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Tuesday, December 17, 2024

Grice e Serbati

 4. In Rosmini l'attenzione ai fatti di lingua e la speculazione sul fenomeno del linguaggio furono non meno vive di quelle di Manzoni, esercitate però con sensibilità, impostazioni e modalità differenti26. L'origine del linguaggio, in particolare, seppur poco appariscente, è un tema delicato e importante del suo sistema filosofico e ricorre a varie riprese lungo tutta la sua opera, talvolta con brevi cenni indiretti talaltra in forme più estese.

Una trattazione piuttosto ampia si trova già nel saggio Sui confini dell'umana ragione ne' giudizi intorno alla divina Provvidenza che costitusce il primo libro della Teodicea, ai capitoli 17-21, sotto la rubrica della 'quarta limitazione dell'umana ragione', la quale recita:

«La mente umana non può produrre a sé medesima veruna scienza, senza che gliene venga dastraniera cagione proposta la materia»27. Questo implica che prima della azione degli esseri sussistenti' la mente umana è una tabula rasa, incapace come tale di astrarre senza lo stimolo di segni che in qualche modo rendano sussistenti gli astratti (88-89). In altre parole, «l'uomo

conosce solamente quello che a Dio piace di manifestargli

naturalmente

soprannaturalmente» (94), ossia il mondo fisico (96) e i contenuti della rivelazione (97).

Dono di Dio non può che essere anche il mezzo per passare dall'uno agli altri, ossia il lin-guaggio, perché la rivelazione - principio paolino - si fonda sull'udito e inoltre presuppone già esistente la facoltà di astrazione: pertanto «l'uomo non potea dare a se stesso il linguaggio: onde egli ripete dal Creatore anche questo mezzo di conoscere» (99).

La funzione semiotica è condizione necessaria della conoscenza, in quanto l'uomo «senza i segni non potea né pure concepire gli astratti» (100); e qui, diversamente che altrove, segni vuol dire senz'altro parole, e precisamente i nomi di qualità. È questo il punto cruciale della questione: non c'è astrazione senza segni-parole, ma i segni-parole presuppongono le astrazioni. Evidentemente, dunque, l'uomo riceve dall'esterno, cioè da Dio, il primo nucleo motore, già formato, di segni-parole. La tesi dell'origine divina, già nettamente delineata,

trova così la sua enunciazione esplicita:

Erano necessarj all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se stesso, mentre per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate; queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana

mente (102)28.

Tali 'voci', prosegue Rosmini, poterono essere i nomi che, conforme al racconto biblico, Dio attribuì a ciascuna delle opere della creazione al fine di renderle conoscibili (106), e costituirono le prime astrazioni (111), in grado di mediare tra il visibile e l'invisibile (107).

Non dovette trattarsi insomma di un insegnamento esplicito del linguaggio, bensì della sua trasmissione indiretta unitamente alle verità della salvezza: «Quindi le eterne verità furono, io mi credo, al linguaggio incorporate e con esso insieme insegnate» (108), e con esso altresì, «nella forma materiale della lingua quasi in arca ben chiusa», custodite e tramandate di padre in figlio pur nel variare storico dei sistemi linguistici (114). La sapienza e il linguaggio,dunque, «furono dati all'uomo congiunti nella stessa guisa, sarem per dire, come furon creati congiunti alla materia i suoi accidenti» (112). Non per nulla la Bibbia attribuisce allo Spirito santo il dono delle lingue:

Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e sussistenti; ma un passo insuperabile, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, giacché gli astratti non li percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui li mostrasse (110) 29.

Nel Nuovo saggio, com'è ovvio, quello delle funzioni del linguaggio e della sua origine, nel senso gnoseologicamente ed epistemologicamente più pregnante, è un tema cruciale che sarebbe interessante seguire analiticamente lungo le quattro edizioni dell'opera curate dall'autore stesso. Non potendo farlo in questa sede, e riconoscendo che «Rosmini non è tutto nel

Nuovo saggio»30, mi limiterò a qualche annotazione utile nel prosieguo del discorso.

