Baroncelli:
l’implicatura conversazionale della compassione – filosofia ligure – filosofia
italica – scuola di Savona -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Savona). Filosofo
ligure. Filosofo italiano. Savona, Liguria. Grice: “I
like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda Platone,” surely he only
requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is ‘calco’ of ‘sumpatheia’
and therefore at the core of my balance between conversational egoism and
conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo Nato e cresciuto a Savona, si laurea in
filosofia all'Genova con relatore Romeo Crippa, di cui diventa assistente. Insegna Storia dell'età dell'Illuminismo
all'Trieste. E di nuovo a Genova, dove
tiene la cattedra di Storia della filosofia moderna. Viventa ordinario all'Università della
Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di
Filosofia morale. Un grave incidente motociclistico durante una vacanza in
Turchia lo allontana per qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca,
attività che riprende all'inizio degli anni novanta come visiting scholar
all'Madison, nel Wisconsin. Nel
frattempo collabora con molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro
Montanelli, Village, Il diario della settimana, il Secolo XIX. Tornato a Genova, diviene molto amico del
filosofo Franco Manti, segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica.
Riprende la vita accademica per allontanarsene a causa della malattia. Il pensiero di B. ripropose un'etica
planetaria alla luce del mondo globalizzato, invitando a riconsiderare i valori
e le identità storiche dei gruppi umani occidentali riorientandoli a favore di
un sistema di valori e di identità individuali e culturali di tipo mobile e
pluralistico. Ha qualificato le varie culture come sistemi aperti in grado
comunicare e di essere traslati o esportati ovunque nel mondo, nella
convinzione che gli esseri umani appartengano tutti alla stessa specie e siano
tutti abitanti dello stesso pianeta.
Pensiero e la ricerca Profondamente influenzato da Hume e dallo
scetticismo inglese, si è occupato in prevalenza di temi etico-politici come il
razzismo, la tolleranza, il liberalismo e il politically correct. Altre saggi: “Un inquietante filosofo
perbene: saggio su Davide Home” (La Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà,
idee leggi e progetti nell'Europa moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il
razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù del "politically correct",
Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli Stati Uniti Perché gli americani
votano Bush e se ne vantano” Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo
Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione"
a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto
divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il
riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica, "Come scrivere sulla tolleranza" in
Materiali per una storia della cultura giuridica. Note Franco Manti per la fondazione Pubblicità
progresso, Manti, Diversity, Otherness and the Politics of Recognition, in
Nordicum-Mediterraneum, 14, n. 2,
Akureyri,, Ospitato su archive.is. Citazione: To B., a friend I met only too
late, / whose lively intellect, critical sense, friendliness / and clever irony
I just had time to appreciate. Info dalla pagina del
Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento
interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI
Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia
Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Bertone,
Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello scrittore Morchio
e dell'amico Miggino. Sezione speciale della rivista Nordicum-Mediterraneum
dedicata a B.. Pagina di Wordpress B. con alcuni testi inediti. Flavio
Baroncelli. Keywords: compassione, filosofia ligure, Home, etica, ragione,
giustizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Barone:
l’impliacatura conversazionale del linguaggio – scuola di Torino – filosofia torinese
– filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo
torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino,
Piemonte. Grice: “I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in
Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to
describe philosophy! But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum.,
and I doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore,
his views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously
titled ‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc.
have little to do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946
come allievo di Guzzo e Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di Filosofia
teoretica all'Pisa, dove fu preside della facoltà di Lettere e filosofia, fu
poi docente di Filosofia della scienza nonché direttore dell'Istituto di
Filosofia nella stessa università. Insegnò anche Filosofia morale alla Scuola
Normale Superiore di Pisa. Si dedicò soprattutto a studi di storia e filosofia
della scienza, pubblicando numerosi libri. Curò l'edizione italiana delle opere
di Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino,
della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia
Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del Centro del C.N.R. di studi del
pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi
della scienza. Pensiero Particolarmente
interessato alla filosofia di Nicolai Hartmann, B. ne trasse spunto per un
confronto tra la dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione
filosofica si sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della
filosofia della scienza. Come pubblicista
affrontò temi etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di
vista della ideologia liberale e liberista.
Il tema principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della
scienza e la storia della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima
pubblicazione in Italia di una monografia sulla filosofia
neopositivistica. Il suo pensiero si
contraddistingue per lo stretto rapporto tra epistemologia e storiografia della
scienza, settore, questo, in cui Barone ha preso in particolare considerazione
il tema della nascita dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e
Galilei. Intorno agli anni sessanta,
inoltre, Barone si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi
culturali, epistemologici e filosofici della nascente informatica. Altre saggi: “L'ontologia di Nicolai
Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di
Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il
neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia:
etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica
formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del
Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica
trascendentale, I, Da Leibniz a Kant,
Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia,
Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia,
Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo
e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo
nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e
teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola
Copernico, Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini filosofiche della scienza,
Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria
ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo
rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione
dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz,
Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note Francesco Barone, Neopositivismo, in
Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani,
Barone, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Sito ufficiale, su
francescobarone. Francesco Barone, su
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. B., in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Francesco
Barone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere B., su openMLOL, Horizons Unlimited
srl. Opere di Francesco Barone,. David
Hume, il filosofo della non certezza di B., La Stampa, Addio a B. il filosofo
che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della Sera,
Archivio storico. Francesco Barone. Keywords: linguaggio, assiologia, la
semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica matematica, logica
formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a Torino, simbolo,
logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed ontologia, mondo
e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool
Library. Barone.
Grice e Barone: all’isola
-- l’implicatura convrsazionale della dialettica fiorentina – scuola d’Alcamo –
filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Alcamo, Trapani, Sicilia. Grice: “I like Barone;
at last a priest that takes Italian humanism SERIOUSLY!” -- Dopo avere finito gli studi teologici nel
Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato sacerdote Frequenta, quindi, la Pontificia Università
Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia trattando la tesi dal
titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola. Ebbe subito la nomina di Canonico della
Collegiata di Alcamo, poi quella di Vicario foraneo e Visitatore dei Monasteri;
fu nominato anche Canonico Onorario
della cattedrale di Trapani. Nel mese di
novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua
Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara del
Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto
Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di
Alcamo. Per diversi anni, è stato anche
Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato
membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il
Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova
parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo
biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo
Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano;
ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi
"Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli
Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione
italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il
Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita;
ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della
Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa
della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più
bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche;
ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito
alcamese; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre dei
Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili;
tip. Bosco, Alcamo). Note
trapaninostra,// trapaninostra /libri/ salvatoremugno Poesia_narrativa_saggistica
/Poesia_narrativa_e_saggistica_ in_provincia_di_Trapani_02.pdf Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di
Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, Papa, Memorie storiche del
clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, trapaninostra,//trapaninostra/
libri/s alvatoremugno/ Poesia narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_ e_saggistica
_in_ provincia_di_Trapani_ Vincenzo Regina Tommaso Papa Identities -Biografie Biografie Cattolicesimo Cattolicesimo Letteratura
Letteratura Categorie: Presbiteri italiani Insegnanti italiani Filosofi
italiani Professore Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone. Keywords: dialettica
fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico, pichiano, pichismo, uomo, degno, la
degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Barsio:
implicatura conversazionale dialettica – scuola di Mantova – filosofia lombarda
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo
lombardo. Filosofo italiano. Mantova, Lombardia. Grice: “I like Barsio – he
reminds me of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me – and an American! –
as tutorial fellow in philosophy at St. John’s, and dedicating his life to
Witters – So when reminiscing, in my “Predilections and prejudices” about them
years, I said, “God forbid that you dedicate your life to the oeuvre of a minor
philosopher like Witters – it’s good to introject into a philosopher’s shoes as
you attain to grasp the longitudinal unity of philosophy, but look for a
non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically minor philosopher – in that,
he never had to grade – I always hated grading and seldom did it! – since he
lived under the Gonzagas at Mantova – and he just phiosophised to the sake of
the pleasure he derived from it! My favourite is his elegy to his enemy,
Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is fantastical, but possibly
true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano, frequentò le corti del marchese
Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella d'Este, alla quale pare avesse
dedicato il poemetto Silvia e la corte del marchese di Castel Goffredo Aloisio
Gonzaga, al quale dedicò il poema latino Alba. Studia filosofia a Bologna.
Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri, Pamphilus; Alba, dedicato al
marchese Gonzaga, signore di Castel Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico
II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, Parma., su
books.google. Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di
scrittori italiani, Milano, Coniglio, I Gonzaga, Varese, B. in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. ICCU. B. su edit16 .iccu. Marsio. Vincenzo
Barsio. Barsio. Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio” –
The Swimming-Pool Library. Barsio.
Grice e Bartoli -- BARTOLI
search.gianpaolo --
Grice e Barzaghi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della scuola di
anagogia – scuola di Monza – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Monza). Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Monza,
Lombardia. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his “Compendio di storia
della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice: “Barzaghi is the
Italian Copleston – what is it with religious minds – cf. Kenny – that have
this inclination towards the longitudinal unity of philosophy?!” – Grice:
“Barzaghi just ignores the most prosperous period in Roman philosophy; not so
much Romolo, but whatever happened in Rome after that infamous ‘embassy’ of
Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene di Celesia, a
stoic!” -- Direttore della Scuola di
anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo di Bontadini e frate domenicano, è stato
l'interlocutore privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del
cristianesimo. Nella sua opera Oltre Dio, B. si interroga dapprima
sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il
credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la
vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la partecipazione
della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo occorrerà porsi dal
punto di vista di Dio, cioè dell’eterno. Secondo B., l’Essere assoluto «non può
essere inteso come qualcosa accanto ad altre cose, e conseguentemente diviene
il punto di vista rigoroso per l’ispezione del tutto. In questo senso, la
filosofia di Emanuele Severino, che si presenta come alternativa al teismo,
offre in realtà per B. il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore
dell’esistenza di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo
dell’opera, che evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è
eterna, e tale dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad
apparire, eternamente, anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –,
se tale apparire non permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia
coscienza, perché consta l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque
continuare ad apparire in modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di
Dio cui eternamente appaiono gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio,
cioè Dio, significa ammettere che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un
niente nel momento in cui non appare più determinatamente, individualmente. Questa
scienzachiamata nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia
dell’apparire infinito di cui parla Severino nei suoi scritti. Nel pensiero
barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista
dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione
teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere
metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella
stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da
poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione
filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno
sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé
l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.
Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto
l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la
proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo di individuare nella “dottrina
dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero d’Aquino.
L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi nel massimo della
complessità. Ma per compiere questa operazione di analisi, occorre esprimersi
attraverso l’analogia, «riflesso logico gnoseologico dell’ordine ontologico e mezzo
inventivo ed espressivo del conoscere, che acquisisce conseguentemente una
notevole importanza nel pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si
trova il centro della spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta
in modo simultaneo tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine,
l’agente che intende il fine, la forma implicata, e la materia che la deve
accogliere. E l’esemplare trascende la mera dimensione funzionalistica: in
quanto contiene tutto (compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato),
è una totalità, e possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza:
è «sottratto alla dipendenza e al dominio. In una frase, che sintetizza bene il
punto di vista anagogico della filosofia e della teologia di B.: «Dio,
conoscendo se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie
della propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p.
96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli
fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle
cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p.
98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza
aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in
tutto). Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe
Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le
posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia
severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli
organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il
filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino, in cui l’autore
cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un modo che
egli definirà più tardi voler essere quello con cui Aquino, filosofo e teologo
cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele,
filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di
reciproca conoscenza e stima. Severino dedica a B. un articolo sul Corriere
della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore del più
interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto cristiano da
cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo ateo definiva
“aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo di porsi come
casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di diradare, sull’esempio
di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso attraverso una ripulitura
dei concetti a partire dal punto di vista dell’eterno. Seguirono poi altri
dibattiti pubblici, come quello a Milano e quello a Bologna. Altre opere: “Metafisica
della cultura” (Bologna, ESD); “L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna,
ESD); “Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere,
Bologna, ESD); “Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano,
Bologna, ESD); “Philosophia. Il piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre
Dio, ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna,
Barghigiani); “Maestro Eckart, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il
Cristianesimo sub specie aeternitatis, Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi
di teologia anagogica, Siena, Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia,
Bologna, ESD); “Compendio di filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga.
Esercizi di filosofia, Bologna, ESD); “L’originario. La culla del mondo,
Bologna, ESD); “Il fondamento teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar,
Bologna, ESD); “La maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino,
Bologna, ESD); “Il Riflesso, Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna,
ESD); “Il bene comune secondo S.Tommaso d’Aquino, in “Communio” L’alterità tra mondo e Dio: la verità
dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto
di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele
Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della
mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline, La potenza obbedienziale dell’intelletto
agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione
teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G.
Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e
abbandono. Eckhart e Aquino: le due facce di un'unica metafisica, in C. Ciancio,
Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia epistemica, in R.
Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di Battista Mondin,
filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum di Anselmo
d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel Logos, in T.
Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma, Angelicum
University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed.
Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e
approfondimento, in G. Grandi L. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli,
Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una
rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità
tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in
“Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere
filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica
cristiana come estetica assoluta, in
Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia,
in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in
“Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della
ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi,
Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli
affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V.
Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press,
Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Aquino. Teoresi
e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana,
in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione fondativa, in S. Pinna D.
Riserbato Fenomeno & Fondamento.
Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano,
Ed. vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La
trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi
dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità dell’essente in teologia, in G.
GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura
Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in
“Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della musica di Bach. La
Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas”. Postorino,
La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di G.i... Data l'importanza dell'anagogia nel pensiero
di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura dell'omonima voce
sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani), nonché, sul versante teologico, la
voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica dell’Editrice
vaticana. RaiCultura: Dio e il concetto
filosofico di eternità del Tutto Dialogo
tra Severino e B. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza
religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Dionigi, I nomi divini
(testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,, II, 3. All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de
'La struttura originaria' (UniPa)
Apocalisse Cfr. B., Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia
anagogica, Bologna, ESD, Santiago María Ramírez op, De ordine placita quaedam
thomistica, Salamanca, San Esteban, Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di
teologia anagogica, Siena, Cantagalli,
UniPdL’eternità dell’essente
RaiScuola: Giuseppe Barzaghi. Dio e il concetto filosofico… Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi,
L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus
Thomas” Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa Dialogo Severino-Barzaghi a Milano Giornata di studio dello Studio filosofico
domenicano di Bologna RaiCultura.
Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su
raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su you tube.com. Giuseppe
Barzaghi. Keywords: scuola di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico,
anagogia, greco ‘anagogia’. Implicatura storica, la porta di velia, girgentu,
l’implicatura di milesso, il segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di
anagogia, Bologna, fidanza, Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata
greca a Roma, filosofia, la scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di
Leonzio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.
Barzaghi.
Grice e Barzellotti: la
ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Firenze). Filosofo fiorentino. Filosofo
toscano. Filosofo italiano. Firenze, Toscana. Grice: “The
good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he
pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality –
so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt
with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a
‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only
German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical
of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford
school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to
humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And
part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian
philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on
Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia. Allievo di ROVERE (si
veda) e di CONTI (si veda), entrambi filosofi spiritualisti, si professa poi
seguace del criticismo. Si interessa soprattutto alla storia della filosofia latina
con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e religiosa. Ha la
cattedra di filosofia morale a Pavia e Napoli. Divenne professore di storia
della filosofia latina a Roma. È ammesso ai Lincei. Nominato senatore del Regno
d'Italia. È iniziato in massoneria nella loggia Concordia di Firenze,
appartenente al Grande Oriente d'Italia.
Altre saggi: “La morale nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini);
“La rivoluzione italiana” (Firenze: Successori Le Monnier); “La nuova scuola
del Kant e la filosofia scientifica” (Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di
Arcidosso (detto il santo), Bologna: Zanichelli); “Monte Amiata e il suo profeta, Milano:
Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi psicologici” (Bologna:
Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna: Zanichelli); “Taine, Roma:
Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo: R. Sandron). Note Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi
Muratori, Erasmo ed., Roma, Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in Dizionario
biografico degli italiani, 7, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Barzellotti, in Enciclopedia Italiana,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Treccani Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.B. su siusa.archivi.beniculturali, Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. B. su
accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca. Opere di Giacomo Barzellotti, su open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di B., B., su Senatori d'Italia, Senato della
Repubblica. Filosofia Filosofo Filosofi
italiani Professore Firenze Piancastagnaio Accademici dei Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo
tentando, del movimento filosofico in Italia, rigidamente obbedisce alle leggi
di una storia della filosofia, alcuni filosofi, che rientrano nel nostro
quadro, ne andano certamente esclusi. Lo notammo a proposito di ROVERE (si
veda); e torna opportuno dichiararlo per B.. La prima legge della storia della
filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia
dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi. E però non
potranno far parte di essa gli spiriti che a questa concezione non abbiano
comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano
avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse
di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di
esservi pervenuto. B. pare invece che non abbia sentito il biso gno; e, ingegno
letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica piuttosto che nella
speculativa il vanto di scrittore: più accorto in ciò e sia detto a sua lode
del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu nè anche quel che
fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. B., invece, è stato uno degli
scrittori italiani più noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il
suo nome può dirsi a buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra
quelli di scrittori di cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi
pubblicati dallo Zanichelli: Santi, solitari e filosofi e Studi e Santi,
sol.efil., saggi psicologici, Bologna, Zanichelli, 2.a ediz., ritratti? A
questa popolarità egliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno;
e ha messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte
come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandone il valore. Ma nell'averlimessi intanto
da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna
letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi,
solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera
d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi
cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei
dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le
signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo
vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di
scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello
Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasia breve, la
prego,non più che dieci righe, perchè, quaggiù, vede,ha da seri vere anche
la mia nipotina ». Vale a dire: B. ha bensì aspirato ai posti
distinti dell'insegnamento filosofico. C'era avviato,era quella la sua car
riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore, fino alla cattedra di storia della
filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi
che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che
per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare
ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale.
