, o le non divinità ma mostruosità egiziane, (ricordi attinti a
CICERONE e Seneca, v. ediz. Waltzing. Ecco qualche riscontra con
Tertulliano: Tertull.: Tot igitur sacrilegia Min.: totiens ergo
Romania Romanorum quot tropaea, tot de deis impiatum est quotiens
triumphatum, quot de gentibus triumphi, tot manu- tot de diis
spolia quot de gentibus et biae quot manent adhuc simulacra capti-
tropaea. vorum Deorum. Omne regntim vel imperium
bellis quaeritur et victoriis propagata. Porro bella et victoriae captis
et eversis plurimum urbibus Constant. Id negotium sine deorum ini uria
non est. Eadem strages moenium et templorum pares caedes civium et
sacerdotum, nec dissimiles rapinae sacrarum divitiarum et profanarum. Tertull.:
Videte igitur ne ille regna dispenset cuius est et orbis qui
regnata et homo ipse qui regnat... Regnaverunt et Babylonii ante ponti
- fices et Medi ante XVriros et Aegyptii ante Salios et Assyrii
ante Lupercus, et Amazones ante Virgines V est ale s. civitates
proximas evertere cum templis et altaribus disciplina com- raunis
est Ita quicquid Romani tenent colunt possident, audaciae praeda
est: tempia omnia de manubiis, i. e. de ruinis urbium, de spoliis
deorum, de caedibus sacerdotum. Hoc insultare et inludere est....
adorare quae manu ceperis, sacrilegium est consecrare non numina.
Min.: ante Romanos deo dispensante diu regna tenuerunt Assyrii,
Medi, Persae, Graeci etiam et Aegyptii, cum pontifices et arvales
et salios et vestales et augures non haberent nec pullos caveas reclusos
quorum cibo vel fastidio reip. summa regeretur. Per non
volere i Cristiani sacrificare agli idoli, erano tacciati sì di
irreligiosità, ma non potevano essere processati per questo, essendo
ciascuno libero di avere, come gli piaccia, favorevoli o sfavorevoli gli
Dei. Formale accusa invece si moveva loro per non volere sacrificare in
onore dell’ imperatore divinizzato, e chiamavan questo lesa maestà. Di
ciò parla Tertulliano. La cosa si capisce, die egli ; voi avete più paura
e usate furbescamente più riguardi a Cesare che a Giove stesso in Cielo.
In fondo avete ragione; perchè un vivo vai più dun morto. Ma commettete
voi in questo colpa d’irreligiosità, dando la preferenza a una
dominazione umana; e più presto si sper- giura da voi per tutti gli Dei
che per il solo genio di Cesare. A questo punto è a notare una lieve
somiglianza col discorso di Ottavio presso Minucio, là dove rimprovera i
pagani del prestar culto divino ad un uomo, e dell’ invocare un nume che
non c’ è ; pure, dice, è per loro più sicuro spergiurare per il genio di
Giove che per quello del re. Tertull.: citius de- Min.: et est eis tutine per
nique apud vos per omnes Deos quam Ioyìs genium peierare quam
regis. per unum genium Caesaris peieratur. Segue in Tertulliano un gruppo
di capitoli bellissimi in cui con calorosa eloquenza si fa vedere quanto
più onesti ed efficaci voti facessero i Cristiani pregando per la salute dell’imperatore
il Dio uno e vero, e a cbi solo può dare chiedendo per lui lunga vita,
securo imperio, casa tranquilla, forte esercito, senato fedele, popolo
probo, mondo quieto; e ciò non con apparati di culto esterno, ma con
sincerità d’anima e innocenza di vita. I Cristiani, dice, hanno imparato
dal loro Maestro a pregare anche per i nemici e i persecutori; e nel far
voti per la diutur- nità dell' impero, sanno di ritardare quel cataclisma
che minaccia all’orbe universo la fine. Ma non possono chiamare Dio l’
imperatore senza derisione di lui e ingiuria al vero Dio. Perchè dunque saranno
qualificati come nemici pubblici? Forse perchè si astengono dalle
licenziose feste pubbliche celebrate a solennizzare qualche lieto
avvenimento della casa imperiale? A buon conto, non dai Cristiani, ma dal
novero dei Komani escono e i Cassii e i Nigri e gli Albini, cioè i
ribelli all’autorità imperiale; i quali pure avevan preso manifesta parte
alla feste pubbliche e ai pubblici voti per la salvezza dell’ imperatore.
La vera sudditanza e fede dovuta all’autorità sta nei buoni costumi e nei
rapporti d’onestà quali noi Cristiani serbiamo con tutti. Amando noi
i nostri nemici, chi possiamo ancora odiare? Inibita a noi la
vendetta, chi possiamo offendere? Quando mai i Cristiani pensarono a
vendi- carsi neppure del volgo che li malmenava, non rispettando
nemmeno i morti? Eppur quanto facimente avrebber potuto preparare le
loro vendette in segreto, o anche dichiarare aperta guerra, tanto
numerosi essi già sono in tutte le città, nelle isole, nei municipi, nei
campi militari, nel senato stesso e a corte ! Potevano anche senz’armi
pugnare, ritirandosi in qualche angolo remoto del mondo e lasciando
dietro sè una spaventosa solitudine. Eppure ci avete chiamati nemici del
genere umano, anziché « dell’errore umano. Che ragion vi era di non considerare
la nostra setta come una factio licita, dal momento che non facciamo
nulla che turbi la società, e produca divisioni, attriti, violenze? Una
repubblica sola noi riconosciamo, il mondo. Ai vostri spettacoli
rinunziamo, perchè ne conosciamo l’origine dalla falsa religione. In che
v’offendiamo, se abbiamo altri gusti e piaceri? L’unità della fede e
della speranza ci unisce e ci affratella. Ci aduniamo a pregare e a
leggere i libri santi; ivi ci esortiamo a far bene, e ci rimproreriamo se
manchiamo ai nostri doveri. Si contribuisce un tanto al mese per
alimentare i poveri e so- stenere le spese delle sepolture e dei
derelitti. Il nostro mutuo amore 4, dà noia agli avversari, perchè essi
si odiano, noi siamo pronti a morire l’un per l’altro, quelli ad uccidersi l’un
l’altro. Ci riconosciamo fratelli, perchè abbiamo lo stesso padre Iddio,,
e come si mescolano le nostre anime, così mettiamo in comune le sostanze.
Tutto è da noi accomunato, salvo le mogli. Le nostre cene sono parche e
denominate con parola significante amore, e lì si prega prima di mangiare
come dopo, e si canta, chi sa farlo, in onor di Dio. Che male c’ è, o a
chi torna di danno tutto ciò, da parlare di factìo illicita? A questo
punto, il dialogo di M. offre qualche possibilità di riscontro con
l’Apologetico. Giacché, dopo confutata l’accusa di cene incestuose,
Ottavio nel suo discorso prende subito a celebrare l’ inno- cenza dei
costumi cristiani, e qua e là il suo pensiero corre parallelo a quel di
Tertulliano. a ) Tertull. c. XXXIX, fin.: « haec Min.: nec factiosi
(così coitio Christianorum merito damnanda THerald; il cod. ha:
‘fastidiosi 1 ) su- I si quis de ea queritur eo titillo quo de mus,
si omnes unum bonura sapimus factionibus querela est. In cuius
perni- eadem congregati quiete qua singuli. ciem aliquando convenimus?
Hoc su- mus congregati quod et dispersi, hoc universi quod et
singuli, neminem lae- dentes, neminem contristantes. Sed eiusmodi vel
maxime dile- sic mutuo, quod doletis amore ctionis operatio notam
nobis inurit pediligimus, quoniam odisse non novimus, nes quosdam.