Intanto, occorre rilevare che la critica alla teoria sensista dell'origine del linguaggio non è sviluppata nel capitolo espressamente dedicato a Condillac (del quale lì viene discusso unicamente il Traité des sensations) bensì di fatto nel capitolo su Dugald Stewart, dove Rosmini avverte che il discorso svolto contro di lui, ovvero contro Adam Smith, vale né più né meno per tutti i sostenitori del «romanzetto di questo selvaggio» inventore e segnatamente per Condillac, al quale peraltro riconosce il merito di «aver chiamata l'attenzione de' filosofi sulla mutua relazione della favella e del pensiero»31. E notiamo per inciso che alcune delle contestazioni al «misterio metafisico del lockismo» (49 nota 2), e il tono ironico con cui sono avanzate, torneranno molto simili nelle pagine di Manzoni.

Per mostrare come nel 1830, data della prima edizione32, l'impostazione rosminiana siaancora sostanzialmente quella del saggio poi confluito nella Teodicea, riporterò soltanto due brani. Il primo è la conclusione di una nota facente parte della lunga critica alla teoria della precedenza dei nomi propri sui nomi comuni, sostenuta da Stewart sulla scorta delle Considerations concerning the first formation of languages di Smith; il punto, osserva

Rosmini, è sapere come la mente possa pervenire alle prime astrazioni, e conclude:

Ora la mia opinione sopra di ciò la espressi già nel Saggio sui confini della ragione umana [...]. Io dimostrai in quel luogo, che l'uomo avea bisogno d'essere ajutato e mosso a ciò da qualche segno esterno (lingua), che segnasse la cosa astratta da se sola; e tale che fosse atto a eccitare e tirare la sua attenzione e nella sola qualità astratta concentrarla. E fu di qui che io dedussi l'impossibilità che avea l'uomo d'inven-

tare da se stesso un linguaggio completo e accomodato a' suoi bisogni (vol. I, p. 213).

Il secondo brano, anch'esso in nota, rientra nella dimostrazione del linguaggio quale ragion sufficiente per l'astrazione, e accanto alla presa di distanza da Bonald, presenta una distinzione molto importante. «Avvertasi - scrive Rosmini - che qui non è mio intendimento d'investigare, se il linguaggio sia d'origine divina od umana; avvegnaché da quanto fin qui ho ragionato la cosa manifestamente apparisca»; ed ecco la nota:

È impossibile inventare il linguaggio da una mente umana che non possegga idee astratte; perciocché nessuno può mai dare un segno ad idee che non ha. Quindi è vera e bella la sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio, senza il linguaggio»; se non che conveniva restringerla entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee astratte riguarda, la quale è la più nobile, e formale parte delle lingue. Non essendo stata fatta questa divisione, Rousseau potè intravedere una verità rilevantissima, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig.

Bonald), data una rigorosa dimostrazione. Ma restringendo la proposizione di Rousseau alle idee, e vocaboli astratti, io credo che mi sia riuscito di dare quella dimostrazione rigorosa che può tor via ogni dubbio dalla questione; ed il lettore può ben da sé ravvisarla e comprenderla ne' principi che espongo in questo articolo sul linguaggio, e da ciò che ho scritto nel Saggio sui confini dell'umana ragione (vol. III,

p. 160-161).

La distinzione in realtà apre nel tessuto teorico della tesi una smagliatura le cui conseguenze vedremo poco oltre; e Manzoni avrebbe potuto ripetere che nelle 'condizioni necessarie per essere una lingua' non si danno gradi, nemmeno di astrazione: «si è o non si è una lingua».apparire fra le pieghe del discorso nell'Antropologia soprannaturale33, dove l'autore sta al gioco condillacchiano di immaginare la condizione umana primordiale, e scrive:

Supponiamo adunque l'uomo nelle pure condizioni naturali, non privo però degli stimoli esterni, senza i quali le sue potenze inerti e quasi raggomitolate in sé non avrebbero potuto avere nessuno sviluppamento; e fra questi stimoli esteriori uopo è che gli supponiamo data altresì la favella colla qual solo vien tratta all'azione la sua potenza di riflettere e d'astrarre, e quindi esce in atto la sua libertà ligata senza di ciò e nulla operante; la qual favella tale che gli bastasse, non potrebbe mai trovarla egli medesimo (vol. I, p.

323).

La fictio speculativa si prolunga - poco manzonianamente, in verità! - in una minuta discettazione intorno alla lingua primitiva dell'umanità, «argomento bellissimo» (vol. II, p.

28). Basato sull'ipotesi «che Iddio abbia il primo parlato all'uomo primitivo» (p. 27) insegnando in tal modo agli uomini ad astrarre, il gioco ha termine con la conclusione secondo la quale «la lingua primitiva è parte divina, e parte umana» (p. 28). Una conclusione conciliatoria e però rischiosa, ma che permette a Rosmini di non entrare in contraddizione con se stesso, perché se è vero che la parte umana è, come aveva scritto nel Nuovo saggio, la più nobile e formale', la parte divina è quella primaria e fondamentale.