La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta»
aquelladichigli venne sempre chiedendo a quale sistema egliaderisse; opposta
«appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da
quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la
dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma
sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la
scienza». Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente
filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella
confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della
filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In
realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma s'è
St. e ritr. sforzata di organizzarsi a sistema, per essere qualche cosa di
filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può esser pensiero senz'esser
uno. E lo stesso B. nota una volta che perfino il Kant,il grande avversario dei
sistemi,costrui anche lui la sua Critica in forma complicata ma strettamente
organata di sistema. E che questo orrore dei sistemi significhi, per B., non
negazione critica della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto
significasse), ma, a dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia,
negata nella sua universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari; loattesta,
non foss'altro, ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua
superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito
critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non
meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva .L'ideale delfilosofo, Helm
holtz (tante volte citato da B.): un fisico. Voltando, quindi, in effetti
le spalle alla filosofia, B. sente bene di non dover riuscire ostico ai nemici
della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le sue idee intorno a questo
punto della secolarizzazione delle menti, riescono molto interessanti e
istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la psicologia del filosofo. Tra
noi in Italia, oggi, lo so da lunga esperienza, solo a far balenare un momento
sul frontespizio d'un libro la testa di filosofia c'è da vedersi impietrar
davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di lettori s'eran chinate a
guardarlo. Di chi la colpa? Della filosofia o dei lettori? B. ha una gran
voglia di gettarla tutta addosso alla prima. Ma poichè una certa filosofia deve
credere di coltivarla anche lui, una filosofia invisibile perchè cela tasi
nelle scienze speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai
lettori, lamentando quell'abito come lo chiamo d'antipatia o di pigrizia
mentale? – che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più
alte e più complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico. Ma,
s'intende, il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito
meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il
gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto
una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle
nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano
i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito
tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che
per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna.
In Italia,
un lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e
dalla scienza contemporanea, è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza
d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso
con cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime
notizie di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di
Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra
noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la
filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non
voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che
poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente
contemporanea? La filosofia, per vivere la vita di questa mente
contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare
dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia avuto in Italia
negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello, secondo il
Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione
appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli
scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare
al loro pensiero oracoleggiante. Ma, che cosa è questo gergo e
quest'oracoleggiare se non la forma specifica della
filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo ai più, ma anche ai più culti,
quando la loro cultura non abbracci anche la filosofia; e la filosofia non
liquida o vaporante nella sua astratta universalità, ma solidae concreta nellasuccessione
progressiva delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata
ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e
il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non
distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del
grado spirituale proprio della filosofia? Intendiamoci: non già che il filosofo
debba scriver male. B. dice della Vita del VICO (si veda) che ha dal lato
letterario il difetto di tutti i libri del granfilosofo: è male scritta. E non è vero,com'è vero invece che è mal composta, oscura,involuta. Oscuro e
involuto rimase appunto gran parte del pensiero di VICO; e quindi l'oscurità e
l'involuzione della forma. Ma VICO (si veda) scrive benissimo, esprimendo con
efficacia potente d'immagini i Vedi lo scritto Il pessimismo filosofico
in Germania e ilproblema m o. rale dei nostri tempi, nella N. Antologia Dal
rinascimento al risorgimento, Palermo, Sandron. suoi concetti;
ma,s'intende,quando avevadei concetti: laddoveè certo, come lo stesso B. dice,
che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero, che è la
parte prima ed essenziale dello scrittore. In altri termini, egli non pervenne
al possesso completode'suoi concetti,parecchideiquali,enon i secondarii,
rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo
giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente
lavorìo intorno a una materia non veramente omogenea, tradistoriaedifilosofia. Vico
scrive male dove e in quanto pensa male; e questo è VICO che non conta
nella storia. Ma VICO (si veda) che conta, il filosofo vero e proprio è
uno scrittore sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia
non sono due muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito, che non sale alla
filosofia se non attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì
per primo Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra
disè.– Chiscrivemale, perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma
lo scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti
verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E
comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene
anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a
filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure
il gergo della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della
impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum
vulgus? Per B., invece,il filosofo può farsi leggere,se si contenta di
metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione, premessa ai Santi,
solitari e filosofi, lo dice chiaro: « lo vorrei, senz'aver l'aria di
presumer troppo,poter dire press'a poco quello che un amico mio diceva ai
lettori d'un giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti:
perdonate a questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni
costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie); perdonateglielaingrazia
di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare oviracconteràovi descriverà
come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche consiste quel po' di
filosofiadacuiil B. non s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che
quel che di più e di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii
scritti Santi. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa
parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere
propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i
giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora
B., per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei nostri
studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto come
filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore di
filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi
risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un
filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia
saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del
barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera
accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel
che B.i stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo,
niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di questa
specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori o
popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non
in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in
cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è
giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte
pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle
all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare
quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o sazia di sapere. Perchè,
s e h o detto che B. è u n artista più che un filosofo,non credo poi (se
mi è lecito proprio questa volta una digressione letteraria che possa dirsi un
artista finito, e che il suo capolavoro (Lazzaretti) siaun capolavororiuscito.
È ilmeglio riu scito di questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del
paesaggio e dell'anima popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il Barè
al di qua della filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione
morale e psicologica;è soprattutto opera d'arte. Dello scritto su Lazzaretti,
che può forse considerarsi come il capolavoro di B., il quale i nesso si propos
e ben sì di fare uno studio di psicologia religiosa,lo stesso autore dice che «
vorrebbe essere,se pure non pretende troppo, un'opera d'arte,ma senzadar nel
romanzo ».Vedi in questo fasc. l’art. Di Croce, B. e vissuto fanciullo, e
tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi annim. Ma anche lì
quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente pastoralee nell'ingenua
psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio
sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto religioso sulla cornice
dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa
descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti del Lazzaretti,e
individuare itipi de'suoi seguaci! L'azione, troppo povera,è una gita di
caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in disparte ad
almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una
colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche B.. Ma quale
parte? Egli titrova nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un
discepolo del Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto
caro di sapere « molti particolari intorno a David e alla vita che i suoi
seguaci avevano fatto con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro Il lettore,nemico
della filosofia, a cui B. s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa zione
dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con i
suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore civuolrappresentare. Difficile
impresa, certo;ma soloachi, come B., non avesse davvero il suo Filippo
rivelatore vivo e parlante nella fantasia; sibbene gli scritti del
Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da amici del luogo,le
deposizioni dei lazza r ettisti, e poi i volumi del Renan, e l e opere
dell’Hartmann e qualche fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino. B., che
pure ha scritto un bel saggio sulla sincerità nell'arte,in quel
punto della sua opera non si ricorda di quelle sue giustissime idee: e
dopo aver detto come inducesse Filippo a parlare,continua: « Mi rispose con un
leggero atto della testa che acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma
alla conversazione non ci fa assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i
lettori conoscano per:filo e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e
li conoscano, quello che più importa,in ordine alle loro cause e alle
condizioni sociali e morali de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente
nelquale ebbero origine ».E segue infatti il corpo,per dir così,dello studio
sul Lazzaretti: centoquaranta pagine, in cui Filippo e la colazione
sondimenticati.Poi l'autoreripiglia: Questecosemi andavano per la mente cinque
anni dopo la morte di David mentre co'miei Santi, amici stavo nel
piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro. Passato quel silenzio profondo
dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B.
non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella
colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della
fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle
140 pagine diroba! L'elemento descrittivo e drammatico resta affatto estraneo e
sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa
mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le
dichiarazioni esplicite dello scrittore, le sue preoccupazioni artistiche,
mentre egli realmente non si mette mai inunasituazione sinceramente artistica, sono
il maggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi
sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa
tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello
scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della
rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo
chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire » Appunto,la
esiguità del con tenuto spirituale di B. gli ha fatto scrivere molte e molte
pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a
cotesto difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale
umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che
l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto,
tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza
d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al
pensiero, che non si riesce afermare inuna formavivente. Tipica, per questo
riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli:La morale come scienza e come
fatto e il suo progresso nella storia. E valga per esempio questo squarcio,che
ne tolgo a caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a
titolo di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare
d'esser tenuto a farvi qui. Il modo in cui io concepisco la legge intima
dell'organismo e della vita delle scienze morali o,meglio,delle scienze che io
chiamo più propriamente umane,e quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il
centro, non è quello stesso che pare presupposto da quanti oggi
ponendo, Dal rinascimento al risorgimento, Rivista ital. di filos. del
FERRI, con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di
stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione ideale del
pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e
in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel
ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della
fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel
l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa;
stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente
riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo
impossibile però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione
approssimativa di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare
ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze
sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito
imperituro della filosofia, latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma
sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur troppo riscontro
alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della società. In questa
l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di
assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in
sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e
dell'organismo riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero
umano e sociale che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e
vario ne'secoli. E l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le
leggi, è simile a quello di un osservatore che da punti di prospettiva via
via sempre nuovi studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione
di un'immensa folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a
me pare che, tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in
tutta questa pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse
detto press'a poco così: le scienze morali si fondano, al pari delle scienze naturali,sul
l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le
verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza
incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali
spetta di seguire il processo storico del loro oggetto. Egli è che a B.,
mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre
cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e
lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue
professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineo kantiani, sono
semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad
apparire spirito moderno, del proprio tempo (come Nella N.
Antologia, Fil. Sc. Ital. egli ha detto di sè
tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua
mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant. Lo
scritto,che secondo lo stesso B., dovrebbe essere più significativo per questa
sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica
contemporanea in Germania ); e al quale egli infatti s'è riferito ogni volta
che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è
un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso,
che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E
quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni nostra
cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo di
determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter penetrare
sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni » non puoi
dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il pensiero di
quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti cogliere
ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della
conoscenza e la metafisica dopo Kant, lavoro prevalentemente storico, per cui
l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle
fonti originali. In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo
scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un neokantiano
vero non può non far apparire i suoi criterii filosofici;
e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che
l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant)
della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione
idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito.
Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come
qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera
sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai
riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e
idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione: un
pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte. Al
Barzellotti il partito di superare idealisticamentela Critica, come fece Fichte,
dopo l'Enesidemo, pare ogni giorno più, non che consigliato, imposto
inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant
alle loro ultime conseguenze». Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non
con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto; sibbene
con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore
assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel
benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra
che sia affare che tocchi l'animo di B.: il quale potrà dirsi a sua voglia
neokantiano; ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il
problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche il platonico, benchè
all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si accostasse ne'suoi scritti
gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle dottrine filosofiche nei
libri di CICERONE, in cui si vede ancora lo scolaro di CONTI edi T. Mamiani
ROVERE. Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo della Filosofia
delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei compilatori
ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le letterature
filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I collaboratori di
quella Rivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione; anzi varii tra
di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani; ma si
raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di quel
moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una inerzia
intellettuale di più che due secoli. Anche al B., insomma,piaceva di essere un
filosofo delle scuole italiane,insieme col Mamianielasuaonrevolgente. Anche
aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della scuola hegeliana (di Napoli) apparirebbe
maggiore allo storico imparziale, se essa avesse tenuto più conto delle
disposizioni naturali e tradizionali dello spirito italiano ». Egli dunque si
mise nella schiera del Mamiani; e io non potevo staccarnelo, non avendo
potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina filosofica sua, che ne lo
separasse. Vedi specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. La
filosofia in Italia, nella N. Antologia. Nella Rivista difilos,scientifica. Cosi
nel libro sul Taine qui appresso cit., dirà sempre: « La dot trina idealistica
chefa del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici
dalle sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza,
venuta a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del
Kant.Vedi poi l'articolo su L'idealismo di Schopenh. e la sua dottrina della
percezione, nella Fil. delle sc.ital.; la cui conclusione favorevole ai
filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi, a u n tempo, ideali ed
empirici, subbiettivi e obiettiv i, hanno il loro essere e la loro legge
così nel pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non
vedocomepossaacc larsiconl'idealismo berkeleiano! Masipuòpar lare di
contraddizione? Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE. Cfr. La morale
come scienza e come fatto, Riv. ital. di filos., e la pref. ai Santi,p.xxi
n. Nella prolusione con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale
universitario, Le condizioni presenti
della filosofia e il problema della morale, puoi ravvisare tutto lo scrittore.
Ivi più schietta la professione di fede neo-critica: l'idealismo da Fichte a
Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni verso da un sol punto,
con un solo principio assoluto,ma di avere altresì dimenticato « quello che le
aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i fatti senza le idee sono
ciechi,queste alla lor volta, non cimentate coll'esperienza, riescon vuote e
ingannevoli » (tra vestimento del genuino pensiero kantiano e disconoscimento
del genuino pensiero hegeliano); la riflessione filosofica definita per
artifizio; approvato- comegià nella Morale della filosofia positiva l'indirizzo
psicologico-sperimentale dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto
buon viso alla loro teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede
un kantismo ricondotto addietro fino a Berkeley; dato corpo in certo modo
a quella specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito, e a
cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando
di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo; rifatta un'altra volta
la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale inglese,per
conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello che pure
era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di un
preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di
potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto,
superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di
tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede,
esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti
e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri
scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra
le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente
umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e
delle loro leggi. Nien t'altro che dati ! Non certo un'assoluta disperazione del
vero, ma una fede assai condizionata nel valore di quelle forme del vero che la
mente umana accoglie in sè successivamente »; un « abito di mente critica
inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o quasi mai in
una conchiusione, che rifà di continuo i proprii convincimenti ».
Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice della verità.
E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di
questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende
mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non
c'è l'anima di B.. Di questa ricerca egli non vede se non una vita
vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto a
pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi
convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può
prendere il luogo delle credenze religiose. B. non dice propriamente perchè, e
gira attorno a questo problema,che è dei più delicati circa il valore della
filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo spirito dello
scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano il risultato del
ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle azioni « dal
cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa immediata, da
un che in somma non ragionato, m a sentito e intuito ». Contro chi cred e,
come Renan, che possa la scienza un giorno trasformare e governare tutta
la vita,bisogna notare che « delle due forme di conoscenza ond'è capace la
nostra mente, la concreta e diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla
riflessa infiniti vantaggi nella pratica della vita. Se non che,tale appunto
quale è, ottimo istrumento e guida all'azione, la conoscenza intuitiva ha in sè
questo di più specialmente proprio e suo e d'opposto all'indole del sapere
scientifico; appunto perchè concreta, particolare e attinta dalla viva
esperienza e quasi dal contatto delle cose e degli uomini, essa è tutta
individuale, e per ciò incomunicabile:più che vera e propria cognizione,
potrebbe dirsi un certo tatto finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha
in sè di più intimo e d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una
vita inseparabile da quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua
propria, riesce non meno individuale e incomunicabile di quello che sia
l'intuito, l'arte, l'esperienza immediata,la convinzione istintiva. Quindi l'inefficacia
della scienza; quindi il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano
di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla
scienza, B. non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza
personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza
sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può
cacciar di nido la religione. Se la metafisica, l'alta veduta speculativa
investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è
un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans
l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il
più potente e il più vero è l'Arte. Essa infatti penetra,per dir così,giù sino
al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come
falascienza, soloi l profilo esterno,leleggigenerali quantitative,ma ce
n'esprime l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali,
le potenze originarie e germinali » E al Taine tributa la gran lode di aver
avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi
generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito
umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che
intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al
l'astrazione. E l'autore continua: « Qui sta con buona pace della pedanteria togata
di tanti che oggi si chiamano dotti– la superiorità dell'Arte,se siagrande
e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l a vita, il carattere e
i sentimenti umani. Si può esser certi infatti che nessuno specialista, nessuno
scienziato nello stretto senso della parola,arriverà mai a scuotere una di
quelle grandi verità della coscienza e dell'ordine morale, che finora sono
state trovate tutte dai fondatori di religioni, dai metafisici sommi –
artisti del pensieroessipure— daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo
degl'indotti e dei dotti chiama uomini non p o sitivi Taine, Roma, Loescher E
così ci accostiamo al po'di filosofia di B.: a quel po'almeno, che è la nota
metafisica vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota
suona spesso negli scritti di B., benchè non sia che una nota. La religione,dice
in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento, è qualcosa
di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro spirito,ad altre
forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità religiose venirci
dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine affatto diverso da
quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni della ragione. E nello
studio La giovinezza e la prima educazione di A. Schopenhauer e di Leopardi: «
L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto più
nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non nella
testa » Quindi quel sentimento,che in uno scritto,anche precedente,sullo stesso
Schopenhauer, è detto « ormai cessato da un pezzo in Germania; ma dura
tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni paese.: quello del bisogno che
tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi hanno di stringersi in più intima
armonia colla natura e colla realtà. Questo estetismo o misticismo estetizzante
venne al B. dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi
insistenti? Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo, che è uno
scetticismo ingenuo, appena larvato. Ma visi riconnette nel sensoche,
dimostrandoci il temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua
naturale avversione alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare
appunto la tendenza naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma
dimostrativa e sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a una
critica gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta
sempre una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii di B., quando egli
trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è
un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia
trovato la sua strada quando ha comin ciatoa scrivere I suo studiieritrattiesaggi
psicologici, intorno a scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non
ha certo teorizzato sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa,
cercando il concreto, l'individuum ineffabile, con l'intuizione del Dal
rinasc. al risorg. Santi. - l'artista,
vedendo, come egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta
opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai
sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta la filosofia
all'arte, cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma
illavoro mentale di B. non mira al di là della rappresentazione individuale del
concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a unireilpiùpossibile
egli dice l'arte alla scienza » e provarsi a ritrovare sui modelli
vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose
sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la
scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere
solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera. Da Agostino al
Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo
filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del
rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri
uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella
letteratura, B. dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia raccolto tutte
le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici di psicologia,
cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla
cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale del pensiero
speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini ed acute principalmente
sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del popolo italiano. Se
incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a toccare il
segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il mio giudizio,
direi che per sif fatte indagini di storia psicologica a B. manca,per otte nere
la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che forma davvero lo
storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della individualità; la
quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di tutto il centro
vitale del suo organismo; laddove B. gira troppo con considerazioni e
divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati morali presi a
studiare. E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta conoscenza
dei particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi negl'individui
vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato cercando. Santi. Di
questa sua veduta estetizzante dello spirito umano bisogna ricordarsi per
intendere nel loro genuino significato i motivi della comunicazione fatta dal B.
