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Tuesday, November 26, 2024

GRICE ITALO A/Z C CAPODILISTA -- GRICE E CAPODILISTA

 Grice e Capodilista: la ragione conversazionale e ll’implicatura conversazionale -- n principio era la conversazione – filosofia fascista – filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Battaglia Terme). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Battaglia Terme, Padova, Veneto. Grice: “I like Capodilista – good vintage (literally)! – Capodilista is difficult to comprehend, but when I was struggling to find examples of implicatura due to exploiting ‘be perspicuous,’ he was whom I was thinking! Keywords in his philosophy are ‘il non-detto,’ ‘homos eroticus’ – filosofia dell’espressione – metafisica – equilibrio apolineo-dionisiaco, positive-negativo –“  “Un pensiero perfetto in sé non esiste; un pensiero è perfetto solo nella serie innumerabile dei pensieri che nascono da esso.»  (Quaderni). Appartenente ad una famiglia veneziana di nobili origini, nacque nella villa di famiglia da Angelo Emo e da Emilia dei baroni Barracco. Studia a Roma sotto Gentile. Le sue riflessioni sul nihilismo sono un'anticipazione della filosofia di Heidegger.  Debitore dell'attualismo gentiliano. Partendo da questo, giunse a trasformarlo in una filosofia dove l'atto è la re-figurazione dell'auto-negazione del nulla che comunque conserva una sua funzione positiva così come nela religione romana la morte del corpo ha la funzione di salvezza nella redenzione dello spirito (animo). La forma superiore dello spirito intristisce e cerca invano di uscire da sé per trovare qualcosa che lo salvi. Un'istanza di salvezza che trova senso nella religione romana. Dio espia la sua universalità. Distrugge ogni valore e il proprio, sì che lo sparire, il nascondersi di Dio nella sua espiazione non è altro che la nuova creazione dei valori, e così il ciclo ricomincia. Dio si abolisce col suo stesso realizzarsi. Un altro punto fondamentale di sua filosofia è la figura centrale dell’intersoggetivita., del rapporto concreto particoare, particolarizato, inter-personale contrapposto all’astrazioni di una collettività IMpersonale generalizato (universalita, universabilita, generalita formale, generalita applicazionale, generalita di contenuto --, sia quella esaltata da uno stato etico (la communita, la popolazione, la societa). Una diada conversazionale non può essere un dato. Una diada conversazionale può essere solo un rapposro inter-soggettivo, cioè due resurrezioni. Il filosofo è assillato da questo fondamentale problema. Il problema è questo: di quali fedi si nutre e sussiste il mondo? Quale è la fede autentica che lo sostiene nella vita che gli dà la forza dell'attività e la convinzione di partecipare con la sua vita (o la sua azione o il suo essere) alla immortalità, cioè all'assoluto? La diada conversazionale ha bisogno dell'assoluto (l’universabilita) e pertanto il suo problema è questa partecipazione all'assoluto. Come raggiungerà l'assoluto le due uomini – le due maschi -- della diada conversazionale? Quale sarà la sua fede laica? Non certo quella collettivistica-sociale che ha fatto uso della violenza, la forza, e la autorita illegitima, e ha fallito ma neppure quella etrusca che ha compresso la libertà di coscienza.  I etruschi sono nati sotto il segno dello scandalo. Ma il sacro si è allontanato dalla sua scandalosa azione originaria.  Perché in ogni fede vi è qualcosa di scandaloso e di vergognoso? Perché vi è qualcosa di vergognoso nella verità e nella vita stessa? Forse l'elemento vergognoso è l'intersoggetivita pura attorno a cui verte la fede e che si crea con la sua negazione. L’intersoggetività è sempre nuda e la nudità è scandalosa. I vestiti sono l'uniforme innecessari della società. Invano due maschi credono di distinguersi con le vesti; e credono che le due nudità sia uniformità. Le vesti sono il riconoscimento della società, del sociale. Ma le vesti sarebbero nulla se non fossero animate dalla vita intersoggetiva di due nudità. Le veste sono orgogliose delle due nudità che  socializzanoa. È quindi con la libertà degl’entrambi della diada, con le due nudità, con il rifiuto di ogni veste di uniformità, IM-personalita, ed obbedienza all'autorità ad una dottrina o scuola di mistica pitagorica collettivizzante, che la diada recupera la sua essenza duale intersoggetiva interpersonale particolarizata che si fonda sull'amore -- alta espressione del "singolare duale".  