Pur con qualche sfumatura, dunque, la posizione iniziale del saggio del 1827 è mantenuta lungo tutti gli anni Trenta, e la si ritrova immutata ancora al momento della riedizione come primo libro della Teodicea. Senonché di lì a poco tale posizione risulterà modificata in un modo assai significativo, se non capovolta34. Possiamo fare un primo tentativo di ricostruzione, se non di spiegazione.

Se torniamo ai due brani già citati della Teodicea e li rileggiamo con le correzioni apportate a mano dall'autore (praticamente le sole modifiche di contenuto in tutto il libro) su un'esemplare dell'edizione Pogliani del 1845, troviamo un ragionamento più articolato e in definitiva una tesi differente. Primo brano della Teodicea (le modifiche sono evidenziate in corsivo):

Erano necessarj all'uomo segni esterni a' quali la mente associasse e legasse le astrazioni: né egli poteva dargli a se stesso fin ch'era solo, ché per inventarli sarebbono state necessarie quelle astrazioni medesime, che, senza i vocaboli, egli non può, come dicevamo, possedere. E dato ancora che, aggiunta la sua compagna per le necessità del convivere, avessero i due coniugi trovati, con un solo attocomplesso, i segni e gli astratti; qual lungo tempo ci sarebbe bisognato ad arricchirsene in qualche copia? e con quella scelta che era necessaria pel progresso morale, e per elevare le loro menti alle cose invisibili? Dunque Iddio donò all'uomo una lingua, quel Maestro supremo gli insegnò l'uso d'alcune voci, nelle quali apparissero quasi sussistenti all'esterno le astrazioni insieme con esse contemplate;

queste voci poterono chiamare a sé l'attenzione dell'umana mente (102).

Secondo brano della Teodicea:

Pare adunque che l'ispirato scrittore voglia farci intendere con tali parole, come l'invenzione del favellare non poteva esser opera proporzionata alle brevi forze dell'uomo, giacché richiedeva nell'inventore universale sapienza. Di vero, egli è tutt'altra cosa usare della favella dopo averla apparata, ed inventarla senza che alcuno insegnata ce l'abbia. Chi avesse dovuto inventare l'umana favella, non avrebbe forse incontrato insuperabile difficoltà nella nominazione delle cose sensibili e sussistenti; ma un passo difficilissimo, come dicevamo, avrebbe dovuto trovare nel dare le voci agli astratti, ché gli astratti non li percepiva, non li sentiva né in se stessi, né in qualche loro segno che a lui si mostrasse (110).

Come si vede, la conferma dell'origine divina si accompagna all'ammissione di una pos-sibile, seppur poco probabile, formazione umana. Resta fermo che ai segni-parole l'uomo non può pervenire con le sole proprie risorse né da solo (entrambe le condizioni sono importanti); ma ai fini dell'innesco della conoscenza, oltre all'intervento esterno da parte di Dio mediante il dono dei primi segni-parole, in linea di principio è sostenibile l'ipotesi che l'uomo acquisisca i segni-parole in società coi suoi simili mediante degli atti unitari complessi semiotico-astrattivi.

I due brani tratti dal Nuovo saggio, rimasti inalterati lungo le prime tre edizioni, subiscono nell'edizione definitiva del 1851-52 un adattamento analogo, e anzi più marcato, per apprezzare il quale il solo corsivo non è sufficiente ma bisogna leggere insieme le due versioni. Primo brano del Nuovo saggio:

Ora l'uomo ha bisogno di essere aiutato a ciò da qualche segno esterno (lingua) che segni la cosa astratta da se sola; e tale che sia atto a fissare la sua attenzione, e nella sola qualità astratta concentrarla. Di qui l'impossibilità che l'uomo solitario inventi da se stesso col suo puro pensiero un linguaggio, che a ciò gli serva (§ 154 nota 1).