intorno al metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al
congresso romano di scienze storiche: contro la quale insorse il vecchio Lasson
in nome della universalità della ragione e della scienza. Pel B. la
filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di una
nazione o di un'altra, quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta
attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli
abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo
dilui. E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non
tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un
patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la
realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo
spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo
pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua
filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale
ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal B. disconosciuta, per quel
suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E poichè
l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei conferma
ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli
vede i pensatori, e non vede il pensiero; e però non vede n è anche veramente
i pensatori. Ne son prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e
sul Kant. Ma B. è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e
morale italiana? Io non credo. Non è stato un filosofo, e neanche un artista
riuscito. Ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e
molti cuori intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è
stato un lucido specchio di molta parte della cultura filosofica straniera
contemporanea; ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai
pedanteschi filosofanti italiani degli ultimi tempi. Di alcuni criteri
direttivi dell'odierno concetto della storia, che restano tuttora da applicare
pienamente e rigorosamente alla storia della filosofia, massime di quel periodo
che va dal Rinascimento a Kant, negl’Atti del Congr. intern. disc. stor. (Roma). Fra
i più malagevoli ufficj della critica istorica è per certo il determinare come
e quanto contribuisca l'ingegno di ciascun popolo alla sua grandezza
intellettuale e civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi
maggiori, o alla civiltà delle nazioni contemporanee; questione ardua, e più
che alla storia appartenente alla filosofia, perchè risguarda una legge intima
ed arcana della natura, onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda
l'operare e il patire, il conservare e il produrre, la reverenza alle
tradizioni e la libertà dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d’un tale
esame, la quale cresce a misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in
cui fanno difetto i documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia,
sono dovuti i giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla
filosofia de’ romani -- giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole, e
avvalorati dal quasi comune consentimento, negano del tutto o quasi del tutto
indole nuova ed originale alle manifestazioni dell'INGEGNO LATINO. Gl’argomenti
che si allegano per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e
perchè assai noti nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti [Questa
ultima affermazione tanto più è conforme alla storia, in quanto, sebbene la
maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo
al senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti
filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la
decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e
trasmesso nei principii dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dottrine
della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori] concordi nel sostenere
che ai Romani, poco atti sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e di stolti
per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del dominare e
dall'esercizio delle armi, e finalmente abbagliati dallo splendore della
civiltà greca, manca una libera disposizione a ritrarre e a creare il vero ed
il bello negl’esercizj della scienza e dell'arte. Degerando, Brucker,
Tennemann, Ritter, Kuehner ed altri. Ai quali argomenti quando per sè non
rispondesse abbastanza la ragione istorica, la quale vieta potersi sempre
dedurre da ciò, che un popolo fa in certe condizioni di tempi e di civiltà,
quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare. Se non mostrasse
il contrario la scuola dei giureconsulti, che dalla coscienza del genere umano
e dalle forme logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del
gius costitutrice delle nazioni europee, se l’ “Eneide” emula all'Iliade, LUCREZIO
maggiore d'Esiodo, la Commedia di Plauto, le storie di Livio, di Sallustio, di
Tacito, la satira togata di Giovenale e di Persio, l'elegie di Catullo non
indicassero assai che il genio latino, libero nella imitazione, sa aggiungere
all'ideale del vero e del bello un che d'universale e di solenne, un certo
senso pratico e positivo, e un'intima rivelazione degl’umani affetti, ignota
fin allora ai gentili e resa più perfetta dal cristianesimo, io mi restringerei
alle sole opere filosofiche di CICERONE (si veda), che sono, parmi, una fra le
prove maggiori del come la scienza dei nostri padri, modestamente operosa,
recasse la sua parte alla civiltà universale. e all'età del Rinnovamento.
Ritter, Hist. de la Phil. ancienne, Paris, Ladrange. Kuehner, CICERONE, In phil.
E jusq. Partes merita. Hamburgi. La storia della filosofia ci mostra di fatto
che CICERONE fu a’ padri latini molto in pregio, e segnatamente a Lattanzio che
lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle Institutiones
divinæ più volte; poi a Agostino che ri conosce dall' “Ortensio” la
preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo
cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire
in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio
di cristiano, meritava chiamarsi “ciceroniano.” Fra iDottori più principali è
noto come BOEZIO togliesse da CICERONE
il pensiero sulle consolazioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio
che di questo egli fa sì da'pensieri e sì dallo stile; come AQUINO ne arrechi
l'autorità in più luoghi della sua Somma, come ALIGHIERI lo meditasse. Più tardi
Erasmo esalta CICERONE con lodi famose. Dopo, l’autore della “Scienza nuova”
attinge in parte dal libro “De Legibus” la filosofia d’un gius ideale eterno
celebrato nella città dell'universo col disegno della provvidenza. Ad una fama
sì lunga e sì costante, e che per certo dove avere una causa non soltanto, come
si afferma generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine
del filosofo latino si porge all'educazione morale e civile, ma nell'intrinseco
loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj
(Forsyth, Life of CICERONE, London), contrastano singolarmente i giudizj di
alcuni critici. La opinion e espressa da tali giudizj, a volerla riassumere in
breve, è la seguente. CICERONE, ingegno universale, acutissimo e disposto ai
combattimenti dell'eloquenza, più che alle severe indagini speculative, pensa e
compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio
largo, chiaro, eloquente della filosofia in servigio dei suoi connazionali
di giuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti esoteriche.
Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio, dal fine
pratico e letterario ch'e'sipropose, e dal difetto di studj preparatorj la
Critica deduce la natura delle sue dottrine; le quali, benchè guidate sempre da
criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune, non vanno troppo
addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo,
nè costituiscono, come le dottrine dei migliori filosofi, un largo e ben
architettato disegno di scienza. Brucker, Hist. Crit. Phil., Tennemann, G. Bernhardy,
Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig.
Facendoci a cercare l'origine di tali giudizj abbastanza severi, parmi se ne
potrebbe addurre innanzi tutto una causa assai remota, ma in parte relativa al modo
ben differente, con cui gl’antichi e i moderni giudicano il valore di certi
uomini e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col BRUNO
col Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Bacone, che spezzando ogni
autorità del passato, e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato
a fastidio, proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica,
l'assoluta novità dei sistemi. Come s'intendessero quella libertà, e quella
novità; e quali resultati ne seguitassero alle lettere, alle scienze, alle
arti, al vivere privato e civile, come se ne avvantaggiasse o ne patisse la morale
e la religione, la scuola, la famiglia e lo stato romano, non è qui luogo a
mostrarlo, e le son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj
innegabili della riforma,e soprattutto di quella introdotta nelle scienze
sperimentali da GALILEI e Bacone; chè, se la riflessione libera ed esercitata
desunse mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne
avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le
discipline morali e civili; perfeziona i suoi metodi la medicina, si levò
gigante la chimica, la geologia sfogliando il libro della natura vilesse le
età del mondo. Se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle
manifatture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con velocità più
che umana, e in mend’un baleno il salutori congiunge gl’amici, benchè separati
dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è
debitrice l'Europa. Ma le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere
speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più
impenetrabili misteri della conoscenza umana, e quel nuovo si cerca da molti
nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia la
licenza della riflessione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il
panteismo superbo di BRUNO e CAMPANELLA. Poi, scontenti del panteismo, ci
diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il
sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke, lo scetticismo dal Bayle e dall’
Hume; più tardi le sconfinate immaginazioni degl’alemanni,e un ridurre Dio e
l'universo all'uomo, dall'uomo al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea
novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più
sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota
senza raggiungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare! Posta
in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e
detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere
anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con
tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla), l'indirizzo
introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi
eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi, soffermata un
istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra
i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia,
quella storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi
unico criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua
filosofia, fosse l'assoluta indipendenza del pensiero esaminatore dallo stato
della naturale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A
questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono
conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre
mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in
Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia
comparata dei sistemi di Degerando,e la storia di Tennemann, dove si giudi cano
le varie filosofie alla stregua del problema sull'origine dell'umane
conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del
criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici
più temperati e meno imparziali, segnatamente alemanni, e nei filosofi delle
altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma
questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla
natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne
avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla
così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine
speculative. Considerate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel
tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del decimosettimo,quando
Italia e Francia, stanche dell'autorità abusata dagli scolastici, volevano
innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come nota Brucker, che si
tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei romani e di CICERONE),se
quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare imparzialmente una
filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradizioni. E nel vero anche
più tardi in tutto il secolo XVII, se n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj
del Cartesio, ma tennero il suo metodo d'esaminare la coscienza, quali Bossuet,
Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj,
e venner giù giù negando i pregj dell'antichità, nemici d'ogni tradizione, non
poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta e tranquillamente
efficace che il grande oratore avea recato sulle verità eterne della coscienza,
desumendone le armonie universali delle dottrine temperate dal senno e dalla
moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero di Tullio POMPONACCIO POMPONAZZI
e CAMPANELLA, citati dal Brucker. Ma d'altra parte, se per ispiegare questa
opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e la filosofia d'un
popolo, che fu per eccellenza il popolo delle tradizioni, giova riportarci alle
sorgenti diquella critica, ec cessivamente nemica al passato, questi giudizj
poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo nella storia della
filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed in Francia.Tra I francesi,
per tacere dei più antichi, Degerando vi spende un capitolo nella sua Storia
comparata dei Sistemi, dove enumerati prima gli ostacoli che impedirono ai
Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota opportunamente non
essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici la grande efficacia
che ebbe l'ingegno latino sulla filosofia trapiantata, ond'essa assunse colore
ed indole più positiva, e dalle soverchie astrazioni si ricondusse al reale.
Passa poi ad esaminare gli scritti di Cicerone nel quale rinviene le note
distintive d'ogni altro filosofo ro mano,cioè una scienza desunta dalle greche
tradizioni e composta con metodo ecclettico dalle scuole differenti, una
scienza accessibile ad ogni intelligenza educata, e confa cente a spirar vita
nell'eloquenza, ne'costumi, nell'arte politica; scienza supremamente pratica e
applicabile agli individui e agli stati. Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés
relativement aux principes des connaissances humaines, par Degerando. Giudizj assai meno temperati comparvero in Alemagna,
dove fiorendo mirabilmente le discipline filosofiche e istoriche, e
pubblicandosi tuttodì lavori speciali che illustrano con somma accuratezza ogni
parte delle lettere antiche, prevalse però più che altrove la severità della
Critica, che negava ogni nota originale alle lettere e alle scienze
C Tra i critici alemanni va innanzi agli altri in ordine di tempo e
di autorità Giacomo Brucker vero fondatore della storia della filosofia. Ma
considerando però il capitolo dove egli parla della filosofia de'romani e di CICERONE,
ti accorgi tosto che quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non
esservi stata in Roma che una semplice continuazione delle scuole greche; e
secondo le varie specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato
intorno alle dottrine romane annoverando CICERONE tra iseguaci della Nuova
Accademia; quantunque confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma
particolare di setta, ma inclina a quel Sincretismo istituitoda Antioco.
Veramente Brucker nel proporsi il quesito,perchè mai i romani e CICERONE non
crearono una filosofia propria, non ne accusa, come oggi Forsyth, la infelice
disposizione dell'ingegno latino -- the unmetaphysical character of the Roman
intellect. Life of Cicero. Ma quanto ai Romani in generale ei ne trova la causa
nelle occupazioni della vita civile, e nella setta Accademica, che criticando e
sindacando tutti isistemi, svogliava gl'intelletti da nuove speculazioni; e
quanto a CICERONE, nella natura del suo ingegno, più immaginoso assai che
penetrativo, ond'egli (dice lo storico) prefere il probabile all'esame profondo
del certo, e delle dottrine rappresenta nelle sue opere la parte viva e
oratoria più che il severo ordine dei giudicj e delle deduzioni,e la generale
armonia del sistema. Brucker, Hist. Crit. Phil. Al giudizio dato da Brucker si
avvicina in gran parte quello di Tennemann,e nelle loro opinioni v'ha molto di
vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella esposi 8 latine,
appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da far credere quasi che la
movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche anno in Inghilterra e
nella stessa Germania si torna con più studio al passato, e molte parzialità si
correggono; ed io sono certo che ri composta in pace l'Europa, ilprimo debito
di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli scrittori di quelle grandi e
generose nazioni. zione dei fatti;ma per quanta possa essere la reverenza
dovuta ai due storici insigni della filosofia, come non accorgersi che il loro
esame,informato da un criterio an ticipato e parziale, riesce insufficiente a
cogliere il vero significato d'una dottrina, come quella di CICERONE, la cui
nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni opinione di setta, e in un
principio universale, che supera ogni si stema? Ma se tanto può dirsi a buon
dritto del Brucker e del Tennemann, merita più speciale considerazione l'esame
assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece degli scritti filosofici di
Tullio, Ritter nella sua storia della Filosofia antica. Le indagini dotte e
meditate di Ritter movendo dai tempi antistorici della Filosofia,e procedendo
lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e delle colonie italo greche fino
all'origine delle scuole socratiche, da queste al loro declinare e disperdersi
in una confusione di sistemi sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei
chiama terzo periodo dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere
delle repubbliche greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il
sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo
preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia
delle due nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle
lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la
costoro scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice
nei tempi anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e
costretta, per accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a
vestire le forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le
sue dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi
sistemi,li paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente,
non dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo.
Nei Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme
scientifiche, ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita
civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva
agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva
punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva il dotto alemanno) era ben
naturale che, date quelle condizioni morali,civili e scientifiche,
dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un Ecclettismo
erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della quale è
sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno inventivo,
accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale
non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente all'autorità del
consentimento comune,eitrovò la più importante manifestazione,oltrechè nel
pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei
ne considerò con raro accor gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene
nella storia della Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò
nella storia civile dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi
difetti che, se lo levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli
consen tirono per altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò
queste qualità e questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi
accoppiata alla vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del
diritto, all'amore per gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità
indefessa,a una rara previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e
quella fermezza di volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di
stato. Condotto, egli dice, dall'efficacia di condizioni esteriori a
filosofare, come nella sua gioventù, mentre applicava la filosofia
all'esercizio dell'eloquenza,egli avea frequentato le prin cipali scuole di
Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica vita non seguì una dottrina
particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la quale incertezza di studj, che
non a p profondivano la scienza, ma la assaggiavano appena, ri sentiva della
incertezza della sua condizione politica, perchè ei scrisse le sue opere
principali durante gli scon volgimenti del primo triumvirato,la dittatura
di Cesare e il consolato di Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali
escluso da ogni ingerimento civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati,
andava consolando la sua soli tudine colle meditazioni della scienza. Era
quindi ben naturale che il grande oratore, vissuto da lunghi anni in tanto
splendore delle pubbliche faccende, non si ripo sasse volentieri negli ozj
solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata dell'animo suo, come gli avea
impedito di rimaner fermo al governo delle cose civili, di valersi della sua
autorità per contrastare ai principj della ti rannide cesarea, ora gl'impediva
di darsi a tutt'uomo agli studj della filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e
all'amico dipingeva con vivi colori questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra
l'amore onde era tratto agli studj, e il desiderio di prender parte ai pubblici
affari, tra la sfiducia sua nelle consolazioni della scienza,e una sublime
speranza che lo levava al disopra delle umane cose. Da queste intime qualità
dell'indole di CICERONE deduce l'istorico Alemanno la natura della sua
filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato scetticismo,espressione fe dele di
animo titubante; scetticismo moderato,perchè seb bene talvolta, oppresso dal
peso delle sventure proprie e della patria, ei mostri dubitare del vero eterno
e della virtù, nondimeno conserva sempre intemerata la nobiltà della vita, e il
desiderio di una morte gloriosa; ma tuttavia scetticismo, perchè riconoscendo
la natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le dottrine che ne d
e rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad esame tutte le
opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento politico, che con
vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio della romana
letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano le scuole
greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti, e
all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina
della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in
un dubbio moderato sui principj delle umane conoscenze, la Nuova Accademia,
guidata allora da Filone, che gli era stato maestro nella sua giovi nezza,
riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza;
se l'oratore romano voleva che le dottrine della filosofia conferissero ad a d
destrare il pensiero e la parola negli esercizj della elo quenza, nessuna
scuola si porgeva meglio a questa di sciplina della scuola dei Nuovi
Accademici, che oltre all'essere stata sempre frequentata da uomini eloquentis
simi, si riduceva in sostanza a un metodo disputativo; infine se egli
raccoglieva le principali dottrine della filo sofia greca,per comporne una
scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova
Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la
maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in
brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad
innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli
a un sistema. CICERONE (si veda) dunque (secondo l'opinione del Ritter) come
ecclet tico dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai
Romani, abbracciò le dottrine della Nuova Accademia; e va notato
particolarmente, sì perchè questa è l'opinione più universalmente accettata
intorno alla vita filosofica di Tullio, e alla parte che tengono le sue
dottrine nella storia della filosofia, e perchè il comune degli storici
ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni sulle parti
principali in cui si divide la scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo
ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione plato nica della filosofia
più comune agli antichi (egli avverte però che,stante l'incertezza dello
scrittore e delle dottrine e la loro qualità, tutta pratica e positiva, la
distinzione delle tre parti non è abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o
meno chiaro,più o meno deciso il dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio
deciso nella parte fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove le dispute e
le contradizioni dei filosofanti; dispute sulla natura delle cose, dispute
sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima
e sua immortalità; e di tutti questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o
ammette solo una leggera verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella
parte logica, anzi è questa la più povera e la meno determinata di tutte le sue
dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici
della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a
combattere, non potea tener fronte agli argomenti della Nuova Accademia;
finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale, perchè s'ei con traddice
ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee, la controversia tra gli
Stoici e i Peripatetici lo lascia indeciso da un lato tra un'idea trascendente
della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo romano, dall'altro la
fragilità di natura; incertezza che pure lo segue nella politica, e nelle
attinenze della politica colla morale. Talchè Ritter movendo dal presupposto
che la filosofia di Tullio non fosse che eloquente dell'indole
particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni certezza e ogni legame di
scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro
(perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della
morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di
disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale,
posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del
sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del
l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più
e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di
riflessione e criterio di scienza. (Hist. de la Phil. anc.) una manifestazione [Se
noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni di Degerando, Brucker
e Ritter, è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare
non piccola luce intorno ad una questione che abbiam preso ad
esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il
giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo
affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare
con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la
critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare
immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa
quel moto graduale dell'esame, e quel lento chiarirsi de' principj supremi, che
governano i fatti, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I
primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e
spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio
tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di
Cicerone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva
dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente
nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio
concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel
farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un
filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato
intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna
ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana
da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare
molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella
che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Accademia, e un
ecclettico dubitante), e, quel che soprattutto importava,trattandosi di M.
Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva
cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere
dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier
de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette
all'Accademia francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda
metà del secolo scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle
dottrine tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si
difende dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite
vole di molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa
non nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla
loro forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e
dommatico in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti
sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des Inscript. et Bell. Lett.) A questi difetti
sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene
ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo
tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile
può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame
del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone,
contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle
dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi,
la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole
fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del
bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno
pratico della natura romana. Ma d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere
che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano
considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non
può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle
condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non
necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non
è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine
contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso
e negli altriuomini,un criterio certo, universale, infallibile da costituirvi
la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e
di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a
l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia;
armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il
romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e
Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra
interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la
volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste
considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò
Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di
Cicerone ch'io mi conosca,edito in Amburgo quando rispondendo al quesito pro
posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e l'autorità di
filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente quel titolo per
l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine contem poranee,
l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e ammaestramento dei suoi
concittadini, e infine per la facoltà unica in lui, ond'egli seppe abbracciare
tanta mole di scienza, fissare l'indagine della riflessione sulle verità
principali, e comparando tra loro le varie dottrine, ricomporle coll'efficacia
del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in phil.ejusq:partes merita,
Auc.R. Kuehner.Hambur. Pars altera.Cap.VI; Utrum Cic.philosophus judicandus
sit,nec ne,anquiritur) E questi pajono anche a m e i meriti veri e innegabili
del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io rileggo quelle sue opere,
nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e d'affetti, universalità
veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente immedesimato col buono, e
tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche, mi pare che la critica
delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli perfezionamenti, sempre che
col chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile, parmi, determinare con
sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno
di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia quand'essa fu trasferita di
Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già
meditato e discusso gli venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe
recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti della scienza,
questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam proposti di
chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna tamente:cioè,qual
era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di Cicerone, e con qual
metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle principali scuole
tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse dalla deliberata
opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore latino. successivo di
quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se ne va perfezionando la
storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio avviso,l'ufficio della
filosofia de’Giureconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio desumerne la na tura e
i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e considerato da molti
rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e politici, alla Religione
e all'Architettura, che è di comprendere in sè il buono degli altri popoli,
tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può spiegarne la natura, che è
appunto quella comprensione universale, tanto diversa dall'ecclettismo, che
procede per accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè ricomporre le intime
relazioni delle verità naturali sul disegno della coscienza; finalmentepuòspiegarneil
principio,cheèl'esa me dell'uomo interiore, contrapposto sull'esempiodi Socrate
al dubbio, o all'esame arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre
punti importantissimi, a mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a
chiarire i principali problemi esaminati sin qui dalla critica sulle
dottrinedel sommo Oratore. Gli storici più reputati della filosofia si
accordano tutti in mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il
quale apparve dopo il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe
fino ai tempi di Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle
volte, colle vicende degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima
metà del secolo V avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza
d'incivilimento, e generatori in pochi anni di tanti miracoli di virtù e di
dottrina, quanti presso altre nazioni può appena rammentarne la storia di molti
secoli,mancata la virtù che liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si
corruppero e precipitarono, rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda,
abbenchè fug gitiva, della vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu
tutta in quei memorabili anni ne'quali i suoi figli per ben due volte
ricacciarono in Asia gl'invasori Persiani, in quei combattimenti ne'quali la
sua m a rina doventò signora del Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le
sue industrie, ne trassero argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli
artisti; così da quel primo incitamento si propagò in tutte le repubbliche
greche,e segnatamente in Atene, un moto fecondo d'opere, d'istituti,di
dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva in sè nella crescente corruzione del
Gentilesimo germi di rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate
e dalla filosofia di Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella
vita operosa del pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo,
quelle di spute in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni
sacre,quel sentimento profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la
giovinezza del popolo greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore
del l'antica Accademia, le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso
si facevano sentire, l'abuso scon II. umana sigliato delle libertà
cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva. Chè se quella può
dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco, nella quale raf
forzatosi di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo,
portò guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento
delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola
filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale,
e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze
d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi
vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la
discesa dei tempi non si poteva più tratte nere; e la Grecia passata dal
dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e
diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe
nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia,un legame di alleanza poli.
tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque d'unità
nazionale,e mancò,come l'Italia,di quella efficacia di salde istituzioni che
una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti da libertà
licenziosa. Non è quindi a maravigliare se quella stessa Atene, che avea veduto
un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili l'autorità quasi
regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la signoria d’un Demetrio
di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte Socrate accusato
d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio Poliorcete, e lui pro fanatore
d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri penetrali del Partenone. Sono questi
i segni più indubitati della vecchiaia d'un popolo, e quel lento e continuo
scadere dell'ingegno e della vita del popolo, oltrechè negli ordini politici, appariva
in ogni altra parte della sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini
materiali, perchè a quel primo moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle
libere istituzioni,era succeduto quel solito languore, quel ristagno
d'operosità, che è conse guenza necessaria (e noi lo sappiamo)
delle arti dei go verni assoluti;e la signoria de'mari, ristretta per l'in
nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago greco,si allargava ora ai
Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano i costumi, e la corruzione
tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente oscurarsi delle anti che
tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre denze gentili; e quella
vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e dalla severità
dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso; e al senso,
non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute adulazione di tiranni
e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto risentivasi la
filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio della corrut
tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece un breve e
inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei principali
sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più diretta effi
cacia sulla filosofia latina. Onde mossero dunque questi sistemi? Ritenendo
essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo e il
fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai sistemi
che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca, ritorno
evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre derivarono da
Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo, retrocedettero in
fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle lusinghe dei tempi
coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente desumendo la causa
e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche questa volta la
confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto ar bitrario di
conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la immobilità
dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile, l'ente e
il non -ente, il necessario e il contingente, il relativo e l'assoluto; e più,
da un pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0, meglio,immaginare
quella conciliazione, bisognava porre un unico principio, in cui
esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto
indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui
l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli
atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima.
Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un
effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un
che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a
quello dacuierano mossi Platone e Aristotele; chè, sel’Ateniese e lo Stagirita
concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo
segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e
nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il
primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. Ma che cosa era questa
materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più
tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura,
infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una
finzione immaginativa, è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno)
collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi
bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que'
pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto
questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il
nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno
medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo
doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una
parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto
fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse,
si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito
dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia
primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni delle
cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime
della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός
λόγον όντα ToŬ zoopov. Diog.L.,VII,136,e Cic., De N. D. La falsa induzione che
per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura
ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo
la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e
d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose
tutte, e l'universo rassomigliavano a u n grand e animale; perchè, diceno
(usando un argomento di panteismo rigoroso adoperato più tardi da CAMPANELLA),
se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le varie
parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla ragione,
anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi pato
risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli Stoici
era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le facoltà
del l'umano, concepissero Dio da un lato come principio prov vidente e
ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti
imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e
inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia
l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo
spirito divino abitatore della materia la divinazione delle cose future.(CICERONE.,De
N. D.,De Divin., De Fato,pass.) Concependo in tal modo la materia come
contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per
il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed opposte),non
è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli
Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli
astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne
deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj
della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che cosa è
l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio
stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante
all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la
immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della
compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo
ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle
cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è
in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi
tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore
(nepovezov) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole
assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla
riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze
materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a
studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne
proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di
potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano
pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto
e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la
possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di
contenuto, simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν
άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto
primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le
rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie
è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli
Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati
tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla
sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose
tutte,ritiene ilsuo modo di conoscere,che conforme alla sua natură è un
cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza
universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non
di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato
ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura
dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del
sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata
dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a, di grazia, sì gli
uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione? Ne rimaneva
una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare
all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e immaginare
ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e
di operazioni tutte sue proprie. M a in tal modo il sensista tira più là la
questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine
dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta
ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia
primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si
generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per
mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista
l'idea dell'obbietto sentito. Ma è qui appunto dov’io prego il sensista a
darrestarsi. Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne
dall'occasione de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua
natura,vi riconosce bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde
spe rimentammo l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più
intima e segreta relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del
vero, obbietto i m mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che
deriva dal confondere insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura
ideale, non potranno mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno
ammettere la conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a
terialismo; al qual proposito bene osserva Leibniz nei Nuovi Saggi, che coloro
i quali s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in
cui nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le
condizioni passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque
attentamente il sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un
pan teismo, dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che,
secondo Ritter, ne formava il domma fondamentale, all'unità primigenia e finale
delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura
informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la
legge del Fato; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio
anima del mondo e il corpo del mondo, tra la materia e la forma, il passivo e
l'attivo, il più e men perfetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la
diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella
indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben
definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io
credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione dell'età
orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni dialettiche, che
è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile, quanto dall'avere gli
Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia
dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e del divino. E fu qui dove
peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb
bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e
Aristotile, adombrando per via con
trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose, ambedue
silevaronpiùalto, eoltrequell'universo animato e al di là di quella
materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e
nelle anime la luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo
desiderato dalla universale natura; peggiora E d ecco circa in quei
medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine
infette di panteismo e di dualismo, apparire la negazione particolare dei
sensisti e degli idealisti con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi
ben consideri la sua filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente
pervertimento delle dottrine o anteriori o contemporanee; chè se già era
cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito,
fu pessimo in Epicuro il ritorno ai sofisti della stessa età italo-greca, e
segnatamente a Democrito. Notammo anche come nonostante la rigidità e l'altezza
della morale stoica,vi si scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e
parziale dellaumana coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei,
i quali non si contentarono come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali
tendenze,di porre la virtù e la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della
vita;m a scesero più basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei
piaceri del corpo; e riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo
dei piaceri del senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale
dei tempi; nè già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad
ogni licenza, si maturava negli ozj voluttuosi la servitù della rono in
logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne
faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal
senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli
Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della
scienza; peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e
perfetta delle tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato,
sostituendo un esame sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde
il concetto del bene diventò più che umano, e quell'idea solitaria e i m
passibile della virtù parve quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure
deitempi.(CICERONE, De Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) Grecia, quando la
Nuova Commedia svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti
sembianze del vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare
co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo
alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una
etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco
quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole
de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto
l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico; ma quel rigore,
nota bene CICERONE (De Fin.), era un finto stoicismo e una maschera da
saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo gozzovigliante,era una sod
disfazione ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica
opinione. E poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come
poteva cer care nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto
per Epicuro fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e
assoluto, lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui
come una norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava
sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti
morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come
Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggiorasse il sensismo del Portico e non
movesse un passo oltre la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano
almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto
all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi CICERONE nel secondo degli
Accademici), Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero
nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo
passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli
accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine;
negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola
opposizione dei resultati sensibili la verità e la falsità della
sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta
significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la
logica dell’Orto (CICERONE., De Nat. Deor.) Nè a diverso cammino si volgeva la
fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito. Ora,se ben con
sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al
dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che
con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto, laddove
gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il fenomeno
sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava vita e
movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza nascosta, se
ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni esteriori delle
molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli atomi,
mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione della sua
logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature
elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova
maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia
che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e
della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più
sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si
vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con
seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse
sotto l'apprendimento dei sensi; ma poseaprincipiodi tutte lecoseilvuotoimmensoegli
atomi nè sensibili in modo alcuno nè intelligibili. (De Fin..) Credè
immaginando la spontanea diversione degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi
alla inesora bile legge del Fato; m a s'imbattè in un'altra potenza non meno
cieca e inconcepibile, nella potenza del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.)
Finalmente un ultimo indizio di quanto poco conto ei facesse dei veri immor
tali presenti alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle
sue indagini fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente
dalle cause seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di
stupore e d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore, icieli
sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde
dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (LUCREZIO, De
rer.nat., Ritter, Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani: Che non
si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della
superstizione.). Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva
Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie
intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo
dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delle dottrinesocratiche,
ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi
Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett.,ed Agostino nel
libro Contra Academicos), ci rappresenta questa dottrina come un domma
filosofale, svelato prima nell'insegnamento del l'antica Accademia, e ristretto
poi nel mistero all'appa rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo
significato della filosofia di Platone: due essere i mondi, uno intel ligibile,
l'altro sensibile; quello vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza
degli archetipi eterni; del primo per via delle idee generarsi nel saggio la
scienza, del secondo una semplice opinione di verosimiglianza. Ma quando io
penso che il vescovo d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua
conversione, scampato appena dal dubbio della nuova Accademia, e che per
guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più riposte armonie
della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo principalmente a
fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza concorde dei più
deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non potersi nè anche
sapere di saper niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni
opinione, negando in tal modo il vero assoluto e ammettendo soltanto quello
relativo ai principj d'ogni sistema; e che finalmente quel suo idealismo operò
direttamente sul dubbio univer sale degli Empirici; allora son tratto ad
attribuire a un pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla efficacia
de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice accor gimento d'Arcesilao (CICERONE.,De
Oratore). Socrate opponendo all'orgoglio del sofista la modesta affermazione
del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa dialettica l'onnipotenza
della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj il conoscimento intimo
delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo col conosci te stesso,
e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana coscienza, vi riconobbe il
combattimento della ragione coll'appetito, dell'intelletto colla carne, quel
non so che d'immortale e di terreno ch'è in noi, e che lampeggia nelle serene
aspi razioni del vero,del bello e del buono,e s'abbuja nelle tempeste
de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento all'esteriore forma
delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò la dottrina dell'ente
e del non ente, della üln e del cos. E qui (si noti) consisteva essenzialmente
il positivo e il negativo delle dottrine platoniche. Poneva egli, è vero, da un
lato il concetto della scienza nel salire dai particolari agli universali,da
ciò che muta a ciò che non muta, dalla sensazione al l'idea che rappresenta
l'essenza, e il fondamento della sua dialettica stabiliva nel cogliere fra i
molteplici ele menti de'fatti particolari il concetto supremo che tutti li
contiene.Ma d'altra parte mosso dall'idea trascendente della scienza,e dalle
tradizioni delle dottrine panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava
il dualismo, egli faceva del particolare, del mutabile, del sensibile un che
intimamente oscuro,e non soggetto al conoscimento, perchè partecipante della
materia che è l'opposto dell'ente,e alle Matematicheealla Fisica indagatrice de'fattinegònome
di scienza. Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità riconoscendo
necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente
dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella mente
dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio
dalla opinione al sapere; m a la illazione del dubbio, che scendeva dalle
premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la
materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì
disparati possa darsi attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio
l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli
animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra
iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che
civengonodaicontingenti.E perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia
platonica la relazione tra il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo
a negare o l'uno o l'altro di questi due termini; e il termine intelli gibile
negarono gli Stoici, alle cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo
materiale del Peripato, e quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei
col restrin gersi nello studio della materia; restava a trarre l'altra
conseguenza del sistema platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao
colla sua dottrina ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto,
perchè non n e gava l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio
la loro corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero
in parte quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o
media che voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema
di Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di
Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio
fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era
nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che
togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero
nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Critica della
conoscenza.(Ritter) La quale non ancora matura e compiuta in Arcesilao si
svolse nei successori, perchè,laddove il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi
contro i sensisti moveva special mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità
della materia; Carneade,che gli successe,introdusse in quella tesi maggior
rigore scientifico,quando esaminò ex professo l'entità della relazione inclusa
nel conoscimento, e distinguendo nella percezione sensitiva o rappresentazione
due lati,uno ri feribile all'oggetto, l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli
prima del Kant non darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae
in propria forma la materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo
peggioramento in Carneade? Sì; perchè e'negò fede espressamente alla validità
della ragione, dicendo non potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del
vero, e dovere contentarsi il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per
lui l'idealismo accademico si accostò sempre più alla nega zione universale,
che compiendo le dottrine anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è
prova evidente il pas saggio ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio
sull'entità oggettiva delle idee universali che si specchiano nella coscienza,
manifestato da lui ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla
giustizia,dove to gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del
bene, abbatteva i fondamenti dellamorale (CICERONE, De Rep. Ritter). E il discorso
di Carneade udivano assollatii Romani, nella cui patria splendeva quella gran
scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità umana,e la n o
zione del dovere e del diritto si desumevano da principj d'immortale necessità,
e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi congenita alla natura di
Dio.(V. Cantù, St. Un.Brucker, Degerando, Ritter, Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.)
