farvi ritorno,
lasciando nel nulla l’«ingiustizia», ossia tutto ciò che nelle cose è l’effetto di quella separazione (Anassimandro). Il Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che dà senso al mondo e al dolore è avvolto dal divino, e tuttavia non si mostra nella luce, non è «saldo». Eschilo, per primo in modo esplicito, porta alla luce che Yepistéme della «Verità», come coscienza del proprio contenuto divino, è il fondamento della salvezza e della felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è espresso da Eschilo con un linguaggio che non può essere quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al «teatro» nel senso corrente della parola. Théatron, per Eschilo, è la ricerca che culmina nella contemplazione della «Verità». Il «dialogo» di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in genere) viene radicalmente condannata, non capisce di avere nel «teatro» di Eschilo il proprio più potente predecessore. Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice «tutto l’opposto». Porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del quadro grandioso della tradizione occidentale. Un altrettanto 127 grandioso, terribile e inevitabile gesto, quello di Leopardi, la cui potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della cultura europea. Ma come è possibile capire questo gesto - presente in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se non si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto, ossia ciò che qui sopra abbiamo sommariamente tentato di indicare? A proposito di un passo di Diogene Laerzio, in cui si richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi afferma: «Oggidì possiamo dire tutto l’opposto». «Possiamo»: nel senso che «dobbiamo», che «è necessario», che è tutto l’opposto a dover esser portato alla luce dalla filosofia. Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate «vi è un solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un solo male [kakón], il non sapere [ amathìan ]», cioè la privazione di quel «sapere» (màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale solo se è vero, se appare non nell’opinione, nella fede, nel mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la salvezza da lui data sono portati alla luce dall’ epistéme della verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la salvezza del male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo. Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è «tutto l’opposto», cioè che Yepistéme è l’unico male e che il non sapere (amathia ) è l’unico bene. Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva, sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun 128 Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che le precede, le segue e le attraversa. Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile custode di tutte le cose che nascono e muoiono - si è qui al cuore deir«ultrafilosofia» di Leopardi -, il loro provvisorio sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza; laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Questa, la potente anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana «morte di Dio». Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non saperla, la verità, che saperla; meglio Yamanthìa che Yepistéme. (Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e stupenda, cit., che ho pubblicato per Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e, per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, Adelphi 1989). Leopardi può in tal modo portare alla luce il legame profondo che unisce Yamanthìa, l’ignoranza della verità, alla poesia e all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è illusione, inganno, menzogna, senza di cui la vita sarebbe però impossibile. Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta incita l’esercito dalla battaglia o di quella dove il canto fa sopportare il dolore e la morte. Nell’illusione poetica - che peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - l’uomo crede di essere in rapporto all’Infinito e aH’Eterno. 129 In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere, la poesia non debba mostrare la verità, cioè la nullità di tutto - e il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo primo atteggiamento, dove il naufragio nel «mare» delFInfinito è «dolce». Ma poco dopo egli sviluppa la grande teoria del «genio» che unisce nella propria opera la verità terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia e poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il contenuto del canto, ma, sia pure provvisoriamente, convergono nella potenza del canto, in modo che «l’anima riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose e sua propria». Infinita ed eterna è questa forza: non nel senso che il genio si sostituisca a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre finita e caduca, con cui egli riesce a esprimere la morte, cioè la finitezza e caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma di vita della cui infinità e eternità ci si può ancora illudere. E sono la suprema salvezza e «consolazione» concesse a chi non può salvarsi né essere consolato. La «ginestra» è il «fiore del deserto». Il deserto è la morte e nullità di tutte le cose; il «fiore» è il genio. Egli è mortale, nasce per morire, e questa nascita è «natura». Ma «nobile». «Nobil natura». La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il suo «profumo» (la potenza del canto) e Yepistéme della verità che vede il «deserto». «[...] di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola.» Ora la dolcezza non si addice al naufragio nel mare dell’Infinito illusoriamente cantato come reale: l’Infinito è morto («è distrutto Iddio», scrive Leopardi, anticipando il «Dio è morto» di Nietzsche) e il deserto ne ha preso il posto. Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce 130 gli occhi mortali incontra al comun fato, e che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte. Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con occhi mortali la morte («il comun fato»), non nasconde la verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il quale Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è la nobile natura che unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto poetico e che intende come «vero amore» il porgere agli uomini questa unione. Come vero amore e come unico rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica, potranno, sia pur fugacemente godere, prima che il fuoco del «vulcano ardente» abbia a distruggere la ginestra, il fiore del genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne vede il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo «profumo» «consola» il deserto. Il «genio» che consola il deserto non è la volontà dell’«oltreuomo» che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica di Nietzsche, da questa «vetta della contemplazione», come egli la chiama, che si porta ancora più in alto della vetta raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui linguaggio sta tuttavia più in alto del linguaggio di Nietzsche), allora si può dire che sia come filosofia sia come poesia il pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se ciò che viene portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vort
No comments:
Post a Comment