Vide, inquiunt, ut in vicem sic nos, quod invidetis, frati es vocamus, se
diligant; ipsi enim invicem oderunt; ut unius dei parentis homines, ut
con- et ut prò alterutro mori sint parati; sortes fidei, ut spei
coheredes. Yos enim ipsi enim ad occidendum alterutrum pa- nec
invicem adgnoscitis, et in mutua ratiores erunt. Sed et quod
fratres nos odia saevitis, nèc fratres vos nisi sane vocamus, non
alias opinor, insaniunt ad parricidium recognoscitis. quam quod apud ipsos
omne sanguinis nomen de affectione simulatum est. Fra- y tres autem
etiam vestri sumus at quanto dignius fratres et dicuntur et
habentur qui unum patrem Deum agnoverunt, qui unum spiritum biberunt
sanctitatis, qui de uno utero ignorantiae eiusdem ad unam lucem
exspiraverunt Veritatis. Tertull.: Deo offero opimam et maiorem
hostiam... orationem de carne pudica, de anima innocenti, de spiritu sancto
profectam. Tertull.: Aeque spectaculis vestris in tantum renuntiamus
in quantum originibus eorum, quas scimus de superstitione conceptas, cupi
et ipsis rebus de quibus transiguntur praetersumus. Nihil est nobis
dictu, visu, auditu cum insania circi, cum impudi- citia theatri,
cum atrocitate arenae, cum xysti vanitate. Min.: qui innocentiam
colit Deo supplicat, qui iustitiam Deo libat... qui hominem
periculo subripit, opimam (il cod. ha optimam) vidimavi caedit: a nos. .
merito malis voluptatibus et pompis et spedaculis ve- stris abstinemus,
quorum et de sacris originem novimus, et noxia blandimenta
damnamus. Nam in ludis circensibus (così leggo io, il cod. ha:
currulibus) quis non horreat populi in se rixantis insaniam ? in
gladiatoriis homicidii di- sciplinami? in scenicis etiam non minor
furor et turpitudo prolixior ; nunc enira mimus yel exponit adulteria vel
monstrat, nunc enervis histrio amorem dum fingit infigit I capitoli XL e
XLI dell’Apologetico contengono la confutazione dell’accusa che delle
pubbliche calamità fossero causa i Cristiani, come 8’ andava già fin
d’allora vociferando, e si seguitò a dire per molte ge- nerazioni.
Tertulliano ricorda molti cataclismi, isole scomparse, terre- moti e maremoti,
e il diluvio, e l’ incendio di Sodoma e Gomorra, di- sastri avvenuti
tutti avanti al Cristianesimo. E col distruggersi delle città, dice, si
distruggevano anche i templi degli Dei; prova che non veniva da loro ciò
che anche a loro accadeva. Bensì il Dio unico e vero non poteva essere
propizio a chi ne disconosceva i favori. Del resto, i mali ora sono
minori di prima, e ciò è dovuto alle preghiere dei Cristiani che
disarmano l’ira divina. Che se il nostro Dio per- mette i disastri anche
a danno de' suoi cultori, ciò non ci stupisce nè sgomenta, aspirando noi
a vita più alta e migliore. Di tutto questo in Minucio non v’ è
parola. Altro titolo d’ ingiurie contro i Cristiani era il ritenerli
alieni dagli affari e disutili al commercio locale. Tertulliano dedica a
questo argomento i capitoli XLII e XL1II, dove fa vedere l' insussistenza
di questo rimprovero. Vivevano bene i Cristiani come gli altri,
serven- dosi e dei mercati e delle botteghe e delle officine e dei bagni
pubblici. Che se si astenevano da certi usi, se non si coronavano di
fiori la testa, se non intervenivano agli spettacoli, se non sovvenivano
i templi pagani coi loro contributi, avevano bene ragione di farlo. E
del pari certo quattrini non ricevevano da loro nè i lenoni, nè.i
sicari, nè i magi, nè gli aruspici, nè altri tali ; ma in compenso i
Cristiani eran tutte persone innocue da non dar ombra a nessuno.
Qui, rispetto alluso di portar corone di fiori in capo, si può con-
frontare : Tertull.: non amo capiti coronam. Quid tua interest, em- ptÌ8 nihilominus floribus
quomodo utar ? Puto gratius esse liberis et solutis et undique
vagis. Sed etsi in coronam coactis, nos coronam nariòus novimus,
viderint qui per capillum odorantur. Min. c. 38, 2 : « quis autem
ille qui dubitat vernis indulgere nos floribus, cum capiamus et
rosam veris et lilium et quicquid aliud in floribus blandi co-
loris et odoris est? his enim et sparsis utimur, mollibus ac solutis, et
sertis colla complectimur. Sane quod caput non
coronamus, ignoscite; auram bo- nam floris nariòus ducere non
occipitio capillisve solemus haurire. 1 due capitoli che seguono in
Tertulliano, il XLIV e il XLY, sono rivolti a segnalare l’ innocenza dei
Cristiani, proveniente dal se- guire essi una legge non umana ma divina,
e dal considerarsi come in presenza di Dio sempre, di Dio scrutatore,
giudice e vindice. b) Terlull. Tot a vobis nocentes variis
criminum elogiis recen- sentur; quis illic sicarius, quis manti-
cularius, quis sacrilegus aut corruptor aut lavantium praedo, quis ex
illis etiam Christianus adscribitur? aut cum Chri- stiani suo
titulo offeruntur, quis ex illis etiam talis qttales tot nocentes?
De vestris semper aestuat career, de vestris semper metalla
suspirant, de vestris semper bestiae saginantur, de vestris semper
munerarii noxiorum greges pascunt. Nemo
illic Christianus nisi piane tantum Christianus, aut si et aliud
iam non Christianus ». c) : quid perfectius, prò-
hibere adulterium, an etiam ab oculorum solitaria concupiscentia arcere ? : u
Christianus uxori suae soli masculus nascitur. Min.: de vestro
numero career exaestuat, Christianus ibi nullus nisi aut reus suae
religionis aut'profugus: vos enim adulteria pròhibetis et facitis, nos uxoribus
nostris solummodo viri nascimur. Pur vinti da tanta copia
di fatti e bontà di ragioni, non si arrendevano gli avversari de’ Cristiani, e,
a corto d’altri argomenti, finivano con dire che in sostanza le massime
cristiane non erano cosa nuova, ma erano già state professate e praticate
dai filosofi. Di ciò Tertulliano nel capitolo XLYI, dove istituisce un
eloquente confronto tra le massime e la vita pagana da una parte e i
precetti e costumi cristiani dall’ altra, per dimostrare la superiorità dei
secondi. Qui un riscontro con M.: Tertull. c. XLVI: a ...
licet Plato Min. c. 19, 14: u Platoni... in Ti- adfirmet
factitatorem universitatis ne- maeo deus est ipso suo nomine mundi
que inveniri facile et inventum enar- parens, artifex animae, caelestium
ter- rari in omnes difficile. Cfr. Plat. Tim. renorumque fabricator, quem
et inve-: « Tòv fxhv noirjrijy xai nire difficile praenimia et
incredibili naréga tovóe tot) navròg eògeìv re eg- potestate (cfr.
Plato qui inve- lo!', xai etigóvia elg ndvrag àóvvarov nire Deum negotium
credidit, et Xéyeivn. cum inveneris in publicum praedicere
impossibile praefatur. Non può negarsi, riconosce Tertulliano, che i
filosofi antichi hanno espresso molte cose vere, ma queste son derivate
dalla fonte dei nostri profeti. E queste stesse verità sono involute e
com- mescolate a ipotesi e opinioni disparatissime, sicché poi questi
filosofi sono in completo disaccordo gli uni cogli altri. Tale varietà
d’opinioni pur troppo venne anche introdotta nella setta cristiana,
sicché bisognò prescrivere ai nostri adulteri, quella essere regola di
verità la quale venga a noi trasmessa da Cristo per mezzo de’ suoi
compagni. Per queste adulterazioni della verità, insinuate dagli spiriti
dell’errore, certi prin- cipii già si trovano tra i pagani, come il
giudizio finale delle anime, le pene dell’inferno e il soggiorno
delizioso degli Elisi, ma tali prin- cipii in quanto hanno del vero, sono
di origine nostra. Tertull.: quis poetarum, quis Min.: animadvertis
philososophistarum,qui non omnino de prò- pbos eadem disputare quae
dicimus, pbetarum fonte potaverit? non quod nos simus eorum
vestigia u Unde baec ... nonnisi de nostris sasubsecuti, sed quod
illi de divinis praecramentis? Si de nostris sacramentis, dictionibus
profetarum umbram inter- ut de prioribus, ergo fideliora sunt no-
polatae veritatis imitati sint ». stra magisque credenda, quorum imagines
quoque fìdem inveniunt. Una delle credenze cristiane più combattute e derise
dagli avversarli, era quella della resurrezione finale dei corpi e del ritorno
delle anime in que’ corpi che già avvivarono. A questo dogma dedica
Ter- tulliano il cap. XLYIII, adducendo la ragione della divina
onnipo- tenza, che come ha dal nulla creato il mondo, così può far
risuscitare i corpi morti. Non è quotidianamente sotto gli occhi nostri
il segno della resurrezione nell’alternativa della luce e delle tenebre,
nel tramontare e rinascere delle stelle, nel rifarsi delle stagioni e dei
prodotti della natura? Se a Dio fosse piaciuta altresì l’alternativa
della morte e della resurrezione, chi l’avrebbe impedito? Volle invece
che alla condizione presente di vita passeggera, si contrapponesse
un’altra vita eterna, e a questa passassero tutti risorgendo coi corpi,
per vivere un’eternità di premio o di pena secondo i meriti di ciascuno.