Altre opere: “Il dio negative” (Marsilio, Venezia); “La voce d’Apollo musogete: arte e religione nella Roma antica” (Marsilio, Venezia); “Supremazia e maledizione” (Raffaello Cortina Editore, Milano); “Il mono-teismo demo-cratico” (Mondadori, Milano); “Metafisica” (Bompiani, Milano); Il silenzio (Gallucci, Roma); “La meraviglia del nulla” Dizionario Biografico degli Italiani. Le parole che si riferiscono a dei valori, si svalutano progressivamente come le monete, come, appunto, i valori.  Quando pensiamo troppo profondamente, perdiamo l’uso della parola. La parola si può “usare”, cioè profanare, quando non se ne comprende il significato. Se comprendessimo il significato delle parole, non usciremmo mai più dal silenzio.  La conversazione è pericolosa per un’idea, per uno spirito, per una verità che non resiste alla lieve immediatezza (e cioè rapidità) che è l’anima irriducibile di una conversazione e di una comunicazione tra viventi (e che altro è l’arte?). E così l’idea è pericolosa per una conversazione. Conversazione (espressione, comunicazione ecc.) e idea tentano continuamente di sopraffarsi. Appunto perché l’una non può vivere senza l’altra.  È lecito ad un artista prendere sul serio ciò che scrive? Non decade dalla sua qualità di artista e di creatore per divenire soltanto un credente? Il torto dei romantici è stato principalmente quello di prendersi sul serio; i più antichi scrittori prendevano sul serio il loro argomento, ma sempre conservandosi estranei ad esso; senza considerare la loro soggettività di creatori come l’oggetto stesso della loro creazione. I romantici invece prendevano sul serio se stessi, e ciò li rendeva ridicoli, perché ovviamente non potevano più mantenersi al di sopra del loro argomento. Si dovette, pertanto, da Baudelaire in poi, ricorrere ad una forma di ironia. Ciò che distingue la sfera (moderna) del sacro è la mancanza di ironia; eppure può anche darsi che l’universo che abitiamo sia una forma dell’ironia divina, manifestatasi come creazione. Nella sfera antica del sacro, gli Dei di Democrito e di Epicuro ridevano negli intermundi. La sfera della sacralità antica si differenzia dalla sfera della sacralità moderna appunto perché gli antichi Dei, grazia alla loro pluralità, conoscendosi l’un l’altro, ridevano. Un’ilarità che non si addice a un Dio unico e solitario, ma che potrebbe, se l’Unico non fosse troppo preso da se stesso e dalla sua onnipotenza, tradursi nel termine più moderno di ironia. A noi uomini accade appunto di osservare che l’ironia è il solo modo di distaccarci dalla nostra onnipotenza, di uscire all’esterno della nostra assolutezza.  Le opere d’arte, come tutte le immagini, sono in realtà dei ricordi. Sono la memoria. Noi amiamo un’opera d’arte perché essa è la nostra memoria che si risveglia, che riprende possesso di noi, e del suo universo, cioè di tutto. La memoria talvolta dimentica; ed essa ricorda quando dimentica.  La forma letteraria in cui meglio ci si può esprimere è appunto la lettera (l’epistola). Perché l’altro è sempre presenta mentre scriviamo e abbiamo la facoltà di creare il destinatario. Abbiamo la facoltà di creare un pubblico come destinatario? Se non avessimo la facoltà di creare un destinatario, individuale e universale, non scriveremmo mai. Forse non penseremmo neppure. Nessuno scrive per sé. L’immagine e la rappresentazione, che dovrebbero essere la fedeltà assoluta delle cose rappresentate, sono allora infedeltà altrettanto assoluta, diversità radicale dal rappresentato? Il rappresentato in quanto oggetto è per definizione diversità assoluta dal soggetto; come allora, con quale sintesi si può superare questo iato? In quanto differenza dal soggetto, l’oggetto ne è la negazione, la pura negazione; e questa