Grice e Renier: la ragione conversazionale e l’implicatura
– filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Essential
Italian philosopher. Studia in Camerino, Urbino, ed Ancona, a Bologna, sotto CARDUCCI,
Torino, e Firenze, sotto BARTOLI. Insegna a Torino. Fonda il “Giornale storico
della litteratura e la filosofia italiana”, «profonden dovi, negli studi
particolari, nelle rassegne, negli annunci analitici e in un ricchissimo
notiziario, un vero inesauribile tesoro di cultura, di notizie, di rilievi. Cura
importanti edizioni critiche e monografie. I suoi saggi critici spaziano
attraverso tutta la letteratura e la filosofia italiana. “Il tipo estetico
della donna nel medio evo” (Ancona, Morelli); Isabella d'Este Gonzaga” (Roma,
Vercellini); “Mantova e Urbino” (Torino, Roux); “La cultura e le relazioni
letterarie d'Isabella d'Este Gonzaga (Torino, Loescher); “Svaghi critici” (Bari,
Laterza); Luzio, La coltura e le relazioni letterarie di Isabella d'Este Gonzaga,
Sylvestre Bonnard. Vendittis, Letteratura italiana. I critici, Milano, Marzorati, Renda, Operti, Dizionario
storico della letteratura italiana (Torino, Paravia); Letteratura italiana. Gli
Autori, Torino, Einaudi. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. SVAGHI
CRITICI * DI
RODOLFO KENIER '•■V.'
. ■- ■
(*), tuttociò senza
che vi siano
se non pochissime
tracce si- 1 1
Flamini, Studi ili
«torta letter. Hai.
e straniera, Livorno,
im, pp. 109
sgg. (2) A
c. 115 r.
Vedi A. Zardo,
// Petrarca e
i Carraresi, Milano,
1687, pp. 114-15
e 291. In
quest'ultimo luogo lo
Zardo afferma che
le terzine, da
lui non riferite
perché non ne
in- lese il senso,
sono forse «
scritte in linguaggio
furbesco ». Il
dr. Ferdinando Neri
ebbe la cortesia
d'inviarmene una esatta
trascrizione, che mi
convinse non esservi
alcuna frase veramente
gergale. (3i Si
consulti la lettera
del rimpianto Gaetano
Milanesi da me
edita nella prefazione
alla mia versione
del Slnduy, Br.
[Mini, pp. XIX-XX.
(ij Sono parole
di A. Borgognoni,
nella Rassegna settima-
naie, VI. 217.
■i CENNI SULL'USO
DELL'ANTICO GERGO FURBESCO
cure di vero
gergo furbesco (*);
come una parte
delle rime del
Burchiello e dei
Burchielleschi. Per qupl
che ho potuto
veder io, tanto
nel caso del
Burchiello quanto dei
Burchielleschi, la cosa
più difficile è
decidere quanta parte
della loro poesia
sia veramente senza
senno e rientri
in quel giuoco
di spirito, che
ha una storia
ben lunga e
(con- vien confessarlo)
poco edificante, per
cui non si
dice nulla facendo
le viste di
dir qualche cosa
(*); ma in questa poesia
alla burchia, da cui il
bar- biere di Calimala
trasse il suo
soprannome (3), (1)
I critici, veramente,
credettero di ravvisarvelo,
e già il
Del Fujjia vi
trovò ? A
parer mio, la
parte che vi
ha il furbesco
non è molta.
(2) Vedi il
sonetto invettiva contro
un ignoto poeta,
che dal celebre
ms. Magi. II,
II, 75 trasse
A. G. Spinelli,
Poe- aie inedite
di Galeotto del
Carretto, Savona, 1888,
p. 38. Ivi
cal- cagni • compagni
» e truccare
e cerre «
mani » sono
sincere parole furbesche,
ed altre forse
se ne ravviserebbero, se
il testo non
fosse guasto. L'invettiva
acerba richiama l'uso
del gergo, come
può persino scorgersi
nei sonetti scambiati
fra Dante e
Forese, sebbene di
furbesco deciso là
non sia il
caso di parlare.
(3) Vittorio Bossi,
che ebbe il
merito d'illustrare quel
no- tevolissimo documento storico
e letterario, mise
insieme an- che un
elenco delle parole
di gergo usate
dallo Strazzòla. Vedilo
nel Oiorn. stor.,
XXVI, 7 n.
Quello £ gergo
veneto della più
bell'acqua. i4.i Uno
spoglio della nostra
poesia giocosa e
delle com- medie antiche
darebbe, a questo
proposito, frutti eccellenti.
Il Lii-hi nel
Malmantile, II, 5
fa che un
suo personaggio fin-
12 censi sull'uso
dell'antico gergo furbesco
continuato del gergo,
vale a dire
dai componi- menti gergali
da capo a
fondo. E di questi
(quando se ne
eccettui il Pulci,
la cui produzione
furbesca rimase pressoché
ignota), fu forse
il primo An-
tonio Brocardo a dare
esempio, conseguendovi una
certa celebrità attestata
dalle parole del
Villani ('). Per
questa parte il
Brocardo terrebbe fra
noi il posto
che occupa rispetto
all'uso let- terario del
gergo francese Francesco
Villon (•). tosi
baro vada chiedendo
un po1 di
bene « per
Sant'Alto ». Sani' Allo
è designazione notissima
di « Dio
» nel parlare
fur- besco. Il Lastri
nel luogo sopra
menzionato dell' Osservatore
fio- rentino cita un
passo delle Storie
fiorentinede] Varchi ove è detto:
« Appariscono più
lettere, non in
cifra, ma in
gergo, ad uso
« di lingua
furfantina, molto strano
». G. B.
Gitakixi termina con
una battuta furbesca
la se. X
dell'Atto III della
sua Idropica. Vi
occorrono note parole
di gergo come
contrapunto, cordovano, sbasire,
lenza, fratengo, cosco,
monello, canzonare, grimo.
Vedi a p.
89 dell' ediz. veronese
del 1734. (1)
Il cui giudizio
fu, senza citarne
l'autore, ripetuto dal
Crescimbeni e poi
dal Del Furia,
in Alti Accad.
Crusca, II, 250,
ove scrisse che
il Brocardo ■
fu l'inventore della
lingua « gerga
o furbesca » .
(2) Su questo
ingegnosissimo scapigliato criminnlp
del sec. XV
è ora da
vedere il bel
libretto di G.
Paris, Fran- cois Villon,
Paris, 1901. Le
sei ballate in
gergo, che sono
ve- ramente sue, e
le cinque altre
d'un ms. di
Stocolma, che gli
furono attribuite, costituiscono
il più antico
patrimonio ger- gale francese. Quell'antico
materiale fu studiato
senza troppo metodo,
ma con informazione
larghissima da A.
Vrrr nel vo-
lume notevole Le jargon
du X V
siècle, Paris, 1884,
che ho consultato
più volte con
profitto. Ma di
capitale importanza pel
gergo del Villjy^e
per gli altri
documenti scritti nel
fur- besco francese è
il libro di
L. Schòne, Le
jargon et jobelin
de Francois Villon
sitivi du jargon
au thèàtre, Paris,
1888. Ben
altrimenti che in
Italia fu studiato
in Francia Vargot,
del quale si
compiacquero anche i
romanzieri moderni (V.
Hugo, Sue, NELLA
LETTERATURA ITALIANA 13
Ad attestarci la
facilità ch'egli aveva
a scrivere in
gergo sta una
delle tre lettere
alla cortigiana Manetta
Mirtilla; quella che il Brocardo
le di- resse da
Padova, dove studiava
leggi, il 16
gen- naio 1531 (').
In essa lettera
sono due periodi
furbeschi, che riferisco
ed interpreto. Sono
fatte le vacationi
nello Studio, et
io fornirò il
libro et lo
vi mandaró tanto
più con ordine
et me- glio scritto,
quanto più vor-
rò mostrarvi che non
è fede pari
alla mia, non
restando però dall'esservi
quel ini- mico che
io vi sono,
danno- sa rubuina, che
se mi rifon-
do un lustro alla
bolla della lenza,
ve la martinerò
coi merli che
non potrete più
amarezar contro, di
Simon. Se contrapontizatt in
amaro col cornifico,
che farete coi
tjaii di vostrisef
Gli dovete ammartinare
et carpir la
perpetua dal fusto
con quel- le cerette
fratenghe, le quali
Versione. lingua diabolica,
che se mi
reco un giorno
a Venezia, ve
la trafiggerò con
i denti, che
non potrete più
ingiu- riarmi. Se voi
mormorate del fratello,
che farete con
gli amanti vostri?
Li do- vete pugnalare e
strappar loro l'anima
dal corpo con
quelle buone manine,
le quali con
le ginocchia in
terra bacio di
tutta anima. Rai
zac, Zola), che
ne lardellarono talvolta
certi loro libri.
La Bildiographie
raisonnée de l'argot
et de la
langue verte en
Frnnce du X
V (in XX
siede di E. Yve-Plessis,
Paris, 1901, com-
prende ben 865 numeri!!
DeìVargot moderno parigino,
che è in
continua evoluzione, si
hanno parecchi dizionari.
Per quel che
spetta al gergo
francese più antico,
é pur sempre
pre- zioso e fondamentale
il volume di
Fr. Michel, Eludei
de phi- lologie
comparie sur l'argot,
Paris, 1856. (1)
Cfr. ÌIazzuchelu, Scrittori,
II, IV, 21:20.
14 CENNI SULL'USO
DELL'ANTICO GERGO FURBESCO
con le seste
alla calcosa mor- fisco di
tutta perpetua. Vo-
lea tornare al
nostro par- lare, ina
come si dice
che chi sta
furfante tre eli
soli, mai più
non può lasciare
quella vita, coni
chi comin- cia a
scrivere cella loro
lin- gua, da virtù
furfantesca sforzato, convien,
se ben nonvolesse,
finire in quella.
Vostrodeno, dunque, rifon-
derà breviosa per breviosa,
se sbasirete così
per lo corni-
fico, come il carni
fico per vo-
strise. Del quale
vi potrà poi
dannezzar l'osmo rifonditor
di questa. Vostrise
rifonda morfa et
morfa, per nome
del cornifico, a
l'osino della bolla
dei tuferi, cornifico
et inazo mio
fratengo, et a
tutti i gali
di vostrodeno Rifondo
stanga al burlante
et ri mor-
fisco tutta da
chietina a cal-
chi. — Di vostrise,
maza sant'alta Ant.
Brocardo cor- nifico et
falconissimo con cera
comprante viole (').
V. S., dunque,
risponderà con una
lettera a questa
lettera, se morrete
cosi pel fratello,
come il fratello
per voi. Del
quale potrà poi
in- formarvi l'uomo latore
di questa. Voi
date bocca e
bocca, per nome
del fra- tello, all'uomo di
Vicenza, fratello e
signore mio otti-
mo, e a tutti
gli amanti di
V. S. Do
stanga all'uscio (idest
finisco) e vi
bacio tut- ta da
capo a piedi.
— Di voi,
divina signora, Ant.
Brocardo fratello e
servito- rissimo, con
mano fugge- vole (*).
(1) Vedi Lettere
volgari di diversi
nobilinsimi homini ecc.,
race, da P.
Alamijj^^ L. II,
p. ili e
anche la Xuova
scelta di lettere
race, da ±S.
Pino, p. 336.
Cfr. pure Cian
nel Oiorn. degli
eruditi e curiosi,
1 1 . 629-30. (2)
La mia interpretazione coincide
quasi interamente con
quella che diede
V. Eossi a
p. 30 «.
del libretto del
Vitaliani, che citerò
tra breve e
che fu edito
quando questi miei
cenni erano già
stesi. NELLA LETTERATURA
ITALIANA 15 In
questo gergo furfantesco
veneto avrebbe il
Brocardo, secondo Alessandro
Zanco, scritto un
Capitolo in rima,
e probabilmente non
quello solo, se in questo
genere di composizioni
egli si guadagnò
reputazione siffatta, da
esser cre- duto l'inventore di
quel linguaggio. Nulla
sinora sape vasi
della produzione letteraria
furbesca del Brocardo;
ma io credo
di non ingannarmi
sup- ponendo ch'essa ci sia in
parte conservata da
un codicetto anonimo
cinquecentista, già posse-
duto dal marchese 6.
Campori, ed ora
deposi- tato all'Estense. Sono
già passati molti
anni che il
rimpianto marchese, con
la liberalità eccezio-
nale ond'era dotato, accondiscese
al mio desi-
derio di avere in
prestito quel codicetto
('), sic- ché io
ebbi agio di
ricopiarmelo tutto. E
un zibaldoncino di
55 carte, evidentemente
dovuto ad un
dilettante di poesia
furbesca, che potrebbe
anche essere il
Brocardo medesimo. Le
prime 26 carte
sono occupate da
uno spoglio copioso
di parole e
frasi gergali, ad
alcune delle quali
è messa accanto
la spiegazione (2),
il che ac-
cade pure in un
altro elenco finale,
che empie fi)
Xe rinvenni dapprima
notizia nel Catalogo
dei mss. Cam-
pori compilato da
E. Vaxdwi. Il
nostro codicetto ha il n.
425 nella Appendice
I, Modena, 1886,
p. 151. C2)
Noto la nomenclatura
dei vari dragoni,
cioè « dot-
tori e quella interessante,
e solo in
parte nota, delle
Mie, cioè •
città ». la
questa parte è
pure svelato il
segreto dei ■ nomi da
intendere quello ha
il compagno quando
si gio- « cha alle
carte », vale
a dire il
frasario convenzionale dei
bari. 16 censi
sull'oso dell'antico gergo
furbesco le carte
52-55 del ras.
('). Nel mezzo
sono scritte (ce.
29-51) parecchie poesie
(vale a dire
due ca- pitoli o
ternari, trenta sonetti
ed una stanza)
tutte d'una stessa
mano, ma alcune
scritte ac- curatamente, altre affrettatamente. Le
cancella- ture e correzioni
della mano medesima
mostrano che il
codicetto è autografo
e che almeno
alcune di quelle
rime sono fattura
della persona stessa
che quivi le
scrisse. Certamente questo
ras., dal quale
forse mi av-
verrà di trarre in
seguito altre comunicazioni, è
d'interesse capitale per
chi voglia studiare
il furbesco del
nostro Cinquecento. La
ragione per cui
inclino ad attribuirlo
al Brocardo non
sta solo nella
coincidenza perfetta di
questo gergo con
quello che il
Brocardo usò nella
riferita let- tera, nè
solo nella fama
ch'egli ebbe di
maestro nel linguaggio
furfantino, ma anche
in un altro
fatto che mi
pare significante. Tutti
sanno che l'episodio
capitale della vita
del Brocardo sta
nella sua ribellione
alla dittatura letteraria
di Pietro Bembo,
ribellione che produsse
un vero scandalo,
che tirò addosso
all'infelice giovine le
ire di molti,
fra cui quelle
di Pietro Aretino,
e che forse
contribuì al suo
spegnersi immaturo (2).
(1) Quivi è
una lunga e
interessante lista di
rase iUUi furbi,
cioè dei diversi
inganni dei vagabondi,
nelle loro espressioni
di gergo, ed
inoltre ijriomi furbeschi
di molti santi.
(2) Per questo
episodio vedi Mazzuchki.i.i, II,
IV, 219; Vm-
oiu, F. Berni, Firenze, 1881,
pp. 229-36; V.
Ci an, Decennio,
pagine 178-183; C.
Bertaxi. Pietro Aretino
e le sue
opere, Sondrio, 1901,
pp. 92-98. Come
accennai, erano già
scritte queste mie
pa- NELLA LETTERATURA
ITALIANA 17 Il
chiasso fu tale,
che in Padova
si formarono due
fazioni: quella dei
Brocardiani e quella
degli anti-Brocardiani (').
Le ire dovettero
sfo- garsi particolarmente in
versi, e si
deplora che di
quei versi ben
pochi siano giunti
a noi (2).
Quelli atroci con
cui l'Aretino da
vasi vanto d'aver
ammazzato il Brocardo,
non li conosciamo:
nè si conoscevan
finora le risposte
con cui certo
non mancò di
dargli addosso il
Brocardo (3). Quale
cosa più probabile
che in quelle
invettive il gio-
vine poeta usasse il
gergo, che gli
era famigliare e
che all'invettiva particolarmente riusciva
ac- concio? Il modo
con cui Bernardo
Tasso, in una
lettera all'Aretino, cercò
scusare l'amico suo
d'uno di quei
sonetti non esclude
davvero ch'essi fos-
sero scritti in una
lingua incomprensibile (*).
Ora, nel codicetto
Campori esistono per
lo meno due
sonetti diretti contro
l'Aretino, nè è
detto che non
ve ne sia
qualche altro in
cui non appaia
il nome di
lui e che
pur lo abbiano
in mira. gine
quando comparve il
libretto di D.
Vitaliahi su Antonio
Brorardo, Lonigo, 1902,
ove i fatti
sono estesamente narrati
ed esaminati. (1)
Cfr. Ciak, Op.
tit., p. 179,
n. 3. (2)
Vedi Vitamani, Op.
cit., pp. 99-100.
(3) Il sonetto
del ms. ci.
IX, n. 300
della Marciana, che
■si dice essere
stato scritto dal
Brocardo contro l'Aretino
(v. Vitaliani, pp.
42-44), è certo
minima parte di
quella dia- triba velenosa. (1)
Dice il Tasso
che quel sonetto
« fra Taltre
cose, non •
s'intende che si
voglia dire; e
par più tosto
fatto contra ■ una puttana
• (Lettere scritte
a Pietro Aretino,
ed. Landoni, I,
I. 1H8-139). Doveva
essere ben oscuro,
se era possibile
un dubbio siffatto
! Renikh -
Sruffhi Critici ì
18 CENNI SULL'OSO
DELL'ANTICO GERGO FURBESCO
Ecco i sonetti,
che sono oscurissimi,
volutamente oscuri: La
ludovica calca vii
baceone masca che
il eapuan Pietro
Aretino, con il suo canzonar
vago e. divino,
l'altrui fama imbrunisca
da Marone. Amor
per che il
cavato e ver
dragone d'ogni osmo
di campagnapellegrino fratengamente
travaglia e il
lodesino al sfoglioso
di .grandi s'il
rippone. Però di
salso lui canzona
e frappa di
maggi loi ch'hanno
già smarrita la
calca d'ogni virtude
et fatti goi.
Acciò ch'a più
fratenga et onta
vita ritracchi ognun,
li loffiosi suoi
errori imbianca con
la mista unita
(l) Pietro Aretin,
che la tua
serpentina Sant'Alto l'ha
riffosa in si
furore per il
qual speglia e
tartisse ogni signore
che contra lor
non trucchi alla
marina. Fratenga sorte
bella e pellegrina
che mancando in
amor et in
ardore in alto
sbigni si ch'a
grande onore di
cavi liniator sei
posto in cima.
A vostriso si
riffonde dell'albume d'ogni
fiorita cerra nella
bolla che batte
la gran lenza
a la marina.
Ivi Simon il
preggiato rosume spande
al sono di
fiori e poi
per fola con
guaschi cavi solazzi
Pedrina (!). (1)
Il sonetto è
irregolare nelle rime
e ha parecchi
versi che non
tornano. Coi mezzi
di cui dispongo
se ne intendono
bensì diverse parole
e frasi, ma
non il senso
generale. Solo l'ultima
terzina parmi sia
da interpretare così:
« Perchè «
ognuno ritorni a
vita più^dfona e
bella, [l'Autore] con
l'unita « lettera
scopre la nefandità
degli errori di
lui [Aretino] »
(2) Mi è
chiara solo la
prima terzina: ■
A voi si
dà del «
denaro da ogni
bella mano nella
città che batte
la gran- ;
NELLA LETTERATURA ITALIANA
19 Lii presenza
di questi due
sonetti, che possono
offrire un saggio
del più puro
furbesco vèneto, rende
assai verosimile, a
me sembra, che
al Bro- cardo
appartenga, in tutto
od in parte,
la rac- coltimi del
ìus. Campori. Nella
quale raccoltina ricompaiono
pure la stanza,
il capitolo in
lode del contrappunto
o parlar furbesco
(l), ed i
quattro sonetti, che
sono stampati in
fondo al Modo
novo da intendere
la lingua serga
(2): tutti componimenti
che non ri-
■ d'acqua a
la marina ».
Non si creda
che il vocabolo
Pedrina, con cui
il sonetto si
chiude, accenni a
Perina Riccia, una
delle amanti dell'Aretino
a Venezia. Se è vero
che nel 1537
essa avesse soli
14 anni (cfr.
Bertasìi, Op. cit.,
p. 147), non
poteva il Brocardo
alludere a lei
nel '31. Inoltre
v'è la frase
furbe- sca satirizzar Pedrina,
che vale «
darsi buon tempo
». Essa ricorre
in un altro
sonetto del codice
Campori : ■
Et se in la rasa
sguazzare Pedrina ».
(1) Contrappunto dice
« farsetto •
nel gergo del
Pulci e ■
linguaggio ■ nel
gergo veneto. Il
passaggio ideologico è il medesimo
per cui i
Sardi chiamano il
gergo cobertanza. (2)
Due di quei
sonetti passarono anche
nei cit. Studii
sulle lingue furbesche
del Biondelli, a pp. 169-70.
Riferisco la stanza
correggendone gli errori
con l'aiuto del
codice; Chi tuoI
far l'arte del
buon calcagnante attenda,
che monel vi
farà cima. Vostriso
il tappo anelle
e le tirante,
il basto sodo
e gualdi nella
lima. Se tu
vuoi aste a
morrizar raspante, riffbndi
il talian a
qualche grìitia. Sul
burchio truccarsi per
la calcosa e
avrai sempre gonfiata
la sfoiosa. Interpreterei cosi : «
Stia attento eh*" vuol fare
l'arte del buon
■ compagnone, che
lo farò diventar
perfetto. Bucati (?)
siano • il
vostro mantello e
le brache; la
giubba sucida; pidocchi
« nel! a
camicia. Se vuoi
denari per mangiar
capponi, dà l'e-
■ sca (?)
a qualche vecchia.
-Tu n'andrai a
cavallo per la
terra « e
avrai sempre piena
la borsa ».
20 CENNI sull'uso
dell'antico gergo furbesco
salgono all'autore di
quell'antico lessico, perchè
il lessico non
serve ad intenderli
compiutamente, e perchè
l'editore vi lasciò
correre molti errori
manifesti, che nel
ms. Campori sono.
Quindi la raccolta
del codice Campori
è anteriore alla
edi- zione principe rarissima
del Modo novo,
che. è del
1549. Quel libretto,
che ci rappresenta
la lingua dei
hianti e dei
pitocchi nell'Italia superiore
(') fu (1)
Bitinte, come ci
insegna la Crusca,
vale vagabondo, « che •
va intorno birboneggiando e
cercando di truffare
il pros- «
simo » . Questi
pericolosi individui, nelle
loro numerose sud-
divisioni in mendicanti, mercenari,
cerretani, ladri, merciaioli
ambulanti, avventurieri, scrocconi,
ecc., che popolarono
in Francia le
corti dei miracoli,
si costituirono in
Parigi, fin dal
Quattrocento, in una
corporazione avente la
sua gerarchia, i
suoi statuti, la
sua lingua. Vedi
pp. 3 sgg.
dell'Op. cit. di
A. Vitu, e
l'articolo di Fh.
Micukl nel I
voi. dell'opera Le
mot/en-age et la
renaissance, ove alle
categorie dei vagabondi
francesi sono accostate
quelle dei vagabondi
italiani, quali furono
noverate da Raffaele
Frianoro. Questo Frianoro
è pseudonimo del
padre Giacinto de'
Nobili, romano, che
nel lò!)4 fu
ascritto ai domenicani
di Viterbo e
dettò varie opere
di religione e
riguardanti la storia
del suo ordine
(cfr. Quk- riF-EcHAKD,
Script, ord. praedicatorum, II,
408). Per trastullo
egli pubblicò nel
1621, col pseudonimo
di Frianoro, un
libretto dal titolo
II vagabondo, ovvero
Sferza de' bianti
e vagabondi, che
ebbe varie edizioni
antiche ed una
moderna, procurata da
Alessandro Torri in
Pisa pel Capurro
nel 1W28, con
le false in-
dicazioni « Italia, F.
Didot =• e
col titolo di
Trattato dei bianti.
Vedi per la
bibliografia Passalo, Xovell.
Hai. in prosa
-, I, 392 sgg. e
le aggiunte di
A. Tkssieu nel
Oiom. degli ermi,
e curiosi, li,
555 sgg. Sono
trentaquattro le categorie
di vagabondi che
il Xobili registra,
esemplificandone con acconcie
novellette le gesta.
Quivi talora essi
parlano con qualche
termine del loro
misterioso linguaggio, e
persino alcuni dei
loro nomi ritraggono
dal gergo: p. es. morghigeri
da Morgana «
campana • NELLA
LETTERATURA ITALIANA 21
ristampato molte volte
(4) ed è
finora il princi-
pale, quantunque
defieentissimo, strumento che
ci sia concesso
per intendere, alla
peggio o alla
me- glio, l'antico gergo
furbesco italiano (*).
Intorno a quel
primo nucleo si
potranno raggruppare molti
altri vocaboli da
chi sappia conveniente-
niente trar partito
dal codice tto
Cam pori e
dai e ruffiti,
bruciati, da ruffa
« fuoco ».
Interessante è ciò
che scrive di
codesti furfanti T.
Garzoni ne] disc.
72 della sua
l'iazza universale, ove
riferisce anche parole
del loro gergo,
evidentemente dedotte, insieme
con la prima
quartina d'un so-
netto furbesco, dal Modo
novo. Vedil'ediz. citata
della Piazza, Venezia,
1592, a pp.
582 e 584.
(li Del Modo
novo, dal 1549
in poi, si
ebbero una quindi-
cina di edizioni, tutte
oggi rare. Si
possono vedere annove-
rate dal Biicket, Manuel,
111,1784 e dal
Pitrè, Bibliografia delle
tradiz. popolari, Torino-Palermo, 1894,
pp. 172-73. Il
piccolo lessico, come
dice un sonetto
proemiale, fu fatto
con lo scopo
pratico di far
intendere ai galantuomini,
per loro difesa,
il gergo dei
birbanti. Il Modo
novo fu dal
Torri accodato, con
ottimo pensiero, all'ediz.
pisana del Trattalo
dei bianti, ed
è questa la
ristampa meno difficile
a trovarsi, sebbene
il libretto sia
stato tirato a
soli '250 esemplari.
(2) Con poche
aggiunte, tutte da
qualche testo furbesco,
il Modo novo
ritorna, in forma
più rigorosamente alfabetica,
negli Studii sulle
lingue furbesche di
B. Biondelli e
nel men- zionato volume di
Elude» sur l'argot
di Fu. Michel,
app. 425 sgg.
L'Ascoli, Studii critici,
I, 102 n.
menziona come cose
di- verse dal Modo
novo suddetto due
pubblicazioni di Pietro
e Giov. Maria
Sabio, che i
bibliografi registrano, il
Vocalmlario della lingua
zerga, Venezia, 1556
e il Libro
zergo de interpretare
la lingua zerga,
Venezia, 15G5. Io
cercai indarno di
vedere questi due
libretti, che non
esistono neppure nella
Marciana. Il Michel
pure, che li
cita a p.
424, non credo
li abbia ve-
duti. Ilo un fiero
dubbio che siano,
sott'altro titolo, ristampe
del Modo novo,
e in questo
dubbio mi conferma
anche una not3
sgg. Sul gergo
dei pastori del
Bergamasco si trattenne
re- 28 cenni
sull'uso dellUnttco gergo
FURBESCO e criminalisti
('). Prescindendo dall'enorme
va- rietà della terminologia
oscena, che si
rinnova e si
arricchisce di continuo
molti termini del
plicate volte, in
speciali memorie, A.
Tirabosciu, che tornò
ad occuparsene in
appendice a] suo
Vocabolario bergamasco. Un
saggio di gergo
torinese fu messo
insieme da A.
Vihiglio nell1 opuscolo
Come si parla
a Torino, Torino,
1897, pp. 38
sgg. Un elenco
di vocabili furbeschi
palermitani si trova
nel- l'opera del Pitrè,
Usi e costumi
siciliani, II, 319-36.
Per altre piccole
raccolte vedi la
Bibliografia del Pitrè.
stesso ed an-
che K. Sachs nel
Literaturblatt far gemi,
und roman. Pliilo-
togie, XX, 414.
(1) Alcuni fra
i contributi dei
criminalisti, sebbene non
ab- biano scopo filologico,
sono preziosi. Pei
gerghi della bassa
ma- fia e della
camorra, vedasi il
Pitrè, Op. ci/,
e Archivio di
psi- chiatria, 111,448-50; X.
271-76: XXI. 9b-101.Per
quello toscano, Ardi,
cit., XI, 220;
per quello romano,
Xicufuro e Sighele,
La mala vita
a Roma, Torino,
1898 passim, ma
specialm. 107-72; per
quello piemontese, oltre
il cit. Viriglio,
Ardi., Vili, 125-
130; per quello
veneto, Ardi., I,
204-12. Il Soranzo
ed il Pitrè
registrano un Vocabolario
dei gerghi veneziani
più oscuri di
L. Pasto, Venezia,
1803. ma a
me non riuscì
di averlo fra
mani. Questi ed
altri materiali pone a profitto,
con osserva- zioni non
tutte inutili, C.
Lombroso, nell'ultima ediz.
del- l' Uomo delinquente*,
I, 531 sgg.
11 libro di
A. Xicefoko, //
gergo nei normali,
nei degenerati e
nei criminali, Torino
1897, mantiene assai
meno di quel
che il titolo
prometta e gli
stu- diosi del furbesco
italiano avranno ben
poco da apprendervi.
(2j Nel linguaggio
erotico le parole
di gergo passano
spesso nella lingua
o viceversa. Vedasi
la ricchezza delle
denomina- zioni date alle
meretrici secondo gli
scrittori napoletani dal
sec. XV al
XVII in S.
Di Giacomo. La
prostituzione in Napoli
nei sec. XV-XV1I,
Napoli, 1899, pp.
£H>-97. Più d'una volta il
Lombroso ha ripetuto
dal Dufodr, Histoire
de la prostitution,
che nella lingua
erotica francese del
sec. XVI l'atto
venereo aveva 300
sinonimi, le parti
sessuali 400, le
prostitute 103. Nel
furbesco torinese recentissimo,
p. es., dice
« prostituta »
anche bicicletta, forse
per analogia con
pietà (bicia) che
ha il medesimo
senso. NELLA LETTERATURA
ITALIANA 29 gergo
antico ricompaiono tali e quali
nelle par- late moderne
dei truffatori e
dei ladri ('), e vi
sono voci gergali
che riescono a
penetrare nei dialetti
e a farsi
accogliere persino nella
lingua letteraria ("').
Chi consideri questo,
vedrà age- (1)
Lenza, lima, maggio,
perpetua, dragone, ecc.
sono ancor vivi
e comunissimi in
varie parlate furbesche
d'Italia, nel si-nso
stesso che avevano
nel Cinquecento. Cosi
pure i pro-
uomi mascherati, come
mamma per «
io » (nel
gergo antico mia
madre ■ io •
, tua
madre * tu »
, accanto a
simone, mo- nello ecc.
per ■ io
»; vostriso, vostrodeno
ecc.). Cfr. Lombroso,
Op. cit., I,
542-43 e 550.
Lustro dice ■
giorno » nel
gergo ve- neto odierno;
Instic nel piemontese.
Del gergo piemontese
è pure calcusana
per « terra
>, l'antico calcosa;
magruna per ■
morte », l'antica
magra; sfóióse per « carte
>; riaro pungent
per ■ aceto
» , antico chiaro
■ vino »
; viprósa per
« lingua ■ ,
analogo all'ant. serpentina
(Ardi, di psirhialria,
Vili, 125 sgg.).
E a Firenze
oggi pure è
detto in furbesco
ridarò il ■
vino » , Itnxa
l'« acqua »,
raspanti i «
polli », fangose
le « scarpe
»; a Torino
fangóse ecc. (Arch.
cit., XI, 220).
Un giuoco di
carte fatto per
ingannare i gonzi
è ancora detto
dai bari ■
trucco delle sfogliose
» (..IrcA. cit.,
XIX, 874). In
Valsoana si usa
hriina per ■
notte »; chiarir
per « bere
»; romene per
« ba- stone » ,
ant. ramengo ; rUf per
■ fuoco »
; barar per
« guar- dare »,
ant. Ixdcare, ed
il bellissimo marconar
per ■ maritarsi
», che risponde
agli antichi marca
« donna »
e quindi ■
mere- trice » e
marcane « rumano
». La mala
vita di Roma
conosce tuttora I ih
iosa per «
prigione » ;
sgrondare per «
rubare » , ant.
grand/re, e grane-io
« ladro »;
bianchetto « argento
» ana- logo all'ant.
albume; forntica ■
soldato »; grimo «
vecchio » ecc.
Invece il furbesco
dei manosi e
quello dei camorristi
non presentano alcuna
somiglianza col gergo
antico. (2) Vedi
in proposito l'arguto,
ma in qualche
parte para- dossale, articolo di
F. Brcxktiéhk, De
la deformation de la languc
par l'argot, in
Heiuc de* deux
mondes, voi. 47, 1881.
pp. -134 sgg.
Nulla di simile
s'è fatto per
l'Italia e conver-
rebbe tentarlo. Cito solo
qualche esempio. 11
veneto odierno ha
sbasir per «
svenire » e
sbasto nei vari
significati che re-
gistra il Boerio: il
che richiama lo
sbasire « morire
» del 30
CENNI SULL'USO DELL'ANTICO
GERGO FURBESCO volmente
che lo studio
del gergo può
divenire qualcosa più
che una semplice
ricerca di curio-
sità erudita. Nota aggiunta.
— Comjjarso la
prima volta nella
Miscel- lanea- di studi
critici in onore
di Arturo Grraf,
Bergamo, Istituto d'arti
grafiche, 1908. Dopo
uscito il mio
studietto, comparve in
Francia un dotto
volume, che sarà
d'ora innanzi il
vero fondamento per
ogni ulteriore ricerca
sui linguaggi furbeschi
d'un tempo, Lazark
Saisean. L'argot ancien,
Paris, Champion, 1907.
Il Sainéan, straniero,
profittò del mio
scritto, sebbene lo
riguardasse solo fino
ad un certo
punto; noi conobbe
in- vece, o ne
tacque, Dino Provenzal,
italiano, che sui
gerghi cittadini fece
alcune considerazioncelle nel
suo articolo 1
nuovi orizzonti del
folklore, Bologna, 1906,
pp. 25 sgg.
gergo antico. Nel
veneto occorre pure
spessegar per «
cam- minare in fretta
», e parrebbe
frequentativo di spcssar
« an- dare »,
che è gergale,
da cui il
bello lustro sposante
« oggi »,
quasi « giorno
corrente » (cfr.
Ardi, di psichiatria,
I, '210). Pel
volgo dell'Italia centrale
marchese dice «
mestruo », il
che ci richiama
al furbesco marca
« donna». Su
ciò cfr. marque
nel Michel, Op.
cit., p. 960.
Gaia di Gherardo
da Camino. Rammentate
la chiesa di
S. Nicolò a
Treviso? Il superbo
tempio dei padri
predicatori, che mae-
stosamente domina" i piccoli
edifìci circostanti, s'erge
grandioso, semplice ed
elegante sugli svelti
colonnati, che sopportano
gli archi acuti,
mentre dalle grandi
finestre ogivali penetra
eternamente giovine il
sole, e gli
ex voto frescati
nel Trecento ridono
nella gaiezza delle
loro tinte dalle
co- lonne e dalle
pareti, ed a
destra un colossale
ti. Cristoforo, pure
dipinto a fresco,
guarda sem- pre ingenuo
e stupito il
piccolo Redentore che
reca in ispalla.
L'edifìcio, tra i
più belli e
puri del Veneto,
è in gran
parte dovuto alla
muni- ficenza di quel
dotto e pio
monaco, di cui
in quest'anno Treviso
s'appresta a celebrare
il cen- tenario della
morte, Nicolò Boccasini
domeni- cano, che per
pochi mesi, in
sugli albori del
XIV secolo, portò
la mitezza della
sua santa anima
sulla cattedra pontificale,
succedendo col nome
di Benedetto XI
al fiero papa
Caetani, e s'ebbe
poi aureola di
beato e presso
i suoi con-
cittadini tanta estimazione, che
qualcuno di essi
avrebbe augurato, a
ricordo di lui,
il nome di
Be- nedetto XV all'attuale
pontefice, pure trevisano.
32 GAIA DI
GHERARDO DA CAMINO
Grande venerazione nutrirono
i signori da
Camino per S.
Nicolò. Il vecchio
Guecello dei Caminesi
di sotto, già
nel 1272, quando
l'at- tuale tempio non
era ancor sorto,
volle essere sepolto
apud ecclesia m
sancii Nicolai, la
modesta chiesa di
S. Nicolò, detta
dei pescatori, che un giorno
appartenne ai Domenicani;
e con ogni
verosimiglianza le sue
ossa furono poi
traspor- tate nella tomba
che presso la
porta maggiore del
nuovo S. Nicolò
ordinò fosse a
sè costrutta il
figliuolo di Guecello,
Tolberto (1317). Là
presso riposava ormai
da sei anni
la sua prima
moglie, Gaia, figliuola
di Gherardo da
Camino, la no-
bilis, prndens et
honesta domina Gaia,
come la chiama
il notaio che
rogò il suo
testamento nel castello
di Portobuffolò il 14 agosto
1311, la quale
aveva lasciato cinquecento
lire di piccoli
prò opera et
laborerio della nuova
chiesa. E nel
mausoleo materno, posto
a sinistra di
chi usciva dal
tempio (nel sec.
XVIII se ne
vedevano ancora gli
avanzi), mentre la
tomba di Tolberto
era a destra,
volle esser tumulata
l'unica figlia nata
da Gaia, la
virtuosissima Chiara, che
fu moglie al
nobil conte Rambaldo
Vili di Collalto
e fece testamento
il 7 settembre
1348. Presso la
madre e la
nonna dormi l'eterno
sonno anche Ailice,
una delle figliuole
di Chiara, morta
nel 1381. Queste
ed altre cose
molte largamente espone
e documenta, in
un recentissimo libro,
Angelo Marchesan (l),
il quale alle
attestazioni recate (1)
Gaia da C'amino
nei dorumenli trevisani,
in Sanie e
nei commentatori della
Die. Commedia, Treviso,
tip. Turazza, 1904.
GAIA DI GHERARDO
DA CAMINO 33
dall'antico storico della
Marca trevigiana, il
Ver- ci ('),
altre ne aggiunge
dedotte da documenti
sinora inediti, custoditi
in depositi pubblici
e privati. Non
molto aggiungono i
documenti nuovi a
quello che di
Gaia già si
sapeva; ma invece
sono preziosi per
farci meglio conoscere
le per- sone che
furono a lei
più strette di
affinità, par- ticolarmente il marito
e la figlia.
Gaia nacque, secondo
le probabili congetture
del Marchesan, fra
il 1265 ed
il 1270 dal
magnanimo Gherardo e
da Chiara della
Torre. Siccome questa
mori solo nel
1299, passò Gaia
la giovinezza sotto
l'amorosa vigilanza materna,
e la madre
potè condurla all'altare,
allorché verso il
1293 essa impalmò
Tolberto dei Caminesi
di sotto. Questi
fu uomo di
non comune autorità,
prode nel- l'armi, accorto negoziatore.
Va da sè
che i documenti
ufficiali non ci di- cono se
siano stati buoni
i suoi rapporti
con la moglie;
ma il fatto
che egli testò
di voler esser
sepolto non lungi
da lei, morta
nel 1311, non
sembrerebbe certo indizio
di malevolenza. In-
dubitato è poi l'affetto
figliale tenerissimo di
Chiara, la quale
non solo dispose
d'essere ri- posta nell'arca stessa
di Gaia, ma
in una sua
figlia ne rinnovò
il nome, e
forse chiamò Gaia
di Del Verci,
per quel che
concerne i Caminesi,
s'era particolarmente giovato
il Mawiiesan nell'altro
utilissimo suo volume,
che cosi bene
illustra la storia
più gloriosa di
Tre- viso e che
contiene assai più
di quel che
dica il titolo,
L'uni- versità di Treviso
nei secoli XIII
e XIY, Treviso,
1892. Re .1
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Critici .1 34
GAIA DI GHERARDO
DA CAMINO pure
una sua figlioccia,
ed a suffragio
dell'a- nima della madre
destinò un legato
a' poverelli nel
suo testamento. Per
quanto la pratica
degli atti legali
antichi ci premunisca
dal dare loro
un peso soverchio
per quel che
spetta alle con-
dizioni intime dei personaggi
a cui si
riferiscono, e per
quanto nel frasario
e nelle disposizioni
di quelli atti
molto si debba
alla convenzione in-
veterata, sta il fatto
che il complesso
dei nume- rosi documenti fatti
conoscere dal Marchesati
è tale da
farci credere Gaia
gentildonna esem- plarmente intemerata, e
che non si
conosce pure un
atto della sua
breve vita onde
sia lecito trarre
qualche legittimo sospetto
in contrario. O
come va, dunque,
che ormai nella
critica dantesca predomina
opposta sentenza ?
Nella terza cornice
del Purgatorio, quella
fumosa degli iracondi,
s'imbatte l'Alighieri in
Marco Lom- bardo, che
spiegatagli la funzione
del libero ar-
bitrio nelle operazioni umane,
assorge da questa
considerazione psicologica ed
etica alla teoria
politica, svolgendo il
principio tanto caro
a Dante delle
due autorità necessarie
al regolato con-
sorzio umano, l'imperiale e
la pontificia, operanti
divise ma concordi;
lamenta la degenerazione
di quella larga
zona della superiore
Italia che fran-
cescamente chiamavasi Lombardia,
e dice che
tre soli vecchi
ancor vivono, «
in cui rampogna
l'antica età la
nuova », Corrado
da Palazzo, il
buon Gherardo, e
Guido da Castello.
Noti sono a
Dante il bresciano
Corrado ed il
reggiano Guido; ma
chi sia il
buon Gherardo ùnge
d'igno- PAIA DI
GHERARDO DA CAMINO
rare. E allora
Marco a stupirsi
di siffatta igno-
ranza ed a replicare:
O tuo parlar
m'inganna o e'
mi tenta, chè,
parlandomi tosco, Par
che del buon
Gherardo nulla senta.
Per altro soprannome
io noi conosco,
s"io noi togliessi
da sua figlia
Gaia ('). Dopo
quest'accenno, tronca il
discorso brusca- mente: «
Dio sia con
voi, che più
non vegno vosco
» . Ora, l'oscurità
voluta di quest'accenno
indusse i dantologi
a lunghe discussioni;
ma ormai i
più autorevoli inclinano
a ritenere che
Marco, dopo aver
così esaltato il
vecchio Gherardo da
Ca- mino, abbia voluto
pungere la degenerata
fi- gliuola tristamente celebre
per la libertà
de' suoi costumi.
A non dilungarci
in citazioni che
riu- scirebbero
interminabili e uggiose,
basti il dire
che la scostumatezza
di Gaia parve
certa ad un
filologo come il
Rajna (*) e
ad uno storico
e dan- tista come
il Del Lungo
(3), e che
ormai passò in
giudicato nelle più
pregiate opere di
consul- tazione e di
complesso come il
Dante DicUonary del
Toynbee fpp. 113
e 255) ed
il Dante dello
Zingarelli (p. 635).
Sarà fuor di
strada la maggiore
e più autore-
vole parte dell'esegesi dantesca,
rispetto al pic-
ei» Purgai., XVI, 136-140.
iSI (fai-a da
C'amino, in Arch.
star, italiano, serie
o», voi. IX
. 103-104. Cfr.
i>. lir>. 42
• GAIA DI
GHERARDO DA CAMINO
ricerca storica intorno
ai fotti della
sua patria ('),
avendo rinvenuto nell'archivio
notai-ile di Tre-
viso un documento in
cui Gaia è
detta Goya Soprano,
de Camino, suppose
che a Dante
non fosse ignoto
quel secondo nome
dato nel rogito
alla contessa, e che quindi
con la circonlocuzione di
Marco il poeta
venisse a chiamare
Gherardo, oltreché buono,
anche sovrano. L'ipotesi
potrebbe quadrare se il secondo
nome di soprano,
ricor- resse abitualmente nei
documenti; ma la
raccolta del Marchesan
ci dimostra che
ciò non avviene
e che l'atto
notarile fatto conoscere
dal Bisca ro è
un'eccezione. Di solito
la contessa caminese
è indicata senz'altro
col nome di
Gaia. Ma pur
con- cedendo, e volentieri
lo concedo, che
l'Alighieri non sapesse
punto esser quel
nome (latinamente Caia)
una specie d'anagramma
di Atea ("),
non è forse
vero che Gaia
molto si presta
a foggiarne un
soprannome? È questo
uno di quei
nomi significativi di
donna che occorrono
cosi di fre-
quente presso i poeti
dello stil nuora
e la cui
singolare ricorrenza fece
pensare al sempre
rim- pianto Bartoli ch'essi
avessero quasi il
valore di quei
senhals, con che
i trovatori di
Provenza artificiosamente celavano
i nomi veri
delle donne da
loro amate in
rima. E Dante
aveva un gran
gusto, da uomo
medievale che era,
d'arzigogo- lare sui nomi,
come tutti sanno,
e sui nomi
di (1) Gerolamo
Bisc.aro, Dante e
Gaia ciò Camino,
nella Gaz- zetta di
Treviso, fin. XV
(1878), n. 282
CI) Vedi Ra.jna,
Ardi, r.it, pp.
291 e sgg.
GAIA DI GHERARDO
DA CAMINO 43
donna in ispecie.
Quindi io non
vedrei proprio difficoltà
alcuna ad ammettere
che abbia colpito
nel vero il
march. Domingo Fransoni,
il quale levatosi
fra i primi
a difendere l'onore
di Gaia (.'/,
sostenne che il
secondo soprannome appropriato
dal Lombardo al
vecchio Caminese fosse
quello di gaio;
opinione alla quale,
senza sapere di
chi 10 avea
preceduto, mostrò di
propendere anche 11
mio carissimo Novati
(*). E si
noti che la
pa- rola gaio ha
nel linguaggio nostro
antico una estensione
di significato ben
maggiore che nel
moderno, forse per
influenza di quella
specie di camaleonte
degli epiteti che
fu il gay
di lingua d'oc.
Dal più comune
senso di lieto,
che è dan-
tesco nel Farad. XV, 60 e XXVI, 102,
si giunge a
piacevole, a gentile,
a nobilmente giocondo.
Quest'ultimo significato è
forse nel luogo
no- stro il più
acconcio. E mestieri,
infatti, tener fermo
anzi tutto un
principio, a parer
mio, si- curo: Dante
nel XVI del
Purgatorio, deplorando la
decadenza del valore
e della cortesia,
dicendo l'età sua
divenuta selvaggia, non
intende allu- dere propriamente ad
una degenerazione etica,
come non ha
punto valore ristrettamente etico
l'epiteto buono che
accompagna il nome
di Ghe- (lj
Lo scritto del
Fransoni, rimasto generalmente
ignoto a chi
si occupò della
questione nostra, è
nel volume de'
suoi Studi cari
sulla Dio. Commedia,
Firenze, 1887. Io
pure lo avrei
ignorato se non
era il rinvio
del prezioso catalogo
americano del Kocli
e poi il resoconto che
ne diede il
Marchesan, pp. 105
e sgg. (2)
Giornale storico della
letteratura italiana, XXXIII,
432. 44 GAIA
DI GHERARDO DA
CAMINO rardo da
Camino. Buono per
Dante ha senso
ben più largo
che buono pei'
noi; tanto è
vero che egli
chiama buono, uè
certo per ironia,
il Barbarossa nel
Pitrg., XVIII, 119
i,1). Rispetto al
costume non fu
buono Gherardo, del
cui li- bertinaggio abbiamo indizi
sicurissimi, certo non
ignoti al poeto,
che potè verificarli
coi propri occhi
a Treviso, quando
vi andò (*),
e Gherardo era
vecchio e Rizzardo
ormai camminava con
la testa afta.
Qualunque portata abbia
la di- gressione dottrinale, di
carattere psicologico e
politico, che occupa
tanta parte del
Purgato- rio XVI (3),
è indubitabile che
la bontà di
Ghe- rardo, come quella
dei due vecchi
suoi compagni, è
bontà cavalleresca, è
curialilas. Fu già
da pa- recchi osservato che
Dante fa qui
parlare un uomo
di corte, vale a dire
uno di quei
curiosi tipi, in
cui il poeta
sentiva qualcosa di
sè me- desimo, costretto per
tanti anni a
salire le altrui
scale, uno di
quei tipi che
a seconda delle
loro qualità personali
potevano elevarsi dal
basso mestiere del
buffone all'altissimo del
diploma- tico; ma che
tuttavia vivevano della
magnani- mità dei signori
e dovevano quindi
tenerla in altissimo
conto, non meno
di quel che
facessero (1; Cfr.
il volume Con
Dante e per
Dante, Milano, 1899,
pp. 82-83. (2)
Basserjiaxn, Orme, trad.
Gorra, pp. 437
e 447; Zixgareli.i,
Dante, p. 204.
(3) Sul valore
di questa digressione,
vedasi l'opuscolo di
M. Los aito,
Xel terso rerchio
ilei Purgatorio, Torino,
1900. GAIA DI
GHERARDO DA CAMINO
45 i poeti
girovaghi di Provenza
(')• La perfetta
curialitas equivaleva alla
perfetta nobiltà, che
secondo Egidio Romano
(il cui De
regimine principimi non
fu ignoto all'Alighieri) consisteva
in quatti'o virtù:
la magnanimità, la
magnifi- cenza, V ingegnosa
dolcezza, l'affabilità (*).
Della nobiltà l'Alighieri
parla a lungo,
con molte e
sottili distinzioni scolastiche
nel trattato IV del Convivio,
ed ivi cerca
l'accordo fra la
nobiltà del sangue
e quella dell'animo.
Ora è cosa
no- tevolissima che in
quel trattato appunto,
nel cap. 14,
egli invoca l'esempio
di Gherardo, sic-
come quello d'uomo senza
possibilità di conte-
stazione tiobilissimo: « Pognamo
che Gherardo «
da Camino fosse
stato nepote del
più vile vil-
« lano che
mai bevesse dal
Sile o dal
Cagnano, « e
la obblivione ancora
non fosse del
suo avolo «
venuta, chi sarà
uso di dire
che Gherardo da
« Camino fosse
vile uomo? e
chi non parlerà
« meco, dicendo
quello essere stato
nobile? Certo nullo,
quanto vuole sia
presuntuoso, perocché «
egli fu, e
ha sempre la
sua memoria ».
E però (1)
Vedi specialmente la
felice indagine di
F. Colagrusso, Gli
uomini di corte
nella Dio. Commedia,
ove sulla cortesia
del buon Gherardo
sono osservazioni degne
di nota. Studi
di let- teratura italiana, II,
51-55. f2) Sull'evoluzione del
concetto di nobiltà
nei tempi di
Dante ai leggano
le belle pagine
di K. Vossler
nel suo libretto
or oia uscito
in luce, Die
philosophiachen Grundlagen ztim
• afls- SUI
Heidelberg. 1904, pp.
24 e sgg.
Sulla parte che
aveva l'amore in
questo concetto della
nobiltà cortese, vedasi
Covati nel voi.
Arte, scienza e
fede ai giorni
di Dante, Milano,
1901, pp. '259
e sgg. V
4fi GAIA DI
GHERARDO DA C'AMINO
a buon diritto
Benvenuto cosi intende
l'epiteto buono! « Hic fuit
vii- totus benignus,
bumanus, « curialis,
liberalis et amicus
bonorum: ideo an- * tonomastice
dictus est bonus
». Le qualità cavalleresche
sopra indicate il
poeta riconosceva tutte
nel degno signore
trevisano, al cui
palagio si recava
ancora per antica
simpatia, sebbene a
motivo della vecchiaia
non andasse più
altrove, maestro Ferrarino,
il gran cono-
scitore della poesia trobadorica
; e Gherardo
ed i figliuoli
suoi (fra cui
Gaia) « li
fasian grand «
honor e'1 vesian
voluntera e molt
l'aquliau * ben
e li donavan
voluntera » (x).
Ma a diffe-
renza dagli altri due
vecchioni una prerogativa
avea il Caminese
che agli altri
non era propria,
la gaiezza, la
giocondità. E per
dir questo il
poeta ricorre allo
spediente ingegnoso di
far ram- mentare la
sua figliuola, la
quale Gaia appunto
chiamavasi, ed incline
com'era (non meno
del padre) alle
« delegazioni amorose
», chissà non
rispondesse a ciò
che un giullare
del tempo scrisse
delle concittadine di
lei: De le
donne da Treviso:
queste soii cavalcareselie ;
sempre con allegro
vitto, tutte quante
zentilesche: (1) Su
Ferrarino e sul
svio famoso florilegio,
recpiitemente edito, cfr.
G. Bertoni nel
Giorn. stor. della
leti, italiana, XLII,
378 sgg. Vedi
Casini, / trovatori
nella Marca Trevigiana,
in Propuynalore de,l
1885. RAI A
DI GHERARDO DA
CAMINO 17 •lei
liei balli e
delle tresche limino
ben ile saver
fare, e poi
san bea solazare
con ognun gentil
barone [}). irfliezza
e giocondità codeste,
che erano in
piena relazione con
la vita tradizionale
nella Marca, tanto
conforme ai gusti
degli uomini di
corte. Cosa notissima
è infatti che
segnatamente nel sec.
XIII fu Treviso
ricetto di bella
e fresca col-
tura, teatro di feste
amorose, di giostre,
di tor- nei. Non
è certo d'uopo
di rammentare ai
lettori colti la
festa del castello
d'amore, bizzarra, ele-
gante, fastosa, di cui
ci serba memoria
il cro- nista Rolandino (2).
Noi troviamo Trevigi
nel cammino, che di chiare
fontane tutta ride,
e del piacer
d'amor che quivi
è fino, scrive
l'autore del Ditt amondo
(III, 2). Là
sulle rive del
limpido Sile parve
che rivivessero in
una primavera italica
le tradizioni cavalleresche
d'oltralpe, e insieme
al canto dei
trovatori echeg- giarono le
leggende classiche e
carolingie nella *
jojose marche del
cortois trivixan >.
Questo verso appartiene
al poema franco-veneto
della Entrée de
Spagne, al quale
poema, ed all'arguto
(l) Versi editi
da T. Casini
nel Propugnatore del
1882 e rammentati,
nel libro sull'università, dal
Marchksax e poi
anche dallo Zenatti.
C2\ Per questo
e per altri
particolari della vita
nella Marca, vedansi
i capitoli 111
e IV della
citata opera del
Marchesa», L'università di
Treviso. GAIA DI
GHERARDO DA CATUIN'O
lai d'Aristote, che
è una specie
d'apoteosi della potenza
d'amore, pare certo
s'inspirasse un pit-
tore venerando in certi
suoi freschi preziosi
della fine del
dugento o del
principio del trecento,
che, scoperti in
una casa privata
di Treviso, fu-
rono nel 1902 allogati
nel museo di
quella città dal
dotto e benemerito
cittadino che risponde
al nome di
Luigi Bailo (').
Quelli affreschi, e
gli altri ugualmente
antichi di cui si conservano
i resti nella
loggia de' cavalieri,
ove i nobili
si accoglievano a
sollazzo, ammirandovi ritratte
le leggende di
Troia, stanno a
dimostrarci che nella
terra de' Caminesi
tutte le arti
si davano la
mano per render
gioconda e raffinata
la vita. *
E ora ammainiamo
le vele. Che
Marco Lombardo, trattato
male, a quanto
sembra da Rizzardo
da Camino, abbia
potuto riguardare come
una tentazione la
dimanda di Dante
rispetto al buon
Gherardo, e non
abbia voluto, per
non abbandonarsi all'ira,
biasimare nei figli
di lui la
natura parca che
altrove (Farad., Vili,
82) Carlo Mai-fello
lamenterà di- scesa in
Roberto Angioino, il
re da sermone,
non è improbabile.
Di ben altro
che d'avarizia era
(1) Su quelli
affreschi veramente notevolissimi
abbiamo sinora solo
una relazione del
Bailo stesso e
la nota di
V. GiiEStwi negli
Atti dell'Istituto veneto,
voi. LXII. P.
II, pp. 267
e sgg. GAIA
DI GHERARDO DA
C'AMINO 49 tacciabile
Rizzardo, ed il
poeta infligge a
lui In condanna
in luogo più
acconcio, e per
altra bocca. L'intemerato
e sdegnoso uomo
di corte, invece,
che deplora la
degenerazione penetrata nei
nobili della Marca,
integra con la
sua se- conda designazione la
prima. Gherardo non
ha soltanto in
sè tutte le
doti della curialitas,
per cui fu
detto antonomasticamente buono;
gli si può
appropriare un altro
soprannome, togliendolo da
sua figlia Gaia,
ed allora egli
apparirà qual'è, non
solamente generoso, liberale,
arrendevole, affabile, ma
anche giocondo, della
bella ed arti-
stica giocondità della sua
patria. Nessun dato
serio di fatto
ci consente di
credere che la
ga- iezza di Gaia
(seppure ella fu
gaia non sola-
mente nel nome) abbia
oltrepassato i limiti
del- l'onestà: tutti i
documenti cospirano a
farcela in- vece ritenere
figliuola amorosa, moglie
esemplare, madre teneramente
amata; la cruda
attestazione dell'Imolese più
che con l'esagerato
desiderio di contar
fatterelli piccanti, di cui Benvenuto
fu ghiottissimo, più
che ad una
amplificazione mali- gna del
nome della gentil
donna e della
chiosa del Laneo,
è forse dovuta
ad un equivoco.
Ma se anche
qualcosa di vero
vi fosse nella
impu- tazione di «
tota amorosa »
inflitta a Gaia;
se anche, nella
giovinezza, i suoi
costumi fossero stati
alquanto leggieri, come certamente
furono quelli del
padre e quelli
dei fratelli, non
è il caso
di credere che
a ciò volesse
accennare il poeta
divino. Molto indulgente
ei fu sempre
ai peccati d'amore,
massime in donna
nobile e per
altri Rfmrr -
Svaghi Critici i
50 GAIA DI
GHERARDO DA CAMINO
rispetti stimabile. L'altro
requisito, che meglio
serviva a caratterizzare Gherardo,
era la giocon-
dità. Nessun soprannome
onorevole poteva venir-
gli da una figlia
scostumata; ed il
cognome della figlia
era, in questo
caso, quello del
padre, sicché chi
avesse ignorato l'uno
non poteva ricever
lume dall'altro. Nota
aggiunta. — Nel
Fmiftdla della Domenica,
24 gen- naio 1904.
L'opinione qui sostenuta,
che Dante non
volesse punto infamare
Gaia, fu, dopo
quest'articolo mio, patrocinata
da L. Bailo
nel Nuovo Archivio
veneto, N. S.,
VII, P. II, pp. 433-38;
da Luigi Colktti
nello scritto Gaia
e Rizzardo da
Camino, Treviso, Zoppelli,
1904; da G-.
B. Picotti in
un arti- colo su
Gaia da C'amino
che si legge
nel Giornale Dantesco,
an. XII, quad
6°, e quindi
nel volume /
Caminesi e la
loro si- gnoria in
Treviso, Livorno, Giusti,
1905; da Mario
Cevolotto, Dante e
la Marca trevigiana,
Treviso, tip. Turazza,
1906; da F.
Torraca in enti-ambe
le edizioni del
suo ottimo commento
al poema dantesco;
da A. Medix
nella Ras», bibl.
della Ietterai, italiana,
XIII, '210-11. Invece
ritornò all'antica credenza
che Dante nominasse
Gaia a vitupero
Pio Eajsa nel
Bullelt. della Società
Dantesca italiana, X
S., XI, 349
sgg. Egli non
mi ha persuaso:
ma d'un particolare
di fatto conviene
tener conto: che
la sgualdrina caminese
menzionata da Giovanni
da Non non
si chiamava Gaia
(vedi le pp.
355-56 del Rajnaj.
Ed un secondo
particolare di fatto
voglio richiamare. Secondo
una dimostrazione inoppugnabile
di M. Barbi
nel citato Bullett.,
X. 8., XV,
213 sgg., il
commento del cosidetto
Talice da Eicol-
done, che io
fui il primo
a studiare, mostrandone
l'affinità con quello
di Benvenuto, non
è sostanzialmente altro
che l'esposizione del
poema fatta a
Bologna da Benvenuto
me- desimo. Il
Vànnozzo. Chi era
costui? La domanda,
da parte del
pubblico anche non
mediocremente colto, è
davvero più giustificata
di quella che
rivolgeva a sè
medesimo il più
celebre dei curati
a proposito d'un
filosofo antico punto
oscurissimo. Di Francesco
di Vaunozzo non da molti
nè da molto
tempo si bisbiglia.
E ben vero,
che già nel
1825, Niccolò Tommaseo,
con quel suo
ingegno acuto, di
pensatore edi ar-
tista, ravvisava
l'importanza di certe
rime poli- tiche del
Vannozzo edite per
nozze dall'abate Andrea
Coi e minuziosamente le
commentava ('). È
ben vero che
dopo d'allora, attingendo
a quel preziosissimo
cimelio che è
il codice n.
59 della biblioteca
del Seminario di
Padova, ove si
con- serva per intero
il patrimonio poetico
del rima- tore spontaneo e
bizzarro (2), parecchi
eruditi fecero conoscere
qualcosa di lui,
massime il ghi-
(1) Non pago
di quello studio
giovanile, tornava il
Tom- maseo sul Vaunozzo
nel Dizionario d'estetica
(1860), I, i'27
sgg. (2) La
tavola del codice
è già nell1
Indire delle carte
dì P. Bi-
lan edizione il907).
— Tal quale
nella prima edizione,
del 1898. (3)
Gescli. der ital.
Liti., II (1888>,
p. 80; nella
traduzione. 2=> ediz.,
II, 1, 79.
!p. 1G9). Sapeva
di musica più
che mediocremente; adattava
a' suoi versi
le melodie popolari
ovvero quelle dei
musicisti stranieri; sonava
con maestria più
d'uno stru- mento. Sciolte e
gaie, tutte conteste
d'allusioni mordaci e
talora d'espressioni gergali,
gli flui- vano dalle
labbia le rime.
Al pati del
suo più tardo
confratello, il Pistoia,
con cui ha
vari punti di
simiglianza, di tutto
ciò che gli
capitava sot- t' occhio
faceva sonetti, canzoni,
frottole. Souetti e
canzoni, che dai
motivi tradizionali burleschi,
dalle movenze proprie
ai buffoni, dalla
satira personale sguaiata,
assorgevano talora ad
alti ar- gomenti politici, s'ingentilivano in
rime d'amore d'un
petrarchismo cosi vivo e sano
e sentito, quale
poche altre volte
al Trecento venne
fatto d'udirne. Esemplari
di ciò i
due magnifici sonetti
al giardino, uno
dei quali, d'una
freschezza mi- rabile, malgrado qualche
lombardismo nella di-
zione, voglio riferire per
saggio: Gaio e
zentil zardino adorno
e fresco, dove
per suo piacer
la Dea s'asconde,
inclina verso me
tue fresche fronde
se per parlar
un poco non t'
incresco. Io sono
il cor del
tuo frate-I Francesco,
quel che sì
crudelmente Amor confonde;
da te mi
parto e non
so veder donde,
mia morte fuggo,
in cui tanto
m'adesco. Sol un
rimedio trovo a
la mia doglia,
che, se '1
fie mai eh' a
te costei si
stenda, tu faccia
lagrimar ciascuna foglia
e gli arbor
tutti mia rason
difl'enda. Perfin ch'ella
non è mossa
de voglia i
fiori e l'erba
sta giudea riprenda,
IL VANNOZZO 55
e s'ella vi
domanda: « A
che piangete? »
ognun risponda: «
Pietà non avete.
» (') Il
poeta, che sapeva
trovare accenti così
ari- stocraticamente soavi nella
poesia d'amore; il
poeta che con
balda prosopopea faceva,
inv ocare dalle
città italiane il
conte di Virtù
a redentore d'Italia
e con verace
inspirazione accomiatava quella
manatella di sonetti
dicendo: Dunque correte
insieme, o sparse
rime, e gite
predicando in ogni
via che Italia
ride e ch'è
giunto il Messia;
il poeta capace
di questi e
d'altri sentimenti gentili
e generosi, come
s'incanagliava talor nelle
bettole e nei
bordelli, attratto dalla
follia del dado
e dal fascino
dei mali compagnoni
e delle male
femmine, cosi si
sbizzarriva nelle frottole
saltellanti e procaci,
vere orgie poetiche.
Una di quelle
frottole, la frottola
del mariazo, è
una specie di
farsa popolare in
embrione, ri- flesso senza
dubbio, come il
Levi dimostra dot-
tamente, d'altre consimili rappresentazioni pro-
fane, che per non
esser state fissate
con la scrit-
tura il tempo c'invidiò.
Strano, dunque, mutevole,
randagio, questo Vannozzo;
un po' cantampanca,
un po' uomo
di corte, un
po' confidente di
prin- cipi e gran
signori; riproduzione, debitamente
modificata in conformità
alla temperie italiana,
(1) Seguo la
lezione data dal
Levi a p.
420, solo modifi-
cando l'interpunzione nelle terzine.
Il sonetto fu
molte volte stampato.
E desideratissima l' edizione
critica di tutte
le poesie del
Vannozzo, che il
Levi ha già
pronta. 56 IL
VANNOZZO dell'antico giullare
francese; senza speciale
col- tura, ma tutto
spontaneità e brio,
tutto vita, tutto
arte non riflessa.
In altri termini,
un rappre- sentante sincero di
quella scapigliatura, che
al- l'età nostra critica
piace tanto, perchè
vi ravvisa riflesso
più genuinamente il
vario atteggiarsi del-
l'anima umana. Documenti rintracciati
permettono al Levi
di ricostituire la
biografia del personaggio
bizzarro, rispetto alla
quale sinora s'era
brancolato nel buio.
Non veronese egli
fu, nè trevigiano
di Vol- pago,
sì bene padovano,
figlio a Giovanni
di Bencivenne d'Arezzo,
detto Vannozzo, fido
cor- tigiaao di
Francesco I da
Carrara e da
lui re- galato d'una
casa in Padova.
Erano codesti Van-
nozzi, o Vannucci
che dir si
vogliano, telaroli toscani,
di cui alcuni
fecero quattrini, compra-
rono terre, divennero prestatori
e banchieri. Non
cosi il nostro
Francesco, cui tormentava
l'assillo della irrequietezza
e fors' anche la
tendenza a quell'onesta
pigrizia che le
Muse tanto volentieri
consigliano. Egli fu
povero in canna
e della mi-
seria sua ebbe a
lamentarsi in rima
più volte, piacevoleggiandovi sopra
per meglio intenerire
i potenti e
stuzzicarne la vanagloria
munifica. Per quanto
ingegno e buona
volontà ci abbia
messo, non riusci
al Levi di
diradare del tutto
quel tenebrore che
avvolge le vicende
del Van- nozzo; tuttavia, mercè
sua, parecchia luce
è en- trata là
dove prima era
buio pesto. Congettura
plausibilmente il novello
critico che sino
al 1358 messer
Francesco non si
mo- IL VANNOZZO
57 vcsse da
Padova, ove era
nato fra il
'30 e il
'40. Da Padova
s'allontanò forse la
prima volta nel
1363, ma la
abbandonò solo nel
'73, per motivi
politici, caduto in
disgrazia al Carrarese
domi- nante. Dopo quel
tempo si stabili
a Verona presso
gli Scaglieri; ma
caduti gli Scaglieri
nel 1387 e
poco appresso anche
i Carraresi, si
volse a quella
meta a cui
sembrava che Fortuna
avesse diretto la
sua ruota, la
corte di Milano.
Fu com- posto intorno
al 1389 quel
canto con cui
il conte di
Virtù, Giangaleazzo Visconti,
è invocato come
messia d'Italia, e
con esso si
chiude il codice
del Seminario ed
il Vannozzo ammutolisce.
Non è improbabile
che poco appresso
sia morto, chissà
dove. Da Padova
e da Verona
fece fre- quenti escursioni a
Venezia, a Ferrara,
a Bolo- gna. A
Bologna, tra il
1377 e il
1378, gli saltò
persino il ticchio
di frequentare lo
Studio; ma ben
presto fu travolto
dai bisogni aspri
della vita e
se ne ritrasse.
Se lo si
chiamò maestro, fu
per l'arte dei
suoni, in cui
davvero si formò
reputazione. A Bologna
ebbe un processo,
per violenze, la
moglie del Vannozzo,
Orsolina, una parmigiana,
di cui non
ci è rimasta
se non quella
traccia criminale, sebbene
di criminalità non
obbrobriosa, ma che
pur sembra non
facesse cattiva compagnia
al rimatore girovago,
perchè morta giovine
egli la pianse
in un sonetto
al- quanto rugginoso ma
efficace. Stima il
Levi non impossibile
che il Vannozzo
passasse qualche tempo,
con Marsilio da
Carrara, in Avignone
e che in
Francia si trattenesse,
imparandovi la IL
YAXSOZZO lingua del
paese o desumendo
dalla poesia e
dalla musavi francesi
elementi ohe trasferì
nelle pro- prie. Pollando su
d'un accenno ili
certo sonetto di
Antonio Del d'aio
diretto al Vanuozzo
[). "14*0, ritenne
pure il Levi
che questi siasi
recato in Catalogna
ed in Fiandra:
ma a vero
dire su tutti
codesti viaggi fuori
d'Italia avrei diverse,
e non tutte
spregevoli, ragioni da
accampare. Comun- que sia,
che facesse un
gran girare non
è dubbio, ed
il fatto ch'egli
esercitò per qualche
tempo la dura
professione del corriere
vale a persua-
dercelo più d'ogni altra
cosa. Mentre i
suoi famigliari, più
pratici di lui.
s'arricchivano col traffico,
il povero poeta
snodava le membra
poco impedite dalla
polpa e s'inzaccherava i
calzari, con la
borsetta a lato
ed il bordone
in mano, sotto
pioggie e sotto
nevi, ovvero s'impolverava
dardeggiato dal solleone,
sulle poco comode
strade del tempo.
E ben volentieri,
talvolta, trattenevasi a
conversare nelle osterie
mal fre- quentate, ove
non poteva resistere
alla tenta- zione del
dado, fatale ad
altri poeti suoi
con- temporanei. E là
e per le
piazze, quand'era di
umor lieto, buffoneggiava. Amato,
per la vena
faceta, per certa
accortezza nativa, pel
dono di verseggiatore
e di musicista,
dai signori, pre-
stava loro servigi ora
umili ora onorevoli.
Che fosse addetto
ai falconi, come
il Levi sospetta
per un momento,
non v'è ragione
plausibile che induca
a crederlo: ma
invece è certo
che l'oc- casione lo
trasmutò di corriere
in soldato e
che fu ferito
ad una coscia.
Vuole il Levi
che ciò IL
VAXNOZZO seguisse nel
novembre del 1372.
allorché alle l'rcntelle
fu combattuta tr;i
Padovani e Vene-
ziani una battaglia. Così
gli fu presto
tronca la rarriera
d'anniderò, che, forse,
al suo inesauri-
hile talento d'avventure
non ispiaeeva. E
sic- cinui' nell'eccitabile fantasia
di lui tutto
pren- deva vita e
parola, ne vennero
i piacevoli so-
netti a dialo.no tra
lui e la
rem'lfu. cioè il
gia- vellotto che l'avea
colpito. Le peregri
nazioni del Vannozzo,
come misero alla
prova l'infaticabile e
non ordinaria abilità
ili ricercatore del
Levi, così gli
concessero eli tracciare,
con un bel
gruzzolo di dati
nuovi di t'alio,
la storia politica
e letteraria delle
città in cui
dimorò e delle
quali son vestigia
nell'opera sua. Questo
praticò con estrema
larghezza, che non
è prolissità di
parole, ma è,
se cosi fosse
dato esprimersi, prolissità
di fatti. Peccato
gio- vanile
perdonabilissimo, di cui
egli, con la
se- conda parte del
titolo dato al
libro, cercò di
pro- durre anticipata giustificazione. Meniamogliela
buona, giacché in
vero questo studioso
ci sa dire
di gran cose
anche recondite. La
prima città in
cui il Levi
si trattiene è,
naturalmente, Padova, ove
il Vannozzo ebbe
a goderò le
poche gioie ed
i non pochi
travagli (iella giovinezza
spensierata e pur
melanconica. La città,
suntuosa e sucida,
i signori che
vi do- minavano in
quel tempo, il
palazzo carrarese, 60
IL VANNOZZO lo
stato della coltura,
la bella schiera
di uma- nisti e
di uomini di
lettere che vi
trassero, ri- chiamati dalla presenza
del Petrarca, gli
uomini di corte
e i giullari
che vi bazzicavano,
principe fra essi
quel messer Dolcibene
celebrato dal Sacchetti,
tutto è qui
rammentato, descritto, do-
cumentato. Balza fuori specialmente
una figura pressoché
nuova, quel Niccolò
Beccari da Fer-
rara, fratello del poeta
Antonio ('), che
in gio- ventù era
sceso nel purgatorio
di San Patrizio,
e poi fu
precettore di Francesco
Novello da Carrara,
amico del Petrarca
e famigliare di
Carlo IV imperatore.
