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Monday, December 16, 2024

S

 farvi ritorno, 

lasciando nel nulla l’«ingiustizia», ossia tutto ciò che nelle 
cose è l’effetto di quella separazione (Anassimandro). Il 
Principio custodisce da sempre e per sempre tutto ciò che 
preme all’uomo. Anche nel mito il rimedio che dà senso al 
mondo e al dolore è avvolto dal divino, e tuttavia non si 
mostra nella luce, non è «saldo». 

Eschilo, per primo in modo esplicito, porta alla luce che 
Yepistéme della «Verità», come coscienza del proprio 
contenuto divino, è il fondamento della salvezza e della 
felicità. Questo pensiero è il fondamento di ogni forma 
culturale e pratica della tradizione dell’Occidente. Ed è 
espresso da Eschilo con un linguaggio che non può essere 
quello comune e che solo impropriamente è riconducibile al 
«teatro» nel senso corrente della parola. Théatron, per 
Eschilo, è la ricerca che culmina nella contemplazione della 
«Verità». Il «dialogo» di Platone, in cui la tragedia (e l’arte in 
genere) viene radicalmente condannata, non capisce di avere 
nel «teatro» di Eschilo il proprio più potente predecessore. 

Leopardi, per primo, rovescia tutto questo; dice «tutto 
l’opposto». Porta alla luce l’impossibilità e l’illusorietà del 
quadro grandioso della tradizione occidentale. Un altrettanto 


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grandioso, terribile e inevitabile gesto, quello di Leopardi, la 
cui potenza è rimasta incompresa anche da quanti (come lo 
stesso Nietzsche) hanno visto in lui uno dei culmini della 
cultura europea. Ma come è possibile capire questo gesto - 
presente in ogni verso, anzi in ogni parola di Leopardi - se 
non si ha dinanzi che cosa in questo gesto resta distrutto, 
ossia ciò che qui sopra abbiamo sommariamente tentato di 
indicare? 

A proposito di un passo di Diogene Laerzio, in cui si 
richiama il fondamentale principio di Socrate, Leopardi 
afferma: «Oggidì possiamo dire tutto l’opposto». «Possiamo»: 
nel senso che «dobbiamo», che «è necessario», che è tutto 
l’opposto a dover esser portato alla luce dalla filosofia. 

Che cosa si dice in quel passo? Che per Socrate «vi è un 
solo bene [ agathón ], Yepistéme, e vi è un solo male [kakón], il 
non sapere [ amathìan ]», cioè la privazione di quel «sapere» 
(màthos ) in cui Yepistéme consiste. Ogni bene, infatti, è tale 
solo se è vero, se appare non nell’opinione, nella fede, nel 
mito, ma nella luce della epistéme della verità. Ed esiste un 
rimedio contro l’angoscia, il dolore, la morte, solo se esso è un 
vero, saldo rimedio; il Dio salva l’uomo solo se il Dio e la 
salvezza da lui data sono portati alla luce dall’ epistéme della 
verità. Quest’ultima è dunque la radice di ogni bene, e, in 
questo senso, è l’unico bene. Il male è il dolore, la morte e 
l’angoscia che ne deriva; il bene è la felicità e la salvezza del 
male, prodotte dalla conoscenza della verità, il cui contenuto 
è, da ultimo, l’Ordinamento divino del mondo. 

Ma, dicevamo, Leopardi mostra che è «tutto l’opposto», 
cioè che Yepistéme è l’unico male e che il non sapere 
(amathia ) è l’unico bene. 

Alla base di quest’ultima, che è una conclusione decisiva, 
sta la scoperta angosciante che non può esistere alcun 


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Principio eterno, incorruttibile, divino, e che quindi tutte le 
cose sono nulla, perché sono circondate dal nulla infinito che 
le precede, le segue e le attraversa. 

Se esistesse un Essere eterno e divino, incorruttibile 
custode di tutte le cose che nascono e muoiono - si è qui al 
cuore deir«ultrafilosofia» di Leopardi -, il loro provvisorio 
sporgere dal nulla sarebbe una semplice e illusoria apparenza; 
laddove l’uscire dal nulla e il ritornarvi sta al centro della 
verità che per l’intero Occidente è l’assolutamente innegabile. 
Proprio perché l’esistenza del divenire è innegabile, la verità è 
che l’Eterno, l’Infinito è impossibile. Questa, la potente 
anticipazione, da parte di Leopardi, della nietzscheana «morte 
di Dio». 

Ma, diversamente da Nietzsche, per Leopardi il nulla è il 
Principio di tutte le cose. Meglio allora per l’uomo non 
saperla, la verità, che saperla; meglio Yamanthìa che 
Yepistéme. (Soprattutto a questo punto vanno tenuti presenti 
Il nulla e la poesia, cit., e Cosa arcana e stupenda, cit., che ho 
pubblicato per Rizzoli rispettivamente nel 1990 e nel 1997, e, 
per quanto riguarda Eschilo, Il giogo. Alle origini della 
ragione: Eschilo, Adelphi 1989). 