negazione, in quanto puramente essa stessa, è soggetto essa medesima, cioè è il soggetto che si nega; è l’atto del soggetto, in quanto questo atto è l’atto del negarsi. Quindi noi siamo la rappresentazione, siamo l’atto in cui tutte le cose sono e vivono, cioè l’attualità, in quanto siamo autonegazione. La negatività è l’universalità dell’atto. L’eco è la voce del nulla, la parola del nulla, appunto perché è esattamente la nostra voce e la nostra parola, obiettivata, ripetuta. L’obiettività è la ripetizione del soggetto che non può mai ripetersi? Tutto ciò che pensiamo o scriviamo è nell’atto stesso una metamorfosi. Il nostro pensiero non ha altro oggetto che il proprio nulla. L’arte dello scrivere è l’arte di far dire alle parole tutte le trasmutazioni che esse contengono e sono – tutta la loro attuale diversità, tutta la negazione che esse sono quando si affermano, e tutta l’affermazione che viene espressa dalla negazione. Mediante la loro trasmutazione, che è l’affermarsi dell’attualità di una negazione (cioè dell’attualità dell’atto che si riconosce come negativo), le parole finiscono per creare un organismo, un organismo di parole, cioè la frase: L’organismo della frase e del verbo che trasforma la negatività della parola in un atto. La parola è la diversità dell’atto. Negarsi e attualità, negarsi e trascendenza e diversità, sono sempre, e sempre attualmente congiunti; perciò la parola contiene il seme della frase, del discorso. Forse il nostro nome è soltanto uno pseudonimo; forse anche i nomi delle cose sono pseudonimi. Ma qual è il vero nome? È più probabile che le cose come crediamo di vederle siano soltanto gli pseudonimi di un nome; e noi stessi e il nostro essere siamo pseudonimi; di un nome che forse non conosceremo mai e che appunto per questo ha una realtà suprema. Una realtà unica. Una sintesi invisibile di realtà e verità. Una realtà che la conoscenza (la scienza) non può dissolvere, analizzare. Gli scritti di aforismi o di idee frammentarie, di epigrammi o di formule, sono i modi di esprimere l’assoluto, o qualche assoluto, qualche verità in forma breve. Ma ognuno di questi frammenti vuole essere l’espressione dell’assoluto, e quindi non può essere frammentario. Frammenti e parti che sono relative all’assoluto, senza esserlo, si trovano nelle opere di una certa ampiezza, ampie come la vita. La vita, essendo universale, può essere plurale. Il Mangiaparole rivista n. 1Il Mangiaparole 6 Mario Gabriele Lo scrivere è una forma silenziosa (fonicamente) del parlare; ma è un parlare che ha il singolare privilegio di non essere interrotto, se non dalla propria coscienza; la coscienza è la madre, l’origine del discorso, ma è anche la coscienza che fa al discorso, cioè a se stessa, le continue obiezioni. La coscienza è il maggiore obiettore di coscienza. La coscienza parla per affermarsi o per smentire? La nostra scrittura è geroglifica come la nostra parola, che non coincide con ciò che vuole esprimere, ma soltanto vi allude simbolicamente; allude a qualcosa di originariamente noto od originariamente ignoto. A qualcosa di diverso. La parola stessa è originariamente diversità. La Parola è diversità da se stessa e perciò coincide con la diversità dell’atto, con la diversità originaria che vuole esprimere? Questa coincidenza era l’ideale, lo scopo, la fede dell’età dell’autocoscienza. L’età dell’autocoscienza e la tirannia; vi è sempre un quid al di là dell’espressione, senza questo quid l’espressione non sarebbe una metamorfosi. La metamorfosi vuole esprimere se stessa con la negazione; noi alludiamo alla diversità con la negazione, con la identificazione. Noi siamo la verità; è proprio per questo che ci è impossibile conoscerla. la conosciamo quando diventa altro da noi. La conoscenza, l’espressione, la stessa memoria creano l’anteriorità della verità e della sua attualità. Se la verità è un Eden, noi possiamo conoscerla solo quando ne siamo fuori, quando ne siamo espulsi ed esiliati. L’arte dello scrittore consiste nel creare una complicità nel lettore; e di quale colpa diviene complice il lettore? Non lo si è mai saputo. Esistono