A Ferrara il
Vannozzo non si
fermò a lungo:
non gli piaceva
la città allora
meschina, senza nessuna,
se ne togli
la vetusta cattedrale,
di quelle attrattive
edilizie onde la
ornarono i prin-
cipi del Kinascimento ed in ispecie
Ercole I: non
gli piaceva l'aria
bassa ed insalubre;
non gli piacevan
gli uomini, millantator
pomposi e gran
busardi, nei fatti
vili e nel parlar gaiardi.
La vita di
corte allora v'era
parsimoniosa: i si-
gnori, anzichenò grossi, più
si dilettavano di
giuo- chi d'armi e
di buffoni che
non di artisti
e di letterati.
Lo Studio solo
nel 1891 divenne
gene- fi) Su
l'uno e su
l'altro Beccari s'aggirerà
una monografia del
Levi che ormai
si viene stampando.
Questo lavoro sarà
di grande interesse
per le relazioni
della coltura italiana
con Carlo IV
e i Boemi.
IL VANNOZZO 61 ì
ale. Tuttavia a
Ferrara erano stati
il Petrarca, Donato
degli Albanzani, Benvenuto
da Imola; e
dei letterati che
il Vannozzo potè
conoscervi, o sicuramente
vi conobbe, tiene
il Levi lungo
ra- gionamento. A
Verona il Vannozzo
era stato più
volte ed aveva
carteggiato in rima
con l'oscuro rimatore
Pier della Rocca,
allorché lo chiamò
a quella corte,
a nome del
Signore, l'umanista Antonio
Del Gaio da
Legnago. Colà fissò
radici nel 1382,
presso Antonio della
Scala, bastardo fratricida,
che ai piedi
della bionda Samaritana
da Polenta, di
cui era pazzamente
innamorato, profondeva ricchezze,
circondando d'ogni maniera
di sfarzo e
d'ogni raffinatezza d'arte
la donna godereccia
e perversa. Colà
vide, e segui
rimando, il tra-
monto e la rovina
della superba dominazione
scaligera. Colà visse
intensa vita d'intelletto
coi dotti che
vi soggiornavano, Gaspare
Broaspini, Leonardo da
Quinto, Taddeo del
Branca, Gu- glielmo da
Pastrengo e altri
non pochi. Tra
gli ufficiali della
cancelleria scaligera ebbe
amico Niccolò degli
Scacchi; ma gli
furono avversi quattro
altri tra i
quali i più
noti sono Alberico
da Marcellise e
maestro Marzagaglia. Curiose
novità ci sa
dire il Levi
di quelle battaglie
a punta di
penna, e non
meno curioso è
l'osser- vare come in
Verona lo spontaneo
bohémien pa- dovano s'acconciasse alla
moda favorita dal
trat- tatista e rimatore
Gidino da Sommacampagna
e dietro il
suo esempio si
lambiccasse il cervello
con gli acrostici,
le poesie trilingui
ed altri gio-
r>2 IL VANNOZZO
cherelli eli sapor
medievale, finché un bel giorno,
infastidito, mandò al
diavolo tutta quella
za- vorra. Assai
interessante è quanto
il Levi ci
sa dire del
Vannozzo a Venezia.
Qui non la
corte di un
mecenate, ma la
opulenta regina delle
lagune, prodiga d'ogni
maniera di sollazzi.
I venturieri vi
trovarono sempre il
fatto loro, e
non meno dei
venturieri i poeti.
Neil incantevole città
il nostro rimatore
immergevasi nei bagordi
e nei giochi,
frequentava gente gaia
e senza scrupoli,
ma al tempo
stesso s'inebbriava di
quella vita fulgida
e satura d'arte,
e osservava. Le sue frot-
tole veneziane sono scritte
durante la guerra
di Chioggia; qualcuna,
come quella lunghissima
« Perdonime ciascun
s'io parlo troppo
>, che fu
edita, e infelicemente, dal
solo Grion, ha
intento politico e
si sviluppa talora
con solennità epica
dal saltellio usuale
frottolesco; quella del
mai-iaso invece è
un quadro magnifico
di costume. Il
Levi è meraviglioso
nella illustrazione di
quei difficili componimenti
e delle altre
rime vaunozziane, che
burlescamente o satiricamente
rappresentano tipi veneziani
allora noti quanto
oggi oscurissimi. Il
soggiorno del Vannozzo
presso il conqui-
statore di Verona e
di Padova, Giangaleazzo
Visconti, al quale
i poeti del
tempo inneggiavano come
a rivendicatore d'Italia
(dovevano pure i
poeti, due secoli
dopo, ubbidire ad un miraggio
non dissimile intorno
a Carlo Emanuele
I di Sa-
voia), il soggiorno, ripeto,
presso Giangaleazzo, offre
occasione al Levi
di rappresentare in
un IL VANNOZZO
quadro ampio e
finito la vita
materiale ed in-
tvllettuale sfoggiata, che
in Milano si
conduceva, non solo
a' tempi del
conte di Virtù,
ma anche a
quelli de' suoi
antecessori immediati, Bernabò
e Galeazzo. Con
felice industria raccoglie
e con- serta il
nuovo critico le
molte notizie già
note specialmente per le fruttuose
ricerche del Nbvati
e del Medin,
e molto aggiunge
di suo, e
figure e figurine
di gran signori,
di umanisti, di
lette- rati d'ogni genere
fa spiccare su
quello sfondo. Sfoggio
grande d'erudizione senza
dubbio intorno agli
otto sonetti patriottici
bene immaginati ed
alla tediosa canzone
morale, gli uni
e l'altra al
conte di Virtù,
che il Vannozzo
compose; ma sfoggio
non vano. Segue
nel libro lo
studio interno, anzi
intimo del verseggiatore. Osservatisi
in esso elementi
francesi, ma non
tali, a parer
mio, da esigere
che il poeta
li at- tingesse in
Francia. La gran
valle padana era
tutta irrigata di
costumanze e d'arte
francesi; e non
era mestieri varcare
le Alpi per
esserne imbevuti (';.
Maggior peso hanno
forse i riscontri
musicali. Che, in
teoria ed in
pratica, abbiano '1.»
Con la massima
cautela voglionsi interpretare
certi accenni a
viaggi remoti, che
occorrono nelle rime
del Van- noEzo.
Questo dei viaggi,
per lo più
imaginari, è accenno
tipico dei vanti
giullareschi e se
ne ha esempio
celebre an- che nel
contrasto di Cielo
d'Alcamo. IL VANNOZZO
per questa parte
influito sul padovano
il Ma- chault
ed il Deschamps,
sembrami ben dimo-
strato; ma dubito se
anche per la
musica, in cui
fu maestro, il
Vannozzo dovesse proprio
recarsi all'estero. Le
nostre raccolte di
liriche musicali hanno
testi e melodie
francesi in quantità,
testi e melodie
che durarono per
secoli, e di
cui, a traverso
alle intavolature del
Petrucci e d'An-
drea Antico, s' hanno vestigi
fin nel seicento.
Ciò nondimeno le
indagini che il
Levi pratica in-
torno alle cognizioni musicali
del Vannozzo sono
una delle parti
più belle e
nuove del poderoso
volume. Credo ch'egli
colpisca nel segno
allor- ché viene a
concludere che il
nome alquanto misterioso
di ciciliana, dato a certi
componi- menti musicali, riguardasse
la melodia più
che la forma
poetica. Le canzoni,
le ballate, i
ron- delli che
il Vannozzo avea
(e pei' far
ciò di recarsi
in Francia con
la persona non
aveva proprio bi-
sogno), egli le eseguiva
su vari strumenti
mu- sicali, massime sul
liuto e sull'arpa.
Se vera- mente azzecca
giusto il Levi
in un suo
ragio- namento sottile quanto
ardimentoso, il padovano
nostro avrebbe anche
inventato uno strumento
da fiato, la
calandra. Non meno
fruttifero è l'insieme
degli elementi popolari
che il Vannozzo
fece suoi con
inesauri- bile franchezza di
assimilazione. La tendenza
giullaresca, che si
sfoga in lui
nel cinguettìo e
scintillio della frottola,
e nel tempo
medesimo l'abito democratico
conseguito per nascita
e l'in- IL
VANNOZZO 05 vigorito
per elezione, lo
indussero a trar
molto della sua
vitalità artistica dal
popolo, ch'egli os-
servava ed amava, nonché
dalla borghesia, ch'era
popolo grasso. Echeggiano
nelle sue rime
varie leggende; fan
capolino tipi comici
che forse erano
appartenuti ad un
teatro popolare perduto
per noi C1);
variamente risuonano e
talora riddano fragorosamente termini
dialettali senza numero,
specialmente veneziani e
pavani, che mettono
a dura prova
le nostre cognizioni
glottologiche; si fan
sentire di tanto
in tanto le
note aspre e
chioccie del gergo
usato nelle taverne
fra giuo- catori
arrabbiati, fra compagnoni
alticci, fra scozzoni
di scuderia, fra
femmine allegre e
sciolte; s'allarga e
si scompone la
cerimonia di rito
nel gustosissimo mariazo.
Accanto a tutto
questo vive la
tradizione let- teraria, vive
e frutta. Non
è la tradizione
clas- sica, ma quella
dei due maggiori
toscani, saputi e
ammirati anche nel
nord dell'Italia, Dante
e Petrarca. Quanto
di Dante e
quanto del Petrarca
risuoni anche nelle
poesie del Vannozzo
è dal Levi
benissimo dimostrato. Col
Petrarca aveva il
padovano comune l'origine
aretina; erano con-
temporanei; s'amarono e poi
per ragioni non
chiare ruppero la
loro amicizia. Avea
fami- gliarità col Petrarca
il padre del
Vannozzo, e (1)
Xon ne] Vannozzo,
ma in un
imitatore di lui.
poste- riore di poco,
Giovanni de Bonis,
il Levi ha
scovato un ac-
cenno a pulcinella, d'importanza
straordinaria, perchè scon-
volge tutte le ipotesi
recenti sul]' origine
di quella maschera.
Vedi p. 381
nota. Bemer -
Svaghi Critici 5
6 del Camposanto
pisano, le riproduzioni
presenti ri- fuggono costantemente dalla
banalità, che suol
essere la malattia
consueta degli illustratori
da strapazzo. Più
che all'arte si
bada al carattere;
e pel carattere
sono notevoli le
storie raffigurate in
certi antichi cassoni
nuziali e le
figure de- sunte dal
Tacuinum Sanitatis del
Hofmuseum di Vienna
e da quello
non meno rilevante
della Casanatense. Se
in questa larga
maniera di con-
cepire e d'integrare la
critica il maggior
merito è del
giovine e perspicace
autore, conviene pure
assegnarne qualche parte
alle scuole onde
è uscito, l'Università
di Pavia, ove
compì il corso
normale, e l'Istituto
superiore di Firenze,
ove completò ed
affinò la sua
educazione scientifica. Era,
in origine, questo
volume, un capitoletto
alquanto smilzo d'uno
studio destinato a
consi- derare i poeti
borghesi del sec.
XIV, tema caro
al Levi, su
cui egli si
propone di ritornare
quanto prima. Il capitolo
prese consistenza ed
estensione d'opera a
sè, dopoché all'autore
balenò l'idea di
fare del Vannozzo
quasi il centro
ed il rap-
presentante della
letteratura lombarda. Veneto,
veramente il Vannozzo
era, e nel
Veneto tra- 68
IL VANNOZZO scorse
la maggiore e
miglior parte della
vita sua, e
veneti furono i
vernacoli a lui
più famigliari; ma
il Levi ch'i
alla regione lombarda
quella lar- ghezza che
le era propria
nella nomenclatura medievale
e trecentesca. Lombardia
chiamavasi in quel
tempo il vasto
territorio dominato dalle
più splendide signorie,
disposte attorno al
corso medio ed
inferiore del Po,
quelle di Milano,
Ve- rona e Padova
al nord, di
Ferrara, Bologna, Ra-
venna e d'altre terre
di Romagna al
sud. Nella vita
spirituale del Trecento
quest'ampia regione ebbe
un'importanza che sinora
non le fu
rico- nosciuta e di
cui la storia
delle lettere perdette
ogni chiara visione,
dopoché l'aveva intuita
l'in- telletto penetrante del
Tiraboschi. Rivendicare il
Trecento lombardo (p.
425) divenne l'intento
del libro, il
quale intento ne
spiega, anzi in
parte ne giustifica,
la larghezza. Raccogliendone i
ri- sultati nella conclusione,
il giovine filologo,
che è sempre
garbato e spesso
vivace espositore, scrive
pagine calde di
vera eloquenza. L;i
gran luce raggiata
dalle tre corone
indusse il generale
convincimento che il
Trecento lette- rario fosse
toscano. Il Levi,
invece, ritiene che
debba essere distinta
la prima dalla
seconda metà del
secolo: predominò la
Toscana nell'una, pre-
valse la Lombardia nell'altra.
Di fronte al
fio- rire delle signorie
altitaliane, il primato
fioren- tino decadde. Altre
correnti culturali entrarono
nella vita italiana
e l' animarono variamente;
altri ideali furono
proseguiti, e la
lirica attinse alle
sempre fresche sorgenti
popolari, si rinsan-
IL YANNOZZ0 (j-iiò
al contatto della
poesia musicale francese.
Tra queste nuove
tendenze ed il
tradizionalismo conservatore del
centro toscano sarebbe
acca- duta una vera
e rude scissura
se non l'avesse
impedita una energia
latente, ma formidabile,
* il eulto
e l'amore per
i due grandi
randagi « del
Trecento, Dante e
il Petrarca »
(p. 385). Questo
culto impedì lo
sdoppiarsi della lettera-
tura italiana; e quando,
nel territorio lombardo,
sbocciò il più
bel fiore della
poesia ribattezzata nel
classicismo, i Libri
degli amori del
conte di Scandiano,
tutta la freschezza
degli elementi lirici
lombardi vi ravvivò
l'imitazione petrar- chesca. Non
altrimenti la pittura,
spentosi il grido
che intorno a
Giotto sonò cosi
alto, rinvenne nelle
botteghe degli artisti
padovani, ferraresi e
vero- nesi quelli instauratori
robusti e vitali
la cui arte
naturalista dovea metter
capo al grande
Ma u taglia.
Che la dimostrazione
d'una tesi tanto
impor- tante e nuova
sia piena ed
incontrastabile nel libro
del Levi, non
dirò certo. Ma
il contributo di
fatti che egli
recò a sostenerla
è dei più
rag- guardevoli, e l'elaborazione e
l'interpretazione di essi
delle più oculate
e sapienti. Nota
aggiunta. — In
Fanfnila della Domenica,
21 febbraio 1909.
Nulla ho da
aggiungere sul Vannozzo,
ma bensì qual-
cosa ho da dire
sa pulcinella. La
canzone di Giovanni
de Bonis in
cui si trova
l'accenno, è a
c. 279 a
del codice Tri-
vulziano 861 (cfr.
E. Cabraka, Giovanni
L. de Bonis
d'Arezzo e le
sue opere inedite,
Milano, 1898, p.
80), e reca
la didascalia '
Cantilena moralis de
laudibns .lacopi da
Appiano et gene-
' logia |*ic]
aquile Johannis L.
de Bonis de
Aretio ». Io
he 70 IL
VANNOZZO copia dell'intero
componimento, brutto e
scorretto, per la
gentilezza di Ezio.Levi.
Il principio della
quinta scrofe suona
così : Quest'alta
ucella nobile e
decora che fu
da questi divi
si orata per
tucto era scacciata
co' nibio perseguendo
i pulcinelli per
che voltan mantelli
e mutansi di
senno in ora
in ora. Il
passo é oscuro,
massimamente per la
parola cornino, che
non può essere
letta diversamente. Quindi,
io non mi
arri- schierei più
a vedervi una
sicura allusione a
pulcinella, tro- vando gravi
le riflessioni fatte
in proposito da
B. Croce, nella
sua Critica, VII
(1909), 142, che
interpretò pulcinelli con
pic- coli pulcini. Quel
loro voltar mantelli
resta tuttavia misterioso,
tanto più che
una erudita comunicazione
di Vittorio Fainei.i.i
nel Giornale storico,
LI X , 59 sgg.
ha posto in
chiaro di qual
nominanza godesse un
Pulcinella dalle Carceri,
illustre vol- tafaccia politico del
sec. XIII. Secondo
il Fainelli, la
fama di quel
personaggio popolare sarebbe
passata dall'Italia su-
periore in Toscana e
quindi nel Napoletano,
sino a fissarsi
sul teatro quando
Silvio Fiorillo ne
fece una maschera.
La psicopatia di
Benvenuto Cellini. Il
credito di cui
godono le indagini
intorno alla psicopatia
degli uomini di
genio panni abbia
fortuna non diversa
da quella della
cosidetta teoria mitologica,
invocata a spiegare
le origini delle
novelle tradizionali e
dell'epope a. Fuvvi
un periodo di
gran voga dell'interpretazione mito-
logica. Intorno alla metà
del secolo passato
e nei due
decenni che seguirono
molto se ne di- scorse e
se ne discusse:
da alcuni si
giunse ad arditezze
ed esagerazioni siffatte,
da legittimare la
parodia di chi
negò l'esistenza di
Napoleone, facendo toccare
con mano che
egli fu un
mito solare. Ne
venne una acerba
reazione, per cui
oggi filologi e
storici e filosofi
hanno a fastidio
ogni interpretazione che
pur di lontano
accenni a rapporti
col mito. Del
pari, or e
un decennio era
in auge presso
di molti l'idea
prima formu- lata in
Francia dal Moreau
de Tours e
divul- gata in seguito
ovunque, ma più
specialmente nella penisola
nostra, da Cesare
Lombroso, che il
genio sia squilibrio,
degenerazione, follia, epi-
lessia. Ribellavasi, bensì, a
siffatta conclusione frettolosa
e paradossale, per
cui « il tempio delle
glorie italiane >
vedeasi trasformato «
in un no-
i- LA l'sKM'ATJ
A DI UEJi
VKXL'T" CELLINI socomio
e parzialiuciito in
un manicomio » ('
., qualche spillilo
elei lo di
conservatore attaccato agli
antichi sistemi; ma
i giovani si
sentivano trascinati verso
le nuovi' teorie
e inolia confu-
sione f'acevasi nei loro
cervelli. Se non
clic, in- torno al
in ispecie per
le intemperanze clic
seguirono alla celebrazioni'
ilei centenario Ieopanliano,
pai've ai sensati
che ormai li
psi- chiatri varcassero i
contini della ragionevolezza e
mettessero a nudo
una deplorevole leggerezza
nei loro procedimenti
critici. E anche
questa volta venne
la parodia, col
libro di Paolo
Bel- lezza sul Xanzoni,
od alla parodia
sentii la di-
sistima e la conseguente
reazione. Da allora
in poi, si
voglia o non
si voglia, la
equazione or- mai celebre
del genio con la follia,
che all'anima esuberante
di fede del
Lombroso era sembrata
un « vero
monumento granitico elio
le molli unghie
« dei pedanti
e dei teologizzanti
non possono toc-
care » r*i, andò
perdendo terreno ogni
giorno più, sicché
oggi, con la
vertiginosa rapidità di
sviluppo ideale della
società moderna, .sembra
quasi passata alla
storia. Contro quella
equa- zione non insorgono
solamente i conservatori
e gli spiritualisti
di ogni genere
e specie leggi
na- vichiamo in pieno
spiritualismo, con in
poppa un soave
venticello di idealismo
che ne sospin-
gi La frase è
eli A. D'Ancona,
in uu discorso
sul Leo- pardi che
contiene una vera
carica a t'ondo
contro gli studi
psichiatrici applicati al
senio. — L'ir.
liaimp.ijim hihhmjraliia ilrlla
I rilevai il
ra italiana, VI,
1S2 sjjg. i'2t
Ari'htcio ili pxirhtal rio , XIX,
IJTiO, ],\ l'SlL'Ill'ATI.V 1)1
HKXVKXrTII CKLUNI --a
opera d'arre fu
prodotta e ipiindi
anche Ielle speciali
nonnaliià od anomalie
della psiche lei
suo creatore. L'estetismo
può ancia1 ti
vere, dal suo
punto i visra.
ragione: ma non
mi sembra abbia
ra- j ii me chi
è seguace del
metodo storico quando
dell'estetismo sottoscrive in
questo 'caso la ri-
nuncia. Non son passate
molte settimane dacché
un maestro solenne
di metodo storico,
che tutti veneriamo,
togliendo occasione da
certa pole- mica, abitatasi nel
d-inntnle d'Haliti del
settem- 190U e
altrove intorno alle
ricerche del fi-
siologo Patrizi sul Leopardi,
ha scritto che
quelle indagini, anche
avessero la sicurezza
che s'ar- rogano, non
giovano ad avvalorare
la ricerca letteraria
« ed a
formare il l'etto
apprezzamento estelieo dell'opera
d'arte » e
quindi sono «
allo scopo dei
nostri studi assolutamente
estranee » ''). A me
pare che questo
non si possa
dire. I se-
guaci del metodo storico,
come si erodono
in olililigo, per
spiegai'si l'opera d'arte
o di scienza,
di studiare accuratamente
la temperie in
che l'artista o
il pensatore è
cresciuto, la sua
edu- cazione, la sua
indole, la sua
biografia, giacché li
JiiiM*. lìihlfdiir. ilclla
Ietterai lira italiana, XI
V, Il g'm-
• Wy.'tt* ìion
i' firmato, ina
attrilnu'ndolo al D'Ancona
eri-ilo «li non
inanimarmi. 74 LA
PSICOPATIA DI BENVENUTO
CELLINI da particolari
siffatti può ricevere
luce la sua
produzione, cosi non
debbono essere indifferenti
alle qualità fisiche
dell'individuo che studiano,
alle sue anomalie
morali ed intellettuali, ai
suoi vizi ed
alle sue debolezze
di uomo. Si
potranno approvare in
parte ed in
parte disapprovare, a
mo' d'esempio, i
parecchi studi recenti
sulla malattia nervosa
e mentale di
Torquato Tasso; ma
non si avrà
davvero il diritto
di asserire, movendo
dai principi su
cui la critica storica
si fonda, che
al retto apprezzamento
dell'opera letteraria del
povero recluso di
Sant'Anna è inu-
tile di sapere se
per buona parte
della vita sua
egli sia stato
savio o mentecatto.
Per parte mia
confesso che rispetto
alla portata degli
studi psichiatrici nei
rispetti della storia
letteraria non ho
mutato parere e
potrei scrivere oggi
quello che sci'issi
anni sono, quando
ancora le ricerche
di questo genere
non erano cadute
in discre- dito Sinceramente deploro
il preconcetto con
cui taluni biologi
hanno condotto innanzi
le loro ricerche,
la incredibile fatuità
con cui credettero
di poter concludere
in materia tanto
delicata, la grossolanità
dei loro procedimenti
fondati (1) Rimando
a ciò che
mi avvenne (li
scrivere nel Giornale
storico della letteratura
italiana, XXVII. 442, a proposito
del saggio psico -antropologico sul
Leopardi del Patrizi,
e più specialmente
a quello che
dissi nel Giornale
stesso, XXXIV, 397
sgg., prendendo posizione
nell'arduo dibattito intorno
al fatto della
genialità. Si vedano
pure le asserzioni
e le riserve
di V. Rossi
nella Haas, bihlìogr.
della letteratura italiana,
VI, 249-51. LA
PSICOPATIA DI BENVENUTO
CE L LINI 75 spesse
volte, anziché su
esplorazioni dirette ed
oculate, su articoli
di enciclopedia e
persino su riferimenti
pettegoli di cronaca
cittadina; ma lutto
questo non deve
indurci al dispregio
as- soluto dell'indagine in
sè, che fatta
prudente- mente e con le cognizioni
volute, può offrire
alla storia delle
lettere, delle arti
e delle scienze,
elementi considerevoli per
completare, o atte-
nuare, o anche modificare
sostanzialmente il suo
giudizio. * Se
v'è tipo d'uomo
che presenti caratteri
di singolarità grande,
il cui esame
è essenziale nel
raffigurarcelo, gli è
Benvenuto Cellini. Oso
dire, anzi, che
ii coefficiente primo
della sua fama
non sta punto
nelle opere di
plastica e di
cesello, poveramente rappresentate
all'età nostra da
po- chi campioni sicuri,
ma sta nel
carattere. Lo intuì
il Goethe; lo
riconobbe il Baretti.
Il Goethe, che
su di una
cattiva stampa e
con imperfetta cognizione
della lingua nostra
ridusse, in tedesco
l'autobiografia celliniana, pubblican-
dola intera a Tubinga
nel 1803, s'innamorò
del Cellini perchè
in lui riconosceva
uno di quei
« geistige Flùgelmanner
» che meglio
rappre- sentano nei suoi
tratti tipici la
natura umana (').
(1) Fra i
vari scritti intorno
al Goethe traduttore
del Cel- lini, è
specialmente raccomandabile quello
di K. Vossi.er,
Goethe'» Cellini - 1.
berseteung, nella Beilaye
zur Ali yemeinen Zei-
lunt) del 5
novembre 1900. LA
PSICOPATIA DI BENVENUTO
CELLINI Il Ba retti
scrisse del grande
orafo autobiografo: «
Si dipinse... còme
si sentiva d'essere:
cioè ani- moso come
un granatiere francese,
vendicativo come una
vipera, superstizioso in
sommo grado, e
pieno di bizzarrie
e di capricci,
galante in un
crocchio di amici,
ma poco suscettibile
di tenera amicizia,
un poco traditore,
senza credersi tale,
un poco invidioso
e maligno, millantatore
e vano senza
sospettarsi tale, senza
cerimonie e senza
affettazione, con una
dose di matto
non mediocre, accompagnata
da ferma fiducia
d'es- ser nTolto savio,
circospetto e prudente.
Di que- sto bel
carattere l'impetuoso Benvenuto
si di- pinge nella
sua vita, senza
pensarvi su più
che tanto, persuasissimo
sempre di dipingere
un eroe »
(M. Non per
nulla il più
benemerito stu- dioso del
Cellini che abbia
avuto la nuova
Italia, Orazio Bacei,
riconoscendo nella Vita
« un pre-
zioso documento psicologico »,
uscì a dire:
credette di dare
Gio- vanni Bovio: « Quel grado
supremo della sintesi,
onde il pensiero,
originalmente ed in
un rapporto lontano,
scopre il vero ■
. Vedi
Bovio, Il genio,
Milano, 1899, p.
32. In questo
concetto vi è
certo molto di
vero, e con
esso si viene
a li- mitare alquanto il
numero dei geni,
che dando retta
ai sin- tomi di
nevrosi diventano legione.
Schierare fra gli
uomini di genio
il Cellini sarebbe
un vero assurdo.
78 LA PSICOPATIA
DI IÌENVENUTO CELLINI
la impressionabilità estrema
del fratello e
della sorella. L'orafo,
generato da genitori
ormai qua- rantenni, ebbe in sè esagerate
le tendenze pa-
terne, l'emotività, la instabilità,
l'impulsività e ad
acuire siffatte tendenze
cooperarono le malattie
onde fu affetto
nel corso della
sua vita travagliata.. Una
delle stimmate degenerative
più ragguar- devoli che
il Courbon riconosce
nel Cellini è
la incostanza nelle
occupazioni. Vi si
gettava den- tro con
gran foga, ma
poi non meno
subita- mente se ne
scostava; il che
accadeva pure nelle
amicizie, dalle quali,
per cordiali che
fossero, si ritraeva
alla minima ombra,
e quasi sempre
passava dall'affetto ardente
all'odio, dall'adora- zione alla
denigrazione. Alla ombrosità
malata di quella
natura passionale contribuiva
una for- ma di
mania di persecuzione.
Ben è vero
che di invidie
e di gelosie
gliene pullularono intorno
moltissime e che, ad esempio,
il Bandinelli era
emulo subdolo e
velenoso; ma è
altrettanto in- dubitato che
nelle accuse del
Cellini contro altri
personaggi (sia nominato
Pier Luigi Farnese),
egli oltrepassava le
frontiere del reale
e vedeva persecuzioni
e pericoli ed
agguati dove non
erano. Benvenuto è
tratto dall'indole sua a vedere
do- vunque malevoli, invidiosi,
maneggioni, calun- niatori vilissimi. A
ciò contribuiva anche
in sommo grado
l'alto sentimento che
aveva di sè,
anzi quella specie
di megalomania degenerante
talora in volgare
jattanza, che colpisce,
ogni let- tore della
Vita ed assume
spesso tali propor-
zioni da riuscire esilarante.
LA PSICOPATIA DI
BENVENUTO CELL1NI 79
Per ragioni che
assai poco mi
persuadono, nvde il
Courbon di poter
ravvisare nel Cellini
anche la eosidetta
dromomania, cioè lo
spasmo- dico desiderio di
mutar soggiorno. Tutti
sanno (pianta importanza
assegnino gli psichiatri
al sintomo del
nomadismo; ma nel
Cellini a me
non sembra vi
siano gli estremi
per riconoscerlo. Tutt'al
più si può
notare che la
stessa impulsi- vità del
suo carattere dava
spesso alle sue
par- tenze una repentinità
così violenta da
farle so- migliare a
vere fughe. Maggior
gravità hanno i
deliri e le
allucina- zioni, a cui
il nostro artista
aveva una innega-
bile predisposizione
neuropatica. Non si
tratta solo di
deliri in istato
febbrile, provocato dalla
malaria devastatrice, poiché
in questo caso
ci troviamo di
fronte ad una
condizione patolo- gica dell'organismo; ma
si tratta di
visioni che egli
dice di aver
avute nella dura
prigionia di Roma
e d'una vera
e propria allucinazione
durante l'intenso lavoro
del Perseo. Fu
in con- seguenza d'una, la
più grave, di
quelle alluci- nazioni che
il Cellini pretese
che una lingua
di fuoco, visibile
a tutti, permanesse sulla
sua fronte, a
ricordo della visita
fattagli da Dio
('). L'esame (1)
Vedi Vita, I,
128. Per maggior
comodità dei lettori,
uso della l'ila
la buona edizione. di
Brunoue Bianchi, uscita
in luce la
prima volta nel
185*2 e poi
tante volte ristampata
dalla Casa Le
Mounier. Delle edizioni
integre è la
più co- mune, ed
ha il vantaggio
su quella scientifica
del Bacci di
avere la divisione
in libri e
paragrafi, i primi
dei quali in- dico
con cifra romana,
i secondi con
cifra araba. Tale
e quale 80
la psicopatia m
benvenuto cellini di
questi fenomeni è
la parte migliore
dell'opu- scolo (del resto
un po' tirato
viti) del dottore
fran- cese; solo sarebbe
stato desiderabile che
a rin- calzo delle
idee da lui
espresse intorno alle
ten- denze mistiche del
Cellini avesse invocato
anche, il sussidio
delle rime di
lui, molte delle
quali hanno contenuto
religioso. I fatti
delle visioni e
delle all ucinazioni, ai
quali non abbiamo
ra- gione di negar
fede, accusano certamente
per- turbamenti nervosi non
ordinari. Anche quella
specie di aureola
sul capo, che
all'orafo cinque- centista sembrava cosa
« meravigliosa »
e tale da
fargli credere ad
un prodigio divino,
non è poi,
al lume delle
odierne scienze biologiche,
la inverosimile cosa
che taluno la
reputò, giacché può
essere stata una
di quelle irradiazioni
lumi- nose che furono
costatate più volte
in certi neuro-
patici e particolarmente negli
affetti d'isterismo. Il
connotato psichico più
caratteristico del Cellini
è peraltro quella
impulsività, che così
spesso lo conduceva
alle querele, alle
liti, alle risse,
ai ferimenti, agli
omicidi. Questa impulsi-
vità costituzionale,
venutagli per via
ereditaria e cresciuta
in lui per
le agitazioni dell'esistenza che
condusse, è la
fonte a cui
si lasciano ricon-
durre moltissimi fra gli
atti del nostro
soggetto. In que'
momenti di furore
nessuna potenza in-
ricompare codesta partizione nella
comunissima edizione ste-
reotipa Sonzogno curata dal
Camerini, in quella
del Biagi (1883,1
e con lievi
variazioni in quella
di Gaetano Guasti
de] 1890. LA
PSICOPATIA DI BENVENUTO
CELLINI 81 tima
d'inibizione volitiva era
in grado di
vin- cere l'impulso manesco
e sanguinario. La
since- rità con che Benvenuto confessa
e documenta quei
casi è davvero
preziosa per lo
psichiatra, ed il
Courbon sa trarne
conveniente partito. Un
caso, fra tutti,
a me fa
gagliarda impressione, e
mi sembra tale
da provare anche
da solo lo
stato di malattia
del Cellini: l'uccisione
a tra- dimento di
quel tal «
archibusiere » che,
per difendere la
propria vita, gli
area morto il
fra- tello Cecchino (').
Quella « cosi
bassa impresa e
non molto lodevole
», come lo
stesso violento autore
la chiama, non
è dovuta ad
un impeto di
collera; ma è
premeditata in condizioni
ec- cezionali. Dopo hi
morte di Cecchino,
Benvenuto vive in
uno stato di
vera ossessione: egli
ha giurato al
fratello spirante di
vendicarlo; egli sa
che il soldato,
tirandogli quel tal
colpo d'ar- chibugio che
l'ha ferito sopra
il ginocchio, agiva
per difendersi: ma ciò non
pertanto non può
liberarsi da quell'imagine, da
quell'idea, da quel
proposito, che gli
son sopra notte
e giorno come
incubi; egli prende
a vagheggiare queir
« ar- chibusiere »
come la sua
innamorata, e solo
quando l'ha freddato
si sente tornare
la tran- quillità dello spirito.
Tuttociò ha i
caratteri del- l'ossessione impulsiva studiata
dai criminalisti, che
implica il ritorno
della imagine della
vittima e dell
idea di doverla
punire, la coscienza
piena e netta
della condizione delle
cose e del
proprio (1) Vita,
I, 48-40-51. Rk.nieb
- $eag/ii Critici
fi 82 LA
PSICOPATIA DI BENVENUTO
CEL.LINJ torto, la
inutilità della resistenza
nella lotta in-
tima, il sollievo dopo
compiuto il delitto.
La più mirabile
analisi d'uno stato
psicopatologico come questo
si trova nel
fosco romanzo di
Feodor Do- stoiewski
II delitto e
il castigo. Rispetto
agli stimoli sessuali,
è indubitato ohe il Celimi
li sentiva violentemente, come
tutto era violento
in quella tempra
duomo; è anche
vero che la
donna fu per
lui un semplice
stru- mento di piacere;
ma il Courbon
va più in
là e vorrebbe
ammettere pervertimenti del
senso che pur
troppo nel Cinquecento
erano tanto più
frequenti quanto più
minacciati da gravi
puni- zioni. In questo
apprezzamento non credo
pru- dente il seguirlo
per ragioni che
dirò tra breve.
Tuttavia, in conclusione,
reputo io pure
che i sintomi
constatati, sebbene, presi
isolatamente, abbiano poco
valore, siano tali
nel complesso da
far considerare il
Cellini « cornine
réalisant le type
menta! du dégénéré
». * *
* Ciò premesso,
e data al
Courbon la lode
che gli spetta
per aver compiuto
uno studio sinora
non tentato e
per averlo anche
condotto innanzi senza
preconcetti e senza
leggerezze, mi si
conceda di accodargli
per mio conto
qualche obiezione. Una
pregiudiziale deve andare
innanzi ad ogni
altro ragionamento, ed
il Courbon, nonché
risol- verla, non ha
neppure pensato a
proporsela. Fon- dandosi esclusivamente sui
dati di fatto
porti LA PSICOPATIA
Vi BENVENUTO CELLINI
83 dalla Vita
celliniana, siamo certi
di lavorare sul
solido? In altri
termini, è la
Vita sicuramente ed
in tutto veridica?
L'obiezione speciale si
perde in una
più ge- nerale. Qua
l'è il valore
storico delle autobio-
grafie, sulle quali i
signori psicologi ed
i signori psichiatri
hanno la abitudine
di giurare? Nes-
suna cosa più difficile
che essere veritieri
par- lando di se
stessi: anche quando
si abbiano i
migliori propositi di
sincerità, troppo spesso
l'a- mor proprio ne
induce a tacere
certi fatti ed
a colorirne altri
nel modo che ci torna
più co- modo. Se
l'autobiografo è un
artista, accade an-
che di peggio. L'artista
possiede in alto
grado qualità di
fantasia, che lo
tentano, per non
dire 10 costringono,
ad atteggiarsi, e
codesti atteg- giamenti sono
più o meno
adulterazioni del vero.
11 Bertana lo
ha dimostrato egregiamente
per l'Alfieri, alla
cui pienissima sincerità
si è cre-
duto per tanto tempo.
L'artista crea di
sè un tipo,
e scrivendo la
propria vita elabora
quel tipo. Ciò
è umano, nè
giova la volontà
di fare di-
versamente. Non dice male
una recente studiosa
delle autobiografie, parlando
appunto del Cellini:
« Egli si
rappresentò con grande
ingenuità, tal «
quale si credeva
di essere, se
non sempre qual
« fu veramente,
onde più che
ingannare il let-
« tore, ingannava
sovente se stesso
» ('). Il
Plon, fi) Jonk
Pomi-ki, L'autohion rafia
nella letteratura italiana,
Ma- cerata, 1!J0G, p.
61. Vedo lodato,
ma non potei
conoscerlo di- rettamente, lo studio
di Emilia Lwokati,
Benvenuto Cellini e
la sua autobiografia, Fireuze,
1!XX). 84 LA
PSICOPATIA DI BENVENUTO
CELLINI nella nota
e sontuosa sua
opera sull'orafo nostro,
ha bensì cercato
di controllare i
fatti della Vita
e in molta
parte gli è
accaduto di confermarli;
ma restano pur
sempre infiniti particolari
non controllabili e
restano incongruenze patenti
con ciò che
il Cellini narra
di sè nei
Trattati. Si deve
inoltre riflettere che
l'opera fu di
sua mano presa
a scrivere (in un manoscritto
ora mediceo-pala- tino
della Laurenziana di
Firenze, e poi
dettata ad un
garzonettoj, quando aveva
già compiuto 58
anni; quindi gli
errori mnemonici, che
nelle Memorie goldoniane
si riscontrano cosi
frequenti, non possono
mancare, neppure qui.
Per tutte que-
ste ragioni non mi
sembra abbia torto
il Sy- monds
nell'applicare alla Vita
celli ninna la
de- signazione celebre del
Goethe Dichtung uncl
Wahrheit ('), ed
il Courbon non
fece bene pro-
cedendo sempre sicuro nella
sua analisi senza
pur l'ombra d'un
dubbio sulla assoluto
veridi- cità dei fatti
che egli prendeva
in esame. Ho
già notato che
il Courbon è, del resto,
ab- bastanza spregiudicato e non si
lascia sedurre, come
tanti suoi compagni
di studi, dalla
fìsima di trovar
dovunque sintomi di
degenerazione. Tuttavia avrei
le mie riserve
da fare intorno
al valore ch'egli
attribuisce alle infermità
del Cel- lini, la
cui diagnosi può
essere fatta a
puntino da un
medico, per i
gran particolari che il pa-
ci) La citazione è del Baci-i,
nell'introduzione al suo
ci- tato testo critico,
p. LSLXVIII, ove
sono dette cose
sensate intorno alla
veridicità della Vita.
LA PSICOPATIA DI
BENVENUTO CELLINI 85
ziente stesso ne
fornisce. Ninna di
quelle ma- lattie ha
particolare valore diretto
per le con-
dizioni mentali del nostro
soggetto, ed il
dire che la
gotta, sofferta a
65 anni, siccome
mani- festazione dell'artr
itismo «
s'associe au terapé-
rament nerveux »,
panni un fuor
d'opera, per- chè può
anche non associarvisi.
Cosi pure non
riveste punto il
carattere di morbosità
l'inco- stanza del Celimi
nelle occupazioni. Se
da ore- fice divenne
scultore (fatto allora
non straordi- nario, perchè
il passaggio dalle
arti minori alle
arti maggiori era
frequente per non
dir quasi abituale)
e pei* necessità
anche un po'
mecca- nico ed ingegnere,
e più che un po'
bombardiere c musicista,
per certa tendenza
che anche no-
lente aveva ereditata dal
padre, e letterato,
e nel 1558
per una bizzarria
ricevette persili gli
ordini ecclesiastici minori;
ciò non vuol
dire che veramente
cangiasse di occupazione.
Bisogna ri- chiamare alla* memoria
quali erano quelli
spi- riti del Rinascimento
italiano, multilaterali per
eccellenza, aborrenti dalle
morse dello specia-
lista odierno; e bisogna
tener presente il
tatto che il
più delle volte
fu la necessità
del mo- mento che
indusse Benvenuto ad
occuparsi in modi
diversi. In realtà,
peraltro, chi legge
la Vita ha
l'impressione d'una costanza
unica del suo
pi'otagonista nel proseguire
certi ideali di
arte e nel
perfezionarsi continuamente nell'ese-
cuzione artistica; costanza, che
culmina nel fatto
eroico della fusione
del Perseo. La
megalomania, invece, è
innegabile e si manifesta
sin dalle LA
PSICOPATIA DI HKXVEXl'TO
CHI, LINI prime l'itili'
della Vitti, ove
Ben vomito vir-ono-
sci- nuli uomini
* che hanno
tallo H U'iSA
già rosiaim. clii'
priniii si poteva
percorrere con niella
iiiciTU'Xiiii, sorretti e
guidali da congetture
più (i niciio
ingegnose. .Ma ciò
clic più inolila,
ipirlLc lettore gli
fornirono l'Achille degli
argo- menti per statare
ima delle più
notevoli ed ac-
credilate legende hiogra lidie
relative al Uosa:
die t'irli, cioè,
nel H>47. prendesse
parte in Na-
poli alla rivolta di
Masaniello e. con
altri pit- tori napoletani, formasse
la eosidetta Compagnia
della morte, armata
contro irli Spaglinoli
e ven- dicatrice dei
loro obbrobrii. Bella
certamente era questa
leggenda, che, creata
dapprima dal mal-
fido Bernardo de' Dominici,
trovò sviluppo sotto
la penna della
fantastica lady Morgan
ed eccitò l'alto
senso civile del Carducci, clic
ne trasse occasione
per dettare le
pagine più calde
ed elo- quenti della
sua biografia del
Rosa. Ma al
ci- mento dei fatti
e d una
critica circospetta non
regge quella leggenda,
ignota ai primi
biografi, contraddetta anziché
confortata da un
passo fre- quentemente allegato delle
satire. Nelle lettere
ai Maffei. che
precedettero e seguirono
la rivolta di
Masaniello, non v'ha
pur un accenno,
nò che il
Uosa partecipasse a
quei casi cruenti,
nò che in
quel tempo si
recasse a Napoli:
cosa che, s'egli
realmente vi fosse
stato, sarebbe inespli-
cabile, sovratutto con un'indole
della sua tempra,
non certo schiva
dalla millanteria. 11
Cesareo batte in
breccia, a parer
mio definitivamente, quell'episodio della
vita del Rosa
e mostra ezian-
dio come, con ogni
probabilità, sia una
favola la stessa
Compagnia della morte,
quale divenne "•U.VATiiK UOSA
sinora tradizionale nella
srori;i del seicento
na- poletano ' .
Questo è il
più rilevante tra
i ri- unirmi storici del
libro. Se di
ciò i non
tepidi amici del
vero debbono rallegrarsi,
gli è pur
«l'uopo eoli venire
die la figura
del Uosa viene
a perderne il
suo più bel-
l'ornamento. Quel tipo cosi
idealizzato nei ro-
manzi, nelle commedie, nei
libretti d'opera (lady
Morgan ebbe in
queir idealizzazione una
parto co- spicua, perche essa
fu la prima
a rappresentare, eome.il
Cesareo ben nota,
« un Salvator
Rosa byronianamente romantico
» l. «pici
tipo di. avven- turiere elefante, artista
nell'anima, pronto a tutte le
più nobili iniziative,
aperto ai manieri
ideali, ■he lascia
le tele adorate
per cospirare e
com- battere a prò
della patria oppressa,
che altel-na le
occupazioni della .scena
con quelle ili
dia ta- volozza, i
versi con la
musica, gli amori
con la politica:
quid tipo bizzarramente
eroico vien pure
ridotto a proporzioni
pici-ole, piccole assai!
Ter valutarlo ancora,
per quello che
è, e non
_ua per quello
che ne hanno
fatto, è mestieri
considerarlo, non già
isolato, ma allato
agli uo- mini dei
tempi suoi. In
questo modo egli
gua- dagna assai, perchè
al paragone di
quelli uomini, >e
non è adirittura
un gigante, non
i' neppure ili
statura comune. In
mezzo alla cortigianeria
qiagnolesca. che tutto
invadeva, ed allo
infiae- chimeulo generale
delle tempre, egli
sa serbarsi indipendente,
altero, anzi nero,
immune da qual-
■ ! '
V,.,li voi. I,
pl>. 17-.">li. RfcviEu
Sunijhi frittosi 1
SALVATOR ROSA siasi
bassezza. E un
gran pregio senza
dubbio, anche se,
in ultima analisi,
esso germoglia da
un cumulo di
difetti. A guardar
bene, infatti, mi
sembra che molta
parte di quella
fierezza derivi dal
concetto al- tissimo che
il Eosa aveva
di sè, e che andava
congiunto ad una
grande vanità e
ad una pro-
sopopea ciarlatanesca da matamoros,
d'onde pro- cedeva una
prodigalità senza limiti
ed una mal-
dicenza cosi ostinata e
linguacciuta, come solo
i gran vanitosi
soglio»» averla. Di
tutto ciò la
sua vita e
gli aneddoti copiosi
che ne raccontano
il Passeri ed
il Baldinucci sono
sicura testimo- nianza. Prontezza e
versatilità d' ingegno, spi-
rito arguto e caustico,
bizzarria, talor naturale,
tal 'altra voluta, velano,
non nascondono, queste
qualità morali non
buone, alle quali
ne va con-
giunta una peggiore di
tutte, che il
Cesareo stesso non
dissimula, la poca
o nessuna delica-
tezza del sentimento. Se
il Eosa ebbe
pochi ed oscuri
discepoli, la ragione
è forse da
richiamarne a ciò;
perchè a far
dei discepoli non
basta l'in- gegno e
la maestria, occorre
anche il cuore.
E di cuore
il Eosa ne
aveva pochino. Le
lettere ai Maffei
sono piene d'eff,usione
e talvolta fin
di tenerezza: ma
un osservatore non
mancherà di notarvi
dei tratti grossolani,
che indispongono. Con
Giulio Maffei il
Rosa è spesse
volte sgar- bato: un
animo gentile non
sarebbe mai sceso
ad insolenze come
queste: « In
fatti voi siete
« pontuale: promettesti
mandare il terzo
delle « cose
e così felicemente
è sortito. Si
desidera SALVATOR ROSA
09 « sapere
se le forchette
mandate da voi habino da
.servire per vangare
la terra o
la minestra, «
chè per la
minestra non sono
il caso, atteso
« che, per
quest'uso, doveva V.
S. mandarle «
alla Ruota prima
d'inviarle a noi.
Ha perchè « la nostra
prudenza sa trovar
ripiego a tutte
« le cose (toltone però
l'accomodare il vostro
« cervello) procureremo
di servircene per
la « prima
caccia che si
farà dei porci
o altra «
bestia grossa più
di voi »
(*). E la
volgarità di modi
che predomina sempre
nelle sue lettere
e che si
palesa in genere
nello sboccato turpilo-
quio di tutti i
suoi scritti. All'altro
grande amico suo,
Giambattista Ricciardi, il
professore pisano, poeta
burlesco, osceno ma
spiritoso, quanto lirico
serio indigeribile (s),
mostrò bensì il
Rosa bene- volenza sincera, ma
appena al malcapitato
av- venne di stuzzicarlo,
gli piombò addosso
una lettera di
quelle che non
si dimenticano (3).
Tut- tavia il Rosa,
come amico, non
può dirsi cattivo,
ed a Lorenzo
Lippi, l'autore del
Malmantile, sembra fosse
abbastanza largo di
favori. (li Voi.
II, p. 46-
i'2) Cfr. il
voi. di Rime
burìenche ili G.
B. Mù Ciardi, edito
ila E. Toci.
Livorno, 1881, nella
cui garbata prefazione
si troveranno copiose
notizie del Ricciardi
ed anche della
sua famigliarità col
Eosa. A p.
XXXI il Toci
parla di molte
let- tere inedite del
professore pisano esistenti
in casa Maft'ei
ed altrove. Chissà
che, scovandole, non vi si
trovino nuove no-
tizie anche del Uosa.
(3i Voi. II.
pp. 122-23. Al
Ricciardi sono dirette
tutte le lettere
del Rosa che
mise in luce
il Bottari. Una
fastidiosa canzone del
Ricciardi al Rosa
pubblica il Cesareo
nel vo- lume II,
p. 138. sALVA'l'oH Peg-gioro
tu invoce nei
rapporti famigliari. S'inveitili
in Firenze d
una fanciulla di
nome Lucrezia l'aolini.
secondo il Cesareo,
che irli aveva
servilo da modello,
ne beneficò i
congiunti e se
la tenne in casa, allora
e poi sempre,
come moglie. Xei
tivnt'niini elle visse
con lei. non
sembra avesse mai
a lamentarsene: eppure
non la sposò
se non agli
estremi della vi costrettovi quasi
dal l'ani ieo
Baldovini. alle cui
istanze, narra il
Pascoli, cli'ei rispondesse
con giuoco inop-
portuno di spirito: «
Se andare non
si può in
paradiso senza essere
cornuto, converrà tarlo
». E agevole
immaginare quali drammi
si agitassero nel
petto della povera
donna, allorché Salva-
fere, ogni qualvolta
ella gli partoriva
un figliuolo, ne
taceva un mostruoso
presente» alla ruota
de- gli esposti! a
lui bastava ili
allevare presso di
sé il primogenito.
Rosai vo; degli
altri si sbri-
gava in quella maniera
molto spicciativa. Solo
quando Rosalvo venia»
a morirgli di
contagio, si decise
a tenere presso
di sé un
altri) figliuolo. Augusto.
Ma più d'uno
non mai. checché
avve- nisse! Le gravidanze
di Lucrezia ci
le chiamava impicci.
« La signora
Lucrezia i partecipava
nel « ltiòl
a (tÌuIìo iiaft'ei
' oggi son
otto giorni ohe « mandò
alla luce un
figliuolo maschio, copia
« spiccicata di
Salvatore Rosa a
Imre f) ili
notte, « con
più facilità di
quello ch'ha sinora
fatto por «
la Dio grazia.
Il parto il
giorno dopo, con
La figura di
quest'uomo stravagante Intlaìiilc,
latin s/ji/'i/n. full')
fuoco, com'egli medesimo
i lilie a
dire di sé
in una lettera
al Ricciardi, simpatica
non riesce davvero.
1 biografi stessi,
i rendercela tale,
dovettero lavorare di
fantasia ed appiopparle
per loro conto
delle doti che
non aveva. Del
resto, la simpatia
importa ben poco
allo storico, il
quale nel Rosa
è pur costretto
ad ani mirare
l'ingegno ed a
riconoscere in lui 1
1 . v..i. n,
|>. ss. iJ ì
Ve.]. II. y.
70. 102 SALVATOR
ROSA » uno
dei più caratteristici tipi
di quello squili-
brato e tipico seicento,
ch'egli vituperò tónto
a parole. ^
Nelle sue linee
fondamentali, la vita
del Rosa resta,
dopo la pubblicazione
del Cesareo, tal
quale la si
conosceva per gli
studi antecedenti, onde
basterà richiamarla con
pochi cenni, retti-
ficandone col nuovo libro
la cronologia. Nato
— all'Arenella presso
Napoli, nel 1615,
di famiglia poco
agiata, in cui
l'amore per la
pittura era ereditario,
SAlvatoriello palesò ben
presto in- clinazione al
disegno ed alla
musica. In Napoli
ebbe la fortuna
di riscuotere l'ammirazione
di Giovanni Lanfranco
e di potersi
giovare degli anmaestramenti del
Ribora e del
Falcone, ai quali
peraltro non professò
mai gratitudine. Recatosi
a Roma nel
1635, v'ammalò, onde
do- vette tornarsene a
Napoli. Ma presso
questa na- zìoìi
di gran fumo
e poco arrosto
(a detta del
Rosai, non potè
resistere a lungo:
ivi le tre
chie- suole artistiche del
Ribera, del Caracciolo,
del Corenzio, «
accanite tra loro
in ogni altra
cosa, « scrive
il Carducci, in
questa si trovavano
d'ac- « cordo,
allontanare i forestieri,
calcare gl'iu- *
gegni crescenti ».
Però Salvatore prese
di nuovo la
via di Roma
in sul principio
del 1637. Da
Roma si recò
col cardinale Brancaccio
a Vi- terbo, e
di là novamente,
ma per poco,
a Na- poli. Partitosene col
proposito di non
più ritor- narvi, si
stabili a Roma
nella primavera del
1638, in mezzo
a quella fioritura
artistica che v'avea
procurato papa Urbano
Vili. Il Rosa
ebbe campo SALVATOR
ROSA 103 d'acquistarsi fama
come pittore, d'esercitarsi
nel toccare il
liuto e nel
l'improvvisa re poesie,
nel far bella
mostra di sè
recitando farse e
comme- die a braccia,
ed anche di
procurarsi non pochi
nemici con la
sua lingua tagliente.
Nel 1640 si
riduceva in Firenze,
terra promessa per
lui. ove si
congiunse alla signora
Lucrezia, strinse ami-
cizie gioviali e simpatiche,
continuò ad istruirsi,
a dipingere, a
recitar commedie, fondò
con al- tri capiscarichi l'Accademia
dei Percossi. Il
suo amico Lippi
[Malmantile, IV, 1-1)
dice di lui:
. . .
pittar, passa chiunque
tele imbiacca: tratta
d'ogni scienza, ut
ex professo: e. in palco
fa sì ben
Coviel Patacca, che
sempre ch'ei si
mova o eh'ei
favella fa proprio
sgangherarti la inascella.
Stretta relazione coi
signori Maffei di
Volterra, si recava
spesso nelle loro
tenute. Sembra anzi
i^he in casa
loro si sgravasse
Lucrezia del bam-
bino Rosalvo, nel 1641.
Nel 1649 il
Rosa si ri-
dusse di bel nuovo
a Roma, ove si trattenne
il resto della
sua vita, allontanandosene solo
per qualche tempo,
nel 1661, per
recarsi a Strozza-
volpe, villa del
Ricciardi, e quindi
a Firenze, in
caso Paolo Mi
micci, il commentatore
del Mal- mantile. La
sua attività di
pittore diede in
quegli anni i
frutti migliori: alle
esposizioni di S.
Giovanni decollato e
della Rotonda aveva
sem- pre qualche nuova
tela da mettere
in mostra, e
l'ammirazione dei contemporanei
giungeva al colmo.
Gli acciacchi della
vecchiaia lo assalsero
104 SALVATOR ROSA
precocemente; nel 1666, a
50 anni, già
se ne doleva.
Continuò tuttavia a
lavorare di pittura
e di poesia,
finché non infermò
di un' idrope,
che Io spense
nella primavera del
1673. In Salvator
Rosa l'artista fu
senza dubbio su-
periore all'uomo: ed è
appunto dell'artista che
mi propongo ora
di discorrere. II
L'artista. Il 16
settembre 1662, Salvator
Rosa scriveva all'amico
Ricciardi: « Lessi
subito la vita
d'Ap- « pollonio,
composta da Filostrato,
con mia par-
« ticolar sodisfazione
per quel che
s'appartiene « alla
curiosità; ma non
ci ho trovato
quello, « ch'ella
mi significò che
ci avria trovato,
di « singolare
e stravagante per
la pittura, essendo
« fatti, che
quasi tutti darebbono
in una cosa * medesima,
onde vi prego
a propormi qualche
« altra cosa,
acciò vi potessi
trovar cose più
« fuori dell'ordinario, avendovi
però notato al-
« cuni fatti
per servirmene »
('). Grammatica a parte, queste
linee, o m'inganno,
sono abba- stanza significative nello
esprimere il concetto
che il Rosa
si era fatto
della pittura. Egli
an- dava alla ricerca
del singolare, dello
sh'avagante: non per
nulla viveva in
quel secolo in
cui il (1)
Voi. II, p.
119. SALVATOR ROSA
105 cav. Marino
avea apertamente dichiarato:
k del poeta
il fui la
meraviglia. Aveva molte
letture e di
esse amava far
sfoggio nelle sue
tele, il cui
soggetto, di per
se stesso, era
atto a colpire.
La storia vi
dava la mano
all'allegoria filosofica. Cadmo
e gli uomini
che sorgono armati
dai denti dell'atterrato serpente;
Socrate che beve
la ci- cuta: Democrito in
contemplazione tra le
tombe e gli
scheletri; Pitagora che
parla ai discepoli
stupiti dell'Eliso, e
altrove, circondato dalla
sua scuola, offre
denaro ai pescatori
perchè lascili liberi
i pesci; Catilina;
l'ombra di Samuele
in- nanzi a Saulle,
ecc. ecc.; e
poi personificazioni allegoriche
in gran copia,
con largo sviluppo
del concetto simbolico,
la Fragilità, la
Fortuna, lo Spavento,
la Giustizia, la
Pace, ed altre
ed al- tre: ecco
i soggetti che
prediligeva. Quando era
di vena, e
lo era quasi
sèmpre, lavorava con
meravigliosa sollecitudine. In
poco più d'un
mese consegnò finita
una grande battaglia,
che doveva essere
regalata al re
di Francia e
che oggi si
vede tuttora al
Louvre. Le battaglie
si presta- vano alla
sua fantasia sbrigliata,
e però gli
pia- cevano. Fu infatti
il Rosa, anzitutto,
un pittore fantastico:
gran parte della
sua potenza consi-
ste nel modo imaginoso
e bizzarro in
cui vi si
vede il soggetto,
quasi sempre ben
scelto. Per questa
parte pochi pittori
più ricchi di
lui vanta la
storia gloriosa delle
nostre arti del
disegno. Nella satira
La pittura, ch'è
una specie di
prò- ', gramma
teorico d'arte, ove
Salvatore monta sui
I trampoli, fa
la lezione e
trincia giudizi e dà la
S W.V ATOR
UOSA stui'ii ;i
invettive, egli deplora
l'ignoranza ilei pittori,
tallio più biasimevole
in clic tal
vii Itti inliliti
lilttrt>fan;iti i palazzi
di principi cristiani.
.Sul di t'emminc
igiiude i re.
fregiati hanno i
lor jrabinetti, e
quindi nasce che
divengano anch'essi effeminati.
Ve li figurate
quelli innocentini di
principi secentisti, che
macchiano la purità
delle loro 108
SALVATOR ROSA animucee
di tortora al
cospetto delle Veneri
Ti- zianesche? È il
falso, che giunge
al grottesco: il
falso di tutto
quel secolo ipocrita
e vile, in
cui moraleggiala col
pennello, fino a
non osare di
far comparir Frine
ignuda innanzi a
Seno- crate, e
più con la
penna, chi viveva
gran parte della
vita in concubinato
e mandava i
figliuoli a' trovatelli!
Quantunque il Rosa
avesse a sdegno
d'esser chiamato paesista,
la sua vera
gloria è la
pit- tura di paesaggio.
Chi farà un
giorno la storia
di questa pittura
dovrà assegnargli un
luogo eminente. Egli
aveva il sentimento
vivo, ardente della
natura. Basta osservare,
per accorgersene, il
desiderio immenso che
gli lasciava sempre
la campagna, la
vera sete di
ritornare a Barbaiano
e a Monterufoli,
che si palesa
nelle sue lettere
ai Mafifei. Basta
por mente a
quella lettera si-
gnificatissima al Ricciardi,
in cui gli
dà conto d'un
suo viaggio da
Roma nelle Marche,
attra- verso l'Appennino c
E un misto,
diceva egli, «
così stravagante d'orrido
e di domestico,
di « piano
e di scosceso,
che non si può desiderare
* di vantaggio
per lo compiacimento
dell'occhio ». E
ammirava le tinte
delle montagne, i
cupi orridi «
da far spiritare
ogni incontentabile cervello
», i romitori
solitàrissimi di quei
luoghi « di
stra- « ordinario
diletto per la
pittura ». Maniera
que- sta tutta moderna
di considerare le
cose esteriori, 0)
Voi. II, p.
117. SALVATOR ROSA
10H che si
trova riflessa nella
modernità dei paesaggi
Rosiani, sapienti nelle
tonalità elei colori,
prege- voli per l'aria
e gli sfondi,
felici nelle prospet-
tive, pieni di rilievo,
di vita, di
robustezza nel tocco.
Senza punto atteggiarsi
a critico d'arte,
il Carducci disse
in proposito egregiamente:
« Nel ,
appartiene alla vecchiaia
del Rosa ('),
ed ha della
vecchiaia tutti i
difetti: querimonio- sità
ancor cresciuta, cicaleccio
sempre più pro-
lisso, pessimismo arcigno, inclinazione
al bigot- tismo. Qualche terzina
robusta, qualche strale
ben diretto non
valgono, a parer
mio, a salvare
questo componimento. Eppure
è proprio qui
che il poeta
esclama: Bastami solo
in quest'età corrotta,
senza adulnzion, nè falsi orpelli,
in Pindo aver
la verità condotta,
dato a le
tosche satire i
modelli, a Parnaso
il suo Elia
e il suo
Tirteo (s). No,
no; è troppo,
è troppo! Le
tosche satire avevano
ben altri modelli:
fu ben altro
poeta satirico l'Ariosto,
e seppe esserlo
quando volle, ben
altrimenti plastico e
rovente, anche Dante.
La satira del
Rosa, tutta invettiva
e sarcasmo, dettata
dall'ira, anzi dal
furore, come tante
volte egli dice,
non era di
quelle che possano
produrre buoni frutti.
Le lungaggini, la
pesantezza dei continui
richiami classici, addotti
a pompa, in-
finiti, per cui, come
il Carducci notò,
« a questo
(1) La cronologia
delle satire fu
dal Cesareo fissata
con molta cura
ed ingegnositì di
osservazioni. (2) Voi.
I, p. 394.
Krnier - Srar/hi
Critici 8 Ili
SALVATOR UOSA «
autore ò necessaria
l'illustrazione più forse
« che a qua
lehc poeta latino
», lo stile
disu- guale e spesso
sciatto, l'espressione troppo
di frequente plebea,
non sono qualità
che si addi-
cano a componimenti esemplari.
Il cardinale Pal-
lavicino, che senti quei
componimenti dalla bocca
del loro autore,
disse che gli
sembravano bel- lissimi solo
in alcuni squarci:
e disse bene.
K il Giusti,
rammentato già dal
Carducci, ancora me-
glio: « sorridono d'una
certa scioltezza gaia
e « ciarleria:
vi sentì il
brio pronto e loquace del
« Napoletano: il
fare dell'uomo avvezzo
in palco «
a spassare la
brigata; ma io
lo scorgo povero
« in mezzo
a quel lusso
erudito: declamatore, «
pieno di lungaggini,
si lascia e
si ripiglia per
« tornare a
lasciarsi e ripigliarsi
cento volte: «
vanga e rivanga
uno stesso pensiero,
e te lo
« rivolta da
tutti i lati,
come se faccettasse
un « brillante;
si sente insomma
che lo scrivere
non « era
l'arte sua naturale,
ma un di
più del suo
« ingegno »
('). E nobile
talvolta la sua
ira, ma non sa con-
servarsi nella misura e dà botte
da orbo a
di- ritta e a
mancina. La ragione
forse per cui
la satira sulla
poesia è riuscita
migliore delle altre
è appunto questa,
a parer mio,
che in essa
il Rosa ha
voluto e saputo
determinar meglio il
suo concetto, additar
meglio i bersagli
contro cui scoccava
le sue freccio.
Onde (piando lo
ve- (li Discorso
premesso al l'armi,
eiliz. Le Mounier.
ISiiO, li. XXIX.
SALVATI >K KOSA
lló 1 1 i ; 1 1 1 1 >
> porro in
canzone, ad esempio,
le accade- mie ed
il v liuto della
poesia roboante di
quel •.••■.■■■lo versaiuolo.
e quando, attediandosi
a fiero .iiiiiiiiai
inista, lo troviamo
ridere di quelle
ima- - i ni sbalorditole
e di «incile
ridicoli' ampollosità ilei suo
seicento, non possiamo
a mimo di
bat- tergli le mani,
e di ammirarlo
immune, quan- l inique non
solo ad esserlo,
da quella lebbra,
coz- zante coni ro il
mal gusto clic
dilagava. * Bello
scrittore il Rosa
non fu. Xella
prosa an- cor meno
che nei versi.
Nelle lettere, che
il Ce- sareo seppe
raccogliere abbastanza copiose,
stile e liniaia
sono incerti, ortografia
incertissima. L'editore avrebbe
usato cortesia al
povero Sal- vatore non
riproducendole con sì
scrupolosa fe- deli;!, come
se si t'osse
trattato d'autografi del
fingente. Regolare quella
selva selvaggia di
maiu- scole fuor ili
luogo, raddrizzare qua
e là la
gra- fi;i. collocare
un po' meglio
la punteggiatura, non
rispettare persino i
trascorsi di penna,
sarebbe stato torse1
pietà. Almeno quella
prosa, bella non
mai. sarebbe riuscita
più leggibile, come
più leg- gibili sono
le lettere al
Ricciardi le migliori
per contenuto che
si abbiano del
Rosa) edite dal
Bot- tali. Ciò peraltro
che l'editore- non avrebbe
in nessun caso
potuto mutare è
la volgarità del-
l'espressione, la libertà sboccata
degli scherzi indecenti.
.Strana, invero, tanta
trivialità in un
pittore qualche volta
così elegante, in un
uomo SALVATOR UOSA
d'animo, se non
altissimo, certo non
del lutto ignobile,
che protese coi
Tevere i vizi
de' suoi simili
nel costume e
nelle arti! Nota
aggiunta. — E'Iitn
nella Gazzetta letlrrmiti
ilei ."J .
L invilenti! mniinirralin
su] lìnsn pi 1 1 >,
]ier Olii si
veila riò rhe
ne scrissi nel
II ioni, storiro,
LUI. l'il. Sulle
satire è semine
cmisiileraliile il ijiuiliy.io
de] Bki.i."XI. //
Srirrutn, Milano lsìtìl.
'2iU - ■
Si ai i i 4.'»
anni) il conte
liiulio Perticali. Si
spegneva dopo una
malattia Pinna ed
oscura, accompagnata da
n'eri abbat- i imcnti
inorali, da preoccupazioni angosciose
e misteriose. Si
spegneva fuori di
casa sua, a
San t'usiaiizo di
Pesaro, presso il
cugino Francesco i'a»i.
Aveva intorno parenti,
amici, la moglie,
accorsa tardi al
suo capezzale perchè
trattenuta altrove da
gravi cure, ma
desiderala. Quella donna
aveva pianto amaramente,
s'era data in
preda alla disperazione
(piando vide esanime
il marito, ma
nello sfogare l'ambascia
aveva pur a -l'usato
se medesima, quasiché
non avesse avuto
pi'l suo (iiulio
l'affetto e la
premura ch'egli meritava.
Poscia s'era allontanata,
senza pur recarsi
a visitare in
Pesaro la buona
suocera, quasi si
vergognasse di comparirle
d innanzi. Kd
ecco una voce
farsi strada in
mezzo all'u- niversale rimpianto per la perdita
dell'insigne letterato: una
voce dapprima bisbigliata
da qualche parente,
poi propagata dai
fratelli del- l'i .-liuto,
finalmente accreditata da
molti amici presso
il pubblico. La
contessa Pertieari era
118 LA FIGLIUOLA
DEL MONTI stata
una cattiva moglie;
il conte Giulio
era morto di
crepacuore per i
mali portamenti di
lei; lo aveva
pur detto ella
stessa che si
sen- tiva lacerata dai
rimorsi, s'era pur
vergognata ella stessa
di presentarsi alla
suocera, da cui
con materna tenerezza
era amata. Le
accuse furono concretate
in un libello,
che « alcuni
amici del vero
» scrissero in
risposta a certa
necrologia del Perticari
uscita nel Giornale
delle dame. Il
libello anonimo, che
fu largamente diffuso
a penna e
letto avidamente dai
dilet- tanti di scaudali,
tacciava la contessa
Perticari di colpe
gravi e la
additava come responsabile
della morte di
Giulio. Nessuna cosa
più facile che
il far penetrare
nel pubblico simili
sospetti, massime quando
si tratti di
persone illustri e
perciò osservate ed
invidiate. Le accuse
ottennero fede anche
presso coloro che
avrebbero potuto e
dovuto proce- dere con
maggiore cautela nel
crederle. Il Gior-
dani, in un paio
di lettere, deplorava
la mala azione
e se la
pigliava (mancomale!) con
l'u- tero e con
la perfida razza
umana. Il Niccolini,
scettico e sboccato
come al solito,
vi ghignava sopra
scrivendo: « Io
non lo posso
credere, « perchè
il Perticari era
uomo dottissimo e
di «•molta perizia
nella lingua; ma
non fatto da
« natura a
sentire fortemente ed
affliggersi per «
le corna, necessità
antica ed eterna
di tutti '
i mariti ». Persino il
Mustoxidi, che dap-
prima aveva inorridito alle
accuse lanciate con-
tro la vedova Perticari
da lui un
giorno ido- LA
FIGLIUOLA DEL MONTI
119 latrata, qualche
mese appresso, scrivendo
ad Antonio Papadopoli,
trattava di lei
con sprez- zante malevolenza e
la chiamava «
una donna »
di cui si
vantano, false o
vere che siano,
« mille galanterie
». Ma la
voce sparsa dal
li- bello, accortamente esagerata,
doveva ben presto
figliarne un'altra, mostruosa.
Non solo la
Perti- car! aveva trafitto
l'animo del marito
co' suoi disordini
morali, ma lo
aveva anche material-
mente ucciso. La morte
misteriosa era dovuta
a veneficio; e
a riprova si
adducevano certe macchie
che i medici
rinvennero nelle mem-
brane del ventricolo di
Giulio allorché ne
se- zionarono il cadavere.
In pieno secolo
decimo- nono, Costanza
.Monti Perticali, la
bella, la dotta,
la inspirata figliuola
di Vincenzo Monti,
aveva avvelenato il
marito e (si
aggiunse persino) con
la complicità del
padre celebratissimo, geloso
della fama crescente
del genero! *
• * Tanta
enormità chiedeva solenne
smentita. E la
smentita venne dal
celebre clinico Gia-
como Tommasini, che aveva
assistito (troppo tardi
chiamato da Bologna)
alla fase estrema
della malattia di
Giulio. Il Tommasini,
in un suo
opuscolo stampato a
Bologna nel 1823
col titolo Storia
della malattia per
la quale mori
il conte Giulio
Perticati, attestò solennemente
che si trattava
di morte naturale
dovuta ad una
« lenta infiammazione
di fegato ». Da parte
120 LA FIGLIUOLA
DEL MONTI sua,
Vincenzo Monti, fieramente
irritato contro i
denigratori della figliuola
dilettissima, li pun-
geva in un'ode stampata
nel 1823, e
quindi in un'apostrofe
eloquente della Feroniade
lamen- tava la loro
freddezza per Giulio,
accostandola al dolore
profondo della «
derelitta sua misera
sposa ». Spettava
alla critica moderna
il vagliare co-
teste voci e
testimonianze contraddittorie. Er-
nesto Masi (l), mentre
produceva una lettera
di Costanza Perticari
diretta a Paolo
Costa nel novembre
del 1822, difendeva
la misera vedova,
facendo intravvedere quanto
calunniose fossero le
dicerie sparse a
suo carico; e
un paio d'anni
dopo la difesa
era avvalorata da
altre preziose lettere
di Costanza scovate
in Fano da G. S.