E il fuoco eterno che aspetta i dannati, è di natura ben diversa dal
nostro; come altro è il fuoco che serve agli usi umani, altro quello che
apparisce nei fulmini del cielo o nelle eruzioni dei vulcani, perchè
questo non consuma quello che brucia, e mentre disfa, ripara. Tali
principii se sono professati da filosofi e da poeti, si tollerano e si
lodano; perchè noi Cristiani dobbiamo esserne derisi e anche puniti?
Infine queste credenze sono utili, perchè allontanano dal mal fare colla
paura dei divini castighi, e, alla peggio, non fan male a nessuno. Anche
M. mette in bocca al suo Ottavio alcune considera- zioni sulla fine del
mondo e la risurrezione dei morti, dedicandovi tutto il capo 34 e parte
del 35. Sulla fine del mondo ricorda le opinioni degli Stoici e degli
Epicurei e anche di Platone circa la conflagrazione finale dell’universo,
e giustifica così la credenza cristiana. Per la risurrezione pure cita Pitagora
e Platone, ma solo per dimostrare che i saggi pagani in questo vanno in
qualche modo d'accordo coi Cristiani. Ricorre anch’egli all’argomento
dell’onnipotenza divina e alla possibi- lità che rinasca dal nulla quello
che dal nulla ebbe origine, come accenna pure ai segni di risurrezione
dati dalla natura, e alle condizioni del fuoco eterno. Qui alcuni
riscontri: Tertull.: sed quomodo, inquis, dissoluta materia exhiberi
potest? Considera temetipsum, o homo, et fidem rei invenies. Kecogita
quid fueris antequam esses. Utique nihil; Min.: quis tam
stultus aut brutus est, ut audeat repugnare, hominem a Deo ut
primum potuisse fingi, ita posse denuo reformari? Sicut de nihilo
nasci licuit, ita de nihilo limeminisses enim si quid fuisses. Qui cere
reparari? porro difficilius est id ergo nihil fueras priusquam
esses, idem quod non sit incipere, quam id quod nihil factus cum
esse desieris, cur non fuerit iterare. Tu
perire et Deo credis possis rursus esse de nihilo eiusdem si quid
oculis nostris hebetibus subipsius auctoris voluntate qui te voluit trahitur ?
» esse de nihilo ? Quid novi tibi eveniet ? Qui non eras
factus es; cum iterum non eris fies. Et tamen facilius utique fies
quod fuisti aliquando, quia aeque non difficile factus es quod nunquam
fuisti aliquando. Lux coti die interfecta Min. ib. 11: «in
solacium nostri resplendet et tenebrae pari vice dece-
resurrectionem futuram natura omnis dendo succedunt, sidera
defuncta vive- meditatur. Sol demergit et nascitur, scunt, tempora
ubi finiuntur incipiunt, astra labuntur et redeunt, flores occi-
fructus consummantur et redeunt, certe dunt et revirescunt, post senium
ar- semina non nisi corrupta et dissoluta busta frondescunt, semina
nonnisi cor - fecundius surgunt, omnia pereundo ser- rupta
revirescunt». vantar
omnia de interitu reformantur. Tertull. ibid.: « Noverunt et phi- : Illic
sapiens ignis losophi diversitatem arcani et publici membra urit et
reficit, carpit et nutrit. ignis. Ita longe alius est qui usui hu-
Sicut ignes fulminum corpora tangunt mano, alius qui iudicio Dei apparet,
nec absumunt, sicut ignes Aetnaei monsive de caelo fulmina stringens, sive de
tis et Vesuvi montis et ardentium ubi- terra per vertices montium
eructans: que terranno flagrant nec erogantur, non enim absumit quod exurit,
sed dum ita poenale illud incendium non damnis erogat reparat. Adeo
manent montes sem- ardentium pascitur, sed inexesa corpo- per
ardentes, et qui de caelo tangitur, rum laceratione uutritur.
salvus est, ut nullo iam igni decinerescat. Et hoc erit testimonium ignis
aeterni, hoc exemplum iugis iudicii poenam nutrientis. Montes
uruntur et durant. Quid nocentes et Dei hostes? Eccoci all’ultimo capitolo
dell’Apologetica, dove il grande scrittore africano giustifica l’atteggiamento
dei Cristiani, esultanti di essere perseguitati e di soffrire anche la
morte per la confessione di Cristo. Tale atteggiamento era oggetto di vive
censure; eran considerati i Cristiani come gente disperata e perduta.
Pure gli antichi avevano celebrato invece come eroi gloriosi alcuni uomini che
avevano patito, senza scomporsi, i più atroci dolori, quali un Mucio
Scevola, un Attilio Regolo, ecc. Perchè han da stimarsi pazzi i Cristiani
che fan lo stesso? Del resto, conchiude Tertulliano, fate pure, o buoni
governanti, contentate la plebe tormentandoci, condannandoci, uccidendoci;
codesta crudeltà non servirà che ad aumentare il nostro numero; il
nostro sangue è seme; il nostro esempio e l’ostinazione che ci
rinfacciate, fa scuola ; perchè chi ci vede e ammira, sente di dover
ricercare che cosa ci sia sotto, e conosciuto vi si converte, e
convertito desidera patire alla sua volta per redimere la sua vita
anteriore e ottenere Feterno premio. Di analogo argomento, della
resistenza dei Cristiani al dolore e della lotta loro contro le minaccie
e i tormenti dei carnefici, discorre pure Ottavio in Minucio. Anche per
lui il soffrire non è castigo, è milizia, e non è vero che Dio abbandoni
chi soffre, anzi lo assiste e a sè trae. Che bello spettacolo per Dio
quando il cristiano scende in lizza col dolore e le minacce e le torture,
e contro re e principi difende a testa alta la libertà della sua fede,
non cedendo che a Dio, vincitore anche di chi lo condanna e uccide.
Glo- rioso ritiensi colui che tormenti ha sostenuto con costanza; ma
altret- tali e peggiori soffrono col sorriso sulle labbra i fanciulli e
le donnicciuole cristiane, evidentemente perchè li aiuta Iddio. In
manifesta affinità di pensieri, non mancheranno riscontri di
parole: Tertull. c. L: « ...Victoria est... prò quo certaveris
obtinere. Haec desperatio et perditio penes vos in causa gloriae et famae
vexillum virtutis extollunt. Mucius dexteram suam libens in ara
reliquit: o sublimitas animi ! Empedocles
totum sese Catanensium Aetnaeis incendiis do- navit : o vigor
mentis! Aliqua Cartaginis conditrix rogo se secundum matrimonium dedit : o
praeconium castitatis! Regulus
ne unus prò multis hostibus viveret, toto corpore cruces patitur: o
virum fortem et in captivitate victorem! etc. Min.: vicit qui quod
contendi obtinuit. vos ipsos calamitosos vi- ros fertis ad coelum,
Mucium Scaevolam, qui cum errasset in regem perisset in hostibus nisi dexteram
perdidisset. Et quot ex notfris non dextram solum sed totum corpus
uri, cremari, sine ullis eialatibus,pertulerunt,cum dimitti prae-
sertim haberent in sua potestate! Viros cum Mucio aut cum Aquilio aut
Regulo Comparo? pueri et mulierculae nostrae cruces et tormenta, feras
et omnes suppliciorum terriculas inspirata patientia doloris inludunt.