innumerevoli sistemi di estetica e di spiegazioni complesse e fallaci di un atto che è la semplicità originaria. Una complicità del lettore con l’autore. Il delitto (e il diletto) perfetto. Soltanto l’inesprimibile è degno di un’espressione. La parola è un irrazionale ed è strano che essa esista in un mondo razionale e quantitativo; nel mondo dell’identità. la razionalità è soltanto nel numero; la Parola è divina, anzi la scrittura ha identificato la Parola (il verbo) e la divinità; per gli antichi il numero aveva significati simbolici, cioè spirituali. Oggi il numero privato di ogni significato è identificato dalla sua «posizione» (nello spazio è o sarà il vero successore della parola – ma troverà in se stesso una nuova irrazionalità?) Il numero è la massima razionalità e insieme la massima irrazionalità come serie infinita; non possiamo vivere senza irrazionalità, appunto perché la vita è essa stessa irrazionalità; il numero può vivere? Noi parliamo, noi scriviamo, senza ricordarci la suprema scadenza del silenzio. L’espressione più perfetta è quella che crea l’inesprimibile. L’aforisma e l’ironia sono una professione di scetticismo nei confronti della poesia. L’aforisma è la definizione, l’analisi, la spiegazione, la risoluzione in termini umani della lirica; l’ironia è la scoperta dei suoi motivi non lirici: uno sguardo dietro le quinte. Come esprimerò io il mio pensiero, la mia vita, la mia esperienza? Questa dovrebbe essere l’interrogazione da ogni uomo posta a se stesso. Vero è però che in genere l’inesprimibile è ciò che per noi ha più valore e importanza; quello verso cui ci sentiamo più attirati; quello per cui sentiamo come un’antica, istintiva e simpatica affinità e parentela. La quantità di parole inutili che uno scrittore inserisce nel suo scritto è inversamente proporzionale all’importanza dello scrittore stesso. Vi sono scritti in cui nessuna, o quasi, parola può essere tolta senza grave danno per l’opera e per noi; altri in cui si possono togliere tutte… (Q. 14, 1932).   Il caso della vendita della Palladiana Villa Emo a un magnate straniero. SEMBRA CHIUDERSI UN LUNGO MINUETTO DURANTE IL QUALE LA BANCA DI CREDITO TREVIGIANO HA CONCRETIZZATO L’INTENZIONE (SINO AD ORA MAI UFFICIALMENTE AMMESSA) DI ALIENARE IL BENE. La vendita della Palladiana Villa Emo a Fanzolo di Vedelago è stata ufficializzata.  Il consiglio di amministrazione di Banca di Credito Trevigiano, che ne detiene la proprietà (da quando per 15 milioni di euro la acquistò dall’ultimo erede, il conte Leonardo Marco Emo Capodilista) ha messo ai voti il suo destino e ha deciso: accetterà l’offerta di uno sconosciuto magante straniero.  IL PERCORSO Sembra chiudersi così un lungo minuetto durante il quale l’istituto di credito ha concretizzato l’intenzione (sino ad ora mai ufficialmente ammessa) di alienare il bene. Il 9 gennaio la prima avvisaglia attraverso un comunicato stampa che parlava di un’offerta d’acquisto misteriosamente pervenuta “da un privato appassionato del Palladio, e desideroso di riportare la Villa (Patrimonio Unesco dal 1996) al suo originario splendore”. Ora la conferma di cedere “il solo edificio storico e non gli adiacenti cespiti occupati dalla banca. L’immobile oggetto della trattativa -specifica l’ultima comunicazione- non rappresenta un asset strumentale all’attività bancaria e il Consiglio di amministrazione (…) ha deciso di dare il via libera alle attività propedeutiche alla due diligence di tipo tecnico per giungere all’eventuale chiusura della transazione entro l’anno 2019. Fatto salvo il diritto di prelazione previsto dal D.lgs. a favore del Ministero dei Beni culturali e delle altre competenti autorità”. Nota, quest’ultima, che, ad onor del vero, suona un po’ come una beffa: se lo stesso ente di credito ad oggi dimostra di non poter investire nel mantenimento del bene (ordinario e straordinario inclusi i restauri di cui gli affreschi dello Zelotti avrebbero urgenza), ancor più lontana appare l’ipotesi che possa farsene carico un ente pubblico.  