Sci- pioni tra
le carte di
Filippo Luigi Polidori
e da lui,
con giuste considerazioni, fatte
conoscere (!). Tanto
il Masi quanto
lo Scipioni, ma
special- mente quest'ultimo, riuscirono
a ricostruire la
tristissima guerra di cui la
contessa Perticari fu
vittima, indicandone, come
principali attori i
fratelli di Giulio
e più specialmente
due corteg- giatori delusi della
bella figliuola del
Monti, let- terati entrambi, il
pesarese conte Francesco
Cassi, noto traduttore
della Farsaglia, ed
il fa- nese
conte Cristoforo Ferri.
Oggi una signorina
buona, intelligente e
colta toglie ogni
velo a (X)
Parrucche e sanculotti,
Milano, 188G, pp.
239 sgg. (2)
Giornale storico della
letteratura italiana, voi.
XI (1888), pp.
74 sgg. LA
FIGLIUOLA DEL MONTI
121 quella specie
di congiura e
chiarisce in ogni
punto la biografia
di Costanza con un libretto
vivace e simpatico
('), che si
basa su di
un nu- mero ragguardevole di
documenti amorosamente ricercati
in vari depositi,
ma in ispecie
nella Oliveriana di
Pesaro, e sulle
lettere tutte, in
grandissima parte inedite
sino ad ora,
della Per ticari
(!), che costituiscono
un volume istruttivo
e valgono meglio
d'ogni altro discorso
a farci leggere
nel cuore e
nella mente della
donna in- felice.
La signorina Maria
Romano, con una
fran- chezza che le
fa onore, non
dissimula che il
suo libro ha
una tesi. «
Desiderava, scrive, di
« scoprire la
verità intorno alla
vita di que-
* sta donna,
ero però decisa
a non pubblicare
j7 sgg. LA
FIGLIUOLA DEL MONTI
120 Zaiotti, perchè
quelle pagine ebbero
successo e diffusione
veramente grandi rlett.
197, 198). Lo
Zaiotti, a. sua volta,
la cui figura
letteraria at- tende d'essere degnamente
tratteggiata (')- serbò
costante la stima
e l'affetto per
la sventurata figliola
del grande amico
suo, e quand'ella
fu liberata dalle
pene dell'esistenza fece
incidere sulla sua
tomba ferrarese una
bella iscrizione, che
si chiude qualificandola «
sempre buona |
ora anche felice
». E davvero
la bontà di
Costanza rifulge nel
suo epistolario e
nella biografia che
seppe scri- verne la
Romano con delicatezza
squisitamente e caldamente
amorosa. È una
bontà robusta, senza
sdilinquimenti, oserei quasi
dire classica; ma è una
bontà che vale
a scusare qualsiasi
debolezza, perchè proviene
veramente da un
cuore ben fatto
e retto. Quando
il cugino Luigi
Cassi languiva in
terra straniera dopo
aver par- tecipato alla
disastrosa spedizione di
Russia, fu lei,
Costanza, che cercò
in tutti i
modi di averne
novelle, mentre la
famiglia si baloccava
nella più vergognosa
apatia. E dopo
la morte del
il) Nocque grandemente
allo Zaiotti la
sua qualità di
fer- vido austriacante e
la parte avuta
nei processi contro
i co- spiratori italiani, nonché
quel libretto della
Semplice rarità, che
fece fremere tanti
onesti patrioti, sebbene
di cose vere
ne dica parecchie.
Non certo il
politicante d'idee strette
e malsane, ma
il letterato meriterebbe
qualche studio, non
fos- s" altro
per le molte
ed alte relazioni
che ebbe. Speriamo
che possa un
giorno farcelo conoscere
appieno il Luzio,
il quale si
valse sinora del
suo carteggio col
Salvotti, massime nel
recente volume sul
Processo Peìliro-MaroncelH. Rkniek
- Svaghi Critici
0 130 LA
FIGLIUOLA DEL MONTI
marito, la nobiltà
d'animo di Costanza
si mo- strò superiore ad
ogni elogio. Solo
preoccupata di rendere
onore al defunto
pubblicando i suoi
scritti, perdonò ai
propri calunniatori, serbò
sempre affetto alla
suocera, prese cura
di An- drea, rampollo illegittimo
di Giulio (lett.
132). Allorché nel
febbraio del 1824
mori l'archeo- logo bolognese Giuseppe
Tambroni, al quale
Costanza era singolarmente
affezionata, la ve-
diamo piangere e desolarsi
(lett. 158), sebbene
avesse tante ragioni
di cruccio per
le faccende sue
personali. « Sul
mio cuore l'amicizia
stampa « caratteri
indelebili » (lett.
71) scrisse un
giorno, ed era
vero. Da questa
maniera di sen-
timento non la distrassero
i molti e
gravi di- singanni, nè
valsero i dolori
suoi a renderla
indifferente ai dolori
altrui. Allorché le
mori la seconda
persona ch'ella amava
di più sulla
terra, il padre,
provò più cupo
il dolore, solo
lenito dalla fede
religiosa (lett. 192).
Come avea fatto
per Giulio, cosi
anche del padre
curò la fama
procurando la stampa
delle sue opere
inedite, e fu
afflitta al vedere
che la madre
vo- leva immischiarsene lei e cercava
il lucro nel-
l'impresa pietosa (lett. 197
e 199). Sebbene
anche alla madre
chiudesse gli occhi
con figliale pietà
(lett. 210) e
per la sua dipartita rimanesse
since- ramente addolorata (lett.
211), non vi
fu mai vero affiatamento tra
Costanza e Teresa
Pichler (*). (1)
Cosi va scritto
il casato della
moglie del Monti,
sebbene ossa firmasse,
secondo la falsa
pronunzia italiana, Pilcler,
LA FIGLIUOLA DEL
MONTI 131 Erano
troppo diverse. La
Pichler era vana,
su- perficiale, ma in
fondo calcolatrice ed
egoista; la generosità,
lo slancio ed
il disinteresse Co-
stanza li aveva ereditati
dal padre. *
* • Se
v'ha una deficienza
nella biografia di
Co- stanza dettata dalla
Romano, questa si
riferisce alle occupazioni
intellettuali della figliuola
del Monti. In
estremo grado assorbita
dal quesito inorale
propostosi, la Romano
non consacrò a
questa parte molta
attenzione. Sarebbe utile
che un giorno
altri vi si
indugiasse; ma a
farlo con- venientemente sarà necessario
che prima si
abbia quello studio
definitivo, che ancora
manca, sugli scritti
e sul valore
di Giulio Perticari.
Tutta l'educazione e
l'attività di Costanza
dipendono direttamente dall'indirizzo che
le diede il
padre e dalla
consuetudine col marito,
che nel campo
intellettuale fu più
fervida e simpatica
che in quello
affettivo. In una
lettera del 1818
la con- tessa gli
scrive: « te
lontano, io non
posso più *
nulla. Una prova
te ne sia
che i miei
studi « languiscono,
ho mille dubbi
che nessuno mi
« solve, perchè
nessuno ha la
pazienza tua e
« d'altronde in
nessun altro potrei
porre la fidu-
crane pure si
legge sulla sua
fede battesimale (cfr.
Vici hi, Primo
*aygio su V.
Monti, p. 5),
e in altri
documenti. Però nella
fede di battesimo
(9 giugno ITtfii
di Costanza è
detta Pichler (Viccui,
op. cit., p.
52; e tale
dovette essere la
forma del cognoDe,
comunissimo nelle province
tedesche dell'Austria. 132
LA FIGLIUOLA DEL
MONTI « eia,
perchè so die
nessuno così mi
anici come « tu fai
Per ora non
ti dico di
più, se non
che « i
miei libri son
chiusi e non
li riaprirò se
non « all'apparire
del mio Apollo.
» (lett. 58).
Musa leggiadra e
vivace nel gruppo
letterario pesarese, che
aveva in casa
Pertica ri il
suo centro, Costanza
non riuscì solamente
artista squisita ne'
versi, tra' quali
eccelle quel poe-
metto su L'origine della
rosa, che alla
fluidità ariostesca dell'ottava
rima accoppia l'urbanità
molle e gentile
del sentimento virgiliano
('); ma diede
anche opera, sovvenendo
il marito, a
severi studi filologici
nel modo che
a quel tempo
s'intendevano. Alla retta
lettura e all'interpre-
tazione dei testi classici
essa mostrò una
pas- sione che in
donna non è
comune, occupan- dosi con
predilezione della Commedia,
tanto cara al suo genitore.
Come appare dall'episto-
lario, ella era sempre
in traccia di
codici del poema
dantesco e dei
migliori testi a
penna studiava le
varianti con buon
discernimento critico, sebbene
con un criterio
soggettivo che non
sarebbe più approvato
a' di nostri.
Una parte delle
sue fatiche fu
fatta conoscere nel-
(!) Achille Monti,
pronipote di Vincenzo,
accostò alcune odi
proprie ai versi
di Costanza, ed
il volumetto usci
nel 18H0 in
Firenze, per cura
di L. F.
Polidori. Altri versi
di Costanza pubblicò
lo Scipioni ne]
menzionato volume XI del (riornale
storv;o. Ma abbiamo
ragione di credere
che buon numero
di sue produzioni
letterarie siansi perdute
per ma- levolenza dei
parenti, che gliele
ritolsero in modo
indegno, come appare
da una sua
lettera a Laudadio
della Ripa (lett.
149). LA FIGLIUOLA
DEL MONTI 133
l'edizione De Komanis
del commento del
Lom- bardi. Sovvenne anche
il marito nella
revisione del Convivio
e nella restituzione
critica del Dit- I
a mondo,
opera che al
Pertieari stava molto
a cuore, e
che dopo la
morte di lui fu dalla
ve- dova curata (lett.
131) e servi
alla nota edizione
ventisettana del Silvestri
('). In queste
fatiche, come nell'attendere alla
fama letteraria di
Giulio, pose Costanza
quell'impegno e quell'ardore
che erano propri
del suo carattere.
Degna tigli noia
del Monti, essa
era innamorata dei
classici ed oltre
a Dante aveva
studiato a fondo
e chio- sato il
Petrarca, l'Ariosto, il
Poliziano, il Tasso.
Non meno del
padre, che chiamava
epizoozia il romanticismo,
anzi la ro
mantice ria (f),
dete- stava Costanza i
romantici e col
solito fuoco flava
sfogo a tale
suo odio scrivendo
a Urbano Lara
predi: « queste
tue lodi che
non merito mi
« saranno stimoli
perchè io studi
a meritarle «
quando che sia.
E di questa
sola ed alta
spe- « ranza
mi vo pascendo.
Questa mi tiene
di (li II
Perticali in una
lettera del 16
marzo 1818 a
G. An- tonio Roverella dice
che la «
buona Costanza... gli
si è fatta
■ un grande
aiuto nei suoi
penosi studi Vedi
la mia edi-
zione delle Liriche di
Fazio degli l'berti,
p. CCLXXVII. Ri-
spetto agli studi del
Perticali su] Diltamondo
sono da ve-
dere le recenti comunicazioni
dei dottori Pelaez
e Nicolussi; cfr.
(riorn. star, lìella
leti, italiana, XXX,
333 e XXXI,
4li2. Intorno all'edizione
milanese del Conririo
ed alla parte
che v'ebbero le
correzioni del Pertieari,
è da consultare
uno spe- ciale articolo di
R. Murari nel
(Giornale dantfuro, V,
11. 2i Ciò
è detto in
una lettera inedita
del Botta a
G. Grassi, per
cui si veda
la memoria di
Emilia Rkois, Studio
intorno alla cita
di Carlo Bolla,
Torino, 1903, p.
30. LA FIGLI TOLA
DEL .MUNTI «
continuo fra i
diletti miei libri
e specialmente «
fra quelli de'
latini divinissimi peni
ri nostri, spregiati
solo da quella
vigliacca pk'be di
ro- « marnici,
che squarciano la
bocca a bestem-
miare ciò che non
intendono, anzi elle
non « sono
né pur degni
d'intendere. Kd è
caso « veramente
non tollerabile che
idi uomini del
« settentrione cerchino
ora di farsi
barbari culla «
penna, come già
negli anelali secoli
il fecero «
colle spade. E
che v'abbiano de'
nostri così vili,
cosi dimentichi di
loro stessi che
s'in- « chinino
a tanta servitù!
0 mio Lamprcdi,
il mio cuore
è ponilo d'ira:
toccando di queste
* cose, tu
mi fai bollir
l'animo. Qui è
ueces- « sai'ia
una interra seenni
: tu puoi,
tu devi os-
« seme gran
campione: e fare
che almanco in
« Napoli e
in Roma non
penetri questa pesti-
« lenza di
che già in
Lombardia ammalano «
molti e molti:
e sarà grave
il danno ove
non « si
metta pronto il
rimedio » lett.
47.. Tale misoneismo
intemperante, ma spiegabi-
lissimo, in fatto a
letteratura, non impediva
in altre pertinenze
idee più larghe
improntate a sentimenti
moderni. Così rispetto
all'educazione delle donne,
reputava Costanza essere
« bestiale pregiudizio
» quello che
le allontana da
ogni coltura dello
spirito, giacché, aggiungeva,
« Pini- «
imaginazione essendo generalmente
più viva «
nelle donne, fa
d'uopo maggiormente di
fer- « mare
questa nostra troppa
fervidezza in cose
« di severa
applicazione, perchè i
lavori ma- «
nuali non bastano
a tenere occupato
lo spi- LA
FINUL'Of.A riKL .MONTI
135 « ri ro
» (lett. -JOx
. Cosi pure
nel vagheggiare un'Italia
libera ed una,
essa si accostava
agli odiati romantici
e partecipa va alle aspirazioni
del marito ').
Xello lettei'e scritte
da Roma e
manifesto il disgusto
che le ispira
la città papale,
in cui \i
sono tante cose
che la «
ar- rabbiano » ilett.
&2). Essa si
trova colà quando
vi giunge, t'esteiigiatissiino. Francesco
I d'Austria, e
([nelle gazzarre, lungi
dal rallegrarla, le
danno dispettosa melanconia,
come scrive al
fido Ali- tatili: «
troppo alti sentimenti
mi bollono nel-
« l'anima per
poter essere spettatrice
fredda «. della
vergogna italiana. E
quindi inutile che
ti dica non
aver ancora veduta
neppure una festa
pel cos'i detto
imperatore: anzi al
suo in- uresso
in Rom a, quando
tutta la città
era spopolata tranne
il corso e
la via di
Ponte Molle, la
tua Costanza passeggiava
mestamente per Campo
Vaccino, maledicendo il
Cielo e la
nostra iniqua fortuna.
Io sola fra
quelle rovine piangeva
mestamente la nostra
perduta - patria;
e forse troppo
alto orgoglio era il mio,
ma in quid
giorno io mi
sentiva, quantunque isolata,
assai più grande
dei grandi che
ci rovinano »
dott. 79). Benedetta
colei che in
te t'iiiciiise.' verrebbe
voglia di sciamare.
Eppure essi era
fervidamente religiosa, e
in moltissime lettere
dice e ripete
che senza quella
religiosità limi avrebbe
esitato un istante
a troncare la
I Vi'dasi il
discorso di Gr.
S. ìS i li di
due settimane se
ne smalti un'edizione
copiosa, e mentre
scrivo si lavora
febbrilmente per farne
uscire presto una
seconda. Non malsana
curiosità del pubblico
spiega questo successo
d'un volume che
si direbbe a
prillisi giunta vivanda
da eruditi: anzi,
l'avere il pubblico
italiano, cosi poco
facile a prendere
fuoco pei libri
clic non sieno
d'occasione, ili scan-
dalo o di lettura
anienissima, inteso subito
l'im- portanza di questo,
gli torna per
lo meno a
tanto onore quanto
ridonda a disdoro
di pochi letteristi
scontrosi l'averne .n'indicata
inoppor- tuna la pubblicazione. E
ciò non solo
perchè, come disse
un buon s'indico
i 1 1, cotesti Bruii/
« contendono gemmo
di rara bellezza
», ma spe-
cialmente perchè, fu aggiunto
a buon dritto
dalla medesima persona,
« nel confronto
che possiamo « fare è
un elemento di
studio, per scrutare
e « indovinare
la paziente opera
del genio». Con-
fronto di svaria tissima
natura: studio d'impor-
tanza tale che da
molti anni, oso
dire, la critica
non ebbe occasione
di farne uno
più significante nò
più proficuo. È
noto con quanta
pena e con
quale industria sottile
l'arte incontentabile del
Manzoni raggiun- gesse nell'edizione del
1840 la perfezione
formale che difettava
in quella del
18*27. Le due
edizioni furono stampato
a fronte e
furono studiate com-
parativamente da parecchi, con
speciale acume i
ti A. FouAzzAim
nel (liofiia/c ti 'Italia
'IH 2S novembre
1SI04. I PROMESSI
SPOSI IX FORMAZIONE
131» e fortuna
segnatamente dal D'Ovidio.
Anche da questo
punto di veduta
i Brani, stesi
tra la pri-
mavera del 1 Si?
1 e l'autunno
del ltòS, offrono
a rgoniento ad osservazioni
preziose, giacché ci
fan vedere quanto
miserella. disuguale, taloi'a
persino sciatta e
mal contesta t'ossela
primissima veste die
il pensiero manzoniano
si mise addosso.
Ma non di
ciò io mi
propongo di qui
discorrere: ■4 bene
del contenuto, richiamando
l'attenzione dei lettori
sulla fisionomia che
il romanziere milanese
diede dapprima a
eerti suoi personaggi
e sullo sviluppo
primitivo di certe
scene. Ammetto senz'altro
che ognuno abbia
presente nelle sue
particolarità quel libro
meravigliosa- mente fresco, che
doveva dapprincipio intitolarsi
Vcrmo e Laviti,
più tarili (Hi
Sposi Promessi e
finalmente si chiamò
/ Promessi Sposi.
Quindi, ■icnz altri
preamboli, vengo al
buono, e considero
anzitutto Gertrude. In
altro articolo esaminerò
l'Innominato ed in
un terzo rivolgerò
la mia at-
tenzione a figure e
ad episodi minori.
Cenni fu- gaci saranno
questi miei, ma
mi terrò pago
se per essi
nascerà in altri
la voglia di
uno scan- daglio più
profondo e se
questi altri troveranno
nella lettura e
nel lavoro il
diletto spirituale *q
insito che a
me venne dal
confronto dei Brani
con le (luti
redazioni del romanzo.
■.^ Senza pur
conoscerne il nome,
attinse il Man-
zoni la tragica storia
di suor Virginia
Maria, al "croio
Marianna de Lev
va. dal Ripamonti.
Il 140 I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE Ripamonti aveva
conosciuto di persona
la Si- gnora di
Monza ne' suoi
ultimi anni. In
quella vecchierella curva
per la grave
età, macilenta e
torrefatta dai patimenti
e dalla espiazione,
ve- neranda per santità
di pensieri e
di opere ('),
inai si riusciva,
dice egli, a
figurarsi quale do-
veva essere stata un
tempo, bella, altera,
pro- cace. In tutto
il racconto latino,
elegante e pom-
poso, i personaggi sono
anonimi, ail'infuori del
seduttore, Giampaolo Osio;
ma ciò gli
concilia certa vaga
solennità, suggestiva in
sommo grado pei1
un artista. Sebbene
nell'annalista milanese si
scerna manifesto il
proposito di togliere
anche da quella
storia esempio edificante
e di farvi
ri- splendere la parte
di sant'uomo che
anche in essa
ebbe il cardinal
Federigo, v'ha senza
dubbio materia più
che sufficiente per
tesserne un ro-
manzo saturo di forte
drammaticità. E il
Man- zoni lo fece:
ma in entrambe
le redazioni del
romanzo la sua
attenzione fu volta
in particola!1 guisa
alla psicologia della
fanciulla, spinta contro
ili Dopo la
condanna, suor Virginia
stetto 13 anni
murata in una
cella oscura, poi
passò alle convertite
di Santa Va-
leria, ove fu soccorsa
dalla carità del
cardinale Federigo Borromeo.
Xata nel 1575,
mori nel IliòO.
A noi è consentito di
leggere nella sua
anima pervertita col
sussidio degli atti
processuali, che conosciamo
mutili, come ce
li diede in
due edizioni il855
e D-W4) Tullio
Dandolo. Lo Sforza
mi dice che
per buona ventura
il processo integro
fu rintracciato a Mi- lano. Del
periodo espiatorio conosciamo
sue lettere pd
altri documenti, per
via del nutrito
lavoro di Lrioi
Zkriii, La f)'i-
ipiora ili Monza
nella aloria, ili
Ardì. star, lomliartlo,
an. XVII, 1HH0,
fase. 3". I
PROMESSI SPOSI IV
FORMAZIONE 141 voglia
nel chiostro (argomento
pel quale non
mancavano a lui
reminiscenze personali e
lette- rarie W), ed
alla psicologia della
monaca for- zata (s),
e tirò via
sulla seduzione e
sulle con- seguenze atroci della
seduzione. Privatamente informato,
tra la prima
e la seconda
edizione, dell'esistenza del
processo, e avutane
fors'anche cognizione diretta,
egli non modificò
affatto nella sostanza
il lungo episodio,
e del nuovo
elemento onde si
precisava in lui
la nozione del
soggetto ci lasciò
una spia quasi
impercettibile in un
solo particolare aggiunto
nella stampa del
'40. Quivi è
detto che dopo
la sparizione della
conversa uc- cisa nel
monastero di Santa
Margherita perchè non
riferisse gli amoreggiamenti della
Signora, « si
fecero gran ricerche
in Monza e
nei con- «
torni e principalmente a
Meda, di dov'era
* quella conversa»
(3). Il nome
dell'oscuro vil- laggio in
quel di Monza
non sarebbe certo
pas- sato per la
niente dell'autore, se
egli non avesse
il) Per le
reminiscenze personali e
famigliari leggasi Cu.
Fa- iihis, Memorie
manzoniane, Milano, 1SK)1,
pp. 57-58. Quanto
ai ricordi letterari,
essi possono esser
diversi, oltre al
libretto Jel Diderot,
perchè, nelle molte
letture del Manzoni
di libri del
sec. XVII e
del VXIII, di
violenze fatte a
fanciulle nobili per-
chè prendessero il velo
non v'era penuria.
Vedasi in proposito
una calzante comunicazione
di E. Beiitana,
nel (ìiorn. slor.
■Iella leti, ila!.,
voi. XXXV, p.
172. (2) Il
migliore esame psicologico
della Signora lo
dob- biamo sinora ad
un filosofo, Giovanni
Viuaki, Suor Oertriule,
l' Innominato e Fra
Cristoforo, Firenze, 18!I5.
C&) Vedi p.
239 (cap. X)
nell' ed. col
commento del Pe-
trocchi, Firenze, 1S)8, alla
quale sempre mi
attengo per questi
articoli. 142 ì
promessi sitisi ix
formazione: appreso che
la conversa violentemente
soppressa ehiamavasi Caterina
Cassini dn Mrrftr,
come ri- sulta dai
constiluti processuali. Oli
non' rammenta la tragica
e misteriosa ter- rihiiilii con
cui quel primo
delitto è accennato
nel roman/.oV La
conversa più non
si trova: una
buca praticata nel
muro dell'orto la
fa supporre fuggita;
si fan congetture:
la Signora di
quella storia non
ama sentir discorrere:
ma vi pensa
di e notte
e rimugino di
quella donna le
com- pare nella fantasia
come uno spettro.
Nella prima minuta
il fatto è
narrato invece per
disteso, con evidenza
mirabile pp. li'0-127'.
Come si può
imporre silenzio alla
conversa, che in
un momento d'ira
avea minaccialo la
dela- zione? Eiridio '(die
così si chiama
anche qui l'Osio)
si stringe a
consulta con le
tre sciagurate da
lui sedotte, la
Signora e le
due suore a
lei addette e sue complici,
qui innominate ('). « Il
modo fu «
pensato e proposto
da lui con
indifferenza e «
acconsentito dalle altre
con difficoltà, con
resi- di 111
realtà chiamava usi
Ottavia Ricci e
Benedetta Ornati. Esse
fufrjiirono poi amliedue
dal trai vento
con 1" Osio,
clic cercò sbrigarsene,
gettando 1' una
nel fiume Larabro,
e V altra
in un pozzo.
All' uccisione della conversa
Caterina, per mano
dell' Osio. realmente assistevano,
oltreché Virginia. Ottavia
e Benedetta, anche
due altre monache.
Silvia Casati ed
una Candida, ch'era
la druda del
laido prete Paolo
Arrisone, mezzano dell' Osio.
dopo aver invano
tentato la de
Ij^vva. In quel
convento delle Umiliate
la disciplina era
a tali ter-
mini, da farlo poco
dissimile da un
lupanare. 11 Ripamonti
tacque di molti
abusi; il Manzoni,
a sua volta,
in questa parte
idealizzò. i promessi
sposi ix formazione
143 sieuza, ma
alla line acconsentito
». Geltrude ■
•he nel romanzo,
con maggiore conformità
al- .'I imo
fermali ico, è invece
Gertrude' l'esiste più
.[rlle altre, ma
alfine cedi1 essa
pure e pattuisce
ehe non si
sarebbe impacciata di
nulla, od avrebbe
lasciato fare ».
Presa da parte
la con- •ersa,
le dui1 suore
le propongono di
farla assi- lere
a qualche scena
che ronda più
sicura la -uà
delazione. A tale
scopo la nascondono
nella im o
cella, e di
notte, al dubbio
chiarore che ve-
niva dalla stanza vicina,
una di osse
la finisco dandole
un colpo di
sgabello sul capo,
impacio i 'tccijì"t scnìt/'Uo,
come scrive il
Ripamonti. I -nccessivi
portamenti dell'Osio e
di Gcltnule, ;.
sottrazione del cadavere
celato in una
cantina, u -.bigotti monto pauroso
delle tre monache
ri- masto solo, tutto
magnifico, tutto degno
del stan- zoni ne'
suoi migliori momenti.
«Le duo serventi
partirono; Geltrude le
segui fino alla
porta, aspettando che
tornassero col lume.
I.o depo- sero sur
una tavola, lo
spensero, e sedettero
di nuovo attorno
a quello che
ardeva da prima.
Slavano così tacite
guardandosi furtivamente «
ili tratto in
tratto; quando gli
sguardi s'incon- travano, ognuna abbassava
gli occhi, come
se « temesse
un giudice, e
avesse ribrezzo d'un
col- pevole. Ma l'omicida,
più agitata, o
agitata in modo
diverso dalle altre,
cercava ad ogni
mo- "iciiio di
cominciare un discorso,
voleva par- «
lare del fatto
e del da.
farsi come di
cosa co- «
mime, parlava sempre
in plurale conio
per te- nero afferrate le
compagno nella colpa,
per es- *
seve nulla più
che una loro
pari». 141 I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE Anche Egidio,
il fosco, facinoroso,
volgare Giampaolo della
realtà storica ('),
è un'ombra nel
romanzo ed è
una figura concreta
nell'ab- bozzo. Quel «
giovine, scellerato di
professione », la
cui caratterizzazione sommaria
mi ha fatto
pensare tante volte
all' « uomini
poi, a mal
più eh' a bene
tisi » di
Piccarda, è qui
rappresentato, se non
con finezza di
particolari, almeno con
si- curezza di tratto;
e l'episodio degli
amori, con- densato nella
redazione definitiva in
quel solenne «la
sventurata rispose», che
per la sua
pre- gnante concisione fece
andare in visibilio
più di un
critico, è narrato
per disteso (pp.
107 segg.). Della
scelleratezza d'Egidio s'indagano
le origini, trovandole
nelle condizioni e
nelle idee dei
tempi, non che
in certe tradizioni
famigliari, che al
Man- zoni offrono il
destro a considerazioni svariate;
i primi rapporti
con la Signora,
succeduti a quelli
non colpevoli con
una educanda da
lei sorve- gliata ('),
sono descritti con
cura, ed è
con la con-
sueta vivezza intuitiva che
il gran romanziere
sorprende i primi
commovimenti dell'anima di
Gelt-rude, le prime
esitazioni, la prima
dedizione. Pagine davvero
osservabili, nelle quali
unica (1) Per
la storia dell'
Osio, oltre la
citata memoria dello
Zkiiiii sulla monaca,
vedasi di lui
l'opuscolo L'Eyìdio dei
Pro- messi Sposi nella
famiglia e nella
storia. Como, 1895.
Se pure quello
Zerbi scrivesse un
po' da cristiano!
Quind' innanzi la cognizione
integrale del processo
potrà forse gettare
nuova luce anche
sul maggiore colpevole.
(2) A questi
amoreggiameli con un'
educanda accenna anche
il Ripamonti. Dalle
carte processuali apprendiamo
che essa chiamavasi
Isabella degli Ortensi,
di Monza. I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE 1J5 note,
forse un poco
stonata, è l'aver
dato, anziché al
sangue giovanile ed
alla passione incalzante,
una parte ragguardevole
a certo pervertimento
teoretico « Ella
fu dunque una
docile e cieca
di- « scepola,
e conobbe e
ricevè tutte quelle
idee ge- «
nerali di perversità
a cui l'ignoranza
e la irri-
* flessione di
quei tempi permetteva
di arrivare »
ip. 119). Se
il Manzoni avesse
conosciuto in tempo
il constituto di
Virginia de Leyva,
egli ne avrebbe
per avventura tratto
partito per far
predominare invece un
elemento assai meno
razionale: il fa-
scino irresistibile; ciò che
la povera Virginia,
ca- duta nell'abisso, chiamava
malia, stregoneria ed
altro di simile,
quasiché attratta nell'orbita
del peccato, a lei non
fosse più dato
di pensare con
la testa propria
e forzatamente precipitasse
al delitto. Per
quanto certe teorie
moderne fossero assai
remote dai principi
e dal modo
di concepire la
vita e l'anima
umana da cui
il Manzoni non
usava mai dipartirsi,
credo chela confessione
della povera suora
d'innanzi ai suoi
giudici lo avrebbe
indotto a renderle
ancora più debole
la volontà di
contro alla passione
e meno attivo
l'intelletto. Altro particolare,
che nel romanzo
difetta, è una
motivazione adeguata del
tranello in cui
la Signora fa
cadere Lucia (').
Dire che «
la sven- ti) È
un vecchio appunto
del Tommaseo, ripreso
dal Bor- gognoni e
dal Luzio, ed
è un appunto
eh' io trovo
giusto, mal- grado la
difesa del Finzi,
Lezioni di storia
della lett. italiana,
IV, I, 407
segg. e quella
di Giov. Negri,
Commenti sui Promessi
Spori, Milano, 1903,
I. 184 n.
Anche il Vidari
(Op. ci?., p. 34) sentì
cotesta lacuna. Rkmkk
- Svayh i
Critici 10 I
PROMESSI SPOSI IX
FORMAZIONE « turata
tentò tutte le
strade per esimersi
dal- « l'orribile
comando »; sentenziare
che « il
de- « litto
è un padrone
rigido e inflessibile,
contro « cui
non divien forte
se non chi
se ne ribella
« interamente.» (cap.
XX), son cose
giuste e ben
dette; ma non
vediamo in esse
raffigurata la ma-
niera come una delinquente
per passione può
tra- sformarsi in una
traditrice cosciente. Nella
prima minuta Geltrude
vive sotto l'ossessione
di quella morta
deposta in cantina
sotto un mucchio
di sassi, la
povera conversa di
Meda. Egidio, di
ri- torno da un
colloquio avuto col
Conte del Sa-
grato (che sarà poi
l'Innominato), le promette
che, se ella
consente ad ingannare
Lucia, caverà il
cadavere da quel
luogo e lo
porterà lontano. La
Signora, che non
ama Lucia, perchè
quel can- dore le
è quasi un
perpetuo rimprovero, repugna
e resiste. Ma
il giovinastro la
circuisce con arte
infernale, si tinge adirato
e pronto ad
abbando- narla, le fa
balenare l'idea di
quella trucidata che
rimarrà là sotto
se ella non
cede, chiama in
soccorso le due
complici, più volgarmente
per- verse di Geltrude,
ed ottiene ciò
che vuole, anzi
ottiene più di
quel che vuole.
« Gertrude, avvezza
« ad essere
strascinata, e a
far sempre qualche
« cosa di
più di ciò
che sul principio
aveva ri- «
casato di fare,
rispose tosto che
pigliava essa «
l'impegno, che ne
aveva i mezzi
più di chic-
« chessia »
(p. 185). Persuasa
al tradimento, la
sua natura superba
vuol esserne, non
solo com- piacente intermediaria, ma
artefice diretta. In
questa parte l'abbozzo
completa magistralmente l'azione
del romanzo. I
l'HOMKSSI SPOSI IN
FORMAZIONE 147 Non
così si può
dire dello altre
parti do" Urani
ove ricompare la
Signora. Oziose le
cautele di lei
colle compagne e
col Guardiano dei
cnppuc- eini il'amico
di padre Cristoforo)
dopo il ratto
ili Lucia (pp.
208-10); poco opportuna
la dimanda che
a Lucia medesima,
liberata, muove intorno
alla Signora il
cardinale Federigo (p.
;i'22ì. 11 ri-
manente della lugubre storia,
fino al pentimento
dell'infelice monaca, anzi
sino alla morte
di Egi- dio, non
è nell'abbozzo (e
l'autore lo confessa)
che un compendio
della narrazione del
Ripamonti (pp. 192-95)
talora quasi tradotto
alla lettera; nè
mette conto di
occuparsene. Val meglio
il fugace accenno
inesso in boccanel
romanzo(cap.XXXVII) alla mercantessa
vedova, che Lucia
conobbe nel lazzaretto.
Quei fatti posteriori
non avevano che
vedere con l'azione
principale del romanzo.
Che in origine
gli ultimi casi
della suora fossero
« in- trecciati agli ultimi
dei due promessi
», e che
in nne del
romanzo, in luogo
del signor marchese,
ricomparisse Geltrude pentita
a chiedere perdono
a Lucia, sono
stranezze che poterono
essere as- serite con
sbalorditola sicurezza ('),
ma che pel
cervello di don
Alessandro non passarono,
la Dio mercè,
mai. * *
La penna del
romanziere corse troppo
nel rife- rire gli
strani discorsi che
la Signora usava
fare il) Da
F. P. Cesta
un, La storia
nei Proni. Sposi,
uel volume Studi
storici e letterari,
Torino-Eonia, 1804, pp.
288 e 810-11.
I PKliMJOsKl Sl'nsi
IX KUKMAZIOXK con
Lucia. Ve a questo
proposito un dialogo
sin- gola rissimo nei
Umili p|). ji)2-o9
, ove la
Signora s'abbassa al
pili ributtante cinismo
prendendo a difendere
Don Rodrigo e
dicendo alla semplice
conUidinella affidata a
lei : «
convien dire che
voi non abbiate
mai avuio chi
vi volesse male,
fiacche sentite tanto
orrore per chi
vi ha vo-
luto bene ». Par
di sentire il
Pisistrafo dantesco rispondere
alla moglie, che si lagnava
di chi aveva
abbracciato in pubblico
la loro figliuola:
Clic t'areni noi
a chi nini
ne (lenirà Se
; ma, conclude
con sopraffina malizia,
« si «
parla soltanto di
questo fatto, perchè
può dar «
luogo ad una
osservazione piccante: ohe
vi ha «
talvolta delle leggi
che non sono
eseguite » (pa-
gina 80). Spiace pure
alquanto che il
Manzoni abbia dato
di frego al
discorsetto con cui
la ba- dessa di
Monza rispose alla
domanda della gio-
vinetta Geltrude d' essere ammessa
nel chiostro: discorsetto
breve, ma forbito,
che le era
stato dato in
iscritto « da
un bell'ingegno di
Monza » e
che fece sorridere
di compiacenza le
suore, perchè «
la gloria del
capo si diffonde
sugli in- feriori »,
e lasciò il
popolo minuto, che
pure fu messo
alla porta poco
dopo senza cerimonie,
pieno d'ammirazione (p.
18). In quanto
a psicologia, il
Manzoni, ammonito più
di una volta
dall'amico Ermes Visconti,
le cui postille
all'abbozzo danno spesso
nel seguo ed
ebbero, di regola,
esaudimento, ha quasi
seni- I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
151 pi e
e con mano sicura migliorato
nella redazione stampata.
Il padre di
Geltrude è nell'abbozzo
un marchese Matteo,
più bonaccione, più
ignorante, più asservito
ai pregiudizi che
il principe del
romanzo. Il principe
ha ben altra
austerità im- periosa ed
esercita pei1 mezzo
di essa ben
diversa efficacia sulla
figliuola e sui
lettori. Maggior ri-
salto che nel romanzo
hanno invece nei
Brani (pp. 02-63
e 72-73) la
marchesa ed il
marchesino; i quali
poi, divenuti la
principessa ed il
princi- pino, perdettero di
significato pei' lo
meno quanto avevano
guadagnato di grado.
Nè fu gran
male: cosi campeggiano
meglio le due
figure capitali, il
principe e la
figlia. Del resto,
quella marchesa era
tale pupattola, da
non sentirne punto
la man- canza :
figuratevi che nel
ritorno da Monza,
dove Geltrude era
stata con tanta
pompa presentata al
convento, essa riuscì
a dormire placidamente
« malgrado i
trabalzi che una
carrozza di quei
c tempi dava
in una strada
di quei tempi».
Di materno non
le era rimasto
assolutamente nulla. Il
prete esaminatore e
nei Brani (pp.
92-93) troppo buon
uomo, e forse
in virtù d'una
giusta osservazione del
Visconti divenne l'uomo
dabbene del romanzo,
che è più
a suo posto.
Geltrude è, nè
più nè meno,
ciò che sarà
Ger- trude nel romanzo:
lo scrittore la
concepì di getto
sull'arido fondamento di
poche frasi latine
del Ripamonti. Solo
nell'abbozzo è più
spiegata la vanità
di Geltrude, e
là dove il
romanzo con- densa tutto
in una frase
dicendo « idolatrava
in- sieme e piangeva
la sua bellezza
», qui invece
152 I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
è detto come
la idolatrasse e
come la piangesse
(pp. 101-103). Fu
osservato che il
Manzoni, cosi sobrio
e riguardoso nel
descrivere donne giovani,
solo della monaca
scrisse che avea
la persona ben
formata La tormeutatissima descrizione
dell'abbozzo (pp. 21-24)
dice poco di
più, ma si
trattiene sul muoversi
e sul gestire
di quella in-
felice, che alla fantasia
del Manzoni richiama
certe parodie di
monache sulla scena,
in paesi non
cattolici. Un vizio,
invece, che la
Signora ha nell'abbozzo,
e che le
fu tolto con
ragione, è di
alludere continuamente a
sè, ai propri
casi, alla propria
vocazione forzata. Sin
dal primo momento
in cui parla
ad Agnese e a Lucia,
completamente estranee, esce
in una sfuriata
con amarissimi accenni
al destino pro-
prio (pp. 29-30), e
poi seguita su
questo tono spessissimo,
il che è
fuori del verisimile.
In luogo più
acconcio che nei
Brani è posta
nel romanzo la
guerricciuola pettegola fra
educande, nella quale
le compagne di
Geltrude si vendicano
della sua superiorità,
vantando il proprio
avvenire nel secolo
e spargendo il
ridicolo sul suo
futuro im- pero di
badessa ; ma
qui è andata
perduta una perla
d'osservazione psicologica, racchiusa
in questi termini:
« Geltrudina non
poteva rivol- «
gere le stesse
armi contro le
avversarie, perchè «
le ricchezze e
la voluttà non
sono di quelle
« cose delle
quali si ride in questo
mondo. Si «
ride bensì di
chi le desidera
senza poterle ot-
ti) F. Romani, Ombre
e carpi, Città
di Castello, 1901,
p. 73. I
PROMESSI SPOSI IN"
FORMAZIONE 153 tpnere,
e di chi
ne usa sgraziatamente; e
questo ridere mostra
l'alta estimazione, in
cui sono «
tenute le cose
stesse. Quei pochi
che non le
c stimano, non
esprimono il loro
giudizio con la
derisione » (p.
39). * •
In conclusione, adunque,
nella prima stesura
dell'episodio della Signora
sono sviluppate due
scene, quella dell'
uccisione della conversa
di Meda e
quella del dialogo
con Egidio, che
gio- vano alla motivazione
intima del tranello
teso u Lucia
e potevano rimanere,
sia pure modifi-
cate, nel romanzo. Il
resto si può
dire quasi tutto
ridotto in meglio
nella redazione definitiva,
e i tagli
della storia ulteriore
di Gertrude, compen-
diosamente esposta
nell'abbozzo, sono pienamente
giustificati. Certamente i
casi di Virginia
de Leyva, quali
risultano dal processo,
sono d'una drammaticità
prepotente (*). Quella
specie di tristissima
sug- gestione che esercita
l'Osio su di
lei; l'agonia di
quell'anima, che vorrebbe
ribellarsi e non
può; il peso
di complicità abominevoli
e di delitti
or- rendi; la tabella
votiva inviata, dopo
il primo aborto,
da Virginia alla
Madonna di Loreto
perchè la liberasse
dalla colpa ruinosa; le
ripetute ansie della
maternità; quella bambina,
legittimata po- (1)
Sintesi efficace ne
dà il Luzio,
Manzoni e Diderot,
pa- gine 19-27. 154
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE scia
dall' Osio con un
sotterfugio giuridico nel
ItiOO, che veniva
al convento ed
era colmata di
carezze dalla Signora,
presenti e non
ignare le monache;
sono tutti particolari
di altissimo va-
lore psicologico, da tentare
un artista. Il
Man- zoni dapprima li
ignorò: in seguito,
saputili, non se
ne valse. L'episodio,
di cui s'era
invaghito, aveva già
troppo il carattere
di un romanzo
nel romanzo; e
perciò l'amico Fauriel
consigliava di sopprimerlo.
A questo partito
radicale l'autore non
seppe decidersi, ma
ne eliminò una
parte, ne eliminò
anche troppa parte.
Perchè? Possibile che
il romanziere non
siasi avveduto essere
quelle due scene
rappresentate con plasticità
geniale, più utili
all'azione prin- cipale che
quella lunga preparazione
remota, per cui
Geltrude divenne monaca
contro voglia e
spergiura e complice
d'omicidio? Se si
doveva adoperare il
ferro chirurgico sulla
carne viva del
magnifico episodio, perchè
rispettare tanto ciò
che era più
lontano dalla storia
dei due sposi,
il lento ed
inevitabile pervertimento, mentre
spie- tatamente si recidevano
le circostanze essenziali
del primo delitto
e gli stimoli
irresistibili al se-
condo ? Bisogna pur
pensare che gli
scrupoli religiosi di
mons. Tosi avessero
qualche presa sull'animo
del Manzoni. E
vero che nella
prima stesura aveva
messo le mani
innanzi dicendo :
« il Ri- « pamonti
racconta di questa
infelice cose più
«forti di quelle
che siano nella
nostra storia; «
e noi ci
serviamo anzi delle
notizie che egli
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE 155
ci ha lasciate
per render più
compiuta la storia
« particolare della
Signora. Queste cose
però, * quantunque
rese più che
probabili da una
tale « testimonianza, e
quantunque essenziali al
filo « del
nostro racconto, noi
le avremmo taciute;
« avremmo anche
soppresso tutto il
racconto, se «
non avessimo potuto
anche raccontare in
pro- li presso un
tale mutamento d'animo
nella Si- «
guora, che non
solo tempera e
raddolcisce l'im- «
pressione sinistra che
deggiono fare i
primi fatti «
della Signora, ma
deve creare una
impres- « sione
d'opposto genere e
consolante » (p.
33). Questa giustificazione etica,
ricercata nella esem-
plarità finale di quell'intermezzo storico,
indusse forse la
coscienza del Manzoni
a non sopprimere
di sana pianta
quei due capitoli
che tanto gli
piacevano; ma rimaneva
pur sempre il
pericolo di eccitare
soverchiamente, con rappresentazioni vivaci,
il raccapriccio dei
lettori per scene
pur troppo seguite
in un luogo
sacro, tra quelle
che avrebbero dovuto
essere le spose
del Signore. Chi
sappia ciò che
il Manzoni pensava
a questo proposito
troverà per avventura
in questo timore
la ragione sufficiente
della mutilazione. I
suc- cessivi portamenti della
Signora non avevano
relazione diretta con la favola
principale del ro-
manzo, e furono eliminati;
le due scene
di cui non
si poteva far
senza furono ridotte
con tanta arte,
che la fantasia
dei lettori potesse
colmare la loro
misteriosa indeterminatezza. Così
si taci- tavano gli
scrupoli e si
ubbidiva anche un
poco alle esigenze
dell'economia del libro,
alle quali I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE per altro
don Alessandro non
era disposto a
sacri- ficare troppo lesile
personali inclinazioni e i suoi
gusti. Si tenga
presente che, malgrado
tutti i con-
sigli ed i consiglieri,
il vero od
assoluto arbitro nell'opera
propria rimase pur
sempre lui. II. L'Innominato.
Francesco Bernardino Visconti
di Brignano fu
senza dubbio una
gran canaglia; ma
una cana- glia che
avea certa signorile
alterezza, per cui
non tollerava uguali
ma voleva soggetti,
anche fra i
suoi alleati di
scelleraggini, presso i
quali, come presso
i veri sudditi,
esercitava il pre-
stigio di un coraggio
a tutta prova
e di quella
specie di magnanimità
che non mancò
talora ai più
feroci briganti. Tale
il Ripamonti, senza no- minarlo, lo
descrive; e dice
di aver conosciuto
lui, come la
Signora, già vecchio
e volto a
nuovi pensieri per
l'eloquenza, narravasi, del
card. Fe- derigo, che
avea trovat o la
via del suo
cuore, pervertito, non
guasto. Anche in
quella sua verde
vecchiezza, fa capire
l'annalista, serbava i
ve- stigi dell'antica imperiosità;
ma questa sembrava
piegata a forza,
da un'altra volontà
intima, a mansuetudine.
Nelle frasi incisive
del Ripamonti, l'Innominato
v'è già tutto;
e si delinea
persino quella specie
di sdoppiamento spirituale
che il Manzoni
sviluppò in un
cosi splendido saggio
di analisi. I
PKOMKSSI SPOSI IN
F0K.MAZ1ONK lf>7 Ma
non subito trovò
la sua via,
e, caso sin-
golare, dapprima si scostò
dalle linee severe
trac- ciate dal Ripamonti,
poi vi tornò
grado a grado.
(Questa tigura fu
una delle più
tormentate del libro:
don Alessandro la
rifece tre volte,
perden- dosi nella seconda
a contare di
molte prodezze delittuose
dell'Innominato e a
sciorinare consi- derazioni storielle generali
su quella specie
di tiranni, che
la dominazione spagnuola
in Lom- bardia era
costretta a tollerare
('). Nel primo
abbozzo, l'Innominato ha
un nome, o,
meglio detto, ha
un nomignolo, datogli
per certa sua
ribalderia brigantesca riinasta
celebre, l'aver freddato
di pieno giorno,
di piena festa
anzi, sul sagrato
d'unii chiesa, mentre
ne uscivii con
altri, (1) Vedasi
lo squarcio della
seconda minuta opportuna-
mente riferito in appendice
dallo Sforza, Brani,
591 segg. Anche
là il Manzoni
era costretto a
scusarsi per le
digres- sioni generiche, e
nella scusa fa
capolino il suo
solito esa- gerato scrupolo di
storico, che se
in tanti casi
giovò alla grandezza
del suo libro,
in altri, è
forza ammetterlo, grave-
mente gli nocque: «
Vorrei poter risparmiare
al lettore tutte
■ queste notizie
e riflessioni generali
su le opinioni,
gli usi, ■
le istituzioni di
que' tempi, e
condurlo speditamente di
fatto ■ in
fatto fino al
termine della storia;
ma i fatti
che mi tocca
■ di raccontare
sono talvolta cosi
dissimili dall' andare
co- ■ mune
dei nostri giorni,
così estranei alla
nostra esperienza, «
che, a dar
loro un certo
grado di chiarezza,
mi par pure
indispensabile di spiegare
alquanto lo stato
di cose nel
quale ■ e
pel quale potevano
essere. Altrimenti, a
quelli che non
■ hanno fatto studi
particolari sopra quell'epoca,
sarebbe come presentare
un osso di
questi animaloni di
razze per- dute, senza
dare un. po' di descrizione
dello scheletro, o di ■
quel tanto che
si è potuto
trovare e mettere
insieme, per ■
la quale si vegga come
quell'osso giaceva • (p. GCM).
11)8 I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
untale elio aveva
usato resistere alla
sua pre- potenza. Quel
delitto, compiuto con
truce sangue freddo
(pp. 144-149), gli
guadagnò la designazione
di Conte del
Sagrato. Il Conte
del Sagrato differisce
assai dall'Inno- minato: di
gran lunga più
turbolento, egli manca
quasi interamente di
generosità; è un
delinquente triviale, una
specie d i Egidio
elevato alla terza
potenza. Quando il
timido cappellano crocifero
chiama nel romanzo
l'Innominato « appaltatore
di delitti» (*),
c'è da giurare
che tale designa-
zione colorita spettava al
Conte del Sagrato,
me- glio che quella
d' « intraprendi tore di
scellera- tezze », che
è nei Brani
(p. 150). II
Conte vende la
sua potente mediazione
delittuosa a suon
di doppie, e
guai a chi
non paga con
scrupolosa puntualità! Egli
non ammette dilazioni;
presso un abile
mercante della sua
risma, quelle son
cambiali che vanno
in protesto, e
l'avviso del protesto
potrebbe anche essere
un'archibugiata nella schiena.
Pel ratto di
Lucia, impresa piena
di pericoli, chiede
dugento doppie; e
don Ro- drigo, se
anche a malincuore,
deve striderci. L'idea
del mercato fa
capolino ogni momento
e volgarizza tutto.
Volgari, sebbene efficaci
sono i colloqui
del Conte con
don Rodrigo e
con Egidio, ridotto
il primo ad
un breve cenno,
l'altro sop- presso nel
romanzo nel pensiero
e nell'espres- (1)
Ediz. Petrocchi, p.
552, cap. XXIII.
(2) In fondo
al colloquio con
Egidio trovi un
tratto umo- ristico, che
va rilevato. Dice
il Manzoni che
« uno dei
molti « vantaggi
dei lettori di
storie » è
« il sapere
certe cose igno-
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE 159
sione il Conte
è un vero
soldataccio, e tale
resta anche al
cospetto del card.
Borromeo, sebbene vada
a lui (cosa
estremamente inverosimile) con
mezza voglia di
convertirsi (p. 235).
Figuratevi clic appena
introdotto al suo
cospetto, prende a
dir ira di
Dio dei preti
e poco manca
non gli esca
dalla strozza un
moccolo! (pp. 258
59). Anche dopo
la conversione, nella
celebre cavalcata con
don Abbondio, il
Conte appare alquanto
rozzo, e non
ancora del tutto
spoglio dall'abito consueto
della violenza. Bellissima,
pur nel primo
getto, la scena
del Conte che
notifica il suo
mutamento ai bravi
e ai domestici;
ma ben lontana
dalla solennità sublime
che la medesima
scena assume nel
romanzo, ove la
superiorità tutta morale
del- l'Innominato su quella
ciurmaglia risplende lu-
minosa. Poco mi garba
veder nei Brani
quel povero Conte
che si sottopone
a una specie
di vili crucis,
e non contento
del colloquio, che è qui
duplicato, col cardinale,
non pago alle
refe- zioni che prende
secolui, lo segue
in ogni sua
tappa, sicché nel
più bello lo
troviamo (indovi- nate?! nella
cucina di Perpetua!
Decisamente quel povero
Conte non sa
essere signore, nè
prima della conversione
nè dopo. In
luogo del semplice
e toccante «perdonatemi», pronunciato
quasi timidamente da
quel potente, nella
stesura defi- ■
rate dai personaggi
più importanti di
esse ; il
veder chiaro ■
dove i più
accorti ed oculati
personaggi camminano all'o-
■ scuro :
vantaggio che dovrebbe
ispirare ad ogni
lettore ben- ■
nato molta riconoscenza
a coloro che
glielo procurano, che
■ alla fin
line sono gli
scrittori di quelle
storie • fp.
1&>). ItiO I
PROMESSI Ml'OSI IN
FORMAZIONE nitiva, quando
va a liberare
Lucia; nella prima
minuta il Conte
va in piena
forma a chiedere
perdono a Lucia
nella sua casetta
natale, e in
persona regala alle
donne dugento scudi
d'oro, mentre nel
romanzo ne manda
cento con una
lettera. Meno liberale
del suo, ma
più dignitoso. Altra
umiliazione, che nel
romanzo fu tolta
a buon diritto,
perchè non ha
punto punto del
si- gnorile, è che
quando, per fuggire
l'invasione dei lanzi,
tre dei personaggi
del romanzo, che
tutti sanno quali
siano, si ricoverano
nel castello del
Conte, questi è
costretto, per mancanza
di posto, a
cedere il proprio
letto ad Agnese
e ad andare
lui a dormir
sulla paglia (p.
456). Inoltre, quel
Conte convertito dà
talora un po'
troppo nel sem-
plice. Con don Abbondio
egli aveva bazzicato
assai più di
quel che facesse
l'Innominato, ep- pure, sembra,
non s'era per
nulla accorto con
che razza di
pulcin bagnato egli
avesse a che f
are. Infatti, quando
il povero prete
viene pien di
sospetti al suo
castello per ricoverarvisi
con le due
donne, egli non
esita, il Conte,
a pregarlo di
« animare questa
buona gente alla
difesa della *
vita di tanti
deboli, della pudicizia
di tante « donne »,
e di *
assistere quelli fra
noi che la- « sciassero
la vita in
questa impresa di
miseri- « cordia»
(p. 4oò). Che
dica per burla,
non consta, e
non sarebbe in
carattere; se dice
da senno, deve
avere avuto chiusi
gli occhi e
gli orecchi, tutto
assorto nella sua
santità nova, quell'uomo
ch'era pur avvezzo
a praticare con
tanti e a
legger loro nell'anima.
Allorché don Abbondio,
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE 161
nel suo segreto,
gli risponde «
un corno »
; non sappiamo
se sia più
comica la situazione
di chi risponde
a questo modo
o quella di
chi avea fatto
proprio a lui
la strana proposta.
Nè si creda
che questa diversità
d'indole, di modi e di
educazione del Conte
del Sagrato sia
solo limitata a
fatti secondari. Essa
viene ad intaccare
la compagine stessa
di quel carattere,
in quella crisi
massima della sua
esistenza, che è
la conversione. Nella prima
minuta il Conte
ha 50 anni,
mentre nel romanzo
l'Innominato ne ha
60. Dieci anni
sono molti quando
il mezzo del
cammino è oltrepassato
da un pezzo.
Infatti nei Brani
non hai quella
specie di malaise
nel delinquere, che
proviene dall'età e
dal conse- guente appressarsi della
morte ('), e
non hai nep-
pure quello sdoppiamento dell'io,
meravigliosa- mente dipinto nel
romanzo, che prepara
la con- versione, e
su cui il
Graf scrisse parole
d'oro (*). «
Quel nuovo lui,
che cresciuto terribilmente
a « un
tratto, sorgeva come
a giudicare l'antico
» (3), è il vero
autore della conversione;
la presenza di
Lucia, il discorso
eloquente del mite
Federigo, (T) Ciò
avrebbe garbato al
Finzi, Lezioni, IV,
I, 40i, a
cui sembra ■ inn
attirale nel rispetto
dell'arte» quell'Inno- minato che
già sin dalla
presentazione è «
prossimo a bat-
tere la via di
Damasco • . Non
si può negare
che qualche ra-
gione possa averla anche
il Pinzi; ma
della psicologia della
conversione, rispetto alla
quale il Manzoni
aveva principi suoi
ed era maestro,
quell'egregio critico non
si è curato.
c2) Foscolo, Manzoni
e Leopardi, Torino,
1898, pagine 118,
l'20, 130. Cól
Ediz. Petrocchi, p.
515, cap. XXI.
Ee.iier - Svaghi
Critici 11 liC'
I PROMESSI Sl'DSJ
IX FORMAZIONI-: non
sodo causo, ma
occasioni. Sono occasioni
vo- lute dalla Provvidenza,
la quale opera
il mira- colo in
quell'ordine appunto che
è consono alla
icona della (inizia,
online chiaramente rappre-
sentalo nella Scrittura ('>.
Che l'operazione della
(ìrazia corrisponda appieno
alle esigenze della
psicologia, non è
meraviglia: ma pel
i-redente la conversione
non può esser
altro che un
mi- racolo: ed il
Manzoni più d'ogni
altro se lo
sapeva, egli che
d un miracolo
siffatto credeva d'aver
ricevuto la ( ìrazia.
Ora la lettura
di quelle im-
portantissime pagine della minuta,
che ritraggono i
pensieri e le
operazioni del Conte
del Sagrato, ci
svelano un particolare
degnissimo di nota.
Questo. Che il
Manzoni, nella trattazione
alquanto grossolana del
personaggio che gli
usci dalla mente
e dalla penna
nella prima stesura,
non pensò a
motivare secondo gli
studi scritturali il
gran mutamento del
Conte. Solo in
seguito, col continuo
pensarci su, egli
s'avvide della minor
logica della trasformazione, e
ci diede quella
con- seguente e vivissima
rappresentazione di una
co- scienza morale che si ridesta,
per cui la
storia dell'Innominato è
tra le più
profonde concezioni dei
PromessiSpasi. ili Alquanto
prolissi e talora
sin troppo sottili,
ma sostan- ziosi e
d'innegabili- valore sono
in proposito i
due saggi re-
centi di Gimv. Xkivki,
La cOìtrerxioHe iìe/PJtiuominnto e il ron-
filo ilclln Uraz'w e
Se la eonfc
salone il eli'
Iiinomhia'o fu prr
il Manzoni mi
miwofo, nei cit-
Commenti, voi. II.
Panni cIih il
Negri abbia ben
risolto il quesito,
intornu a cui
erano discordi il
Graf e il
D'Ovidio. I l'Ko.MtlsSI
smisi IN I-
che quella lolla
benediva acciò se
ne andasse ed
era troppo -.alito
per mandarla, invece,
a tarsi benedire)
fu costretto a
rompere il digiuno
in pubblico con
mi lezzo di
pane ed un
bicchiere d'acqua. Per
un principe della
Chiesa non c'era
male! Il Man-
zoni non fece forse
benissimo trascurando, per
isiudio di brevità,
quest'aneddoto: mentre operò
-augii-unente troncando l'indagine
dei motivi per
cui Federigo, pur
avendo scritto tante opere,
non .■i.iiM'gui celebrità
letteraria. Chi voglia,
può leg- gere quei
motivi nei Brani
pp. 241 e
segg.ì, ma non
vi apprenderà nulla
di peregrino. Lucia
è in questa
parte della prima
minuta meno soavemente
mansueta che nel
romanzo, anzi a
volte ò un po' imperiosa
e stizzosetta. specialmente
con la vecchia
a cui il
Conte l'ha ci
Dimessa in custodia.
Curioso è il
notare che in
quel forzato sodalizio
di Lucia con
la vecchia, il
Manzoni si era
del tutto scordato
di far por-
• I PROMESSI
SPOSI I\ FORMAZIONE
tare un po'
di cena, di
che lo avverti
il Visconti (p.
224 il), ed
egli ne fece
poi quella squisita
minia turi uà eh'
è nel
romanzo. La vecchia,
del resto, è
qui più sordida
che nel romanzo,
più volgare essa
pure, come il
suo padrone; il
Man- zoni ha tratti
di crudo realismo
quando più tardi
la fa pacchiare
e trincare (pp.
285-87), ma c'è
da averne rivoltato
lo stomaco. Una
persona che si
può dir nuova
è il curato
di Chiuso, giacché
il paese ove
segui la conver-
sione del Conte (paese
che nel romanzo
non ha nome)
è veramente Chiuso,
come suppose il
bravo Bindoni (l).
Nella redazione definitiva
quel cu- rato è
un prete dabbene,
zelante, ma molto
co- mune, al punto
che lo scrittore
lo chiama una
volta scherzosamente «
guastamestieri » perchè
non ò atto
ad intendere la
sublime umiltà del
cardinale (2). Nella
prima minuta era
addirittura un mezzo
santo, tantoché la
sua riputazione era
diffusa ed esaltata
nei villaggi circonvicini.
Ap- pena Lucia, liberata
dalla prigionia del
Conte del Sagrato,
sente dire che
si va a
Chiuso : «Chiuso,
esclama, dov'è quel
buon curato !
an- diamo, andiamo »
(p. 295). Difatti
il Manzoni, con
insolita solennità, ci
dice che si
chiamava don Serafino
Morazzone (p. 267)
(3), « uomo
che fi) La
topografia dei Promessi
Sposi, voi. I,
Milano, ltìOo, pp.
145 segg. (2)
Ediz. Petrocchi, p.
62fi, cap. XXIV.
(3) Altrove Merazzoni.
« La Tigna
di quel liuou
prete Me- ■
razzoni era tanto ben coltivata,
che aveva poco
bisogno 7 protezione
f1). A un
certo punto del
dialogo il Conte
perde la pazienza
e scatta: «
Al diavolo «
anche V amparo... . tenga
queste parolacce per « adoperarle
in Milano con
quegli spadaccini im-
« balsamati di
zibetto, e con
quei parrucconi impostori,
che non sapendo
essere padroni in
« casa loro,
si protestano servitori
d'uno spa- •
gnuolo infingardo Intendiamoci fra
noi da «buoni
patriotti, senza spagli
uolerie » . Il
(ìraf, rammentando questo
passo (2), osserva:
« Chi •
ha orecchie intende;
e la censura
austriaca, « se
non aveva molto
cervello, aveva ottime
« orecchie ».
Vero; ma non
questo certo fu
il motivo per
cui il Manzoni
soppresse il colloquio.
Sentimenti patriottici erano
assai mal collocati
in bocca a
uomini come il
Conte del Sagrato
e sarebbero stati
altrettanto male in
bocca all' In- nominato. La
censura austriaca ne
avrebbe riso maliziosamente, come
d'una mossa poco
accorta, e l'avrebbe
reputata, per gl' italianamente pen-
santi, un tirar sassi
in colombaia. Il
Manzoni vide a
tempo la poco
opportunità di quell'at-
teggiamento, e lo tolse.
L' exjMiinoì de Manzoni,
in Bulletin i/alien,
voi. I, 1901,
pp. 20G sgg-
Vedi anche Eugenio
Memì, Spegnitoio, Spagnolismo
e Spagna nei
« Promessi Sposi*,
in Fan filila
della domenica, l'i
e 19 luglio
1908. Cll La
voce amparo è
rimasta anche nell'arguta
introdu- zione al romanzo
«sotto l' amparo del
Re Cattolico nostro
Signore ». i'2i
In un articoletto
del giornale La
Stampa di Torino,
G nov. 1904.
168 I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
Così pure soppresse
la morte del
Conte di peste,
« contratta uelì'assistere i
primi appestati »
(pa- gina 558). Sarebbe
stato un doppione
della morte d'
un altro convertito,
padre Cristoforo, e ciò che stava bene
al cappuccino disdiceva
alqua nto ad
un laico gran
signore, per quanto
inoltrato sulla strada
del paradiso. *
Angelo De Gubernatis
scrisse anni sono
che l'episodio dell'Innominato «
poco mancò non
di- ventasse il pernio
di tutta l'opera
», e affermò
più oltre, rincarando
la dose, che
quella figura doveva
essere, in origine
« il centro
di tutto il
poema o romanzo
» (')■ Questa
ipotesi assunse maggiori
proporzioni nel noto
scritto del Cestaro,
ove si legge:
« Il voto
è la catastrofe
religiosa « dei
Promessi Sposi. Forse
n'era veramente la
« catastrofe, insieme
con la conversione
dell' In- « nominato,
che, nel primo
abbozzo del romanzo,
« ne doveva
essere il protagonista.
E forse allora
« i casi
dei promessi non
formavano che l'azione
« secondaria; il
ratto di Lucia
doveva se rvire «
alla grande opera
della conversione; e,
l'In- « nominato
un santo, Lucia votata
alla madonna, «Renzo,
chi sa? converso
nel convento di
tra « Cristoforo,
tutto finiva con
grande consolazione « del vescovo
Tosi, ad majorem
dei gloriarti »
(*). C'è da
trasecolare! (lj Alessandro
Manzoni, Firenze, 1879,
pp. 221 e
228. (2) Nei
cit. Sludi storici
e letterari, p.
28fl. I PROMESSI
SPOSI IV FORMAZIONE
109 Dicesi che
le bugie, in
genere, hanno le
gambe corte; ina
per opposito, in
letteratura pare le
abbiano, anzichenò, lunghe.
Cotesta, infatti, del-
l'Innominato primo
protagonista dei Promessi
Sposi, sebbene di
per sè inverosimilissima e
non confortato da
veruna prova di
fatto, si fece
strada e fu
ripetuta da diversi,
persino in libri
scola- stici. Sembra che
ad arrestarne la
voga non ser-
vissero neppure attestazioni in
contrario venute da
persone che col
Manzoni convissero o
con- versarono, e dalle
sue labbra udirono
qual fu e
come gli venne la prima
idea del romanzo.
La grida del
ló ottobre 1627,
firmata da don
Gonzalo Fernandez de
Cordova, governatore di
Milano, quella stessa
che il dottor
Azzeccagarbugli mette «otto
gli occhi al
buon Renzo e
in cui si
parla, tra l'altro,
di pene comminate
a chi impedisca
matrimoni e al
« prete non faccia quello
che è obbligato
per l' ufficio suo
», gli fece
balenare alla mente
l'idea d'un racconto
storico, avente per
soggetto un matrimonio
contrastato « e
per finale grandioso
la peste che
aggiusta ogni cosa»
('). Il caso
dell'Innominato, come quello
della Si- gnora, gli
si fece innanzi
più tardi, studiando
il Ripamonti, e
sin da principio
l' uno e l' altro
dove- vano entrare nella
storia come narrazioni
epi- sodiche. Oggi il
fatto, attestato da
testimoni de audita,
è luminosamente confermato
dalla cono- scenza che
abbiamo fatta con
la prima stesura
del libro. E
questo fia suggel,
con ciò che
segue. (li S.
Stampa. Alessandro Manzoni,
I, (iO, II,
87 e 141;
Faiihis, Memorie manzoniane,
p. 102. 1.
Nella mi- nuta vi
giunge « a
notte già fitta
», e la
sgridata se la
busca. IL (iuardiano,
sebbene fosse «
con- « tento
in fondo del
cuore che il
padre Cristo- «
foro avesse commesso
un mancamento »,
gli fece il
viso serio e
gli indisse una
penitenza. « Un
lettore di otto
anni (aggiunge argutamente
« il Manzoni^
potrebbe qui domandare:
perchè « faceva
il volto serio,
se era contento?
e gli si
« risponderebbe, che
appunto era contento
perchè « il
padre Cristoforo gli
aveva dato il
diritto di (1)
EJiz. Petrocchi, j>.
128. cap. VII.
I PROMISI SPOSI
IN" FORMAZIONE 171
« fa rirli il
volto serio ».
Tutta la scenetta
(pa- gine .")li5-ii9i è
deliziosa, e non
si può pensare
i-ho Io scrittore
l'abbia elimina fa
se non per
un corto scru polo
religioso. Che non
rutti i religiosi
t'(isscr«i della tempra
ili patire Cristoforo,
eirli lo taceva
capire abbastanza con
altre figure fra-
tesche assai meno elevate
della sua: spinger
roc- chio di linee
nelle invidiuzze pettegole
che al- lignavano alla sordina
tra le cocolle
ed a cui
non si sottraevano
i superiori, gli
sembrò forse libertà
soverchia. Bastava la
scena indimentica- bile del
cull0(]uiu tra il
conte zio ed
il padre provinciale
u-ap. XIX i, colloquio
ch'ebbe per effetto
di far andare
fra Cristoforo a
piedi da Pescarenico
a Rimini «
che è una
bella pas- -i
ggiata »: ma
in origine troppo
era maggiore, perché
il monaco venia
sbalestrato a Palermo i,
per mostrale la
pieghevolezza ossequiosa dei
frati posti più
in alto verso
la mondanità po-
tente. Padre Cristoforo
guadagna sempre più
in di- luirà ed
in fervore nelle
successive elaborazioni ■
Iella materia. La
grandiosità santa della
sua ti- irura
silicea particolarmente là
nel lazzaretto, presso
don Rodrigo agonizzante.
Scena molto diversa
india prima minuta,
ove quel prepotente
non è lasciato
nel suo giaciglio
di dolore, mentre
il cappuccino e
gli sposi promessi
pregali por lui:
ma invece appare
in un momento
d'insen- sato furore, seminudo
e coi capelli
rabbuffati, e si
slancia su d'un
cavallaccio dei monatti,
e fugge fugge
pazzamente, tinche precipita
morto 172 I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE (pp. 538-43).
Fosca scena, satura
di terribilità tragica,
che attrasse l'attenzione
dei manzonisti sino
da quando poterono
conoscerla nel primo
volume degli Scritti
postumi. Se il
Manzoni si decise
a mutarla di
sana pianta, lasciandone
appena una traccia
in altro luogo
('), dovette certo
avere i suoi
buoni motivi. Più
d'uno cercò* d'indovinarli. A
me pare che
anche qui preva-
lessero una ragione estetica
ed una religiosa
: la ragione
estetica è che
quella molte, sebbene
poe- ticamente trovata, avea
troppo del colpo
di scena, e
don Alessandro aborriva
dagli effetti, da
ciò che chiamava
« battere la
gran cassa »
la ragione religiosa
è che quella
morte da disperato
non lasciava adito
alla speranza di
pentimento negli ultimi
istanti, pent imento che
poteva es- sere impetrato da
Dio per mezzo
di coloro ap-
punto a cui quel
prepotente vigliacco aveva
fatto più male
(3). Chi sin
del primo getto
fu quell'impagabile tomo
che tutti conoscono,
ò don Abbondio.
Egli (1) Allorché
Renzo entra nel
lazzaretto, vede un
cavallo fuggente spinto
da un cavaliere
frenetico (capitolo XXXIX).
Come nota lo
Sforza (Sfrìtti pontumi
di A. Manzoni,
I, 124 1, quella
scena si ficcò
nella mente di
Emilio Zola, cosi
incline al terribile
e al raccapricciante, e
non ne usci
più. Il Pre-
viati (p. 555
della edizione maggiore
hoepliana) cercò ridarla;
ma Ti riusci
poveramente. (2) Parole
del Manzoni riferite
dallo Stampa, I,
57. (3) Bene
sviluppò questo concetto
A. Eòndani, in
un arti- colo ove
parla di più
altre cose : Una variante
del Manzoni circa
la morte di
don Bodrigo, in
Natura ed arte,
XII, 1903, nn.
4 e 5.
Cfr. specialm. p.
311. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
173 ebbe intorno
molto meno concieri
di ogni altro,
sebbene all'artista sommo
che lo creò
sia avve- nuto dapprima
di caricarlo un
po' troppo. La
più parte dei
tratti tolti via
hanno essi pure
gran sapore di
comicità, perchè quella
figura il Man-
zoni non riusciva a
toccarla senza farne
sprizzare le più
amene trovate che
imaginar si potessero.
Ameno è don
Abbondio alla mensa
del Conte del
Sagrato, allorché il
territorio circostante è
tutto invaso dai
lanzichenecchi, ed il
povero cu- rato, con
quel po' po'
di tremerella addosso,
è costretto a
fare il disinvolto,
a mangiare ed a ridere
(p. 458j. Più
ameno è don
Abbondio pre- dicatore, con
tutte le sue
cautele di dire
e non dire,
e con l'abile
conciliazione degli interessi
dell'anima e dei
parocchiani con quelli
del corpo e
della sua particolare
tranquillità d'uomo timido
p. 464). La
conversazione di Renzo
rimpatriato, dopo vinta
la peste, e
don Abbondio, che
pur n'è scampato,
è nel cap.
XXXIII del romanzo
un gioiello; ma
non lo era
punto meno nell'ab-
bozzo, anzi arricchiva don
Abbondio di qualche
tratto d'egoismo e
di comicità poi
scomparso (pp. 49Ó-99).
Qui Fermo (che
sarà poi Renzo)
non incontra il
suo curato per
via « portando
il bastone come
chi n'è portato
a vicenda »;
ma lo vede
ad una finestra
della canonica. Nel
vano egli scorge
« un so
che di bianco
giallastro in «
campo nero, una
figura immobile, appoggiata
* ad un
lato della finestra.
Era don Abbondio
« in persona,
e "ad una
certa distanza poteva
« pa i-ere un
vecchio riti-atto di
qualche togato, 174
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONI? «
scialbo per natura,
per l'arte del
pittore e per
« l'opera del
tempo, appeso di
traverso fuori al
« muro, perla
buona intenzione di
ornare qualche «
solennità ». Il
dialogo segue tra
il prete che
è alla finestra
e Fermo che
è sulla via.