Messoci sott’occhio ordinatamente e nel modo più compiuto
possibile il materiale di raffronto fra Tertulliano e M., possiamo
risolvere il problema, quale dei due abbia avuto sott’occhio l’opera
dell’altro. A questo fine chi ci ha seguito fin qui voglia con noi fare
due osservazioni. La prima è che in molti luoghi si trova la stessa
materia trattata con ampiezza e originalità di vedute da Tertulliano, e
accennata brevemente da Minucio; ad es. al § 1 c, come già s’è osservato, a
tutta una teoria tertullianea sulla natura del male morale e
sull’atteggiamento del malvagio, teoria addotta per mostrare che non era
un male Tesser cristiano, corrisponde in Minucio un cenno fuggevole della
stessa sentenza; così al § 2 d, la natura della fama o diceria è rilevata
con minuziosa analisi da Tertulliano, ed è, in frase inci- dente, come
per transenna, e con parole per sè sole non chiare, toccata da Minucio;
lo stesso dicasi al § 6 i, sullo scheletro ligneo a forma di croce
adoperato nel fabbricare gli idoli; e ‘al § 13 b, sull’essere i
delinquenti in massima parte pagani e d’altri brani ancora. In tutti
questi casi si ha egli a pensare che Tertulliano, visto il breve
cenno minuciano, n’ abbia preso occasione per ampliare e a volte
costruire una teoria intiera basata sull’osservazione psicologica? o non
si presenta anzi spontanea l’ipotesi che M. abbia conosciute e fatte sue
le spiegazioni tertullianee, riassumendole dov’ e’ credeva opportuno? A
chi non parrà questo secondo processo ben più naturale del primo? Non è
questo il modo comune di lavorare in opere letterarie, quando non si
tratta di amplificazioni rettoriche e luoghi comuni? Chi potrà credere il
rapporto inverso, se tenga conto dell’ ingegno vigoroso, del ragionamento
serrato e a fil di logica di Tertulliano, in comparazione dei discorsi
alquanto rettorici da M. messi in bocca agli inter-locutori del suo
dialogo? La seconda osservazione che noi vogliamo si faccia, ci
conferma nell’ ipotesi della priorità di Tertulliano; e questa riguarda i
passi dove Minucio presenta lo stesso pensiero e la frase tertullianea, ma
o in luogo meno opportuno per la concatenazione delle idee, o con
aggiunta od uso di parole che alterano il concetto esagerandolo. Fin dal
prime riscontro segnalato al § 1 a, il cenno del non volere i pagani
udire pubblicamente i Cristiani desiderosi di difendersi, vien fuori poco
opportunamente come argomento del non essere essi Cristiani in angulis
garruli Così al § 3, già s’è notata la stranezza del derivare dalle
cerimonie di Giove Laziale gli usi sanguinarii di Catilina e di Bellona.
Nello stesso § 3, il riscontro f ci dà un esempio di esagerata espressione in
quel plerique sostituito al quidam di Tertulliano; come al § 4 g, è fuor
di squadra il frequentius. Inesattezze pure riscontrammo al § 5 f, dove è
attribuita ad Omero una leggenda che non gli appartiene, e ove del demonio
socratico si parla men corretene)] tamente che in Tertulliano. Ma il passo più
significativo è al § 9 g, ove poco a proposito, come già s’ è rilevato,
Minucio fece sua l’osser- yazione psicologica del timore che partorisce
odio. Tali difetti dell’esposizione minuciana sono una evidente conferma della
priorità ter- tullianea ; è nella natura delle cose che l’ imitatore non
afferrando con precisione i concetti dello scrittore che gli serve di
modello, alteri i rapporti delle idee e le renda in modo difettoso ;
mentre è ben più raro, se non impossibile, che un imitatore, prendendo le
mosse da un lavoro altrui, ne emendi tutti i difetti, raggiungendo una precisa
coe- renza e spontaneità, quale spicca in Tertulliano. Vi sono però
due luoghi che paiono far contro la nostra tesi. Uno è al § 5, b e d, ove
a una semplice parola o proposizione tertullianea: consecratione; d: statuas .
. . milvi et mures et araneae in - ielligunt) corrisponde in Minucio una
descrizione più ampia e ricca di particolari. Ma, se ben si guardi, ciò
non vuol dir nulla contro la tesi che sosteniamo. Già prima si può
pensare che Minucio, come per altre parti del suo dialogo prese da Cicerone
e da Seneca, così per questa abbia attinto ad altra fonte oltre
l’Apologetico, desumendone sia la descrizione dell’ idolo che finché vien
lavorato non è Dio e lo diventa appena è consacrato dall’uomo, sia quella
dei topi, delle rondini, dei ragni che rodono e fanno il nido e le ragnatele
nelle statue dei templi. Ma può anche darsi che qui s’abbia a fare con
una semplice amplificazione del pensiero suggerito dall’espressione di
Tertulliano, amplificazione non contenente altro che osservazioni semplicissime
e di dominio comune. Tanto più è probabile che tale lavoro si deva
attribuire a M., quanto che la caratteristica del suo stile, cioè l’uso
degli asindeti trimembri con omeoteleuto, si trova qui più volte:
funditur fabricatur sculpitur; plumbatur conslruilur erigitur; ornatur
eonsecratur oratur; rodunt inculcant insident; tergetis mundaiis eraditis,
ecc. L’altro punto che deve qui discutersi riguarda il fatto già
segnalato, a, pel quale Ebert e molti altri conchiusero senz’altro per la
priorità di M., vale a dire l’errore commesso da Tertulliano completando in
Cassius Severus il nome dello storico Cassius così letto da lui nelle sue
fonti. Pur riconoscendo che Tertulliano ha qui commesso un errore, era
proprio necessario di supporre che l’indicazione di quelle fonti storiche,
Diodoro e Tallo Greci, Cassio e Cornelio Romani, egli l’avesse presa da M.? Si
noti che il discorso si aggira intorno alla spiegazione euemeristica
degli Dei pagani, e si ricercano le vicende di Saturno e di Giove per
conchiuderne che costoro in origine erano nomini. Ora questa tesi non era solo
degli apologeti cristiani, ma da secoli era di dominio comune in molte
scuole filosofiche. Può dunque ben darsi che in qualche libro euemeristico
del primo o del secondo secolo dell’era volgare già si citassero
Diodoro Siculo e Tallo, Cassio e Cornelio Nipote, e anche Varrone, a
conferma della dottrina ; può essere che la citazione di quei nomi fosse
diventata come un luogo comune; tant’ è vero che un secolo dopo
Tertulliano, ancor la ripete con poche varianti Lattanzio. Questo è
l’unico punto in cui ritengo vera l’ipotesi di una fonte comune anteriore
a Tertulliano e M.. Il che se si ammette, l’errore di Tertulliano non
dice più nulla a favore della priorità di Minucio e contro la tesi
inversa da noi propugnata. Da questa stessa fonte euemeristica potrebbero
supporsi derivati i particolari minuciani che sopra avvertimmo non trovarsi in
Tertulliano, come pure ne derivarono le tradizioni simili a quella che si
legge nel De origine gentis Romanae e nei breviari storici concernenti le
origini di Eoma. Sia dunque lecito di conchiudere che l’ Ottavio di M. è
posteriore all’Apologetico; di non molto forse, se al tempo della sua
comparizione era ancora sì viva la memoria dell’oratore Frontone da
ricordarlo nel modo che fanno i due interlocutori del dialogo: Girtensis noster,
: Pronto tuus. Non andarono forse errati quelli che supposero composto il
dialogo nel primo o al più nel secondo decennio del terzo secolo, come certo
l’Apologetico è degli ultimi anni del secondo. Insù . : omnes ergo
non tantum poetae sed historiarum quoque ac rerum antiquarum scriptores
hominem fuisse consentiunt Saturnum. Qui
res eius in Italia gestas prodiderunt, Graeci Diodorus et Thallus t Latini
Nepos et Gassius et Varrò. V. il Minucio del Waltzing. Marco Minucio Felice –
He wrote “Ottavio” – draws on a speech by Frontone. – cf. Marco Minucio Felice.
Grice e Miraglia: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale di CICERONE – la scuola di Reggio -- filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Reggio).