LA STORIA La storia recente del resto lo conferma: dopo il commissariamento (seppur temporaneo) da parte di Bankitalia, la fondazione appositamente creata per la gestione della villa ha dovuto dire addio ai 325 mila euro annui che Credito Trevigiano versava. Insufficienti i proventi derivanti da bigliettazione e affitto degli spazi. Così i bilanci in perdita, primi licenziamenti per il personale della fondazione, le dimissioni, nell’ottobre scorso del presidente Armando Cremasco. Poi, reciproche accuse tra parti, la preoccupazione del sindaco, la petizione “No alla vendita di Villa Emo a Fanzolo di Vedelago” su change.org che raggiunge in pochi giorni quota 975 firme. Tentativo inutile ma che tocca, negli intenti, un nodo fondamentale della vicenda: i firmatari sono soci, clienti della banca e semplici cittadini che riconoscono in Villa Emo il bene più rappresentativo della loro comunità. Un bene acquisito da una banca strettamente legata al territorio e che su di esso ha come stesso suo mandato quello di reinvestire. Una banca della comunità in cui però la comunità, a seguito di questo atto, non si riconosce più.  IL CASO DI VILLA EMO Il caso di Villa Emo, generalizzando, appare uno fra molti nell’inarrestabile processo di alienazione del nostro patrimonio storico. Perché agitarsi tanto se, solo per citare i casi territorialmente più prossimi, la magnate cinese Ada Koon Hang Tse ha recentemente acquisito Villa Cornaro a Piombino Dese (Padova) e il veneziano Palazzo Pisani Moretta sul Canal Grande? Perché forse, per fare un po’ d’ordine, ogni singola vicenda necessiterebbe d’un corretto approccio, di una corretta lettura, esercitando invece proprio il diritto a una non generalizzazione in polemiche a catena. Polemiche aventi nel nostro paese sempre le stesse parole-chiave: sostenibilità, valorizzazione, gestione strategica, autosufficienza nonché il terribile reiterato “fare sistema”. Anche il caso di Villa Emo (per la verità per ora confinato alla cronaca locale) si presterebbe quindi benissimo a dibattiti e disquisizioni filologiche in rapporto al paesaggio, alla fruizione futura (sarà ancora accessibile?) agli immancabili paragoni gestionali (esteri) qui in Italia spesso apparentemente inattuabili. Ma servirebbero, ancora una volta, a tener desta per un po’ l’attenzione e nulla più. L’analisi dei fatti dimostra solamente una sola, nuda verità: siamo bravissimi a scatenare il dibattito e a proporre a parole soluzioni possibili ma anche stavolta, conti alla mano, non siamo stati capaci di elaborare un piano di sostenibilità per tenerci stretto qualcosa che appartiene alla nostra storia. Non resta che augurarci che il nuovo proprietario si riveli un illuminato signore in villa. Così potremo risolvere il tutto con la consueta, amara alzata di spalle: “molto rumore per nulla”. Rodenigo Villa Emo is one of the many cre­ations con­ceived by Ital­ian Re­nais­sance ar­chi­tect Andrea Palladio. It is a pa­tri­cian villa lo­cated in the Veneto re­gion of north­ern Italy, near the vil­lage of Fan­zolo di Vedelago, in the Province of Tre­viso. The pa­tron of this villa was Leonardo Emo and re­mained in the hands of the Emo fam­ily until it was sold in 2004. Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«.[1]  History Andrea Palladio's ar­chi­tec­tural fame is con­sid­ered to have come from the many vil­las he de­signed. The build­ing of Villa Emo was the cul­mi­na­tion of a long-lasting pro­ject of the pa­tri­cian Emo fam­ily of the Re­pub­lic of Venice to de­velop its es­tates at Fan­zolo. In 1509, which saw the de­feat of Venice in the War of the League of Cam­brai, the es­tate on which the villa was to be built was bought from the Bar­barigo fam­ily. Leonardo di Gio­van­nia Emo was a well-known Venet­ian aris­to­crat. He was born in 1538 and in­her­ited the Fan­zolo es­tate in 1549. This prop­erty was ded­i­cated to the agri­cul­tural ac­tiv­i­ties that the fam­ily pros­pered from. The Emo family's cen­tral in­ter­est was at first in the cul­ti­va­tion of their newly ac­quired land. Not until two gen­er­a­tions had passed did Leonardo Emo com­mis­sion Pal­la­dio to build a new villa in Fan­zolo.  