Questa scena inette
capo ad un'altra
variante segnalabile. Nel
romanzo Renzo non
trova Agnese nel
villaggio natio, perchè
essa si è
recata presso certi
suoi congiunti, a
Pasturo nella Valsassina,
sicché il bravo
giovinotto la rivede
solo dopo che
ha trovato Lucia
e può recarle
la buona novella
(cap. XXXVII). Nella
minuta invece Agnese
non s'è mossa,
ed avendo fino
allora evitato il
contagio, vive con
grandissime pre- cauzioni. Fermo la
rivede ed ha
secolei un col-
loquio i pp. 499-505;,
di cui nel
testo definito do-
vea sparire ogni
traccia. Qualche diversità
nel carattere di
Lucia ho già
notato. Il i-atto
di lei è
rappresentato con perfezione
di gran lunga
minore nei Brani.
Con singolare inverosimiglianza, i
falsi forestieri in-
vitano Lucia ad accompagnarli
in carrozza per
meglio indicare loro
la strada di
Monza (p. 201),
e quel che
più importa, lo
strillo acuto della
fanciulla rapita è
udito da contadini
che lavo- rano nei
campi circostanti, e se ne
fa poco ap-
presso un gran cicalare
pei' Monza, e le fantasie
riscaldate ne inventano
di carine. Anche
in que- sto sviluppo
del fatto, che
al Manzoni sembrò
meno opportuno in
seguito, sicché lo
tolse, v'è quel
senso vivo e
sperimentale della realtà,
che in lui
siam soliti ad
ammirare. Le esagerazioni I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE 175 e
le .storture della
voce pubblica furono
delle più buffe
(J); sinché un
cagnotto di Egidio
non ebbe rimesso
le cose a
posto, facendo credere
in piazza che
la giovine fosse
d'accordo e che
l'avesse portata via
il suo innamorato.
Si tini col
« ragionare profondamente
sulle astuzie delle
« donne che
fanno la semplice,
sulla dabbenag- gine della
Signora che aveva
raccolto quella «
mozzina » (p.
208). La diversa
ubicazione del castello
dell'Inno- minato, costringe l'autore
a far comparire
prima la vecchia.
Il contegno di
Lucia coi manigoldi
non differisce molto
da quello del
romanzo; solo in
principio essa è
più fiera ed
i bravi più
ci- nici e sguaiati.
Maggiori sono le
varianti nella breve
dimora di Lucia
a Chiuso. Tommaso
Dal- ceppo (p.
316) è un
personaggio tanto insigni-
ficante, quanto diventerà gustoso
in seguito, quando
si trasformerà nell'anonimo
sarto, che sa di lettere.
Il Manzoni qui
teorizza, alquanto fuor
di luogo, sui
sentimenti di chi
ha scampato un
pericolo e sul
valore del voto.
Inoltre non è il cardinale
che visita la
casa del sarto,
dando luogo alla
scenetta indimenticabile del
cap. XXIV; m»
son le tre
donne che si
recano dal prelato,
per invito di
lui. Tanto il
curato di Chiuso
(quel sant'uomo), quanto
Federigo, sono con
le donne il)
Probabilmente l'autore si
ricordò in tempo
che di si-
mili mascheramenti della verità
nel pettegolezzo popolare
egli si era
burlato altrove, dove
parla d'un altro
ratto, fal- lito, quello
di cui ebbero
incarico il Griso
e gli altri
bravi di don
Rodrigo. Vedi cap.
XI, a p.
253 dell' ediz. Petrocchi.
17»; I PROMESSI
SPOSI IX FORMAZIONE
stranamente impacciati (pp.
321-22; cfr. p.
341). 11 Borromeo
« in quella
canizie conservava la
purità ombrosa di una
fanciulla » . In
un uomo del-
l'indole sua, ciò dava
nel ridicolo; e
infatti il Man-
zoni se ne avvide
e soppresse del
tutto quel tratto
di carattere, sebbene
nel romanzo egli
abbia rin- giovanito di
parecchio il nobile
personaggio, sem- pre rappresentato nei
Brani come un
vegliardo. Non mi
tratterrò qui ad
osservare che nella
prima minuta il
Manzoni aveva ceduto
ancor più che
nel romanzo alla
tentazione di divagare
nella storia, sicché
le digressioni sulla
carestia del 1628
e sulla peste
successiva erano ancor
più lunghe di
quelle che si
conoscono (*). Dirò,
invece, che la
tìne del romanzo
era, nell'abbozzo, schematica,
fredda, lontana dalla
bella e bonaria
efficacia del cap.
XXXVIII. Anche là.
in origine, la
mente di don
Alessandro si palesava
più ra- gionatrice
che rappresentatrice. Inoltre,
nel ban- chetto dato
agli sposi nel
palazzotto già appar-
tenuto a don Rodrigo,
il « parente
lontano » che
ne è l'erede,
non mangia con
loro « alle-
« gando che
il pranzare a
quell'ora non si
eoli- « faceva
al suo stomaco
» . « Ma
(osserva il Mali-
ci) In queste pagine
soppresse, non posso
trattenermi dal cogliere
un'osservazione umoristica tutta
manzoniana: - Il
« tempo è
una gran bella
cosa: gli uomini
lo accusano, è
vero, ■ di
due difetti: d'esser
troppo corto e
di esser troppo
lungo: ■ di
passare troppo tardamente,
e d' essere
passato troppo in
« fretta; ma
la cagione primaria
di questi inconvenienti
è « negli
uomini stessi, e
non nel tempo,
il quale per
sè è una
« gran bella
cosa ; ed
è proprio un
peccato che nessuno
finora • abbia
saputo dire precisamente
che cosa egli
sia » (p.
402;. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
177 « zoni)
la vera cagione
fu... che quel
brav'uomo c non
aveva saputo risolversi
a sedere a mensa «
con due artigiani:
egli, che si
sarebbe recato *
ad onore di
prestar loro i
più bassi servigi,
« in una
malattia. Tanto anche
a chi è
esercitato « a
vincere le più
forti passioni, è
difficilé il vin-
« cere una piccola abitudine
di pregiudizio, «
quando un dovere
inflessibile e chiaro
non « comandi
la vittoria »
(p. 557). Invece,
nel ro- manzo, il
marchese aiuta a
servire li sposi
in- vitati; ma li
tiene a tavola
separata. Ed il
ma- lizioso romanziere, commenta:
c A nessuno
verrà, « spero,
in testa di
dire che sarebbe
stata cosa «
più semplice fare
addirittura una tavola
sola. « Ve
l'ho dato per un brav'uomo,
ma non per
« un originale,
come si direbbe
ora; v'ho detto
« ch'era umile,
non già che
fosse un portento
« d'umiltà. N'aveva
quanta ne bisognava
per « mettersi
al disotto di
quella buona geute,
ma * non
per istare loro
in pari ».
Parole che per
l'estrema finezza dell'ironia
riuscirono equivo- che, tanto
che a qualcuno
parve che la
soste- nutezza del marchese
fosse lodata, ad
altri che fosse
biasimata, perchè non
conforme alla schietta
umiltà evangelica. Questi
ultimi aveano ragione
ed il passo
è chiarito nella
forma, meno arguta
ma più esplicita,
che la chiosa
manzoniana ha nell'abbozzo
('). (1) Vien
così ad essere
dichiarata s e nz altro
vera l'inter- pretazione del passo che
con la sua
ingegnosità consueta propose
nel 1900 G-iov.
Negri. Quelle sue
considerazioni usci- rono a
Pavia in foglio
volante, e il
Petrocchi fece benissimo
riferendole integralmente nel
suo commento, pp.
1102 sgg. Krnieb
- Scaghi Critici
12 178 I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE * Or
ecco avanzarsi la
« coppia d'alio
affare », don
Ferrante e donna
Prassede. Nei Brani
non è per
impulso spontaneo di
quella faccendona delle
buone opere di
donna Prassede che
Lucia entra in
quella casa; ma
perchè ve la
manda in custodia
il cardinale. E ci va
a fare la
ca- meriera, perchè quella
« coppia » non è
sol- tanto una «
coppia », ma
ha seco una
figliuola e la
sorella del capo
di casa, rimasta
vedova. Una famiglia,
dunque, in tutte
le regole, che
poi nel romanzo
sarà ridotta ai
soli due coniugi
rispettabilissimi. La figliuola,
unica, di quei
due (') chiamavasi
Ersilja, famigliarmente Silietta,
» personaggio «
non troppo facile
da descriversi, nò
da detì- «
nirsi. Le sue
fattezze erano senza
difetti e «
senza espressione; i
suoi due grandi
occhi * grigi
non si movevano
che quando si
moveva « tutta
la testa; teneva
la bocca sempre
semi- « aperta,
come se ad
ogni momento sentisse
« una leggera
meraviglia: rideva spesso
e sorri- «
deva di rado;
parlava lentamente e
placida- « mente,
ma volentieri e
a lungo tutte
le volte «
che alcuno dei
suoi parenti non
fosse presente (1)
Xel romanzo (cap.
XXVII) le figliuole
erano state cin-
que, ma son tutte
fuori di casa,
tre monache e
due maritate, sicché
donna Prassede ha
« tre monasteri
e due case
a cui sopraintendere ».
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE 171»
« il darle
su la voce
» (p. 417).
Si potrebbe di-
pinger meglio quella pacifica
scimunitella, desti- nata al
monastero, ove entrò
poi senza slancio
e senza repugnanza ?
Perchè il Manzoni
più non la
volesse, non è
chiaro: forse gli
diede ombra l'idea
che ne venisse
nuovo sminuimcnto di
stima ai monasteri
femminili, quasi che
fossero addi- tati come
ordinario ricetto di
simili pupattole; forse
quella figurina gl'impacciava
l'azione. Pei" quest'ultimo
motivo deve, senz'altro,
aver abo- lito donna
Beatrice, la sorella
di don Ferrante
(p. 363), severamente
e sentitamente pia,
quanto donna Prassede
era pinzocchera ed
inframmet- tente; e il
procacciante maggiordomo Prospero
« faceto e
rispettoso, disinvolto e
composto, dotto «
a tutto fare
e a tutto
soffrire » ;
e la donna
di governo Ghitina,
che il servitorame
chiamava * la
signora Chitarra »
perchè « il
suo collo « lungo, la
sua testa in
fuori, le sue
spalle sehiac- «
ciate, la vita
serrata dal busto
e le anche
al- c largate
» la facevano
« somigliare alla
forma di quello
strumento », il
cui suono, ricavato
da mano inesperta,
somigliava alla voce
di lei, «
cicuta, scordata e
saltellante » (pp.
418-19). Questi personaggi,
che promettevano bene
dav- vero e che
pur di primo
acchito ci balzano
in- nanzi vivi e
parlanti, scomparvero. Ma,
anche i due
onesti coniugi erano
nel primo getto
alquanto diversi da
ciò che furono
nel libro definitivo.
Più maligna donna
Prassede, tiran- neggiava, per
le sue fisime,
Lucia e la
faceva spiare da
Ghita: essa avrebbe
voluto che la
mite Imi [
PROMESSI sposi JN
KUH.M AZIoNK contadina
prendesse il velo
con la sua Krsilia. Don
Fori-ante, anche qui,
dotto d'una cloUrina
senza luion senso,
che degenera nella
pedante- ria: ma oltracciò
sudicio nella persona
e nel ve-
stire, e. non meno
che pretensiosi), pitocco.
Vi- veva di prestiti:
e chi armeggiava
sapientemente con gli usurai per
trovare i quattrini
indispen- sabili al tasto
della casa spiantata,
ora quel mel-
lifluo e pieghevoli» Prospero.
Del resto, già
nel- l'abbozzo era ideata
quella libreria di
don Fer- rante, che
nel romanzo fu
condotta a perfezione,
ed è uno
dei tratti più
finamente umoristici del
libro (''). In
questo luogo abbiamo
anzi una curiosità
da notare. Nella
redazione definitiva il
Manzoni, avendo di
molto arricchita la
descri- zione della libreria
nelle parti che
a lui pare-
vano secentescamente
sostanziali e, per
dar la misura
dell'uomo e dei
gusti del tempo,
essen- ziali, omise la
sezione delle «
lettere amene »
i2). I n
critico morto giovine,
in certa sua
conferenza, volle colmare
codesta lacuna e
imaginò che vi
figurassero « fra
i più graditi,
i nomi del
Tasso, « del
Marini, del Tassoni,
del Bracciolini, del
(1) Cfr. D'i.
Non vi sarà
forse fra i
ilici lettori chi
non rammenti che
appunto da 1111,1
lettera dell'Achillini è
tolto quasi di
peso i kirocco
ragionamento con cui
nel romanzo i
Ferrante viene a
dimostrare che il
contagio della peste
è una chimera
(cap. XXXVII) I.
Stui'I'.mii. La hiblioteia
ili ilun Ferrante,
Milano, 1SM7. ,•.
I.-.. Ji li.
Haiti, in Sanai
letterari. Firenze. 1KH
p. 109. i
La telaxiime de]
passo manzoniano con
la lettera del-
l' tu indicata nel
1S7!I da O.
(irKBtiixi. nella liax&ei/ìia 'nuli
III. Vii. La
distanza fra i
due passi none
punto un lini rahite.
come sostieue con
poca critica il
Petrocchi anzi es:-i
sono molto simili;
il (die non
vuol dire Manzoni
alibia commesso un
plagio. Questa è
una 182 I
PROMESSI SPOSI IX
FORMAZIONE Già nella
minuta si leggevano
quelli sganghe- rati dilemmi
(pp. 469-70); ma
essi facevano parte
d'un dialogo, di
cui sopravvisse appena
lo spunto, tra
don Ferrante e
un don Lucio,
figurina ben trovata
di « professore
d'ignoranza e dilettante
d'enciclopedia », che
non aveva mai
studiato, anzi si
vantava di aver
tutti i libri
in gran di-
spillo perchè «
fanno perdere il
buon senso e
« tuttavia pretendeva
decidere d'ogni cosa
». Che gioia!
Di codesti sensatissimi
faciloni v'ò chi
dice che se
ne trovano anche
fuori del sei-
cento; ma io non
lo credo. *
I Brani (pp. 3 sgg.)
ci fanno conoscere
intero un intermezzo
di cui era
nota solo una
parte, per via
del discorso pronunciato
dal Bonghi in
Milano nel 1885,
quando s'inaugurò nella
Brai- dense la
sala manzoniana. Finge
il Manzoni in
quell'intermezzo di discutere
e di ribattere
le obiezioni di
un personaggio ideale,
che gli fa
ca- rico di presentarci
nel romanzo due
fidanzati senza descrivere
« i principi,
li aumenti, le
co- municazioni del loro
affetto ». Egli
si professa «
del parere di
coloro i quali
dicono che non
« si deve
scrivere d'amore in
modo da far
con- appropriazione lecita ed
opportuna, e mi
par più probabile
ch'ei sia ricorso
all'Achillini, anziché ad
un opuscolo di
Mas- similiano Viani di
Pallanza, stampato nel
1630, ov'è fatto
il medesimo ragionamento
(Stoppato, pp. 48-49).
Due sonetti politici
dell' Achillini cita il
Manzoni nel cap.
XXVIII. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
183 « sentire
l'animo eli chi
legge a questa
passione », perchè
d'amore al moudo
ve n'ha quanto
basta, nè v'è
bisogno che altri
s'industri a coltivarlo
ed a fomentarlo
con gli scritti,
d'amore « ve
n'ha, « facendo
un calcolo moderato,
seicento volte « più di
quello che sia
necessario alla conser-
« vazione della
nostra riverita specie».
Strana teoria senza
dubbio, che provocò
ben presto una
rispettosa, ma energica
confutazione del Fogaz-
zaro. Questi non può
ammettere un concetto
cosi materialistico dell'amore,
e convenendo che
gli amori di
puro senso non
vanno descritti, ritiene
vi sia nell'amore
un elemento idealistico
eleva- tissimo, atto a
sublimare le anime
e a comple-
tarle, sicché l'indurre i
mortali a quell'amore,
che ha qualcosa
d' immortale, è opera
meritoria^). Nella quale
interpretazione dell'amore fa
capo- lino il poeta
idealista, non alieno
dallo spiriti- smo, che
fece giuocare cosi
bene in un
suo ro- oianzo
la sempre risorgente
imaginazione del- l'amore dopo
la morte (2),
rappresentata dal- l'adagio antico «
Hyeme et sestate,
et prope et
procul, usque dum
vi vara et
ultra » (3).
Sta bene: ma
il Manzoni voleva
dire altra cosa.
L'ha dimostrato con
molta diffusione, ma
insieme anche con
molto ingegno, Giovanni
Ne- (li Un'opinione
di A. Manzoni,
in Fouazzaho, Discorsi,
Mi- lano, 1898. Il
discorso fu letto a
Firenze nel marzo
de] 1887. C2)
I numerosissimi indizi
concreti di questa
credenza o imaginazione
furono raccolti da
A. Giìaf in
un recente arti-
colo della X. Antologia,
16 novembre 1904.
i'ò) Daniele Cortis,
Torino. 1885, p.
61. 184 I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE gri (')■
L'autore dei Promessi
Sposi fu ben
lungi dal disconoscere
l'amore ideale e
puro, anzi que-
st'amore egli fa sentire
di continuo nel
suo libro, non
evitandone neppure qualche
tratto passionale. Ma
egli sapeva che
in ogni amore,
anche il più
puro, vi sono,
in quanto è
umano, elementi di
im- purità, e a
questa impurità non
avrebbe voluto che
la letteratura provocasse
il consenso, cioè
l'a- desione del cuore
per mezzo dell'eccitamento dei
sensi. A chiarire
siffatto consenso aggiunge
una esemplificazione, che
il Bonghi non
fece conoscere e
che non potrebbe
essere più calzante:
« Ponete «
il caso che
questa storia venisse
alle mani, per
« esempio, d'una
vergine non più
acerba, più «
saggia che avvenente
(non mi direte
che non «
se n'abbia), e
di angusta fortuna,
la quale, per-
« duto già
ogni pensiero di
nozze, se ne
va cam- «
puechiando quietamente, e
cerca di tenere
oc- « cupato
il cuor suo
coll'idea dei suoi
doveri, « colle
consolazioni della innocenza
e della pace,
« e colle
speranze che il
mondo non può
dare « nè
torre, ditemi un
po' che bell'acconcio
po- « trebbe
fare a questa
creatura una storia
che « le
venisse a rimescolare
in cuore quei
senti- « menti
che molto saggiamente
ella vi ha
sopiti. « Ponete
il caso, che
un giovane prete,
il quale *
coi gravi uffici
del suo ministero,
colle fatiche «
della carità, con
la preghiera, con
lo studio, «
attende a sdrucciolare
sugli anni pericolosi
che (1) L'opinione
del Manzoni e
quella del Fogazzaro
intorno al- l'amore, nel
I volume dei
cit. Commenti. I
PROMESSI SPOSI IN
FORMAZIONE »185 «
gli rimangono da
trascorrere, ponendo ogni
« cura di
non cadere, e
non guardando troppo
« a diritta
uè a sinistra,
per non dar
qualche * stramazzone
in un momento
di distrazione, «
ponete il caso
che questo giovane
prete si «
ponga a leggere
questa storia (giacché
non « vorreste
che si pubblicasse
un libro che
un t prete
non abbia da
leggere), e ditemi
un po' «
che vantaggio gli
farebbe una descrizione
di « quei
sentimenti ch'egli debba
soffocar ben bene
« nel suo
cuore, se non
vuol mancare ad
un « impegno
sacro ed assunto
volontariamente, se «
non vuol porre
nella sua vita
una contraddi- «
zione che tutta
la alteri ».
Fuvvi chi si
meravigliò che tenesse
questo concetto dell'amore
nei romanzi chi
avea pro- vato replicatamente e
potentemente quella pas-
sione, sino ad averne
« spossata l'anima
d'ogni forza »,
come scrisse un
giorno al Fauriel
('). Nessuna meraviglia
meno giustificata. Gli è ap-
punto perchè la natura
del Manzoni era
una na- tura sommamente, e
non platonicamente, ama-
toria, che la sua
rigorosa morale cristiana
gli imponeva di
evitare ad altri
quegli stimoli, di
cui gli eran
ben noti i
pericoli e contro
cui aveva dovuto
lottare egli stesso.
Tanto è vero
ch'egli fin da
principio si guardò
da quegli scogli,
e nella prima
minuta non occorre
nessuna di quelle
de- scrizioni che
nell'intermezzo sull'amore volle
(li Stampa, II,
18. I l'ROMRSsr
SPOSI IX FORMAZIONE
far credere d'aver
messe in carta
l'i. Ora. che
• ■levando a
teoria generalo l'idea
del Manzoni si
venga a sacrificare
l'arte alla morale,
e che silfatio
sacrificio, per motivi
estranei alle ragioni
intime dell'opera letteraria,
sia ingiusto, non sarò certo
io a negarlo:
ma movendo dai
principi etici che il gran
romanziere poneva a baso di
ogni pensiero e
ili ogni operazione,
l'opinion sua era
perfettamente logica. Che
volete farci? Createvi
un Manzoni di
vostro gusto, se
vi garba: quello
• •he tu
al mondo e
vestì panni era
fatto cosi. Lo
studio della prima
minuta ci convince,
adunque, che nel
lavorio di perfezionamento dell'oliera
sua il Manzoni
si studiò in
ispecie di ridurre
a giusta misura
la materia, di
rese- care da essa
// froppn f
il l'ano. Menfe
dialet- tica ebbe il
Manzoni quant'altri mai
ed all'opera d'arte
si preparava con
lunghissimo studio di
storia, perche nell'uomo
gli piaceva di
osservare non solo
le attitudini e
i moti spirituali
del pre- sente, ma
anche quelli del
passato. Quindi il
so- ili Ad
un imaginario interlocutore, che
gli rimprovera di
aver trascurato nel
libro i particolari
dell'amore. Unge dori
Alessandro di rispondere: Trabocca,
invece (il liìiroi
di queste cose,
e deagio confessare
che sono anzi
la parte più
• elaborata dell'opera;
ma nel trascrivere,
e nel rifare,
io . Ciò
non risponde al
vero, se pure
non si tratti
di abbozzi parziali,
anteriori alla prima
minuta, dei quali
ignoro l'esistenza, ovvero
della storia secentesca
che finge di
avere scoperta. T
PROMESSI SI-OSI IX
FORMAZIONE 187 verchio od
il meno utile
elio gli uscì
dalla pernia nella
prima foga ilei
comporre consistono in
abuso ili ragiona
mento ed in
abuso di storia.
Per quel i-In-
spetta alla sostanza
del libro, la
sua maggior preoccupazione fu
di proporzionare all'insieme
questi due elementi,
e nel tempo
stesso di otte-
nere maggior tinozza d'osservazione psicologica
maggiore efficacia rappresentativa. A
togliere ilei tutto
l'abuso della storia
non riuscì: e
que- sto restò il
difetto massimo del
romanzo, rilevato da
molti, a principiare
dal (ioethe e
a finir col
De Sanctis ('
. Riuscì invece
a temperare l'incli-
nazione dello spirito raziocinante,
intensificò l'os- servazione e
la rappresentazione, aguzzò
l'umo- rismo bonariamente ironico.
Ma già nella
prima minuta, se
non è tutta
l'arte, è tutta
l'anima sua. Se
per lo innanzi,
mediante il raffronto
delle due edizioni,
potevamo farci un'idea
del lavoro immenso
che costò al
Manzoni quella sua
forma sempre limpida
e sempre acconcia;
ora possiamo in
oidio valutare, per
mezzo dei Brani,
l'opera sua di
artefice squisito nel
trattare la sostanza
del libro. Ed
è mirabile la
cura da lui
posta nelle minuzie.
Vedete, ad esempio,
quanto è incontentabile fin
nei nomi dei
suoi personaggi. Ai
nomi egli annetteva
importanza grande, e
non senza ra- ti
Lp parole ilei
fioptlie all' Eekermarm.
riferite anche stiirza
nella prefazione ai
Brani, p. XLIV.
sera notis- simi'; quelle
ilei De Sanetis
si possono leggere,
ne' suoi Hrrilli
ivi e»'/, ed.
Croce. Xapoli. 1898.
1, 52 n.
188 I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIÓNE
gione: si direbbe
gli echeggiasse sempre
nella memoria la
vecchia sentenza, che
Dante pur fece
sua, nomina sunl
consequentia rerum. Nel
fissare quello di
Lucia, più che
la martire sira-
cusana del IV secolo,
può darsi gli risonasse den-
tro il dantesco «
Lucia nimica di
ciascun cru- dele ».
Il suo fidanzato
aveva in alto
grado la virtù
della costanza, rara
nei giovinotti: quindiFermo.
Ma questo poi
gli sembrò nome
troppo aulico, troppo
poco comune, e
sostituì il popo-
lare Renzo, che dà
pure indizio di
fermezza, per- chè rammenta
un santo, il
cui « volere
intero » resistette
al supplizio della
« grada ».
Il casato di
Lucia era in
origine Zarella; ma non
gli
piacque: sostituì Mondello,, ove
l'aggettivo mondo non
entra a . caso
('). Fermo era
di cognome Spolino;
poi divenne Renzo
Tramaglino, voca- boli che
richiamano l'uno l'arte
tessile e l'altro
la pesca. Potrà
fare qualche meraviglia
che il padre
Cristoforo fosse in
origine Galdino, nome
che desta il
riso pel ricordo
di quel semplice
e golfo cercatore
delle noci; ma
una vecchia cro-
naca rappresentava eroicamente un
frate Galdino della
Brusada, ed a
costui pensò dapprima
il Manzoni (s).
Don Ferrante e
donna Prassede, (1)
Che v'abbia anche
parte quella Lucia
Mantella, che il
Ripamonti nomina (cfr.
Nkgri, Commenti, I, 27, n.
2), non è
escluso. (2) Xe
avrà conforto il
dabben Luigi Lucchini,
che nel suo
Commentario dei Promessi
Sposi, ovvero la
rivelazione di tutti
i personaggi anonimi,
Bozzolo, 1902, male
era riuscito a
conci- liare rimanine di
quel monaco austero
con quella dell'umile
laico. I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
189 prima d'avere
questi due nomi
altosonanti, spa- gnolescamente e lombardescamente eletti
e no- biliari, rispondevano a
quelli di don
Valeriano e di
donna Margherita, il
primo assai proba-
bilmente suggerito da quel
Valeriano Castiglione, il
cui Statista regnante
sarà fra i
libri politici quello
che meglio tornerà
accetto al pedantesco
personaggio. L'avvocato imbroglione,
prima d'im- mortalarsi col nomignolo
di Azzeccagarbugli, era
detto il Duplica,
ma di primo
getto il Pèt-
tola, vocabolo che
in milanese vale
viluppo, in- trigo. La
governante del prete,
prima di rice-
vere quel battesimo di
Perpetua, giusto premio
alla sua fedeltà,
dal padrone cosi
mal compen- sata, si
chiamò per breve
tempo Vittoria, certo
perchè col padron
suo, tranne quando
la paura lo
rendeva ostinatamente ribelle,
essa la vinceva
sempre. « So
quello che posso
fare, la padrona
* sono io
qui >, dice
nei Brani al
Conte del Sa-
grato: e quel qui
vuol essere la
cucina, ma tutti
v'intendono sotto l'intera
casa. Gli otto
nomi di bravi
che nel romanzo
occorrono, son tutti
tro- vati con finissimo
accorgimento; qualcuno sug-
gerito dal Grossi, qualcuno
peravventura sco- vato nei
gridart del tempo
('). Nella prima
minuta ve n'erano
altri, foggiati con
sistema non diverso,
come il Nato
in casa e
lo Spetti- nato (p.
288). ili Vedansi
le comunicazioni del
Tamassia e del
Bellezza nel (ìiorn.
storico, XXX, 352 e 516,
ed anche il
commento del Petrocchi
a p. 469.
ino I PROMESSI
SPOSI IN FORMAZIONE
La cura grandissima
dei particolari minimi,
l'assiduo infaticabile lavoro
della lima, si
uni- rono nello scrittore
lombardo (ne abbiamo
qui una riprova)
alla pronta percezione
del reale, alla
facoltà di ridarlo
con una evidenza
mira- bile, all'intelletto sollecito
nel giudicare retta-
mente di tutto e
di tutti. Non
errerebbe dav- vero chi
dicesse che il
genio del Manzoni
fu metà intuito
e metà pazienza,
pensarci su. Nota
aggiunta. — Questi
tre articoli furono
i primi di
qualche estensione che
vedessero la luce,
nel Fanfulla della
Domenica, 15, 22,
29 gennaio 1905,
appena diffusa la
prima edi- zione dei
Brani inediti. Nel
medesimo anno 1905
venne fuori la
2a ediz. dei
Brani suddetti :
in che cosa
essa differisca dalla
prima indicai nel
Giorn. storico, XLVII,
159-ltìl. Fra gli
altri articoli dettati
quando comparvero i
Brani son segnalabili
in particolar guisa
quello di Fedet.k
Bojiani, La prima
minuta dei Promessi
Sposi, nel Marzocco,
XI, 5 ed
anche a parte
in un elegante
estrattino, e quello
di Vittorio Osimo,
La prima stesura
dei Promessi Imposi,
nell'Acanti della Domenica,
27 agosto 1905,
ristampato nel volumetto
Studi e profili,
Milano-Palermo, Sandron, 1905,
pp. 54 sgg.
La .più estesa,
peraltro, e rilevante
di tutte le
analisi dei Brani
inediti, resta quella
che F. D
Ovi- dio inserì nel
volume dei Xuori
studi manzoniani, villano,
Hoepli, 1908. — Tra le
molte particolari considerazioni sug-
gerite da quel libro,
vogliono essere ricordate
ed apprezzate quelle
di Attilio Momigliano,
Perchè Don Bodrigo
muore sul suo
giaciglio? , negli Atti
della B. Accademia
delle scienze di
To- rino, XL (1905 j
e La rivelazione
del roto di
Lucia, nel Giornale
storico, L, 116
sgg. e l'altra
di Luigi Fassò,
Padre Cristoforo balordo,
nel Giorn. storico,
LI, 257 sgg.
— Le obiezioni
che mi furono
mosse non hanno
menomamente alterato i
miei convincimenti rispetto
alle ragioni, alquanto
complesse, per cui
il Manzoni abbreviò
l'episodio della Signora.
Vedi Achille Pellizzaki,
77 delitto della
Signora, Città di
Castello, 1907 e
Antonietta Cajafa, La
Signora di Monza
nella storia e
nell'arte, Eoma, 1907,
e ciò che
io ne scrissi
nel Giornale, storico,
L, 223-24. Si
confronti pure l'esame
che fa del
quesito G. Bito-
I PROMESSI SPOSI
IN FORMAZIONE IDI
liNnuu'j nella Bass.
crit. della letter.
italiana, XII, 202
sgg. — Per
Don Ferrante è
da vedere Giuseppe
d'Ansa, L'umorismo di Don Ferrante
ìlei « Brani
inediti ■, in
Fan filila della
Dome- nica. XXIX (1907),
n. 31, nonché
AKTtrno Pompeati, A
proposito rli Don
Ferrante, nella Rirista
abruzzese, XXII 11907),
52J) sgg. Dell'
opuscolo di Evabisto
Marsili, Don Ferrante
nei Promessi Sposi,
Città di Castello,
Lapi, 1907 conosco
solo il titolo.
— Per lo
studio dei nomi
dati dal Manzoni
a' suoi personaggi,
ec- cellente lo studio
di Felice Scolari,
Xomi, cot/nomi e
sopran- nomi nei Promessi
Sposi, Milano. De Mohr, 1908.
La vecchia "
Antologia ... Anche
alla storia del
giornalismo italiano si
cominciano a porre
seriamente le basi.
Di que- sta che
a' tempi nostri
diventò una forza
cosi poderosa, i
veri precursori son
noti ; spiriti
biz- zarri e scapigliati
del cinquecento, Pietro
Are- tino, il Giovio,
il Doni. Ma
fu nei due
secoli suc- cessivi, principiando dal
romano Giornate dei
letterati, apparso nel
1668, che il
giornalismo ubbidì alle
tendenze positive scientifiche
ed eru- dite, passate
dallo sperimentalismo galileiano
nelle indagini di
storia e di
critica. Vi rifulsero
uomini del valore
di L. A.
Muratori, dei due
Zeno, di Scipione
Maffei, dello Zaccaria,
del Ti- raboschi.
La storia esterna
di quel giornalismo
erudito accademico fu
già tracciata (').
Ma quella non
era ancora rivelazione
di spi- nti nuovi,
a provocare la
quale giovarono par-
ticolarmente nuove visioni del progresso e
nuovi (1) Da
Luigi Piccioni nel
I volume dell'opera
7/ giorna- lismo letterario in
Italia, Torino, Loescher,
1804, su cui
son da vedere
A. D'Ancona nella
sua Rassegna bibliografica, II,
27H e V.
Gian nel (riorn.
storico della leti,
italiana, XXV, 98.
11 II volume
dell'opera non venne
mai, perchè il
Piccioni, da- tosi, a
motivo di esso,
a studiare il
Baretti, s'invaghì di
quel soggetto e
scrisse un grosso
e utile libro
di Studi e
ricerche su ti.
Baretti, Livorno, Giusti,
1899. Rkxier -
Svaghi Critici 13
LA VECCHIA ANTOLOGIA
indirizzi della critica,
maturatisi segnatamente in
Francia ed in
Inghilterra. Nella seconda
metà del diciottesimo
secolo ecco abbiamo
l'Osserva- tore di Gaspare
Gozzi, atteggiato su
modello in- glese ad
arguta moralità e
civiltà di costumi
('); la Frusta
letteraria del Baretti,
tutta fremiti di
rivolta ai vecchiumi
arcadici, alle erudizioni
insulse, alle vanità
ciarliere degli accademici,
tutta presentimenti, pur di mezzo
a qualche so-
lenne cantonata,
d'innovazione salutare del
pen- siero letterario; il
Caffè milanese dei
Verri, che, pur
non scostandosi fondamentalmente dal
tipo inglese dello
Spectator, dava particolare
risalto alla filosofìa
pratica ed all'economia,
intonan- dosi a parecchie
fra le idee
che in Francia
avreb- bero maturata la
grande rivoluzione (*).
Per tal guisa
la rivista letteraria
si veniva sempre
me- glio preparando ad
essere agone di
lotte intel- lettuali ed
a rispecchiare le
aspirazioni politiche e
sociali dei tempi
nuovi. Nei primi
decennii del secolo
decimonono, ogni cosa
in Italia di-
ventava politica, perchè alla
politica s'appun- tavano le
aspirazioni di tutti
gli ingegni più
eletti, di tutti
i cuori più
fervidi. La lotta
tra il foglio
azzurro dei romantici,
il Conciliatore, (1)
I rapporti dell'
Osservatore col suo
modello britannico, lo
Spectator di G.
Addison, furono dapprima
studiati da Gia-
como Zanella, poi da Pia Treves
(ora signora Sartori;,
final- mente da Carlo
Segrè. (2.) Egregiamente
vagliò le idee
di quel giornale
Luigi Fer- rari, nella
dissertazione Dei ■
Caffè', periodico milanese
dei sec. XVIII,
Pisa, bistri, ltf&t.
LA VECCHIA ANTOLOGIA
105 vissuto nel
1818-19, e La
biblioteca italiana, cominciata
a venir fuori
nel 1816 e
diretta da Giuseppe
Acerbi, è lotta
eminentemente poli- tica; ma
sarebbe tempo ormai
di riconoscere che,
come organismo di
giornale ed all'infuori
della santa causa
da esso patrocinata,
il Conci- liatore non
valeva gran che
('), mentre la
Bi- lilioteca italiana,
quando si faccia
astrazione dall'indirizzo politico
asservito all'Austria, fu
una rivista notevolissima
ed egregiamente re-
datta (*.). Con ben
altro intuito giornalistico, con
ben altra abilità
e profondità che
il Concilia- tore, fu
diretta e scritta
la nuova rivista
che un ginevrino
di larga coltura
fondò a Firenze
nel 1821 e
intitolò Antologia. La
tenacia sin- golare, lo
spinto di abnegazione,
la prudenza e CI) Nonostante
l'innegabile arruffio di
idee e di
cose, re- sta però
sempre, per ciò
che spetta ai
fatti, una fonte
rag- guardevole il volume
di Cesare Cauti
; , II Conciliatore
e i car-
bonari, Milano, Treves, 1878.
Senza aggiungere novità
quanto ai fatti,
analizzò gli spiriti
del foglio azzurro
Edmondo Cle- hicì
nella sua memoria
11 Conciliatore periodico
milanese, Pisa. 3s it-tri,
1903, memoria condotta
con diligenza, ma
che sa an-
cora troppo di lavoro
scolastico. (2) Una
vera storia della
Biblioteca ancor si
desidera, e la
naturale antipatia che
inspira la sua
tendenza fece velo
an- che ull'apprezzamento di
studiosi bene informati
e autorevoli. I
migliori e più
obbiettivi contributi a
codesta storia sono
quelli dati da
A. Luzio nel
1806, con l'inserire
nella S. An-
tologia e nella cessata
Biviata storica (lei
Risorgimento italiano articoli
e documenti che
illustrano in ispecie
l'attività del- l'Acerbi e
ce la mostrano
sotto una luce
diversa da quella
che sinora prevalse.
Vedi anche Eugenia
Montanari, Per la
atoria della ■
Biblioteca italiana » ,
nella Miscellanea di
studi critici pubblicati
in onore di
Guido Mazzoni, Firenze,
1907, II, 361
sgg. !■•>. I.
\ VECCHIA ANTOLOfilA
l'oculatezza (li quello
straniero che divmnc
per elezione italiano,
fecero vivere, in
mezzo ad ostacoli
di 012,11 i
genere. Y Aiìtolngin per
dodici anni. Le
vicende di quella
rivista, sorta come
per incanto in
una regione di
antica civiltà, ma
frolla e pettegola,
in mezzo alla
sciopera tagline misere-
vole di quei Stigcjiafori.
di quei Jiarcac/lHnri, di
quei Yufitintorì. o
come altro .si
chiamassero; le vicende,
dico, di quella
rivista sbozzò già
col suo fare
nervoso e concettoso
uno dei massimi
suoi cooperatori. Niccolò
Tommaseo, commemo- rando Gian
Pietro Vieusseux; ma
nessuno finora ne
aveva discorso paratamente
e con la
debita cura f>.
Questo ha fatto
testé, in un
volume sommamente encomiabile
per il metodo,
per il giudizio
e per l'economia. Paolo
Prunas 2 ,
au- tore, anni .sono,
di una meli
matura opera sul
Tommaseo i3), hi
(piale certo gli
inspirò l'ottimo proposito
di tessere una
buona volta e
definiti- vamente la storia
della rivista fiorentina
i . Dico
1 1 1 Giova rammentare
che uh capitoletto,
il nono, ile
Ilo scritto citato
elei Clerici sul
- logia considerata
come continuarne»? delle
idee che il
foglio lombardo propugnava.
i'2t L'Antologia ili
Gian Pietro \'ieits*nt.r,
Roma-Milano. So- cietà editrice Dante
Alighieri, liKUi. Il
volitine appartiene alla
Hihlio/rra s/ori'-a dei
rinorgimento italiano, e
come tutta quella
collezione benemerita lascia
non poco a
desiderare nella cor-
rezione tipografica. i3) /.fi
rrìtira. l'arte e
i'ith.a sociale, ili
Xirrotò Tontmaseo, Fi-
renze. Seeher. I!l01. i
li 11 primo
capitolo di questa
storia, in forma
alquanto diversa da
quella che ha
oggi, comparve già
nella Jiaxsegna nazionale
del 1" luglio
1SJ03, col proposito
di trattare le
ori- gini dell' Antologia.
LA VECCHIA ANTOUJHIA
1**7 ■fìititir(tiitente con la maggiore
soddisfazione i-oii piena
sicurezza, fiacche se
anche av- liga
(e sani facile)
clic altri aggiunga
qualche ■miiento nuovo
i ') o
chiarisca con nuove
in— idilli qualche
particolare mcn noto,
il liei li-
, i del Prunai resterà
sempre la prima
e l' ul- ula storia
complessiva dv\Y Antologia di
Firenze, indotta non
solo sullo spoglio
coscienzioso ed !
■■Iligente dei 4S
volumi del periodico,
ma sulle le
del Yieusseiix. sui
suoi appunti, sui
do- nneati numerosissimi dell'Archivio
di Stato fio-
ndilo, su esplorazioni di
più archivi privati,
-ii trentamila lettere
di amici (scusate
se son n-hine!
indirizzate all'infaticabile ginevrino
che I .ini"
e diresse il
grande periodico. E
quel che urna
a massima lode
del Prunas, in
tanta con- .
i ic ili
materia prima, pericolo
più che bene-
ficili a lauti a u torelli
inesperti o mal
dotati o male
avviati, egli volle
e seppe orientarsi
in umili i del
tutto plausibile, volle
e seppe dar
ri- > ho
ai tatti essenziali,
giovandosi dei secon-
dari a lumeggiarli: in una parola,
fece un li-
bri organico come
pochi san fare,
esauriente senza essere
stucchevole, minuto senza
essere prolisso. I IJ
l'ima ili licenziare
r ili'l liuim
profitto che già
trasse, per completare
la sto- ini ilt-H'
litluìiìt/iti. l'amico mio
Vittorio C'iau dal
carteggio del in
col |it-iinlista e
letterato di Pisa
Giovanni Carini- ■ruuili.
si : imbuiti
lo scritto La
prima rifiuta italiana,
nella \ittuu Antuìoijiti.
J-1 agosto lilOb.
198 I„4 VECCHIA
ANTOLOGIA L'idea di
dotare l'Italia di
una rivista di
col- tura emulante i
celebri modelli inglesi,
partico- larmente la gloriosa
Edimburgh Heview, fu
dap- prima concepita a
Londra nel 1819
da Gino Capponi,
il quale ne
aveva anche steso
il pro- getto che,
come dimostra il
Pruaas, equivaleva nelle
linee essenziali a
quell'abbozzo di pro-
gramma di giornale letterario
che fino dal
1815 aveva redatto
Ugo Foscolo. Ma
nel Capponi, idealista
irresoluto, difettava una
gran dote per
fondare e continuare
una rivista, l'intelletto
pra- tico deciso e
tenace; sicché fu
una fortuna che egli non
giungesse a colorire
il suo disegno,
ma anzi con
nobile disinteresse si
acconciasse ad appoggiare
quello del Vieusseux,
che appunto nel
1819 aveva fondato
in Firenze il
celebre ga- binetto di
lettura nel vecchio
palazzo dei Buon-
delmonti sulla piazzetta
di Santa Trinità,
ed amava di
farsi editore di
una rivista, che
rag- gruppasse intorno a
sè le forze
intellettuali d'Ita- lia, le
mettesse in comunicazione
fra loro, e, fa- cendo conoscere il
buono ed il
meglio di ciò
che si pensava
presso i popoli
europei più evoluti,
desse efficace incremento
alla coltura della
pe- nisola, preparando idealmente
quella unificazione a
cui miravano politicamente
gli intelletti più
elevati. Spirito equilibrato
e colto, anima
inna- morata d'ogni cosa
buona, liberale e
mite, il Vieusseux
fece il miracolo
di smercanteggiarsi diventando
editore, forse perchè
dell'origine mer- LA
VECCHIA ANTOLOGIA 199
fantesca possedeva le
qualità pratiche, ma
non la caratteristica sete
del guadagno. L' Antologia, il
cui programma ebbe
divulga- zione nel settembre
del 1820, differiva
dal mo- dulo ideato
dal Capponi. Il
tipo di essa
non era inglese,
ma piuttosto francese,
come voleva l'ori-
gine e l'educazione del
Vieusseux. L'esemplare più
imitato era la
Reme encyclopèdique fon-
data di fresco a
Parigi da Marcantonio
Jullien, con la
differenza che dapprima
il periodico ita-
liano si proponeva di
trattenere il pubblico
sulle questioni più
ardenti per via
di versioni e
di riassunti d'articoli
e di libri
stranieri. Tenuta entro
questi limiti modesti,
anzi umili, {'Anto-
logia non avrebbe certo
potuto rappresentare quello
che. dipoi rappresentò
nel pensiero ita-
liano; ma ben presto,
fin dal terzo
quaderno, co- minciarono gli articoli
originali, che in sul prin-
cipio s'aggirarono sulla questione
della lingua, alla
quale gli italiani
presero sempre interesse,
e poi si
estesero ad altre,
svariatissime materie: arti,
scienze, geografia, storia,
questioni sociali, agricole,
economiche, letteratura, istruzione,
edu- cazione. Il periodico
guadagnò sempre più
una personalità propria
distinta od originale,
tanto- ché nel 1830
il direttore ne
escluse le traduzioni.
Uomini di opinioni
svariatissime erano chiamati
a scrivervi, e
l'abilità somma del
Vieusseux con- sisteva nel
fare in modo
che di mezzo
a quel vario
pensare e scrivere
un principio unico
pre- valesse, quello della
italianità. Tale intento
na- zionale del periodico
fu la sua
vera gloria. Esso
■200 LA VECCHIA
ANTOLOGIA rappresentava veramente
tendenze più elette,
i bisogni, la
vita letteraria e
scientifica della na-
zione, abbracciava in un
solo affetto i
vicini e i
lontani, era strumento
di conciliazione assai
più di quello
che il Conciliatore,
nella sua vita
breve ed effimera,
avesse, potuto neppur
sognare di essere.
Timidi parevano all'anima
agitatrice di Giuseppe
Mazzini gli scrittori
dell'Antologia, nè si può dire
che, in fondo,
avesse torto. Ma
in questa medesima
timidità era un
punto di programma
nella mente accorta
del fondatore e
direttore, il quale
ben vedeva che
una mag- giore arditezza avrebbe
sollevato subito sospetti
e sarebbe stata
motivo di una
disastrosa cata- strofe. Non
evitò morte violenta
neppure a quel
modo, ma pur
potè l'esistere dodici
anni. Inol- tre, quel
medesimo intento di
provvida conci- liazione lo
costringeva a schivare
ogni scritto troppo
ardito e violento,
che avrebbe potuto
alienare cooperatori disposti,
nelle loro idee,
a temperanza, e
quella gran pai-te
di pubblico a
cui non son
date le ali
per seguire i
voli troppo eccelsi
e che si
ricantuccia imbronciata, seppure
indispettita non indietreggi,
a tuttociò che
le sappia di
paradosso. Modernità amava
il Vieus- seux,
e nell'organo da
lui diretto se
ne scorge- vano specialmente i
principii in quel
che ri- guarda la
storia, l'economia pubblica,
l'incre- mento dato al
danteggiare, siccome ritorno
ad un grande
scrittore degnamente raffigurante
la patria; ma
la modernità non
voleva sconfinasse nè
antivenisse le esigenze
dei tempi: basta,
a LA VECCHIA
ANTOLOGIA 201 questo
proposito, l'osservare in
quali limiti si
mantenesse rispetto al
romanticismo, che era
ammesso si e
riconosciuto, ma in
quel modo temperato,
con quasi tutte
quelle restrizioni che
poneva nello accoglierlo
il Manzoni. Voleva
il mite ginevrino
che l'Italia s'avviasse
al suo risor-
gimento con l'estendersi della
coltura moderna, col
comunicarsi degli spiriti,
con l'affratellarsi delle
regioni lontane e
politicamente divise, non
coi mezzi violenti
uè delle sette
nè delle rivolte.
Bello è poi
l'osservare come alla
vitalità sem- pre crescente
di quell'organo di
divulgazione intellettuale cooperassero
i convegni del
palazzo Buondelmonti. Nelle
sale di quel
gabinetto di lettura,
che il Prunas
ci riapre d'innanzi
con la scorta
dei numerosi carteggi
e delle Memorie
inedite del Pieri,
si raccoglieva non
solo quanto avea
di più eletto
Firenze, ma convenivano
i molti italiani
e stranieri, che
in quella città
erano di passaggio,
attrattivi dalla fama
'del luogo e
dal tatto squisito
e dalla cortesia
non mai smen-
tita del fondatore. Molte
volte le radunanze
del circolo (alcune
delle quali, come
quella del set-
tembre 1827 in cui
fu festeggiato il
Manzoni, riu- scirono solenni) erano
il primo incentivo
a scri- vere articoli, ovvero
erano palestra in cui nobili
ingegni discutevano ciò
che nel 1'. 4 litologia si
stampava; dimodoché al
sodalizio delle anime
contribuivano in ugual
misura i convegni
e la ri-
vista. Raro accadde che un periodico
avesse l'o- nore d'esercitare una
così alta e
benefica influenza d'affiivtellamento e
di scambio intellettuale. 202
LA VECCHIA ANTOLOGIA
TI Prunas passa
in rassegna tutti
gli scrittori dell
'A n tolng
irì e di
tutti sa darci
informazioni preciso, e nou di
rado nuove e
curiose ('). Ci passano d
innanzi i più
bei nomi che
in quelli anni
onorassero gli studi
fra noi; a
trattenerci più specialmente
sui letterati, Gino
Capponi, En- rico Mayer,
Urbano Lampredi, 6.
B. Niecolini (che
scrisse poco, perchè
nell'immenso suo or-
goglio gli parve di
non essere abbastanza
ap- prezzato dal Vieusseux,
al quale usò,
come a tanti
altri, degli sgarbij,
Ugo Foscolo, Giuseppe
Mon- tani (colonna e
cireneo dell'Antologia dal
'2'2 in poii,
Cesare Lucchesini, Sebastiano
Ciampi, Pie- tro Giordani
(alla cui pigrizia
i pungoli del
di- rettore non bastavano),
Pietro Colletta, Andrea
Mustoxidi, Carlo Botta,
Giovanni Carmignani, Silvestro
Centofanti, Raffaele Lambrusehini,
Te- renzio Mamiani. Luigi
Fornaciai! , Giuseppe Grassi,
Giacomo Leopardi, Niccolò
Tommaseo, Giuseppe Mazzini.
Quest'ultimo onorò l'Antolo-
gia con quel suo
mirabile scritto Di
una lette- ratura europea, troppo
alto per essere
inteso dalle menti
comuni dei letterati
d'allora (fossero anche
della stregua di
quella del Giordani),
ma che in
sè chiudeva il
presagio d'un'intelligenza divinatoria.
II Leopardi diede
all' Antologia tre
dialoghi delle sue
Operette morali, di cui i
buoni intenditori riconobbero
il profondo significato
filo- sofico, celato sotto
l'ironia apparentemente leg-
Cl) In un
utile elenco, che
è a p.
435 del volume,
egli spiega anche
le sigle, le
iniziali e gli
pseudonimi con cui
sono con- trassegnati molti articoli.
LA VECCHIA ANTOLOGIA
203 gera. Il
Tommaseo, chiamato a
Firenze dal Vieus-
seux e divenuto suo
cooperatore assiduo, si
valse d'ordinario nella
rivista della sigla
K. X. Y.,
e vi scrisse
molte cose significanti,
esercitandovi quella sua
critica penetrante e
caustica, anzi acida,
che talvolta dava
in fallo, ma
più spesso, anche
esorbitando e pungendo,
sapea dire con
esemplare schiettezza tante
verità. Con lui
il Vieusseux era
spesso rudemente franco,
come richiedeva l'indole
dell'uomo; ma lo
stimava as- sai e
non si formalizzava
punto se altri
colla- boratori, irritati dai
suoi giudizi recisi,
lo chia- mavano bestia
o bue, o,
con maggiore novità
spiritosa di epiteto,
onagro. Gran pazienza,
del resto, quella
del Vieusseux, a
procurare che non
si sbranassero a
vicenda, a maggior
gloria dell'Italia unita
futura, tutti quelli
illustri campioni dell'irritabile génus!
Solo chi abbia
diretto una rivista
letteraria, e più
specialmente critica, può
formarsi idea giusta
delle pene a
cui andava incontro,
tanto mag- giori quanto
più egli voleva,
in un certo
senso, serbare al
suo giornale un
certo carattere eclet-
tico. Quando una rivista
ha un programma
ben definito e
non decampa da
certi principii e
da certi metodi,
vi collaborano coloro
che a quei"
principii e a
quei metodi aderiscono,
e gli altri
stan fuori, e
poco importa se
applaudano o fi-
schino. Ma allorché una
rivista, come era
il caso dell'Antologia, intende
riunire sotto una
mede- desima bandiera
e far cospirare
allo stesso in-
tento forze e tempre
del tutto diverse,
e non 204
LA VECCHIA ANTOLOGIA
vuole (come oggi
fanno le più
tra le riviste
di- vulgative)
rimpannucciarsi nella veste
comoda di Arlecchino,
offrendo lo spettacolo
dei magaz- zini inglesi,
aperti ad ogni
merce purché sia
di moda, ad
ogni nome purché
accresca i pro-
venti con lo stuzzichino
deWattuatità; quando non
si voglia abbassare,
in una parola,
una ri- vista al
livello volgare d'un'intrapresa indu-
striale, ma serbarne sempre
alto il carattere
di propagatrice della
buona coltura, di
vindice di idee
temperatamente moderne, d'organo
sincero e imparziale
di censura e
d'encomio, oh allora
c'è da trovarsi
fra i triboli
d'una lotta incessante,
ora a mazzate,
ora a colpi
di spillo. Da
buon schermitore il
Vieusseux sapeva parare
le une e
opporre ai secondi
un'epidermide di rinoce-
ronte. Contro la sua
longanimità fenomenale le
mille bizze», i
mille risentimenti degli
scrittorelli e degli
scrittoroui finivano con
lo spuntarsi, fos-
sero pure, nonché le
ridicole contumelie di
una pretensionosa nullità
come il Rosini,
o d'una ciana
sghangherata e maligna
come il Pieri,
an- che i veleni
dell'irritabile e arcigno
Niccolini. Ma a quel martirio
il pover'uomo pur
non era corazzato
al punto da
non sentirne talvolta
fiera, nel più
segreto dell'animo, la
ferita sangui- nante. L'aver
saputo sempre resistere
e tirare innanzi,
senza far motto,
col sorriso sul
volto argutamente bonario,
senza piegare, con
l'oc- chio fisso al
grande ideale della
patria da rico-
stituire, questo, questo è
un merito che
pone il Vieusseux
al livello dei
più insigni fattori
del- l'unità italiana. LA
VECCHIA ANTOLOGIA 205
* E avesse
solo avuto a
combattere con la
su- scettività esagerata e
con le bizze
irragionevoli degli scrittori!
Ben filtri e non minori
ostacoli gli opponevano
l'apatia egoista del
pubblico mal preparato,
la sospettosità dei
governi, le diffi-
coltà delle comunicazioni, e,
segnatamente negli ultimi
anni, la censura.
Di queste delizie
i gior- nalisti d'oggi, per
loro fortuna, non
hanno ad assaporarne.
Senza grandi mezzi,
egli si mise
all'opera co- stosa con
un coraggio ammirevole.
Complimenti gliene vennero
molti, sin dai
primi quaderni del-
l' Antologia, dai letterati
d'Italia; ma quattrini
pochi. Per quanto
la mano d'opera
tipografica non costasse
allora gran che
fnè la veste
dell'.-lji- tologia era
certo suntuosa), con
meno di cento
associati non si giungeva a
fronteggiare le spese.
L' Antologia, nei primi
tempi, non ne
contava di più.
E si noti
che le spedizioni
ed i dazi
im- portavano aggravi di
cui noi oggi
non abbiamo neppure
l'idea: s'imagiui che
ogni quaderno spe-
dito nel Belgio costava
più di cinque
lire, ed il
dazio per gl'invìi
nel Regno di
Napoli era cosi
grave che l'editore
avea dovuto ricorrere
allo spediente di
non mandarvi la
rivista se non
a volume finito.
Neppure nei giorni
più doridi della
sua esistenza V Antologia
non oltrepassò i
530 associati, sicché
il Vieusseux, con
tutta la fatica
che vi spendeva
intorno, anziché ricavarne
utile, ci rimetteva
quasi del suo.
Nel Napoletano an-
206 LA VECCHIA
ANTOLOGIA davano cinque
copie; nel Lombardo-Veneto qua-
ranta. Di questo strano
disinteresse la colpa
prin- cipale l'aveva la
censura. Ogni momento
gli as- sociati non
ricevevano l'uno o
l'altro quaderno, perchè
le censure diverse
lo intercettavano. In
Piemonte si giunse
addirittura a proibire
V An- tologia, e solo
lunghe insistenze fecero
togliere la proibizione.
Frattanto la rivista
era seque- strata a
Palermo. Insomma, vessazioni
tali e così
continue in ogni
parte, che il
giornale non po-
teva espandersi liberamente. In
Toscana dapprima la
censura fu mite,
ma dopo il
'30 rincrudì e
poco appresso infieri,
per le pratiche
caritatevoli proseguite da
governi vicini, meno
remissivi di quello
di Leopoldo IL
Un miserabile spione
posto dalla polizia
ai fian- chi del
Vieusseux, Pietro Brighenti,
riuscì a con-
quistarsi la sua fiducia
come si era
cattivato l'amicizia del
Leopardi. Quel malvagio
ascoltava e rifischiava.
Egli era giunto
a formarsi l'idea,
e ad esprimerla,
che il Vieusseux
fosse « centro
del liberalismo di
tutta Firenze ».
Non avea torto
davvero il mariuolo;
ma questa voce,
giunta agli orecchi
di chi stava
vigilando pauroso di
tutto, doveva acuire
sempre maggiormente gli
sguardi dei censori
toscani. Allora si
cominciò a scor-
gere quali sentimenti e
quali ideo covassero
in articoli apparentemente innocui.
« Non v'ha
quasi pagina in
cui non si
parli dell'amor di
patria, della libertà,
ecc. », scriveva
inorridendo un cor-
rispondente milanese del Parenti.
Si comincia- rono pertanto
a sopprimere dalla
censura mezzi LA
VECCHIA ANTOLOGIA 207
articoli e talora
articoli interi, con
quanto di- spendio del
povero editore ognuno
può imagi- nare.
Alcuni fogli reazionarii
modenesi, segna- tamente la
famigerata Voce della
verità, con- siderarono come una
loro nobile missione
il ve- nir smascherando ogni
allusione liberalesca che
nell'Antologia si celasse,
il che provocò
richiami polizieschi e
diplomatici da parte
dell'Austria. Finalmente gli
ambasciatori d'Austria e
di Rus- sia chiesero
solennemente la punizione
di due scrittori
anonimi dell' Antologia,
che avevano ardito
accennare, sotto molti
veli, alle condi-
zioni deplorevoli del Lombardo- Veneto e
della Polonia. Furono
fatte pratiche presso
il Vieus- seux
perchè svelasse i
nomi di quelli
scrittori. Il Vieusseux
non volle dirli,
e nel marzo
del 1833 V Antologia
era soppressa. Per
quante pra- tiche si
facessero, per quante
intei'posizioni si usassero,
la soppressione fu
mantenuta; il de-
bole governo toscano aveva
troppa paura degli
artigli dell'aquila bicipite.
A che non
risorgesse la nobile
rivista fiorentina, malgrado
gli sforzi d'ogni
genere fatti dal
povero Vieusseux, con-
tribuirono poi ancora con
velenose insinuazioni i
giornali legittimisti di
Modena, la cui
azione fu davvero
delle più svergognate
in questa fe-
roce quanto insidiosa demolizione Il
Vieus- (1) Purtroppo
in quelle brutte
mene ebbe parte
anche un valentuomo,
di cui è
molto rispetftibile la
dottrina, Marcan- tonio Parenti. Leggasi
in proposito l'articolo
di Eumosiio Ci.k-
kici, Le polemù-Jie
intorno all'' Antologìa
», nel Giornale
storico della letteratura
italiana, XLVIII (1906),
387 sgg. 208
LA VECCHIA ANTOLOGIA
seux dovette rimaner
pago a proseguire
il suo gabinetto
ed a tenere
in vita il
Giornate agra- rio. Miracolo
che i governi,
divenuti ormai in-
fantilmente sospettosi, non scoprissero
la serpe del
liberalismo anche in
mezzo a' cavolfiore
ed alle carote!
La narrazione documentata
del Prunas è
fe- conda di utili
ammaestramenti e ricostruisce
una bella pagina
di quella storia
del Risorgi- mento nostro
politico, che si
viene a grado
a grado svelando
sempre più manifesta
ed intera agli
occhi nostri. Non
è una pagina
di eroismo sfolgorante
sul campo di
battaglia, non è
una. pagina di
trame pericolose, non
è una pagina
di sommosse cruenti;
ma ormai tutti
gli esperti e
i sennati sono
convinti che a
combattere nel modo
come ha combattuto
il Vieusseux, in
una battaglia di
intraprendenza, di tenacia,
di ac- cortezza, di
sacrifìcio, col proposito
di fare gli
italiani prima che
fosse fatta l'Italia,
ci vuole un
eroismo più calmo,
ma non meno
vivo e fe-
condo, di quello che
spinse tanti generosi
a con- giurare, a
battersi con forze
disuguali col ne-
mico, a cimentarsi sulle
barricate. Nota aggiunta.
— Nel Fanfulla
della domenica, 19
agosto 1D06. A
rappresentare la temperie
intellettuale e morale
in che nacque
e visse V Antologia
valgono le conferenze,
di valore diverso,
raccolte nel volume
La Toscana alla
fine del Gran-
ducato, Firenze. Barbèra. 15KX).
Gegia Marchionni. «
Due occhi cilestri,
una bocca ridente,
un « naso
epigrammatico, una fronte
serena, una «
bionda chioma ed
una bianchissima carnagione
« da far
invidia a madonna
Laura; tutto questo
« animato da
una favella toscana
la più pura,
« da un
discorso ridondante di
vezzi poetici, che
t in lei
erano naturai dono,
da un'amabile schiet-
« tezza che
talvolta si vestiva
di frizzante im-
« pazienza, da una rara
bontà di cuore
che in «
ogni suo atto
si rivelava. »
Cosi descrive il
Brofferio la Teresa
Bartolozzi, la quale
amava chiamarsi e
farsi chiamare Gegia
Marchionni per l'affetto
che portava alla
sua cu- gina materna,
la celebre Carlotta
Marchionni. Le notizie
più diffuse che
sinora si abbiano,
anzi, a dir
propriamente, le uniche
notizie riguardanti questa
bizzarra figura della
Gegia, sono quelle
che si leggono
neh' ottavo volume
dei Miei tempi,
da cui il
Masi trasse profìtto
in un articolo
del Fan fui
la della domenica
('). Il Brofferio,
curioso di conoscere
qualche particolare intorno
alla Gegia ed
al Pellico, amico
di famiglia, s'era
ri- (1) An.
V, 1883, n.
1. Kkmsh -
Svaghi Critici II
UEKIA MARC rlIONNI
volto a Carlotta.
che In compiaceva
subito in- viandogli alcuni preziosi
documenti, vale a
dire duo lettore
innamoratissime del Pellico
alla Ge- gia,
1 una del
22 inumilo, l'altra
del 20 luglio
]X20, e ([uatfro
lettore piene di
ammirazione e di
af- fetto alla Carlotta
medesima. Di , si lamenta
poi osservando che
Gi- gliola, in qualche
parte, oscilla, ondeggia,
è du- bitosa.
Ciò non mi
par ragionevole; anzi,
per me, Gigliola
è fin troppo
greca, specialmente nel-
l'atto del suicidio espiatorio,
che a noi
moderni pare un
controsenso. Non per
niente i secoli
trascorsero e l'età
di re Borbone
Ferdinando I non
è nè quella
di Edipo nè
quella degli Atridi.
Sulla Orestiade passò
Amleto, nè poteva
un poeta d'oggi,
sforzandosi di risentire
tragicamente un fatto
antico e di
rappresentare tragicamente una
figura antica, spogliarsi
interamente della sua
qualità di uomo
moderno. La volontà
ferma e diritta
di Antigone, che
contro l'empio decreto
di Creonte dà
sepoltura alla misera
spoglia del fratello
Polinice, è passata
sin troppo in
Gigliola, quando oltre
al resto si
pensi che Antigone
eser- cita l'inflessibilità del
suo volere nel
compiere un'opera pietosa,
mentre Gigliola nel
commet- tere un'uccisione. (1)
Articolo della .V.
Antologia, lfi aprile
1905. LA FIACCOLA
249 E sia
pure l'uccisione di
ima mala bestia,
d'una bestia selvaggia
senza nome, che
tutto insozza e
corrompe, Angizia Fura,
la femmina di
Luco. Trascinata dal
suo perverso istinto
ambizioso, essa ha
suscitato nelle carni
flaccide del padrone
Tibaldo de Sangro
la libidine ar-
dente di possederla, s'è
disfatta della padrona,
Monica, facendole cadere
sul collo, tagliuola
orrenda, il coperchio
massiccio d'un cassone
nu- ziale e cosi
soffocandola in quell'ordegno
di morte (');
e ora delinque
col cognato sanguigno
e brutale, e
ora mina con
le misture venefiche
la tenue esistenza
dell'adolescente Simonetto. In
una parola; un
mostro. Non giusto
ini sembra l'appunto
del Corradini che
trova in queir
An- gizia una specie
di « dilettantissimo criminale
» e non
sa spiegarsi perchè
essa voglia la
morte (inutile, egli
dice) del giovinetto.
Data la na-
tura mostruosa di quella
bestia, tutta la
sua de- littuosità procede a
fi 1 di
logica. Essa vuole
spiantare la famiglia
intera dei Sangro,
e co- mincia con
l'erede, che è
legato d'un sol
filo alla terra;
poi si può
giurare che attenterà
a Gigliola ed
al marito, perchè
vuole arricchire sè
(1) Codesta morte
è d'un genere
che potrebbe piacere
ai romanzieri ed
ai drammaturghi russi.
Dicesi, del resto,
che non sia
sconosciuta nelle leggende
abruzzesi. II D'Annunzio
medesimo ne avea
già fatto una
crudissima rappresentazione in
certo suo vecchio
bozzetto, La madia,
Cfr. oggi Le
nocelle ilella Peni-ara,
Milano, 1902, p.
381. [Un riscontro
antico, di Masuecio,
additò il mio
caro discepolo M.
A. Garrone, nella
Rivìnta d'Italia del
1908]. 250 LA
FIACCOLA e far
ricco e potente
il suo drudo,
Bertrando Acclozamóra. Se
non che questa
figura non ha
di greco nulla;
essa ci richiama
ad altre fonti,
ci richiama, anzi,
ad una fonte
che non so
se sia stata
avvertita altrove, ma che a
me, sin dalla
prima audizione, apparve
manifesta. Al- ludo ad
uno dei capolavori
del dramma bor-
ghese nordico, Fuhrmann Henschel
di Gherardo Hauptmann.
Si giudichi. In
casa del vetturino
Henschel, la saggia
e mite moglie
di lui si ammala, langue
per alcun tempo
e poi muore,
lasciando una iìgliuola,
Gustla. Il marito,
che alla domestica
sana, florida, energica,
Hanne, avea già
fatto l'occhiolino dolce,
tantoché Frau Henschel
se n'era impensierita;
il marito, reso
vedovo, un paio
di mesi dopo
che la moglie
era sotterra sposa
la serva. Questa
trionfa nell'amor pro-
prio appagato, nella sete
di dominio soddisfatta,
e ben presto
si palesa fredda,
egoista, poco de-
ferente verso il marito.
La piccola Gustla,
non molto appresso,
viene a spirare.
Il povero vet-
turale affranto, ridotto a
mal partito, material-
mente e moralmente, vuol
prendere in casa
una bimba che
Hanne ha avuto
illegittimamente prima di
congiungersi a lui,
Berthla. Ma Hanne
non vuol saperne
d'impicci, impietrata com'è
nella sua nequizia.
Un brutto giorno,
in una bettola,
lo Henschel si
sente dire in
faccia dal proprio
cognato, con cui
viene a parole,
che sua mo-
glie ha una tresca
e che probabilmente
a lei si
deve la morte
della sua prima
compagna e LA
FIACCOLA 251 quella
dì Gustki. Ciò
conduce alla catastrofe:
il vetturale tornato
a casa si
appende per la
gola. Questa lugubre
storia non ha
veri antecedenti drammatici,
salvo in una
novella del medesimo
Hauptmann, Bahnwàrter Thiel:
le affinità che
si vollero vedere
con drammi scandinavi
e russi sono
troppo vaghe (').
In quella parte
della produzione dello
Hauptmann che è
sinceramente e rudemente
realistica, Fuhrmann Renschel
è l'opera più
poderosa, non solo
per logicità ser-
rata di condotta, ma
anche per originalità.
Nulla di più
agevole ad intendersi
che sul tempera-
mento recettivo del D'Annunzio
essa abbia la-
sciato gagliarda impressione e
ch'egli, nella sua
facoltà assimilativa non
ordinaria, abbia inne-
stato quella favola germanica
sul vecchio tronco
greco delle nitrici
fatali. Angizia è
una va- riante di
Hanne; serva che
si fa padrona,
se- ducendo il
padron suo ed
ammazzandone la moglie;
vipera che attossica
l'aria nella casa
diventata sua, e
senza scrupoli, insidiosamente, tende
a sbarazzarsi d'ogni
ostacolo; bestia che
procura la rovina
di quanto la
circonda, con l'intento
di sedersi poi
essa sui ruderi,
trion- fando e gavazzando
immonda. Per tal
guisa, all'impostatura greca
della tra- gedia s'allaccia il
dramma moderno, saturo
di (1) Per
siffatte affinità e
per l' analisi più
particolareggiata del dramma,
è da vedere
il garbato libretto
di C. De
Lolms, Geranio Haiiptmann
e l'opera sua
letteraria, Firenze, 1899,
pp. 170 sgg.,
ed anche nn
suo articolo, L'ultimo
dramma di (1.
Hauptmann, nella A.
Antologia del Iti
dicembre 1898. 252
LA FIACCOLA patologia.
Esso influisce anche
su altri perso-
naggi, sulla stessa Gigliola,
che ha l'ossessione
d'una monomaniaca, come
certe donne del-
l'Ibsen, come certe
ligure del maggiore
fra i se-
guaci scandinavi dell'
Ibsen, lo Strindberg.
A questo gli
antichi non pensavano;
erano troppo sani.
Ed è pure
ricorrendo a quest'ordine
di fatti che
si spiega Tibaldo
de Sangro, un
car- diopatico floscio, che
trova la violenza
del na- tivo Abruzzo
e la cattiveria
acre degli istinti
primitivi pervertiti nella
sola scena terribile,
pur tanto evidente
nella sua fierezza,
dell'al- terco col fratello
Bertrando. Nel resto,
Tibaldo è un
indeciso, è, come
fu detto assai
felice- mente dal Corradini,
« la materia
frolla che sta
fra le due
eroine, tra la
volontà del delitto
e quella della
vendetta » . Ma
io che non
parto, come il
Corradini, dal preconcetto
per cui nel
teatro tragico dovrebbe
esservi solamente «
scul- tura che si
muove », io
non posso scandaliz-
zarmi al cospetto di
quel disgraziato adiposo,
senza sangue e
senza muscoli, che
si vede crol-
lar tutto d'intorno, tutto,
tutto, irrimediabil- mente.
Non so come
qualcuno abbia potuto
sospet- tare ch'egli sia
complice nel delitto
per cui Mo-
nica lasciò la vita
nella tagliuola. Quest'è
una sopraffina e
premeditata calunnia, che
gli lancia in
volto Angizia, sicura
del potere che ha su
di lui. *
Sono coperta dal
tuo padre; due
siamo, due fummo
», esclama ella
al cospetto di
Gi- gliola esterrefatta, e così pensa,
la scellerata, di
LA FIACCOLA 253
farsi scudo della
complicità altrui nel
delitto. E da
quel momento la
pace di Tibaldo
è inte- ramente perduta; egli
si vede sospettato
e re- ietto, dalla
figlia, dalla madre;
la sua meschina
anima n'è martoriata,
n'è trascinata alla
dispe- razione. La disperazione
sola può fare
il mira- colo di
armargli la destra
e d' indurlo a
preve- nire sulla selvaggia
bestia, cagione di
tutti i mali,
la vendetta che
dovea compiersi per
le mani pure
di Gigliola. Il
vetturale Henschel am-
mazza sè: Tibaldo uccide
altri; ma nella
inde- risione, come nell'infelicità, hanno
molti punti di
somiglianza, per quanto
può essere simile
un barone abruzzese
ad un popolano
tedesco. I pa-
renti più prossimi di
Tibaldo non sono
certo da ricercarsi
in Italia e
molto meno in
Grecia; ma tra
le brume del
nord, nel teatro
ibseniano. * *
# Un terzo
elemento, complesso e non trascu-
rabile, cooperò alla formazione
della Fiaccola, la
tradizione, la topografia,
gli usi paesani.