Filosofo
italiano. Reggio, Emilia. Grice: “Miraglia is the type of philosopher beloved
by the Oxford hegelians; but then he is a Neapolitan Hegelian!” Grice: “I
always found Kant easier, but there’s nothing like a ‘filosofia del diritto’ in
Kant! And Hegel’s ethics itself, compared to Kant’s is mighty more complex –
that’s why I taught Kant!” Si
laurea a Napoli, dopodiché insegna filosofia del diritto nella stessa
università, ed economia politica alla scuola superiore di agricoltura di
Portici. Segue una corrente di pensiero
eclettica, ad esso contemporanea, che mira all'integrazione di pratiche
giuridiche ed ispirazioni filosofiche. Sindaco di Napoli. Tra le più famose si
ricordano: “Condizioni storiche e scientifiche del diritto di preda (Napoli); “Un
sistema etico-giuridico” (Napoli); “Filosofia del diritto” (Napoli). Nella sua
biografia ufficiale per la Treccani è nato a Reggio nell'Emilia, mentre nella
sua scheda storico-professionale sul sito del Senato si riporta a Reggio di
Calabria. Giuseppe Erminio. Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, (latinista) Sindaci di Napoli Senatori della
legislatura del Regno d'Italia Luigi
Miraglia, su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere su open MLOL, Horizons Unlimited
srl. su Senatori d'Italia, Senato della
Repubblica. I sistemi filosofici ed i principi del diritto. La speculazione greca
e LA DOTTRINA ROMANA. Fichte. Spedalierie Romagnosi. Gli scrittori della
reazione. La scuola storica e la scuola filosofica. Schelling e Scleiermacher. Hegel
Rosmini. Herbart, Trendelenburg e Krause.Le varie fasi della filosofia di
Schelling. Sthal e Schopenhauer Il materialismo, il positivismo ed il
criticismo. L'idea della filosofia del diritto. La Filosofia e le scienze. Il carattere
della Filosofia mo. L'idea del Diritto
ed i metodi logici. L'induzione e la deduzione. L'induzione, l'osservazione e
l'esperimento. L'idea del Diritto naturale e quella del buono civile di AMARI
ricavate dall'induzione. L'importanza del metodo storico-comparativo secon do VICO
Amari, Post e Sumner-Maine. Parallelo fra lo sviluppo della lingua e lo
sviluppo del Diritto. L'induzione statistica. Il compito della deduzione.
L'universale astratto e l'universale concreto come principi. Moderna divinato
da VICO. La Filosofia del Diritto come parte della Filosofia. L'idea umana del
Diritto se condo la dottrina di VICO, e le definizioni di Kant, di Hegel, di Trendelenburg,
di ROMAGNOSI e di SERBATI. La teoria sociale e la teoria giuridica. Il Diritto
e la Filosofia positiva. L'idea induttiva del Diritto. Lo studio della
coscienza etico-giuridica dei vari popoli. Il contributo della razza ariana e
della razza semi tica nella storia della civiltà. L'idea del diritto come
misura in LA RAZZA ARIANA. La misura riposta nel l'ordine fisico, nella legge
positiva e nella ragione. Il principio della personalità. Gl’elementi organici
e spi rituali della persona e la loro corrispondenza. La spiegazione del
materialismo. La teorica dell'evoluzione. La critica dell'evoluzionismo
meccanico La teorica dell'evoluzione e la Psicologia. Il sentimento
fondamentale e le sensazioni. La coscienza e la sua origine. Le
rappresentazioni sensibili e le rappresentazioni coscienti. Il pensare e le categorie. La cognizione secondo
l'empirismo oggettivo. La critica di questa teoria. I presupposti pratici
dell'idea deduttiva del Diritto. Sviluppo e partizione. L'istinto, il desiderio
e la volontà. L'arbitrio e la libertà morale. La costanza degl’atti umani
rivelata dalla Statistica. Il fine dell'uomo ed il bene. Il bene umano ed il
Diritto. La forma imperativa, proibi. I presupposti teoretici dell'idea
deduttiva del Diritto. Seguito dei presupposti teoretici. tiva e permissiva del
Diritto. Il Diritto come principio di co-azione, di coesistenza e di armonia.
La tri-partizione razionale del Diritto. La divisione di Gaio. Analisi critica
delle principali definizioni del Diritto. Le dottrine che riguardano a preferenza
il contenuto sensibile del diritto: Hobbes, Spinoza, Roussean, Mill e Spencer.
Le dottrine che considerano il diritto come astratta forma razionale: Kant, Fichte
ed Herbart. Le definizioni di Krause e di Trendelenburg. Ciò che vi è di vero
nelle dottrine esaminate. Il Diritto, la Morale e la Scienza sociale. Il
Diritto come disciplina etica. I rapporti fra Morale e Diritto nella storia.
Critica della confusione e della separazione dei due termini. Il fondamento
comune e la differenza reale. L'Etica e la vita sociale.VICO, Süssmilch ed i
fisiocrati precursori della Scienza sociale. La Sociologia di Comte ed i vari
indirizzi. La Sociologia di Spencer. La Sociologia come Filosofia delle scienze
sociali. Le analogie tra la società e l'organismo. Le relazioni fra il Diritto
e la Scienza sociale. Il Diritto, l'Economia sociale e la Politica.
L'ordinamento sociale-economico ed i filosofi del Diritto antichi e moderni.
L'Etica, la Sociologia fondata sulla Biologia, la Politica e la Storia come
presupposti dell'Economia. Il carattere del fatto economico. I rapporti tra il Diritto
e l'Economia. Il concetto della Politica. La Politica, la Scienza sociale,
l'Etica ed il Diritto. L'idea compiuta dello Stato. Il Diritto razionale ed il
Diritto positivo. Fonti ed applicazioni. La distinzione del Diritto razionale
dal Diritto positivo in sé e nella storia. La consuetudine ed il costume
primitivo. La giurisprudenza ed i suoi uffici. La legislazione ed i codici.
L'efficacia della legge nello spazio.L'efficacia della legge nel tempo. Esame
delle diverse teorie sulla retroattività . Diritto Privato. La persona. I
diritti essenziali o innati ed i diritti accidentali o acquisiti. Il principio
dei diritti. Il diritto alla vita fisica e morale. Il diritto alla libertà. I diritti
all'eguaglianza, alla sociabilità ed all'assistenza. Il diritto di lavoro . Il
concetto storico dei diritti innati. I diritti dell'uomo nello stato di
natura.Lo stato di na. tura dei filosofi del secolo decimottavo in rapporto. La
persona ed i suoi diritti. Le persone incorporali. Lo scopo delle persone
incorporali. La teoria della fin. La proprietà e i modi di acquisto. La
proprietà e dil suo fondamento razionale. Dottrine in torno a questo
fondamento. Le limitazioni ed i temperamenti della proprietà. I modi originari
e deri vativi di acquisto La storia della proprietà e dei modi di acquisto.
L'attività procacciatrice dell'animale e dell'uomo. La storia della proprietà e
la storia della persona. La proprietà collettiva. La comunità di famiglia. Il Cristianesimo
ed il valore della persona individua. Il feudo. La riforma ed il diritto
naturale.La com piuta individuazione ed itemperamenti della proprie tà privata.
I modi di acquisto primitivi. Le distin zioni dei beni. L'usucapione, l'equità
e la procedura civile.. ! all'ordine di natura dei giureconsulti romani e dei
filosofi greci.La teorica della conoscenza ed ilmodo di concepire i diritti
essenziali della persona. I diritti innati e la Filosofia moderna. Il regime
dello status e del contratto . zione e dell'equiparazione. La teoria che
riguarda la persona incorporale come veicolo. La teoria del patrimonio sui
juris. Le idee dei pubblicisti tedeschi.Il soggetto reale nella corporazione e
nella fon dazione. I diritti delle persone incorporali ed il jus confirmandi
dello Stato. La teoria di Giorgi. La proprietá prediale. Il collettivismo
territoriale. La teoria di Wagner sulla proprietà dei fabbricati. La teoria di
Spencer sulla proprietà del suolo. La proprietà privata del suolo e la rendita.
Le dottrine di George e di Loria sul la terra La proprietà forestale e mineraria.