Historians un­for­tu­nately do not have firm chronol­ogy of dates on the de­sign, con­struc­tion, or the com­mence­ment of the new build­ing: the years 1555 or 1558 is es­ti­mated to have been when the build­ing was de­signed, while the con­struc­tion was thought to have been un­der­taken be­tween 1558 and 1561. There is no ev­i­dence show­ing that the villa was built by 1549: how­ever, it has been doc­u­mented to have been built by 1561. The 1560s saw the in­te­rior dec­o­ra­tion added and the con­se­cra­tion of the chapel in the west barchesse in 1567. The date of com­ple­tion is put at 1565; a doc­u­ment which at­tests to the mar­riage of Leonardo di Alvise with Cor­nelia Gri­mani has lasted from that year.[3] Par­tial al­ter­ations were made to the Villa Emo in 1744 by Francesco Muttoni. Arches within both wings that were close to the cen­tral build were sealed off and ad­di­tional res­i­den­tial areas were cre­ated. The ceil­ings were al­tered. The villa and its sur­round­ing es­tate were pur­chased in 2004 by an in­sti­tu­tion and fur­ther restora­tions were made.  Since 1996, it has been con­served as part of the World Her­itage Site »City of Vi­cenza and the Pal­la­dian Vil­las of the Veneto«. The villa is at the cen­tre of an ex­ten­sive area that bears cen­turi­a­tion, or land di­vi­sions, and ex­tends north­ward. The land­scape of Fan­zolo has a con­tin­u­ous his­tory since Roman times and it has been sug­gested that the lay­out of the villa re­flects the straight lines of the Roman roads.[2]  Architecture Marcok The main building (casa dominicale). Villa Emo was a prod­uct of Palladio's later pe­riod of ar­chi­tec­ture. It is one of the most ac­com­plished of the Pal­la­dian Vil­las, show­ing the ben­e­fit of 20 years of Palladio's ex­pe­ri­ence in do­mes­tic ar­chi­tec­ture. It has been praised for the sim­ple math­e­mat­i­cal re­la­tion­ships ex­pressed in its pro­por­tions, both in the el­e­va­tion and the di­men­sions of the rooms. Pal­la­dio used math­e­mat­ics to cre­ate the ideal villa. These «harmonic pro­por­tions» were a for­mu­la­tion of Palladio's de­sign the­ory. He thought that the beauty of ar­chi­tec­ture was not in the use of or­ders and or­na­men­ta­tion, but in ar­chi­tec­ture de­void of or­na­men­ta­tion, which could still be a de­light to the eye if aes­thet­i­cally pleas­ing por­tions were in­cor­po­rated. In 1570, Pal­la­dio pub­lished a plan of the villa in his trea­tise I quat­tro libri dell'architettura. Un­like some of the other plans he in­cluded in this work, the one of Villa Emo cor­re­sponds nearly ex­actly to what was built. His clas­si­cal ar­chi­tec­ture has stood the test of time and de­sign­ers still look to Pal­la­dio for in­spi­ra­tion.[1]    Renato Vecchiato [CC-BY-SA-3.0] Another view of Villa Emo. The layout of the villa and its es­tate is strate­gi­cally placed along the pre-existing Roman grid plan. There is a long rec­tan­gu­lar axis that runs across the es­tate in a north-south di­rec­tion. The agri­cul­tural crop fields and tree groves were laid out and arranged along the long axis, as was the villa it­self.  The outer ap­pear­ance of the Villa Emo is marked by a sim­ple treat­ment of the en­tire body of the build­ing, whose struc­ture is de­ter­mined by a geo­met­ri­cal rhythm. The con­struc­tion con­sists of brick-work with a plas­ter fin­ish, vis­i­ble wooden beams seen in the spaces of the piano no­bile, and coffered ceil­ings like that within the log­gia. The cen­tral struc­ture is an al­most square res­i­den­tial area.[4] The liv­ing quar­ters are raised above ground-level, as are all of Palladio's other vil­las. In­stead of the usual stair­case going up to the main front door, the build­ing has a ramp with a gen­tle slope that is as wide as the pronaos. This re­veals the agri­cul­tural tra­di­tion of this com­plex. The ramp, an in­no­va­tion in the Pal­la­dian vil­las, was nec­es­sary for trans­porta­tion to the gra­naries by wheel­bar­rows loaded with food prod­ucts and other goods. The wide ramp leads up to the loggia which takes the form of a col­umn por­tico crowned by a gable – a tem­ple front which Pal­la­dio ap­plied to sec­u­lar build­ings. As in the case with the Villa Badoer, the log­gia does not stand out from the core of the build­ing as an en­trance hall, but is re­tracted into it. The em­pha­sis of sim­plic­ity ex­tends to the col­umn order of the log­gia, for which Pal­la­dio chose the ex­tremely plain Tuscan order.