An- che qui il
D'Annunzio ha saputo
profittare, con senso
d'arte insuperato, dei
tesori offertigli dal
suo Abruzzo, e
ciò contribuisce a
formale lo sfondo
del suo quadro
e a dar
vita a un
per- sonaggio che anche
i più scontenti
dovettero ammirare. Lo
sfondo, che talor
si anima e
in- combe col gravame
solenne dei secoli,
è il pa-
lazzo dei Sangro; il
personaggio è Edio
Fura di Forco,
il serparo, padre
sconfessato e maledi-
cente d'Angizia. 254
LA FIACCOLA Oli
quella casa baronale
dei Sandro, domi-
nante il paesello di
Anversa, nella regione
degli antichi Peligni,
a mezzodì, oggi,
nella provincia dell'Aquila!
Le casupole di
Anversa, appollaiate sulla
rupe, sembrali pulcini
intorno alla chioc-
cia, paurose di precipitare
nel burrone li
presso, ove scroscia
rabbioso e spumeggiante
il Sagit- tario; in
lontananza si profila
la Maiella nevosa
('). Gran predilezione
ebbe sempre il
D'Annunzio per le
case signorili vetuste,
deserte, cadenti. Rammenterete,
nel Trionfo della
morte, la casa
degli Aurispa, a
Guardiagrele, pure al
cospetto della Maiella,
meno grandiosa certo
e meno con-
sunta di quella dei
Sangro, ma ricettacolo
essa pure di
brutture, di violenze,
di malattie, d'in-
sidie, ove pure scoppia
un alterco fra
due fra- telli, Giorgio e
Diego, che si
detestano. Rammen- terete, nelle
Vergini delle rocce,
la gran villa
trasformata di rocca
feudale che prima
era, con- servante «
tuttavia l'enormità formidabile
delle « sue
mura e delle
sue volte su
cui le epoche
« successive avevano
lasciate impronte varie
di « arte
e di lusso,
talora in contrasto
e talora j?8,
duna bambina, quella
Jeanne d'Albret, che.
do- veva essere un
giorno madre di
Enrico IV. Mar-
gherita. « donna di
talento e di
saldezza rara »,
com'obbe a qualificarla
l'ambasciatore veneto* !iu-
stiniani. s'adoperò in
tutte guise perchè
la pace domestica
non tosse turbata,
ed all'amore verso
il fratello sacrificò,
insieme, il suo
stesso affetto ma-
terno e consenti che
quell'unica figliuola (un
fan- ciullo, nato di
poi. non visse
che due mesi)
le fosse strappata
ancor tenera, e
clic, educata lon-
tana di lei. servisse
ai disegni politici
del re di
Francia. Lungi dal
serbargli rancore per
quel- l'alto crudele, la
donna sublime continuò
ad es- sere il
buon genio del
re Francesco, lo
sovvenne nella fondazione
del Collegio di
Francia, lo in-
dirizzò nella scelta dei
professori, si studiò
d'in- spirargli, come sempre,
quella tolleranza religiosa
che era in
cima ai suoi
pensieri e da
cui i cre- denti
s'allontanavano allora, come
ora, cosi di
frequenti*. Quando era
lasciata libera dalle
oc- cupazioni presso la
Corte grande, si
rifugiava volentieri nella
sua pacifica Corte
minuscola del Bea
mese, nei castelli
di Nenie e
di Pan, ove si abbandonava
all'antico amore per la produzione
poetica, e conversava
d'arte, di lettere
e di fi-
losofia con illustri personaggi,
ovvero esercitava le
agili dita nei
più squisiti ricami
istoriati. La morte
del fratello Francesco
fu un colpo
di ful- mine che
distrusse quella pace.
Dopo l'infausto avvenimento,
Margherita non stette
più bene di
LA MARGHERITA DELLE
l'HINCII'ESNE salute: una
gran stanchezza la
opprimeva, con- tro la
quale tentava ormai
indarno ili reagire
la sua volontà
eccezionalmente energica. Il
colpo d'apoplessia, clic
la colse il
21 dicembre lf>4^,
fu per lei
una liberazione; per
quanti, amandola, la
circondarono, una irreparabile
sventura. Con Mitezza
di penetrazione psicologica
femmi- nile, la (iarosci
ha rinarrato in
tutti i più
minuti particolari questa
vita, di cui
qui son tracciate
solo le linee
capitali. E una
vita d'operosità, d'ab-
negazione, di pensiero, di
sentimento, che non
ha pari nel
periodo della Rinascita.
Invano il pet-
tegolezzo cortigiano, di cui
fu uno dei
principali interpreti il
Hrantòme, cercò di
spruzzare del fango
su quella candida
ed eletta figura.
Essa resta, alla
luce dei documenti,
immacolata: e tale,
nel suo misticismo
soave, nell'amore disinteres-
sato per ogni cosa
bella, della natura
e dell'arte, nella
sete perpetua di
verità e di
poesia, nella pratica
indulgente e sagace
della vita, è
rappre- sentata nel libro
della signora G-a rosei.
En po' di
grafomania potrebbe non
ingiusta- mente essere rimproverata
a Margherita d'An-
goulóme. Ila scritto
troppo, e non
sempre bene. La
Garosci passa in
rivista tutta intera
la sua produzione
e sa distinguervi
ciò che vale
e ciò che
significa da quel
molto clic è
vanità, lun- gaggine, cicaleccio. La
regina di Navarra
non è una
grande scrittrice, ma
una scrittrice rap-
prese illativa. 270 LA
SU ARflHERITA DELLE PRINCIPESSE
Già Alfredo de
Musset nota che
in Margherita ci
sarebbe stata la
stoffa di una
romanziera; ma invece
Elle aima mieux
mettre en lumiere
Une larine qui
lui fut ehère,
Un bon mot
dot elle avait
ri. Codeste sue
osservazioni, ora gaie,
ora malin- coniche, affidò, quando
ormai l'età le
consentiva ogni libertà
di linguaggio, ad un libro
di novelle, imitante
il Decaìneron, che
per la sua
educazione mezzo italiana potè
conoscere nel testo
prima che, per
sua iniziativa, fosse
tradotto, nel 1543,
in francese. Il
libro, rimasto interrotto
per la morte
di Francesco I
1.1547), fu in
gran parte composto
in lettiga, nei
frequenti viaggi di
Mar- gherita. Le novelle
non raggiunsero il
numero di cento,
come avrebber dovuto;
se n'ebbe un
Heplamèron. Se l'inspirazione prima
è nel Boc-
caccio, si può ben
dire che molto
vi si sente
il Cortegiano del
Castiglione, libro che
alla regina piaceva
in sommo grado.
A differenza dal
Boc- caccio, la nostra
gentildonna vi narra
quasi sem- pre fatti
accaduti; a differenza
dal Boccaccio, la
satira che v'è
frequente e pungente
contro il clero
corrotto, non si
estende mai dalle
per- sone alle istituzioni,
per le quali
Margherita nu- triva sommo
rispetto; a differenza
dal Boccaccio, pur
mostrandosi l'autrice del
tutto spregiudicata nel
narrare fatterelli scabrosi,
non ha punto
quella compiacenza del
lubrico che caratterizza
l'osce- nità della coscienza.
Scagionandone Margherita, LA
MARGHERITA DELLE PRINCIPESSE
271 la Garosci
ha fatto in
proposito distinzioni giu-
stissime: « Questa raccolta
di disgrazie coniu-
« gali (conclude),
di tragedie galanti
e di stra-
« nezze antiraonastiche è
immorale solo secondo
« le convenienze
del nostro secolo;
e le conve-
« nienze sono,
si sa, cosa
estremamente varia- *
bile ». La
pudibonda schizzinosità femminile
dell'età nostra, che
non è punto
indizio di vera
e sentita verecondia,
non era nelle
consuetudini nò del
medioevo, nè del
rinascimento (*). L' Heptamèron, chi lo consideri
a fondo, è
libro di indiscutibile
moralità, pensato e
scritto da chi
aveva nobilissimo il
sentimento dell'amore come
quello della religiosità.
L'aver apprezzato giu-
stamente, nel suo valore
biografico, psicologico e
dottrinale, questo libro
« parlato e
vissuto » ;
l'avervi per la
prima volta in
Italia, additato la
« profonda e
sottile e compiuta
conoscenza della psicologia
femminile »; l'averne giudicato
retta- mente il valore
artistico, rilevandovi la mancanza
della lima, la
soverchia prolissità dei
ragiona- menti filosofici e
teologici, « di
una teologia ch'è
« troppo femminina
per non essere
più diffusa «
che profonda »,
la deficienza d'ogni
sentimento della forma,
che pur non
toglie efficacia all'opera,
giacché Margherita «
non ha affatto
bisogno di «
essere una scrittrice
per scrivere eccellente-
« inente »;
tutte queste cose
ed altre fanno
del (li Su
questo argomento sono
da vedere i
fatti e le
chiose di F.
Novati, nello scritto
I detti d'amore
d'ima contessa pisana,
in Attraverso il
medioevo, Bari, 1905,
p. 123 e
sgg. 272 -fc^MARGHERITA DELLE
PRINCIPESSE capitolo dedicato
all' Heplaméron la parte
forse più interamente
riuscita e più
vivacemente spi- gliata del
libro della Garosci.
I molti scritti
in poesia, liriche,
poemi, poe- metti, drammi, si
dispongono in due
grandi rac- colte: quella
delle Marguerites, edita
la prima volta
nel 1547, e
riprodotta in quattro
volumi, coi migliori
sussidi della critica,
da Félix Frank
nel 1873; e
quella delle Demières
poésies, fatta conoscere
nel 1896 da
Abel Lefranc. Se
a tali due
raccolte si aggiungono
le due commediole
satiriche: Le malade
e L' inquhiteur, pubblicate
dal Le Roux
de Lincy e dal Jlontaiglon
in ap- pendice all' Heplaméron, si
avrà tutta intera
la produzione della
regina di Navarra
('). II valore
delle Marguerites è
più specialmente sentimentale
e religioso. Se
nel poemetto La
co- che è presentata
una sottile disputa
d'amore, nella quale
è chiamata a
pronunciare verdetto Renata
di Fi-ancia; se
nella Complainte, tutta
costellata di concetti
biblici, è difeso
Clemente Marot, pro-
fugo per ragion di
fede; se le
epistole poetiche spirano
tutto l'affetto che
la nostra verseggia
- trice aveva
sempre desto nell'anima
per il fra-
tello monarca: le chansons
spirituelles esprimono con
lirismo entusiasta il
fervor religioso della
grande credente ed
i lunghi componimenti
che (1) I
non molti componimenti
poetici che restano
ancora inediti nel
ms. Bouhier, e
dei quali diede
qualche conto il
Paris nel menzionato
articolo del Journal
des savanti, hanno
importanza minima. LA
MARGHERITA DELLE PRINCIPESSE
273 s'intitolano Miroir
de l'dme pecheresse
e Triom- phe
de VAgneau implicano
discussioni dottrinali di
fede e tripudio
di un'anima mistica.
Malgrado la vivezza
del sentimento, in
tutti codesti versi
vi è di
rado poesia: Margherita
ragiona troppo e
troppo sottilmente: lo
slancio del suo
cuore en- tusiasta avviva spesso
i suoi ragionamenti,
ma a renderli
poesia questo non
basta. Lo dice
non male anche
la signora Garosci:
« Tutta questa
* poesia delle
Marguerite?, non può
dirsi, salvo «
l'are eccezioni, della
grande poesia: elevatis-
« sima per
il contenuto e
scritta in lingua
lim- « pida e sana,
manca troppo spesso
di ciò che
' distingue la
poesia: il rilievo,
il canto, il
ritmo, « lo
slancio, che solleva
non solo, ma
sostiene il «
pensiero ». Nelle
Demières poésies predomina
la filosofia. Frammezzo
alle epistole, alle
liriche ed a
qual- che componimento dialogato,
spiccano qui due
poemi: il poemetto
in terzine Le
Navire, in cui
Margherita piange per
l'ultima volta la
morte del fratello,
e la cosa
più rilevante che
la prin- cipessa abbia
scritto in versi,
l'esteso poema al-
legorico Les Prisons. Nel
Navire è imitata
la ter- zina di
Dante; nelle Prisons
è fusa in
una vi- sione di
sapore dantesco quella
filosofia platonica, che
fu l'ultimo rifugio
dello spirito combattuto,
esulcerato e passionale
di Margherita. Ivi
assi- stiamo al progressivo
liberarsi dell'anima umana,
condotta da guide
simboliche, dalle prigioni
del- l'amore, della mondanità,
della scienza: la
libera- zione viene dal
lume divino, partecipato
per via Renier
- Svaghi Critici
18 274 LA
MARGHERITA DELLE PKINIIPE8SE
della fede, ed è esso
la verità a
cui l'anima anela
ed in cui
finalmente s'acqueta. Dante
e Platone furono
l'ultimo conforto di Mar-
gherita, eda lei pervennero
entrambi dall'Italia. 11
platonismo della dama
d'Angoulème era passato
a traverso il
Ficino ed il
Landino, era il
platonismo del nostro
Quattrocento ('). La
Commedia di Dante
fu uno dei
libri che potè
avere tra mano
fin da giovinetta,
e non è
impossibile che la
madre, la quale
insegnò a lei
ed al fratello
l'italiano, e lo
spagnuolo, gliene facesse
sin d'alloragustare qual-
che episodio. L'alta società
francese di quel
tempo era tutta
satura d'italianismo: è
noto quanto le
arti e le
lettere italiane campeggiassero alla
Corte del re
cavaliere (!), dal
desiderio di compiacere
il quale sembra
che il nostro
Castiglione abbia avuto
la prima mossa
a scrivere il
Corlegiano. Margherita, che
non solo intendeva,
ma anche parlava
e forse scriveva
persino in versi
la lin- gua nostra
(3), informò, come
vedemmo, a quel-
l'impareggiabile libro di cortigiania
le sue novelle,
per cui aveva
dal Boccaccio solo
attinto l'idea e
l'ordinamento, e di
altri scrittori nostri,
come ad esempio
del Sannazaro, si
mostrò buona co-
fi) Vedi Lkfranc,
Marguerite de Xararre
et le platonisme
de la Renaissance,
nella Bib1iotli*que de
l'école dea chaHes
del 1897 e
del 1898. (2)
Tutti ormai hanno
letto il buon
saggio di F.
Flamlni, Le lettere
italiane alla- corte
di Francesco I
di Francia, nel
suo volume di
Studi di storia
letteraria italiana e
straniera, Li- vorno, 1895.
(3) Vedi I'»
ot, I^es Francois
ilalianhant* aie XVI
siede, I, Paris,
190U. p. 11
e sgg. LA
MARGHERITA DELLE PRINCIPESSE
275 noscitrice. All'ostico
ma salutare nutrimento
della poesia dantesca
sembra tornasse nell'ultima
fase del suo
pensiero; ma le
traccie che ne
rimasero nell'opera sua
sono delle più
significanti, ond'è che
questo soggetto, prima
che ne trattasse
nel suo volume
la signora Garosci,
aveva già atti-
rato l'attenzione di critici
come l'Hau vette (') ed il
Farinelli (*). *
Tre periodi riconosce
la Garosci nella
vita e nel
pensiero di Margherita:
« un periodo
di mi- «
sticismo giovanile, un
periodo di più
decisa (li Margherita
delle Dernières poesìe»
è l'argomento prin-
cipale di cui tratta
I'Hauvette nella sua
conferenza su Dante
nella poesia francese
del Rinascimento, trad.
it., Firenze, 1901.
(2) È noto
che il Farinelli
attende ad una
grande opera in
due volumi su
Dante in Francia,
di cui vedemmo,
per cor- tesia dell'autore, molti
fogli di stampa,
e che si
spera esca in
luce entro l'anno
1906, editor* lo
Hoepli. Tra i
saggi di quest'opera
egregia, che sono
già comparsi, uno
riguarda Dante nell'opere
di Christine de
Pisan (Halle, 1905,
nel volume giubiliare
dedicato ad Enrico
llorf i ed
un altro Dante
e Mar- yherita
di Xacarra, nella
lìii-ista d'Italia del
febbraio 1902. Se
Cristina, specialmente nel
poema Le chemin
de long elude
(1402), fu la
prima imitatrice francese
dell'Alighieri, Marghe- rita fu
la seconda; il
culto di essa
per Dante va
collegato col suo
desiderio sempre vivo
di scrutare i
problemi religiosi e
con l'elevazione costante
dell'anima sua nel
proseguire la verità.
Si noti che
la prima versione
francese AelVInferno Dantesco,
fatta sugli inizi
del sec. XVI,
è giudicata opera
d'un abitante del
Berri : e
siccome Margherita era
nel 1517 creata
dal fratello duchessa
di Berri, si
suppose che il
traduttore fosse uno
dei suoi cortigiani.
La supposizione, ardita
ma non iuverosimile,
è di G.
Camus, nel Giornale
storico della lettera-
tura italiana, voi. XXXVII,
p. 92. 27(5
LA MARGHERITA DELLE
PRINCIPESSE « partecipazione alle
dottrine e agli
ideali della «
Riforma, un ritorno
al misticismo giovanile
con- « fortato
di elementi platonici:
tutto ciò su
un « fondo
stabile di catolicismo
non mai aperta-
« mente sconfessato
nelle linee dogmatiche,
as- « sidua mente
praticato nelle cerimonie
del culto «
e nelle relazioni
eccellenti con la
Santa Sede >
(p. 342). Questo
convincimento intorno alla
posizione della regina
di Na varrà rispetto
al moto rifor-
mista rampolla da tutto
il libro di
cui ci occu-
piamo, e ne è
il risultato più
notevole. Il Lefranc,
e, dietro a
lui, il Rasraussen,
considerarono Mar- gherita come
decisamente protestante; opinione,
del resto, già
antica per la
costante simpatia da
essa dimostrata ai
riformisti, per la
protezione accorda taad
alcuni diloro, per
Je opinioni espresse
con tanta insistenza
nella parte maggiore
del- l'opera sua. Sin
dalla giovinezza la
nostra gen- tildonna aveva stretto
relazione con quel
Gu- glielmo Brigonnet, vescovo
di Meaux, spirito
no- bilissimo, mistico, aspirante
al rinnovamento del
clero, che accolse
poi nella sua
diocesi i prin-
cipali fautori della riforma
religiosa in Francia,
Guglielmo Farei, Gherardo
Roussel, Michele d 'A rande,
e il Lefòvre
d'Etaples (';. Al
centro in- tellettuale di Meaux
aderì con tutta
l'anima la giovine
duchessa dalla vicina
Alencon. Si badi,
(1) I rapporti
di Margherita col
Brigonnet sono oggi
me- glio noti mercè
la pubblicazione fatta
nel 1900 da
Ph. A. Be- cker. LA
MARGHERITA DELLE PRINCIPESSE
277 peraltro, le
dottrine di elevatezza
e larghezza religiosa,
professate dal Lefèvre
d'Etaples erano anteriori
a Lutero e
a Calvino. Quando
la Sor- bona ed
il governo di
Francia presero e
reagire violentemente contro
ogni idea di
riforma ec- clesiastica e
religiosa, Margherita fu
presso il fratello
titubante ed opportunista
la maggiore alleata
del Bri5- per
chi scende dal
Cenisio (XIX, ;V),
e quell'Ancona mezzo
orientale, abitata per un buon
terzo da Greci,
come non fu
mai (I, 4), e via
dicendo. Ma in
fondo, anche per
la Stael, l'Italia
è la terra
dei morti ;
solo essa ha
uno strano presenti-
mento che possa risorgere
come nazione moderna,
e di questo
presentimento si fa
interprete Co- rinna, che
sente l'italianità con
vero fervore. Tutti
sanno che Cornine
è per tre quarti una
specie di Baedeker
anticipato: le città
visitate dall'autrice, Roma
specialmente, poi Napoli,
Mi- lano, Venezia, Bologna,
Firenze e altre
minori, ci sfilano
d' innanzi coi loro
monumenti, sui quali
molto, anzi troppo
si ragiona. Ma
son ragiona- ri) Leggasi
il libro di U. Mknoix,
ÌJ Italie dei
romantìtjites, Paris, 1902,
ov' é pure
un capitolo sulla
Stael. 294 CORINNA
nienti -che quasi
sempre rivelano più
dottrina e pensiero
che gusto. Osservazioni
come quella calzante
fatta sul Correggio,
« le Corrège
est peut-ètre le
seul peintre qui
sache donnei' aux
yeux baissés une
expression aussi pénétrante
que s'ilsétaient levés
vers le ciel
» (XIX, 6),
sono rare. Sente la
Stael il fascino
delle rovine a
cui l'aveva iniziata
Guglielmo Schlegel, suo
compagno di viaggio,
che sapeva a
memoria i principi
del Winckelmann e
del Lessing e
le osservazioni del
Goethe sente anche
la suggestione dei
luoghi deserti e
delle catacombe, che
parlano all'anima; ma
vivo senso della
natura non ha
(*). Alle cose
inanimate preferisce pur
sempre gli uomini;
ma gli uomini
e le donne
d'Italia conosce troppo
imperfettamente, sicché i
suoi tipi d'italiani
sono astrazioni. La
preferenza che Osvaldo
dà a Lu-
cilla Edgermond in confronto
a Corinna, sia
pure sospintovi dal
culto per la
memoria paterna (un
tratto anche questo
che il lord
scozzese ha co-
mune con la Stael),
è un disconoscere
le qualità di
spirito italiane. Osvaldo,
in ultima analisi,
al pari della
scrittrice di Corintie,
al pari del
vo- lubile conte d'Erfeuil,
ama, si e
no, l'Italia ac-
cademica, ma non ama
l'Italia degli italiani,
per- chè non la
conosce. Piaceva alla
Staèl segnatamente la
poesia ita- liana: cita
(talora storpiandoli) versi
di Dante, (1;
Cfr. Blesnerhasset, Op.
cit., Ili, 168
sgg. Vedi pure
di lei l'articolo
Frati voti Stael
in Italien, nella
Deutsche Iiunrf- schau
del 1888, voi.
56, pp. '267
sg#. (2,1 Vedi
ciò che osserva
il Saixte-Bei:ve, Op.
cit., p. 127
«. CORINNA 21)5
del Tasso, del
Metastasio; loda specialmente
il Monti e
l'Altieri; ma s'ingannerebbe a
partito chi reputasse
profonda la sua
cultura nelle cose
letterarie nostre. Prima
di scendere nella
peni- sola, la Staci
sapeva assai poco
di letteratura italiana.
Nei mesi che vi trascorse
nel 1804 e
nel 1805 sfogliò
molti libri italiani,
si entusiasmò più
volte, perchè la
sua indole era
facile all' en- tusiasmo; ma
non ebbe il
tempo necessario per
approfondire i suoi
studi. Chi le
fece gustare la
nostra poesia fu
Vin- cenzo Monti. Oggi,
meglio che un
tempo, cono- sciamo le
relazioni della Staèl
col Monti (').
E risulta sfatata
da questa miglior
conoscenza la leggenda,
accreditata specialmente dal
Cantù ('), che
la gentildonna francese
fosse intensamente innamorata
del Monti, e che questi
non le cor-
rispondesse. Nulla di simile
alla relazione, vera-
mente amorosa, che avvinse
per quasi tutta
la vita mad.
de Stael a
Benjamin Constant, il
quale ne subiva
il giogo. È
ben vero che
la scrittrice nostra
dirigeva lettere molto
espansive al Monti,
(1) Alle 36
lettere della scrittrice
francese al poeta
ita- liano note sin
dal 1876 per
un volumetto ormai
divenuto assai raro,
la sig. Ilda
Morosini volle aggiunte
le altre, che
si tro- vavano inedite a
Ferrara, e su
tutte compose un
garbato ar- ticolo del
Qiorn. stor. Mia
leti, italiana, voi.
XLVI (1905). Poco
appresso Julien Lxichaire
ottenne di poter
estrarre dal- l'archivio
di Coppet le
lettere del Monti
alla Staèl e
le in- serì nel
Bulletin italien, voi.
VI (1906,). Così
si può studiare
intero quel carteggio,
e le nostre
idee ne guadagnan
chia- rezza. (2)
Monti e l'età
che fu sua,
pp. 99-101. 296
CORINNA e che
questi, non sempre,
ma spesso, la
ricam- biava con uguale
espansione ; è
anche vero che
tra le cose
ammirate in Italia
la Stael soleva
porre il Monti
in prima linea,
accanto al mare,
a S. Pietro,
al Vesuvio; ma
conoscendo i due
personaggi, entrambi sensitivi
e pieni di
fuoco, è agevole
capacitarsi che tutto
ciò si potea
con- ciliare con una
semplice, affettuosa amicizia.
Di ricorrere all'ipotesi
dell'amore, dall'una o
dal- l'altra parte, non
v'è necessità alcuna
anzi se ne
ha smentita. La
Staèl desiderava che
il poeta italiano
la riguardasse come una sorella
e il Monti
voleva esserle fratello
('). Queste desi-
gnazioni commentano i loro
rapporti vicendevoli e
ci spiegano l'affettuoso
interessamento reci- proco, anche
se in qualche
lettera la frase
co- lorisca il sentimento.
Giacché, come accennai,
la fonte principale
della grande amicizia
della Staèl pel
Monti era letteraria.
Ammirasi in Corintie
il Monti come
un impareggiabile dicitore
di versi: il
sentirlo recitare squarci
come l'Ugolino, la
Francesca, la morte
di Clorinda è
« un des
plus grands plai-
* sirs dramatiques
* . Infatti il
Monti, a Milano,
lesse alla dama,
che poco sapeva
di lettere ita-
liane e se n'era
foggiata idea storta
(!), molti fi)
Bulletin ilalien cit.,
pp. 164 e
354. (2) Vedasi
specialmente la sua
opera La littérature
ronsi- dèrèe dans
spu rapporta avec
leu inatitutions socìales
e ciò che
ne dice il
Dejob. Op. cit.,
pp. 25-41. V
CORINNA 297 brani
di classici nostri,
segnatamente di Dante
('); lesse come
sapeva legger lui,
sicché la Stael
ne fu commossa
sino alle lagrime.
A Luigi Hossi,
che gliela aveva
presentata, scrisse il
Monti il 9
gennaio 1805, d'essere
soddisfatto d'averle in-
spirata « una migliore
idea dell'italiana lettera-
« tura, facendola
piangere largamente alla
recita « di
qualche bel pezzo
de' nostri classici,
e for- «
zandola a confessare
di a ver errato nei
suoi « giudizi,
de' quali mi
ha promesso la
ritratta- « zione
» (*). E
il Monti continuò
sempre ad es-
sere per la Stael
il miglior consigliere
in fatto a
poesia italiana, sebbene
essa conoscesse altri
letterati ben più
disposti di lui
ad incensarla, specialmente
il Cesarotti. Quell'amicizia era
ce- mentata di letteratura
e, malgrado le
espansioni, continuò sempre
ad essere letteraria,
mentre verso la
cara figliuola di
Germana. Albertina, il
Monti sentiva tenerezza
paterna e ne era
tìglial- mente corrisposto.
Intercedeva (nè fu
abbastanza considerato) tra
gli spiriti del
Monti e della
Stael diversità non
piccola, specialmente nel
modo d'intendere la
(1) Per Fuso
che là Stael
fece di Dante
cfr. Counson, Dante
en Franr.e, Erlangen,
1906, pp. 111-115. E notissimo
il passo d' vi
ria lettera al
Monti del 23
giugno 1905 :
« J' étudie
le Dante •
avec ardeur, pour
qu'à votre arrivée
à Còppet vous
me ■ trouviez
plus avancée encore
dans Titalieu ■. Nell'autunno
di quel medesimo
anno il Monti
fu nel castello
di Coppet, ospite
desideratissimo della Stael.
Cfr. Il libro
e la stampa,
I. 53-54. (2)
G. BiADEGn, Vincenzo
Manti e la
baronessa di Stael,
Ve- rona, 1880, p.
7. 298 CORINNA
letteratura. Il Monti
piegò al romanticismo
solo in qualche
occasione, per quella
sua duttilità sin-
golare, ma in fondo
rimase sempre classicista
fervente; la Staél
era, per indole
e per cultura,
una romantica. *
* * Assai
prima d'affermare col
famoso libro De
VAllemagne (1810) le
sue simpatie per
la Ger- mania dei
filosofi e dei
letterati, la cui
cono- scenza fu per
quell'opera particolarmente diffusa
oltre il Reno,
la Stael, svizzera
d'origine e co-
smopolita per educazione, avea
mostrato decisa tendenza
al rinnovamento delle
lettere. Essa partì
dal Rousseau, il
cui influsso è
patente nel romanzo
epistolare Delphine (1802),
e con la
me- ditazione dei pensatori
tedeschi, e con
lo studio della
propria anima passionale
affinò l'arte pro-
pria in Corintie, che
è scrittura, malgrado
in- certezze e contraddizioni, eminentemente
roman- tica ('). In
Italia Corintie fu
bene accolta dai
novatori, e quando,
per curar la
salute del secondo
ma- rito Alberto de
Rocca, sposato clandestinamente nel
1811, la scrittrice
francese scese fra
noi una seconda
volta, negli ultimi
mesi del 1815,
si trovò in
un ambiente tutto
romantico. Conobbe il
Con- ci) Il Leapardi
trovò più volte
nel libro un'implicita
con- danna di massime
professate dal romanticismo.
Con l' usata precisione
è qualificato il
romanticismo della Stael
in Laxsiix, Liti,
francatile, pp. 865-9".
Ivi su C'orinne
l'eccellente p. 860.
CORINNA 299 falonieri,
il Pellico ('),
il Nìccoliin,«-+! ab.
di Breme ed
altri molti. Fu
anzi il di
Breme che prese
caldamente le difese
della Stael, autrice
di un articolo
sulle traduzioni inserito
nella Biblioteca italiana,
a llorché divamparono le
polemiche su quel
soggetto scottante (*).
Il di Breme,
come fu recentemente
dimostrato, venne ad
essere con quella
sua difesa della
Staci il primo
aperto av- vocato italiano del
romanticismo, perocché il
suo articolo precede
di qualche mese
la notissima Lettera
semiseria di Grisoslomo,
per la quale
il Berchet è
solitamente considerato come
il no- stro più
antico annunciatore del
nuovo verbo letterario
(3). Il quale
verbo letterario era
tale da adattarsi
all'indole dei vari
paesi e quindi
era logico che
la fisionomia da
esso assunta in
Italia diversificasse parecchio
da quella di
altri luoghi. Temerario
l'asserire per ciò
non solo che
fra noi romanticismo
non esistette (4):
può darsi, (1)
E strano che
il Dejoh. il
quale diffusamente nana
la seconda dimora
italiana della Stael,
affermi che il
Pellico non la
conobbe (pag. 124).
Il Pellico medesimo
nel cap. 50
delle Prigioni, dice
di averla incontrata
in casa Porro.
(2) Di quelle
polemiche riassunse bene
le vicende Eugenia
Montanari, Per la
storia della «
Biblioteca Italiana », in Mi-
scellanea in onore di G. Mazzoni,
II, 3(i3 sgg.
(3) Se ne
veda la dimostrazione
in (ìuux- rinne
con rispettosa riconoscenza. Nota
aggiunta. — Già
nel Fanfulla della
Domenica del 14
marzo 190i). sunse
in Germania ed
in Francia. Se
il Trezza allargò
oltre ogni misura
il valore del
romanticismo, panni che
questa signorina, tutt1
altro che poco
intelligente del resto,
lo re- stringa ingiustificatamente. Il
soggetto, delicatissimo, non
vuol essere trattato
a sciaholate. Dovréhbe
servire di monito
e di modello
la cautela con
che procedette il
Graf nello stu-
diare il romanticismo del
Manzoni. il) AH"
ipotesi del romanticismo
considerato come pianta
indigena italiana accenna
G. Perai.k, a
p. 87 del
suo libretto su
L'opera di (Gabriele
Rossetti, Città di
Castello, 190ti. L'idea
fu sostenuta dal
Flamini in un
corso universitario. Scorrendo
il carteggio dello
Stendhal. Per Enrico
Beyle, lo confesso
subito e since-
ramente, io non ho
alcuna particolare ammi-
razione. Poco simpatico lo
scrittore; meno sim-
patico l'uomo. Ho assistito
con stupore, e
non senza qualche
disgusto, al gran
da fare che
si diedero gli
stendhaliani di Francia
per pubbli- care e
pubblicare e pubblicare
tutti gli abbozzi
e frammenti di
suoi lavori rimasti
inediti a Gre-
noble, per raccogliere tutte
le briciole cadute
dalla sua mensa,
per chiarire le
innumerevoli sue bizzarrie
e svelare il
mistero dei molti
pseu- donimi con che
designò sè medesimo
e gli amici
suoi. S'è costituito
un club stendhaliano;
vi sono più
raccoglitori specialisti di
autografi stendha- liani e
di memorie di
lui : tutte
cose ottime quando
si avesse a
fare veramente con
una individua- lità eccelsa;
ma trattandosi invece
d'un uomo, vivace
innegabilmente d'ingegno, ma
sregolato, paradossale, sconclusionato e più che
un poco mattoide,
sembrano tanto esagerate,
da confi- nare col
grottesco. Il fenomeno,
per altro, di
questa contagiosa montatura
entusiastica, che ha
prodotto ormai mezza
biblioteca, non cessa,
per questo, d'esser
302 SCORRENDO IL
CARTEGGIO cleono di
noto, anzi lo
è tanto più,
quanto meno sembrerebbe,
a persone equilibrate,
degno d'in- censo e
d'adorazione quell'idolo. Non
fu, quindi, senza
interesse che appena
uscita in buon
as- setto, ordinata, annotata
la Corrispondance dello
Stendhal, mi diedi
a scorrerla con
gran curiosità, per
vedere se i
miei preconcetti, leggendo
nel- l'anima dello scrittore
come prima non
s'era potuto fare,
si dileguassero. La
Correspondance infatti, che
ora ha veduta
la luce in
tre grossi volumi
('), consta di ben 700
lettere, mentre i
primi due volumetti
della Correspondance ine-
dite, editi nel 1855,
con una prefazione
di Pro- spero Mérimée, ne
contenevano solo '212.
Quel libro, inoltre,
divenuto ormai quasi
irreperibile, recava le
lettere in gran
parte mutile e
defor- mate. La nuova
edizione le dà
intere, perchè rivedute
quasi tutte sugli
autografi. Essa aggiunge
e pone al
loro luogo, secondo
cronologia, le let-
tere già edite nel
1892 col titolo
di Lettves in-
limese nel 1893
in seguito ai
Sourenirs d'égo- tisme,
quelle officiali od
officiose rintracciate ne-
gli archivi dei Ministeri
di Francia, ed
un cen- tinaio circa
di lettere inedite
e sconosciute. Gio-
varono massimamente alla nuova
raccolta gli autografi
stendhaliani posseduti dal
Cheramy, sicché oggi
si ha un
epistolario nutrito e
ben curato. Di
esso ho profittato
per rivivere col
fi) Corresponrìanne de
Stendhal (lXfx)-1842), pubi,
par Ad. Paupe
et P. A.
Cheramy, Paris, Oh.
Bosse, 1908; tre
vo- lumi in-8 gr.
DELLO STENDHAL 303
Beyle; ed ho
richiamato alla memoria
quel molto di
autobiografico, che v'è
negli scritti editi
da lui, sia
viaggi, sia romanzi;
e mi son
servito, con la
debita circospezione, delle
tre opere po-
stume più ragguardevoli, fatte
conoscere da quel
gran beylista che
è Casimiro Striyenski
ed aventi carattere
autobiografico: il Journal,
che va dal
1801 al 1814
la Vie de
Henri Brulard, che
narra i fatti
dal 1878 al
1800 (2), i
Souvenirs d'ègotisme, che
dal 1821 giungono
al 1830 (3>
Della ormai grande
letteratura critica sull'au-
tore delfinatese potei consultare
i prodotti più
notevoli, facendo tesoro
in ispecie del
laborioso e sensatissimo
volume di Arturo
Chuquet (*), che
è e resterà
l'opera capitale scritta
sul Beyle (5).
Fatto ciò, la
mia coscienza non
mi rimorde di
aver trascurato nulla
per addentrarmi nella
cognizione d'uno scrittore,
di cui troppi
ragio- nano e scrivono
senza conoscerlo. Le
spigolature critiche, che
qui seguono, non
sono frutto di
una escursione superficiale
e molto meno
di ricerche indirette
e frettolose. Se
da esse lo
Stendhal non uscirà
in paludamento eroico
nè con l'aureola
do- vuta ai sovrani
intelletti, la colpa
non sarà mia.
(I) Paris, Charpentier.
1888. , non
hanno prodotto che
un grand'uorao ed
un pazzo: «
le grand nomine
est Shakespeare, le
fou Mil- ton »
(I, 93). Sdegnava
il Pope e
credeva che il
Lutrin del Boileau
valesse cento di
quei ricci perduti
(I, 245). Quando
si recò, nel
1826, in Inghilterra,
quella vita gli
piacque pochissimo e
trovò da biasimare,
con poco giudizio,
precisa- mente ciò che
altri lodano, le
istituzioni giudi- ziarie e
la condizione della
donna (II, 436).
Per lo Scott
provò dapprima entusiasmo
(II, 195, 227,
272, 302; ; ma
poi gli venne
in uggia e
ne disse corna
t1). Nell'autunno del
'16 conobbe a
Milano il Byron
nel palchetto di
Ludovico di Breme
(II, 501) (*),
e desinò poi
con lui (II,
13) e si
compiacque di scriverne
ad una dama
in- glese nel '24
(II, 341-43); ma
da quella lettera
importante e dallo
schizzo Lord Byron
en Italie che
è nel volume
lìacine et Shakespeare,
ri- sulta che gli
piaceva più la
sua bella ed
espres- siva fisionomia delle
sue opere e
che quella ina-
midatura di lord gli
dava ai nervi.
Tuttavia, meglio gli
inglesi che i
tedeschi. Sebbene più
d una biondina
formosa gli piacesse
in Germania, non
ebbe mai buon
sangue nè con
(1) Hod, p.
80; Chuqitet, p.
30f>. (2) Quivi
la data 1812
è un errore
di stampa, o
di gTafia, o
di memoria. Vedi
II, 342. DELLO
STENDHAL 313 quella
gente, nè con
quella lingua, nè
con quella letteratura.
I maschi gli
sembravano sgraziati, le
femmine * agréables
» prima del
matrimo- nio; ma dopo
il matrimonio «
faiseuses d'enfants, «
en perpétuelle adoration
clevant le faiseur
» (*). La
lingua e la
letteratura tedesca faceva
le vi- ste di
conoscerle, ma ne
sapeva poco e
male (*), come
in genere sapeva
imperfettamente ogni lingua
all' infuori della sua.
A Vienna solo
se la godette
davvero, sebbene vi
fossero sin troppe
belle donne (I,
343). Vienna era
notoriamente la città
tedesca che più
talentava ai francesi.
Oltre al resto,
v'era per lui
anche l'attrattiva della
musica. Descrive un
Tedeum sentito nella
cattedrale di Santo
Stefano nel novembre
del 1809, alla
presenza dell'imperatore Francesco,
che fa pensare
a tante cose
(I, 350 e
sgg.). Annoiato di
Civitavecchia, nel 1835
chiese qualche consolato
in Spagna, ma
non l'ottenne (III,
147). Di quel
paese poco seppe:
non andò mai
più in là
di Barcellona; la
Spagna rimase per
lui sempre un
paese fantastico, che
vedeva tra- verso ai
libri (I, 128).
Non dimentichiamo che
nel 1840 carteggiava
con la bellissima
signorina Eugenia Guzman
y Palafox, poi
contessa di Montijo,
a cui la
sorte riserbava la
corona di imperatrice
di Francia, corona
di spine (III,
253). (lj Chequi-,
pp. 94-95. (2)
Questo giudizio che mi formai
sulla Correiipondance, godo
di vederlo condiviso
dallo Chuqi-et, p.
299, buon co-
noscitore di cose tedesche.
314 SCORRENDO IL
CARTEGGIO Resterebbe, a
provare il famoso
cosmopoli- tismo del Beyle,
la nostra Italia.
E qui non
certo io negherò
che egli l'abbia
amata, anzi amata
molto, amate come
pochi stranieri. Dalla
prima volta che
vi mise piede
fino ai suoi
di estremi, egli
ebbe per l'Italia
e per gli
Italiani una grande
simpatia, e le
prove, come da
tutte le altre
opere, cosi pure
dall'epistolario, potranno esserne
agevolmente raccolte a
centinaia. Ma che
l'abbia capita molto
e bene questa
patria nostra, che
si sia veramente
reso ragione de'
suoi bisogni, de'
suoi pregi e
delle sue miserie
materiali e morali,
dubitavo dopo aver
letto Home, Naples
et Florence (l)
e gli altri
viaggi, e ancor
più dubito oggi
dopo percorso il
car- teggio. Incanto
impareggiabile hanno per
lui, in Italia,
le bellezze naturali;
ma solo in
qualche lettera vi
s'mdugia; mentre gli
pare più conveniente
occuparsi in pubblico
delle arti, cosi
solenne- mente rappresentate nel
nostro paese. I
due vo- lumi usciti
nel 1817 col
titolo troppo pretensioso
di Hifttoirie de
la peinture en
Italie sono certo
curiosi, ma affogano
le osservazioni personali
in un mare
di discussioni teoretiche,
e per quel
fi) Questo libro
usci la prima
volta nel 1817;
nel 1818 se
n'ebbe a Londra
una traduzione inglese;
la seconda edizione
francese fu del
1826; la terza,
postuma, del 1854,
sulla quale furono
condotte le successive
ristampe stereotipe. L'esem-
plare del 182(7 che è nella
Vittorio Emanuele di
Roma ha postille
autografe, di non
grande momento. Le
comunicò il dott.
Paolo Costa nella
Xuova Antologia del
lfXDC. DELLO STENDHAL
315 che è
dei particolari di
fatto, rappresentano un
vero saccheggio di
nozioni date da
altri. Se si
volessero distinguere, nelle
innumerevoli osser- vazioni d'arte di
cui lo Stendhal
ha seminato i
suoi scritti, quelle
che hanno vero
valore d'ori- ginalità, se
ne ricaverebbe un
libretto di pochi
fogli. Di artisti
contemporanei, egli ammirò
con fanatismo il
Canova; ma non
si rileva troppo
perchè veramente lo
amasse tanto, egli
che pure a
certe idealità canoviane
sembrava così estra-
neo. Non diversamente dal
Montaigne, tanto più
arido di lui
('), gli piace
studiare in Italia
spe- cialmente gli uomini,
che gli si
presentano con quella
spontanea schiettezza e
con quella fiera
e primitiva energia,
onde è innamorato.
Ma anche qui
cade nel suo
solito difetto, il
plagio; giacché fu
assai giustamente osservato
che senza la
Corinne della Stael,
di quella povera
Stael su cui
esercitò tanto la
sua maldicenza (cfr.
Ili, 81-87), egli
sarebbe difficilmente riuscito
a va- lutare l'anima italiana
e a leggervi
dentro (s). Il
più delle volte,
peraltro, egli ci
appare un gran
cronista, curioso, anzi
ficcanaso, parecchio pettegolo,
ma superficiale. Sia
nei viaggi, sia
nelle lettere, rileva
in gran copia
gli aneddoti, se
ne compiace, li
accarezza, li gonfia:
raro è che
assorga a vedute
originali e larghe;
raro è 9
(1) Mi sia
concesso di richiamare
in proposito il
mio vec- chio articolo
Montaigne in Italia,
nella Gazzetta Letteraria
del 25 maggio
1889. (2) Chuqckt,
p. 331. 316
SCORRENDO IL CARTEGGIO
che s'immedesimi nella
vita italiana, come
seppe fare, nei
rapporti artistici, il
Goethe, che dal
viaggio in Italia
tornò rinnovato. Massone
sin dal 1806
e ribelle per
indole, frequentatore a
Milano dei palazzi
e dei salotti,
ove fermenta- vano le
idee liberali, cadde
in sospetto (ci
vo- leva tanto poco!)
alla polizia austriaca,
che lo sfrattò
dalla Lombardia (';; e quando,
più tardi, fu
nominato console a
Trieste, ove si
annoiava a morte,
il principe di
Mettermeli non ce
lo volle. Eppure,
pochi uomini politicamente
meno peri- colosi di
lui. Non capi
affatto la poi-tata
politica del Conciliatore,
nè seppe vedere
che cosa in
Italia importasse il
romanticismo. Un suo
scritto italiano sul
romanticismo fu, con
ogni probabi- lità, solo
annunciato e non
mai eseguito (!);
e, del resto,
non concepisco come
ei potesse scri-
vere in italiano un'opera
da dare alle
stampe, mentre fu
sempre così imperfetto
conoscitore della lingua
nostra (3). Si
hanno di lui
alcune il) Vedi
i documenti prodotti
dal D'Ancona in
quella parte delle
sue Spigolature nell'archìvio
della polizia austriaca
di Mi- lano i
yuova Antologia. 10
gennaio 1899), che
concerne il Beyle.
(2) Il dilingentissimo Chuquet
non lo conosce;
il D'An- cona ne
fece indarno ricerca.
Io stesso, che
pure ebbi la
fortuna di disporre,
per lo Stendhal,
d'un ricco materiale,
quale è quello
che venne alla
Biblioteca Nazionale di
Torino pel munifico
dono della raccolta,
in gran parte
napoleonica, del barone
Alberto Lumbroso, non
potei vederlo. Tuttavia
anche recentemente H.
P. Thiemk. nella
sua Guide bibliogra-
fiiiue de la
littérature franqahe de
181MJ à 19,
Paris, 1907, pa-
gina 394, registra dello
Stendhal come stampata
a Firenze nel
1819, un'operetta Del
Romantismo nelli arti!
Cos.!! (8) La
sua mostruosa lettera
italiana alla sorella
Paolina, DELLO STENDHAL
317 pairine francesi,
Qu'est-ce que le
vomantìhmeì , nel volume
Racine et Shakespeare;
ma atte- stano solo
una gran confusione
d'idee. Il roman-
ticismo, per lui, era
solo naturalezza e
verità contrapposte all'accademicismo convenzionale; quindi
in una lettera,
dice arciromantici Dante
e l'Ariosto (II,
124) e altrove
professa che tutti
i grandi scrittori
furono romantici al
tempo loro (').
iSiamo, evidentemente, fuori
di strada. Se
pei' il Pellico,
di cui stimava
oltre il merito
la Francesca, si
adoperò con sincera
amicizia presso il
Bvron ili, :$03-4
e 338-40), gli
è solo perchè
quella soave e
quasi femminea natura
di iioino^ lo
aveva stranamente soggiogato.
Quali siano stati
i giudizi del
Beyle su lette-
dei 23 dicembre
1800 (I. 17-18;,
è cosa giovanile;
ma anche in
seguito i suoi
progressi non furono
grandi. Si può
esser sicuri che
ogni qualvolta gli
accade di citare
una frase ita-
liana la infarcisce di
spropositi. Cfr. I,
153, 294. 381,
ecc. In una
importante lettera alle
sorelle, del 1827.
in cui dà
loro utili consigli
pratici per \m
prossimo viaggio in
Italia e le
raccomanda al Vieusseux,
« libraire et
homme d'esprit qui
rassemble à un
épervier », commette
il comico errore
di scrivere spezzate
invece di spesate
(II, 471). Aveva proprio ragione
il Beyle quando
diceva: « Je
crois qu'il y
a peu -
d'hommes qui aient
aussi peu de
disposition que moi
pour ■ appvendre
les langues »
CI, 55.). I nuovi
editori dell'episto- lario gareggiano col
loro autore nello
spropositare l'italiano. Sono
essi, ritengo, e
non l'autore, che
convertono l'ufficio del
bollo in ufficio
del botto (Ill.»153-154) e
costantemente ma- scherano Sinigaylia in
Sivigaglia. A p.
57 del voi.
Ili il B.
si chiede: «
permettra-t-on la force
de Sivigaylìa? *
E ovvio che
si doveva leggere
« la foire
de Sinigaylia >,
la fiera ce-
lebratissima a quel
tempo. Siamo nel
1831. (1) Rod,
pp, 75-77. 318
SCORRENDO IL CARTEGGIO
rati italiani indicarono
parecchi espressamente, specie
il D'Ancona e
lo Chuquet. Con
l'episto- lario non vi
è molto di
nuovo da aggiungere,
ma parecchio da
completare. Per quanto
i suoi apprezzamenti
di critica letteraria
siano molte volte
di discutibil valore,
s'ha almeno il
van- taggio di trovarsi
qui d'innanzi impressioni
im- mediate e genuine,
non già rifacimento
di pa- reri altrui,
come avviene altrove,
ove parla del
Metastasio e dell'Alfieri
('). Di scrittori
nostri antichi, i
più graditi gli
sono sempre l'Ariosto
ed il Tasso.
Anche il Bandello
gli piace e
lo rammenta nell'avvertenza proemiale
alla Char- treuse de
Parme, libro in cui l'influsso
bandel- liano mi
sembra innegabile. La
lettura del Gol-
doni lo rasserena a
Berlino nel 1807
e gli ri-
corda giocondamente l'amata e
remota Italia (I,
299). Legge pure Carlo Gozzi,
ma non lo
stima (I, 319).
Il Monti è una «
girouette », ma
nel medesimo tempo
« le Racine
de l'Italie »
(II, 65). Nel
Jacopo Ortis non
sa vedere che
« une copie
du Werther »
(IL 286). Curioso
è il paragone
che istituisce fra i Sepolcri
ed il carme
in morte dell'Imbonati, dando
la preferenza a
que- st'ultimo (II, 408).
Il suo fanatismo
irreligioso gli fa
considerare come antisociali
e venefici gli
inni sacri del
Manzoni; ha certa
deferenza per le
sue tragedie, ma
le giudica più
letterarie CI) Dei
plagi nella critica
letteraria dello Stendhal
s'oc- cupò a varie
riprese A. Lumbroso.
Vedi indicazioni nella
Rivista d'Italia, VI
(1903), II, 669
sgg. DELLO STENDHAL
319 che teatrali
(II, 165, 168,
295-96Ì. Va in
sollu- chero pel Cinque
maggio; ma non
sembra che i
Promessi Sposi lo
abbiano colpito eccessiva-
mente (II, 515; III,
91). Si scompiscia
dalle risa al
leggere la satira
del Giraud intitolato
Cetra spermaceutica e
chiama il conte
« petit Mira-
beati de Rome
» (II, 171).
La poesia dialettale
italiana lo esalta:
tuttavia ci fa
cader le brac-
cia il notare che
mentre ignora il
Belli e appena
cura il Porta,
i versi vernacolari
del Gross^ e del Buratti
dice che saranno
vivi quando più
non si rammenteranno
i Sepolcri ili,
416). La Prineide
del Grossi, di
cui dà un
riassunto, gli pare
. 244 sgg.
(2) Per questa
dolorosa istoria è da consultare
Chco.uet, pp. 233 a 214.
DELLO STENDHAL 321
10 coglieva la
morte (M. Con
una profezia che
lusingava il suo
amor proprio, egli
aveva detto che
solo verso il
1880 i suoi
libri avrebbero avuto
fortuna: i critici
della seconda metà
del secolo XIX
colsero a volo
questa curiosa profe-
zia e cercarono di
dargli ragione. L'elogio
sperticato che della
Chartreuse de Parme
fece il Balzac,
conciliò al Beyle
le sim- patie dei
veristi, ultimo dei
quali scese in
campo ad esaltarlo,
ma con più
criterio e più
modera- zione del Balzac,
lo Zola. Il
caustico Sainte- Beuve
vide in lui
un eccitatore suggestivo;
Ip- polito Taine un
gran psicologo, sicché
più tardi al
Bourget parve doveroso
riconoscerlo precur- sore del
romanzo psicologico. Non
senza ragione fu
osservato da altri
che il creatore
di Julien Sorel
e di Fabrizio
del Dongo, i
due volitivi che
pongono il proprio
piacere al di
sopra di tutto
e « la
ragion sommettono al
talento », personazione
di quella energia
che affascinava 11
Beyle, potrebbe anche
essere rivendicato a
precui-sore del moderno
nitschianismo penetrato nell'arte,
degli ammiratori del
superuomo e del-
l'uomo che vive al
di fuori della
morale. Presentimenti di
modernità, germi d'avvenire
sono certamente nei
tre romanzi del
Beyle: Ar- mance,
Le rouge et
le noir, La
Chartreuse de Parme
(!). Il migliore
dei tre è
Le rouge et
le (1) Vedi
l'ultima lettera dell'epistolario, III,
285. c2) Pei
due romanzi abbozzati
e pubblicati postumi
uon mi curo.
Rrnirr Svaghi Crìtici
SI 322 SCORRENDO
IL CARTEGGIO noir,
che ha pagine
bellissime, piene di
osser- vazioni psicologiche fini e felici.
Ma, nell'in- sieme, né
quello nè gli
altri sono libri
tali da resistere
al tempo e
da riuscire da
capo a fondo
soddisfacenti. V'è prolissità,
pesantezza, inespe- rienza. Non
ebbe del tutto
torto chi definì
lo Stendhal «
moins un romancier
qu'un collection- neur
d'observations psicologiques »
('). Il sog-
getto dell'Armance, in mano
ad un grande
ana- lizzatore d'anime, poteva
riuscire un capolavoro:
un giovine visconte,
bello, ricco e
bizzarro, che ha
il difetto dell'impotenza fisiologica
e che si
innamora perdutamente di
una fanciulla russa,
povera e gentile,
da cui è
passionatamente cor- risposto. Tema tragico,
cui sovrasta il
pericolo di scivolare
nel comico, che
il Beyle trattò
in maniera assai
maldestra, sebbene egli
avesse sempre un
debole per quel
suo libro. La
Char- treuse de Parme
dovrebbe interessare maggior-
mente a noi, perchè
la scena è
in Italia, e
ita- liani ne sono
i personaggi. Ma,
ahimè! Quale Italia
e quali italiani!
L'autore non ha
saputo fare di
meglio che camuffare
gli italiani del
se- colo XIX incipiente,
che aveva conosciuti,
con i costumi
dell'età dei Borgia
e dei Farnesi,
sic- ché ne è
venuto fuori il
più miserando cibreo
che immaginar si
possa. Tocchi realistici
eccel- lenti non mancano
qua e là,
ed eran quelli
che facevano andare
in visibilio il
Balzac; ma nel
(1) Georges Pellissier
nell'tìwtoire del Petit
de JuUeville, VII,
445. DELLO STENDHAL
323 suo complesso
il libro è
illeggibile. Non posso
dire mi appaghi
neppure quella battaglia
di Wa- terloo vista
in iéeorcio, perchè
essa si riduce
ad una serie
di scenette tragicomiche.
Può darsi che
una battaglia napoleonica
vista da vicino
(ed il Beyle
ne sapeva qualcosa)
fosse cosi; ma
noi stiamo piuttosto
con la grande
visione epica del
fatto quale seppe
rievocarla Victor Hugo.
Nel romanzo, più
che negli altri
scritti suoi, il Beyle ha
il merito della
sincerità, merito ri-
conosciutogli anche da Emilio
Faguet, che fu
forse il più
penetrante e sicuro
e imparziale tra
quanti critici letterari
di lui parlarono
sinora (*). Sincero
nel l'osservare, nel
ritrarre, nel comporre;
sincero e personale.
I suoi protagonisti
finiscono col riuscire
tutti poco simpatici,
perchè riten- gono del
suo beylismo, nella
ricerca sfrenata del
piacere, nell'egotismo straripante.
Ma sono anche,
come lui, mobili,
intraprendenti, curiosi, disuguali;
sono uomini che
vivono. Aver fatto
vivere nell'arte delle
creature umane è
già una fortuna
che non tocca
a tutti. Nata
aggiunta. — ' Già
nel Fanfuìla della
Domenica del 14
giugno 1908. La
letteratura stendhaliana si
viene di con-
tinuo-aumentando, ma poco
v'è che direttamente
riguardi lo scopo
dell" articolo mio. Lo
scritto più importante
che ho da
segnalare, occasionato dalla
C'orrespondance, è di
H. Mosix, Stendhal
educateti); nel Mercure
de France, voi.
78", p. 392
sgg. (1» aprile
1909). Ivi sono
studiati i rapporti
di Enrico Beyle
fi) Articolo su
Stendhal nella Berne
dea deux monde»,
Se- rie IJI. an.
H2" (1892), pp.
594 sgg. 324
SCORRENDO IL CARTEGGIO
ECC. con la
sorella Paolina, e
vi pi dice
giustamente che «
Henri « Beyle
a voulu fture
de .sa seur
préférée, à l'insu
et à «
l'encontre du pére,
la fille de
son esprit, de
son coeur •
4>. SiT). Conchiude
il Monin ohe
l'influsso di lui
sulla so- rella fu
influsso di pervertimento. Chi
voglia approfondire quella
relazione fraterna, nonché
certi rapporti del
Beyle con l'Italia,
non deve trascurare
la seconda serie
dello Soirée» du
.Stendhal Club. Paris.
1908, tutta gremita
di docu- menti inediti. Ne
sono editori Casimiro
Striyenski e Paul
Arbalet. Dello Striyenski,
che è notoriamente
imo dei più
passionati e benemeriti
beylisti, vedasi una
severa critica della
Correnponiìanre nella Revue.
critiqne del 4
marzo 11109, a
p. 175 s6-89.
348 MADPASSANT ristoro
nella campagna, che
amava tornare ai
tranquilli ritiri della
sua Normandia, che
pas- seggiava volentieri con
gli amici, che
s'abban- donava alle salutari
fatiche del canottaggio
sulla Senna, o
ai salutari riposi
della navigazione sul
mare, sempre da lui adorato;
ma troppo spesso
que' medesimi riposi
e sollazzi implicavano
con- sumo di forze.
Siccome egli era
un vero « gour- mand
de la vie
», facendo a
fidanza sulla pro-
pria robustezza, s'immerse sin
da giovine nei
piaceri, sicché già
nel 1878 gli
si fecero palesi
quei disturbi nervosi,
per cui lo
ammoniva il suo
Flaubert. Non diede
retta, anzi fece
peggio. Inebbriato del
successo, produsse in
un decen- nio una
formidabile quantità di
novelle e di
ro- manzi, sino a
procurarsi l'agiatezza, anzi
la ric- chezza. Nè
smise per questo
le male pratiche,
giacché ebbe la
suprema sventura di
non inna- morarsi mai
sul serio d'una
donna. Sarà veris-
simo ciò che disse
di lui la
madre: « il
fut sou- «
vent un séducteur,
jamais un dépravateur
» ('); ma
è cei'to, nel
tempo stesso, che
nella donna egli
vedeva solo uno
strumento di piacere
e che ne
abusava (*), perchè
la coscienza sua
non aveva nessuna
forte base di
moralità su cui
poggiare. Lasciamo qui
nell'ombra un'altra considerazione, che
avrebbe pure importanza
capitale nella dia-
gnosi del suo male;
se, cioè, quella
vita sessuale (l.i
Lumiiroso, pp. 321-25.
(2| AI AYNIAT.,
pp. 198-199. MA
TPASSANT sregolata gli
lasciasse qualche ricordo
rovinoso (.'): sta
però sempre incrollabile
il fatto che
uno strapazzo tisico
unito ad uno
strapazzo intellet- tuale continuo non
poteva che trascinarlo
alle più sinistre
conseguenze. Infatti, ben
presto gli s'indebolì
la visto, l'olfatto
pati d'una ipereste-
sia malata, l'umore divenne
tetro, le notti
tor- mentosamente insonni; fu
preso da un
desider io di solitudine
assoluta, che acuiva
il suo male;
non tardarono le
allucinazioni, a cui
successero i tenori
della mania persecutiva,
la megalomania, il
lento ma progressivo
ottenebrarsi delle facoltà
intellettive, fino al
tentato suicidio del
gennaio 1892 ed
alla morte, nel
1893, nella casa
di salute del
dott. Bianche a
Passy, dopo 18
mesi di follìa.
Avea cercato distrazione
nei viaggi; forse
troppo tardi, certamente
non in .guisa
da conferir vi-
gore ài suo sistema
nervoso tanto scosso.
Sin da giovinetto
Guy mostrò inclinazione
a far versi,
e forse, se
fosse vissuto il
suo zio ma-
terno Alfred Le Poittevin,
che mancò giovanis-
simo nel .1848, e
se non avesse
avuta corta vita
anche lo squisito
rimatore Louis Bouilhet,
che fu il
suo primo maestro
quando studiava a
Rouen, chissà ch'egli
non si fosse
dato esclusivamente alla
poesia. Non sarebbe
stato un vantaggio,
giac- ili II medico
Louis Thomas. nell'opuscolo
ì4a malattie c/la
mori ile Manjmftìtrrnt
i Bruges, 190fì), cerca
dimostrare la parte
ch'elibe la sifilide
nella precoce rovina
di quell'esistenza. Nel
primo saggio d'analisi,
uscito nel fascicolo
1« giugno 1905
del Mentire de
France, egli non
dava alla sifilide
tanta im- portanza.
MAUPASSANT chè i
saggi poetici che
abbiamo eli lui
son molto lontani
dal valore delle
prose. La madre
e lo zio
erano stati compagni
d'infanzia di Gustavo
Flaubert: avviamento alle
lettere Guy l'ebbe
in famiglia, uno
dei primi autori
che la madre
gli lesse fu
Shakespeare. Il giovinetto
era insoffe- rente d'ogni
disciplina, amante della
vita sem- plice e
libera, della campagna,
del mare, degli
abitatori della campagna
e dei frequentatori
del mare. Malgrado
avesse l'aspetto vigoroso
d'un to- rello, era
un sensitivo non
meno che un
volitivo. Passato a
Parigi per guadagnarsi
da vivere nei
ministeii, s'ebbe dal
Flaubert, amico di
famiglia, il gusto
e l'indirizzo della
prosa narrativa. La
prima novella il
Maupassant la pubblicò
nel 1875, a
25 anni, con
lo pseudonimo di
Joseph Prunier. Il
Flaubert non ne
fu contento. La
di- sciplina del Flaubert
era delle più
austere: « Un
« artista, egli
diceva, deve avere
un solo pro-
« posito :
sacrificare tutto all'arte
» ('). Con
que- sta specie d'ascetismo
artistico venne su
il Mau- passant osservatore e
rappresentatore. Il Flau-
bert volle anche insegnargli
praticamente i pro-
cessi della sua arte
e in certa
guisa lo chiamò
a cooperare a
quel Bouvnrd et
Pècuchet, di cui
Guy doveva, morto
il maestro, sorvegliare
la stampa postuma.
Introdotto nei circoli
letterari più in
voga, l'impiegato ai
ministeri venne sem-
pre meglio sviluppando le
sue eccezionali qualità
di scrittore. Si
provò nella drammatica,
ma senza (1)
Correspondance de Flaubert,
IV, 302-3. MAUPASSANT 351
buon esito; abbozzò
più di un
racconto, che il
Flaubert gli cincischiò
spietatamente; alfine riu-
sci ad ottenere un
grande successo presso
il maestro e
presso il pubblico
con Bou.lt de
saif, novella introdotta
nella raccolta miscellanea
delle Soù-àes deMedan.
S'era intorno al
1880: l'8 maggio
di quell'anno il
Flaubert passò di
vita ('). Botile
de suif dà
allo scrittore normanno
la coscienza della
sua forza. Lascia
l'impiego per consacrarsi
tutto alle lettere,
e in un
decennio pubblica sedici
volumi di novelle,
sei romanzi, tre
volumi d'impressioni di
viaggio: in qualche
anno, come nel
1885, riesce a
pubblicare da quattro
a cinque volumi
nuovi, oltreché accu-
dire alle ristampe e
seminare d'articoli non
so quanti giornali.
Guadagnava con la
penna non meno
di ventotto mila
franchi l'anno. Non
si lasciò prendere
quasi mai dal
desiderio di scri-
vere pel solo guadagno;
si mantenne coscien-
zioso, anzi fin scrupoloso;
ma, amante della
vita e dei
godimenti, apprezzava il
denaro, era ocu-
latissimo affinchè i
suoi editori non
profittassero (1) Nella
Correspomlance, IV, 351,
il Flaubert dice
del Mau- passant:
« C'est mon
disciple et je
l'aime comme un
fila ». A
sua volta, il
Maupassant dedicò al
Flaubert il volume
Des eers, che
coutiene una scelta
delle sue poesie,
e fu per
la prima volta
pubblicato nel 1880. Lo chiama
€ l'illustre et
paternel ami, que
j'aime de toute
ma tendresse »
e 46. Egli, del
resto, come tutti
i naturalisti francesi,
è povero critico.
L'articolo su L'évolution
da roman au
XIX siede, che
inseri nella Sevue
de l'exposUion universdle
del novembre 1889,
è miserrima cosa.
(4) Un erudito,
che modestamente firma
con le sole
ini- ziali (Lumbroso, pp. 586-90), ma
in cui riconosco
l'amico L. Or.
Pélissier di Montpellier,
colpisce nel segno
dicendo del Mau-
passant: « Moins copieux
que Balzar, il
est plus précis
de « contour;
moins profond que
Flaubert, il est
plus spon- «
tanè; moins puissant
que Zola, il
est plus humain
•. MAUPASSANT
355 Le l'Oman,
che va innanzi
al suo Pierre
et Jean, e
si vedrà che
nei principi dell'aite
egli fondamentalmente non
si scosta dalle
teorie del Flaubert,
con la differenza
che a lui,
natura più benigna,
aveva concesso una
felicità rappresen- tativa e
sintetica, che il
maestro non ebbe,
una felicità nell' imbroccare a
prima giunta l'espres-
sioni' e l'epiteto, che
il maestro era
ben lungi dal
possedere ('). Nel
primo e più fortunato periodo
della sua operosità,
lo scrittore normanno
non si allontanò
mai dal proposito
di far vedere
la psicologia in
azione, di considerare
la psiche come « la
carcasse de l'oeuvre
», la quale
deve rimanere invisibile
« cornine l'ossature
invisible est la
carcasse du corps
humain » (2).
Potrà quindi sembrare
ardita, ma non
è punto falsa,
anzi è ingegnosamente indovinata
l'espressione di ehi
lo designava «
un grand paysagiste
d 'àmes »
(3). Non diversamente
dal Flaubert, egli
ammet- teva nell'artista il
procedimento di scelta
e quello di
composizione, perchè «
faire vrai consiste...
« à
donnei- l'illusion complète
du A rai,
suivant « la
logique ordinaire des
faits, et non
à les (1)
Specialmente dalla Corresporulance rilevò
le teorie ar-
tistiche del solitario di
Croisset. con
diligenza e perspicacia,
Antonio Fusco, nell'eccellente libretto
La filosofia dell'arie
in Gustavo Flaubert
(Messina. 1907 1, che
è uno dei
pochissimi saggi pregevoli
usciti in Italia
sulla letteratura francese
mo- dernissima. (2) Le roman.
in Pierre et
Jean, 44a ediz.,
Paris, Ollendorff, 1891,
p. XXI. (3j
Henri Fouquier. Vedi
Lcmbroso, p. -20ij
MADPASSANT « transcrire
servilment dans le
pèle-mèle de leur
« succession »
('). Ora è appunto
in questa scelta
che appare la
sua indole d'uomo
sensuale e scettieamente
burlone. Aveva un
gran gusto a
« mystifier le
bourgeois », come
dimostrò in varie
occasioni (% dividendo
anche in questo
certa tendenza del
suo maestro, che
odiava le menzogne
convenzionali della società
per bene, non
meno di quanto
Ai-rigo Heine odiasse
le abi- tudini dei
philister tedeschi (3).
Quando poteva sollevare
scandalo, andava a
nozze; e a ciò si
deve gran parte
della crudezza di
certe sue no-
velle. Ma si deve
anche, lo ripeto,
alla natura disposta
ai piaceri del
senso. Il sensualismo
fu tutta la
filosofia e tutta
la morale del
Maupas- sant (*).
Vi ritorna di
continuo, in tutti
i modi, e
talora ne fa,
con ironia atroce,
la caricatura, o
meglio ne promuove
la caricatura per
effetto spontaneo di
casi. Singolare indulgenza
ha per le
mogli infedeli e
specialmente per le femmine
da conio. Il
romanticismo sentimentale avea
creato in Francia
il tipo fortunatissimo di
Mar- guerite Gautier, la
cortigiana redenta dall'amore,
uccisa dall'amore. In
alcune novelle celebri
come Binde rie
suif, come La
maison Tetliev, Guy
si diverte a
presentarci la cortigiana
boa enfant, che ha le
sue fierezze, le
sue abnegazioni, i
suoi (1) Le
roman, p. XVII.
(2) Mav.mai., pp.
J7-Ì8 e (il.
(3) Prcfaz. cit. alle Lettre*
de li. Flaubert
à fi, .Santi,
pa- gine LXXIV sgg.
(4) Petit de
Jii.i.kvillk, Liti, francaine,
Vili, 220. MAOPASSANT 3.57
tenerumi. Messa in
scena, ha fatto
trionfalmente il giro
dei teatri, tolta
da una sua
novella, quella soave
grisette, che è
tutta un alito
di poesia, cui
fu dato il
nome di Musotte
('). Sino ad
un certo punto
è vero ch'egli
ha « la
grande sensuali té
», ch'egli ama,
a differenza d'altri
suoi connazio- nali letterati, più
cinici o più
corrotti, « le
geste animai cìans
toute sa beau
té » (s);
ma è pur
anche verissimo che
la sua predilezione
per la turpitudine,
la sua impassibilità
nel rappreseli tare
la turpitudine, sono
qualità non belle,
ine- renti al suo
organismo e al
suo spirito. Carna-
lità, peraltro, convien riconoscerlo,
non mai vol-
gare, che trova sovente
nella sua anima
di artista una
forma di idealizzazione. Significativi
sono, per questa
parte, i suoi
viaggi. Vedansi quelli
in Italia descritti
nel volume La
vie er- rante. Lasciata Parigi
e la Francia
perchè la torre
Eiffel avea finito
con l'annoiarlo orrenda-
mente, egli costeggia l'Italia
percorrendo col suo
yacht il Mediterraneo,
e si ferma
in vari luoghi
delle due Riviere
e poi va
in Sicilia. Del
paesaggio ha senso
squisito: sente anche
l'ar- chitettura, ma a
modo suo. Per
apprezzare il paese
nostro gli manca
un grande elemento,
la coltura. È
agevole l'accorgersi che
quando parla di
monumenti che non
sieno archi tetto
ilici, non ha
l'attitudine ad" intenderli.
Due sole opere
di (1) Rappresentata
la prima volta
il I marzo
no- vella è nella
raccolta t'Iair tle
lune. Mavxiai., p.
290. M (2)
Lombroso, p. 590.
358 MACPASSANT l
plastica suscitano la
sua ammirazione, gli
fanno sentire ardente
il desiderio di
rivederle: il ca-
pro di bronzo del
Museo di Palermo
e la Ve-
nere di Siracusa (').
Perchè quel capro
e perchè quella
Venere? Il capro
per la sua
potente espres- sione animalesca; la
Venere per la
sua balda car-
nalità bella. « Ce
n'est point la
fera me poetisée,
« la femme
idéalisée, la fera
me divine ou
maje- « stuense
corame la Vénus
de Milo, c'est
la femme «
telle quelle est,
telle qu'on I'airne,
telle qu'on «
la désire, telle
qu'on la veut
étreindre ». Su quella
statua senza testa,
e che gli
piace di più
perchè manca di
quell'accessorio troppo spiri-
tuale; su quella statua
piena di pudore
e d'im- pudicizia e
che, velando e
svelando, attirando e
sottraendosi, « semble
definir toute l'attitude
de la femme
sur la terre
»: su quella
statua che è
« le symbole
de la chair
», il Maupassant
ha scritto pagine
calde ed eloquenti,
in singolar modo
significative. L'artista è
là. Ma a
Palermo volle visitare
puranco la ne-
cropoli dei cappuccini e
non si lasciò
distogliere dalla macabra
fissazione. Anche questo
spetta- colo di morte
ei descrive e
si sente fremere
nella sua descrizione
il terrore Ecco
il Mau- passant del
secondo periodo, il
fantasticante, il visionario,
l'atterrito, l'allucinato, cui
la paralisi preme,
incubo orrendo. (1) La vie
errante, Paris, OUendorff,
1890, pp. 117-123.
(2) La vie
errante, pp. 67-73. MAUPASSANT Nel
secondo periodo scema
la nitidezza inci-
siva, che ò pregio
massimo delle prime
novelle, ma scema
pure la brutalità;
si ha un
Maupas- sant più
morbido, più amabile
e che perciò
piace di più
al signor Brunetière.
Eppure, quella mag-
gior morbidezza è decadenza;
quella maggiore amabilità
implica l' intrusione dell'autore
nel- l'opera d'arte e
quindi una divergenza
dalla for- mula iniziale
del rigido naturalismo.