Le funzioni dei boschi. La libertà del taglio. Il vincolo e le sue ragioni. La
proprietà mineraria e le fasi della industria. La critica degli argomenti in
favo re del proprietario del suolo. La dottrina che attribuisce la miniera allo
scopritore . La merce lavoro ed il suo prezzo. Il lavoro come pro prietà. La
coalizione e lo sciopero. La giuria industriale.La proprietà del capitale ed il
profitto. Il collettivismo ed il mutualismo. La teoria di Marx. La critica del
collettivismo e della teoria di Marx. Le coalizioni degl'intraprenditori. La
proprietà commerciale, il diritto di autore e di scopritore. Il concetto della
proprietà commerciale. La libertà dello scambio. La concorrenza. La nozione
primitiva del commercio. Il diritto di autore prima e dopo l'in La
propriatà industriale. La classificazione dei diritti sulla cosa altrui. Le
servitù gimento dell'istituto nelle legislazioni. Esposizione critica delle
varie dottrine assolute e relative. Il fon damento razionale. La critica della
teoria di Ihering sulla volontà di possedere. Le obbligazioni. zioni. Le loro
varie specie e modalità. I differenti modi di estinzione . Il contratto e le
sue forme. L'indole del possesso. La sua origine storica. Lo svol
L'obbligazione. La sua origine. Le fonti delle obbliga La nozione del
contratto. Le sue fasi ed il suo fonda. mento. I requisiti essenziali. I vizî
del consenso ed alcune recenti teorie. L'interpretazione dei contratti. Le loro
classificazione e le dottrine di Kant e di Trendelenburg. venzione della
stampa. Il suo fondamento ed il suo carattere. La garentia del diritto dello
scopritore I diritti reali particolari. e le loro specie. In quali modi le
servitù nascono, si esercitano e si estinguono. L'enfiteusi. La superficie. Il
pegno e l'ipoteca. Il carattere del diritto di ritenzione Il possesso. La
libertà di contrarre ed il contratto di lavoro. La libertà di contrarre, i suoi
limiti e la sua guarentigia.. L'interesse e la sua limitazione. La libertà
dell'interesse. L'usura ed i suoi procedimenti. L'usura come forma
dell'ingiusto civile ed i modi di combatterla. L'usura come delitto. Critica
della teoria di Stein. La figura specialedeldelittodiusura.La leggeela vita. La
società, la cambiale, il trasporto e alcuni contratti aleatori. Il contratto di
società e le sue forme. La società e la. Il prestito usurario. persona
incorporale. Il regime dell'autorizzazione e della vigilanza. La cambiale
antica e la moderna. L'indole del contratto di trasporto. L'assicurazione e le
nuove teorie. Il giuoco. La missione sociale del diritto privato. L'eguaglianza
delle parti nella locazione di opera. I sistemi che regolano la responsabilità
dell'intraprenditore negli infortuni del lavoro. La famiglia primitiva. L
accoppiamento e l'istinto di riproduzione fra gli animali. Le teoriedi LUCREZIO
e di VICO. Le unioni pri mitive. La famiglia femminile. L'erogamia ed il ratto.
Gl'inizi e lo sviluppo della famiglia patriar . matrimonio. Le sue
condizioni.Il matrimonio civile. La precedenza del matrimonio civile. I
rapporti fra i coniugi. L'autorizzazione maritale. Il libro di Bebel e le idee
di Spencer. I sistemi con cui si regolano i beni nel matrimonio.
L'indissolubilitá matrimoniale ed il divorzio. L'ideale dell'indissolubilità.
Le esigenze concrete della vita.La quistione del divorzio in rapporto ai
diritti individuali ed alle ragioni sociali e storiche. Il divorzio e la
Chiesa. Le cause di divorzio.Le cautele. La tendenza a rivivere in altri. Il
fondamento e le fasi della patria potestà. La tutela,le sue specie e la cura. L'adozione.
I figli nati fuori del matrimonio. La ricerca della paternità. La
legittimazione . Idea, storia e fondamento della successione. Il concetto
dell'eredità. La successione legittima e la te. stamentaria nella storia. La
successione ed il culto degli antenati. Le dottrine intorno al fondamento
cale. La progressiva individuazione della parentela. Il processo di
specificazione e la fine della famiglia. L'amore come fondamento del
matrimonio. L'idea del La societá coniugale.. La società parentale. della successione.
Il condominio domestico ed il diritto di proprietà come basi della successione.
La successione legittima e la testamentaria. La prossimità della parentela e
del grado. La capacità di
succedere. Le classi degli eredi. La rappresentazione. La capacità di testare e
di ricevere per testamento. Le specie di testamenti, La legittima. Il diritto
di rappresentazione e la successione testamentaria. L'errore nella causa finale
ed impulsiva, e le condizioni.Il diritto di accrescere. La sostituzione e la fiducia.
I principi comuni ad ogni specie di successione. Il mondo romano è il
mondo del volere, e quindi del diritto e della politica. Il volere in siffatto
mondo da un lato continua a mostrarsi negli ordini superiori ed inflessibili
dello stato, e dall'altro comincia a svolgersi in forma di diritto individuale.
Con il principio del volere, di sua natura soggettivo, il diritto privato non
può non sorgere, e lo stato non può più per lunghissimo tempo conservare le
rozze sembianze d'una organica oggettività naturale. In Roma, il diritto
privato ė nei suoi primi momenti stretto, ferreo ed arcano. Poi è ampliato,
oltre al divenire palese, giovato, supplito e corretto dall'equità, ch'è lo
stesso diritto in opposizione ad una legge, la quale non ha saputo attuarlo. Alla
fine è diritto umano, e per conseguenza proclama il principio, che la
schiavitù, istituto delle genti e contronatura, non riguarda l'anima, echegliuomi
ni innanzi al diritto naturale sono liberi ed eguali. CICERONE, il
filosofo più alto del mondo romano, non avendo coscienza scientifica della
manifestazione del diritto soggettivo, come atto dell'astratta potenza del
volere, ė inferiore alla stessa realtà romana. CICERONE non è autore di una
filosofia propria, e segue d’ecclettico gli scrittori greci. CICERONE professa
il dubbio, non crede che la mente possa Il vuoto soggetto, rappresentato
dall’accademici come oggetto, riceve ora tutta la sua concretezza, ed è in seno
del Cristianesimo determinato quale Verbo o mente assoluta. La filosofia quinci
innanzi s'informa al principio soggettivo. L'uomo, immagine di Dio ed in
carnazione del verbo, si riabilita; e lo stato antico, perdendo il suo alto
significato, è costretto a rimpiccolirsi. La parte più intima dell'individuo
non è più sottoposta alla potestà politica, sibbene alle nuove credenze, che in
origine si mantengono in quell'ambiente ce leste in cui sono nate, e si
oppongono al mondo ancora pagano. L'Apostolo scorge una contraddizione tra gli
stimoli della carne e gl’impulsi dello spirito. LATTANZIO crede che la vera
giustizia sia nel culto di un divino unico, ignoto ai gentili. AGOSTINO parla
di una città celeste, sede di verità e di giustizia, in antitesi alla città
terre stre, fondazione di fratricidi e prodotto del peccato pri 6 essere
assolutamente certa, é pago della semplice verosimiglianza. Nell'etica elimina
il dubbio per leconseguenze dannose, e fa appello alla coscienza immediata, in
cui si ritrovano i germi della virtù, ed al consenso del genere umano, per
definire l'onesto e per stabilire alcuni pre supposti speculativi di esso.
Preferisce il principio etico del PORTICO, che tempera da uomo pratico. Trae il
diritto non dalle leggi di le XII tavole o dall'editto, ma dalla natura umana.