Nel secondo brano del Nuovo saggio cambia anche il testo a cui la nota è apposta: «Avvertasi, che qui non è mio intendimento d'entrare nella questione del fatto, se il linguaggio sia d'origine divina od umana; e né pure nella questione filosofica della possibilità»; ed ecco la nuova nota:

È impossibile inventare il linguaggio ad una mente umana prima che posseda delle idee astratte; ché nes-suno può dare un segno a idee che non ha. Quindi la sentenza di Rousseau, «che non si poteva inventare il linguaggio senza il linguaggio» si deve restringere entro i confini di quella parte di linguaggio, che le idee astratte riguarda. Non essendo stata fatta questa distinzione, il Rousseau potè intravedere una verità, ma non dimostrarla; né a me è noto che alcuno n'abbia, dopo di lui (né pure il sig. Bonald), data una rigorosa dimostrazione. Restringendo dunque la proposizione del Rousseau alle idee, e vocaboli astratti, ell'ha un fondo di verità. In primo luogo non si può inventare il linguaggio da alcun uomo segregato dalla società de suoi simili, nel quale stato né egli ha l'occasione di comunicare i suoi bisogni e pensieri agli altri, né gli altri possono comunicar i loro. Ponendo poi un individuo umano coesistente con altri uomini privi di linguaggio, due questioni si possono fare. La prima, se quegli uomini potrebbero inventare un linguaggio prima d'aver formate alcune astrazioni, o potrebbero formare queste astrazioni prima d'avere inventato qualche linguaggio o de' segni, e rispondiamo negativamente. La seconda, «se potrebbero fare queste due cose contemporaneamente, cioè trovare de' segni e coll'atto stesso formare delle astrazioni», e questo non lo crediamo impossibile (§ 523 nota 1).

Una considerazione più attenta della natura costitutivamente sociale e altresì sistematica del linguaggio ha condotto Rosmini a modificare il proprio convincimento iniziale: non si tratta più di singoli individui alle prese con singoli segni-parole, bensì di comunità che danno forma a un sistema linguistico. Scrive infatti nell'Antropologia soprannaturale: «Se prendiamo una parola isolatamente dall'altra non mostra veruna similitudine coll'idea, che per essa si esprime [...]. Ma all'incontro pigliando l'intiero discorso, cioè una serie di parole avvedutamente ordinate, trovasi tosto una corrispondenza colla serie de' pensieri [...]. Egli è per questo, che le lingue sono sistemi di segni così eccellenti che possono esprimere tutte le cose» (vol. Il, p. 22-23).

Può aver contribuito al ripensamento in questa direzione lo studio attento delle prime produzioni linguistiche della nipotina Marietta, consegnato nelle analisi e riflessioni - semplicemente straordinarie - del paragrafo 162 del Rinnovamento della filosofia35. Ma non escluderei un'eco teorica dell'insistenza manzoniana sul concetto di 'interezza' delle lingue; la si sente risuonare ancora, per esempio, nella definizione di lingua data nella tarda Logica:

«un sistema di segni vocali o vocaboli stabiliti da una società umana, adeguato a significare i pensieri che i membri di quella società si vogliono comunicare reciprocamente»36.6. Con il brano dall'edizione definitiva del Nuovo saggio siamo già alla posizione assunta e sostenuta nella Psicologia, che del resto la precede 37. Sappiamo già che la funzione dei segni è quella di «offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l'attenzione», permettendo in tal modo la formazione delle idee astratte (1379). Ora Rosmini è interessato a scoprire come questo avvenga, a vedere cioè «con qual progresso e fin dove l'uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio» (1460).

Il momento iniziale è dato dall'istinto, che spinge l'uomo ad esercitare le proprie facoltà vocali naturali e, mediante esse, a produrre dei suoni indipendentemente dalla loro capacità significativa, la cui scoperta avviene in un secondo momento; «questo - osserva Rosmini - è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l'astrazione propriamente detta non c'entra ancora» (1460). Che tipo di parole sono queste prime emissioni verbali umane?

Riprendendo la tesi lungamente sostenuta nel Nuovo saggio, Rosmini ripete che la loro natura è di nomi comuni, salvo a precisare però che vengono u s a ti come nomi propri: una concessione di non poco conto all'opinione che Stewart aveva tratto da Smith, precedentemente avversata. Da qui la ricostruzione, al tempo stesso filogenetica e ontogenetica, di come «un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti » di una stessa classe, un tipo di nomi che andrebbero definiti sostantivi qualificati anziché aggettivi sostantivati (1462).

L'attribuzione dei nomi comuni però non comporta ancora l'attività eminentemente intellettuale dell'astrazione, che è successiva e richiede altre condizioni. Per illustrare le quali, Rosmini esplicita e spiega il proprio ripensamento sull'origine del linguaggio:

Noi abbiamo altrove espressa l'opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua. Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità. È indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l'avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua [...]. Ma trattandosi d'una semplice possibilità metafisica, se l'umana famiglia (non l'uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l'umanointendimento (1471).