Ripensiamo le parole
che un altro
insigne scrit- tore francese, J. M. de
Heredia, disse di
lui nel 1900,
quando fu inaugurato
il suo busto
a Rouen: «
La dernière fois
que je le
vis, il me
dit lon- «
guement sa mélancolie,
l'ennui de la
vie, la «
maladie grandissante, les
défaillance» de sa * vision
et de sa
mémoire, ses yeux
cessant « tout à coup
de voir, la
nuit totale, l'aveugle-
« ment persistant
un quart d'heure,
une demi- «
heure, une heure...
Puis, la vision
revenue, « dans
la hàte, la
fièvre du tvavail
repris, un *
arrét subit de
la mémoire et
(quel supplice « pour un
tei écrivain!) l'impuissance
à trou- «
ver le mot juste, sa
recerche acharnée, la « rage,
le désespoir. Il
ne prenait plus
plaisir « à
rien, raèrae à
taire le bien.
Il medisait en-
« core l'angoisse
où le tenait
le dédoublement «
maladif de sa
personalité » (*).
(1) Ldibroso.
p. 206. MAUPASSANT La
tragedia intima di
quella povera anima
si dipinge nell'opera,
ove entra sempre
più la per-
sonalità dello scrittore, col
suo pessimismo e
i suoi terrori.
Notre cceur, lo
sappiamo ormai con
sicurezza, è quasi
un romanzo autobiografico (').
Frammezzo ai facili
amori di Bel
ami s'insinua terrifico
lo spettro della
morte: si rileggano
le amare considerazioni di
Norbert de Varenne
e tutto ciò
che circonda la
fine di Forestier
('). Questo spettro
non abbandona più il Maupas-
sant: ed egli
ce lo farà
ricomparire in altri
suoi racconti. Perchè,
ed è questa
una strana bizzar-
ria della nevrosi, quanto
più quella visione
gli riusciva paurosa,
tanto più si
sentiva fascinato da
essa e voleva
ritrarla. Con l'amore
della so- litudine cresce in
lui e si
fortifica una specie
di amore e
quasi di culto
per la paura
(3). Ancor più
tormentose sono le
allucinazioni vere e pro- prie, di
cui la massima
ed insistente consiste
nello sdoppiamento della
personalità ritratto nelle
novelle che s'intitolano
Lui?, Le Eorla,
Qui sait? (4).
Queste condizioni patologiche
di spi- rito e
di corpo danno
all'arte di Guy
una singo- lare propensione alla
tenerezza e talvolta
una finezza d'osservazione psicologica
meravigliosa. (1) Abbiamo
in proposito indicazioni
precise della madre.
Vedi Lcmbroso, p. 331. (2)
Nell'edizione illustrata Ollendortf
di Bei-ami vedi
le pp. 159-G4,
-204, 215. (3)
Belle sono su
questo soggetto alcune
pagine del Mai-
ni al; pp. 239-44;
cfr. pp. 257-58.
(4) Mavhiai-, pp.
245 sgg. MAUPASSANT 361
Gli balena a
volte anche l' idea
del divino, ma
lo spirito suo
irreligioso ed educato
fuori della re-
ligione non riesce a
trovarvi i conforti
impareg- giabili che altri
vi rinvenne. Cosi
prosegue senza bussola,
nella vita e
nell'arte, ed egli
ricco, egli glorioso
è un grande
infelice. «
La folie de
Mau- « pausa
ut, scrive il
suo biografo, ne
fut constatée «
par son entourage
et rendile presque
publique « qu'à
la fin de 1891, dans
les mois qui
précé- « dèrent
sa tentati ve
de suicide. Mais
on peut «
relever les prémiers
indices de troubles
nerveux « dès
l'année 1884, dans
les pages de
da ir de
« lune, d'Au
soleil, des Soeurs
Rondoli...; le mal
« s'accentue en
1887-1888, et nous
avons pu en
« suivre revolution
dans Le Hnrla
et dans Sur
« l'eait; en
1890, certaines nouvelles
de l'Inutile «
beauté, certains chapitres
de La vie
errante lais- «
sent deviner le
dètraquement irrémédiable» ('). Sulla
tomba dell'amico perduto,
Emilio Zola, pronunciando
un discorso memorabile,
deplo- rava la sparizione
di quella «
bornie tòte limpide
et solide »
e aggiungeva che
quanti di persona
non lo conobbero
a v l'ebbero amato nelle
sue opere «
l'éteruel chant d'amour
qu'il a chanté
à la vie
» (2). E. de Goncourt,
costantemente a lui
malevolo, lasciava scritto
nel Journal: «
Maupassant est un
tròs remarquable novelliere,
« un très
charmant conteui' de
nouvelles, mais «
un styliste, un
grand écrivain, non,
non! » (=>). (1)
Mav.mai., p. 256.
(2) Lusibroso p.
103. (3; Cfr.
Mavnial, p. 208.
maupassanV S'inganna. Nelle
novelle del primo
periodo il Mau-
passant raggiunse spontaneamente una
cosi mira- bile evidenza, riuscì
a toccare tale
perfezione espressiva, che
può a buon
diritto essere chia-
mato stilista e scrittore
grande. Tra i
romanzi il migliore,
a parer mio,
resta il primo
in ordine di
tempo (usci nel
1883 dopo lunga
preparazione), Une vie,
che è, in
fin dei conti,
un'estesa no- vella, o
meglio un gruppo
di novelle concatenate.
Nessun altro romanzo
suo può gareggiare
in per- fezione con
le novelle. Ho
inteso da più
d'uno dar la
preferenza a Bei-ami;
ma io non
posso piegarmi a
questo giudizio. Su
Bel ami ò
pas- sato il Daudet;
su qualche altro
romanzo è pas-
sato il Bourget. Confesso
che nella produzione
del secondo periodo,
ove ormai predomina
quel ro- manesque
senza cui la
Santi non credeva
potesse esistere romanzo,
le mie simpatie
sono tutte per
Fort corame la
mori, il più
profondo, forse, tra
i libri del
Man passa nt,
certo quello che
lascia nell'animo dei
lettori solco più
duraturo. Del resto,
il difficile argomento
delle parentele letterarie
e degli influssi
è, rispetto al
nostro autore, ancor
vergine, e chi
si metterà a
trat- tarlo dovrà procedere
con delicatezza e
ponde- razione. Sarà bello anche
il vedere quanto
debba al Maupassant
la moderna novella
italiana. Ne risenti
il soffio potente
Giovanni Verga; lo as- similò talora, insieme
con tante altre
cose, il D'Annunzio
nelle Novelle della
Pescara ('). E
(1) Nel volume
del Lombroso (pp.
519 sgg.) v'ha
uno spe- ciale capitolo su
Maupassant et les
plagiata de G.
D'Annunzio. MAUPASSANT 3t)3
le imitazioni portate
in altra terra
e cemen- tate con
l'osservazione diretta d'altri
costumi, furono opere
d'arte anch'esse ragguardevoli. Il
buon seme, caduto
in terreno fecondo,
produce buoni frutti.
Nota aggiunta. — Nel Fanfulla
della domenica, 1»
marzo 1903. Un1
grosso libro venne
fuori in Germania
dopo la com-
parsa del mio articolo,
Pai l Mann,
(rui/ de Maupassant,
sein Leben nnarone
di Miln- chliausen,
Ancona, Morelli, 1883.
KICORD.ANrX) WIULIO VKRSK
371 bizzarre avventure,
fu il compito
che il Poe
si propose. (Jiovossi
il Venie di
parecchi argomenti suoi,
ma li rìcostrusse
su base scientifica
e li rese
verisimili: giovossi pure
di certi procedi-
menti, ma ne mitigò
l'inclinazione americana all'
intemperante, allo sconfinato,
al paradossale, sparse
poi dovunque la
gentilezza dell'indole sua
latina equilibrata, mentre
nel Poe, randagio
in- felice, troppo traspira
l'acidità della vita
scon- tento. Il Poe. talora
può sembrarci più
polente; il Venie
è sempre più
amabile, e sovratutto
più sano (').
Il romanzo scientifico
ha nel Venie
il suo crea-
tore: non v'è quesito
arduo d'applicazione scien-
tifica ch'egli non abbia
affrontato. Cominciò con
l'aereo nautica. Il
suo primo ro-
manzo è del 1803,
Cinq semaines en
ballon: l'Africa tenebrosa
traversata nella sua
maggiore ampiezza, da
est ad ovest,
dal dottor Samuele"
Fergusson e da
due suoi compagni
montati sul pallone
Victoria. L'aereonautica anche
fra noi era
ormai da tre
quarti di secolo
argomento di viva
discussione; sin dal
chiudersi del Settecento
se n'era impadronita
la poesia: parecchi
poeti, tra i
quali vola come
aquila Vincenzo Monti,
se n'erano dimostrati
entusiasti, con lui
il Bet- el) Sensatamente dimostrò
questo il Tcrikli.o
nelle citate Kttules
de critit/tte lettéraire.
Anche in un
articolo del Tempn,
che il Cernire
riferisce (cfr. p.
100), è fatta
ben rilevare la
differenza tra il
Terne ed il
Poe. Ma le migliori considera-
zioni stigli antecedenti tutti
del nostro romanziere
son quelle che
fa il Popi-,
Op. cit., pp.
55-87. RICORDANDO GIULIO
VKKNK tinelli, il
R,ozzbjii(5o, la Grisraondi:
perplèsso era rimasto
il Parini, incredulo
e schernitore il
Pi- enotti ('). Una
ipotesi effettuata rende
possibile il viaggio
del dottor Fergusson:
l'ipotesi che si
possa conseguire la
dirigibili tà alzando od
ab- bassando il pallone
con uno speciale
spediente, sicché esso
trovi sempre la
corrente d'aria che
gli conviene. Ma
in realtà il
Verne, nel 1863,
conside- rava come impossibile
il diligere i
palloni; venti anni
dopo, quando pubblicò,
nel 1886, Robur
le conquJrant egli
aveva seguito i
progressi della navigazione
aerea, ed era
venuto alla conclu-
sione che si dovesse
sostituire il principio
più pesante dell'aria
all'altro, fino allora
predomi- nante, più leggero
dell'aria. h'Albalros di
Robur è una
macchina volante complicata
ma inge- gnosa. Siamo
già agli inizi
dell'aviazione per aerooplano,
di cui si
tien parola nel
romanzo Deux ans
de vacances del
1888 (*). Da
ciò si rileva
che il Verne
non campa ipotesi
del tutto in
aria; ma procede,
anche nel suo
lavoro fan- tastico, con
certa scientifica ponderatezza,
si da predire
quanto un giorno
potrà essere verità
dimostrata. Più arditi,
ma estremamente ingegnosi,
i due romanzi
lunari (1865, De
la Terre à
la Lune; 1870,
Autour de la
Lune), basati sui
progressi (1) Si
consulti in proposito
un buon articolo
del Buriana nel
Giom. stor. della
leti, italiana, XXX 1
1897), pp. J14
sgg. e a complemento Ciro
Trabalza nel voi.
di Sludi e
profili, To- rino-Roma, 1903, pp.
86 sgg. (2)
Vedi Popp, Op.
cit., pp. 101-114.
RICORDANDO GIULIO VKRNE
373 dell'astronomia e
della balistica. Nel
primo di ossi,
Barbicane, il presidente
del Orni Club,
fa la storia
dei viaggi anteriori
alla volta del
no- stro satellite, col
quale tanti, non
escluso Lodo- vico Ariosto,
han fatto all'amore
in varia guisa.
.San tutti viaggi
fantastici, mentre quello
del Venie ha
un fondamento di
possibilità reale, ed il francese
che lo provoca,
Ardali, è l'anagramma
d'un personaggio veramente
esistito, amico del-
l'autore, Nadar, pseudonimo dell'ardito
naviga- tore aereo Felice
Tournachon Non solo.
Con singolare ideazione,
il romanziere francese
fa che i
suoi tre ardimentosi
viaggiatori non raggiun-
gano la luna, perchè
il gran proiettile
che li ospita
non sfugge abbastanza
alla forza dell'at-
trazione terrestre da subire
quella lunare; quindi
essi possono osservare
la luna da
vicino, e quel
che ne dicono
non è prodotto
di fantasia, ma
è conforme ai
risultamenti scientifici dei
tempi mo- derni in
cui fu reso
possibile il tracciare
cai-te descrittive della
superficie lunare. Persino
in quell'ardimentoso romanzo
che è Hector
Ser- vadac (1877),
più conosciuto fra
noi sotto il
ti- tolo di Attraverso
il mondo solare,
il Venie, traendo
profìtto dalle cognizioni
astronomiche dei tempi
in cui scriveva,
si guarda bene
dal- l'abbandonarsi alle
orgie fantastiche del
Poe. E in
quel mirabile libro,
ch'è uno dei
suoi primi, il
Voyage au centre
de la terre,
uscito nel 18U4,
egli mette a
base della straordinaria
spedizione (1) Lumi
re, p. lOli;
Popp. pp. 12-13.
374 RICORDANDO GIULIO
VERNE del professor
Livenbrok e di
suo nipote i
pro- gressi della geologia
in quel periodo
ed in ispecie
la teoria del
chimico Davy. Chi
non rammenta quello
stupefacente sotto- marino e.h'è
il Nautilus e
quella specie di
mago misterioso che
ne è l'ideatore
ed il signore,
il capitano Nemo?
Ebbene, quelle Vingt
mille lienes sous
les mers (1870;
costituiscono una delle
prove migliori, non
solo della facoltà
in- ventiva, ma delle
cognizioni di chimica,
d'elet- trotecnica e d'ingegneria
navale del Venie.
Con vero occhio
profetico egli intravvide
gli immensi vantaggi
che l'umanità poteva
trarre dalle ap-
plicazioni della forza elettrica:
non poche sue
profezie si sono
avverate, altre troveranno
nel secolo in cui viviamo
non difficile attuazione.
Le meraviglie della
meccanica sono rappresen-
tate in Lea cinqcents
milions de la
Iiègum, ro- manzo scritto
nel 1879, quando
ancora la Francia
sanguinava per la
catastrofe di nove
anni prima. Là
il Venie, che
non cessò mai
d'essere intima- mente francese, francese
sino alla punta
dei ca- pelli, nell'antagonismo fra
il potente ma
brutale professor Schultze
ed il geniale
ed umanitario dottor
Sarrazin, rappresentò idealmente
il con- flitto tra
la Germania e
la Francia, tra
la scienza che
distrugge e la
scienza che con
serra ed al-
lieta ('). Tra le
molte altre concezioni
in cui ha
(1) Il Verne,
quanto dimostrò la sua simpatia
per gli In-
glesi e gli Americani
del Nord, altrettanto
non dissimulò V
antipatia per i
Tedeschi, nemici della
sua patria. Su
questo RICORDANDO GIULIO
VER NE 375
parte la chimica
segnaliamo quella sulla
tanto ricercata produzione
artificiale del diamante,
per cui è
da vedere la
sua Etoile du
Sud del 1884.
Ogni progresso scientifico,
ogni problema scienti-
fico infiammava quella fantasia
che ne traeva
ar- gomento a libri
attraentissimi; peccato non
abbia potuto giovarsi
delle più recenti
scoperte sulle proprietà
del radio e
intorno alla telegrafia
senza fili. Chissà
quante belle cose
egli avrebbe dette
e profetate. Scienze
predilette del Venie
furono la geo-
grafìa e l'etnografia: ad
esse tornava continua-
mente e gli offri van
sempre nuova materia
ai suoi libri.
Egli ha anche
opere strettamente geo-
grafiche, quali la sua
geografia della Francia
e la storia
delle scoperte geografiche;
ma la più
gran parte de'
suoi romanzi ha
per soggetto viaggi
in lontane regioni.
Percorre quasi intero
il nostro pianeta
nei viaggi della
sua fantasia, dall' un
polo all'altro, con
predilezione spiccata per
l'Africa e per
l'America. Delle bellezze
natu- rali e delle
costumanze dei popoli
è descrittore tasto
batte di frequente.
Egli ha una
istintiva avversione per
ogni maniera di
tirannia e di
sopruso. L'tle myatérieuse
si riat- tacca alla
guerra americana per
l'abolizione della schiavitù
e termina con
la morte del
capitano Kemo (il
costruttore del Xautilus),
che è un
grande indiano ribelle.
La guerra ame-
ricana del 1861-65 è
rappresentata in Xord
contre Sud (1887);
nella Famille sans
nom (1889) rivivono
le inquietudini del
Ca- nada; nell' Archipel en
feti (1884) troviamo
la guerra per
l'indi- pendenza greca; nello
sfondo della Maison
à capeur (1880),
preannunciante l'
automobilismo odierno, s'
agitano le lotte
degli Indiani contro
gli Inglesi. Cfr.
Popp, Op. dt.,
pp. 160-102. HlC«>Kli.\Nli (.11
l.ln VKHNK brevi'
ma vivaci.': in
particolari di zoologia
e di botanica
non s'indugia, come
sogliono tare i
Ru- binsonisti. Ad
accrescere la T-ultura
ii,t'. Per quella
ferita il romanziere
ebbe a soffrire
assai tìsica- mente, e
più moralmente. Si
narra che durante
le lunghe notti
insonni di febbricitante
egli si distraesse
componendo indovinelli, logogrifi,
ed altri giuochi
di spirito complicatissimi: ne
mise insieme da
tre a quattro
mila, si che
se ne po-
trebbe comporre un volume.
Ciò non è
inutile ad essere
avvertito; si vede
quanto in lui
po- tesse l'attività fantastica.
D allora in
poi egli si
abbandonò tutto al
ragionamento ed alla
fantasia. La sua
operosità fu spesa
tutta nei libri,
nelle soavi cure
della famiglinola diletta,
nell'ammi- nistrazione di Amiens,
ove fu consigliere
comu- nale assiduo ed
ascoltato, nelle tornate
dell'Ac- cademia di Amiens,
ove diede saggio
del suo inalterabile
buonumore. Viaggi non
più. Vendette il
suo secondo yacht,
il San Michele
che ora è
posseduto dal principe
di Montenegro. Con
esso, e prima
con un altro
yacht, di ugual
nome, ma più
piccino e primitivo,
aveva di frequente
co- steggiato la Francia
e anche la
Spagna, s'era spinto
fino alle coste
africane, aveva visitato
la (li Lkmiiìt-:. 55-àrt:
Porr, \ C).
Nell'azione e nella
tipificazione è facile
scorgere una certa
fìcelle. Ei ritorna
so- vente e volentieri
allo schema delle
Cinq se- maines
e delle Arentures
du cajntaine Hatteras.
Un esploratore di
gran risolutezza, coraggio
e sapere, di
solito più d'un
tantino eccentrico, di
solito inglese o
americano, è l'eroe
principale dell'impresa. Esso
ha un servo
fedele, intelli- (1)
Lettera riferita dal
Lemihe, p. 133.
RICORDANDO GIULIO VERSE
383 gente, servizievole,
gaio, animosissimo. Lo
ac- compagnano un amico
o più amici,
di attitudini e
di gusti diversi
dal protagonista. S'aggiunge
o interviene talvolta
un traditore o
un malevolo, che
attraversa la via
all'eroe, suscita difficoltà,
minaccia di mandare
tutto a male,
ma alla fine
ha la peggio.
Esempio tipico il
detective Fix nel
Le tour du
monde. Ma quest'azione
semplice e fin
povera s'arricchisce per
una miriade di
episodi svariatissimi e
vivi, s'ingarbuglia in
modo che sembra
inestricabile, si direbbe
do- vesse finire con
una catastrofe, quando,
alla fine, tutto
si scioglie per
il meglio. Non
irragionevol- mente fu accostata
questa tecnica a
quella usata nei
suoi drammi dal
Sardou ('). In
mezzo ai rigidi
inglesi ed americani
spunta qualche francese,
e vi fa
sempre la parte
più nobile e
bella. Francese è
quel godibilissimo tipo
di Passepartout (felicemente
tradotto in ita-
liano con Gambalesta), che è una
delle più riu-
scite macchiette di servo
che il Verne
abbia tracciato, da mettere in
compagnia col semplice
ed ardito Joe,
servo del dottor
Fergusson, e con
Ben-Zuf, l'ordinanza fida
del capitano Servadac.
Questi ed altri
servi del nostro
scrittore rimon- tano originariamente al
tipo di Venerdì
nel più antico
Robinson. La donna
ha nei libri
del Verne parte
accessoria ed è
delineata con certa
su- perficialità. Non già
che non vi
siano tipi teneri
o eroici di
donne, come Ilulda,
come Nadia, (1)
Popp, p. 86.
384 RICORDANDO GIULIO
VKKNK come Hadjine,
come Alice- Watkins,
come mi- stress
Branieau ; ma
di consueto le
donne occu- pano nel
quadro il secondo
piano, servono a
lumeggiare l'uomo, offrono
esempi di pietà,
di tenerezza, di
abnegazione a vantaggio
dell'uomo. La loro
psicologia, come in
genere tutta la
psi- cologia del Venie,
è delle più
semplici. La pas-
sione non le agita:
il Venie era,
in fatto a
donne, un gran
semplicista. Egli voleva
che i suoi
libri potessero esser
letti senza turbamento
dai gio- vinetti e
dalle giovinette, e
inoltre, confessò un
giorno egli stesso,
« l'amour est
une passion «
absorbante qui ne
laisse que fort
peu de place
« pour autre
chose dans le
coeur de l'homme;
« mes héros
ont besoin de
toutes leurs facul-
« tés »
('). Se manca
l'amore passionato, ab-
bonda l'umorismo, nei caratteri
e talora anche
nell'azione. Sui tratti
umoristici del Verne
ci sarebbe da
scrivere un articolo
speciale; tutta umoristica
è quella gustosa
novella del Docteur
Ox (1874), la
cui singolare trovata
mi ha fatto
sempre pensare all'antica
faida del poeta
pro- venzale Peire Cardenal
(!), alla quale
vanno accostate le-
strane avventure d'
un veggente nell7so/a
dei ciechi del
Fraccaroli. Se non
che qui tutto
è satira, mentre
nel Venie v'è
solo umoristica e
bonaria caricatura. (1)
Parole del Verne inserite
nella Recite ile
Brelaijne del 190(5,
che il Lemiue
riferisce a p.
111. (2) Vedasi
in proposito un
articolo di V.
Cian nel Fanfulla
della Domenica, 22
ottobre 1905. RICORDANDO
OIULIO VERNK 385
Fu detto ohe
Philens Fogg è
una specie di
D'Artagnan in costume
di viaggiatore moder-
no (1). È un
avvicinamento che ha
solo l'appa- renza del
vero. L'eroe del
vecchio Dumas è
una creazione fantastica,
materiata bensì di
certi elementi reali,
ma che è
fuori della vita;
mentre Phileas Fogg è tanto
nella vita che
il viaggio di
lui, profetato dal
Venie, potè essere
compiuto realmente, non
solo in quelli
ottanta giorni, ma
in molto minor
tèmpo (*). Soavi
alcuni racconti del
nostro autore, specialmente
quelli di tipo
robinsoniano, che s'aggirano
nell'impossibile; ma i
più, quelli che
hanno maggiore consistenza
e vitalità, si
contengono nell'orbita del
verisimile e con la poesia
volgarizzano il sapere.
Si po- tranno far
valere contro di
essi le sottili
ragioni che il
Manzoni ricamò contro
"il romanzo storico;
ma come il
romanzo storico iiqh
è morto per
quei ragionamenti, così
non muore ormai,
nò morrà, il
romanzo scientifico. Il
Popp nel suo
libro pregevole raccolse
una gran quantità
di indicazioni sugli
imitatori del Verne,
sorti in *
ogni parte d'Europa
e d'America. Le
scoperte fatte in
Marte dall'astronomo nostro
Schiaparelli hanno già
prodotto una vera
fioritura di romanzi
intorno a Marte,
ed a' suoi
abitatori, ed a'
suoi rapporti con
la nostra Terra.
E cosi accadrà
(1) Popp, p. 41. i'2i
Xel 1!K)1 certo
Stiegler compi il
giro de] mondo
in (i5 giorni
e nel 1907
certo Canipell, giovandosi
della ferrovia transiberiana, in
il giorni. Cfr.
Porr, p. 170.
Benirr - Scaghi
Critici 25 RICORDANDO
GIULIO VERME d'ogni
altra scoperta scientifica
atta a stuzzicare
e ad esaltare
l' imaginazione. Ma purtroppo
i seguaci non
hanno, di consueto,
l'equilibrio, la sensatezza,
la ponderatezza del
maestro. Troppo spesso
a loro accade,
come all'italiano Salgali,
di subordinare ogni
esigenza scientifica filla
fan- tasia più sbrigliata
e, mirando solo
a far colpo,
di sottomettere le
esigenze della scienza
e del- l'arte e
le limitazioni del
buon senso al
gusto d'interessare e
d'impinguare la borsa
interes- sando. In questo
caso, il romanzo,
divenuto pseudo-scientifico, non
serve se non
a provocare una
iperestesia fantastica, dannosa
a tutti e
se- gnatamente ai fanciulli.
Di siffatta degenera-
zione non diede certo
Giulio Venie l'esempio.
Nota aggiunta. —
Pochi giorni dopo
pubblicato questo articolo
(nel Fanfulla della
domenica del "2
maggio 1909) fu
scoperto ad Amiens
il monumento di
Oiulio Verne, dovuto
a quel medesimo
scultore Alberto Roze,
che già effigiò,
a spese della
famiglia, la robusta
statua della tomba
del Venie nel
cimitero dello Maddalena
ad Amieus. Il
nuovo monu- mento consiste in
un bel busto
poggiante su di
una stela elegante
a" piedi della
quale un giovane
viaggiatore sdraiato, in
attitudine di riposo,
consulta una carta
geografica, mentre dall'altro
lato un giovinetto
legge con gran
attenzione un volume
del Verne e
la giovane madre
gli sta a
fianco assi- stendo alla
lettura. L'inaugurazione segui
il 9 maggio
1909 e le
feste ed i
discorsi di quell'occasione possono
leggersi nel Mémorial
d' Amiens di quel
giorno e del
successivo. * Patriottismo e
socialismo di Arrigo
Heine. Dacché nou
rivedevo il Walhalla,
fatto edi- ficare tra
il 1830 ed
il 1842 dal
re Ludovico I
di Baviera, molt'anni
erano trascorsi. Volli
vi- sitarlo in una
giornata precocemente autunnale
e ne ritornai
con un senso
di profonda tristezza.
Quel gelido simulacro
del Partenone impiccio-
lito biancheggia su d'una
collina boscosa non
lungi da Ratisbona:
a' suoi piedi
si svolge a
larghe spire il
Danubio. Ira fantasia
regale di Ludovico
rievocante, nel neoclassicismo dell'arte
germanica di quel
periodo, i più
solenni mo- numenti di
Grecia e d'Italia,
intese fare di
quel tempio una
specie di famedio
sacro alla me-
moria dei più celebri
personaggi tedeschi, i
cui busti sono
allineati lungo le
pareti della sala
jonica interna. Il
busto di Arrigo
Heine non ve
lo trovai; non
già per una
specie di vendetta
postuma contro il
gran flagellatore, che
canzonò così neramente
il re Ludovico
I nei Zeitgedichte
e parodiò lo
« stile bavarico
» delle sue
iscri- 3K8 PATRIOTTISMO E
SOCIALISMO zioni del
Walhalla ('). rna
per una deplorevole
noncuranza d'ogni grandezza
spirituale, per cui
nessun busto nuovo
fu collocato là
dentro da circa
mezzo secolo, ali 'infuori
di quello di Gu- glielmo I
imperatore, « der
Siegreiche » come
lo chiamano i
Tedeschi. C'è da
scommettere, peraltro, che
se anche la
Baviera d'oggi fosse
meno volta di
quel che è
agli interessi materiali,
il poeta di
Dusseldorf non troverebbe
la sua nicchia
tra gli ospiti
del Walhalla. Troppo
è tenace l'avversione
contro di lui
d'una gran parte
dei suoi connazionali,
quell'avversione, in cui
non riesco neppure
ad ammirare la
rigida disciplinatezza ch'altri
vi ravvisò non
a torto r),
perchè mi appare
me- schina ed iniqua.
Com'è risaputo, gli
si rifiutò finora
un palmo di
terra germanica, ove i suoi
ammiratori potessero erigergli
una statua: l'umile
sepolcro di lui,
nel cimitero di
Montmartre, fu abbellito
da una donna
fantasiosa ed infelicis-
sima, Elisabetta d'Austria, che
già gli aveva
co- struito un tempietto
presso il suo
Achilleion di Corfù
(3); il monumento
che un gruppo
di Rc- 2.
(3) Elisabetta, sul
cui bellissimo capo
il triste fato
degli Absburgo non
pesò meno dall'ereditaria psicosi
dei Wittel- DI
ARRIGO HEINK 389
nani voleva erigergli,
dovette migrare oltre
l'A- tlantico. Di Arrigo
Heine la Francia
ha le ossa;
Corfù e New
York he serbano
le sembianze effi-
giate; la Germania nulla.
A noi individualisti di razza
latina codesto »
ostracismo inflitto al
genio dà senso
di pena e
d'irritazione. E più
ancora ci irrita
l'asprezza con che
lo Heine Viene
giudicato, non solo
dal volgo partigiano
ed incosciente, ma
da critici e
storici rispettabili e
rispettati, in opere
serie e diffuse.
Non esitano costoro
a riconoscere in
lui un poeta
lirico eminente ed
a porlo a
fianco del Goethe
per lo sviluppo
tutto personale che
diede al lieti
germanico; ma non
sanno perdo- nargli la
nascita israelitica, la
simpatia per la
Francia, la leggerezza
nel giudicare, e
special- mente nel mettere
in caricatura, tanta,
parte dello spirito
tedesco, la scorrettezza
della vita libertina,
la mancanza di
carattere fermo, la
perpetua ironia, degenerante
talora in cinismo
volgare. I Tedeschi
si sentono offesi
dallo Heine in
ciò che hanno
di più caro
e di più
sacro; i sentimenti
della famiglia, della
religione, della patria,
della razza. Compresi
della loro attuale
grandezza, vedono in
lui un profeta
fallito, che dei
germi di quella
grandezza non intese
nulla e all'entusiasmo e
alla rude tendenza
tradizio- snach. amava
nello Heine specialmente
la profonda tristezza
pessimistica, se dice
vero il libro
saturo di sentimentalismo del
suo confidente greco.
Cfr. C. Christomakos,
Iìeyhia di do-
lore, Firenze, 1901, pp.
240 41. 390
PATRIOTTISMO E SOCIALISMO
naie della nazione
contrappose il dileggio
bef- fardo demolitore. All'ebreo
rinnegato per farsi
eristiano, al cristiano
rinnegato per divenire
ateo, al tedesco
rinnegato per infranciosarsi, oppongono
un dispregio acre e pungente;
non mitigato neppure
dalle melodie dello
Schubert e degli
altri interpreti musicisti
dell'anima lirica heiniana.
In molte parti
questo loro giudizio
sembra ragionevole; eppure
sostanzialmente essi hanno
torto e riescono
ingenerosi. Abituato a
leggere con simpatia
e diletto le
opere heiniane, da
molti anni io
lo penso; ma
non ero mai
riuscito ad averne
convinzione chiara e
fondata, come ne
ho oggi, dopo
aver letto il
volume recentis- simo d'uno
squisito scrutatore d'anime,
Henri Heine penseur
di Enrico Lichtenberger
('). Dello Heine
fu scritto non
poco, in Germania
e fuori, senza
che con ciò
siasi ottenuta piena
chiarezza sul soggetto.
Ciò che meglio
di lui si
conosce ò l'arte.
Sui particolari della
sua vita, breve
ed infelice, si
accumularono notizie contraddittorie, radendo
non di rado
nell'indiscrezione
pettegola, lasciando nella
storia delle sue
relazioni non poche
dubbiezze. Il suo
pensiero fu, di
solito, trascurato, ovvero
trattato in modo
sbrigativo movendo dal
preconcetto che, in
ultima analisi, di
pensiero ne albergasse
pochino in quel
cer- vello, e quel
poco senza radici
e a dir
così flut- tuante. In
ciò vi ha,
per lo meno,
molta esage- (1)
Paris, Alcan, lflOn.
DI ARRIGO HEINE
391 razione, e.
non s'è tenuto
conto, com'era giusto
e necessario, di
elementi che in
un giudizio sif-
fatto dovevano avere parte
precipua, le condi-
zioni somatiche
dell'individuo c la
sua essenziale qualità
dit poeta. *
Arrigo Heine fu
un sensitivo ed
un sensuale: la
sua poesia rampolla
dafla sensività e
dalla sensualità: ma
è in parte
fecondata da un
certo numero di
idee politiche, religiose
e sociali, che
non è lecito
trascurare. Quando, nel
1830, poco più
che trentenne, egli
varcò l'amato Reno,
che lambisce la
sua città natale,
por esiliarsi volontariamente a Pa- rigi, era
un uomo fallito,
materialmente e mo-
ralmente. Avvocato senza vocazione,
negoziante inetto, con
la testa piena
di grilli e
la tasca vuòta,
senza educazione morale
solida, con inolto
ingegno ed una
sensitività morbosa, egli
andava incontro all'ignoto,
in una gran"
metropoli, se- dotto da
un fantasma di
libertà. Ci andava
pur essendo ancora
cosi giovine, con
una gran dose
di pessimismo nell'anima,
dovuta, oltreché a
condizioni fìsiche, a
delusioni amorose. Tempra
eminentemente erotica, egli
s'era invaghito due
volte in Amburgo,
nella casa dello
zio miliona- rio, Salomone
Heine, prima della
cugina Ama- lia, creatura
fredda e speculatrice,
più tardi della
sorella minore di
lei. Teresa, che
i parenti calcolatori
destinarono ad altre
nozze. La mas-
sima parte delle liriche
del Bach der
Lieder fu I'ATKIuTTIsMii K Si n.
1 A Usili
i inspirata da
questi din» amori
e da queste
due crisi amorosi»,
allo quali successero
ben presto passionacci»
libertine, i-hi» lasciavano
il poeta stremato
di forze e
melanconico. Quantunque non
volesse ron venirne e
sebbene alla prima
apparenza non sembri,
la sua sensitività,
a tra- verso le
stesse orgie sensuali,
menava all'idea- lismo. Più
tardi a Parigi,
dopo disordini d'ogni
genere, di mezzo
al bizzarro e
degradante con- nubio, legittimato dal
matrimonio per compas-
sione, con quella magnifica
statua di carne
da lui comperata,
(die fu Matilde
Mirnt i';, spunta
l'amore fragrante por
la signora Krinitz.
la poe- tica Monche,
cosi variamente giudicata
dagli. stu- diosi delLo Heine
' ). Lo
spirito di lui
ora sog- getto ai
più stridenti contrasti:
ora angelo, ora
demonio, e pur
troppo i molto
malevoli videro il
demonio e non
vollero vedere l'angolo.
Il peggio è
(die da se
medesimo fece di
tutto per calunniarsi
o por mostrarsi
diverso da quello
(die in realtà
era. Il suo
pessimismo lo portava
all'ironia, e l'ironia
sapeva armare di
tutte le punte
della 117/ 'sigia' il germanica.
Accortosi del- ti j
Le l>'" curiose
notizie su Ini
flirtino date -lo
un tv- (jUPIitatore
ili casa Heine.
Alessandro AVeill. Voli
I'iiiaiiim. Stilili e
ritratti letterari, Livorno,
liXXI, [in. 17:2
sir;r. \'Ai E
sia [une stata
un'avventuriera colei che in Francia
amò chiamarsi Camilla
tSelilen e con
questo nome [mlihlici'i
un libro siurli
ultimi giorni dello
Heine: non è
meli vero ch'ella
riuscì a penetrare
come ragjllo ili
luce nella tornila
di materassi i
Àtatrazen^rut't i in
cui il poeta
languì ]>er otto
anni i lK4H-|S:Vli e
che i]uiuili non
pot ■ essere
un avventuriera vulvare.
Il] AKKtlìI l
HKIXK l'effetto die
faceva quel suo
spirito indici volato,
ne abusò lino
al inailirrismo. ne
divenne la vit-
tima .'). Disse male
dei romantici ed
in fondo civi
un romani ico
egli pure; sparlò
dei Tede- schi, e
la >u»-i anima
restò tedesca fondamen-
1,'ilnienie sempre: mise
in burletta il rraseenden- talismo
della lilosotia germanica,
e le sue
teorie politiche e
sociali germinavano dallo
hegelismo. Kcco perche,
pur essendo assai
migliore di quel
che parve, egli
riuscì a farsi
sprezzare e odiare
da tanti. Tali
enunciati avrebbero mestieri
d'una lunga (limosi razione, che
non è qui
il caso di sciol i-
nare. IO già mollo
se riuscirò a
far vedere clic
lo Heine fu.
anelli' contro voglia,
tedesco, e clic
in politica egli
si spinse di
molto oltre al
libe- ralismo comune e
giunse al più schietto
socia- lismo, pur rimali
'lido aristocraticamente poeta.
La Germania filistea
gli riusciva detestabile,
è vero: ma
(pianta dolcezza, quanta
alterezza gli ispiravano
la terra tedesca,
la lingua tede-
sca, i cosi unii
tedeschi! Chi non
le sente co-
deste tenerezze di tìglio
leggendo «pici suo
in- superabile f)eit/sf]ifiiin1
V Dopo
tredici anni di
esilio volontario, nel
1 9| PATRIOTTISMO
E SOCIALISMO col
contrabbando delle idee
più ardite rincan-
tucciato nel cranio. Eccolo
al confine :
il cuore gli
batte più torte,
gli occhi gli
si inumidiscono, si
sente riconfortato; le
stelle sul patrio
suolo brillano d'una
luce più viva.
Poco appresso si
commuove a rivedere
il vecchio Reno
(mein Va- ter
Rhein) al quale
pensò ognora con
sentimento nostalgico. Nello
scherzoso saluto a
quelle quer- cie
sentimentali che sono gli abitanti
dell'antica Westfalia. v'è un mal
celato compiacimento; nella
splendida allocuzione ai
lupi germanici egli
si proclama ancor
sempre lupo: «
Ich bin einWolf
geblieben, mein Herz
| Und meine
Zanne sind wolfisch
». La tipica
cucina tedesca, a
ven- tricoli latini cosi
poco confacente, gli è gradita
come il saluto
della madre; nei
letti tedeschi di
piuma più dolce
gli sembra il
riposo f1). Al-
trove, nelle liriche, confessa
che talvolta il
pen- siero della patria
lontana lo muove
alle lacrime, e
quando la notte
si desta l'imagine
di essa non
gli consente più
il sonno. «
Io credo, dice
egli « stesso,
che questa ardente
e pazza bramosia
« si chiami
amor di patria
» (s). E
così era veramente.
Il flagellatore di
tante idee tede-
sche, di tanti sentimenti
tedeschi, non riuscì
a (1) Per
tutto ciò si
vedono i capit.
I, V, VII.
Vili, IX, X,
XII del Deutschlaml. (2)
Deutsrhlaud, caput XXIV.
Fra i molti
che svelarono, con
più numerose attestazioni,
questo sentimento dello
Heine, cfr. CniARiNi,
op. cit., pp.
329-32; Legbas. op.
cil., pp. 283-**)
e Ed. Esoel
nella sua prefazione
alle Memorie postume
di En- rico Meine,
Firenze, 1S84, pp.
87-89. DI ARRIGO
HEINE 395 stedescarsi
giammai; la Francia,
per cui nu-
triva tanta simpatia e
a cui lo
legava grati- tudine per
ospitalità e benefìci
di ogni genere
che ne aveva
ricevuti, fu sempre
per lui un
paese straniero. D'altro
lato ragioni ideali
lo sospingevano verso
Parigi e dalla
Germania lo staccavano.
Sotto il vento
de' cantici immortali
Piegavano crosciatiti Le
selve delle vecchie
cattedrali Con le lor guglie
e i santi.
Rintoccava, dai culmini
ondeggiando, A morto
ogni campana, E
Carlo Magno s'avvolgea
tremando Nel lenzuol
d'Aquisgrana ('). Disse
un poeta nostro
della poesia giacobina
del biondo Arrigo,
e non disse
falso, perchè realmente
nei poemetti e
nei Zeitgedichte, fra
lo scoppiettare dei
frizzi e le
bollature roventi del
sarcasmo, freme e
geme l' idea politica
e sociale di
un ribelle. Qui
talora l' inspirazione heiniana
trova note inusate
di solennità formidabile,
come in quella
gran lirica dei
tessitori che instanca-
bili e maledicenti tessono
il lenzuolo funebre
della Germania (2).
Quella poesia, come
parec- chie altre, come
la più parte
degli articoli che lo Heine
mandò all' AUgemeine Zeitung
di Au- gusta, riflette l'idea"
capitale politica che
alli- (1) Caupitcci,
A un heniano
d'Italia, nei friambi
ed, epodi. (2;
Abbiamo di questa
lirica una versione
del Carducci nelle
Rime nuove. 3%
PATRIOTTISMO E SOCIALISMO
gnò per tanto
tempo nel suo
cervello e per
cui erti così
poco tedesco e
tanto francese, l'idea
rivoluzionaria. Noi oggi,
dopo tanti studi
storici e politici,
ci siamo formati
un concetto più
sicuro di quel
gran fatto che
fu la rivoluzione
francese; ma nei
primi decenni del
XIX secolo non
v'era via di
mezzo nel considerarla,
o l'obbrobrio o
l'am- mirazione. Arrigo Heine
fu della rivoluzione
francese vero ammiratore.
Sin dalla sua
gio- vinezza, quando diede
il primo bacio
alla rossa Peppina,
la nipote del
carnefice tedesco, che si schermiva
con la mannaia
onde erano stati
de- capitati cento poveri
furfanti, sin d'allora,
dice egli, .
T'ATRlOTTISMw E Si
il IAUMIO sliauesimo
la dottrina principale,
l'amore del prossimo,
ma se ne
togliesse l'autaii'onismo tìa
la vila terrena
e quella dello
spirito, fra la
terra e il
ciclo, quell'antagonismo con
«-ni i prcli.
pre- dicando acqua in
pubblico e bevendo
vino in seirrcto,
hanno cantate la
ninna nanna al
tri- piante popolo,
al grosso minchione.
Noi vogliamo l'omini-
qui sulla temi
Il ri'amc (ti
Dio. Quniiji'iù i|iiaj;'{iiù
voiiliaino essere l'elii-i.
Non \oj;li;uii più
stentare; Ciò che
il braccio iniadafnia,
il pi^-ro ventre
Non si' lo
dee pappare. Cresce
pani' iiua^ii'i clic
basta a noi
Ed a' nostri
fratelli; Ed il
piacere e la
bellezza; r tose,
E mirti anelie
e piselli, Si,
piselli per tutti
escono fuori Dai
usci appena rotti.
Lasciamo il cielo
azzurro ai vagabondi Angeli
e ai passerotti'1' Idea
semplice, senza dubbio:
ma nella sua
sem- plicità sta la sua forza.
Sono unicamente le
idee semplici, che
conquistano il mondo.
Legittimismo, bonapartismo, assolutismo,
de- mocrazia, repubblica erano
tutte cose per
cui lo l'I)
Trad. Chiarini (Iella
iirrmnnìa. Di Ilrìnr
p Ir Salril-Sr-
monisme tratta egregiamente
il Lichtenberger uel
cap. UT dell'opera
sua. DI AKlìIGU
HEINE Heine si
sfaldava solo fugacemente,
prò o contro. Ossili
contingenza ed ogni
lolla politica iì"1
i sem- brava secondaria di
fronte alla importanza
mas- sima (lolla (picstione
sociale, l'irai (li
questo concetto >oil
piene le carte,
e i tribuni
delle nielli vi
pnppagalloggiano .sopra i
loro roboanti discorsi:
ma il pensarlo
intorno al 1S40
non era di
lutti uè era
senza pericolo allora
il bandirlo «
a' quattro venti.
Il poeta divenuto
giornalista di straordinaria
efficacia, osò tarlo,
e prosegui por
anni, su quella
via, incurante di
stringere al- leanze opportunisti' e poco sincere,
incurante di lauti
guadagni, egli che
puro aveva sempre
tanto bisogno di
quattrini. Tale atteggiamento
della sua attività
non è abbastanza
conosciuto nò a
sufficienza apprezzato. Lo
apprezzarono solo al-
cuni fondatori di sistemi
socialistici, come Carlo
Marx, che strinse
con lo Heine
amicizia, e fu
suo compagno nella
redazione del ]~ot'i.
1# 8-1X5 e
o99-408. e H.
BAituiEitA, La prinHpps^a
Belgioioso^ stilano. 1902.
pp. 159 sgg.
100 PATRIOTTISMO E
SOCIALISMO. eminentemente parata
e conservatrice, tre
uo- mini, tutti tre
di origine giudaica
tutti tre spuntati,
per logica propaggine,
dallo hegelismo, disciplinavano nel
cervello dal mondo
le idee ri-
voluzionarie francesi dello spirato
secolo XVIII, dando
loro sviluppo di
cai-attere sociale e
dignità di scienza.
Non passera molto
e ne verrà
fuori, nel 18(57,
l'opera economica più
importante del socialismo
europeo nel suo
primo periodo, Das
KapitaL Ma allora
il povero Heine
riposerà or- inai da
undici anni nella
tomba modesta del
camposanto di Montmartre.
A lui che
pur vide così
addentro nei destini
dell'umanità futura e
che combattè con
ardire e pertinacia
una battaglia pericolosa,
senza spi- rito di
setta, senza speranza
d'alcun guadagno uè
prossimo" uè remoto,
uè materiale nò
mo- rale: a lui
banditore di uguaglianza,
il mesco- larsi tra
la folla spiaceva
e non arrossiva
di confessarlo. Amico
sincero del popolo,
rivolu- zionario più che
democratico, schivava i
con- tatti coi molti
e coi rozzi.
E un altro
dei tanti contrasti
già osservati nella
sua natura. Pochi
furono al pari
di lui aristocraticamente schivi
della folla, forse
perchè egli era,
a differenza de'
suoi compagni nelle
idee, un poeta.
Al poeta ripugnano
molte cose che
al freddo ragionatore
fi) Bispetto alla
grande parte che
gli israeliti ebbero
nella prima propagazione
del socialismo, molte
e curiose osserva-
zioni si potrebbero fare.
Vedi notato e
commentato il caso
anche dal Laveleve,
he socìcUimiie contemporain,
!t» ediz., Paris,
1894, p. J9.
DI ARRIGO HEINE
401 sembrano logiche
e naturali. Nell'animo
suo egli aveva
dedicato un tempio
alla bellezza, e
la fu- tura tragedia
sociale, a cui
gli sembrava che
l'Europa andasse incontro,
sarebbe stata sacri-
lega verso le manifestazioni più
alte e più
di- sinteressate del bello.
Dal fondo del
suo pessi- mismo, avea
pur sempre levato
gli occhi azzurri
e penetranti verso
il sole dell'ideale
ed i beni
mondani avea apprezzati
solo in quanto
gli riu- scivano necessari. Invece
la potenza uguaglia
trìce del socialismo
portava a collocare
il benessere materiale
al primo luogo
e ad aspirarvi
come al maggiore
diritto, cacciando in
disparte le aspi-
razioni dello spirito alla
cultura ed alla
scienza. Ciò riconosceva
fatale; ma siffatta
fatalità della rivoluzione
lo riempiva di
angoscia secreta. La
sua forte individualità
di artista non
s'adattava ad essere
pecora in una
greggia ('). Se
la cru- dele malattia
che lo consunse
non lo avesse
in- chiodato a letto
per tanti anni,
logorandogli l'ener- gia di
ogni lavoro che
non fosse poetico,
chissà come si
sarebbe risolto il
dramma della sua
anima, chissà se
in lui avrebbe
prevalso la sin-
cera tendenza socialista o
l'individualismo pre- potente del
genio solitario. Forse
quella tempra tedesca
di sognatore, bal-
samo e martello alle
sue piaghe, non
avrebbe vinto in
un organismo sanò,
come vinse, per
quel che riguarda
le idee religiose,
nel lento sfasciarsi
della gracile persona.
Il panteista ir-
ci) Lichtknhekgeh, pp. 151,
169-71, 173-74, 186,
201-5, 231-38. Rjsnibr
- Svaghi Crìtici
ìli 402 PATRIOTTISMO E
SOCIALISMO riverente e
sarcastico, tra i
patimenti inenarra- bili e
la disperazione cupa
d'una infermità senza
ristoro, ridivenne credente
nello spiritualismo nazzareno,
riprese in mano
la Bibbia e
vi si compiacque.
Ma non si
infeudò a nessuna
chiesa positiva. Il
poeta (gli sembrava)
è già di
per sè in
istato di grazia:
a lui si
aprono sponta- neamente le
porte del cielo,
senza bisogno uè
delle chiavi di
san Pietro nè
di quelle di
ver un altro
portinaio delle Chiese
costituite ('). *
* * In
questo poeta ed
in questo martire
noi uo- mini moderni
troviamo tutti qualche
parte di noi
medesimi. I contrasti
della sua anima
sono quelli delle
nostre anime; non
altrimenti che nei
contrasti dello spirito
altissimo di Francesco
Petrarca gli uomini
dell'incipiente rinascita sen-
tirono l'età nuova lottante
col medioevo. Senza
essere come il
Petrarca un genio
universale, Arrigo Heine
fu non meno
di lui uu
genio rap- presentativo. Vizi
e difetti ebbe
senza dubbio; ma
amò assai e
assai sofferse, ed
a chi amò
e sofferse va
perdonato molto. Oltre
la fresca e
limpida vena del
poetare, oltre la
generosità del pen-
siero umanitario, oltre il
coraggio nel combat-
tere per le sue idee, egli
ebbe un pregio
che (1; LtCUTBNBEBGEB, p.
212. DI ARRIGO
HEINE 403 nessuno
può contestargli e
di cui va
tenuto gran conto,
la sincerità. Oggi,
nella superba capitale
della Germania unita,
movendo dalla colossale
colonna su cui
si libra dorata
al sole la
Vittoria glorificante la
gran conquista tedesca
del 1870, s'apre
fra la verzura
e le piante
annose del Tiergazten
la co- sidetta
Siegesallée. Disposte simmetricamente ai due
lati del viale,
ergonsi trentadue statue
di grand'elettori, di
principi, di monarchi,
dall'alto medioevo all'età
modernissima; dietro a
ciascuna statua marmorea
stanno a corteggio
due erme, coi
busti di due
personaggi ragguardevoli che
fiorirono nell'età di
ognuno di quelli
eroi e ne
sovvennero, col consiglio
o col braccio,
la po- tenza. Idea
grandiosa certamente, ma
non tale da
suscitare entusiasmo, giacché
pur troppo più
d'uno di quei vindici
superbamente atteggiati vale
meglio nel marmo
di quel che
valesse in carne
ed ossa, ed
il visitatore anche
coltissimo deve non
senza stento ripescarne
le notizie grame
nei recessi più
oscuri della memoria.
Sfarzo, dunque, di
compiacenza dinastica, mo-
numento d'imperialismo, che non
ha eco nel mondo. Un'altra
Siegesallée piacerai prevedere
che la Germania
contrapporrà un giorno
a quella ber-
linese, ove siano effigiati
altri trionfatori, ben
altrimenti noti e
civili e benefici;
i trionfatori del
pensiero e dell'arte,
tutti raccolti insieme,
senza esclusioni partigiane,
senza predilezioni regio-
nali, senza male prevenzioni
politiche o reli-
404 PATRIOTTISMO E
SOCIALISMO giose. Questi
sono i vittoriosi
di tutti i
tempi, i cittadini
di tutti i
luoghi, ai quali
il mondo s'inchina.
E tra costoro,
ben meglio onorati
die nel Walhalla
di Ratisbona, penso
che sorriderà la fiiccia
arguta e splenderà
l'alta fronte geniale
di Arrigo Heine,
redento dalla potenza
ultrice del tempo,
riconciliate col suo
popolo, ch'egli amò
sempre, tra la
ironia scettica della
sua tra- vagliata esistenza, di
cosi fido e
tenero affetto. Nota
aggiuiTìa — Xe]
Fan f itila della domenica,
26 novem- bre l!)0ò.
L'imperatore di Germania,
che acquistò l'Achil-
leiou di Corfù,
ne tolse il
simulacro di Arrigo
Heine, che fu
venduto al banchiere
Cainpe. Costui, fino
ad oggi, non
ha trovato modo
di farlo accettare
da nessun sodalizio
te- desco. Su queste
storia poco edificante
vedi ciò che
scrive G. A.
Boiuìesk nel volume
La nuova Germania,
Torino, 1909, pp.
164 sgg. Adalberto
Stifter novellatore. Nell'autunno del
190.T i paesi
di lingua tedesca
echeggiarono in ogni
parte delle lodi
d'uno scrit- tore austriaco, di
cui in Italia
neppure si bisbi-
glia. A questo scrittore
furono consacrati arti-
coli, opuscoli, volumi: le
edizioni popolari delle
sue opere, dopoché
nel 1898 fu
terminato il tren-
tennio di proprietà esclusiva,
che dalla Casa
edi- trice Ileckenastdi Pesterà
passato alla Casa
Ame- lang di
Lipsia, si moltiplicarono rapidamente:
all'obelisco eretto sin
dal 1877 in
suo onore sul
Blockenstein dell'amato Bohinerwald
fu aggiunto nel
maggio del 1902
un monumento a
Linz, nel quale
lo si rappresentò
adagiato presso ad
una rupe in
atto d'intenta e
tranquilla osservazione delle
bellezze naturali; un
altro monumento gli
si eresse pel
centenario nella sua
patria, Ober- plan
di Boemia, ed
un terzo ne
vedrà presto sorgere
l'antica e grande
capitale dell'impero d'Austria,
mentre già a
Vienna stessa, e
a Bud- weis,
e a Linz
alcune vie sono
chiamate col suo
nome; il sodalizio
costituitosi per l'incremento
della cultura tedesca
in Boemia fondò
in Praga uno
Stifter-Archiv, destinato a
raccogliere i ma-
noscritti delle sue opere,
i suoi carteggi,
i do- ADALBERTO
STIFTER NOVELLATORE cumenti
tutti che in
qualche modo si
riferiscono alla sua
vita, alla sua
attività, alla sua
reputa- zione; quel medesimo
sodalizio ha dato
opera alla stampa
d'una edizione critica
definitiva di tutti
gli scritti, editi
ed inediti, dello
Stifter, che, assunta
dall'editore Calve sotto
l'alta direzione di
Augusto Sauer di
Praga, consterà di
ventun volumi. E
cosa singolare davvero
che di questo
scrit- tore, di cui
suona ormai cosi
alto il nome
in Germania e
sembra che col
volger degli anni
la fama acquisti
sempre nuovo vigore,
l'Italia non siasi
mai occupata con
qualche cura, sicché
tra i maggiori
scrittori tedeschi dell'Austria
egli è certamente
il meno noto.
Per studi e
per tra- duzioni sono
conosciuti abbastanza nel
paese no- stro Niccolò
Lenau, Francesco Grillparzer
e Ro- berto Ilamerling; nò
si può dire
che alla cogni-
zione diretta dello Stifter
s'oppongano difficoltà idiomatiche
o difetto di
famigliarità con gli
usi locali, come
accade per l'umorista
fantasiosa- mente
insuperabile, che risponde
al nome di
Ferdinando Raimund. Ad
intendere le produzioni
sceniche del Raimund,
che fanno ancor
sempre la fortuna
del Volks-Theater di
Vienna, occorre esser
addentro nello spirito
del popolo e
del ver- nacolo viennese; mentre
a leggere e
a gustare 10
Stifter è unicamente
mestieri di conoscer
bene 11 tedesco,
cognizione che ormai
non deve difet-
tare a nessuna persona
colta non mediocremente. Alieno
dalle esagerazioni, io mi guarderò
bene dall' innalzare lo
Stifter su d'un
piedistallo più ADALBERTO
STIFTRR NOVELLATORE 407
elevato di quello
che gli competa,
e mi terrò
lontano dall' infatuamento a cui si
abbandonarono certi suoi
ammiratori; ma non è esagerazione
ne è frutto
di infatuamento l'asserire
ch'egli è il
maggior prosatore tedesco
dell'Austria. Vale quindi
la pena che
in breve se
ne discorra la
vita e se
ne tratteggi l'indole,
ponendone in evi-
denza l'opera letteraria (').
(1) Questo articolo
risulta non solo
dalla lettura attenta
delle principali opere
narrative dello Stifter,
ma anche dallo
studio della parte
più notabile di
quella assai larga
lettera- tura
storico-critica che in
Germania fu a
lui consacrata. A
Praga uscì nel
1904 intorno a
lui un volume
di Litigi Rai-
mondo Hkh (Adalbert Stifter,
seiu Lehen und
seine lleite), che
quasi tocca le
700 pagine in-8»
grande. È un'opera
bio-bi- bliografica di estrema
minuziosità, corredata di
un ragguar- devole numero
di documenti, condotta
su molti carteggi
ine- diti e col
sussidio dei riferimenti
di quanti amici
dello Stifter poterono
essere consultati. Accrescono
pregio al volume,
farraginoso invero assai,
ma pure preziosissimo, la
riprodu- zione di tutti
i ritratti noti
dello scrittore, nonché
di una parte
dei suoi quadri
e schizzi, le
vedute dei paesaggi
che gli furono
più famigliari e
di cui scrisse,
i disegni delle
case da lui
abitate e fin
dei suoi mobili
prediletti. Più di
cosi non si
potrebbe fare! Fra
gli scritti critici
intorno allo Stifter
trovo segnalabile sempre
un libro ormai
vecchio: Enti. Kuh,
ZweiDichter Oesterreiclis, Franz
Grillparzer und Adalbert
Stifter CPest, Heckenast,
1872;. Buono nella
letteratura recentissima il
volumetto di W.
Koscn, Adalbert Stifter
eine Stadie (Leip-
zig, Amelang, 1905), che fa seguito
ad un'indagine letteraria
del Kosch medesimo,
uscita a Praga,
Adalbert Stifter und
die Bomantik. Nella
alluvione di articoli
ed opuscoli che
portò seco il
centenario, merita il
primo posto il
numero speciale (an.
IV, n. 12,
settembre 1905 1 che
allo Stifter consacrò
la rivista mensile
Deutsche Arbeit di
Praga, perchè vi
sono pa- recchi articoli con
nuovi documenti, massime
intorno alle amicizie
dello scrittore di
Oberplan. 408 ADALBERTO
STIFTEH NOVELLATORE L
Siete mai passati
dalla Boemia in
Baviera? 11 confine
occidentale della terra
boema è natu-
ralmente segnato da un
succedersi di monti
bo- scosi, che ha
il nome di
Bòhmerwald. Nella parte
più meridionale di
quella regione montagnosa
scorre limpida nella
sua giovanilità presaga
di grandezza la
Moldava, e dove
la valle prima
an- gusta di quel
fiume czeco si
allarga, giace in
pittoresca posizione, adagiato
sulle pendici er-
bose, il villaggio di
Oberplan, e i
boschi gli fanno
corona. In una
di quelle tranquille
casette dal solo
pianterreno, che tanto
piacciono alle popo-
lazioni rusticane dei piccoli
Slavi, in una
casetta che dai
restauri in fuori,
imperiosamente imposti dal
tempo roditore, si
conserva oggi ancora
tal quale, vide
la luce in
Oberplan il 23
ottobre 1805 Adalberto
Stifter, da un
agricoltore che avea
dapprima esercitato l'industria
della tessitura e
dalla figlia d'un
macellaio. Non la
madre, crea- tura soave,
« lago senza
fondo d'amore »,
ritrasse egli nella
sua lunga opera
descrittiva di uomini
e di cose,
ma l'ambiente domestico
e special- mente la
nonna, Frau Ursula
Kary, nel racconto
Ileidedorf, da lui
già abbozzato in
ginnasio. Come il
Felice di quel
racconto è in
gran parte l'au-
tore medesimo, cosi ritrae
la figura idealizzata
dell'ava veneranda quella
vecchia nonna di
Fe- lice, che nella
sua vita laboriosa
ha letto un
libro solo, la
Bibbia, e per
70 anni lo
ha elaborato ADALBERTO-
STIFTER NOVELLATORE 409
nella vivace fantasia,
sicché le voci
della sua anima
austera e mite
trovano spesse volte
nel suo umile
discorso di popolana
la'solennità sacra dell'espressione scritturale.
Nell'infanzia dello Stifter
le narrazioni fantastiche
di quella vecchia,
non dissimili da
quelle della nonna
di Katsen- sitber,
influirono assai ad
atteggiargli all'arte rappresentativa l'anima
tenera e pronta,
come sul giovinetto
Goethe potè non
poco la gioconda
madre Elisabetta, inesauribile
narratrice di fiabe
e di leggende.
Se non che
sul capo del
povero Adalberto, che
faceva ormai progressi
sotto la guida
intelligente del maestro
del villaggio, Giuseppe
Jeune, s'ad- densava un
nembo procelloso. Nel
1817, a 12
anni, un tragico
infortunio lo orbò
del genitore; l'infelice
madre di lui
rimase vedova, senza
mezzi, con cinque
figliuoletti. Energicamente venne
in soccorso il
nonno materno, la
cui onesta figura
è ritratta in
Granii-, e malgrado
i pre- sagi di
qualche corvo di
malo augurio e
diffi- coltà materiali d'ogni
genere, egli volle
che il fanciullo
proseguisse gli studi
e lo allogò
a per- correre il
ginnasio nella non
troppo remota ab-
bazia benedettina di Kremsmunster
nell'Alta Au- stria, asilo
di cultura molte
volte secolare, ricca
di libri, di
quadri, di raccolte
antiquarie e na-
turalistiche. Quivi il giovinetto,
sebbene strap- pato così
precocemente alla famiglia, vinse
ben presto il
troppo naturale sentimento
nostalgico e si
trovò, negli studi,
come un pesce
nella sua acqua.
A Kremsmunster compi
con onore l'in-
410 ADALBERTO STIFTER
NOVELLATORE tero corso
classico medio, e
per quel ch'è
della letteratura influì
colà massimamente sull'animo
suo il padre
Placido Hall, che
si dice sia
ritratto nel candore
dell'anima, nella vita
parsimoniosa e segnatamente
nell'amore intenso ai
fanciulli, in quel parroco singolare
che è protagonista
del bel racconta
Kalkstein. Sin d'allora
lo Stifter si
senti prepotentemente attratto
all'arte, e gli
studi di scienze
naturali, condotti innanzi
con fervore nelle
raccolte dell'abbazia, non
intiepi- dirono punto in lui l'ammirazione
per la natura
bella e grande,
che gV ispirava versi
e lo indu-
ceva a dipingere i
suoi primi acquarelli.
Cosi tra le
brune tonache benedettine,
nell'austerità d'un glande
monastero, si venivano
maturando nello ►Stifter
quelle tendenze ideali,
che dovevano co-
stituire la gioia ed il tormento
della sua esistenza.
Passato nel 1826
all'Università di Vienna,
fu indotto dalle
esigenze pratiche della
vita a se-
guire il corso giuridico;
ma nel tempo
stesso frequentava lezioni
di scienze naturali,
di fìsica, di
matematiche, e per
impinguare un po'
il bor- sellino, ch'era sempre
magramente fornito, dava
lezioni private in case signorili.
Ciò gli permet-
teva di procurarsi il
godimento di frequentare
concerti e teatri,
che costituivano per
lui, in- sieme con
le raccolte di
pittura, la massima
at- trattiva. Fra gli
autori drammatici era
special- mente lo Shakespeare
che gli incatenava
l'at- tenzione e gli
commoveva gagliardamente l'a-
nimo sensitivo; nel suo
romanzo Nachsommer è
descritta coi colori
dell'esperienza propria la
ADALBERTO STIFTER NOVELLATORE
411 recita del
King Lear e
l'effetto che può
fare sui giovani.
La Vienna di
que' tempi non
era la sun-
tuosa metropoli de' giorni
nostri: la vita
vi si svolgeva
àncora semplice, bonaria,
gioconda, d'una giocondità
e d' una bonarietà
che avevan bensì
qualcosa di borghesemente
ristretto, ina tuttavia
erano tipicamente caratteristiche. Le
impressioni di que'
giovani anni, tutti
dati alla spensieratezza e
all'arte, sono descritte
nel rac- conto Leben
unti Hanshalt*dreier Wiener
Stu- denten, ove
lo Stifter narra
di sè e
de' suoi due
fidi compagni, Anton
Mugerauer e Franz
Schift'er. La Vienna
di que' giorni
fu ritratta con
mira- bile efficacia negli
scritti Aus dem
alien Wien, editi
dalPAprent nel voi.
II delle Vermiscìite
Schriflen; più generalmente
nota è, tra
le Er- zàhlungen,
quella intitolata Ehi
Gang durcìi die
Kalakomben, che descrive
una visita nei
sot- terranei del tempio
viennese di Santo
Stefano, destinati a
cimitero, la cui
solitudine tetra di
sepolcreti stride con la vita
multiforme e assor-
dante che si agita
di sopra, nella
piazza e nel
vicino Graben, che
erano allora, e
sono in parte
anche ora, il
cuore della metropoli
austriaca. Sulla cattedrale
di Santo Stefano
meditava un libro
intero. In parecchi
altri scritti lo
Stifter ritrae con
la sua impareggiabile perizia
descrit- tiva qualche recesso
della vita o
della topografia viennese;
ma in nessun
luogo forse più
felice- mente che nella
seconda parte del
Tur mal in,
ov'è quell'aristocratico, ma
remoto, triste, de-
serto, cadente « Perronsche
Haus», che nell'e-
■112 ADALBERTO STIFTER
NOVELLATORE videnza de' suoi
tratti ha la
precisione d'una mi-
niatura. Cade nel
periodo di quel
soggiorna viennese dello
Stifter il suo
primo, fervidissimo, non
mai estinto amore
per la giovinetta
Fanny Greipl, nata
essa pure nel
Bóhmenvald e precisamente
nell'amena borgata di
Friedberg. Quando quel
legame si strinse,
Adalberto aveva 23
anni e Fanny
20. S'amavano passionata
mente, con tutto
lo slancio, con
tutta la devozione
d'un primo amore
in anime nobilmente
disposte, ma all'ec-
cesso infiammabili. Se non
che la fanciulla
era abbastanza agiata
e lo Stifter
era povero e
senza prospettiva d'una
carriera soddisfacente. La
ma- dre di Fanny
gli fece intendere
che non era
pru- dente continuare ima
relazione di cui
pel mo- mento non
si vedeva esito
alcuno, ed il
giovine addoloratissimo si
ritrasse, pur sempre
sperando di potersi
un giorno presentare
con un impiego
decoroso. Nel Nachsommer
l'amore infelice del
barone di Risach
e di Matilde
rispecchia questa condizione
psicologica; come in
Heidedorf è rap- presentato lo
strazio della rottura.
Giacché la rottura
definitiva venne in
una lugubre giornata
del 1833: Fanny
pregava Adalberto di
non scri- verle più
perchè s'era fidanzata
ad un serio
ed onesto impiegato,
che avea la
compostezza e la
borghesia grassa fin
nel nome, Josef
Fleischan- derl. Si
sposarono il 18
ottobre 1836 e
la bella Fanny
moriva di parto
il 12 settembre
1839. Al- lora lo
Stifter era già
coniugato, perchè il
15 no- vembre 1837
aveva condotto all'altare
una vez- ADALBERTO
STIKTEH NOVELLATORE -1
] 3 zosissima
morava, Amalia Mohaupt,
poverissima, che a
Vienna faceva la
sartina c la
modista, ed il
cui padre, ufficiale
a riposo, viveva
lontano, in Ungheria,
La bellezza femminile,
che potè sempre
tanto sui sensi
e sullo spirito
del nostro scrittore,
lo indusse a
stringere rapporti con la signorina
Mohaupt, la quale
non si lasciò
sfug- gire l'occasione d' un
matrimonio civile. Sinché
visse Fanny il
cuore dello Stifter
continuò ad essere con
lei: dopo si
volse maggiormente ad
Amalia ed egli
in molte lettere
disse la sua
unione felice, e
manifestò per la
moglie vivissimo af-
fetto. Nò si può
dire che questa
non lo ricam-
biasse, anzi è generalmente
riconosciuto che ne-
gli anni infermi della
vecchiaia lo assistette
con esemplare premura.
Ma ad essa
mancarono le doti
d'intelletto e di
cultura necessarie per
in- tendere un uomo
di spirito non
ordinario, un artista
nato; e l'essere
rimasto quel matrimonio
senza figliuoli non
permise la comunità
d'inte- ressi e d'affetti,
che molte volte
cementa unioni matrimoniali
non bene assortite.
Vissero insieme più
di trent'anni senza
urti e senza
scosse; l'a- bitudine rese
tollerabile e financo
gradito un vin-
colo che s'era stretto,
da una parte
per attrat- tiva fisica,
dall'altra per interesse.
La descrizione della
visita fatta dal
maggior biografo dello
Stifter, lo Hein,
alla vedova di
lui, sopravvissutagli sino
al 1888, non
ce la mostra
certo sotto la
luce migliore. V'ha
poi in quella
donna qualche tratto,
che si direbbe
tradire grossolanità di
sentimento: ad esempio,
la vendita, per
800 fiorini, all'edi-
114 ADALBERTO STIFTER
NOVELLATORE tore Heckenast
delle lettere a
lei dirette dal
marito. Le speranze
d'un impiego nell'insegnamento pubblico,
che lo Stifter
aveva vagheggiato nei
primi anni del suo matrimonio,
andarono deluse. Egli
viveva meschinamente dando
lezioni in case
sovratutto patrizie. Quella
del principe di
Met- termeli, di cui
istruì i figliuoli,
gli si doveva
aprire più tardi,
nel 1844. Allora
era già noto
come scrittore, poiché
il suo primo
l'acconto, il Kondor,
uscì nella Wiener
Zeitschriff del 1840,
e nel medesimo
anno comparve lo
studio Feld- blumen
nella rivista Iris
di Pest. Cosi
si avviava la
preziosa amicizia dello
Stifter con l'editore
intelligentissimo Gustavo Heckenast,
senza del quale
forse il novellatore
boemo si sarebbe
dato alla pittura
anziché all'arte dello
scrivere. Lo Heckenast
di Pest, che
non valeva meno
come suscitatore d'ingegni
e giudice di
produzione let- teraria di
quel che valesse
come abile ammini-
stratore ed accorto mercatante,
diresse e consi-
gliò lo Stifter, sovvenne
ai suoi bisogni
mate- riali, che spesso
lo angustiavano, rinfrancò
il suo coraggio,
aiutò a diffondere
la sua reputazione
di scrittore. Abituati
a vedere troppo
spesso negli editori
non altro che
sfruttatori del lavoro
in- tellettuale altrui, impresari
materiali e gretti
del- l'opera dell'ingegno,
una specie di
Medebac sem- pre solleciti
a mortificare ogni
slancio che non
torni d'immediata utilità
alla cassetta, ci
impone ammirazione e
quasi tenerezza questa
amicizia di due
uomini così variamente
dotati. Lo He-
ADALBERTO STIFTER NOVELLATORE
J1Ó ckenast si
procurò molte simpatie
presso parec- chi scrittori
tedeschi; tutti i
biograti dello Stifter
ne parlano con
sincero encomio, e
di recente A.
Schlosser, col sussidio
di carteggi inediti,
ha illustrato quella
nobile esistenza. Lo
straordinario successo che
ebbero i primi
racconti dello Stifter
disseminati per le
riviste, incoraggiò nel
1844 l'edizione dei
primi due vo-
lumi degli Studien. Cosi
la t'ama dello
scrittore restò fissata
definitivamente e si
sarebbe'anche estesa con
maggiore rapidità, se
non venivano a
trasformarla i gravi
avvenimenti del 1848.
Lo Stifter non
era un rivoluzionario; anzi
l'in- surrezione viennese di
marzo lo costernò
pro- fondamente. 11 suo
spirito mite rifuggiva
dalla violenza; le
sue convinzioni religiose
informate al cattolicesimo
gli imponevano ossequio
all'au- torità costituita. Tuttavia
esagerano il Kosch
ed altri quando
lo dipingono coinè
un reazionario. Sebbene
bazzicasse, per necessità
di pane, nelle
famiglie più aristocratiche di
Vienna, egli fu
sem- pre considerato da
esse come un
parvenu: in quella
classe sociale trovò
una sola amica
ve- ramente fida, la
baronessa Luisa di
Eichendorff, sulle cui
lettere al nostro
autore il Kosch
ha di recente
dettato un'interessante memoria.
Nel suo petto
egli sentiva battere
un cuore di
popolano, e sangue
di popolo era
quello che gli
scorreva nelle vene
; sicché se
della rivoluzione, deplo-
rava le violenze e gli eccessi,
non era cieco
ad alcuni suoi
giusti moventi. L'uomo
che, a quanto
ci attesta Emilio
Kuh, aveva fatto
oggetto di Ilf.