Riproduce la teoria aristotelica del lo stato, e si attiene alla forma mista,
propria degl’ordinamenti politici di Roma. Luigi Miraglia. Miraglia. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Miraglia” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Misefari: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- implicatura anarchica
– la scuola di Palizzi -- filosofia calabrese – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Palizzi). Filosofo italiano. Palizzi,
Reggio Calabria, Calabria. ‘Io non sono
italiano; io sono calabrese!” Fratello di Enzo (politico calabrese del P.C.I.,
storico e poeta), di Ottavio (calciatore reggino tra i più conosciuti nei primi
anni del secolo; giocò nella Reggina e nel Messina) e di Florindo (biologo,
attivista della Lega Sovversiva Studentesca e del gruppo "Bruno
Filippi"). Dopo aver frequentato la scuola elementare del piccolo
paese di nascita in provincia di Reggio Calabria, a undici anni si trasferì con
lo zio proprio a Reggio Calabria. Già da adolescente, influenzato dalle
frequentazioni di socialisti e anarchici in casa dello zio, partecipò
attivamente alla fondazione e allo sviluppo di un circolo giovanile socialista
(intitolato ad A. Babel, rivoluzionario tedesco dell'Ottocento). Iniziò a
collaborare al giornale Il Lavoratore, organo della Camera del Lavoro di Reggio
Calabria, firmando gli articoli come "Lo studente". Collaborò nello
stesso periodo a Il Riscatto, periodico socialista-anarchico stampato a
Messina; e con Il Libertario, stampato a La Spezia e diretto da Binazzi. A causa
della sua attività anti-militarista esercitata all'interno del Circolo contro
la Guerra italo-turca, fu arrestato e condannato a due mesi e mezzo di carcere
per «istigazione alla pubblica disobbedienza». Fu nei due anni successivi
che M. si convertì dal socialismo all'anarchia. Ciò avvenne soprattutto con la
frequentazione da parte di Berti, suo
professore di fisica presso l'"Istituto Tecnico Raffaele
Piria". Si trasferì a Napoli e si iscrisse al Politecnico, dopo
avere studiato fisica e matematica alle superiori, e anche per non dispiacere
al padre, proseguì tali studi. Pesò inoltre su questa decisione il fatto che in
quegli anni, dopo la tragica distruzione della città di Reggio Calabria a causa
del terremoto del 1908, il lavoro che garantiva le maggiori certezze era
proprio quello dell'ingegnere. Nondimeno continuò per proprio conto gli studi a
lui prediletti: politica, filosofia, letteratura, come aveva fatto fino ad
allora. A Napoli si fece subito avanti nell'ambiente anarchico. Il movimento a
Napoli contava allora di un centinaio di aderenti. Si rifiuta di
partecipare al corso allievi ufficiali a Benevento e fu condannato a quattro
mesi di carcere militare. Diserterà una seconda volta, trovando rifugio nella
campagna del beneventano in casa di un contadino. Tornato a Reggio Calabria,
interruppe una manifestazione interventista nella centrale Piazza Garibaldi,
salendo sul palco e pronunciando un discorso antimilitarista. Venne per questo
motivo arrestato e condotto presso il carcere militare di Acireale; sette mesi
dopo venne trasferito presso quello di Benevento. Da lì riuscì ad evadere
grazie alla complicità di un amico secondino. Fu tuttavia intercettato alla
frontiera del confine svizzero; ancora incarcerato, riuscì nuovamente nella
fuga. Tocca il territorio svizzero, ma i gendarmi lo condussero al carcere di
Lugano. Giunte dalla Calabria le informazioni su di lui, essendo un uomo
politico, dopo quindici giorni fu lasciato libero con la facoltà di scegliere
il luogo di residenza. Indicò subito Zurigo, dove sapeva di potere rintracciare
Misiano, suo caro amico e noto esponente politico socialista, anche lui
accusato di diserzione. A Zurigo trovò ospitalità presso la famiglia Zanolli,
dove si innamorò della giovane Pia, che diventerà sua compagna di vita.
Durante il periodo di esilio in Svizzera, Bruno svolgeva attività politica
tenendo i contatti con Luigi Bertoni e con altri gruppi anarchici elvetici,
collaborando anche al giornale: Il Risveglio Comunista Anarchico. Svolse una
serie di conferenze in varie città della Svizzera. M. si autoannunciava con un
suo pseudonimo anagrammatico Furio Sbarnemi. A Zurigo frequenta la Cooperativa
socialista di Militaerstrasse 36 e la libreria internazionale di Zwinglistrasse
gestita dai disertori Monnanni, Ghezzi e Arrigoni; in questi ambienti conosce
anche Angelica Balabanoff. Venne arrestato per un complotto inventato
dalla polizia. Fu incolpato innocentemente con l'accusa di avere fomentato una
rivolta nella città e di «aver fabbricato bombe a scopo rivoluzionario». Con
lui furono arrestati diversi attivisti politici, tra i quali lo stesso
Francesco Misiano (che fu poi rilasciato perché socialista e non anarchico).
Rimase in carcere per sette mesi, e venne poi espulso dalla Svizzera. Grazie ad
un regolare passaporto per la Germania, ottenuto per ragioni di studio, si recò
a Stoccarda.Lì entrò in contatto con Zetkin (che gli rilascia una lunga
intervista sul movimento rivoluzionario in Germania) e Vincenzo Ferrer. Poté
rientrare in patria, in seguito all'amnistia promulgata dal governo Nitti. -- è
a Napoli e poi a Reggio Calabria. E un periodo intenso per la sua vita
militante di M. A Napoli partecipò come oratore a molte manifestazioni, si
prodigò a favore dei suoi compagni colpiti dalla repressione, denunciò le
provocazioni della polizia; tenne numerose conferenze e comizi. Con il dentista
anarchico Giuseppe Imondi, stampò alcuni numeri del giornale: L'Anarchia. In
autunno fu chiamato a Taranto a svolgere il compito di segretario propagandista
presso la locale Camera del Lavoro Sindacale. Ha stretti contatti con
Malatesta, Berneri, Binazzi, Borghi, Vittorio e altri esponenti dell'anarchismo
e del sovversivismo italiano. Si impegnò su più fronti per la campagna a favore
degli anarchici Sacco e Vanzetti. Nello stesso periodo e corrispondente di:
Umanità Nova, settimanale anarchico diretto da Malatesta e collaborò al
periodico: L'Avvenire Anarchico di Pisa. Continuò i suoi studi a Napoli
con qualche salto a Reggio Calabria con la sua compagna Zanolli, che sposò. Si laureò a Napoli.
Successivamente si iscrisse anche alla facoltà di filosofia. Nonostante
l'avvento del fascismo, fondò un giornale libertario, “L'Amico del popolo,” che
però dopo il quarto numero fu soppresso dalle autorità. Nel primo numero del
giornale,scrisse un editoriale dal titolo “Chi sono e cosa vogliono gli
anarchici.” Lo scritto è l'espressione del suo pensiero libertario:
«L'anarchismo è una tendenza naturale, che si trova nella critica delle
organizzazioni gerarchiche e delle concezioni autoritarie, e nel movimento
progressivo dell'umanità e perciò non può essere una utopia.» Da esperto
di geologia, progettò per primo in Calabria l'industria del vetro e fondò a
Villa S.Giovanni, la prima vetreria in Calabria (Società Vetraria Calabrese).
In quegli stessi anni subì però persecuzioni continue da parte del regime. E cancellato
dall'Albo di categoria e non poté più firmare progetti. Gli venne mossa
l'accusa di avere «attentato ai poteri dello Stato, per il proposito di
uccidere il re e Mussolini». Fu prosciolto dopo venticinque giorni di carcere.
La polizia ravvisò in un discorso di commemorazione durante il funerale di un
amico (tra l'altro un industriale fascista, Zagarella) un'ispirazione anarchica
e pertanto lo propose per l'assegnazione al confino. Fu arrestato, in carcere
si sposa con Pia Zanolli, fu inviato per il confino, prigioniero a Ponza.
Tuttavia sembra che tale provvedimento fosse stato determinato da altri motivi.
M., che era ingegnere minerario, si era attivamente impegnato nello
sfruttamento su larga scala di giacimenti di quarzo, materia prima per
l'industria vetraria, che fino a quell'epoca dipendeva, in gran parte, dai
silicati stranieri. Assunto come direttore tecnico della Società Vetraria
Calabrese (di cui era stato finanziatore e Presidente il succitato Zagarella)
egli si era dovuto ben presto scontrare con l'assenteismo e l'inettitudine del
consiglio di amministrazione che si schierò contro di lui con l'intenzione di
eliminarlo in qualsiasi modo, ricorrendo anche ad espedienti politici.
Giustizia e Libertà, in un articolo anonimo ddal titolo «Politica e affarismo.