I «pochissimi astratti (forse di divina origine)» (1471) rinvenibili nelle lingue antiche non esimono insomma dal domandarsi come «l'umana famiglia potesse giungere d a s e stess a agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi» (1472; spaziato mio). La risposta di Rosmini consiste sostanzialmente nel fare appello al meccanismo cognitivo elementare della metafora a base metonimica: avendo già gli uomini coniato un nome per il braccio in quanto arto anatomico, per nominare la proprietà della forza che distingue quell'arto dagli altri, invece di inventare appositamente un nuovo nome, adoperano la designazione primitiva estendendone il significato. Un'illustrazione nobile di questo meccanismo semiotico la si trova nel commento al prologo del vangelo di Giovanni:

Pare, che primieramente gli uomini abbiano nominata la parola esterna e sonante come quella che cade sotto i sensi. Più tardi si sono fermati a considerare che la parola esterna non era che un segno che esprimeva una cosa interna, un oggetto pronunciato dalla mente. Volendo dunque nominare questa cosa interna significata in vece di imporle un nome proprio, vi adattarono lo stesso vocabolo che significava la parola esterna, lasciando, che il contesto del discorso chiarisse quando a quel vocabolo convenisse dare il significato antico di parola, suono proferito cogli organi della voce a significare; e quando gli si convenisse dare il significato nuovo della cosa interna nello spirito colla parola significata. Questa maniera di estendere alle parole vecchie il significato di mano in mano che gli uomini estendono le loro cognizioni, è più comoda che inventare vocaboli nuovi, perché esigge uno sforzo di mente minore e adattato a tutta la comunità degli uomini, oltrediché le idee o cognizioni nuove ritengono in tal modo la relazione con le idee o cognizioni precedenti onde furono derivate, e così meglio si conoscono, e più agevolmente si prestano al ragionamento; giacché i nessi fra esse e le notizie più antiche e più famigliari sono pronti. Solamente più tardi, quando la mente è già sviluppata, e non ha più bisogno di tali dandine, ella inventa parole nuove e proprie per quelle cognizioni che non le sono più nuove; ovvero le parole vecchie da comuni diventano proprie perdendo il primitivo significato, e ritenendo solo il nuovo 38.

Ma restiamo sul testo della Psicologia, che nel procedimento descritto vede la chiave naturale per poter accedere alle astrazioni: «Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell'astratto» (1472). Giunge così a termine l'indagine sul modo in cui «comincia a formarsi natur al m ente una lingua» (1460; spaziato mio):

Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll'aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura,quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane n a tu -

ral ment e spiegato (1473; spaziato mio).

Nessun ostacolo logico dunque impedisce di ritenere la lingua un prodotto umano, inventato al doppio fine, cognitivo e comunicativo, di dare slancio al pensiero individuale e di socializzarne le acquisizioni: «Nel che - conclude Rosmini - è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell'uomo l'istinto, [...] e di più gliene ha egli stesso comunicati i primi elementi» (1532).

La conseguenza del nuovo atteggiamento di Rosmini è che il linguaggio sparisce progressivamente dal suo orizzonte speculativo. Anche a non volersi spingere così oltre nella spiegazione del fatto, il fatto resta: non c'è paragone tra la ricchezza e l'importanza delle riflessioni semiotico-linguistiche disseminate nelle sue opere fino alla Psicologia, e — se ho visto bene - la scarsità di spunti, pur interessanti, presenti al riguardo nell'immensa Teo-sofia39, che lo impegnò negli ultimi anni.

7. Torniamo ora per finire allo scambio epistolare del 1831 da cui siamo partiti. La mia convinzione è che, dopo il silenzio seguito, non sia stato Manzoni a convertirsi all'idea dell'essere, della quale poteva già essere ben persuaso, salvo ad esitare davanti alla 'question di cominciamento'; è stato piuttosto Rosmini - messo in allarme, grazie ai dubbi di Manzoni, circa il possibile esito pansemiotico della propria posizione gnoseologica (evitato in maniera del tutto estrinseca mediante il ricorso all'origine divina del linguaggio), che in sostanza avrebbe identificato pensiero e linguaggio compromettendo la ricerca sulle idee la cui origine, risolvendosi linguisticamente, non avrebbe più costituito un problema - a ridurre la portata cognitiva del linguaggio esteriorizzandolo e tenendolo sotto il controllo della ragione in modo da poterne postulare l'origine umana, sia pure in uno con la capacità di astrazione.