[2] Plain win­dows em­bell­ish the piano no­bile as well as the attic.  The cen­tral build­ing of the villa is framed by two sym­met­ri­cal long, lower colon­naded wings, or barchesses, which orig­i­nally housed agri­cul­tural fa­cil­i­ties, like gra­naries, cel­lars, and other ser­vice areas. This was a work­ing villa like Villa Ba­doer and a num­ber of the other de­signs by Pal­la­dio. Both wings end with tall dove­cotes which are struc­tures that house nest­ing holes for do­mes­ti­cated pi­geons. An ar­cade on the wings face the gar­den, con­sist­ing of columns that have rec­tan­gu­lar blocks for the bases and capi­tols. The west barchesse also con­tains a chapel. The barchesses merge with the cen­tral res­i­dence, form­ing one ar­chi­tec­tural unit. This ty­po­log­i­cal for­mat of a villa-farm was in­vented by Pal­la­dio and can be found at Villa Bar­baro and Villa Baroer.[1]  Andrea Pal­la­dio em­pha­sises the use­ful­ness of the lay-out in his trea­tise. He points out that the grain stores and work areas could be reached under cover, which was par­tic­u­larly im­por­tant. Also, it was nec­es­sary for the Villa Emo's size to cor­re­spond to the re­turns ob­tained by good man­age­ment. These re­turns must in fact have been con­sid­er­able, for the side-wings of the build­ing are un­usu­ally long, a vis­i­ble sym­bol of pros­per­ity. The Emo fam­ily in­tro­duced the cul­ti­va­tion of maize on their es­tate (and the plant, still new in Eu­rope, is de­picted in one of Zelotti's fres­coes). In con­trast to the tra­di­tional cul­ti­va­tion of mil­let, con­sid­er­ably higher re­turns could be ob­tained from the maize.[5] It is not clear if the long walk, made of large square paving-stones, which leads to the front of the house, served a prac­ti­cal pur­pose. It seems to be a fifteenth-century thresh­ing floor.[6] How­ever, Pal­la­dio ad­vised that thresh­ing should not be car­ried out near a house.  Hans A. Rosbach. Frescoes by Giovanni Battista Zelotti, west wall of the hall Frescoes Hans A. Rosbach [CC BY-SA 3.0] Hall West The ex­te­rior is sim­ple, bare of any dec­o­ra­tion. In con­trast, the in­te­rior is richly dec­o­rated with fres­coes by the Veronese painter Gio­vanni Bat­tista Zelotti, who also worked on Villa Foscari and other Pal­la­dian vil­las. The main se­ries of fres­coes in the villa is grouped in an area with scenes fea­tur­ing Venus, the god­dess of love. Zelotti ap­pears to have com­pleted the work on the fres­coes by 1566.[1]  In the log­gia, the fres­coes have rep­re­sen­ta­tions of Cal­listo, Jupiter, Jupiter in the Guise of Diana, and Cal­isto trans­formed into a Bear by June. The Great Room is filled with fres­coes that were placed be­tween Corinthian columns that rise from high pedestals. The events in the fres­coes con­cen­trate on hu­man­is­tic ideals and Roman his­tory al­lud­ing to mar­i­tal virtues. Ex­em­plary scenes in­clude Virtue por­trayed in a scene from the life of Sci­pio Africanus. On the left wall is the scene of Scio­pio re­turns the girl be­trothed to Al­lu­cius and the right wall a scene show­ing The Killing of Vir­ginia. The sides  of these fres­coes have false niches that con­sist of mono­chrome fig­ures: Jupiter hold­ing a torch, Juno and the Pea­cock, Nep­tune with the Dol­phin, and Cy­bele with the Li­oness. These fig­ures al­lude to the four nat­ural el­e­ments (fire, air, water, earth). Side pan­els con­tain enor­mous pris­on­ers emerg­ing from the false ar­chi­tec­tural frame­work. On the south wall of the great hall to­ward the vestibule is a false bro­ken ped­i­ment that ap­pears above a real en­trance arch. A fresco of two fe­male fig­ures, Pru­dence with the Mir­ror and Peace with an Olive Branch, can be seen. The North wall at the cen­ter of the upper part of the build­ing con­tains the crest of the Emo Fam­ily. It is carved and gilt wood, sur­rounded by trompe-l'œil cor­nices and festoons.