È noto infatti come VICO nel suo l De antiquissima Italorum sapientia indagando
nella storia de’fatti umani iprincipj universali che reggono il sapere,
trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni ne'linguaggi primitivj
d’Italia; il che,se non prova che presso quei popoli, come ad esem pio i
latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero
e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra però che v'era nel loro
ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa disposizione d o veva
attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret tezze presenti, e
sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si sarebbe volto a
considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e nell'universalità della
storia. Queste erano le preparazioni e le cause del fatto; l'occasione esterna
venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A.
di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo
innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa
definitivamente la Grecia colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di
Corinto,riceveva dai vinti la tradizione delle arti e delle discipline civili
per parteciparle novamente e sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle
arti e quelle discipline che giungevano d'oltremare non più informate dalla
libera spontaneità dell'ingegno dei padri, educato alla scuola del sentimento
civile e del magistero divino, ma guaste dal dubbio della nuova Accademia,e
infette da signorie corruttrici e da profonda sensualità di costu mi,trovarono
nei Romani dismesso l'abito della severità antica, e omai volgente a rovina
quella repubblica inde bolita dalle mollezze d'Affrica e d’Oriente. Sallustio,
Catil.,C.X.c.f.XI.XIV. Non èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di
molti ingegni valorosi, dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un
grande rinno vamento; chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei
popoli s'accoglie una favilla immortale di vita, e un impulso efficace li
risospinge ai principj; non possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era
pagana, in cui, ecclissato ogni lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e
ridotto in pochi lo stato, Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella
barbarie. Nè c'inganni quel moto apparentemente efficace di letteratura e di
scienza ma era 3 nifestatosi nelle città greche, e nelle
corti di Pergamo e deiTolomei.Tranne inRoma, dove fino allamorte d'Au gusto
durarono potente incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la
memoria degli ordini repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica
le lettere e le scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o
sollievo di popoli in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da
Filone Ebreo, dalla Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio
ed altri) doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla
spontaneità dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei
commentatori e degli illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi
derivarono gli Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le
scienze matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città
mercantili e dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che
s’è rin novato più volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline
speculative;nè solo (come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla
forma scientifica dei si stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano
intelletto che in quella dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il
soggetto esaminato e la riflessione esaminatrice, consista intimamente il
metodo d'una scienza,una volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali,
se ne scom piglia l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara
l'integrità della coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza.
Richiamando ora in breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della
filosofia da Socrate a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della
riflessione scientifica da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e
del l'immortale accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate
tradizioni, ad altri infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero
divino ed umano;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di
riflessione,e più perfetto ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che
alla c o m prensione totale della coscienza e delle sue relazioni
fanno seguire un esame monco, spicciolato, minuzioso,eaimetodi positivi e
dogmatici (benchè misti di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e
gl'inquisitivi. Questo è il pen dío naturale del pensiero filosofico in
quell'età,che dalle altezze del disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n
gustie di alcuni trattati aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima
informatrice della materia corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi
sillogismi di Crisippo per terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella
negazione della nuova Accademia; che infine dalla interpretazione sublime della
Mitologia,qual era in Platone, ci guida all'in terpretazione fisica e storica
degli Stoici e d'Evemero. Ma la nuova Accademia di contro alle dottrine
d'Epicuro,se non forse quanto alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto
alla forma scientifica, perchè Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e
offriva un disegno di pro prie dottrine sulle principali teoriche della scienza;
gli Accademici negavano soltanto, e, tranne poche e sparpagliate affermazioni i
n fisica e d i n moral e, restringevano il soggetto della filosofia al problema
del conoscimento; ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par
ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non
v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da
questa al d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che
non sono più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini
dottissimi che unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la
scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era
la storia;e da questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche
oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e
de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli
eccessi della critica Kanziana pullularono gli Empirici Alemanni, l'Ecclettismo
del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni
della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto
contrario alle cagioni del male, dovea consistere segnatamente nel tornare
ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei
suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar
pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli
ebbe occasione e conforto dalle qualità dell'ingegno latino, mosso da antiche
tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche,
dallo stato politico e civile di Roma, e dal contrasto ai dubbj che laceravano
la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di
civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in
Roma, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per
opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora
potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il
dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi
correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura,
le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva, quasi a
compire la maestà della gran repubblica dominatrice, lacoscienza del ge nere
umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale, condizione
necessariaal na scere della Filosofia. D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla
Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro
la storia; la filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel
paralogisma, e sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío
della negazione universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori
della corruttela dei tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel
senso;i Platonici e iPeripatetici,come Cratippo, Stasea, AndronicodiRodi,
Alessandro Afrodiseo si diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare
nulla di nuovo,rimestarono con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo
stoicismo con P a nezio e con Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle
dottrine di Zenone, favorì l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più
popolare,e ravvicinandosi alle altre scuole socratiche; ravvicinamento anche
più manifesto in Filone e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di
Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla
nuova Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da
un lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle
greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre
dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine
de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza
orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando
questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio, ci siamo
allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione; m a il
rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del
filosofo nostro,i suoi intendimenti, le fonti delle sue opere e il concettoche
egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi
alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro
sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo
nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano
all'Ortensio, appariva,come ben nota Ritter, una straordinariapo vertà di
speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità
rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una
volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio
taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo
umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni
giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il
vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da
Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le
contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei
Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito
coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava
al buon uso dei m e 37 todi sperimentali; la morale per
ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve
nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo
Gadarense, contemporaneo e famigliare di CICERONE, testimoniarono anche una
volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu
lanensium Voluminum quue supersunt. Nap.) Pertanto in quelle condizioni di
civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero
speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e
all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e
delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e
degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose,
mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto, il teorematico dal
problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual
cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della
modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo
distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine;
e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in
Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale
disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la
scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone,
solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e
propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei
Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità
delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica
sulla coscienza morale. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af
ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj, fa manifesta a
chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della
storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di
rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini
civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra
chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili, iquali, se
hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la
conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a
contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella
filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi
della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità
universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto, ipostulatiedilmetodo.
La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la
ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue
leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa, sembra
doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un
indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non
vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale
e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando
diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle
prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la
riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente
dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei
fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali, evidente e
misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del
sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra
d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto
dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni
concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e
di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi
l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa
verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di CICERONE
(si veda); entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite;
entrambi la rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza;
l'Ateniese divino in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non
è ancora cessato; più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della
buona filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni
eser cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della
scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno
avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare
la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di CICERONE. E nel vero quel
principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo
recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal
D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in ARPINO di famiglia provinciale il
terzo giorno di gennajo -- coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione),
venne a Roma per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli e via alle
cause del foro e al pubblico arringo, sono tempi di più profondi rivolgimenti
civili, conseguenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la
storia romana, la prevalenza degl’OTTIMATI sopra la plebe, la prevalenza di
Roma sopra il resto di Italia e del mondo. Cantù, St. Univ. Già sin da quando
tonò la prima volta nel foro la potente parola de’ Gracchi, un moto profondo in
favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'e venne
propagando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e
coll'ampliarsi della potenza repubblicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni
civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora
que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà,
mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di
pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a
sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più
inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica
ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le
amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno
del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle
lotte d'independenza; ma il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di
gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel
l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici
qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio
amoroso del vero l'efficacia della filosofia italica, che avea recato dal
l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a
rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una
gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti. zioni
delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del
popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè
l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina
fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà
partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si perde
senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel tempo la
pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore dei
delitti narrati. Sall., Catil. Quellacorruzione,profondanegli ordini civili,
non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto perchè, il
progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal suo pro
gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e supremamente
civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge innegabile nella
storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era stata sino a quel
tempo più spesso istrumento di dominio in mano degl’OTTIMATI che manifestazione
della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti due considerazioni
impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come nota più d'uno
storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai principali
uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi scritti ch'e'fece
della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi narela repubblica
e salire agli onori, ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli ordini civili
che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del vero l'arte del
bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e all'oscurarsi d'ogni
principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio s'oppose
segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina degli
Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole contemporanee
che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era al certo
l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta. M a qui
c'imbattiamo subito in una questione importante. Cicerone e egli soltanto
condotto a filosofare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a
scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e
dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi
necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? Parecchi critici tra i
quali Ritter, Degerando, e Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi
chiamare “filosofo” vero esso che studia la filosofia come semplice istrumento
dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli e stata
fatta da taluni fra i contemporanei, quandoudiamo lui stesso, il testimone più
autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè
cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita
consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera,
io era maggiormente intento a filosofare -- De Nat. Deor. -- parole che
potrebbero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso, se i primiindizj
che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non
mostrassero assai che il suo ingegno sivolse'sui principj, sui metodi e sui più
ardui problemi della scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi
si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio
notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i romani contemporanei
affettavano verso la filosofia relativistica di Carneade. Ma in Cicerone apparisce
un sentimento vivo, e quasi direi religioso, dell'unità della scienza; poeta
elegante e vigoroso, poi traduttore di cose filosofiche, udiva i più eccellenti
m a e stri d'ogni filosofia, studia con Q. Mucio Scevola il giure, coi più
autoreroli cittadini la scienza delle cose una causa, vedreino essere
immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che
come riformatore filosofo, come riformatore civile. civili, la
declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone
Rodio, e Demetrio di Siria. Cic. Bruto, Forsyth, The life of CICERONE, London. Nutrito
l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel foro,si
accorse,com'egli stesso ci dice (Brut. 93,e pro Archia, V I), ch e a costituire
il perfetto oratore non e su f ficientela destrezzaelacopiadella parola, ma
bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma
dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involuto e comprensivo
come una scienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del
diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium
benefactorum benequedictorum (Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in
iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.); concetto univer sale, che
apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel de Inventione, dove parla delle
virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle
città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi
cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e
speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo progresso
nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva Ritter) l'oratore preparò lo
scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore, il Brutus
e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione di
scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi
sostenuta dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi
ivi di sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s'
ella debba restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla
scienza delle cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente
nelle stesse persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e
per conseguenza più filosofico,che CICERONE (si veda) avea del sapere, al
concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che
rappresenta l'opinione dell'Autore, movendo dal principio che una sola è
la sintesi delle materie scientifiche,e che su tutte può e deve cadere
l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al perfetto oratore quasi tutto
lo scibile umano, e conferma questa sentenza coll'autorità degli antichi presso
i quali l'arte del pensare e del dire erano state sino ai tempi di Socrate
indivisibilmente congiunte. Lo stesso argomento è trattato nell'altra opera
Orator, dov'egli cercò pure l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a
principio le idee archetipe di Platone; talchè l'armonia della scienza colla
vita, dell'una e dell'altra colla letteratura e coll'arte,l'accordo della
materia scien tifica colla forma oratoria, e della ragione col gusto,
costituisce nei libri rettorici di Cicerone una vera e pro pria unità di
concetto. Considerando questo principio universale,a cui il filo sofo latino
rannodava le discipline letterarie,e l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte,
io sempre meglio mi per suado che la vita d'oratore e di politico fu per lui un
apparecchio necessario agli scritti speculativi. Più tardi, allorchèla libertà venne
in mano degli scellerati, e il gran cittadino si astenne volontariamente
dall'esercizio della pubblica vita,tornò agli studj non mai interrotti dalla
giovanezza, cercandovi la pace che gli negava l'animo addolorato per le
sventure civili,una nuova occasione ad esercitarvi l'eloquenza muta nel senato
e nel fôro, un mezzo per confortare a virtù le fiacche generazioni, e
arricchire la letteratura della sua patria di questa nuova gloria, sino a quel
tempo non partecipata coi Greci (Tusc., De divin., De off., Ad fam.). Chi
considerasse partitamente un solo di questi fini, senza comprenderli tutti
nell'unità della mente e dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo
compreso; a lui l'inclinazione oratoria e l'amor nazionale porgevano il
pensiero di un nuovo accordo della scienza coll'arte nelle opere di filo sofia,
onde si aprisse questo nuovo campo intentato agli ingegni latini; i mali e le
necessità del suo tempo gli consigliavano le dottrine morali e civili come
riforma dei costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale
insieme congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj
anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale
armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi,
è notevole in Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero
ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più
è affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza
colle ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che
si crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima
del conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano
i fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle
sue dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna
contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che Ritter e Bernhardy
han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena
lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della
filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al
punto in cui concepisce chiaro l'ordine scienziale. Il primo e più
notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina,
si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ
philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina
philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva
in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e
nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e
ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten
sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo
studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e civile. (V.Hort., fram.,e
specialmente il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia) Ora siffatto concetto
involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita
l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio
d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel
principio regolatore risiede; e poi perchè il vero relative alla vita,sebbene
manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più
affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè
stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a
tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella
coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo
d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico;
la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento
logico degli scritti morali. Dove si scorge com'egli procedendo di passo in
passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava
nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di
relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che
intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed
uomo per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una
specie d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i
non dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi
s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e
Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui
Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili
antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora
soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della
Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul
dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal
soggetto,disputata a lungo dai critici e storici della Filosofia,
durante il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore
dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente
le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come
seguace della Nuova Acca demia, ponesse il dubbio universale a fondamento di scienza.
Così opinò Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono Brucker, Degerando
e Bernhardy. Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica
che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o
rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare
quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo
semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie
fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi
Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene
dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la possibilità
della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del come
conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi assoluto
d'Arcesilao e di Carneade. L’alemanno mostra invece con maggior verità come il
filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo inquisitivo
dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio ravvicinandolo alle
fonti socratiche. Ma ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da
Tullio ne'più de'proemj sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha
considerato abbastanza nei libri morali come a quel precetto apparentemente
negativo dinon cercare che il probabile,edirattenerel'assenso,con trapponga sempre,
ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del conosci te stesso.Nè
il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso placito del savio
ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e miserabile ossequio
alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato delle sue opere (io lo
affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e sistematico, il
dubbio di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva nella mente
dell'oratore-filosofo allo stato di scienza. Egli,prima d'esserefilosofo,come
uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e quel vero,a cui
l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per inconsapevole virtù di
natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato, e come raccolto
nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria, non priva d'oggettività,non
fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico apparecchio
dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi attinenze
dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti che la
scienza dovea tras formare in armonia di principj. “Nam quum animus cognitis
perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque discesserit,
volupta sed Delphico deo tribueretur. Nam quiseipsenorit,primum. A questo
proposito ci giova riferire le sue parole tolte da un luogo eloquente del dialogo
delle Leggi, dove egli stesso in propria persona descrive il concetto ed il
metodo della scienza prima. Ita fit (così il testo latino, che io trascrivo per
maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia riveduta da Klotz) ut mater omnium
bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore Græco verbo “philosophia” nomen
invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius, nihil florentius, nihil
præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos quum ceteras res omnes
tum quod est difficil limum docuitutnosmet ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta
vis et tanta sententia est,ut ea non homini cuipiam, aliquid se habere sentiet
divinum ingeniumque in se suum sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit,
tantoque munere deorum semper dignum aliquid et faciet et sentiet, et,quum se
ipse perspexerit totumque temptârit,intelliget quem ad modum a natura
subornatus in vitam venerit quantaque instrumenta habeat ad obtinendam
adipiscen damque sapientiam, quoniam principiorerumomnium quasi adumbratas
intelligentias animo ac mente conceperit, quibus illustratis sapientia duce
bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se beatum fore temque sicut labem
aliquam dedecoris oppresserit, omnem que mortis dolorisque timorem effugerit,
societatemque caritatis coierit cum suis, omnesque natura coniunctos suos
duxerit, cultumque deorum et puram religionem su sceperit, et exacuerit
illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda et reiicienda contraria,
quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo dici aut cogitari poterit
beatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque omnium naturam perspexerit
eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo obitura,quid in his mortale
et caducum,quid divinum æternumque sit viderit, ipsumque ea moderantem et
regentem paene prehenderit seseque non unius circumdatum mænibus loci, sed
civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit, in hac ille magnificentia rerum
atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ, diimmortales, quam
seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi ciet,
quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc omnia
quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi iudicandi
scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et quid sit
cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit, non solum
illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius perpetua
oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua
tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad
persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con
solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa pientium cum
improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint,
quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum
parens est educatrixque sapientia. De
Leg. Qui s'espone a dettatura del nostro filosofo il suo metodo
dell'osservazione interiore induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di
Socrate e di Platone, e si continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le
scuole m i gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò
che antecede; 2o ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. Lo stato
che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e
speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar
cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel
sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e
all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno
stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de
principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio,
capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia
pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma
speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla
zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo
purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita
civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo
rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa
rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e
d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è
prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato
dalcuore (animo acmente) ravvisi nell'intellezione prima (adumbrata
intelligentia), un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. Ciò posto,
si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza
interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e
conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co
noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di
necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo
alla notizia di sè stesso e del mondo, notizia comprensiva ed universale che lo
palesa inferiore soltanto a Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino
dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen dono due
dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro: la
eloquenza civile e l'arte dello stato. Tali erano per CICERONE i fondamenti, ed
il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente
della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi
Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano,sentiva
l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore che
tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali
anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio
dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off); e contro gli Epicurei fa valere
gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e ne'Tuscul.e
quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni umane e
divine. Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a
dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice ne' Paradossi
contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che partorisce copia
di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen sardellagente.» (Proem.)