Il caso di un ingegnere libertario», attribuisce la causa del confino alle
manovre dei suoi ex soci. Durante il confino stringe amicizia con Torrigiani,
Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, il quale lo affilia alla
Massoneria. L'amnistia del decennale del fascismo lo liberò dal confino
dopo due anni. Ma tornato in Calabria vide il vuoto intorno a sé; scrive
infatti a sua moglie: "Amnistiato sì, però a quale prezzo: la salute
sconquassata, senza un soldo, senza prospettive per l'avvenire". Gli viene
diagnosticata l'esistenza di un tumore alla testa. Va e viene con la moglie da
Zurigo a Reggio Calabria. Riesce a trovare il capitale necessario per
l'impianto di uno stabilimento per lo sfruttamento della silice a Davoli (in
provincia di Catanzaro). Le sue condizioni di salute peggiorano a causa
del tumore. Perde conoscenza, viene ricoverato in stato gravissimo nella
clinica romana del Senatore Giuseppe Bastianelli, e lì si spense la sera
stessa. Ancora ragazzo, studente, cominciò a ribellarsi contro
l'ingiustizia del mondo che lo circondava: Palizzi Superiore, un paese tra i
monti dove il castello feudale dei signori locali dominava la valle, dove si
ammucchiavano piccole e povere case desolate di contadini. E si ribellò a quel
mondo, costruito secondo quell'immagine topografica che portava impresso nella
memoria: sopra, chi comanda e non lavora, sotto, chi subisce e lavora. E ancora
ragazzo cominciò a sognare un mondo in cui quella gerarchia fosse sovvertita
prima, distrutta poi. Poteva scegliere di ispirarsi al socialismo marxistico o
al socialismo libertario. Del primo apprezzava l'analisi dell'antagonismo tra
le classi, ma mostrava perplessità circa i mezzi proposti dalla diagnosi
marxistica per fronteggiare il pericolo di una rivincita dell'avversario di
classe. Inclinò perciò verso il socialismo libertario. «Nel comunismo
libertario io sarò ancora anarchico? Certo. Ma non di meno sono oggi un amante
del comunismo. L'anarchismo è la tendenza alla perfetta felicità umana. esso
dunque è, e sarà sempre, ideale di rivolta, individuale o collettivo, oggi come
domani. M., Taccuino personale. La scelta della diserzione fu coerente con il
suo obiettivo di combattere non la guerra degli stati, ma a fianco degli
oppressi di tutto il mondo contro il loro nemico, tenendo alta la bandiera
dell'internazionalismo. Pur sottoposto senza tregua alla persecuzione della
polizia e all'inquisizione della magistratura, fu sempre al suo posto accanto a
coloro che lavoravano e soffrivano. Come ogni rivoluzionario sincero e
coerente, pagò col carcere e col confino la sua fede in un ideale. Chi
sono gli anarchici. Secondo M., essere anarchici voleva dire per prima cosa
proclamare, contro ogni violenza, l'inviolabilità della vita umana. Inoltre
significava lottare per l'abolizione della proprietà privata e a favore della
socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio. Proprio per questo gli
anarchici sono, di fondo, dei socialisti. A questo esperimento di vita sociale andava
affiancata la lotta contro lo Stato, che ne impediva la realizzazione. E la
lotta contro lo Stato non poteva essere vittoriosa se non con la rivoluzione.
Dunque gli anarchici sono socialisti, antistatali e rivoluzionari. Elemento
fondamentale della lotta, secondo Misefari, era l'allargamento di essa alla
sfera internazionale. È comunque una lotta che non si fa violenta. M. è
fortemente pacifista, contrario all'uso della forza e della violenza armata.
L'anarchico è inoltre antireligioso: la religione infatti è considerata
"fattore di abbrutimento per l'umanità". Antimilitarismo Per M.
la guerra è pura barbarie, speculazione capitalistica consumata in nome dello
Stato. «L'esistenza del militarismo è la dimostrazione migliore del grado
di ignoranza, di servile sottomissione, di crudeltà, di barbarie a cui è
arrivata la società umana. Quando della gente può fare l'apoteosi del
militarismo e della guerra senza che la collera popolare si rovesci su di essa,
si può affermare con certezza assoluta che la società è sull'orlo della
decadenza e perciò sulla soglia della barbarie, o è una accolita di belve in
veste umana.» Religione La religione è considerata come un anestetico
delle facoltà critiche della mente umana. Sarebbe proprio la religione a imprigionare
le energie morali dell'uomo, a inebetire lo spirito critico e di riflessione.
Perciò i popoli più religiosi sarebbero i meno progrediti e i più afflitti
dalla tirannia, mentre, laddove la religione sparisce, lì è florida la libertà
e il benessere. «È il più solido puntello del capitalismo e dello Stato,
i due tiranni del popolo. Ed è anche il più temibile alleato dell'ignoranza e
del male.» È forte nel pensiero di M. la volontà di sottolineare
l'uguaglianza sociale tra uomo e donna. In anni difficili e lontani dalle
battaglie del femminismo di metà Novecento, egli afferma che la donna nobilita
e abbellisce la condizione di vita umana. È dovere della donna lottare per
risollevarsi da una condizione di inferiorità, che è tale in virtù di un
"delitto sociale" e non dovuta a leggi di natura. «Donne, in
voi e per voi è la vita del mondo: sorgete, noi siamo uguali!» M. vive di
sogni, di ideali. Nella sua concezione non esiste un artista, che sia poeta,
filosofo, persino scienziato, che si sia mai messo al servizio della menzogna.
Se tutti potevano essere vili, un artista non poteva. «Un poeta o uno
scrittore, che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo
status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in
prosa. L'arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere
eminentemente rivoluzionaria. Poesia composta da M.: FALCO RIBELLE. Un
giovane falco che drizza il libero volo Ne l'alto, ove sono i fulgori di soli
immortali Un giovane falco ribelle o piccoli, io sono. Mi spinge ne' campi
ignorati, un acre desio Di sante ideali battaglie, di luce e di gloria. Mi
splende nell'occhio la speme di certe vittoria, Mi parla nel core la voce
sinfonica, dolce D'un caro sublime Pensiero, ch'è Bene ed Amore. Ho giovini
l'ale e robuste, o venti, o cicloni, O fulmini immani feroci, vi lancio la
sfida. Voi soli potete pugnare col giovine falco, Chè Luce, chè Forza, chè Vita
multanime siete. Ma voi, piccoli, no. Coi vermi guazzate nel fango, Dal fango
mirate del falco il libero volo.» Frammenti «Prima di pensare di
rivoluzionare le masse, bisogna essere sicuri di aver rivoluzionato noi
stessi» «Ogni uomo è figlio dell'educazione e della istruzione che riceve
da fanciullo. Gli Anarchici non seguono le leggi fatte dagli uominiquelle non
li riguardanoseguono invece le leggi della natura» «Prima l'educazione
del cuore, poi l'educazione della mente» «Socialismo vuol dire
uguaglianza, vuol dire libertà. Ma l'uguaglianza non può essere senza libertà;
come la libertà non può essere senza l'uguaglianza: dunque socialismo e
anarchia sono due termini dello stesso binomio, sono i due inseparabili fattori
della redenzione proletaria.» «Quando la giustizia non sarà la durda
infame delle tirannidi, quando l'amore non sarà deriso, quando il ferro non
sarà legge e l'oro non sarà dio, quando la libertà sarà religione e sola
nobiltà il lavoro, allora, solo allora, il mio rifiuto della guerra sarà
benedetto.» «M'è questa notte eterna assai men grave del dì che mi mostrò
viltà dei forti e pecorilità di plebi schiave. Lungi da quì il pianto: sto ben
coi morti! (epitaffio) Opere complete M.,
Schiaffi e carezze, Roma, Morara, M., Diario di un disertore, La Nuova Italia,
Entrambi i testi sono stati pubblicati postumi sotto lo pseudonimo Furio
Sbarnemi. Le schede biografiche di alcuni esponenti anarchici calabresi,
A/Rivista Anarchica, Antonioli, Antonioli, E. Misefari. Antonioli, Pia Zanolli era nata a Belluno. Dopo il
matrimonio con Misefari, fu iscritta nell'albo dei sovversivi pericolosi,
venendo poi arrestata col marito a Domodossola (cfr.: A/Rivista Anarchica) Chi sono e cosa vogliono gli anarchici, ed.
settembre. Antonioli, Pia Zanolli, L'Anarchico di Calabria, Roma, La
Nuova Italia, Utopia? No, Pia Zanolli, Roma, ALBA Centro Stampa, E. Misefari,
biografia di un fratello, Milano, Zero in condotta, M. Antonioli, Gianpietro
Berti, Santi Fedele, Pasquale Luso, Dizionario biografico degli anarchici
italianiVolume 2, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, Bruno Misefari, Schiaffi,
Carezze e altro, Pino Vermiglio, Laureana di Borrello, Ogginoi, Furio Sbarnemi,
Diario di un disertore, Camerano (AN), Gwynplaine, Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Horizons Unlimited srl. Bruno
Misefari presso l'International Institute of Social History di Amsterdam, su
iisg.amsterdam, Fondo M. presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma, su
fondazione basso. Gli anarchici contro il fascismo, celebre articolo di Giorgio
Sacchetti. Bruno Misefari. Misefari. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Misefari” – The Swimming-Pool Library.
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