Non per niente il ruolo del linguaggio ai fini della formazione delle idee astratte passa dalla necessità nel Nuovo saggio («necessità del linguaggio per muovere la nostra intelligenza a formare gli astratti»: nella I ed. vol. III p. 145; nell'ultima in testa al § 515) alla utilità nella Psicologia («fu da noi provata l'utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti»: 1379), per di più con la restrizione: «utilità che in altro non consiste se non..». E pur considerando che questo paragrafo della Psicologia iniziadistinguendo il problema della pensabilità di un'idea dal problema della sua formazione, la sua conclusione sull'errore dei nominalisti consistente nel ritenere che le idee astratte non siano «né possibili a formarsi, né pensabili senza i segni del linguaggio» è in palese contrasto con l'enunciazione netta di Teodicea 100 secondo la quale «senza i segni non potea neppure con c e pir e [che qui equivale a formare] gli astratti»; un contrasto non sanato e forse nemmeno rilevato, che del resto si mantiene nella stessa Psicologia: «gli astratti sono pensabili per se stessi senza bisogno dei segni» (1380), e contra: «le astrazioni hanno bisogno di segni [...] per pensarsi» (1523). Rosmini passa così in qualche modo dalla coimplicazione di pensiero e linguaggio, o quanto meno da una loro stretta correlazione, alla strumentalità del secondo rispetto al primo, chiaramente attestata dalla Logica dove chiama i segni, o meglio i sistemi di segni, le gambe e anzi le stampelle o i trampoli del pensiero (885).

Per quanto riguarda specificamente il nostro tema, riprendendo i termini degli studi recenti di storia del pensiero linguistico moderno, possiamo dire che, dietro la spinta di Manzoni, Rosmini parrebbe convertirsi dal 'genetismo' alla 'storicità'40; ne potrebbe essere un indizio la progressiva presenza nelle sue pagine di diverse sfumature: l'insistenza sulla socialità quale fattore costitutivo dell'essere umano, l'accento sulla totalità strutturata del linguaggio, l'attenzione verso il funzionamento del linguaggio in atto.

Si tratta però di una conversione non perfettamente articolata. Il suo esito paradossale è infatti che nella Psicologia Rosmini finisce col pervenire, come s'è visto, a una tesi di sapore condillacchiano: il linguaggio nasce su base istintuale dai segni (vocali) naturali, che solo in un secondo momento si istituzionalizzano nella loro funzione semiotica (1460, e 1462 con applicazione all'ontogenesi); e Manzoni avrebbe poturo ripetergli la stessa postilla apposta a un passo di Condillac: «Si tratta proprio di sapere come le grida possono diventare segni» (Postille 15) 41. Ciò facendo Rosmini capovolge anche, di fatto - malgrado la distinzione fra

'natura' e 'uso' di essi -, la successione dai nomi comuni ai nomi propri originariamente sostenuta nel Nuovo saggio. Pur mantenendo l'opinione che i «pochissimi astratti» delle lingue antiche siano «f o rs e di divina origine» (1471), spiega l'astrazione come un processo di metaforizzazione di metonimie dal referente fisico (1472): ecco «n a tu ralm ent e spiegato» il «cammino della mente» (1473). Questa attitudine appare palese nella conclusione già citata di Psicologia 1532, dove cerca di salvare l'unione di entrambe le tesi genetiche asserendo che l'origine del linguaggio è umana e che Dio ha assistito l'invenzi on e immettendone l'istinto e fornendone «i primi elementi».

In conclusione, mentre la propensione storica orientata sui 'fatti' linguistici, al fondo,faceva negare a Manzoni non tanto e non solo l'origine umana del linguaggio ma in primo luogo la legittimità stessa di una questione di origine a proposito del linguaggio, l'impulso alla confezione di un 'sistema' filosofico complessivo fece passare Rosmini da una tesi ad un'altra ma sempre all'interno di un'ottica di ricostruzione genetica originaria delle

'proprietà' del linguaggio. Ma è la prima prospettiva quella che nella svolta dal genetismo del

Settecento alla storicità dell'Ottocento si è rivelata vincente e ha dato nuovo impulso allo sviluppo delle scienze del linguaggio.

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