Leopardi può in tal modo portare alla luce il legame 
profondo che unisce Yamanthìa, l’ignoranza della verità, alla 
poesia e all’arte in generale. Anche qui, molti decenni prima 
di Nietzsche, Leopardi mostra che la poesia è illusione, 
inganno, menzogna, senza di cui la vita sarebbe però 
impossibile. Non si tratta della poesia ridotta a fenomeno 
letterario, ma della poesia potente, dove ad esempio il poeta 
incita l’esercito dalla battaglia o di quella dove il canto fa 
sopportare il dolore e la morte. Nell’illusione poetica - che 
peraltro da gran tempo inganna la fantasia, non l’intelletto - 
l’uomo crede di essere in rapporto all’Infinito e aH’Eterno. 


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In un primo tempo Leopardi crede che, per illudere, la 
poesia non debba mostrare la verità, cioè la nullità di tutto - e 
il canto L’Infinito è una delle espressioni più alte di questo 
primo atteggiamento, dove il naufragio nel «mare» 
delFInfinito è «dolce». Ma poco dopo egli sviluppa la grande 
teoria del «genio» che unisce nella propria opera la verità 
terribile dell’esistenza e la potenza poetica: unione di filosofia 
e poesia. Qui l’Infinito e l’Eterno non costituiscono più il 
contenuto del canto, ma, sia pure provvisoriamente, 
convergono nella potenza del canto, in modo che «l’anima 
riceve vita, se non altro passeggera, dalla stessa forza con cui 
sente la morte perpetua delle cose e sua propria». Infinita ed 
eterna è questa forza: non nel senso che il genio si sostituisca 
a Dio, ma nel senso che la forza, pur sempre finita e caduca, 
con cui egli riesce a esprimere la morte, cioè la finitezza e 
caducità di tutte le cose (e quindi di sé stesso) è l’unica forma 
di vita della cui infinità e eternità ci si può ancora illudere. E 
sono la suprema salvezza e «consolazione» concesse a chi non 
può salvarsi né essere consolato. 

La «ginestra» è il «fiore del deserto». Il deserto è la morte e 
nullità di tutte le cose; il «fiore» è il genio. Egli è mortale, 
nasce per morire, e questa nascita è «natura». Ma «nobile». 
«Nobil natura». La sua nobiltà è la capacità di tenere uniti il 
suo «profumo» (la potenza del canto) e Yepistéme della verità 
che vede il «deserto». «[...] di dolcissimo odor mandi un 
profumo, / che il deserto consola.» Ora la dolcezza non si 
addice al naufragio nel mare dell’Infinito illusoriamente 
cantato come reale: l’Infinito è morto («è distrutto Iddio», 
scrive Leopardi, anticipando il «Dio è morto» di Nietzsche) e 
il deserto ne ha preso il posto. 


Nobil natura è quella 
che a sollevar s’ardisce 


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gli occhi mortali incontra 

al comun fato, e che con franca lingua, 

nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte. 

Il pensiero poetante del genio ha l’ardire di guardare con 
occhi mortali la morte («il comun fato»), non nasconde la 
verità, non le detrae nulla. Egli non è l’uomo comune, per il 
quale Yepistéme è l’unico male e Yamanthia l’unico bene, ma è 
la nobile natura che unisce Yepistéme dXYamanthìa del canto 
poetico e che intende come «vero amore» il porgere agli 
uomini questa unione. Come vero amore e come unico 
rimedio di cui gli uomini, dopo quello di Dio e della Tecnica, 
potranno, sia pur fugacemente godere, prima che il fuoco del 
«vulcano ardente» abbia a distruggere la ginestra, il fiore del 
genio, che cresce vicinissimo al fuoco annientante, perché ne 
vede il vero senso, e insieme lontanissimo, perché il suo 
«profumo» «consola» il deserto. 

Il «genio» che consola il deserto non è la volontà 
dell’«oltreuomo» che, in Nietzsche, accetta il deserto e ne 
vuole l’eterno ritorno. Ma se si prescinde da questa tematica 
di Nietzsche, da questa «vetta della contemplazione», come 
egli la chiama, che si porta ancora più in alto della vetta 
raggiunta dal pensiero di Leopardi (un pensiero il cui 
linguaggio sta tuttavia più in alto del linguaggio di Nietzsche), 
allora si può dire che sia come filosofia sia come poesia il 
pensiero di Leopardi è, di diritto, il pensiero che più si addice 
all’Occidente e, ormai all’intero pianeta. Se ciò che viene 
portato alla luce dall’ epistéme della verità è il vort

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