E nelleseguentiparolede' Tu scolani si vede com’ei raccogliesse,di mezzo alle
opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi e le divine;« Inol
tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im mortalità dell'anima)
possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e suole valere moltissimo
(in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum ); e prima, di tutta
l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era presso all'origine
divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse discerneva la verità.»
(Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce appunto Ferecide,come
antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con quella di Pitagora e
de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù
che niun altro paresse dotto. E dice più oltre che, secondo Pla
tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione degli dèi: «
Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut Plato ait,donum,
ut ego, inventio deorum? » Nel che s'accenna il principio divino della Sapienza
e della tradizione.(Conti, St. della Filo sofia) Se per ciò che risguarda i
principj e i fondamenti della filosofia egli mosse direttamente da Socrate
affer mando la chiarezza naturale del soggetto scientifico,e l'efficacia della
conoscenza, quanto poi al metodo più propriamente detto, indagatore dei veri
particolari, fu se guace, o come ci dice egli stesso,restauratore della Nuova
Accademia (deserte discipline et iam pridem relicte ), restaurazione che, a mio
parere, può e debbe chiamarsi una vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao
e di Carneade tralignava nel dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si
ricongiunse agli scettici dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio
attingendo alle fonti socra tiche si riscontrò nelle tradizioni genuine della
sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando
Galilei tornando al vero metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la
filosofia naturale; più peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al
Liceti,di tutti i peripatetici de'tempi suoi. Riassumendo il tutto in
poche parole, Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di
principj e di metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso
generalissimo della voce sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri
oratorj come un semplice esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come
una dottrina puramente pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro
degli Officj la chiamò con significato più largo: scienza delle cose divine ed
umane e delle loro cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai
filosofi che CICERONE (si veda) diè prova di scarso ingegno speculativo non
componendo le sparse verità in un sistema ordinato. La quale accusa vuol bene
determinarsi; perchè,se con essa si nega che Cicerone aggiungesse
copiose speculazioni alla materia delle dottrine contemporanee, e che
componesse le verità antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un
compiuto e perfetto sistema, ha ragione la critica, m a la critica ha torto,se
vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio
cri terio per l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a
Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro
riformatore; chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi
chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo
corrispondente all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, ma si svolge
nella stessa opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il
concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio
manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei
contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza
umana. Ora si avverta come il considerare in tal modo questa temperata
efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli
altri con un proprio criterio positivo di paragone e di scelta,in contrapposto
alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e
le raguna nella memoria, anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non
seguito fin qui dai prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe
condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra
le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti
delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel
capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione citata. E tale è il
metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole
pel nostro esame. In primo luogo, poichè solo per nostro avviso, il contrapporre
Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza
d'analisi gli abbisognasse per isceverare dalla confusione de'sistemi le verità
principali, chiarirle e ordinarle in forma di scienza, terremo
l'uso d'esporre ogni volta le principali opposizioni de' sistemi, e poi
qual giudizio ne recasse il filosofo latino. In secondo luogo avremo questo a
principio di critica, notato da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono
per la m a s sima parte dispute scritte, e, come tali, ritraggono nei varj
personaggj il conflitto delle opinioni, e le nature differenti
degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza quando egli
riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli stesso
prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una m a
teria,oquandosoltantol'accenna (V.Degerando, Brucker, Kuehner, Middleton.)
Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come
una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a
misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed
è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà
ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un
aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da
cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di
filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni
Oeconomica Xenophontis,Protagoras ex Platone, Timæus de Universo (trad., come
app. dal proem., dopo gl’Accademici; i libri vriginali, Hortensius de
philosophia,Consolatio de luctu minuendo (scritta poco prima dei Tuscolani), De
Gloria, Commentarius de virtutibus,Cato,sivelausM. Catonis, Deiure civili in
urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi
tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica, De
legibus(composti dopo il De republica), Paradoxa,Academicorum (ne fece due edizioni
dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima c'è
rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709), De finibus bonorum
et malorum; Tusculanarum disputationum (compiti avanti la morte di Cesare), De
natura Deorum, De Divinatione, De fato, De officiis, Cato major de senectute, Lelius
de amicitia (scritto dopo il Catone maggiore av.gliOfficj); furono variamente
distinti dai critici secondo la loro materia e la forma. Ritter li distinse in
riposti ed in popolari, clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi
all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle
Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi
discusso tra i critici sulle dale dei libri di Cicerone.Cilusa principale del
dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita
dell'Autore. Forsyth lo dice nato il 3 di gennaio, ma aggiunge in nota a p. 2,
che, secondo il calendario Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre. In questo anno
pongono la sua nascita Middleton, Kuehner ed altri autori meno recenti;onde
seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De
consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, e le opere
De Natura deorum, De Divinatione, De Fato, De Offi riis, Cato Vajor e Lælius;
il Forsyth e l'edizione di Lipsia (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e
dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque trattati. Noi stiam o col critico di
Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del
resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e
De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De
politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wirceb.), stabilisce avervi speso
Cicerone oltre a dieci anni, Questa ed altre molte dis sertazioni di critici
tedeschi e francesi, citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre Vannucci,
a cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine. un fine pratico,ad
esempio gli Officj, dell'Amicizia, i Para dossi, le Tusculane e qualche altro.
Noi abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri
tici, e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico o sistematico o
tematico dei libri coll'ordine di tempo,
tra le opere fisiche – filosofia naturalis -- De natura Deorum, De divinatione,
De fato, e il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche -- Academicorum,
Topica, De inventione, etc. --, le morali – De finibus,Tusculanarum, Paradoxa, De
legibus, De officiis, De republica, De senectute, De amicitia). Avvertendo che
la distinzione non siprenda troppo assoluta, ma che si guardi alla qualità che
prevale. Fonti secondarj, ma dausarsiconmolto riserbo, sono,secondo nota
opportunamente Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e
noi vi aggiungiamo le opere rettoriche, segnatamente il De Oratore e l'Orator.
La distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al
concetto della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio
nell'ordina mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre
grandi teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi
principj generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. Il
prendere ad esame con quella larghezza e diligenza,che è necessaria alla critica
istorica, le varie parti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un
abito non ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze
scientifiche; perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si
trovi nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg
gere alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da
Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m
a altresì quella riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva
nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri
sono, come ben nota Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di
collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione
morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più
vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il
suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato,
dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione
ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo
esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il
pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la
scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere
l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale,
sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstesso in
attinenza colle cose con Dio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera
dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo,
considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in
sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la
cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di
Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella
Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale
contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione
esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione
intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane,
e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli
Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava
occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della
riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj
l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva
sempre più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la
psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così
intimamente collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano
da un lato rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti
del l'umano sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria
materia, dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione
esteriore o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si
volle sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori,
scendeva di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti. Due
fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il
dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza
dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle
idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta
coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il
mondo si pensa non più finito e tem poraneo, ma infinito ed eterno, e animata
la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la
fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle
Pittagoriche, nelle Eleatiche, in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del
medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia
esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre la fisica superioreeledottrinesuDio,
sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi
prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi
dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima corruzione la Gentilità, si rinnovarono
esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle
scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione
di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine
degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia
delle sette contemporanee nelle tre parti della scienza,e volendo
mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbio dellaNuova
Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad.) Da quel
luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italico spingendo all'eccesso
l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean
con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle
loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a
sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole
pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le
differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli
Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il
presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando
l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei
particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli
rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre
Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava
quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle
cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio,
ond'e'consigliavaun più modesto sapere; mostravacome la notizia, che noi
acquistiamo de'corpi, movendo dagl’effetti, non comprende l'intima essenza e
l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e
metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si
manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per
indagare i fondamenti su cui posa laterra. Procedendo di questo passo l'Autore
faceva vedere negli Accademici, nei Tusculani e nel libro della Natura degli
Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla
essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura
e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni
coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza. Nei luoghi
citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il
dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia
seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi,
attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e
dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse
il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella
fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle
teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle
leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti
l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine
loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro
babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto
somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva
lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli
Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta
verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla
Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei
metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza,
professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi
progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si
sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato,
come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si
toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione
importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio
non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi
dal verosimile al certo. Acad .prior.e De repub. M a la prova maggiore si è
che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo
la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio nutrito dall'ingegno potente e
dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde
ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane cose, proviamo
un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso, così
scrive CICERONE (si veda), che sidebbano tor via tali questioni dei fisici;
poichè viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e
contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel
pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo
come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose
grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa
che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che
supremamente è degno dell'uomo.» (Acad.prior., De fin.5). Innamo rato quindi
della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie
grossolane di Democrito e d'Epicuro . De fin. Loda Zenone perchè imitatore
dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (De fin.); e i quesiti
del l a fisica che lo mossero a tradurre il Timeo di Platone, gli avevan det
tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla Repubblica;
il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione. De rep., De fin., Tuscul.
Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi
sopraccitati, e da una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone: 1o che
il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e
dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si
levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da
una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene bre del gentilesimononardisse
determinarle; 2ache,ofosse la dottrina stoica a cui pendeva,o l'indole viva e
meri dionale del suo ingegno, nella natura egli sentiva e rico nosceva il
divino; e tale attinenza sentimentale e logica della sua mente tra ilfinito e
l'infinito,tra il contingente e l'assoluto, tra il temporaneo e
l'eterno gli era scala a pensare la relazione ontologica;e questa poi per abito
alsemipanteismo-dualistico di Platone e degli Stoici lo conduceva probabilmente
a immaginarsi l'intelletto umano emanato da Dio,e Dio e le creature supreme
disgiunte dall'universo de'corpi. In questo metodo che sale per gradi di
verosimiglianza dalla natura al divino, metodo improntato sulle meditazioni
socratiche,sta l'essenza della fisica di Cicerone,e n’escono chiarite e per
ordine le sue dottrine sull'esistenza e natura di Dio, dell'universo e
dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà dell'arbitrio. 2. La dottrina
sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo luogo nella fisica di Cicerone.La
causa di questo primato apparisce evidente innanzi tutto per la sovranità
incontestata dell'idea di Dio nella scienza. Dio, oggetto necessario e reale
assoluto ed eterno che si manifesta come prima causa al di fuori di sè stesso
nell'universo degli enti, e li governa volgendoli ad un fine immortale, che ne
è prima legge, in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo
degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine
scienziale; e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia
principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che
i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son
centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo
quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il
primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a
ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata
da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor
relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile
efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unità assolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone
dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono
insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai
provata dal metodo di Socrate, che movendo dalla coscienza produsse in
Platone una compiuta armonia di sistema, e aiuto il filosofo latino,
venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di
dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie
e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato.
Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale fosse il pensiero dell'oratore
latino intorno a Dio.Se dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere,
dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di questi passi tra
loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure larispostach'egli dell'esistenzadiDio,diquelladell'anima
e sua immortalità, della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e
soltanto accoglieva una più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la
natura; e il suo criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo
intuito e un sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose
palesata internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi
di universale consenso. (Kuehner. Scholten, Dissertatio philosophico-critica de philosophiæ
ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed. In questo criterioioravvisoil riformatore
e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha di più vivo
e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali, il filosofo,
perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma con
deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole natura
dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna d'es
sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra iquali
anche Ritter,considerando ilmodo ora dubitativo, oradommaticoconcui Cicerone si
esprimeinsif fatta dottrina, ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli
altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa
parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa
riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj
scientifici. (Ritter, Hist., Brucker, Degerando.) Ma questi storici non
hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di sfrenate
passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali ogni fon
damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il sublime
ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno. Allora la voce del
senso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava
nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni
primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione
scientifica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con
notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi
sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse
voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che
cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e
nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali
dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai
ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare
che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e
metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen
tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee, nèintendiamo
ch'e'fossesì fortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della
coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della
natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m
m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e
schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente
supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono
proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non
sempre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome
e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese
dall'ateismo; redi Bayle, Diz. Art. Spinoza). E veramente la
conclusione Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D
e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato. Or qual
eraquelfine? Chiamare scenderebbe di necessità dai principj, quando si
potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel
medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della
scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino di progressivo svolgimento nella
età dellastoria; e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse
sempre una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. Ma la cosa
procede ben altri menti; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi
seguaci d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un
prodotto spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza
rischio di contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma
logicale e il fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a
quel de'moderni notevolmente imperfetto; d'altra parte il filosofo del
Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le
tradizioni e le verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del
Verbo quelle tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non
può non ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle
dottrine gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai
filosofi Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele
l'ignoranza, l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime
della scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al
lettore di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti
d'idee e d'espressioni il con cetto di Dio; anzi dirò di più che tal concetto
in parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più
assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale
indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione
sempre m a g giore di quel concetto divino. ad esame le principali
opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le
loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente
occasione e pericolo di scetticismo. Con questo intendimento venuto egli ad
esporre l'occasione del dialogo, racconta come essendo stato invi tato nel
tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e
suo familiare e trovatolo insieme con C. Vellejo, che allora avevavoced'esserein
Roma ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo, stoico da paragonarsi ai più
prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della
natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali; vale a
dire: se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero
nelle cose del mondo e degliuomini. La qual spar tizione è conservata in
appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle
risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta
entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i
libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione
viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici,
contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede
quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è
fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le
speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature,
pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente
senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto;
il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il
Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra
dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltiplicando il divino,
l'annienta; il materialista e l'idealista l’un o affogato nel senso, l'altro
confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si vedevano dileguare il
concetto di Dio tra i fenomeni della materia, o lo perdevano di vista
nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano a n e garlo,perchè
sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non affermata per difetto
di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile dell'errore che
Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con lo stoico, e
sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero
quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera
vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel
discorso di Vellejo. Po neva egli come certo che gli Dei sono,perchè la natura
avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata notizia (apódnbev),e ne
accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli eterni e perfettissimi e
conformati a si militudine umana,ma non da materia corporea e sensi bile,bensì
da un fortuito accozzo d'immagini simili rin novantisi all'infinito (imaginibus
similitudine et transi tione perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva
beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora
è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di
Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile
coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si
levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte, ammettevano
contenuta nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura,
divisibile, capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola
all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e
m o vevano per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai
prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano.
Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va
dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti
dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della
Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Crisippo, ci si presenta la
questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero
pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto
la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono
risolutamente, alcuni più recenti come Scholten, Kuehner e Ritter, con qualche
riserbo. Ma sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza comprenderlo
a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati dal concetto
che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del
De natura Deorum, partecipassequividel tutto il dubbio fon damentale e
sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava
invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente il
complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche
frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti
col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da
prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme
dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli
si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei
fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio della
Nuova Accademia, moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi
contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta
affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao,
più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie
opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio
fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da
Carneade, doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche
tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos
sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra
implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa
contradizione, non però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente
nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone
che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi
sostiene la parte di con futatorecol metodo della NuovaAccademia, è dato occa
sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni,
raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A
persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva
celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè
stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio
veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che,
sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso
all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone
possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè
egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci
dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione
potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo;
e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile
del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza
sui fondamenti della certezza morale. Il dubbio di CICERONE (si veda) nel libro
De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già
possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza
scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia,
quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime
conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e
metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il
quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le
potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del
senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice evidenza. Questa è la
ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed
agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune. Ora
siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento
di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per
tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e
conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica
de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova
Accademia, non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si
avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con
tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa
all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di
necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato,
allora soltanto si dava in essi l'errore. Un tal criterio, sostan zialmente
negativo e relativo,abbisognava (si dirà) diun criterio positivo e assoluto
desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi, su cui posa incardinata la
necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e
ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava
coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.) Un
si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro
Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo
de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di qualche Accademico che
confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella
conclusione del De Natura Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti,
termina dicendo: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo
(Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto
dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei,
mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri
accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e gli opoteva eglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte
quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai
vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la
spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli
Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili
argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio
citato la dignità dell'umana mente, il bisogno innegabile della religione
consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli
affetti dell'animo,isupremi principj della ragione e la libertà del volere (Tusc.,
d e Nat. Deor., De Leg., passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e
perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro
sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi
egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio
scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle
Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema
sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio
provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in
cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal
cielo. De Leg. Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose. Il
vero intendimento di Cicerone nello scrivere il De Natura Deorum fu,esporre e
confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come
istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza
accettarne lo scet ticismo. Cicerone non rappresentò sè stesso nella per sona
di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; Il filosofo
latino volle significare nelle parole del proemio, e della conclusione,e nel
silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un alto concetto,
che quel concetto nella sua mente era certo di certezza naturale, m a che in
mezzo alle tenebre del Ge n tilesimo e alla discordia dei dotti,non ardiva
determinarlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di
scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso
questo concetto. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando
le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue
l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una
possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di
determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene
offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua
essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale
dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze
conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di
molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa
dalla riflessione, le va si al concepimento delle cose infinite. Ma il concetto
dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi
significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in
ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità
indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però sebbene un
intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo sofoe dell'uomo volgareitre
concetti del finito, dell'infinito e del non definito, merita di essere
considerata quella ragione qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi
possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della
scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico,
indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine
cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa
necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente
determinato e imper fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean
che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto
creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal
necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie
logica di concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai
primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio, in un
continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca
d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei
concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene
ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza
una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e
in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto
infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di
somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m
o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella
potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del
concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi
iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può
facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e
di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana
presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi
rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente
continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che, a dir
così,sono e non sono ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un
concetto reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto
l'immagine d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in
Grecia;e così pen sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata
mente. Veduta la differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e
d'indefinito,si domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo.