[1]  To the left of the cen­tral cham­ber is the Hall of Her­cules. It con­tains episodes re­fer­ring mainly to the mytho­log­i­cal hero. The in­tent was to em­pha­size the vic­tory of virtue and rea­son over vice. The fres­coes are in­serted in a frame­work of false ionic columns. The east wall con­tains scenes of Her­cules em­brac­ing De­janira, Her­cules throw­ing Lica into the sea, and The Fame of Her­cules at the cen­ter. The west wall is Her­cules at the Stake, placed within false arches. On the south wall is a panel above the door­way that de­picts a Noli me Tan­gere («Touch Me Not») scene.[1]  To the right of the cen­tral cham­ber is the Hall of Venus. This hall con­tains episodes that refer to the God­dess of Love. On the west wall within false arches are the scenes of Venus de­ters Ado­nis from Hunt­ing and Venus aids the Wounded Ado­nis. The east wall fresco shows Venus wounded by Love. On the south wall is a panel above the door­way that shows Pen­i­tent St. Jerome.[1]  The Ab­sti­nence of Scipio ap­pears fre­quently in cy­cles of fres­coes for Venet­ian vil­las. For ex­am­ple, the Villa la Porto Colleoni in Thiene and Villa Cordel­lina in Mon­tec­chio Mag­giore, built nearly 200 years later, also use this image, fos­ter­ing ideals which, had in the 15th and 16th cen­turies, re­sulted from the re­newed dis­cus­sion of the de­prav­ity of town life, in con­trast to the tran­quil­ity, abun­dance, and free­dom of artis­tic thought as­so­ci­ated with rural ex­is­tence. Hence, an­other room in the villa is called the Room of the Arts, fea­tur­ing fres­coes with al­le­gories of in­di­vid­ual arts, such as as­tron­omy, po­etry or music.[7]Within the many fres­coes are de­pic­tions of dif­fer­ent flow­ers and fruit, in­clud­ing corn, only re­cently in­tro­duced into the Po Val­ley. Many of the frescoes are pre­sented within false ar­chi­tec­ture, like columns, arches and ar­chi­tec­tural frame­work.[1]  Media Markhole [CC BY-SA 4.0] Perspective view of the front grounds Marcok / it.wikipedia.org [CC BY-SA 3.0] Perspective view of the rear garden. In the 1990s Villa Emo was fea­tured in Guide to His­toric Homes: In Search of Palladio,[8]Bob Vila's three-part six-hour pro­duc­tion for A&E Net­work.  The movie Ripley's Game used the Villa Emo as a lo­ca­tion. The City of Vicenza and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the UNESCO Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of Vicenza, the Ministry of Cultural Assets and Activities. 2009. pp. 186–191. ^ a b c Wundram (1993), p. 164 ^ Wundram (1993), p. 165 ^ Beltramini, Guido (2009). Palladio. Italy. . ^ Wundram. Palladio Centre ArchivedJune 10, 2008, at the Wayback Machine (in English and Italian)Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio, accessed September 2008 ^ Wundram (1993), p. 173 ^ BobVila.com. »Bob Vila's Guide to Historic Homes: In Search of Palladio«. ^ »Ripley's Game News« ArchivedJune 9, 2008, at the Wayback Machine Retrieved on 2008 05 31 Sources The City of Vicena and The Palladian Villas in the Veneto: A Guide to the Unesco Site. Italy: The Unesco Office of the Municipality of the City of Vicenza. 2009. pp. 186–191. Wassell, Stephen R. »Andrea Palladio (1508-1580)«. Nexus Network Journal: 213–222. Beltramini, Guido, Palladio. Italy;  Boucher, Bruce (1998) [1994]. Andrea Palladio: The Architect in his Time (revised ed.). New York: Abbeville Press. Rybczynski, Witold; The Perfect House: A Journey with Renaissance Master Andrea Palladio. New York: Scribner. Wundram, Andrea Palladio, Architect between the Renaissance and Baroque, Cologne, Taschen.  Andrea Emo Capodilista. Emo Capodilista. Keywords: in principio era la conversazione, filosofia fascista, I taccuini del barone Capodilista, il taccuino del barone Capodilista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capodilista” – The Swimming-Pool Library. Capodilista.

 

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