ADALBERTO KTIFTER NOVELLATORE
speciali stadi Ja
rivoluzione francese e area in
animo di scrivere
un romanzo su
Massimiliano Robespierre, non
poteva schierarsi inflessibile
fra i nemici
della libertà e
chiudere a questa
il suo gran
cuore di artista
e di educatore.
Fondamen- talmente il suo
indirizzo era di
conservatore, ma conservatore
illuminato, non arcigno,
nè intol- lerante, conservatore amante
del progresso ed
in ispecie della
soda educazione popolare.
Tanto è vero
che nel decennio
di reazione, prodotto
dai moti del
'48 in Austria,
una sua antologia
scolastica, ch'egli aveva
messa insieme con
l'a- mico Aprent, fu dal Ministero
dell'istruzione au- striaco vietata in
tutte le scuole
austriache per- chè troppo
poco ortodossa. I
trambusti politici mal
si convenivano al
dif- fondersi dei suoi
racconti, sicché d'allora
in poi, tratto
dall'imperiosità degli avvenimenti
non meno che
dall'indole propria, si
diede con fer-
vore all'educazione e all'istruzione del
popolo. Per questa
via pervenne finalmente
ad ottenere un
posto, che gli
assicurò una posizione
finan- ziaria, se non
lucrosa, almeno decente.
Il mini- stro dell'istruzione pubblica,
Leo Thun, lo
no- minò ispettore per le scuole
popolari dell'Alta Austria,
con residenza a
Linz. Nel giugno
del 1850 quell'ispettorato gli fu conferito
provviso- riamente, quasi a modo di
prova : con
decreto del 5
febbraio 18òò l'ufficio
si trasmutò in
stabile, e nello
stesso tempo Linz,
la piccola ma
ridente città sul
Danubio, divenne la
sua seconda patria,
d'onde il nostro
Adalberto non s'allontanò,
se ADALBERTO STIFTER
NOVELLATORE 417 non
temporaneamente, e dove
lasciò le sue
ossa. Nei tredici
anni ch'egli visse
colà, la sua
vita fu divisa
tra l'ufficio e
l'arte. L'ufficio lo
oc- cupava immensamente: egli
pose ogni suo
zelo nel fare
il bene e,
come sempre accade,
si trovò impigliato
in brighe molestissime
e fu amareg-
giato da gravi dispiaceri.
L'anima impressiona- bile di
lui si sentiva
sopraffatta della marea
mon- tante delle piccole
animosità, delle meschine
co- dardie, degli interessucci
personali molteplici, che
d'ogni parte gli
facevano ressa e
gli impe- divano l'operosità benefica
nel campo dell'istru-
zione. L'ufficio in cui
aveva portato tanto
en- tusiasmo e tanti
nobili propositi, gli
divenne poco per
volta catena quasi
insopportabile, che rodeva
il suo fisico
e deprimeva il
suo morale. Parecchie
sue lettere ci
sono conservate, in
cui dà sfogo
all'interna amarezza. Unico
conforto, nei giorni
desolati, l'arte. Non
lasciò in pace
mai nè la
matita, nè il
pennello, nè la
penna. Disegnò, di-
pinse, scrisse, con crescente
fervore. Accrebbe il
numero dei suoi
Studien, compose in un vo-
lume i Bunte Steine,
donò a riviste
qualcuna delle sue
Erzahlungen, diede opera
ad iin ro-
manzo singolare, Nachsommer. L'ala
della sven- tura colpì
di nuovo, e
ben sinistramente, la sua povera
casa. Dolorosa, sebbene
attesa, riusci allo
Stifter la morte
della madre adorata,
£he segui il
27 febbraio 1858;
ma ben più
amara dovette parergli
la sparizione tragica
della sua figliuola
adottiva Giuliana nel
marzo del 1859.
A 18 anni
quella giovinetta bizzarra
abbandonò la casa
che Be.vier -
Svaghi Critici 27
US U> AI
.Hi: li Tu
sTIK'l Kl! XoVEI.I.ATOUK In
aveva ospitata, lasciandovi
un biglie! to tor-
1*1 1 »1 1 1 n i
m i ti»
., p. 3.
(2) Bald., II,
pp. 24849. (3)
Bald.. p. 161.
1-18 ALCUNCHÉ DI
GOFFREDO KELLER glie
di lui, ohe
diverrà un giorno
la protagonisti della
novella Frau Regel
Amrain (*). Fra
quella buona gente
egli si consolò
alquanto della mor-
tificazione sofferta; ma non
si che non
comin- ciasse fin d'allora
quell'amarezza nel suo
spirito, che doveva
accompagnarlo per gran
parte della sua
vita e che
si suole ravvisare
quasi sempre negli
autodidatti. Là si
decise pure a
voler di- venire paesista ed
ebbe la sventura
d'imbattersi in un
maestro convenzionale e
senza criterio, Pietro
Steiger che è
lo Habersaat del
Heinrich f\ Lo
jcor resse poscia di
molte viziature Rodolfo
Meyer, che è
il Roemer del
romanzo; ma Gof-
fredo non potè profittarne
quanto avrebbe voluto
perchè quel poveretto
nel 1838 impazzì
(3). Così egli
rimase novamente abbandonato
a se mede-
simo e ai suoi
ideali, non ancora
ventenne. Fu allora,
dopo avere accompagnato
al cimitero un'e-
sile e gentile amica
d'infanzia, Enrichetta Kel-
ler, suo primo amore,
che è la
piccola Anna del
romanzo (*); fu
allora che decise
di recarsi nella
metropoli artistica della
Germania, Monaco, per
trovare avviamento e
fortuna. Vi trovò
invece qualche ebbrezza
momentanea, la compagnia
di- versa di artisti
scapigliati, ma nessun
profitto serio, anzi
la convinzione di
essere un pittore
(1) Bald., p.
27. (2) Bald.,
p. 30. (3)
Bald., pp. 38-39.
(4) Bald., pp.
40-41. Anche, la
Giuditta de] romanzo
ha un fondo
di vero, ma che si
lascia meno precisare.
Cfr. Bald., p.
42. ALC'UNC'HK VI
GOFFRp:r>0 KELLKK J40
mancato l'i. Questo
fa il dramma
della sua gio-
vinezza, descritto con tcaftrheit
unti diclitung nelle
pagine deìVJùirico, rappresentato
nella più inde
schiettezza dalle lettere
alla "madre, che
il Baechtold ha
fatto conoscere. Quella
povera ma- dre si
legava il pan
di bocca per
soccorrere il fi-
gliuolo, che continuamente le
chiedeva danaro e
danaro, ed era
ingolfato sino agli
occhi nei debiti.
Finalmente, nel 1842,
battè melanconicamente la
via del ritorno,
senza trovare sulla
sua via nes-
sun cónte benefico e
romanzescamente mecenate, ma,
in compenso, trovando
ancor viva ed
arzilla la genitrice
con la sorella.
Dal 1842 al
1848 stette a
Zurigo, in famiglia.
Viveva fra gli
stenti, ma almeno
non pativa la
fame. E a
poco a poco
si venne allora
svegliando . in
lui lo scrittore;
anzitutto il lirico,
al contatto dei
commovimenti politici del
tempo, poi il
nar- ratore e descrittore.
Non potè gran
fatto su di
lui un secondo
amore, pure sfortunato,
per Luisa Rieter
di Winfcerthi.tr, la
amabilissima Figura Leu
del Landvogt von
Greifensee^): ormai egli
aveva (1) Ben
lo dice Max
Koi'H (ffeseh. der
deutxchen Lite-rat» r,
Stuttgart, 1895) «
gleich Scheffel, ein
verungl iickter Maler » (p 255).
Questa è pure
l'opinione di C.
Brcn, (*). Cominciò
anche a pensare
al romanzo del
pittore mancato, al
Grune Hein- rich, che
condusse a termine
in mezzo ad
incer- tezze, a pentimenti,
ad interruzioni, e
poi rifece durante
una lunga serie
d'anni (3). Intendeva,
peraltro, il Keller
che a divenire
scrittore gli era
mestieri di allargare
e conso- lidare la
propria cultura. Ottenne,
pei1 buona sorte,
un sussidio dalle
autorità cantonali e
con esso potè
recarsi e vivere
prima a Heidelberg,
poi a Berlino.
A Heidelberg giocondamente, fre-
(1) Bald., I,
p. 193. (2)
Bald., I, p.
89. Non era
dir poco, perchè
al K. la
birra ed il
vino piacevano assai.
Cfr. B., II,
pp. 320-21 e
III, p. 124.
L'abitudine teutonica del
kneipen non la
smise mai. Cfr.
Bald., pp. 219,
227, 316-17. (3)
In B., Il,
pp. 33 sgg.
è narrata e
documentata la storia
del Grane Heinrich.
ALCUNCHÉ DI GOFFREDO
KELLER 4Ó1 quentando
l'università e stringendo
relazione col filosofo
Feuerbach, che influì
massimamente sul concetto
religioso del nostro
scrittore ('); a
Ber- lino, ove dimorò
dal 1850 al
1855, con grandi
privazioni, messo di
nuovo per una
strada che non
era la sua,
quella della drammatica
(*)• Per buona
ventura se n'accorse
in tempo e
non vi si
incaponì, come nella
pittura. Egli aveva
or- mai la coscienza
della propria potenzialità
ar- tistica e sorretto
da essa tornò
di nuovo a
Zu- rigo, dopo sette
anni non infruttuosi
di dimora in
Germania. Aveva cominciato
a scrivere no-
velle, e tra novelle
e liriche prosegui
per il re-
sto della sua vita.
Dal 1856 al
1861 visse tran-
quillo nella sua città
svizzera, che non
era ancora il
fiorente centro industriale
d'oggigiorno, cono- scendo molti
spiriti eletti, tra
cui Riccardo Wa-
gner, ch'egli ammirava (3).
Nel 1861 un
colpo di buona
fortuna gli procurò
l'agiatezza con la
nomina di primo
cancelliere del cantone
di Zu- rigo, impiego
che egli tenne
con zelo ed
intel- ligenza pei1 quindici
anni. Quell'occupazione, che
non era puramente
materiale (*), valse
a disci- (1)
Vedi B., I,
pp. 832-38. 3ti3,
J07-8. La religiosità
del K., conforme
al suo ideale
repubblicano, scostavasi da]
cristiane- simo come da
qualsiasi altra religione
positiva. Cfr. O.
Fikjm- mei.. (iottfr.
Ketlers relitjitìse Entirickluni), iu
Deutsehe liunclschau. voi.
Ili (1802i, pp.
367 sgg. (2)
In appendice al
II voi. de] B. souo
pubblicati gli ab-
bozzi drammatici delK. Teresa
è l'unico condotto
abbastanza innanzi. Cfr.
anche Bali»., pp.
104-7. (3) B.,
II, pp. 307
sgg. i li
lUus, p. 211.
AU'l'M IIK IH
«.MKFKKIMI KKI.t.RK .
plinare il suo
spirito, che fino
allora non ora
stato costretto da
veruna disciplina (').
La madre vec-
chierella, chiudendo gli
occhi nel 1864,
aveva la consolazione
di lasciare il
figliuolo, che le
aveva costato tanti
sacrifizi, in buona
condizione mate- riale e
generalmente onorato. Nel
1869 l'univer- sità di
Zurigo lo creava
doclor honoris causa.
Per poter attendere
con maggior lena
a' suoi scritti,
si dimetteva nel
1876 da cancelliere,
e con la
sorella, che gli
fece da massaia,
visse per do-
dici anni vita semplice
e quieta. Regala
gli mori nel
1888 ed egli
ne fu afflittissimo, sebbene
il ca- rattere di
lei (e specialmente
la sua levatura)
molto differisse da
quella del novellatore.
Nel 1889, quando
la Svizzera e
la Germania com-
memorarono il suo settantesimo
natalizio, gli fu
presentata una medaglia
disegnata dall'amico dei
suoi vecchi anni,
il celebre pittore
Bocklin ('). Egli
l'ammirò senza dir
parola, ma le
lacrime gli spuntarono
sul ciglio e
concluse: « Signori,
« è la
fine della canzone,
das Elide rom
Lied! « Sento
che non ne
avrò più per
lungo tempo »
(3). Un anno
dopo, il 15
luglio 1890, egli
non era più
di questo mondo.
(li B., II,
pp. 817-1». (2)
L'effigie della medaglia
è riprodotta uell' Eniporium, li
(1*4*5.1, p. lt>4,
ed ivi a
p. loft é
pure la bella
incisione dello Staiiffer
che rappresenta il
K. seduto, in
età già avanzata.
Per l'amicizia col
Bocklin vedi B.,
Ili, p. 315.
(3) Bami., p.
368. L'ultimo anno
della vita del
K. è descritto
de L'ita da
Adolfo Frey nella
Deutsche Rundschau, voi.
65, pp. ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
153 Vigorosa, se
non molto simpatica,
natura d'uo- mo; diritta,
rude, sincera, con
gli altri e,
quel eh' è più
raro, con sè.
Uomo talora, nella
sua ira- scibilità, alquanto grossolano:
diffidente e acido
negli ultimi anni,
ma non mai
vano uè fatuo.
Semplice, solido, ordinato
come un perfetto
bor- ghese, senz'averne né
la pedanteria uè
il fili- steismo. Patriota, liberale,
larghissimo nelle idee.
Innamorato della sua
arte: multiforme nell'umo-
rismo: svizzero. * Sopratutto
svizzero. L'elvetismo di
Goffredo Keller è
la sua gran
forza: si percorra
la sto- ria letteraria della
Svizzera tedesca (') e si
ve- drà ch'egli ne
raccoglie l'eredità intellettuale
e molale. Egli
è perfetto rappresentatole, paesista
della penna, ora
idillico ora umorista,
ora pen- satore oia
fanciullo. Ha degli
svizzeri tedeschi l'ingenuità
primitiva e giuliva,
ed a tempo
e luogo la
causticità e la
riflessività melanconica. E
uno scrittore tipico
della sua razza
e come tale
vuol essere studiato
ed amato. S'è
detto e 'ripetuto ch'egli
subì gl'influssi del
Richter (Jean Paul)
e dei romantici
tedeschi. Tieck, Brentano,
Amadeo Hoffmann; fu
accostato remo- tamente allo
Sterne, prossimamente a
quel suo connazionale
pastore d'anime ch'ebbe
in lette- (1)
Scrìsse egregiamente questa
storia J. Baechtolh,
(le- scltichte der
ileulnchen Litentlur in
rìer Hrhiceiz, Frauenfeld,
1892. •454 ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
ratura il nome
di Geremia Gotthelf
e che, con
intento di moralità,
osservò e rudemente
ritrasgg tanta parte
della vita popolare
svizzera ('). Non
dirò che codesti
avvicinamenti siano fuori
di luogo; ma
in realtà il
Keller ha una
personalità artistica tutta
propria, che si
stacca da ogni
mo- dello. Romantico nel
fondo, come ogni
buon te- desco, ha
talora crudezze di
realismo che lo
av- vicinano allo Zola,
ha talora ironie
e stridori di
contrapposti che fan
pensare allo Heine
(*). Ingegno lirico
il Keller non
fu, sebbene scri-
vesse gran numero di
poesie, alcune tra
le quali felici,
ma le più
mediocri (3). Manifesta
anche nella lirica
un senso vivo
della natura; ma
è troppo ragionatore,
troppo epico, se
cosi fosse le-
cito esprimersi. Questa medesima
tendenza epica gli
fu d'intoppo a
riuscire nel dramma.
Ne gli valse
abbastanza pel romanzo:
notai già i
gra- vissimi difetti di
composizione dett'
E)i>-ico il Verde:
difetti non dissimili
si possono ravvisare
(1) Quest'ultimo confronto
è di J.
BnritnKAC in un
artico- lerò, npl resto
superficiale e poco
sensato, intorno al IC, che
si legge npl
volume Po°le.i et
humorisleit tip V
Alleniityne, Paris, Hachette,
1H0(>. (2) Sui
rapporti del K.
con lo Heine
vedi B., 11,
pp. 32.~> sgg.
Non é troppo
giusto ciò clip
osserva in proposito
il Tìai-d. a
p. 361. (3)
Ampio e pazientissimo
lavoro è quello
di P.vrr. Bui
x- sek. Slmììen
unrì BeilrOge zìi
Gotlfr. Krìlers Li/rik.
Zurich. lHOli. Col
confronto dei mss.
vi è studiata
la tecnica della
lirica kelleriana; con
l'aggiunta di poesie
oramai divenute rare
e d'un poemetto
inedito. Sulla lirica
del Keller leggasi
un arti- colo del
Sri-GER GrEBi.so nella
Beilage. rìer Milm-hener
Xeueslen Ximhrifihle.ii, 1909,
n. 73-74. ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
455 nel Martin
Salander, romanzo della
vecchiaia, composto fra
il 1881 ed
il 18815 con
intento so- ciale e
con quella fosca
concezione pessimistica del
presente, che trionfava
in quel tempo
nel romanzo russo
e nel dramma
ibseniano. Dell'opera amara,
in cui prevale
la proverbiosità querula
d'un laudato»' temporis
adi, l'autore stesso
fu malcontento (,').
Prescindendo dalla tendenza
che vi è
palese, lontana troppo
dalla serenità del-
l'arte e dall'ottimismo proprio
allo spirito del
Keller, due difetti
suoi vi riescono
quasi insop- portabili, la
prolissità e la
ineguaglianza. L'ine- guaglianza che il
Keller aveva nel
carattere è anche
nella sua arte:
questo il motivo
princi- pale per cui
la sua innegabile
inclinazione al- l'epica non
potè svilupparsi bene
nel largo qua-
dro del romanzo. La
novella, invece, era
il componimento che
meglio gli si
confaceva. Paolo Heyse
lo proclamò un
giorno « lo
Shakespeare della novella*
>, e questa
designazione fu ripetuta
da più di
uno. Non esageriamo
e non tiriamo
in ballo certi
santi, che è
meglio lasciare nel
loro paradiso. Goffredo
Keller era troppo
tozzo per poter
rag- giungere in alcun
modo la statura
gigantesca di Guglielmo
Shakespeare. Tuttavia giova
ricono- scere che come
novellatore egli è
davvero rag- guardevolissimo, uno dei
più ragguardevoli e
significativi e rappresentativi, forse,
che abbia avuto
l'Europa nel secolo
XIX. (1) Bald.,
p. 320. ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
Lo tre raccolte
di novelle del
Keller tendono tutte
a raggrupparsi intorno
ad un concetto
unico, che funge
in vario modo
da cornice. È
l'antica consuetudine delle
raccolte novellistiche indiane,
di cui i
più insigni documenti
occidentali sono il
Decameron ed i
Canterbury tales; ma
come fu osservato,
per l'intento didattico
della cornice il
Keller s'accosta all'India
più che al
Boccac- cio, a' suoi
seguitatori italiani e
allo Chaucer (').
Nella Gente di
Selcila (Die Leale
ron Seldicyla), raccolta
di dieci novelle,
le prime composte
tra il 1853
e il '55,
le altre uscite
solo nel 1870,
Sel- vila è
una città immaginaria,
collocata leggia- dramente a
solatio « irgendwo
in der Schweiz
», in qualche
parte della Svizzera,
sicché le novelle
che s'inquadrano nei
pressi di quella
cittaduzza, cinta di
vecchie- mura epacificamente assaporante
la carezza del
sole, che fa
maturare le sue
uve e fa sorridere le
sue case, rappresentano
vari aspetti del
carattere elvetico, o
meglio dei cam-
pagnoli e dei borghesi
della Svizzera tedesca
(*). Le Nocelle
zurighesi (Zùricher Norellen),
cin- que di numero,
uscite in redazione
definitiva solo nel
1876, hanno bensì
tutte uno scopo
storico, quello di
presentare lo spirito
svizzero in varie
età, dall'evo medio
al sec. XVIII,
il periodo fe- di
Cfr. W.
Scheheh, nella Deutsche
lìuntìm-h^, voi. 17,
p. 824. Non
devesi tuttavia dimenticare
che anche i
novel- lieri nostri avevano
V intenzione di
ammaestrare. (•2) Scrivendo
quelle novelle pensava
il K. che
ne venisse •
ein artiger kleiner
Dekanieron come è
detto in una
sua lettera del
16 aprile 185U.
Vedi B., II,
p. 350. ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
tó7 lice del
Bodmer e del
Gessner; ma almeno
le tre prime
s'incorniciano nell'ammonimento che
un saggio padrino
vuol impartire al
giovinetto Giacomo, il
quale ha il
ticchio di voler
riuscire ad ogni
costo originale. È,
in altri termini,
una lezione esemplificata
di ciò che
vale e vuol
dire la vera,
la buona originalità.
Anche Vepigrauiìna (I)a$
Sinngedicht), se non
una vera e
propria cornice, ha
un leitmotiv, il
matrimonio ed i di- versi e
gravi problemi matrimoniali,
che tratten- nero sempre
il Keller, pur
tanto ammiratore del
bel sesso ed
amico di più
d'una donna, dal
de- cidersi ad ammogliarsi.
Se mi si
chiedesse quale di
queste raccolte di
novelle io stirai
la migliore, sarei
alquanto im- barazzato nella scelta,
giacché in tutte
soavi rac- conti notevolissimi e
di sommo significato.
Tut- tavia a noi
italiani le Nocelle
zurighesi, sature d'una
storicità che è
lontana dalla nostra,
rie- scono alquanto pesanti,
e lo stesso
Landvogt con Gveinfensee,
che presenta tipi
di donne e
tii amori con
un umorismo sempre
fresco e vivo,
è tale da
apparirci in qualche
parte alquanto puerile
e grossolanuccio. Il
Sinngedicht è troppo
teore- tico, mentre vere
gemme rifulgono nella
Gente di Selcila.
Non già che
anche nella raccolta
selvilana non s'intravveda
spesse volte il
desiderio di dimo-
strare e di ammonire;
nel Panhras è
l'ideali- sta rinsavito nella
lotta rude per
l'esistenza; in Fvau
Hegel Amrain è
una vera tesi
pedagogica in azione,
una madre retta
e saggia, che
riesce 458 ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KELLER
il condurre al
bene un figliuolo
fantastico ed un
marito stravagante; in
Das verlorene Lachen
s'impone la questione
religiosa fra coniugi
ed è propugnata
la religiosità indipendente
da qual- siasi setta.
Ma per me
non sono le
tesi morali che
maggiormente m'appassionino; anzi
di esse farei
volentieri a meno.
La tesi è
sempre un pe-
ricolo per l'artista. Ma
in queste novelle
il Kel- ler seppe
svincolarsi da ogni
preconcetto estra- neo all'arte;
e nel plasmare
caratteri, e nel
de- scrivere paesaggi ed
ambienti, e nel
far muovere le
anime e le
persone, riuscì quasi
sempre ma- gistrale, spesso persino
ammirevole. Ed ammi-
revole è pure la
varietà somma di
queste novelle, dal
gustoso apologo del
Gatto Spiegel, grazio-
sissimo scherzo dei
tempi in cui
le bestie par-
lavano, ove lo Spiegel
è un onesto
campione di quella
categoria di gatti
filosofi a cui
appartiene il Murr
dello Hoffmanu e
lo Hiddigeigei dello
Scheffel; a quella
Storia di tre
giusti (Die (Irei
gerechten Kammacher), che
piaceva tanto a
co- lui che scrisse
i Maestri cantori,
perchè è una
impareggiabile pittura, grigio
su grigio, di
ca- ratteri borghesi senza
slancio e senza
poesia; a quella
poetica e passionale
storia di Giulietta
e Romeo villerecci
(Romeo und lìdia
aufriem Dorfe), che
fra le novelle
del Keller è
forse la più
meritamente celebre. Questa
storia di amore
e morte fu
paragonata, non bene,
ad altri ram-
modernamenti di temi
shakespeariani, come ad
esempio, V André
Cornelis di Paolo
Bourget ('). (lj
Bai.d, p. 1G8
n. i ALCUNCHÉ
Dr GOFFREDO KELLER
459 Non bene,
mi sembra perchè
lo' Shakespeare c'entra
ben poco, nel
titolo e nello
spunto ini- ziale dei
due giovani, innamorati,
tìgli di geni-
tori nemici. Il fatto
è ispirato ad
un lugubre stellone
di cronaca giornalistica: un
giovine di 19
anni ed una fanciulla di
17, figli di
povera gente, repugnante
alla loro unione,
che, il 12
agosto 1847, dopo
essersi divertiti in
un albergo e
dopo aver danzato
buona parte della
notte si suicidarono
insieme ('). A
questo fatterello cupo
c purtroppo non
del tutto straordinario
nel ne- vrotismo
dei giorni nostri,
il Keller seppe
dare elasticità e
grandiosità epiche. T
due contadini Manz
e Marti, che
arano i loro
campi vicini, e
poi per una
di quelle lotte
di proprietà che
i coltivatori della
terra sogliono proseguire
con tanta cocciutaggine, diventano
nemici, consumano in
querele giudiziarie tutto
il loro, s'immiseri-
scono e s'incanagliano; sono
figure che potreb-
bero palpitare nella rude
Terre dello Zola.
Di contro a
tanto realismo, con
un contrasto strano,
spiccano le due
creature, ingenue fino
all'idillio, di Sali
(0 Salomone), figlio
di Manz, e
di V re
li- chen o Vreeli,
figliuola di Marti,
che cresciute por
alcunJ*nnni insieme, si
rivedono nell'età cri-
tica, e si amano
con uno di
quelli slanci fulmi-
nei verso l'amore, che
è sete di
felicità in chi
si trova, sul
fiore degli anni,
immerso nella mi-
seria materiale e morale.
A quella felicità
hanno contro tutto,
uomini e cose;
ma essi vogliono
(1) B., II,
pp. U6-67. ALCUNCHÉ
DI GOFFREDO KEIXKR
pure saggiarne e
poi morire; passano
una gior- nata da
signori, ballano a
perdifiato, e poi
s'ada- giano su d'una
barca carica di
fieno, che men-
tre lenta va alla
deriva pel fiume
è il loro
ta- lamo, e da
cui scivolano abbracciati,
in sul primo
imbiancarsi del cielo,
nell'acqua gelida. Non
molte volte la
prosa tedesca è
riuscita ad assumere,
come in questa
splendida novella, la
grandiosità calma e
solenne dell'epopea. Ma
v'è un'altra operetta
del Keller a
cui io do
una grande importanza,
e che mi
sembra in tutto
degna dell'autore della
raccolta selvilana: Sie-
ben Legenden. Queste
leggende erano già
scritto nel 1 862
; ma solo
dieci anni dopo
videro la luce
(' ). Da
telluì-ista impenitente, il
Keller vi ha
rinar- rate, dando loro
significato e sapore
terreno, certe leggende
pie da lui
lette nella raccolta
di Lu- dovico Teobulo Kosegarten
(*>. Non sono
vera- mente novelle; ma
alle novelle s'accostano;
tre- sche, semplici, adorabilmente
scritte. Lo stile
del Keller non
raggiunse altrove trasparenza
siffatta. In alcune,
come nelle tre
leggende mariane e
nel San Vitale,
il sarcasmo del
protestante e la
can- zonatura del razionalista
stridono talora un po' troppo
sul fondo armonioso;
ma altre, rome
k'n- genia e
specialmente La danzatrice
(Das Tans- legendchen),
sono mirabilmente svolte,
con una poesia
candida ed olezzante,
non turbata, ma
resa piccante, da
qualche inciso lievemente
ironico. (li Bald.,
pp. 229-:*. (2)
Per le fonti
cfr. B., Ili,
p. '29. ALCUNCHÉ
DI GOFFRÈ»! > KELLER
La interpretazione terrena
di poetiche tradizioni
cristiane, se anche
nasconda il sorriso
di uno scettico,
non è qui
profanazione, perchè l'arte
vera e delicata
non è profanatrice
mai. Fuori dei
paesi di lingua
tedesca il Keller
è pochissimo noto.
Parecchie sue novelle
furono tradotte, alla
spicciolata, in francese
(.'); nella lin-
gua nostra si hanno
traduzioni d'un apologo,
di due novelle
del Sekhcyla e
di due canzoni.
Con poca lode
registra queste traduzioni
il prof. Carlo
Fasola, che non
senza certa amorosa
diligenza scrisse del
Keller in un
articolo della sua
Ri- vista mensile di
letteratura tedesca (*).
Ma egli trascura
l'infelice versione e
riduzione italiana del
Grime Heinrich, ch'è
l'unico libro per
mezzo del quale
chi non legga
il tedesco può
formarsi tra noi
una pallida ed
incompiuta idea del
no- vellatore svizzero (3).
Il Fasola nel
1907 asse- riva che
da noi «
questo scrittore veramente
grande pare ancora
un Cameade »
; nel 1876
lui vivo, la
signora Emilia Ferretti
nata Viola, (1;
Vedine l'elenco in
Bald., p. 505.
l'2l Voi. I
11902), pp. 292
sgg. Con piccole
varianti, è il
me- desimo articolo ch'era
comparso neWEmporium. voi.
II (1895), pp,
163 sgg. In
quest'ultimo luogo v'è
in più l'illustrazione grafica,
pregevole, alla quale
già rimandai. (3)
La traduzione poco
decente usci anonima
nella Bibìio- teca
della Rivista Minerva
col titolo Enrico
il Verde, romanzo
biografico, Roma, Società
edit. Laziale, 1905.
ALCCSCHÉ DI GOFFREDO
KELLER lo diceva
« nome quasi
ignoto all'Italia »,
e con la
buona intenzione di
farlo conoscere scriveva
su di lui
alcune pagine assai
superficiali ed in
parte false, riassumendo
la novella di
Giulietta e Romeo
Sta il fatto,
peraltro, che il
nostro novelliere non
è tra quelli
scrittori che possano
godere di molta
fortuna all'estero. Le
qualità sue medesime
di el- vetismo
e di umorismo
lo rendono estremamente
difficile per chi
non abbia famigliarità col
suo paese e
con la sua
lingua. Intenderlo e
gustarlo nelle traduzioni
non si potrà,
se anche le
tradu- zioni saranno buòne,
ciò che avviene
rosi di rado
in Italia, quando
si tratta di
prosatori tedeschi. Conosceva
il Keller l'italiano,
come provano le
letture ch'egli faceva
nel XWiSò per
un dramma, disegnato
e non mai
eseguito, sul Savonarola
('). Ma di
influssi della letteratura
nostra su di lui non
v'ha traccia, anzi
appare da qualche
lettera ch'egli non
aveva per gli
italiani soverchia sim-
patia (*). A Ludmilla
Assing, che viveva
a Fi- renze ed
era amica del
Mazzini e di
parecchi al- tri «
italiauissimi », parla
talora di cose
italiane ('i; ma
senza il minimo
interessamento : anzi,
quando quella povera
Assing è travagliata
da sventure (1)
Vedi l'articolo firmato
Emma nella Xuoea
Antologia, Se- rie II,
Voi. 31 (aprile
1876>, pp. 711
sgg. 11 Jv.
s'indignò per quell'articolo, come
appare da una
sua lettera ad
Adolfo Exner. Cfr.
B., Ili, p.
230. (2) B.,
II, p. 26.
(3) Vedi B.,
Ili, p. 207
e anche II,
p. 355. (4)
B., Ili, pp.
55, 66, 94,
ecc. ALCUNCHÉ DI
GOFFREDO KELLER 403
coniugali, ne scrive
ad altri con
grossolano di- sprezzo, uè
per la sua
morte, avvenuta nel
1880 in Firenze,
dopo accessi di
pazzia, trova parola
alcuna di rimpianto
('). Ebbe bensì
l'idea di ve-
nire in Italia: ma
non ne fece
nulla. Gli man-
cava la grande curiosità
del viaggiare. Si
recò solo in
qualche parte della
Germania e dell'Au-
stria; non percorse neppure
compiutamente la sua
Svizzera; non fu
mai nè nell'Engadina
nè nell'alto Bernese,
santuari del solenne
alpinismo: solo a
sessantanni, nel settembre
del 1878, si
decise a salire
sul Rigi! (*)
Spirito chiuso ed
alquanto arido, non
aveva le grandi
espansioni ed i
grandi bisogni comu- nicativi
degli intelletti d'arte
superiori. E sarà
sempre straniero a
coloro che furono
stranieri per lui.
Nota aggiunta. —
Inserito ue.1 Faiifnlla
della domenica del
•20 giugno 1909.
(1) B.. III.
pp. 151, 15tt,
J5SI. (-2) Bald.,
p. 2X1. Arlecchino. Verso
la fine di
febbraio del 1899
corse voce per
Bergamo alta, e ben presto
si diffuse nelle
vie anguste fiancheggiate
da foschi palagi
e tra i
rari viandanti dei
magnifici viali, che
si svol- gono sulle
antiche mure attestanti
veneta muni- ficenza, onde
l'occhio domina panorama
cosi va- riato e
grandioso; corse voce
che nella civica
biblioteca scartabellava libri
da più giorni
un te- desco, con
l'intento di mostrare
che Arlecchino non
era bergamasco d'origine.
Dove mai si
ficca codesta nasutissima
e dottissima teutonica
oltra- cotanza? O
che ne sarebbe
dunque di quel
vec- chio Alberto Ganassa,
rinomatissimo zanni di
Bergamo, che secondo
incontestabili documenti, avrebbe
ideato il variopinto
folletto, poco dopo
il lóTO, rendendolo
famoso in Francia
ed in Spagna?
(l) E che
avverrebbe d'una tradizione
costante, durata per
secoli, nella commedia
del- (1) Il
Baschet, nel suo
noto volume sui
comici italiani in
Francia, dà di
Ini molte notizie.
Vedi anche D'Ascosa,
Ori- gini del teatro
italiano, seconda edizione,
II, segg., e
ora le Voticias
biografica! de Alberto
Ganana, comico famoso
del siglo XVI
di E. Cotaeei.o
y Mori, in
Recista de archimi,
bi- biotecas y
museos. serie III,
an. XII, n.
7-8. Rksher -
Svayhi Critici 30
ARLECCHINO l'arte e
nel pubblico, nelle
scene goldoniane e
nell'umile baracca del
burattinaio? Tanta petu-
lanza non si potea
tollerare. E nelle
stanze del bel
broletto gotico ov'ba
sede la biblioteca,
là su quel
piazzaletto delizioso che
è al culmine
di Bergamo alta, e su
cui guardano le
venerande min a
della chiesa di
S. Maria Maggiore,
ed oc- chieggia il
rinascimento con la
elegante cappella Colleoni,
sfilarono popolani bene
informati, che misero
in opera tutta
la loro pittoresca
eloquenza dialettale, per
distogliere lo studioso
tedesco dal- l'idea pazza
di dare ad
Arlecchino una patria
che Bergamo non
fosse. Fra le
parecchie curio- sità che
gli fecero vedere
una ve ne
fu special- mente gustosa: lo condussero nella
bottega d'un droghiere,
ove gli additarono
dietro il banco,
tutto occupato a
servire i suoi
avventori, l'Ar- lecchino carnevalesco della
Bergamo d'oggi, Giu-
seppe Tironi. Interrogato, egli
espose con grande
semplicità, senza interrompere
le sue faccende,
la propria storia
arlecchinesca: come, cioè,
dal 1874 egli
abbia vestito la
maschera e la
incarni, in fin
di carnevale, non
solo a Bergamo,
ma anche a
Lecco enei carnevalone
a Milano; come
quelle rappresentazioni gli
costino grande fatica
e richiedano agilità
straordinaria, che non
con- segue se non
chi abitui le
membra dalla giovi-
nezza a siffatta ginnastica;
come purtroppo il
pubblico cittadino s'interessi
sempre meno alle
arlecchinate (a quelle
almeno popolaresche, di
cui il Tironi
è ingenuo e
rispettabile rappresen- tante!), sicché si può avere
il malinconico pre-
ARLECCHINO sentimento che
tra qualche anno passerà in
Ber- gamo il carnevale
senza che Arlecchino
riviva. Lei signora
Tironi, non senza
qualche compia- cenza, mostrò
allo straniero il
costume del ma-
rito, ed egli ebbe
la degnazione di
dar qualche saggio
dei suoi lazzi
prendendo in mano
la spa- tola, acconciandosi sulla
testa il cappelluceio
moscio con la
coda di lepre,
e assestandosi sul
volto la maschera
nera, orribile a
vedersi, scim- miesca, col
naso l'incagliato, gli
occhi tondi e
in- fossati, la barba
ispida e scura.
Tale l'Arlecchino Tironi.
E chi dubiterà,
dopo averlo veduto,
che Bergamo sia
la vera ed
unica patria della
ma- schera gaia, mobilissima,
spiritosa talvolta nella
sua infinita sciocchezza?
La investigazione scientifica
non si tien
paga a codeste
prove, in cui
entra per tre
quarti il sentimento,
e dubita e
scruta ormai da
lunghi anni. A
quelle curiosissime apparizioni
che sono le ma- schere della
nostra commedia improvvisa,
onde andarono famose
in tanta parte
d'Europa le com-
pagnie comiche italiaue, si
volse ben presto
l'at- tenzione degli eruditi.
Vi fu un
tempo in cui pre- valse l'idea
che quelle maschere
avessero origini assai
remote, e per
analogie esterne furono
ri- chiamate a certe
figure dei mimi
e delle atellane,
che i Romani
avevano in gran
parte ereditate dai
primitivi popoli italici.
Allora negli zanni
si vollero vedere
gli antichi sanniones,
nel dottore A R LECCHI
NO il vecchio
dossenno, nel pantalone
il pappus, nel
capitano il rnues gloriosus, nel
pulcinella il inac-
cus atellanico, nell' 'arlecchino il
centunculus dei mimi,
dal vestito rappezzato
('). Ma ad
una più at-
tenta considerazione non potè
sfuggire che ben
tenui sono i
rapporti tra le
maschere tradizio- nali e
quelle antichissime figure
comiche di cui
si sa tanto
poco; ed inoltre
si obiettò giusta-
mente che la continuità
di quei tipi
non si può
in modo alcuno
provare, sicché sombrerebbe
che d'un tratto
rispuntassero nella seconda
metà del sec.
XVI, mentre per
secoli e secoli
non se ne
ha veruna memoria.
È ben vero
che delle farse
e commedie popolari
dell'età di mezzo
a noi son
giunti scarsissimi vestigi
e che forse,
bene inda- gando, certe
caratteristiche di personaggi
comici persistono, variamente
atteggiate nello spirito
me- dioevale ('); ma
è altrettanto vero
che gli ar-
gomenti sinora fatti valere
non bastano a
darci fondata convinzione
d'una continuità di
tipi du- rata per
un periodo cosi
lungo. Specie per
quel che riguarda
Pulcinella, rimasero senza
confu- tazione gli argomenti
che tra noi
addusse lo Sche-
rillo in favore
della modernità di
quella ilia- ci) In
Italia fu rappresentante principale
di questa ten-
denza il prof. Vincenzo
De Amicis, di
cui sono conosciute
due pregevoli dissertazioni
sulla nostra antica
commedia, edite nel
1871 e nel
1882, la prima
anzi ristampata nel
1897 con qualche
modificazione ed aggiunta.
(2) Vedasi specialmente
quel che osserva
intorno alla con-
tinuità del miles gloriosus
il Xovati, nel
Giornale xtorir.o della
letteratura italiana, V,
27il segg. Cfr.
pure Gii, Skniciaglia,
Ca- pitan Spavento, Firenze,
1899. ARLECCHINO schera
(*); anzi essi
furono rincalzati da
Bene- detto Croce (2),
allorché il Dietrich
cereo di ravvisare
gli antenati di
Pulcinella nei freschi
pompeiani Se anche,
peraltro, si voglia
ammettere, come 10
inclinerei, che certe
innegabili analogie tra
le nostre maschere
ed i tipi
comici antichi si
spieghino con quella
uniformità fondamentale nelle
manifestazioni dello spirito
umano, che ha
la sua più
eloquente dimostrazione nella
mono- tonia essenziale dei
canti e dei
temi novellistici, sicché
tipi e spedienti
comici analoghi, se
non identici, si
ripresentano sulle piazze
e sulle scene
per un ricorso
spontaneo necessario, non
impli- cante in renimi
guisa imitazione; resta
pur sem- pre curioso
l'investigare in qual
guisa ed in
qual luogo la
comicità tipica delle
maschere siasi venuta
fissando. Ora lo
studioso tedesco, a
cui accennavo nel
principio di quest'artìcolo, 11
dottor Otto Driesen,
è già da
parecchi anni occupato
dall'arduo problema della
primitiva formazione di
Arlecchino, e finalmente
ci ha dato
in proposito un
libro pieno di
molta ed in
gran parte originale
dottrina i4), che
emi- ri) La ronimeilia
dell'arte in Italia,
Torino, IP&l. (2j
In un articolo
pieno di osservazioni
acute ed originali,
che comparve nel
volume XXIII AeW
Archivio storico per
te Provincie napoletane.
(iJj Non credo
che di molto
si possa modificare
la convin- zione degli
eruditi per la
dotta e recentissima
opera di Hkh-
iiAxs Kkich. Der
Mimits, di cui
usci il primo
volume a Berlino
nel 1903. i4i
Der T'rsprung des
Harlekin, Berlin. Duncker,
1904. 470 ARLECCHINO ferma
i risultamene a
cai erano giunti,
quasi divinando, altri
studiosi, come il
Littré nel suo
celebre Dictionnaire ed
il demopsicologo russo
Alessandro Wesselofsky (').
La dimostrazione del
Driesen tende a
farci vedere che
il sollazze- vole servitore balordo,
i cui lazzi
inducevano un tempo
al riso anche
bocche aristocratiche e poi lungamente
formarono la delizia
dei volghi; colui
che divenne famoso
con Tristano Martinelli
in Francia ed
in Spagna, e
poscia, in pieno
sei- cento, ingentilito da
Giuseppe Domenico Bian-
colelli, ebbe l'onore
di godere la
intrinsichezza di re
Luigi XIV, e
nel secolo successivo
in sè riuniva,
per mezzo di
Giov. Antonio Sacchi,
gli elogi di
due grandi rivali,
Carlo Gozzi e
Carlo Goldoni (*),
per finire straviziando,
nel sec XIX,
con Antonio Papadopoli
(s); colui che
ebbe una storia
non lunga, ma
brillantissima, ed accanto
all'astuto suo compaesano
Brighella, contribuì tanto
alla fortuna del
nostro teatro a
soggetto, per essere
ora ridotto al
lumicino, come dicono
le malanconiche confessioni
del bergamasco Ti-
roni, che forse
è l'ultimo ad
impersonarlo in fi)
Di lui sono specialmente notevolissime
in proposito 1p pp. 8144-86'
del Giornale storico
della letteratura italiana,
vo- lume XI, 1888.
(2) Chivoglia specificate
notizie di tutti
questi attori legga
la benemerita opera
di Lumi Rasi,
1 comìrì italiani.
I, 48(1 sgg..
II, 95 sgg.
e 490 sgg.
(3) Circa il
Papadopoli arlecchino vedi
G. Petkai, Lo
spi- rito delle maschere,
Torino-Roma, 1001, pp.
10 sgg- Il
Rasi. Op. cit.,
II, 215, non
accenna punto ch'egli abbia
sostenuto questa parte.
ARLECCHINO -471 carne
ed ossa, mentre
continua a vivere,
umi- lissima testa di
legno, nelle povere
baracche dei burattini
(!); non è
nato in Italia,
ma in Francia,
ed è la
trasformazione di un
diavolo. * *
Diabolico invero è
il suo ceffo
quale lo con-
serva il Tironi, a cui dobbiamo
esser grati pel
prezioso arcaismo della
sua maschera, resa
in- vece tanto più
leggiera e fin
leggiadra dagli Arlecchini
meno popolari di
lui. Il Driesen
rin- venne nell'archivio del
teatro dell'OjBcVrt in
Pa- rigi due altre
antiche maschere di
Arlecchino, che hanno
aspetto ancor più
orrendamente sel- vaggio e
satanico, e le
riproduzioni fotografiche ch'egli
ce ne offre
sono davvero significantissime. Rimontando
indietro nei secoli,
troviamo nar- rata dal
cronista normanno Orderico
Vitale una visione
occorsa nel 1091
al prete Gaucheliu,
il quale vide
una notte «
gentem Ulani fantasticam
quae vulgodieitur/rt»uV/Z/« Re-t'lequini
» . È questa
una Aera processione
di dannati, che
passano tumultuariamente correndo,
in vario modo
tor- mentati a seconda
delle loro colpe,
trasforma- zione d'un'antica saga. germanica che
imaginava schiere d'anime
volanti per l'aria,
guidate da un
(li Dal 1880
circa Arlecchino è
sbandito dai teatri
francesi di marionette
; ma intorno
al 18(30 viveva
ancora ne) teatro
dei Vaudevilles. rappresentato
dall'ultimo arlecchino celebre
francese, il Laporte.
472 ARLECCHINO dio.
Presso le genti
cristiane, la fiera
caccia di- ventò strumento di
dannazione, ed il
dio gui- datore si
trasformò in demonio.
Anche in Italia
vive questa tradizione
delle anime perverse
tra- scinate per l'aria
da demoni; specialmente
vive ili qualche
vallata alpina, ove i fantastici
e talor lugubri
rumori che fa
il vento sibilando
tra le gole de' monti
e rompendosi alle
rupi ed alle
macchie, potè ravvivare
nelle menti ingenue
imaginazioni tetre e
paurose ('). Visse
e vive nella
Francia, particolarmente nordica,
ove la masnada
assunse ben presto
il nome di
rnesnie Hellequin, che
sa di germanico
o, come al
Diez parve, di
fiammingo. Le vicende
francesi di questa
strana masnada segue
con cura speciale
il Driesen (*),
e mostra i
vari sensi che
as- sunse, secondo l'aspetto
da cui la
si considerava. Chrestien
de Troyes, nel
1162, discorrendo delle
abilità di Filomela
nel ricamo, afferma:
Xei's la maisnie
Hellftquin Seiist eie
en un drap
portraire. Il che
si riferisce all'apparenza
multicolore della masnada,
nel qua! senso
ancor oggi si
chiamano (1) Un
riflesso della caccia
selvaggia si può
asservare, nelle tradizioni
medievali, nel castigo
inflitto ai crudeli
in amore, di
cui è cospicuo
rappresentante la novella
boccac- cesca di Nastagio
degli Onesti. Cfr. W. A.
Neilson, The pur-
gatori! of cruel beatities,
in Romania, XXLX,
pp. 85 sgg. Ci)
Del soggetto s'era
già occupato con
vantaggio (ì. Eav-
nai'u in un
articolo inserito nelle
Elude* romana dédù'ti
« Gonion Paria,
Paris, 1891. pp.
51 sgg. ARLECCHINO 473
avleqnim i fuochi
fatui nella Champagne.
Circa il I23f>
II non de Meiy,
nel TournoiemeiU Ante-
crisi, si rammenta
della mesnie Hellequin,
allor- ché vede sopravvenire
monna Civetteria, accom-
pagnata dal suono dei
campanelli, segno che
alla masnada non
era poi sempre
e solo attribuito
un aspetto spaventevole.
Non tarderà molto
a comparire il
primo diavolo buffonesco.
Eccolo infatti nel
bizzarrismo Jeu de
la feuil- ìée
di Adam de
la Halle, rappresentato
ad Ar- ras verso
il 1262, curioso
ed arditissimo dramma,
unico nella letteratura
medievale, che a
ragione fu paragonato
alle produzioni aristofanesche da
un grande conoscitore
della materia (').
Quivi non solo
la masnada si
distingue pel suono
de' suoi campanelli,
quando precede la
venuta delle fate,
ma balza in
scena un hevlequin
(è già av-
venuta la dissimilazione fonetica
da heNequin), che
ha il nome
di .croquesots
(maciullapazzi), e porta
alla fata Morgana
il messaggio del
suo si- gnore, il
re degli herlequitis,
che ne è
invaghito. Croquesots non
è fatto nè
di nebbia nè
di fuoco; esso
è umano, è
giullaresco, è mordace.
E tali perdurano
gli herìequins ed
il re degli
herleqm'ns, malgrado il
loro terribile aspetto,
nel teatro re-
ligioso dell'età media (*);
tale ci si
presenta il (1)
G. Pahis, La
liUérat. franraist au
moi/en age, Paris,
1890, p. 391. (2)
Nella scena dei
misteri francesi l'imboccatura
dell'in- ferno era chiusa
da un telone,
su cui era
dipinta la 3,
libro cbe, malgrado
deficienze ed errori,
era buona promessa,
felice- mente ottenuta, di
cose migliori. J80
ARLECCHINO ivi accorrevano
a frotte, tratti
all'esca dei ta-
cili guadagni. In quella
sua gustosa ed
inesau- ribile Piazza universale
di tutte le
professioni del mondo,
il Garzoni, contemporaneo, ci
descrive codesti montanari
seesi dalle vallate
particolar- mente
bergamasche nella dominante,
grossi al di
fuori, ma talora
sottili al di
dentro, tenaci, anzi
cocciuti, non di
rado maneschi, volentieri
burlati dal popolino
che in quei
laboriosi e ro-
busti giovinotti vedeva, con
mal celata invidia,
concorrenti molesti e
si rifaceva berteggiandoli per
la loro grossolanità,
palese anche nella
parlata dialettale rude
ed esotica. Quella
pai- lata, aggiunge
il Garzoni medesimo,
« i zani
se e l'hanno
usurpata in comedia
per dar trastullo
e « diletto
a tutta la
brigata, essendo ella
di l'azza «
di merlotti nella
pronunzia e in
tutto il rima-
« «ente ».
Xe derivò quella
lingua rustica ber-
gamasca e facchinesca, che
gli zanni parlarono
nella commedia popolare
improvvisa e quindi
anche nella scritta
f1). Nè ciò
solamente. In quell'antica
cariatide della piazzetta
delle erbe oltre
Rialto, che comunemente
si chiamò il
gobbo di Rialto,
ed alla quale
i Veneziani, per
avere essi pure
un Pasquino, affiggevano
satire e ca-
ricature, si volle non
a torto vedere
il tipo pie-
(1) Su questo
e su altri
particolari della formazione
e dello sviluppo
degli zanni vedasi
un libretto coscienzioso
di un mio
caro discepolo, il
dottor D. Merlisi,
Saggio di ricerche
sulla satira contro
il villano, Torino,
1894, pp. 118
sgg. , di cui
il Driesen avrebbe
potuto giovarsi. ARLECCHINO 481
trincato del facchino
bergamasco, in altri
ter- mini la figura
dello sanni (*}.
Lo zanni astuto
e lo sanni
balordo, tipi co-
mici germogliati dalla satira
contro i villani
e di- venuti bergamaschi a
Venezia, ottennero nella
commedia improvvisa una
fortuna stragrande, e si moltiplicarono in
quella innumerevole serie
di figure A-ariamente
grottesche, che ci
è rappre- sentata dal
Callot. Che uno
di questi zanni,
sin- golarmente elastico e
perciò atto alle
più mera- vigliose giravolte e
capriole, sia stato
colpito dal gran
fracasso e dagli
eccentrici ghiribizzi ginnici,
non che dalla
grottesca figura degli
herlequins francesi ed
abbia votuto imitarli
sulla scena, non
deve far meraviglia:
e ancor meno
deve far meraviglia
che quella novità
piacesse agli spet-
tatori e li facesse
smascellare dalle risa.
Gli spet- tatori francesi, che
conoscevano quel vestito,
quella maschera diabolica
e quei salti
ancor più diabolici,
avranno detto :
« ecco harlequin
; an- diamo a
vedere harlequin »
; ed il
nome, strano e
ghiribizzoso ad orecchio
italiano, avrà garbato
anche allo zanni
inventore, che d'allora
in poi, a
consacrazione della sua
trovata, e senza
sospet- tare che il
diavolo ci avesse
messo ancor più
della coda, si
sarà battezzato da
sè medesimo harlequin,
italianamente Arlecchino. Chi
sarà stato quello
zanni1? Alberto tìanassa
od altri? Qui
sta il mistero,
che forse non
si chiarirà mai.
(1) Cfr. A.
ÌIoschetti, lì gobbo
di Rialto e
le sue relazioni
con Pasquino, nella
terza annata del
Nuovo Archivio Veneto.
Reniek - Svaghi
Critici 3J A «LECCHINO Resta
però il fatto,
a parer mio,
che se anche
Arlecchino, coinè tale,
ha origine francese,
molti de' suoi
caratteri distintivi sono
italiani, anzi ber-
gamaschi, e come tali
si svolgono parallelamente a
quello dello zanni
astuto, del servo
procac- ciante, più direttamente
collegato alle ligure
ser- vili dell'antichità, Brighella.
In Francia Arlec-
chino prese il ceffo,
il vestito, il
nome e certe
abitudini sbrigliate di
saltimbanco, ma fondamen-
talmente egli era e
restò sempre uno
sanni-, anzi se
quello zanni primitivo
non fosse stato,
c'è da scommettere
che la fortunata
figura comica non
avrebbe mai calcato
le scene, e
sarebbe soprav- vissuta solo
nelle leggende popolari,
nel gergo teatrale,
nel tenace echeggiare
di qualche pro-
verbio francese, nelle consuetudini,
dalla civiltà illanguidite
e fatte sempre
più rare, di
qualche charivari pazzaiuolo.
Il vanto d'aver
tolto quella figura
dal trivio spetta
all'arte comica italiana,
la quale assimilandosene vari
requisiti esotici, ebbe
pur sempre il
merito di nou
snaturare il tipo
paesano, anzi di
ribadirlo. Sicché lo
zanni- arlecchino, se
senza saperlo fu
tinto dalla pece
del diavolo, visse
sempre onestamente uomo
ed onestamente gonzo,
com'era stato in
origine, prima di
assumere veste e
maschera arlecchi- nesche; e
se diavolo lo
si potè chiamare
perle sue mosse
svelte, per le
sue snodature d'acro-
bata, per la insensibilità
alle percosse, per
l'in- conscia e beffarda
impertinenza, pel ceffo
orrendo prima della
riforma del Biancolelli,
tutti debbono convenire
che in fondo
era un buon
diavolo, degno -ARLECCHINO 483
di godere, anziché
il ghigno procace
delle streghe e
delle male femmine,
il sorriso malizioso
delle sveglie Coralline.
Nota aggiunta. —
Xel Fanfulla della
domenica, '20 marzo
1£K)J. La mia
argomentazione
sulla.italianità della maschera,
da me ribadita
nel Giornale storico,
XL1V, 25tì, fu
appoggiata da B.
Cuoce in La crìtica, II,
388. Dopo di che spiace
il ve- dere che
Ebmksto Caffi, in
un articolo su
La questione d'Ar-
lecchino, che si legge
nella Rassegna nazionale
del lfi sett.
1908. nulla sappia
di ciò, e
ripeta l'ipotesi del
Driesen rispetto al-
l'origine prettamente
francese di Arlecchino.
Per quel che
concerne Pulcinella vedasi
una curiosa comunicazione
di V. F^iselli
nel Giornale storico,
LIV (1009;, 59
sgg. La leggenda
dell' Ebreo errante
nelle sue propaggini
letterarie. I Buttadeo.
V'ha nel lungo
e travaglioso cammino
che il genere
umano percorre una
serie di figure,
mi- tiche o leggendarie,
che sembrano destinate
ad una singolare
specie d'immortalità spirituale,
perchè ogni età
vi ritrova una
parte di sè
me- desima, si che le ravviva
nella sua fantasia
e le chiama
a rappresentare, travestendole
varia- mente, tendenze, bisogni,
dolori, che in
fondo costituiscono quanto
nella natura umana
v'è di immutabile
o di ineluttabile.
Di codeste figure
la più eccelsa
è certamente Prometeo,
il mitico Prometeo
da tanti secoli
rinnovantesi nella rap-
presentazione dello « spirito
umano che fatico-
samente si emancipa dalle
esterne e dalle
interne servitù »
('). Si dispongono
presso a lui
figure mitologiche, bibliche
e leggendarie diverse,
tra (1) Son
parole di Auturo
Graf, che scrisse
già un buon
libretto su Prometeo
nella poeitia, Torino-Roma,
1880. 48 (4).
Ma la più
eloquente storia italiana
di Buttadeo è
nello squisito documento
che Alessandro Gherardi
rinvenne tra le
carte strozziate dell'Archivio
di Stato fiorentino
ed il 11)
D'Ascosa, in Romania,
X, 213-15. (2)
Paris, Légendes, pp.
191-92. (3) Masskra,
1 sonetti di
Cecco Angiolieri, Bologna,
1906, p. 51.
Cfr. p. 139.
(4) Lega, Il
Canzoniere Vaticano Barlierino
lai. 3953, p.
234. Cft. p.
XXXVII. Joan Butladio
è pure chiamato l'ebreo
errante in un
sonetto burlesco pubblicato
anonimo per nozze
nel 1894. Vedi
Giorn. stor., XXIV,
481. Ora si
sa che quel
so- netto è del
Vannozzo. Cfr. Ezio
Levi, Francesco di
Yannozzo e la
lirica nelle corti
lombarde, Firenze, 1908,
p. 359. NELLE
SUE l'KOPAGGIXI LETTERA [£IE Morpurgo
egregiamente pubblicò ed
illustrò. Quel riferimento,
dovuto ad un
Antonio di Francesco
d'Andrea, riguarda le
strabilianti operazioni di
Giovanni Buttadeo, in
parecchie sue comparse
in Toscana nel
secolo XV e
prima. Quel Gio-
vanni sa il futuro,
conosce i segreti
della gente, fa
prodigi, è pratico
in tutte le
lingue ed in
tutte le scienze,
si rende invisibile
quando gli talenta
e chi più
ne ha più
ne metta. A
decine cita l'au-
tore i testimoni delle
sue abilità, nè
sono esseri inventati
o del tutto
oscuri: il medesimo
illu- stratore ne appurò
quasi sempre lo
stato civile; e fra gli
ammiratori di quel
fenomeno d'uomo v'è
anche il dotto
e celebre Lionardo
Bruni d'Arezzo. Interrogato
da Antonio se
egli si chia-
masse Giovanili ButatMo, rispose:
«Vuoisi dire «
Giovanni Batté-Iddio, cioè
Giovanni percosse- «
Iddio. Quando saliva
el monte dove
fu messo «
in croce, e
Ila Madre chon
altre donne chon
« gran pietà
e lamenti e
pianti andaveno drieto,
« allora si
volse per volerle
dire, e fermò
al- « quanto
e piedi, onde
questo Giovanni el
per- « chosse
di dreto nelle
reni, e disse:
Va su tosto;
«e Gesù si
volse a Ilui:
E tu andrai
tanto to- «
sto che tu
m'aspetterai!». Parrebbe che
non si dovesse
ormai esitare nella
spiegazione del nome:
l'ha data l'ebreo
stesso! Ma i
dubbi in- vece sorgono
per l'appunto maggiori
a motivo della
narrazione fiorentina, ove
di solito Gio-
vanni è chiamato Votaddio,
Botaddio, e in un luogo
«Votaddio, altrimenti Giovanni
servo di Dio »
. Ciò
ha fatto pensare
che l'antica inter-
LA LEGGENDA DELL'EBREO
ERRANTE prelazione, a
cui già vedemmo
consentire e il
Bonatti ed il Tizio («impulerat
Deum»), ed a cui s'uniforma
il villico siciliano
( « pirchi
arri- buttau a
Gesù Cristu»), non
sia che una
falsa etimologia popolare,
e che invece
abbia ragione la
egregia fra le
cultrici odierne di
studi romanzi, Carolina
Michaelis de Vasconcellos,
la quale no- tando
che il
nome consueto dato
all'errante in Ispagna
è Juan espera
en Dios (una
volta anche Juan
devoto a Dios)
e in Portogallo
Joào espera em
Deus, pensò per
prima che il
nome signifi- casse devoto
a Dio, votato
a Dio (').
Congettura- che diede
assai da pensare
al Paris, il
quale la discusse
(*), arrecandovi una
nuova attestazione preziosa,
quella d'un Liber
terre sancte Jericsa-
lem del sec.
XIV, ove colui
che « impulit
Chrij c stum
Dominum.... corrupto nomine
dicitur Jo- *
hannos Buttadeus, sano
vocubulo appellami' *
Joannes devotus Deo
». Preziossima indicazione
senza dubbio, che
ci richiama novamente
alla Terra Santa
e di bel
nuovo ci mostra
bizzarra- mente commista nella
memoria dei volghi
la profezia di
lougevità premiante il
discepolo eletto e
la punizione dell'offensore brutale,
del Butta- deo,
che non per
nulla s'ebbe in
sè rinnovato il
nome appunto di Giovanni. Ma
del resto l'attraente,
ma arduo e
forse inso- lubile, problema delle
origini non deve
distrarci (1) Si- consulti
il succoso articoletto
della Michaelis. 0
judeu errante em
Portugal, nella Revista
Lusitana, an. I
(1887), pp. ai
sgg. (2) Leijeiidfs,
pp. 195 sgg.
NELLE SUE PROPAGGINI
LETTERARIE 497 dallo
scopo nostro. Buttadeo,
Giovanni Buttadeo, è
il pellegrino che
l'Italia conosce già
nel du- gento.
Il suo peccato
è d'aver crudelmente
ne- gato un po' di riposo
al figliuolo di
Dio, che sotto
il carico immane
della croce batteva
]a via do-
lorosa del Calvario. Variano
le versioni nelle
modalità: chi (ed
è forse ricordo
di Malco e Car- tafilo)
pretende che l'inumano
colpisse la sacra
persona del Redentore
per spingerlo innanzi,
chi crede lo
stimolasse semplicemente con la voce
a procedere, chi
ritiene gli contendesse
di ap- poggiarsi alquanto alla
sua casa o
di adagiare un
istante su d'una
panca (mnchiteddu, dice
un testo siciliano)
le povere membra
affrante. La punizione
profferita dal Salvatore
suona non dissimile
da quella presagita
a Malco: solo
Malco deve, attendere
in un luogo
determinato, Butta- deo deve
attendere camminando sempre,
come volle che
l'Uomo-Dio camminasse. Vario
è pure quel
peregrinare, da provincia
a provincia, eia
città a città,
da paese a
paese, con sosta
o senza sosta
prestabilita. Anche qui
è l'Italia che
ci dà la
prima determinata indicazione,
conforme alle narrazioni
che verranno poi.
Nel racconto di
An- tonio Francesco d'Andrea,
Giovanni Buttadeo «non
può stare più
che tre di
per provincia »,
cammina scalzo, non
ha tasca, mangia
e beve dove
gli capita «
e mai non
vedi donde e'
si ven- gha
e denari, e
mai non gniene
avanza » . SI
preparano i famosi
cinque soldi, nè
uno più nè
uno meno, perpetuamente
rinnovantisi, che per
i suoi bisogni
ha sempre a
mano Asvero. Rknier
— Scaghi Critici
32 LA LEGGENDA
DELL'KHKEO ERRANTE *
Asvero è la
terza incarnazione di
Buttadeo, che prima
era stato Maleo-Oartafilo. Asvero
è l'errante su
cui si schiuse,
nelle sue cento
forme, la fantasia
trasformati- ice degli artisti.
Le paure del
finimondo, riprodueentisi ad
ogni spirare di
secolo, provocarono la
comparsa di un
libretto tedesco, che
uscì per la
prima volta, con
la falsa data
di Leida, nel
1602. Ivi si
nar- rava che nel
1542 Paulo di
Eitzen, venuto da
Vittemberga, ove studiava,
ad Amburgo, vide
colà in una
chiesa, intento alla
predica, un uomo
di c i nq uà n fauni circa,
il cui sembiante
ed i cui
atti erano strani.
Alto della persona,
i capelli spioventi
sugli omeri, vestiva
poveramente, con un
lungo mantello, che
gli scendeva sino
a' piedi, e
questi avea nudi,
malgrado i rigori
del verno, Ascoltava
compunto il sermone,
ed ogni volta
che Cristo venia
nominato, si picchiava
il petto e
sospirava. Interrogato, rispose
con semplicità e
modestia ch'egli era
ebreo di nascita
e cal- zolaio di
mestiere, e che
essendo vissuto in
Ge- rusalemme quando Cristo
vi sofferse passione,
era stato testimonio
oculare di quei
grandi fatti. A
nuove domande soggiunse
che reputando egli
Gesù un seduttore
del popolo lo
trattò duramente allorché
egli passò, gravato
dalla croce, innanzi
alla sua dimora.
Per riposarsi alquanto,
s'era il Redentore
appoggiato alla casa
dell'ebreo, ma questi,
pieno di maltalento
e bramoso di
farsi un merito
presso i suoi
correligionàri, gli im-
XELl.K SUE PROPAGHIVI
LETTEIÌAKIK 4!)'.l poso
di camminare innanzi.
A tale intimazione
Gesù replicò, guardandolo
fisso in viso:
«Io mi «fermerò
e mi riposerò,
ma tu camminerai
fino «al giudizio
universale». Da allora
in poi tu
sempre in moto.
Assistè sul Golgota
alla tragica crocifissione, ma
non gli fu
concesso di tornare
in Gerusalemme, se non per
vederla distrutta. Gira
continuamente sulla superficie
del globo, tranquillo,
severo, anzi melanconico,
di scarse parole.
Invitato a desinare,
si nutre sobriamente;
se gli si
offre del denaro,
lo accetta per
distri- buirlo ai poverelli.
Per sè non
ha bisogno di
nulla, perchè Dio
provvede ai suoi
bisogni. In tutti
i paesi ove
arriva, parla correntemente
il linguag- gio del
luogo. Tollera pazientemente
la punizione inflittagli,
perchè è pentito
del suo peccato
e spera il
perdono. — Chi
sia l'autore dello
strano libretto s'ignora,
perchè la prima
edizione è ano-
nima. In una successiva,
ove l'incontro di
Paolo col giudeo
è posto nel
1547, se ne
dà per autore
un Crisostomo Duduleo
di Vestfalia, pseudonimo
di cui sinora
non s'è potuto
scoprire il segreto.
Il libretto ebbe
in Germania straordinaria
for- tuna: nelle -elaborazioni
successive la durezza
dell'ebreo verso il
Messia è variamente
rappre- sentata e giunge
persino all'efferatezza di
farlo percuotere con
una forma- di
scarpa. La puni-
zione è sempre la
stessa: il nome
è sempre Asve-
ro, e solo
nella menzionata opera
di Andrea Li- ba
vio fa
capolino il più
antico Buttadeo (').
(li Rarissime sono
le edizioni antiche,
sicché solamente in
tempi recenti si
è venuti a
chiarezza rispetto alla
loro ÓOO LA
LEGGUNDA DELL'EBREO ERRANTE
È generalmente ammesso
che nel libretto
ori- ginario tedesco, insignificante come
opera lette- raria, ma
notevolissimo come prima
narrazione seguita (se
si faccia eccezione
per la relazione
fiorentina rimasta inedita
e perciò inefficace)
delle condizioni e
vicende dell'ebreo, si ha a
vedere con tutta
probabilità la mano
di un prete
pro- testante. Lo stesso
nome di Asvero,
che ebbe tanta
fortuna, ne è
indizio. Asvero è
il nome che
hanno varii re
persiani dell'antico Testa-
mento; specialmente noto è
il personaggio che
cosi si chiama
nel Libro cVEsler
('). Nei paesi
protestanti l'apparizione dell'ebreo,
ripetutasi più volte
nel secolo XVII,
divenne oggetto di
dispute teologiche, mentre
nei paesi cattolici
se ne im-
possessò in mille guise
la fantasia. Non
è ragio- nevole il
credere che il
misterioso personaggio veduto
nel secolo XVI
e nel XVII
a Madrid, a
Danziea, a Vienna,
a Lubecca, a
Mosca, a Cra-
covia, a Bruxelles, a
Lipsia, in Inghilterra;
che ancora nel
secolo XIX meravigliò
di sè i
tran- quilli abitatori della
Sassonia e di
altre terre tedesche;
che a Berna
lasciò il bastone
e le scarpe,
le scarpe massicce
e rattoppate del
grande cam- bil)]iografia. Aucora
il Paris, nel
suo primo articolo,
aveva in proposito
molte incertezze (cfr.
Lcgendes, pp. 162
sgrg). Fu il
Neubaur, negli scritti
da me indicati,
che ne diede
la no- tizia più
sicura ed esatta.
Ad esso rimando
siccome a fonte
eccellente. (1) Aliasceros
è denominato nella
Bibbia di Lutero.
Vedi Eira, IV,
li; Daniele, IX,
1; Ester, I, 1 e
passim. Di là
la forma del
nome, che nella
vulgata suona Assiierii*.
SELLE SUE PROPAGGINI
LETTERARIE 501 minatore
('); che nel
1868 si lasciò
vedere persino in
America (!); che
in Italia, a
memoria di uomo
vivo, incutè paurosa
venerazione ai buoni
conta- dini del Veneto,
della Sicilia, del
Canavese; che tornato
dopo mille anni
sul posto alpestre
ove aveva già
veduto fiorire una
città, vi trovò
invece giganteggiare immane
ii Cervino, sicché
dalle lagrime che
quella trasformazione gli
spremette dal ciglio
riarso si formò
il Lago Nero
(3): non è
ragionevole, ripeto, il
credere che alle
molte- plici apparizioni e
trasformazioni di questo
per- sonaggio non abbiano
contribuito abili ciurma-
dori e nevropatici vagabondi.
Difficile il preci-
sarlo oggi, in tanto
succedersi di fenomeni
in cui le
forze della psiche
si palesano oscuramente,
ove termini in
siffatti trucchi la
malattia e dove
cominci la frode;
diffìcile lo sceverare
la verità dalla
menzogna, giacché ormai
siamo tutti d'ac-
cordo nel riconoscere che
non tutto l'inverosi-
mile è bugiardo. Ma
comunque sia di
ciò, i casi
come quelli di
Giovanni Bottaddio, di
cui riferisce Antonio
di Francesco d'Andrea
nel secolo XV,
non pos- (1)
Di solito l'ebreo
cammina scalzo, come
quando apparve nella
chiesa d'Amburgo, e
in questo caso
narra la leggenda
che pel lungo
peregrinare gli si
sono incallite le
piante dei piedi
in modo da
sembrare ferrate. (2)
Vedi Nblhaur, Die
Sage cit., p.
45. (3) La
bellissima tradizione è
riferita da Mahia
Savi-Loi-kz nelle Leggente
delle Alpi, Torino
1889, pp. 165-7.
Un garbato libretto
che si legge
con piacere per
la vivace rappresenta-
zione dell'instancabile
israelita nelle sue
varie fasi, è
quello di Cohbado
Rieri, L'ebreo errante,
Roma, Voghera, 1899.
LV LEGGENDA DELL' EHHEO
KKKAXTE sono essere
invenzione pura: riè
mera invenzione saranno
stati la più parte dogli
ebrei eirauii, di cui narratori
degni di fede
seppero riferire in
diversi paesi. La
tradizione popolare si
meseolò alla realtà;
cervelli esaltati visi
compiacquero truccandosi da
Asvero, abili impostori
sfrutta- rono la credenza
volgare per loro
intenti loschi. Ma,
sostanzialmente, su questa
gran diffusione popolare
della leggenda influì
in ispeeie il
libric- cino tedesco
tradotto, ridotto, rifatto,
versificato in tutti
modi, cincischiato e
trasformato nelle varie
parti di Europa.
La prima diffusione
del libretto tedesco
fu in Francia
e nei Paesi
Bassi. Il Discvurs
véri tabi e
d'un juif erratili,
edito nel 1009,
ne è tradii
zione letterale; se
ne scosta invece,
sebbene Paolo d'Eitzen
vi sia nominato,
la Hislnire ad
mi rubi» da
juif errami, uscita
essa pure nella
metà del secolo
XVII e larghissimamente diffusa.
Accanto a questi
due testi, si
hanno, in Francia,
nel Bel- gio ed
in Olanda, numerose
varianti d'indole popolareggiante, che
qui sarebbe inopportuno
l'enumerare paratamente f1).
In Inghilterra la
figura dell'errante viene
usata a scopo
satirico nel libro
The iccmdering jew
telìing fortune* to
Englishmeu, uscito nel
1640. In Danimarca
il l'acconto tedesco
fu tradotto nel
1621 e s'ebbe
fortuna; non diversamente
accadde in Svezia
nel (1,1 Rimando
per esse e
per tuttociò che
concerne la ior-
tuna dell'ebreo nella
letteratura popolare d'Europa
alla pi fi
volte menzionata e
fondamentale operetta del
Xeubaur. N'EIjLE SDK
PROPAGGINI LETTERARIE 1643.
Non molto si
conosce circa la
diffusione della storia
nei paesi slavi
i/j; in quelli
di razza latina,
ove già prima
serpeggiavano nel popolo
le tradizioni su
Malco e su
Buttadeo, fu cono-
sciuto Asvero per mediazione
francese. Si parlò
anche, dovunque, agli
occhi del popolo;
e nelle rozze
silografie fu rappresentato
l'ebreo dalla barba
prolissa, in abito
di pellegrino, camminante
perpetuamente col suo
grosso bastone e
avente spesso alla
cintola la piccola
tasca coi famosi
cinque soldi che
si rinnovano (*).
Il soggetto, per
altro, non inspirò,
nelle arti grafiche,
capolavori: i disegni
del fantasioso artista
francese Gustavo Dorè,
comparsi nel 18ó6,
si perdono negli
acces- sorii di
sfondo tratteggiati con
singolare bravura, e
dimenticano quasi il
miserello protagonista; nel
grande dipinto di
quel simbolista scenografo
che fu il
Kaulbach, rappresentante la
distruzione di Gerusalemme,
l'ebreo non ha
che una parte
secondaria, diremo cosi,
episodica; egli fugge
dall'incendio struggitore della
città maledetta scacciato
dalle Furie. Vedremo
ora quale sia
stato il destino
della leggenda asveriana
nei regni multiformi
della poesia. (1)
Un lavoro russo
del \Vesselofsky. uscito
nel 1880 in
occasione della prima
memoria del Paris,
non fui in
grado di leggere.
Xella Romania, X,
212 il Paris
medesimo promet- teva di
dar conto di
ciò che gli
era stato riferito
intorno alla fortuna
dell'ebreo in Russia,
ma non ne
fece poi nulla.
(2) Nel citato
libro del Ciiami'flel'RY, Histoire
de l'ima- gerie
populaire, sono riprodotti
parecchi di quei
grossolani disegni, tanto
accetti al popolino.
LA LEGGENDA DELL'EBREO
ERRANTE li Asvero.
Col nome biblico
di Asvero, reso
famigliare dai libretti
popolareggianti del secolo
XVII, l'ebreo er-
rante entrò nella letteratura
ed ottenne singoiar
fortuna segnatamente in
Germania. Pochi autori
lo chiamarono diversamente:
Ales- sandro Dumas padre,
nei due volumi
(1853) del suo
Isaac Laquedam, dà
all'ebreo questo nome,
appoggiandosi alla aompkiinte
francese, scritta nel
Belgio da persona
che aveva qualche
tintura di ebraico
('); l'opericciuola satirica
inglese del 1640
gli foggia un
nome semitico a
cui non è
estranea la beffa;
il barone tedesco
di Malti tz lo
chiama Gelasio; il
reverendo ministro inglese
Giorgio Croly Salatine!;
Adolfo Wilbrandt lo
tra- sforma in Apelle
nella filosofica concezione
del suo Mei
ale r voti
Pnlmyra, e non
occorre fer- marci sullo
strano poema di
Roberto Buchanan, The
-wandering jew (1893),
in cui l'ebreo
è Cri- sto stesso, che
fa la figura
d'una specie di
salva- tore fallito. In
genere, però, è
Asvero che ci
ri- compare d'innanzi, nei
più svariati, e
spesso biz- zarri, camuffamenti. Dei
quali non è
davvero (1) Vedi
Paris, Légeniies dn
moi/en-ót/e, p. 177,
e Xeubaith, Die
Sage coni ewigen
Jtiden, pp. 39
e 123. Nella
leggenda poetica italiana
stampata ad uso
del popolo da
chi segui passo
passo la complainte,
l'ebreo è detto
Ixacco Liquerleinme. D'Ancona,
in Nuova Antologia,
LUI, 42t>. XELLE
SUE PROPAGGINI LETTERARIE
50;') nelle biblioteche
italiane, cosi povere
tutte di li-
bri d'arte stranieri, che
si possano aver
notizie dirette e
compiute: ma per
buona sorte abbiamo
studi recentissimi, che ci aiutano
almeno a co-
noscerli in via indiretta.
Alla ormai vecchia,
ma pur benemerita,
memoria di Federico
Helbig si sono
venuti ad aggiungere
in questi ultimi
anni i coscienziosi
volumi di Giovanni
Prost (*), di
Alberto Soergel (3),
di Teodoro Kappstein
(*), sui quali
si può senza
imprudenza appoggiarsi. Di
essi feci tesoro
nei moltissimi casi
in cui non
mi fu dato
d'aver fra mano
i testi. Allo
scopo mio di
rapido riassunto delle
principali tendenze di
pensiero, prevalenti nelle
elaborazioni asve- riane,
anche la notizia
indiretta riusciva suffi-
ciente. Tenni d'occhio in
particola!- guisa la
Ger- mania, ove la
straordinaria fioritura di
composi- zioni d'arte e di filosofia
su questo argomento
è spiegata non
solo dallo spirito
di quel paese,
tratto di natura
sua alla speculazione
ed al simbolismo,
ma dall'esservi stato
larghissimamente diffuso il
libretto popolare, come
vedemmo, tedesco d'ori-
gine, intonato alla tedesca,
fruttificante nel suolo
tedesco. Tanto il
Goethe, quanto il
Mosen eb- bero la
prima spinta a
poetare d'Asvero da
ciò che in
gioventù udirono a riferire di
lui nei luo-
(1) Die Sage
vom eiciyeH Juden,
ihre poetische W'andlung
nnd Forlhildung, Berlin,
1874. (2) Die
Sage vom cwiyen
Juden in der
venerai deutsrhen Lit-
teratur, Leipzig, 1905.
\3) Ahasverdirhtuntjen seti
Ooet/ie, Leipzig, 1(105.
(4; Ahascer in
der Wellpoene. Berlin,
1900. 50(ì LA
LKGOENDA DELL'EBREO ERRANTE
gin natii Nella
sola Germania il
Prost conta 69
elaborazioni artistiche della
leggenda del- l'ebreo ed
il novero è
molto accresciuto dal
Soer- gel, la
cui bibliografia, la più ricca
che sinora si
abbia conta (non
trascurando i libretti
po- polari) 210 numeri.
* * *
Presso le persone
illuminate la fede nella realtà
dell'ebreo errante, inconcussa
nell'evo medio, andò
illanguidendo dal sec.
XV in poi,
e tutti sanno
che dalla miscredenza
al ridicolo il
passo è breve.
Già nella prima
metà del Seicento,
quando era in
piena voga il
racconto tedesco, compariva
il disgraziato ebreo
in un balletto
cortigiano fran- cese del
16:58 a cantarvi
certa sua incompren-
sibile filastrocca, farcita di
termini esotici, in
parte pseudo-ebraici. Nel
1669 egli fa
una figura tra
seria e faceta
nella commedia spagnuola
di Antonio de
Huerta, Las ciuco
btaneux de Juan
de Esperà en
Dios. Nel sec.
XVIII. in cui
ma- turò il razionalismo,
tutta la gente
colta stimava favola
la credenza nel
longevo peregrinante, sic-
(1) Ctr. Nkpbaib,
pp. 28 e
116. (2) Aggiunte
bibliografiche, di non
granile entità, fece
Max KocHj in
una sua recensione
degli Sludien zht
ceri/leicfi.
Literoturi/fir/iirìile, VI (lfKXi),
p. 389. Il
lavoro del Soergel
è il più
ricco e meglio
organato : quello
del Prost, tuttavia,
riesce più agevole
e chiaro per
la disposizione cronologica
della materia. Il
Kappstein, che non
vuole « katalogisiereu ma
« anregen »,
si trattiene solamente
sulle opere che
a lui sembrano
più significative. NELLE
SCE PROPAGGINI LETTERARIE
507 clìè si
facea strada la
satira, destinata ad
infil- trarsi fin nei
concepimenti del Goethe
e dello Schubart,
o dilagava la
beffa in componimenti
burleschi come la
mascherata inglese del
1797 di Andrew
Franklin. Fu per
altro solo il
sec. XIX che
atteggiò la figura
dell'ebreo a seconda
della multiforme energia
che si addensava
nell'anima propria, a
seconda degli indirizzi
vari di pensiero
che turbinavano nella
sua mente di
secolo rin- novatore. In
codeste svariate configurazioni ebbe
parte preponderante il
romanticismo. Sotto l'im-
pero eli quella nuova
tendenza lugubre e
senti- mentale, la figura
leggendaria si umanizzò:
nar- razioni episodiche o
componimenti lirici espres-
sero il suo dolore
di non poter
morire. In seguito
personificò il popolo
ebreo reietto e
profugo, quindi la
personificazione s'allargò, e
da un po-
polo solo venne a
significare l'intero genere
umano, nel travaglio
e nella lotto
del suo con-
tinuo divenire. Lo spirito
filosofico se ne
impa- dronì, e per alcuni l'ebreo
rappresentò le idee
politiche liberali, le
idee religiose più
larghe e tolleranti,
finalmente la ribellione
a tutte le
con- fessioni positive; per
altri, ortodossi, fu un val-
letto dell'anticristo, una figum
diabolica. In con-
clusione, a quella larva
indeterminata d'uomo eccezionale,
che lasciava libero
il campo alla
fantasia, ognuno foggiò
quella individualità che
più gli garbava,
introducendovi parte di
sè e delle
idee od aspirazioni
proprie. Ritrarre sotto
brevità i principali
aspetti di siffatte
incarnazioni diverse, è
lo scopo della
disamina che segue.
Ó08 LA LEGGENDA
DELL'EBREO ERRANTE •
« I primi
tentativi d'una figurazione
letteraria di Asvero
si debbono al
Goethe (1 774= i
ed allo Scbubart
(1783). Nelle memorie
(Dichtung und Wahrheit)
il Goethe espose
il piano dell'opera,
che poi modificò
durante il viaggio
in Italia; ma
i frammenti, che
ci pervennero postumi,
del suo componimento,
mal si accordano
col primo dise-
gno e danno la
persuasione che quel
tema poco gli
convenisse e si
prestasse solo a
qualcuno di quei
tentativi di poema
drammatico simbolico che
dovevano aprirgli la
via al Faust.
Sul canevaccio del
vecchio israelita voleva
il Goethe ricamare
le sue convinzioni
politico-religiose; per lui
As- vero era l'uomo
comune, senza idealità,
dato alla vita
materiale, nemico d'ogni
innovazione; lo spettatore
ironico, come fu
detto, delle mi-
serie umane. Pensandoci su,
in appresso, gli
pa- reva scorgervi l'occhio
aperto della storia
uni- versale; ma il
concetto non si
determino altri- menti. E
neppure il pensiero
dello Schubart, na-
tura focosa ed indisciplinata quanto
altra mai, venne
a maturanza. La
rapsodia rimastaci di
lui, umile frammento
di maggior lavoro,
ci presenta l'ebreo
nell'umana disperazione di non poter
mo- rire. Tutto egli
esperimento per procurarsi
la morte. Si
fece calpestare dagli
elefanti, sfidò gli
artigli della tigre
e le fauci
del leone, provò
i morsi velenosi
del serpente, si
cacciò nelle città
incendiate e rumanti,
si gettò nel
cratere del- NELLE
SUE PROPAGGINI LETTERARIE
l'Etna, ma nulla
valse a togliergli
il peso della
vita. Dopo circa
duemila anni di
peregrinazioni angosciose lo
vediamo sul Carmelo,
che getta via
da sè con
terribile cinismo i
crani ammontic- chiati dei
suoi congiunti e
discendenti ('). Senza
questa particolarità macabra,
troviamo qualche altra
volta raffigurata anche
di poi in
Asvero la gran
miseria del non
poter morire; ma
più spesso da
questo concetto dell'individuo non
mor- tale si assurge
alla personificazione del
genere umano perpetuamente
affaticato ed errante,
al « vecchierel
bianco, infermo, mezzo
vestito e scalzo
» , che Con
gravissimo fascio sulle
spalli-, Por montagna
e por valle,
Por sassi acuti,
ed alta rena,
e fratte, Al
vento, alla tempesta,
e quando avvampa
L'ora, e quando
poi gela, Corre
via, corre, anela,
Varca torrenti e
stagni, Cade, risorge,
e più e
più s'affretta Senza
posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso, infin
ch'arriva Colà dove
la via E
dove il tanto
affaticar fu volto;
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei, precipitando, il
tutto oblia. Questa
allegoria della vita
umana, che all'in-
fuori da ogui
rapporto con l'ebreo
errante tro- (1)
Il CiiasipfleCkv, Hìsltiire
de Vimagerie populaire,
p. 42, riproduce
facsimilata nna ÌDcisione
tedesca moderna, che
rappresenta per l'appunto
Asvero in quell'atteggiamento di-
sperato. 510 LA
LEGGENDA DELL'EBREO ERRANTE
villino accennata dal
nostro Leopardi (M,
costi- tuisce l'intima essenza
della maggior parte
delle creazioni poetiche
as vedane, sia che esse inia-
ginino l'ebreo pentito
e volto al
bene mediante la
gran luce del
cristianesimo piovuta su
di lui, sia
che lo rappresentino
pertinace nell'empietà e
disperato insidiatore d'ogni
felicità dei mortali.
Così in Halle
und Jertisalem dell' Amim
1 18091, l'ebreo si
dà ad ogni
specie di opere
buone, e, fatto
cristiano, spira placidamente
presso il santo
sepolcro; cosi nella
novella di Franz
Ilorn (,181(1', che
inspirò le due
prime tragedie sul
soggetto, quelle di A. Klingeman
1 1825) e di
W. Iknrrienl (1831),
l'ebreo diventa maestro
della vera vita,
che è quella
dell'anima, di contro
alle a tratta-
tive della falsa vita,
che è queliti
del corpo: cosi
nella maggiori1 elaborazione
russa ilei soggetto,
il poema del
.lonkoffsky rl852.', assistiamo
al tra- vaglio psicologico di
un uomo che
lentamente, in mezzo
alle tempeste della
vita, muta animo
e si converte;
cosi nell'altro poema,
in un certo
senso parallelo, di
Edoardo (Irenici-, La
inori du juif
erranl (1854), il
peccatore si converte
per una visione
e muore confortato
da Cristo; cosi
nel grandioso concepimento
del danese Pa-
ludati Moller 1 1853), ove
è ritratto Asvero
quale simbolo della
umanità pessimista, nell'estremo
conflitto della fine
del mondo; così
nell'ultima produzione asveriana
di alto stile,
il dramma di
il) Il felice
avvicinamento del Pastore
errante leopardiano si
deve al D'Ascosa,
nel cit. articolo
della Xuova Antologia.
NELLE SUE PROPAGGINI
LETTEKAKIK 511 Giovanna
e Gustavo Wolff
i1899i, ove Asvero
prosegue in certo
modo il destino
di Fausto, e
in compagnia di
una certa Asvera,
che si chiama
Atta, di fronte
all'ideale cristiano che
addita il cielo,
mostra il progressivo
perfezionamento umano in
questa vita col
mezzo della comu-
nione dei due sessi.
E questo unii
specie di inno
alla vita terrena,
in cui la
lirica predomina. Ma
la lirica, di
solito, fa assumere
ad Asvero altra
tendenza; è il
Weltschmei'c che tutto
lo com- penetra: i
melanconici figliuoli del
secolo scet- tico e
sconfortato con la
maschera del perpetua-
mente errante davano sfogo
al loro prepotente
desiderio di pace.
Il Song for
the wamlei-ing jew
del Wordsworth i
I8OO1 inspirò probabilmente
la romanza di
Guglielmo Mailer (1822),
che è tutta
affanno per il
gran peso dell'esistenza. Lo
sforzo del Seidl
(1826) di combattere
coi suoi due
Asveri posti di
fronte la malattia
ro- mantica del secolo
non valse. Imitando
in qual- che parte
la diffusa poesia
su Le juif
errant del Béranger
(1831), l'elegante Chamisso,
in pa- recchie sue
liriche, rappresentò in
Asvero il pro-
prio amore non corrisposto
ed i tormenti1
della propria nostalgia.
E tutto il
suo tetro pessimismo
prestò ad Asvero
il Lenau in
quello dei suoi
Hei- debilder (1833)
in cui il
vecchio indistruttibile abbraccia
il cadavere del
giovinetto pastore ed
esce in un
inno alla morte
liberatrice, che finisce
con la strana
efficacia di questi
versi sublimi: Las.s
dich limarmeli, Tod,
in dieser Laiche.
Balsamiseh rieselt ihre
frische Kiihle Durch
mein Gebein, durch
meines Hirnes Schwiihle.
512 LA LEGGENDA
DELL'EKHEi) ERRANTE Assai
meno potente hi poesia Der
eiKuge Jn.de del
1839, ma 'nell'ini
Luogo e nell'altro
l'ebreo non è
che un prestanome
di Niccolò Lenau.
* Sinora abbiamo
veduto specialmente l'efficacia
che ebbe sugli
spiriti dei poeti
uno degli ele-
menti della nostra figura
leggendaria, la per-
petuità errante. Ma allato
a questo v'è
pur un altro
elemento non meno
osservabile, quello che
è dato dalla
realtà oggettiva che
codesto errante tante
volte secolare dovè
conoscere de visi'.
Asvero entra nella
storia, come spettatore
gla- ciale, come genio
filosoficamente benefico, come
personificazione d'idee o
tendenze, come simbolo
di ribellione. Il
primo a dare
esempio di questa
maniera di far
funzionare l'errante fu,
già nel 1791,
W. F. Heller,
coi suoi Briefe
rie» eirigen Judeii,
che sono una
scorsa sintetica alle
vicende del mondo
obiettivamente osservate dall'ebreo
longevo. Nel 1832,
J. v. Zedlitz
imagina Asvero sempre
vi- gile nella tomba
e come in
sogno gli fa
passare dinanzi i
maggiori avvenimenti storici,
con lo scopo
specioso di flagellare
Napoleone, rappre- sentato come
un nuovo Attila.
Due episodi sto-
rici sono pur quelli
che ci mette
innanzi lo Schenk
in due frammenti
epico-lirici sull'ebreo, che
videro la luce
nel 1834 e
nel 1836: due
anni appresso F. F. Franke
con lo pseudonimo
di Ferd. Hauthal
imaginò una Asceviade,
che do- NELLE
SUE FRnl'AGGIXI LETTERARIE
vea percorrere la
storia universale rilevandovi
le principali lotte
religiose. Ne abbiamo
solo il principio,
farraginoso e pesante.
Assai più sem-
brerebbe che si dovesse
aspettarsi dal grande
novellatore danese Cristiano
Andersen, il quale
nel suo Ahasverus
(1844 e 1847.)
imaginò il fan-
tastico pellegrino come lo
spirito del dubbio
e della negazione,
a convincere il
quale della gran-
dezza di Dio è
necessario ch'egli assiste
allo svol- gersi della
storia umana. Questa
impostatura non era
davvero cattiva; ma
l'opera poetica riusci
poco chiara e
poco grandiosa, perchè
cosi vo- leva il
temperamento dell'artiste, chiamato
ad altro. Tuttavia
quel concepimento trovò
in Germa- nia imitazione neìì'Ahasrer
di Seligmann Hel-
ler (1866), esteso poema
filosofico in terzine,
poco noto anche
fra i tedeschi.
Qui Asvero non
è al- tro che
un'idea: una personificazione astratta
dell"uman genere. Gli si svolge
dinanzi la storia,
dal giudaesimo all'umanitarismo, attraverso
il cristianesimo. Uomo,
invece, in tutta
l'estensione del termine,
che vive nelle
amarezze e nei
do- lori de' suoi
sciagurati nepoti e
assaggia cosi tre
capitali periodi storici,
è 1 "Asvero
di M. Haus-
hofer '1886), intorno
a cui il
suo ajwtore consumò
la vite e
che qualche critico
paragonò alla Com-
media dantesca. Unità non
vi è; sono
tre drammi accostati,
ma la loro
potenza poetica è
grande. Ben misere
cose sono, al
confronto, le peregri-
nazioni a traverso alla
storia del personaggio
imaginario, largamente concepite
e solo in
parte Rbn-ieb —
Svaghi Critici 33
511 LA L.KUGKXIM
DELL'EUBKO EKKAXTE eseguite
nell'opera prosaica dal
primo Alessan- dro Dumas
(1853i. Categoria a
parte di componimenti
è quella in
cui Asvero ha
spirito deciso di
ribellione, an- che se
non arrivò ad
assumere aspetto diabolico
come nel romanzo
di Levili SchQcking,
Der lia- aevnfùrst
(1851). La simpatia
per la ribellione
è frutto rivoluzionario del
romanticismo ed ebbe
interpreti in tutti
i paesi d'Europa,
segnatamente, nel nord,
il Byron e
lo Shelley, nel
sud il Car-
ducci ed il Rapisardi.
Giulio Mosen, nel
suo poema epico
Ahmrer (1838), imaginò
l'ebreo uomo, in
vari periodi della
storia, lottante, nella
sua disperazione di
padre orbato più
volte dei figli,
contro l'inesorabile e
crudele Iddio. È
questa la pugna
quotidiana, tenace, inevitabile,
feroce dell'umano contro
il divino, rappresentata
talora con tocchi
di grande efficacia,
ma in complesso
oscura ('). Più
perspicuo, ma più
povero, è l'er-
rante della lirica di
J. (>. Fischer
(,1854), nella quale
assume i caratteri
di Prometeo e
rappre- senta la verità
di contro alla
tirannia oscuran- tista divina.
La regina Elisabetta
di Rumenia (Carmen
Sylva) nel suo
poemetto Jeliova (
1882) fa pure
di Asvero una
specie di Prometeo,
per non dire
di Capaneo, che
sfida il Creatore,
ma trova finalmente
nell'idealismo filosofico tedesco
la possibilità d'una
fede, e in
essa muore. (1)
Anche nell'altro poema
simbolico del Mosen,
Hitter Wahn, v"ha
non poca nebulosità
di concetto. NKLLK
SUE PKOPABOIX1 LETTEKAMK
Fra le parecchie
composizioni, di che por
bre- vità qui si
tace, ove l'ebreo
entra in un'episo-
dica narrazione storica, va
annoverata quella che
rese il nome
di Asvero più
noto plesso il
pub- blico d'Italia, VAhasrer
in Itom di
Roberto Ha- merling iltflió). E
poema di vivissimo
colorito, nella rappresentazione fulgida
dei contrasti del-
l'età neroniana. Il Grillparzer
già disse che
do- vrebbe a maggior
diritto intitolarsi Nerone,
e cosi osò
fare, traducendolo, il
nostro Vittorio Betteloni.
Intorno alle straordinarie
risorse che può
avere il carattere
di Nerone molto
s'è scritto, anche
in Italia, in
questi ultimi anni,
massime dopo la
immensa fortuna del
troppo celebrato romanzo
dello Sienkiewicz ('j.
Il maggior difetto
del personaggio di
Nerone nello Hamerling
è di avere
esso pure, fondamentalmente, funzione
sim- bolica (:). Tutto
simbolo è Asvero,
nuova incar- nazione di
Caino, portata ad
operare in mezzo
a persone storiche:
una astrazione sotto
forma umana; l'umanità
eterna, ma nel
suo lato me-
fistofelico. Come concezione asveriana
il poema dello
Hamerling non vale
molto (3i. (1)
Notabili sono specialmente
gli scritti di
Gaetano Ne- gri e
di Carlo Pascal.
Vedansi gli articoli
sereni (giacché non
sempre prevalse la
serenità in questa
disamina storica) di
Achille Cokn nel
periodico Atene e
Homo, anno III,
1!KX). . (2;
Leggansi le osservazioni
di Ko3iUAi.no Giani,
// Xerone di
Arrigo Boito, Torino,
1901. p. 52.
Xel volumetto del
Giani si ha
una coscienziosa rassegna
dell'uso che fece
la poesia, specialmente
quella drammatica, della
figura di Xerone.
(3> Troppo severo,
tuttavia, gli è
il Soergel (pp.
97 sgg.): il
l'rost scrive su
questo tema le
migliori pagine del
suo li- LA
LEGGENDA DELL'EBREO ERRANTE
* * *
Da questi concetti
simbolici sorti nel
seno della storia
è breve il
passo al simbolismo
di tendenze religiose,
politiche, sociali. E i primi
esempi di questo
sono remoti. Già
nel 1714, quando
non tacevano ancora
le discussioni sulla
realtà dell'ebreo, Gianjacopo
Schud, nelle sue
Judische Merkw'ùrdigkeiten, lo
interpretava come un
simbolo del popolo
israe- lita vagante sulla
superfìcie del globo,
per la maledizione
del sangue sparso
di Cristo, piovuta
sopra il suo
capo, e l'opinione,
poggiante su al-
cuni celebri versi di
Prudenzio, trovò seguita-
tori (*). Nel
secolo XIX le
condizioni religiose e
politiche mutare fecero
assumere a quest'idea
diversa colorazione: la
posizione economica con-
quistata dalla razza semitica
nella società euro-
pea produsse lo strano
fatto che Asvero
divenne per molti
bandiera di lotta
antisemitica, mentre altri,
in nome suo,
corsero alla difesa.
Prima del Goethe,
uno scrittore israelita
compose certo Spiel
voti Ahasvei; che
doveva essere cosa
ben cruda se
l'autorità municipale di
Francoforte, bro (pp.
Hl-lMi). Le considerazioni di
L. A. Michki.anueli, So-
pra V Ahascero in
Roma poema di
lì. Hamtrliny, Bologna.
187H, sono d'una
prolissità spaventosa, ma
spesso colgono nel
se- gno. Cfr. specialmente
le pp. 13D-40.
142 e ló(>57.
ri) Vedi Xeuhaur.
Die Sage cit..
pp. '22, 118.
15S8. Istrut- tivo è
nel libro del
Soergel il capitoletto
Ahaseer ah Ver- treter des
jttdinclien Voìkes, pp. 57 sgg.
NELLE SUE PROPAGGINI
LETTERARIE r»i7 nel
1708, non sólo
ne fece proibire
la reciti), ma
ordinò che se
ne ardessero tutti
gli esemplari a
stampa, sicché noi
ora, purtroppo, non
lo cono- sciamo più.
Molto tempo appresso
un celebre novelliere
tedesco, israelita di
nascita e di
re- ligione, Bertoldo Auerbach,
non tanto in
una sua novella
del 1827, quanto
nell'importantissimo Spinoza (188ó),
rappresentò con Asvero
il per- seguitato giudaismo, riconciliato
finalmente con l'umanità
dal grande pensatore
olandese ('). Con
siffatto intento di
compassione e di
ammirazione verso gli
ebrei fu interpretato
Asvero anche da
altri; ma più
di frequente egli
servi a sfogare
passioni antisemitiche. HrW Altascerus di
Ber- nardo Giseke (1868)
è il cieco
giudaismo che odia
il cristianesimo; nel
mistero di Giovanni
Lepsius (1894) raffigura
il tragico conato
del po- polo giudeo
per trovare il
nuovo Messia; il
poema di Giuseppe
Seeber (1894), salutato
in Germania con
entusiasmo, porta la
tragedia messianica di
Asvero ad una
conclusione, che è
conforme alle teorie
chiliastiche: quel tipo
vagabondo dell'e- braismo antico giunge
a riposo solo
quando tutto Israello
è redento, cioè
convertito. Più ristretto
concepimento, ma sempre
intonato alla questione
semitica, è ne\Y Ahasver
del prete austriaco
En- rico von Levitschnigg
(1842), che con
molta vi- vezza porta
innanzi l'ebreo moderno
da rigat- tiere fatto
banchiere, che stende
la mano unghiata
(1) È noto
che lo S]>inozn
nacque da genitori
ebrei di culto
spagnuolo. 1,A LEGGENDA
DELL'EBREO ERRANTE sul
mondo intero; nel
romanzo di Fr.
Mauthnef De)- neue
Ahamer (1881) nel
dramma asveriano dell'olandese
Ermanno Heijermanns (1893),
che mette in
scena un episodio
della persecuzione degli
ebrei in Russia.
Come alla questione
semitica nei paesi
in cui specialmente
si agitò e
si agita, cosi
Asvoro fu ben
lontano dal serbarsi
indifferente agli altri
problemi che s'imposero
al consorzio umano
nel gran rinnovamento
liberale de] secolo
XIX. D'un Asvero
fautore di libertà,
nemico del medio
evo, del misticismo,
della scolastica, è
ovvio l'inten- dere come
e perchè desse
il primo esempio
hi Francia con
le satiriche Tableltes
da jaif crrant
di Edgard Quinet
(\82'2) ('). le
cui tracce sono
seguite in Germania
nel iìelasius del
Maltitz (1820) e
nel New; Aliaaver
di Lodovico Kohler
(1841). Tendenza anticlericale
e rivoluzionaria ebbe
il voluminoso, fortunatissimo romanzo
in dieci volumi
di Eugenio Sue.,
Le jaif erranf
(1844). In esso
Asvero è il
lavoratore disere- dato, che
si oppone al
clero sfruttatore, con
al- lato Erodiade, la
malvagia omicida del
Batti- sta. Con slancio
di carità non
mai smentita, Asvero
passa dal nord
al sud, dall'est
all'ovest, per recare
soccorso ove se
n'ha bisogno. Tanto
egli quanto Erodiade
finiscono perdonati ed
(1) Disposizione di
spirito in tutto
diversa manifesta il
Qui- net dopo un
decennio nel mistero
Ahasvérus del 183B.
Questo é frutto
d'una sentimentalità morbosa
e d"una fantasia
sbri- gliata, e troppe
volte dà nell'oscuro
e nell'incongruo. A
ra- gione il Lanson
chiama il Quinet
« faiseur d'apoealvpses
». NELLE SUE
PROPAGGINI LETTERARIE M
9 Asvero presagisce
la distruzione del
chiericato egoista e
tiranno, e l'avvento
trionfale della de-
mocrazia, in cui il
lavoro sarà, rispettato,
amato, valutato, compensato.
Il successo di
questo ro- manzo a
tesi, in cui
è scarso il
valor letterario, superò
ogni aspettativa: la
Germania ne smalti
in quattro anni
più di quindici
edizioni, delle quali
una sola contava
undicimila esemplari. Trovò
anche colà imitatori,
tra cui emerge
il romanzo storico
Ahasver di Chr.
Kuffner (184(1), il
cui ideale asveriano
di amore sociale
non fu estraneo
alla creazione dello
Hamerling e for-
sanco neppure a
quello dello Sienkiewicz.
Par- ticolarmente dal 1880
in poi, i
progressi fatti dal
socialismo provocarono la
nascita di parec-
chi Asveri più o
meno dottrinariamente sociali-
steggianti, l'ultimo, e
forse più notevole,
dei quali è
nel poema Ahasver
di Gustavo Rentier
(1902), energica figurazione
del proletariato che
insorge contro ogni
specie di oppressione
sociale e con-
tro ogni bassezza morale.
Se questa è
l'ultima forma di
Asvero nel- l'ordine politico-sociale, ve
nha un'altra, non
meno moderna, nell'ordine
filosofico. Tutti sanno
quale influsso esercitarono
le idee del
Nietzsche sul pensiero
europeo. A quell'influsso non si sot-
trae neppure l'antico errante
e l e teoriche
indi- vidualiste trovarono un
portavoce anche in
lui('). (1) Per
contro altre produzioni,
come il poema
di M. E.
von Stf.kn, Die
Insel Aluiauer til31
terminato: tener desta
la fede, esaltare
le anime nel
servigio di Dio,
diffondere la moralità
cri- stiana ; e però quelle
vecchie vite di
santi tene- vano dtjlla
biografìa, del panegirico
e della le
zione moraleggiante. Ingrandire
i fatti perchè
al- l'elogio meglio servissero,
ritorcerli a maggior
gloria del Signore
e ad esempio
di moralità e
di fede, non
erano punto azioni
che si giudicassero
sconvenienti. Con questo
concetto così preciso
del lavorio leggendario
e retorico, vuoi
popolare, vuoi in-
dividuale, è facile imaginare
come sia restio
il Delehaye nel
concedere ai testi
agiografici il va-
lore di documenti storici.
Importante e fecondo
sembra a lui
pure lo studio
comparato delle re-
ligioni; ma contro le
troppo facili identificazioni del
culto cristiano col
pagano, contro l'idea
che la devozione
ai santi sia
una concessione fatta
dalla Chiesa alle
abitudini inveterate del
poli- teismo, contro il
presupposto della dipendenza
diretta e immediata
degli onori tributati
ai santi da
quelli con cui
i pagani esaltavano
i loro eroi,
scrive pagine di
ragionamento serrato, nutrite
di meditata dottrina.
Ammette bensì che
la tra- dizione del
culto degli eroi
abbia conservato negli
animi una migliore
disposizione ad acco-
gliere quello dei santi;
riconosce certi adatta-
menti di templi pagani
a uso cristiano
e l'ana- logia non
intenzionale di certi
santi con certi
eroi; trova non
solo verisimile, ma
storicamente necessario che
nella nuova religione
si scoprano vestigi
di gentilesimo: ma
sostiene che il
culto A HIOCì
li A hi
A SCIENTI FICA
dei santi ha
un fondamento essenziale
diverso da quello
degli" eroi, derivando
esso dall'onore reso
ai martiri, incili
nato dal Cristo
medesimo i*). La
mitologia comparata, pur
raggiungere certe identificazioni, ha
costrutto talora a
sua volta delle
vere leggende erudite,
come fece lo
Harris per ravvisare
nel cristianesimo il
culto dei Dio-
scuri e altri
per identificare san
Luciano con Dionysos
e santa Pelagia
con Venere Afrodite.
In siffatte identificazioni analogiche
bisogna pro- cedere coi
piedi di piombo,
giacché il lasciarsi
trascinare dalla ingegnosità
soverchia o dal
pre- concetto impellente è
cosa facilissima. Non
mi- nori cautele son
praticabili nel giudicare
so- spetti alcuni santi
solo perchè hanno
nomi di divinità
greche ovvero significanti
la personifi- cazione di
un attributo. La
buona critica può
riconoscere bensì in
questa condizione di
cose qualche motivo
di titubanza; ma
è pur d'uopo
tener presente che
in ispecie i
Romani usarono talora
imporre ai loro
schiavi e liberti
nomi bizzarrissimi, di
divinità o di
esseri astraiti, sic-
ché il solo significato
del nome non
dev'essere indizio di
falsità. Siccome è
assurdo l'ammettere una
brusca discontinuità nella
storia, va da
sé (1) Siffatto
raginnaniento, condotto con
finezza e con
cau tela, è
ben altrimenti convincente
che le consuete
riflessioni proposte dall'ortodossia cattolica
nel mettere a
confronto il santo
e l'eroe. Quanta
grossolanità vi fosse
nn tempo in
sif- fatti confronti può
vedersi in una
chiacchierata su L'ayiografia
antica e moderna
della Civiltà Cattolica,
Serie 3», voi.
\ li (anno
1857), p. 48.
AGIOGRAFIA SCIENTIFICA .r»33
* che nella
religione nuova molti
elementi pagani si
continuarono e rivissero
in forma l'innovellata. Il
Delehaye ritiene anzi
che un sempre
più ac- curato e
profondo studio comparativo
moltipli- cherà il numero
dei fatti che
riattaccheranno al paganesimo
le leggende di
molti santi; ma
non per questo
si sarà licenziati
a dire, per
esem- pio, col Ilartland
che in san
Giorgio la Chiesa
ha « convertito
e battezzato l'eroe
pagano Per- seo ».
L'infiltrazione di elementi
letterari pa- gani nelle
leggende agiografiche cristiane
è un fatto
talora innegabile, tal'altra
assai verosimile; ma
ciò non dà
ancora facoltà di
distruggere la personalità
reale del santo
e di concludere
ch'egli sia un
dio pagano o
un eroe pagano
cri- stianeggiato. Massimo
errore è, in
materia agiografica, il
non separare la
personalità del santo
dalla sua leggenda:
questa può essere
assurda, il santo
legittimo. L'atteggiamento, peraltro,
dell'indaga- tore moderno di
fronte ai fatti
biografici recati dalla
tradizione o attestati
dagli agiografi deve
essere, non pur
prudente, ma razionalmente
scet- tico: per le
ragioni esposte, tanto
la tradizione popolare
quanto il racconto
degli agiografi sono
il più delle
volte mendaci; poco
valore hanno le
tradizioni della chiesa
ove il santo
è vene- rato, ed
è un'illusione il
credere d'aver rico-
strutto la verità storica
allorché si siano
elimi- nati da una
biografia i tratti
inverosimili e si
sia trovata corrispondente a
puntino al vero
la to- pografia. Anche nei
romanzi del Bourget,
os- 534 AGIOGRAFIA
SCIENTIFICA serva spiritosamente il
nostro Bollandista, la. to pografia
è talora esattissima.
Che si direbbe
di chi ne
concludesse che quei
romanzi narrano fatti
realmente accaduti? Una
cosa ve eli
al Ir- niente e
solennemente reale nel
complesso delle leggende
agiografiche, e questa
nessuno potrà negarla:
l'ideale concretato nella
santità. Le pa-
role con cui il
Delehaye chiude il
suo libro sono
nobilmente significative. La vita dei
santi, egli dice,
è « la
réalisation concrète de
l'esprit évan- «
gélique, et par
le fait qu elle rend
sensible « cet
idéal sublime, la
legende, cornine toute
« poésie, peut
prétendre à un
degré de vérité
« plus elevé
que l'iiistoire ». « * Difficilmente, nel
seno dell'ortodossia catto-
lica, si potrà portare
a maggiore elevatezza
spi- rituale il concetto
della santità e
circoscrivere di maggiori
cautele l'accertamento del
vero. In fondo,
non batte diversa
strada neppure uno
studioso nostro del
diritto, che recentemente
sciasse un libro
dotto e arditissimo
sul santo di
Assisi (ri. La
parte più solida,
se vedo bene,
in quel libro,
in cui la
temerità dell'ipotesi non ha limiti
e non scarseggiano
neppure gli errori
di fatto, sta
nell'avere intuito in
san Francesco (1)
Tamassia, San Francesco
d'Assisi e la
sua leggenda, Pa-
dova e Verona, Drucker,
1906. AGIOGRAFIA SCIÈNTI
FICA 535 un
tipo, che già
nella prima biografia
del Ce- Ianense
è compiutamente costituito
e si contrap-
pone, materiato con gli
elementi della tradizione
evangelica e con
tratti desunti in
massima parto dalle
opere di Gregorio
Magno, al clero
dege- nerato ed avido
di beni mondani.
E improbabile che
i cultori di
studi francescani si
pei'suadano col^Tamassia della
parte di eretico,
rientrato per via
della leggenda nell'ortodossia, che
vuol far giuocare
a san Francesco;
nè gli meneranno
buono il sistema
di escludere il
fondamento reale di
certi fatti, solo
perchè essi hanno
ri- scontri negli avvenimenti
o nelle leggende
o nelle dottrine
anteriori, quasiché la
tradizione, specialmente religiosa,
non abbia la
tendenza a ripercuotersi
nella realtà non
meno che nella
fantasia; nè potranno
convincersi della genesi
unicamente letteraria che
è assegnata al
fatto delle stimmate,
e se anche
nella seconda bio-
grafia di Tommaso da
Celano vorranno ricono-
scere gli elementi dottrinari
che valgono a
farne un «
manuale di perfezione
monastica », non
per questo vi
ravviseranno addirittura « il ca-
polavoro dell'impostura monastica del
secolo decimoterzo » : ma
ciò non per
tanto tutti do-
vranno ammettere che l'indagine,
se anche abbia
trascinato l'autore a
conclusioni eccessive, ha
indiscutibile utilità e
non rimarrà senza
buoni effetti nell'agiografia. Lasciata
da parte la
fede (positiva o
negativa), che non
è strumento di
ricerca, si avrà
fatto un gran
guadagno accor- dandosi tutti
nel giudicare la
santità coi criteri
AGIOGRAFIA SCIENTIFICA psicologici
moderni (') e
nel l'in daga
re le vicende
dei santi eoi
metodi severamente scientifici
che già da
molto tempo si
applicano con profitto
alla storia profana
e alle leggende
profane. Lo spirito
del genere umano
è uno ed
opera . 011
leggi costanti: è
puerile il ritenere
che in ma-
teria religiosa esso deroghi
a quelle leggi.
Purtroppo una voragine
intercede ancora fra
lo studioso credente
e lo studioso
non cre- dente: la
possibilità della sospensione
delle leggi naturali
nel miracolo, che
il credente ammette
e l'incredulo nega.
Ma chi tien
dietro spassio- natamente ai
progressi grandissimi che
gli studi religiosi
vengon facendo, trova
che insensibil- mente codesta
voragine perde di
profondità e di
ampiezza. La parte
più colta del
clero si piega
orinai alla discussione
del miracolo e
talora lo pone
apertamente in dubbio
(*). È vero
che la maggior
parte dei miracoli
non costituisce ar-
ticolo di fede: ma è vero
altresì che la
tendenza scettica cosi
lucidamente tracciata dal
Delehaye rispetto all'agiografia non ha da
fare che un
passo e può
essere applicata ai
Vangeli (3). E
(1) La psicologia
del santo non
fu perauco indagata
in conformità alla
scienza. Il troppo
fortunato libro sul
soggetto di Enrico
Joly, che ebbe
anche una traduzione
italiana Roma, Desclée
e Lefebvre, 190-1,1,
non ha base
scientifica. (2) Per
citare un esempio
tra mille, gravi
dubbi ormai si
sollevano nel clero
stesso su quello
che fu considerato
come uno dei
più angusti fra
i santuari cattolici,
la casa di
Loreto. Vedasi nel
presente volume l'articolo
speciale da me
consacrato alla questione
lauretana. (3) Lo
ha detto apertamente,
a proposito del
libro del De-
AGIOGRAFIA SCIENTIFICA allora?
Non si spaventino
gli ortodossi per
que- sto. L'esegesi biblica,
a cui teneva
tanto l'illu- minato pontefice Leone
XIII, può essere
praticata presso i
cattolici con una
indipendenza di criteri
scientifici non diversa
da quella che
giù da tempo
adottarono certi esegeti
protestanti, per non
dire gli scienziati
aconfessionali. Lo ha
provato col fatto
l'abate Alfredo Loisy,
studiando al lume
della critica storica
il quarto Vangelo
(*) e con-
trapponendo all'opera
teologica del protestante
Harnack, Das Wesen
des Chrisfenlums (!),
il tanto discusso
libretto L'émngile et
l'èglise. A quel
tentativo di esegesi
storica dei Vangeli
i vescovi di
Francia contrapposero aspre,
roboanti parole e
divieti: ma la
loro piccineria, anche
di fronte alla
pura credenza ortodossa,
ha qualcosa di
desolante. La frase
di condanna trovata
dal- l'arcivescovo di Cambi
ai: «au lieu
d'élever l'hom- «
me à la
hautaur mystérieuse des
Livres saints, «
certains auteurs f'ond
descendre ces livres
au « niveau
de la raison
et de la
nature humaine >,
è la decapitazione, in
seguito a giudizio
statario, della scienza
e della ragione
umana is). Uno leha ve,
Maiicki. Hkiikbt, nella
He vite de
l'unicersité de Bruxelles,
voi. XI, 190T), p.
14li. L'Héhert è
autore d'un libro
ili non grande
levatura, ma non
destituito d'interesse, L'évululìo»
de la foi
rittholitjue, Paris, Alcan,
11)05. (1) Le
t/ualrième évangile, Paris,
Picard, 1908. (2)
Leipzig, 1900. Versione
italiana, L'essenza del
Cristia- nesimo, Torino, Bocca.
1903. (3) Tutte
le condanne e
le loro motivazioni
si possono leggere,
raccolte dal Loisy
medesimo, in fondo
ni suo volu-
metto polemico Aulour d'un peli! licre,
Paris, Picard, 1H03.
538 AGIOGRAFIA SCIENTIFICA
storico di grande
riputazione, Gabriel Monod,
ebbe a notare
che dopo il
concilio di Trento
e segnatamente dopo
il concilio Vaticano,
la Chiesa ha
smarrito il senso
della storia ed
l al 17(55
sei volumi di
dissertazioni uni culto
di Maria, sbarazzava
la tradizione lauretaua
da quell'ani masso
di favole ond'era
aduggiata e per
primo faceva vedere
l'inutilità dei pretesi
documenti antichi, rutti
falsi. Ad una
negazione decisa del
fatto egli per
altro non giunse,
come non vi
giunse quel dotto
e candido sacerdote
alsaziano lìiiis. Antonio
Vogcl, che rifugiatosi
nella Marca pel
turbinare della rivoluzione
francese, compulsò quanti
do- cumenti d'archivio gli
venne fatto trovare
e scris- se un
commentario latino De
ecclesia Recana tenni
Lanretana, pubblicato postumo
solo nel 1859
(il Vogel mori
nel 181 7), che
non oppugna decisamente
la tradizione per
rispetti ovvii, se
non del tutto
giustificabili. Monaldo Leopardi,
tuttavia, ci assiema
esser il Vogel
venuto nella persuasione
« qualmente la
santa cappella Lau-
LA IJl'ESTIUXK I.AURKTAXA
« retana poteva
venerarsi per molti
titoli, ma non
« era la
Santa Casa di
Nazareth •. Solo
in tempi a noi vicini
un barnabita, Leopoldo
De Feis, aveva
il coraggio di
dire chiaramente ed
espli- citamente ciò die
molti altri pensarono
prima di lui:
i suoi due
solidi articoli su
La S. Casa
di Nazareth ed
il Santuario di
Loreto .('), desti- nati a
sfatare la tradizione
laure tana, suscitarono
plausi e contumelie,
ma ebbero nello
stesso clero difensori
illuminati, specialmente in
Francia l'abate Boudinhon,
che nella Reme
da clvrgè franrais
sostenne una vera
battaglia contro gii
oppositori. Finalmente venne
in luce il
volumi- noso ed eruditissimo
libro del canonico
Ulisse Chevalier, Nolre-Dame
de Lorette, ètwle
hi sto rique
sur l'aatìienticifè de
la Santa Cum
('), che resterà
il vero punto
di partenza per
ogni ricerca futura.
Per quel che
concerne la portata
dialet- tica, il nerbo
dell'argomentazione contro la
veri- dicità della leggenda,
l'opera dello Chevalier,
con- dotta più da
bibliografo che da
storico (3), non
supera in valore
l'opuscolo del De
Feis, perchè l'immensità
del materiale erudito,
sebbene ordi- natamente disposto e bene riassunto,
turba il (1)
I due articoli
uscirono nei volumi
141 e UH
della /?«.«- seyha
nazionale di Firenze;
ma in quel
medesimo anno 1H0-")
comparvero anche, con
aggiunte, in un
opuscolo a parte.
(2) Paris, Picard,
190b\ (3) Lo
Chevalier è notissimo
in ispecie per
la grande be-
nemerenza acquistatasi col suo
Hi'pertoire rfes sources
[ustori- que.s du
moi/en-àge. Altre opere
sue principali riguardano
la poesia liturgica
dell'evo medio. Ejrli
suscitò pure rumore
fra noi impugnando
l'autenticità della Sindone
di Torino. 550
LA QUESTIONE LAUUKTAMA
procedimento ragionativo e svia l'attenzione
del lettore; ma in compenso
si ha qui
raccolto tuttociò ehe
in ogni senso
può interessare gli
studiosi della grande
leggenda. Prima di
venire ad esporre
di volo la
sua argomentazione, mi
sia concesso avvertire
ch'egli ebbe un
consentimento par- ticolarmente autorevole e
non sospetto. Cario
De Smedt, uno
di quelli esperti
e spregiudicati lìollandisti
del Belgio, che
altra volta ebbi
già a lodare
('), dopo aver
con mirabile chiarezza
rias- sunto le conclusioni
dello Chevalier, considera
il suo libro
« cornine une
oeuvre définitivc. dont « anemie
déeou verte de
doruments encore in-
« comi us ne
pouria ébranler les
solides a.s- p. 35fi
e 585. 552
LA QUESTIONE LAURETAXA
« rito, la
qual è facta
de quadreli o ina toni
et « è
coperta de copi
(tegole); et in
quel paese «
non se trovano
tali cosse. La
casaadumque vera «
de la b.
Verzene è cavata
nel monte, lo
qual « è
de tupho, et
è soto terra,
grande per quadro
« sedpce braza,
cum due stantiolete,
l'ima an- «
canto l'altra; in
una de le
quale dimoiava «
Joseph et in
l'altra la b.
Verzene. E quella
« casa medesima
che era in
quel tempo, quando
« la fo
annunciata, è al
presente. Nè non
se « poterla
apportar uè levare
salvo chi non
pov- « tasse
el monte » .
Candida quanto energica
protesta ; ina
a farla il
dabben francescano dovette
essere indotto da ciò che
in Italia a' tempi
suoi si narrava.
E in- fatti nel
1472 Pietro di
Giorgio Tolomei, detto
dalla città nativa
il Teramano, avea
pei" la prima
volta riferito il
miracolo della traslazio-
ne, asserendo di saperlo
da due vecchioni
di Recanati, che
a lor volta
lo tenevano dai
loro avi. Più
che il silenzio
di ogni fonte
trecentesca, compresi cronisti
come Giovanni Villani,
potè questa pretesa
diceria di vecchi,
passata di bocca
in bocca. Le
parole del Teramano
furono riprodotte, affisse
nella cappella lauretana,
tra- dotte; il carmelita
mantovano Battista Spagnuoli
contribuì a diffonderle
elaborandole in una
ope- retta latina, ch'ebbe
voga. Papa Giulio
II non tardò
a confermare la
leggenda con una
bolla del 1507,
che è tuttavia
assai circospetta nell'af-
fermare la traslazione,
usando la forinola
« ut pie
credi tur et
fama est >.
LA QUESTIONE LAUKETAXA
Bili qui siamo
ancora nella buona
fede; più tardi
principia la intenzionale
mistificazione, che consiste
nell'in venta re
circostanze di fatto,
nel precisare tutto,
nel'" tenticare coi
falsi la tra-
dizione corrente ('i. 1
documenti allora addotti,
siccome rimontanti al
XIII e al
XIV secolo, fu-
rono già dimostrati falsi
dal Trombelli, dal
Vogel e dal
Leopardi, e nessuno
ha potuto salvarli
da quella condanna,
che lo Chevalier
ribadisce. Le bugie
si ammonticchiarono nel
racconto che, to-
gliendo a base il
Teramano, credette di
redigere nel ìò'òì
Girolamo Angelita, segretario
del Co- mune di
Recanati, e quindi
in quello di
Raffaele Riera, e
finalmente (1594) nell'opera
divenuta celebre di
Orazio Torsellini, di
cui s 'hanno tra-
duzioni in tutte le
lingue. Con testimonianze
false, inventate di
sana pianta, si
cercò dimostrare il
passaggio della Santa
Casa per la
Dalmazia, di cui
nessun documento di
qualche valore fa
motto; e quindi
si pose ogni
industria nel determinare
i suoi piccoli
giri in Italia,
nel territorio di Re- canati. I
pellegrini del seicento
videro in Pale-
stina ciò che sin 'allora
nessuno aveva veduto:
le fondamenta della
casetta, le cui
mura sopra- stanti eran
volate a Loreto.
Finalmente, nell'opera sua
rara stampata ad
Anversa nel 1639,
Fran- ti) I valenti
sacerdoti che s'occuparono
del soggetto que-
sto non dissero; ma
appare evidente dai
fatti ampiamente allegati
dallo Chevalier. Nel
Cinquecento e nel
Seicento s'è mentito
sapendo di mentire,
nè giova dissimularlo.
Divido interamente su
questo punto l'opinione
del Delabohde, L'é-
volution d'une legende
pieuse, in Journal
des novanta, luglio
1907. 551 LA
yCESTIONK LA l'RETAN A
cesco Quaresmio, motivava
la fuga della
Santa Casa con
le strano racconto,
del tutto favoloso,
d'un vescovo che
per paura de'
Maomettani avrebbe apostatato
la fede cristiana,
sostituendo il turbante
alla mitra. Scandalizzata
per questo contegno,
la Vergine avrebbe
intimato il trasloco
della sua abitazione,
non altrimenti da
ciò che avvenne
poscia nella Marca,
ove cangiò di
po- sto prima perchè
i briganti infestavano
la località prescelta
e quindi perchè
erano sorte discordie
tra i due
fratelli Alitici, nel
cui podere era
ve- nuta a posarsi.
Essendo cosi suscettibile
alla buona moralità
delle genti che
l;i circondano, non
ò del tutto
insussistente l'odierna speranza
dei Mariaviti polacchi,
i quali attendono
che da un
giorno all'altro la Santa
Casa prenda il
volo di nuovo
e venga a
collocarsi in mezzo
ad essi (').
Un Muratori, credenzone,
anzi haggeo, di
tutte le fandonie
spacciate sino a
quel tempo sulla
Santa Casa fu
Pietro Valerio Martore-Ili
nei tre grandi
volumi in folio
intitolati Teatro /storico
della Santa Cam
Nazarena della lì.
Ver- gine Maria, editi
in Roma dal
1732 al '85.
Questo che lo
Chevalier chiama «
le mare magmi m
de notre legende
» ha il
merito di accogliere
il più gran
numero di tradizioni
leggendarie ed ha
il torto di
accettarle tutte come
verità sacrosanta, senz'ombra
di critica. (1)
Per tale curiosissima
aspettazione vedasi Ciiev.m.ikh.
1>. J70. LA
QUESTIONE LAURETANA 555
* * 11
gran battagliale che
si fece contro
il De Feis
e lo Chevalier
in giornali, in
riviste, in opuscoli,
in libri, non
si può dire
abbia alcun valore
scientifico (*). Trattasi
del solito cica- leccio
inconcludente di persone
in cui la
col- tura e l'abito
della critica sono
di gran lunga
inferiori al fervore
religioso. Ameno è,
in questo genere
di letteratura, l'opuscolo
scervellato d'un guidatore
di pellegrinaggi francesi
a Loreto, l'un-
tuoso abate J. Faurax
(*). Questo confuso
ed idiota affastellamento di
frasi, condito di
vele- nose insinuazioni, rappresenta
purtroppo l'indi- rizzo pietistico di
una buona parte
del clero cattolico,
di che non
c'è da consolarsi.
Meno insensato, ma
non meno inconcludente, è
un libretto italiano
diretto contro il
De Feis da
R. Della Casa,
col titolo pretensioso
di Studio sto-
rico documentato sulla S.
Casa di Maria
vene- rata a Loreto
(3); ma s'ingannerebbe a
partito chi, illuso
dal frontispizio, credesse
di apprendervi qualche
novità di rilievo.
Del resto lo
Chevalier, sempre coscienziosissimo, non
mancò di prendere
in esame qualsiasi
dato di fatto
nuovo che nel-
l'ardente polemica gli venisse
presentato: cosi (1)
Tedi le indicazioni
bibliografiche date in
proposito dall' Ai.i.mano, nel
cit. Histor. Jahrbnch,
XXVIII, 5964)04. (2)
Tjt Halnte Maison
rie Sotre Mère
à Loretle. Lyon-Paris, 190f
j. ("3) Siena,
Tip. S. Bernardino,
1906. LA QUESTIONE
LA VII ETANA
mostrò che è
«cura e gotta
falsificazione del seicento
certa bolla pontificia
che volevasi ema-
nata nel 1310 da
Clemente V con
accenno alla Vergine
di Loreto; e
cosi, avendo udito
di una reliquia
farfense del sec.
XII avente la
scritta « de
domo lauretana Virginis
ilariae », non
fu pago se
non quando, appurato
bene le cose,
si persuase che
la scritta appartieni!
al sec. XVI
Sarebbe solenne ingiustizia
il confondere con
le altre cianfrusaglie
polemiche pregiudicate e
melense il bello
e ricco volumetto
di ìnons. Michele
Faloci Pulignani, La
Sanici Casa di
Loreto se- condo un
a/fresco di Gvìiltio,
Roma, HiOT. Seb-
bene, a parer mio,
non t'aggiunga il
suo scopo ri-
spetto alla dimostrazione del
miracolo, questo libro
è e resterà
sempre un eccellente
contributo alla storia
della fortuna che
ebbe la Santa
Casa nelle arti
del disegno. Le
illustrazioni onde lo
scritto è corredato
sono curiose »\1
alcune non ovvie;
ma non giovano
a mostrare, come
il va- lente autore
vorrebbe, che nel
rovinatissimo af- fresco dipinto nell'antico
chiostro di S.
Francesco in Gubbio
sia rappresentata la
traslazione della Santa
Casa. Pare anche
a me, contro
le obiezioni di
altri, che quel
dipinto, per ragioni
stilistiche, non possa
ascriversi se non
alla seconda metà
del sec. XIV;
quindi mostrerebbe la
leggenda for- mata un
buon secolo prima
di quanto sinora
ci (1) I
due articoli dello
Clievalier sui menzionati
soggetti leggonsi nei
Mélanges d'archeologie et
d'histoire editi dalla
Scuo- la francese di
Roma, XXVII, 143
e 323. LA
QUESTIONE I.AVKKTANA ,V>7
risulti, ila la
difficoltà sta pur
sempre nel pro-
vare che quella cappellaccia
portata da angeli,
che la Madonna,
chiusa in un'aureola
a man- dorla e
da angeli circondata,
addita dall'alto, sia
veramente la Santa
Casa. Il Faloci
ha posto nella
dimostrazione, col fuoco
consueto della sua
indole, molto acume
e molla dottrina,
non v'ha dubbio.
Tuttavia che l'affresco
d'un chiostro francescano,
primo nella sua
ubicazione e quindi
tale da aprire
una serie di
rappresentazioni fran- cescane, raffigurasse proprio
un fatto che
con S. Francesco
e con l'ordine
suo non ha
nulla, o quasi
nulla, da vedere,
è cosa ostica
a cre- dersi. Inoltre quella
che gli angeli
portano non ò
una casa, ma
una chiesa: e
il paesaggio e
i pochi altri
particolari di fatto
che la gran
rovina del dipinto
ci permettono di
scorgere, non cor-
rispondono, checché ne dica
l'erudito monsi- gnore, a
nessuna particolarità della
leggenda lau- retana;
e la Vergine
non è rappresentata
con in braccio
il Bambino, come
costantemente pra- tica l'iconografia della
Santa Casa. L'affresco
eugubino dovrà ancora
essere sottoposto a
studi; ma sinora,
a parer mio,
non è la
tradizione lauretana che
possa rallegrarsene, perchè
con ogni probabilità
si tratta di
un soggetto simbolico
francescano, che esso
ci pone sott'occhio.
Se an- che non
tutto sia chiaro,
ha molto maggiore
verosimiglianza l'ipotesi prima
sostenuta dal de-
funto dottor Lapponi, medico
di Leone XIII
i '), (l)
Rassegna Gregoriana, V
(190fti, oAl sgg.
558 LA QUESTIONE
LAL'RETANA e ora
più ampiamente dal
canonico Vittorio Pa.
gliari ('). che
quel dipinto ingenuamente
ci dica come,
per volontà di
Maria, la chiosimi
della Porziuncula fosse
dagli angeli portata
in terra e
deposta presso Assisi.
Quel simbolo racchiude
quanto v'ò di
misticamente più significativo
nel- l'opera di S.
Francesco; e però
appare molto probabile
che aprisse, come
in altri conventi
francescani avveniva, la
serie delle pitture.
Le quali, anche
per tradizione di
chi potè vederle
ancora ben conservate,
rappresentavano fatti di
8. Francesco e
non altro, «
varia et plura
gesta « S.
Francisci da Assisto,
singula inter se
di- « visa
et depicta rudi
et antiquo modo
», come scrisse
nel suo rogito
del 16.V5 il
notaio eugu- bino Anton
Maria Valentin! (*).
* Giunti a
questo punto, legittima
e la domanda
: come germogliò
la leggenda, che
trovò hi prima
consacrazione scritta sul
cadere del secolo
XV, e fu
tanto amplificata, e
non sempre onesta
mente elaborata e
diffusa nei successivi?
Chi ha qualche
pratica in siffatto
ordine di indagini
sa che c
assai più agevole
segnalarci caratteri specifici
di una leggenda
e indicarne la
evoluzione, di quello
che sia scoprirne
con si- (1)
Rivista storico-critica delle
scienze teoloyiche, III 1
1907), 5èB 9gg.
(2) Faloci-Pcligxaxi, Op.
cil., p. S.
LA LAL'HKTAN A
cu rezza l'origine.
Tuttavia parecchie congetture
si possono fare
e furono fatte
('). Una di
esse è, sopra
tutte, la più
calzante e verosimile.
Eccola. Esisteva in
quel di Recanati
un'antica chie- setta, che
pare fosse gentilizia
(*), intitolata alla
Natività di Maria,
ove si venerava
una Ma- donna che
divenne celebre per
miracoli, cosicché nel
XIV e nel
XV secolo vi
traevano in gran numero
i pellegrini. Come
accadde tanto sposso
nei santuari medioevali,
crebbero intorno ad
essa piccole case,
ad uso d'ospizio,
d'ospedale e di
amministrazione, che si
chiamarono al plurale
dotuus Marine. Di
quella chiesetta e
di quei pel-
legrinaggi e dei doni
cospicui accumulati colà
parlano molti documenti,
amministrativi, eccle- siastici e
pontifici, senza far
mai motto della
traslazione. Mentre ancora
nel 1438 si
parla delle case
di Maria (domokum
gloriosae Virgiuis Marine
de Laureto), nel
1438 si ha
il primo ac-
cenno scritto alla casa
di Maria (domum
sacra- tissimae Sanctae
Mariae de Laureto)
(3), e la
confusione non ò
difficile a spiegarsi
quando si consideri
che domus, appartenendo
alla quarta declinazione,
ha l'uscita uguale
nel nominativo singolare
e nel nominativo
plurale. In questa
(1) Chevamek, pp.
479 sgg. Vedi
anche la lucida
esposi- zione del Journal
ile» garanti cit.,
pp. 372 sgg.
(2) Lo si
deduce da documenti
vaticani della prima
metà del sec.
XIV, rimasti sconosciuti
allo Chevalier, per
cui vedi Burniscile
Quarlalschrift, an. 190U,
p. 165. (3;
Cubvaliek, pp. 226-2SJ,
LA QUESTIONE I.AUKKTANA
confusione e nel
fatto attestato da
unii bolla di
Paolo II del
12 febbraio 1470,
clic la miracolosa,
imagine della Vergine,
venerata uella piccola
chiesa, era stata
colà portata dagli
angeli (ange- lico Gomitante celti
mira Dei clementia
collocata est) (') si ha
con tutta probabilità
da ricono- scere il
germe della tradizione
leggendaria lttu- retaua.
che nell'attestazione del
Teramano (1472) ha
già portato i
suoi frutti. Quando
il Sai-ehetti, che
conobbe de risa
la Marca ed
in ben dicias-
sette novelle parla di
soggetti marchigiani, pone
in bocca a
Mauro pescatore di
Oivitatiova il giu-
ramento » per Santa
Maria de Loreto
» '*), egli
senza dubbio allude
alla Madonna miracolosa,
che come tante
altre dice vasi
colà trasportata dagli
angeli. Tutti intendono
quanto facilmente dalla
Madonna si potesse
passare alh: casa
della Madonna nell'idea
di si {fatto
trasporto', dal mo-
mento che in un
darò tempo casa
di Maria fu
detta la primitiva
chiesuccia laurctana, non
di- versamente fora* dalia
« casti di
Notlra Donna in
sul lito Adriano
» che nomina
San Pier Da- miano
nel cielo di
Saturno (3). (1)
Chevamkr, p. 2CHì.
(2) Credo io
pure felice la
correzione proposta dal
Bottari. giacché il
testo ha «
Santa Maria dell'Oreiio
■. I dubbi
dello Chevalier, p.
173, non mi
sembrano fondati. Vedi
anche D. Spadoni,
// santuario di
Loreto e un
novelliere toscano d"l
sec. XIV. in
Rivisto marchigiana illustrata,
IV fl907), n.
4. An- che il
ternario inedito fatto
conoscere da M.
Vattasso nel Giornale
Arcadico del gennaio
1907 invoca unicamente
la Ma- donna di
Loreto, senza verun
accenno nè alla
Santa Casa n''
alla sua traslazione.
(3) Paradiso, XXI,
122-123. Ma Dante
con quella casa
de- signa una chiesa
o un monastero?
Vedi perle controversie LA
QUESTIONE UVURETANA I
luoghi di grandi
e frequenti pellegrinaggi
sono singolarmente disposti
a veder nascere
e vigoreggiare le
leggende. Quel pubblico
di de- voti, e
talor di fanatici,
è sempre in sommo
grado suggestionab|le, nè
giova tacere che
v'è talvolta chi
tei il massimo
interesse di trar
profitto dalla sua
propensione ad essere
suggestionato. Le leg-
gende di questa specie
hanno quasi sempre
un periodo spontaneo
ed un altro
artificiale; come vedemmo
esser seguito a
Loreto. La cosa
non deve far
certo meraviglia quando
si pensi che
uno studioso serissimo,
dotto ed acuto,
Giuseppe Bédier, vien
consacrando da anni
le sue fatiche
a mostrare che
tutte o quasi
tutte le leggende
epiche carolingie hanno
la loro sorgente
nei san- tuari medievali e
gli organi principali
della loro trasmissione
nei pellegrinaggi (').
a cut dà
luogo quel passo,
oltreché i commenti
dello Scar- tazzini,
dej Casini, ilei
Torraca, anche C.
fiicci, L'ultimo ri-
fu/fio di Dante Alighieri,
Milano, 1891, pp.
123-1"28 e Suììelt.
»Soc. Dantesca, X.
S., VI, 75-77
e XI, 318.
Monaldo Leopardi, come mostra
nella XIII e
nella XXII delle
sue Discusmoìii lanretane
e ribadisce negli
Annali, si faceva
forte specialmente del
passo dantesco per
sostenere la sua
tesi che la
trasla- zione della Santa
Casa è anteriore
al 1291. Del
resto, l'iden- tificazione, del tutto
falsa, della caaa
nominata da Dante
con quella di
Loreto pare risalga
al Maglia bechi.
Cfr. Chevamer, p.
158. il) Il
I$>dier ha già
pubblicato in proposito
una bella serie
di articoli, tra
i quali sono
per noi importantissimi quelli
su I^e* rhannonx
de geste et
les routes d'Italie,
inseriti nei volumi
XXXVI e XXXVII
della Romania. Dell'opera
d'insieme che ne
risulterà, Leu légendes
épiqitea, recherches sur la formation
de* channona de
geste, è già
uscito il primo
volume, sul sot-
tociclo di Guglielmo d'Orange
(Paris, Champion, 1908).
Kknikr - Scatj/ti
Critici [.A 4UKSTIONE
LAI" RETASI A
* * Oramai
la parte più
illuminata ck'l cloro
catto- lico, quella parte
che non rinuncia
a pensare col
proprio cervello e
che non ripugna
ai procedi- menti scientifici, non
può più prestar
fede a certi
tradizioni destituite d'ogni
solida base storica,
come quella della
traslazione della Santa
Casa. E tuttavia
i vescovi marchigiani,
in una lor
pa- storale dell'aprile 1906,
asseverano che le
con- clusioni negative dei
dotti su quest'argomento su-
scitano « l'indignazione dell'innamorato stuolo
« dei devoti
della Vergine (')
», e l'attuale
ponte- fice fa scrivere
a mons. Faloci
che « approva
al- « tamente
i suoi studii
per la difesa
d'una tra- «
dizione venerata da
tanti secoli, cosi
cara alla «
Chiesa ed alla
pietà dei fedeli
(2) » . E
quel eh 'è peggio,
un uomo d'altissimo
sapere, esperto in
ogni accorgimento dalla
critica, autore d
in- signi studi sul
papato nel medioevo,
il padre (irisar,
discorrendo nel 1900
in Monaco agli
scien- ziati cattolici riuniti
a congresso, sostiene
che sa- rebbe sconveniente (ungesiemend)
l'annunciare dal pergamo
al popolo che
la Santa Casa
non fu portata
dagli angeli e
non è quella
di Nazareth, perchè
maxima debetur puero
reverentia, e con-
viene che la verità
s'infiltri a poco
a poco dalla
cerchia ristretta degli
scienziati nel pubblico
(1) La Ranaerpia
Xazionale, vo\. 157,
p. 137. (2)
La Civiltà Cattolica,
quad. 1364, p.
182. 1..V QUESTIONE
LA UH ETANA
largo (l). E
l'illustre bollandista De
Smcdt, pur riconoscendo
con tutti gli
altri che la
Chiesa non ha
punto autorità infallibile
quando non si
tratti dell'interpretazione di
verità rivelate, crede
che sarebbe temerario
il chiedere all'autorità
eccle- siastica
d'affrettarsi a proclamare
la falsità di
certe credenze trasmesse
di generazione -in ge-
nerazione (*). Di cotali
asserzioni e professioni,
venute da ecclesiastici
che sono veri
scienziati, potrei aggiungerne
agevolmente un'altra dozzina.
Ora io trovo
che codesta acquiescenza
inte- ressata all'errore, codesta
custodia conservatrice gelosa
di tante falsità,
che s'ammantano col
nome di pie
credenze, non sono
degne di chi
ama pro- clamarsi interprete della
verità rivelata. So
pormi facilmente nella
condizione della Chiesa
rispetto a tendenze
per essa pericolosissime come
era il modernismo,
e ne intendo
la condanna. Non
in- tendo invece, in
chi non muova
da principi uti-
litari e sia in
buona fede, questo
rispetto malato per
tutte le mille
incrostazioni superstiziose che
il cattolicesimo ha
dal medioevo; non
intendo come non
si veda che
lo sbarazzarsene risoluta-
mente sarebbe atto salutare
alla stessa purità
e santità della
fede. Maxima debettu-
puero reve- ventia,
non c'è dubbio:
ma non è
reverente chi permette
che il popolo,
l'eterno fanciullo, sia
goffamente ingannato in
materia non dommatica
e sulla quale
è possibile veder
chiaro con la
ra- ili Hhttor.
Jahrburh, XX Vili, 3u(j.
l'ij Anatrila Boltaiiiliana, XXV,
-180. LA QUESTIONE
LAITRETAN A gione. Ammenoché
il puer non
sia il (frosse
Lummel dello Heine,
il grosso babbeo,
destinato, in questa
come in tante
altre bisogne, a
lasciarsi infinocchiare. Se
non che considerarlo
a questo modo
e profittarne fu ed è
costume di tutti
i set- tari, i-ossi
e neri, ma non è
da cristiano. Nota
aggiunta. — Ne]
Fanfulla della lìouienira,
10 inagpio 1908.
Sul soggetto non
usci di importante
dopi' d'allora se
non lo studio
di A. Chkscenzi,
Iconografia lauretana, nella
Ri- vista storico-critica delle
scienze teologicJie, IV
(1908i, pp. 755
sgg. Il Crescenzi
riguarda come «
confutazione definiti va
■ quella che
il Pagliari oppose
al Faloci rispetto
al sifruitìcato clel-
l'aiiresco di Gubbio,
e ordinato meglio
il materiale iconogra-
fico, propone una nuova
ipotesi rispetto all'origine
della leggenda. Secondo
Ini, il germe
di quella leggenda
sarebbe stato un
affresco, forse dipiuto
bu di una
delle pareti esterne
del santuario, che
fin da tempo
antico si venerava
presso l'attuale Loreto.
La Vergine ivi
sarebbesi veduta sopra
una casa portata
da angeli, e
questo tipo di
8. Maria dpgli
an- geli avrebbe prodotto
nella tradizione popolare
la credenza nella
casa della Verdine
miracolosamente trasportato, dagli
angeli. Alle obiezioni
rivoltagli dal padre
Esehhaeh nell'O*- servature
romano il Crescenzi
rispose uella medesima
Hivista storico-rritica, V
(1909), pp. 3H7
sgg. Perl' corografia
lauretana vedasi pure
E. Tini nella
Rivista abruzzese, XXIV,
fWO sgg. La
produzione artistica moderna
più ragguardevole sugge-
rita dalla nostra leggenda
è il vivacissimo
affresco di G.
B. Tiepolo nel
soffitto della Chiesa
degli Scalzi in
Venezia. Si veda
P. Molme.n'tx, G.
B. Tiepolo. Milano.
11*09, pp. 50-57
e (in. I
X DICE I.
Letteratura italiana. 1.
Cciini .sull'uso dell'antico
gergo i'urbetwo nella
letteratura italiana PnS-
1 2. Gaia
(li Gherardo da
Camino . .
. . >
31 3. Il
Yannozzo W f>l
4. La psicopatia
di Benvenuto Celimi
71 5. Salvator
Rosa . .
» 93 6.
La figliuola del
Monti 117 7.
I Promessi Sposi
in formazione ...
» 137 H. La vecchia
♦ Antologia »
» 1!>3 ».
Gegia Marc-Monili -209
10. Per ««La
figlia di Jorio
» 22;") 11.
La fiaccola »
245 II. Letteratura
francese. I. La
margherita delle principesse
... » 2(i3
2. Corinna >
283 3. Scorrendo
il carteggio dello
Stendhal . »
301 4. La
giovinezza «1 i
Emilio Zola ....
> 325 5.
Maupassant " .
» 345 (i.
Ricordando Giulio Venie
quattr'anui do- po la
sua morte »
3l>ó III. Letteratura
tedesca. 1. Patriottismo
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387 2. Adalberto
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