Per fermo l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola,
evidentemente nel suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha
limiti ond'è costituita negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di
contingenza,perchè necessario, non limiti di tempo, perchè eterno, non
limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente
positivo come causa infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal
nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e
immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un lato è negativo nella
sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un che fornito di
limiti, dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto sussistente e
determinato; l'indefinito che è propria mente l ' i po y dei greci, è negativo
nell'essenza e nel l'essere; nell'essenza c o m e astratta potenzialità del
finito, nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai; e
dico che è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito
consiste nell'essere determinato come atto individuo e concreto, l'indefinito
che nega quella indeterminatezza, si riduce ad una pretta astrazione mentale e
per ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto
d'indefinito, cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante
nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la
divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che
nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono
scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che
nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia
agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia
dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose
ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando
dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i
filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto
dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non
escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero
in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale
il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore. Ma
tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i
pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito.
C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la
parte più negativa, tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione
confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne
avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine
s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima
considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa
teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli
della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli
della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di
Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti
dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la
materia contenga un intendimento morale, l'essenza di quelle dottrine si ri
connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di
tutti isistemi gentili, per quanto con nessi consottilissime prove, eanimatidaun
intimo principio diidealità, si annidava pur sempre una ragione dimateria
lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran
formati dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei
fenomeni della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle
altezze più metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj,
considerando in tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la
prima causa del l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten
zione al moto, e perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le
trasformazioni della natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la
causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice
delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della
materia,dall'una sostanza e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi
panteisti e semipanteisti, e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto
di forza (Büchner, Forza e Materia ); applicate poi questo concetto delle forze
particolari all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui
segua necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di
Capila, degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel
suo fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso
la riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di
cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima
cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m
a nifesta efficacia, l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta
a concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad
immagine dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente
col l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di
movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica, apparisce chiaro
quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile
che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e
la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo
in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus
animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il
modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e
finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col
l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale
l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad
altre,senzaorigine essa stessa e perciò senza fine. De Rep., e Tusc. Questa è
la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo
nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo
la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove
orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che
contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni
disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima
mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi
volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e
spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente
negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di
Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la
notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e
rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee
riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; uomo, è il divino esso pure
che governa e muove il corpo come il divino principe, l'universo;sempiterno,immortale,
rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora
celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà
eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le
remi niscenze di Platone e degli Stoici; ma degli Stoici v'è poco; laonde io
non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul
concetto della spiritualità divina (Hist. de la phil. anc.); perchè, sebbene CICERONE
(si veda) volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori
romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla
tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una
idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo
si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima
universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto
Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi
viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.» (Ritter,
Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia,
acutamente accennata l'opinione contraria.) inadeguata, io dico, perchè
l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non
può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia
il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in
quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal
ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce
incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il
sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È
questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso
dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo
vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno
fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi
libri popolari e speculativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del
l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene
alla sua pienezza nelle dottrine morali. Un primo passo di questa ardita
speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico
e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a
paragonarle tra loro e a combatterle con ogni argomento,non sa affermar che ben
poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo
nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si
determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine
platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle
Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione
intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel
l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il
metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico
del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima
umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si
dimostra movendo dalla tra dal dizione degli antichi, tradizione efficace
quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è
legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie,
negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli
uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama
con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui
efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la
condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e
contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea, affermava
con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo,
che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo
ond'ella è discesa. In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra
gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato il vero
senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non percepibile
al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del conoscimento, venuto poi
a determinarlo, rimase un po'titubante; onde,sebbenetra cinque elementi, che
secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre, scegliesse il quinto non
nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza, e rifiutasse le gros
solane fantasie d’Aristoxeno, di Democrito e d'Epicuro, quando se la immaginò
separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto spirituale. Concedansi
queste incertezze, da cui non anda assoluto neanche Platone, al bujo sempre
crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti principj si leva il filosofo
latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto inclinato con Platone ad
affermare l'anima come una natura perfetta e immune da ogni contagio colla
materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un carcere; colle dottrine
della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal sentimento unico ch'ella
ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il noto argomento platonico
tolto dall'eternità de'principj motori, e chiama plebei quei filosofi (gli
Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone anche l'altro che
all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli eterni esemplari. Che
dunque inferiva da queste prove? Egli stante la incertezza de'filosofi
contemporanei, non si perdeva a determinare in che proprio consistesse
l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte nendosi al concetto di
causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti interiori la sua validità
di contro al l'induzione delle scienze sperimentali; e si volgeva agli empirici
materialisti,maravigliandosi come negassero poter concepire l'essenza dell'anima
separata dal corpo,essiche pur tanto
poco conoscevano dell'initimo operare della materia; argomento valevole
anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla
ne cessità logica de principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a
parole,da quanti amano chiamarsi seguaci delle discipline speculativ e. (Tusc.,
Cf. Cato M., de Am. Meditando i capitoli della Repubblica e delle Tuscu lane,
alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e qualche squarcio delle Orazioni (Miloniana),
si vede in tutta la psicologia del nostro filosofo, anzi in ogni parte della
sua fisica questo ritorno costante dell'induzione correlativa;nè sfugga
all'osservazione del critico una nota importante di questa dottrina, e cioè
che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone desunto la cer tezza
scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio dalla contemplazione
dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più luoghi che un
sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle
tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo dell'anima. E
invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e immortalità
dell'anima u m a n a, dell'esi stenza di Dio e delle sue perfezioni infinite
non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel De consolatione, non
può in alcun modo trovarsi su questa terra. Non v'ha in essa niente di
misto, nè di concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m
perocchè tali sostanze non sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o
di pensiero, nulla hanno in loro che ritener possa il passato, prevedere il
futuro, c o m prendere il presente; le quali facoltà sono unicamente divine, e
non possono in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio.
La natura dell'anima è perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e
cognite nature distinta; talchè, qualunque esso sia, ciò che in noi sente e
gusta,vive e si muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però
eterno. Infatti Dio stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo
che come una mente liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede
e move ogni cosa, e sè stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa
stessa natura è l'anima umana.» Con queste parole conchiude Cicerone nel primo
dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile
per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi
abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello,
levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e
indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del
teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le
game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle
cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica
del concetto, sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle
Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci
hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente
l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni
andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da
certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e
la ventunesima del libro VI, ad Diversos)de Principio etherio
flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque
divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat,
Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul. De Divin. dussero
ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente Gautier de
Sibert nell'Accademia di Francia,e Kuehner piùtardilo confermava.Delresto per
ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più
dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario, immutabile,e
qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal
corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò
non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es
essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle
altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i
suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re
pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse
nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure
civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle
libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della
vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia:
Oratornandoalla dottrinateologica, questosegregare la mente dell'uomo da ogni
natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è
già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura
materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata
una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M.
Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare
sipossano arrecare due cause;l'una comune alla legge con cui si svolgono isistemifilosoficinella
storia,l'altra ristretta particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla
prima causa,se ricordiamo ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo
da sè stesso conce pisce nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e
l'anima lungo la serie delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più
vicina a sè stessa,immagina la divina causalità, intenderemo come fra le
contradizioni del panteismo quella che subito si porgeva più chiara alla
riflessione esaminatrice,fosse la medesimezza dell'anima e di Dio infi
niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione
uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del
corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in
fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di
Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini
sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè
innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava
vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle
scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano
ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali
della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed
opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei
più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione
del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola
socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur
necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul
come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo
coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete
immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n
tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto
d'attinenza creatrice.(Vedi Platone, Sofi sta.) Quindi la mente desaggj
ondeggiava di continuo da un termine all'altro di quella contradizione
immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire del filosofo
latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori
quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la
causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi
soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione
che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche
in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della
differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla
dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del
dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e
le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel
libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo
il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle
cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto
misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo
comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con
Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del
l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e l'imputazione
morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua dottrina fisica del
dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte ne’libri che
esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano affermazioni decise e
ben ragionate sulla provvidenza di Dio e la libertà dell'essere umano. (De Leg.,
Fin., Tusc., N. D., Catil., pro Marcello, ad Att., ad Div. Certo s'egli non
fosse nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica
della creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle
maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle età
trapassate, (Conf.) ha tratto dalla notizia di Dio creatore un concetto
chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu
rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che
congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma Cicerone, come tutti
igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene proposta alla mente dei
filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra
un frammento del libro terzo De Natura Deorum, conservatocidaLattanzionellibro
secon do,c.8 delle Istituzioni divine. Esclusa la teorica del congiungimento
tra l'infinito eilfinito perattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che
due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta
separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal
relativo. Ma la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre
all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte
accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno
de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole
pratica e positiva del politico e del cittadino; laonde egli la c o m battè
acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici
sulla divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva
dalle premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo
daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab
eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo,
che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella
natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione
de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si
trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della
propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di CICERONE
(si veda) nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro
secondo; e quel dialogo è di somma importanza nella storia delle credenze umane,perchè
trattando la gran questione del soprannaturale agitata ai tempi di
Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso degli
animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la rovina
del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione tra
l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata
nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un
dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio, console, scritto, insieme coi due libri della
Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la
libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare
le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo
dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile, menava al
lora (come oggi) alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato
(detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di
forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto
in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che
da questa dottrina condotta alle ultime conseguenze,
uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era
alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini
soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter
minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo
Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di
cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine
naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da
questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa.
Che cos'è la libera volontà? salità poi non dee intendersi costituita
dalla pura e semplice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita
coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano controCrisippo),argomentano
benegli Una libera causa; lacail Stoici dicendo che nell'ordine
prestabilito della natura tutto si opera per cause antecedenti ed esterne, m a
non hanno ragione se vogliono turbata questa legge della n a tura dall'operare
dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o non volere qualche cosa
senza una causa, fac ciamo uso non buono di una consuetudine del linguaggio
comune, intendendo dire, senza causa esterna ed antece dente, ma non senza una
causa qualunque;di fattiil moto volontario degli animi ha tale natura che è in
nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè la causa di tutto ciò è la sua
stessa natura. Non ci è permesso riferire qual fosse in ogni parte la dottrina
diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè il libro De Fato racchiude importanti
lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la fondava sulla certezza
dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si apriva il passaggio dalle
opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente e con ordine verrà dimostrato
nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine sin qui esaminate si re stringe
le serie delle opere fisiche di Cicerone. Nelle quali vuolsi considerare
com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi contradittorj e negativi,e
costretto ad esercitare l'esame della riflessione sopra una materia scientifica
ingombra nelle parti più sostanziali dalle te nebre del sofisma, distinse le
verità disputabili dai teoremi della scienza,sceverò con critica coscienziosa
ilbuono ed il certo delle filosofie contemporanee ponendo l'una a ri scontro
dell'altra, e temperandole ne'loro eccessi. Per tal modo le principali verità
mantenendosi intatte, soc correvano il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei
prin cipj della scienza cristiana; e questo è davvero un m e rito insigne e
innegabile della fisica ciceroniana, come altri notati da noi sono la sua
temperanza verso le affer mazioni eccessive degli sperimentali, il concetto di
Dio, ravvicinato alla dottrina di Socrate,e sciolto,per quanto
erapossibileallora, dallecondizionielimitazionidell'uomo, la natura spirituale
dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento morale e di
costumi nefandi. Su questi principj fondava l'oratore latino la sua fede
religio sa;chè se (come nota bene Vannucci) « nella Divinazione ed altrove, allontanandosi
dalle forme timide della Nuova Accademia con argomentazione più forte che in
ogni altro scritto combattè da arditissimo novatore le credenze usate già come
istrumenti oratorj e politici,e mostrò il vano e il ridicolo dell'arte
divinatoria, e dei prodigj, e delle imposture sacerdotali; » Senatore e console
di Roma, egli voleva una fede ritemprata alle sorgenti incorruttibili della
morale, e che diventasse vero fondamento alla rico stituzione civile della sua
patria. 1. Se la scienza, come affermammo più volte, è un portato delle
naturali notizie; se, ritenendo essa nel suo svolgimento la natura del
principio che la informava, la unità dell'oggetto scientifico, riconosciuta
dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di veri presenti tutti al
l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto scien tifico; nessuno può
dubitare che i principj della teorica del conoscere, o della Logica non si
colleghino intima mente con quelli della teorica dell'essere, coi principi
dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a n teriore al fatto della
scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa, ha la sua ragione
nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico fonte, rampolla la
triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare; l'ha nella stessa
natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice aspetto, è prima
essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato nell'intelletto. La medesi
mezza delle due parti suddette della filosofia apparisce per modo indiretto
nella continua attinenza che strin fra loro le questioni più importanti della
logica e del l'ontologia dai più remoti principj della nostra scienza fino ai
tempi a noi più vicini. È un fatto omai noto nella storia della filosofia come
il quesito fondamentale della logica, qual sia la relazione che corre tra
l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le leggi del pensiero e quelle
della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli gente all'inteso,se ne
costituisca la possibilità della scienza, quesito contenuto ab antico nella
materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua vera espressione
scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì noto ai di nostri
come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono due scuole; il Criticismo
francese e alemanno, e il Criticismo cristiano, che cominciato dai Dottori e
dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a fiorire segna tamente in
Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse sostanzialmente nei principj
ontologici del sistema, dissentono pure nella logica. La prima desumendo le sue
dottrine dal panteismo e dualismo antico, resuscitato più tardi da un ritorno
della civiltà cristiana ai dommi del Gentilesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice
che per legge di natura intercede tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e
l'oggetto, e quell'attinenza ode naturò in identità colle dottrine d'un'unica
sostanza, o riduce a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra
le qua litàdell'esteso elequalità del pensiero, d'onde il sistema delle cause
occasionali del Malebranche, quello dell'armonia prestabilita del Leibnitz e lo
scetticismo di Bayle e Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la
libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione
di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con
sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima
essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione
d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella
cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la
realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti creati.
Or che si deduce da ciò? Che se il principio del Criticismo, ond'è ridotto a
problema il teorema della conoscenza, ha un intimo riscontro nei fondamenti
della dottrina dell'essere, ei si. Ma qui cade per altro una considerazione importante.
Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della
conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o
affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio
di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano
per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e
quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente
negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione
del soggetto su cui cadelascienza, qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi
si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice.
Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due
parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e
mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si
chiudono la via ad affermare intera la notizia dell'essere umano, denaturano il
legame che intercede tra l'ideale e il reale, e rendono impossibile la psicologia,
ingannatrice la logica. Un breveaccenno di questa legge necessaria che si
riscontra nella storia delle controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto
nella prima parte toccando dei sistemi principali che apparvero dal primo
scadere della scuola socratica fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato
da noi come a n dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri
principali e delle antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale
dei sistemi,e come l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal
sistema d'Epicuro, e dalle dottrine logiche della Nuova Accademia. Ora
poi stemi che alterarono questa dottrina sono contemporanei ai primordj
della filosofia, antichissimo deve essere il fon damento del Criticismo; e ne
sono testimonj le più strane teoriche sul modo del conoscimento procedenti
dalla fisica de'sistemid'India, d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di
Capila, gl'idoletti di Democrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di
Lucrezio. ci sia permesso venire su questo proposito a maggior
particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di Tullio dove conviene
esaminare la controversia tra gli Stoici e l’Accademia sulle dottrine del
conosci mento,rappresentatada luineilibri Accademici, importa massimamente il
notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema
fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come
dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il
quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il
principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito,
il sistema d'Epicuro e le dottrine dell’Accademia, non che lo scetti cismo e
l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco, che
non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con
quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano
abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava
nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e
vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due
aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità
primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta
e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin
cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La
sostanza prima, distinta allora in un'anima e in un corpo universali, causa
delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che
rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed
inanimate le fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla
natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella
sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il
corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo
principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici
dall'unità dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale,
il pensiero cogl’oggetti, l'intendimento col senso. Considerato
inquestegeneralità il sistema di Zenoneabbraccia tutto intero il complesso dei
veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni
ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno
fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi, il divino e materia,
anima e corpo,intelletto e senso, pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e
siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia.
Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice
che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia,
concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima
energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa
dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta
in quella forza primitiva e in Dio stesso, che la pone in atto, le qualità
corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di
materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge
necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se
ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a
maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il
sensismo in psicologia; quindi, già lo accennammo, alterato il vero concettodi
potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci
viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è
l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del
l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi
le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del
soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici, si nascondeva per fermo
una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa
considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui
restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile a
sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che cosa o di
tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio essere in
un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali, ti
doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile, oscuro e
sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce
dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del falso,
facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati della p
o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre
difetto) germinava quello dell’Accademia. Chè, se fu cattivo abito della
riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni
materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo
nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu
pessimo nella Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto
all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi
nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero vuoto, fenomenale,
apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento. Quindi a una
negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi, la
polemica tra gli Stoici e la Accademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a
mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea
ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo
aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti
veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva. 94
Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli
Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del
primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una
semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta
in fondo la lotta di tutti i tempi tra il dommatismo inconseguente e lo
scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af
fermative con altre assolutamente inquisitive era, come dei nostri,
un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei
quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice,
dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e
imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo
erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano
bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici
quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto
facili ai propositi gene rosi,quanto difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e
da piazza; politici predicanti la severità antica nelle m o l lezze moderne;
uomini a cui mancava la lena di levarsi sulle ali del pensiero alle universali
armonie della scienza nel vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri
gionarsi nelle angustie d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a
sofisma,contradizione a contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come
in simili casi, del difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini
l'una e l'altra con animo non preoccupato, e poi non imiti Cousin, che
dall'accozzo fortuito degli errori volle ricomporre il corpo formoso della
filosofia, quasi statua da brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di
compirle ambedue colla pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale,
soltanto allora elle t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai
brillare al pensiero la luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è
finta da Cicerone come avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti
lo stesso Ortensio, Catulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo
e CICERONE (si veda). Lucullo sostiene le parti d'Antioco, del Portico, contro
Filone, dell’Accademia. Tullio quelle di Filone contro Antioco. Or qual era il
principio da cui moveva, e quali i punti più segnalati in cui si spartiva il
ragiona mento? Qui occorre ridurci a memoria un'importante osser vazione del
Ritter. Il quale nella sua Storia della filosofia antica, tenendo dietro
all'indirizzo che la dottrina sulle fonti del conoscimento avea preso da
Aristotele in poi, quando nota la differenza segnalata che correva tra gli
Stoici e il filosofo di Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma
senza negare il resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove
gli Stoici, più vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in
più il pensiero razionale alla sensazione concependolo solo come una sua
conseguenza e trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi
difficoltà, le quali si opponevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si
rias sume intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero. Ritter.
L'osservazione di Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che
trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo
artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte
che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio
del l'età e il decadimento della forma e della materia scienti fica li
inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la
scienza; dall'altro la tradi zione socratica e la voce non muta del senso
comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà
dell'animo e i termini loro, e a rendere possibilmente perfetta la forma
scienziale; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare
continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora
che ne veniva da ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano
l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi
sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione, fondamenti primi di
tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del
conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella
rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn), ch'è un patire
dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito,
dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione
ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui, giova il ripeterlo, stave la fallacia
dell'argomento; gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la
pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non
negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa
come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza
di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione,
l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione
di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli
organi de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle
facoltà conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo
e d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego
agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza
intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una
condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e
dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della
scienza.Ma il fato della logica non's'arrestava; e gli Stoici ristretti in tal
modo nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo
sguardo alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede
vano l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la mutabilità
e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero contenuta negli
universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza. Quindi proveniva
il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e da principj
indubitabili ed evidenti -- Acad. Quindi la necessità di mostrare,primo, come
si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera; secondo, come
movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente stessa che è
fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale energia per cui
tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons est,atque etiam
ipsa sensus est,naturalem vim habeat quam intendita deaquibus movetur. Da
questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici, [La prima parte
cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi
segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova
Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa
nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi
l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del
soggetto conoscitore. Posta in tal modo la questione, è chiaro che poichè il
mezzo di passaggio del vero conosciuto dalla cosa, occasione del sentimento, alle
potenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a
provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei
sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il
giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj
intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè: ,dato che i sensi siano
sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso
coll'esercizio e coll'arte aumentarne mirabilmente la forza, il senso è dimostratovero
ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso
somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via
ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti
i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la
teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io,
diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile,
questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. Ma Filone
invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità
del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto,
poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna
cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i
giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione de'sensi,
dal germe del conoscimento spunta 98 il ragionamento d’Antioco si dirama
in due capi: della percezione e dell'assenso. Il ragionamento di Lucullo,
compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove
l'umano intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle
contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è
uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi
n'ha seguito con gioja confidente il cammino, se poi si volge ad aspettare la
risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli
stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per
aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di scetticismo
assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si fonda in special modo
sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè sull'in
discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al sapiente
non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di
verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti. Cicerone non sostiene
egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine
stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere
seguace della riforma il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi
negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto
appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà
naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter
mine dell'apprensione intellettuale, perchè ilconoscimento coglie di sua natura
l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento, lanegazione
dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento.
Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè
una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura,
ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui
vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo
stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge
a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»). introdotta
da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai
Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non
han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della
filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia,
s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo
scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine
contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque
Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica, seguitò il dubbio dell’Accademia.(Brucker,
Degerando, Bernhardy, Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel
cap.I di questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi
del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da
tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in
persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai
sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio
sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica
contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine
esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin
da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che
rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le
affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti
della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso
principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico
fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col
genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa
della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e
solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di
que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle
consuetudini; bisogna immaginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti
e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle
contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore
della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio
irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi
tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella
morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno
davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci
duole a confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie
opere, ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che
forse non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della
dialettica di CICERONE (si veda), sebbene non n e ghi che il filosofo latino si
leva al concetto dei principj e delle idee universali, cardine
dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare
importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui
laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza,
e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti. Hist. Ma inprimo luogo, oltrechè
Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un
qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato
essenzialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto
spirituale col vero -- De Fin. -- è poi esattaabbastanza l'asserzione di Ritter,
checioèiprincipj fondamentali della sua filosofia naturale lo conducessero alle
dottrine logiche per via della sensibilità? Sefosselecito affermare risoluto
contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause, intrinseca
l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con
clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointanta corruzionedi
tempi) aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in
mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e
sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il dualismo semipanteistico da
un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano
agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali,
segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere
nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti
secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e
da Tullio,rompeva l'attinenza tra il pensiero e I pensati, tra l'ideale e il
reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli
universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal
porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo
prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle
scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia
de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di
principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua
psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo
al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo
risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun
emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un
gastigo. (Tuscul., De Leg., De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa
estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento
prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli
Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava
colla moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero
forse condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro
acume di logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli
avversarj. Qual era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la
conosciamo;era l'eterna differenza che corre tra il sentimento mutabile e
fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza. Questa necessità
sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici
dal porre ch'essi face vano il conoscimento scientifico nel possesso delle
idee pure, e nel rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a
cui lo spirito umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015
– “adsentio” -- e della 2.zténnyes – “comprehension” -- , movendo come da suo
principio dalla suurusis, o rappresentazione sensibile – il “visum”. (Ritter; Cic.,Acad.).
Ma, seconsideriamo meglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa
e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una
differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni
animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al
soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il
conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che
ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni
resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi
l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la
potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal
contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali
ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle
contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure
implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del
concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non
rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla
indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale
indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo
della questione sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta
necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia; perchè, come
os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per
quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la
sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della facoltà intellettiva e appetitiva
il vero ed il bene; laddove gli Stoici susseguenti, al numero de'quali
appartiene Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero
alle ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella
rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un
obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una grave difficoltà
rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Crisippo.
Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere
quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo
ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di
quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò
unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la
rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità
dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto
qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di
ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n
sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del
senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo
stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi
si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi
bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle
potenze spirituali. Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special
facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che
mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti,
vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di
ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di
natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col
pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda
armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità
nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile [Il sistema
cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo
ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia
del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello
scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le
attinenze dell'umano pensiero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente
serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane apparenze quasi
dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti
fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno
di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del
Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare
cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce
lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e il termine
materiale? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo
più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento
doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del
senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della
dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò, nota bene Cicerone, essi furono assai
meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data
unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare la certezza delle
umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del fenomeno
sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come
veretutte le percezioni, ma solo quelle che presentavano in sè l'evidenza della
cosa percetta, nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria
dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui resultamenti del senso, si
chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni
dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro
gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei
ragionamenti sofistici. Acad. -- germi immortali di vero che il filosofo romano
seppe raccorre con rara indagine scientifica nel suo tentativo di conciliare le
scuole greche,producessero una vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di
una dottrina rin novatrice. Nel libro Contra Academicos Agostino serba a un di
presso lo stesso ordine della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move
dagli stessi principj, ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di
insolito, d'efficace, d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione
nuova tu lo senti là dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai
all'eleganza tulliana, ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del
parlare improvviso, quanto nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo
iparticolari, dove facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia
nell'evidenza de'principj s u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da
Sant'Agostino non calzava agli Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e
reale attività dello spirito distinta dal senso e capace di rettificarne
gl'inganni, non potevano rinvenire nell'essere stesso della percezione segni
indubitati ch'ella fosse verace; e il loro concettualismo non li lasciava af
fermare contro il dubbio aceennato dalla Accademia sulla validità del pensiero.
Gli storici della filosofia ci han serbato in fatti memoria di una strana
dottrina degli Stoici procedente del resto dall'intimo del loro sistema e da
quella tendenza dualistica che vi si mesco lava ai principj del panteismo.Qual
era questa dottrina? Gli Stoici ponendo in fisica per un lato la realtà delle
cose nella sostanza corporea, nè per l'altro costretti dalla logica riuscendo a
negare del tutto l'essere delle idee universali, distinsero queste dal reale
corporeo,e ne fecero alcunchè di non reale, ma capace d'essere concepito
dall'intelletto ed espresso in proposizioni (Asztóv). Distingueno quindi due
specie di vero; il sensibile contenuto nelle percezioni de'corpi, e il
pensabile ristretto alle in tellezioni della mente,questo procedente da quello
e a quello correlativo; volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti
la necessità de'principj in cui cade la scienza, nè gli acuti pensatori
s'avvidero che, se l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in
con seguenza ch'ella stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque
conformità tra il concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel
concettualismo rinno vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Accademia
recava alle ultime loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica;
dal principio del sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della
percezione sen sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare
la realtà del pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai
notevole infatti) la dialettica non potere giudicare delle leggi della
geometria,perchè aliene dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro
prie, perchè non può il pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi.
L'argomento è di recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi
iseguaci del Comte, I Positivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze
che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in
sè stesso, e negata la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a
risolvere il problema dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne
che dunque la contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa
ultima conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della
rifles sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di
Conisberga,m a già è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della
Nuova Accademia. Ac. Costituita dunque in questi termini, la controversia sulle
fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo
assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto
dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali
e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito.
Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili
che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les Stoïciens,en admettant la possibilité de saisir
quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir
erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de
refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne
pouvaient dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage; ils regardaient, au
contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir
véritable à tout le monde. Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir;
mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait
une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y
croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions
sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement
notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme
parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas
faire disparaître la différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de
tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous
n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir
prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain
en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain.
C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour
incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la
vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils
ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence
entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent
pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au
contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans
pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude. On voit bien que
cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la
nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle
n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et
invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre
chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait
de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale. Il
avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux
académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor..) 4. Il fondamento della teoria tulliana sulla
verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero; e qui,
segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato
scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le
cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del
dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica
nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede
illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al
loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata verosimiglianza ne’ casi
particolari, combattè gli uni e gli altri rigettando il dubbio assoluto sui
principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off, De
Div.,De Nat.Deor., Acad. La sua psicologia in quelle parti che si collega alla
logica, sebbene qua e là infetta del dualismo socratico, fa fede com'egli
emendasse il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta
riflessione de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo
induttivo egli moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti
dell'oltre naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o
gnizione dell'animo -- Tuscul. Nell'animo distingueva la ragione dal senso;la
ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel
vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj
dell'anima,le danno di molte cose certa notizia confusa e ammezzata, cheèun
qualche fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia
dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u tabile dei
sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben
guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine
al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi
soltanto può introdursi l'errore. De Leg., Tusc., Ac. Così col metodo induttivo
di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo
d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i
quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata
a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto
è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per
soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano
per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono
signifi cativi, CICERONE (si veda) divide la logica in inventiva e giudica
trice, la prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda
li dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica
Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel
De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele quale più tardisimo dificòne
gli StoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti
romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava
lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce
da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni
Giuseppe Klein. (Bonnae) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta
dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in
questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad
un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude
dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto
aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone
nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio)
di fare un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto
il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici
dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi
averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare
disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e
bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo
passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare
della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle
lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole
del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della
dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di
Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle
scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della
dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e
civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali,
apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra
invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in generale
del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più immediate e
più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero la scienza
morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava a
conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e
trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno
stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i
principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più
affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla
IV. natura, presupposto indispensabile della scienza; chè la riflessione
posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una
ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai primordj della vita
vege tativa e animale, manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e
dagli istinti,passa su su agli inizj della vita razionale, allorchè quei
sentimenti illuminati dallo splen dore della conoscenza si palesano come
tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in quei termini riconosce la
ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa onde nasce armonia nelle
operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto di legge, d'un archetipo
assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto indirizza il volere a
un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine, legge; ecco i
concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia della coscienza,
costituiscono l'ordito dell'Etica, allaquale, considerata per questo rispetto come
scienza direttrice della più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le
altre scienze costitutrici della filosofia. La Fisica, come la intendeno gl’antichi,
la quale meditando il principio primo dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne
ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali
armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione
immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature.
La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge
facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i
sentimenti più schietti della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come
tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere
e diritto sono concetti eminentemente morali in quanto da un lato discendono
dall'idea della legge,le cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli
enti creati,capaci di cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della
loro natura; dal l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato
d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la
sanzione di quella legge,la quale osservando si sente capace d’immortali
destini. Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius
di natura si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si
dirama il gius civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra
scienza meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione
moralmente inci vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un
mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti
l'amore santificato da tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi,
l'immagine più che umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare
un perfezionamento vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo
diede allorchè dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la
finita natura dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per
assorgere al concetto più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire
l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura
in telligibile e sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un
disegno della provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il
concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e
del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei
diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il
che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura
all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini
arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana
respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino,
e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma
dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Serbatti. Considerate le quali cose,
se alcuno mi domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca
dere di costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori
sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj
segnalati nelle Indie, in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole
socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane
tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano
inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti
della medesima specie, che essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene
fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e civili, e infine la
notevole differenza che corre fra l'apprensione astratta del vero e il
sentimento che n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e
il popolano e la povera vecchierella fanno a m mutolire coll'evidenza della
rozza parola il superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque
Socrate, e dove si conservava nell'amore del bello e nei gentili attici costumi
un germe di rinnovamento, rimase aperta la via a tornare sulle antiche
tradizioni, attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come
scintilla da selce,i principj della morale che fanno sì bella parte delle
scuole socratiche. M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a
ravvisarsi l’età sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era
insanguinata e commista la civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab
antico una notevole inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini
di pratica a p plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei
Giureconsulti, il cui pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e
infine perchè, se una riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di
costumi,in tanto scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella
notevole prevalenza che da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree,
certo quella riforma dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica
ciceroniana, che è uno dei più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per
opporsi, senz'altro ajuto che l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva,
alla rovina d'un'intera nazione, era dunque preceduta da un grande
preparamento; chè giammai si compie un gran fatto senza che nei tempi e nella
società,da cui nasce,se ne acchiudano i germi. E i germi della
riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le condizioni civili e
politiche di tutta l'Italia e di Roma, i Giureconsulti e le sètte, alle quali
s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle scuole socratiche, e
segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi egli mirando componeva
il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile magistero l'avrebbe
ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una vera dot trina, a
ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione esaminatrice, s'e'non
avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore ad ogni opinione e ad
ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel suo popolo, in Italia,
in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e più viva in sè stesso,
cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante volte dall'alto della
tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola onnipotente. Questa
meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era dedurre le ragioni
del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con Dio,valse a Cicerone
le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai gne. Ma Montaigne,
osserva opportunamente un altro scrittore francese, cercava forse troppo
sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo tra i bruti; Cicerone
lo stimava creato a qualcosa di più alto e di più solenne (ad majora et
magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la nobiltà dell'umana natura,e
l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio, per costituire la morale e
con essa la vita civile su fondamenti non peri turi. Premesse queste
considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti osservava
rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi, si
distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal l'indirizzo
del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali, estrinsecamente dalla
forma filosofica de'trat tati. Una parte è teoretica e principalmente
speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle tendenze n a
turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema sulla natura dei
beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti universali di legge,
di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra parte, in cui prevale
un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai principj fondamentali,
innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita dell'uomo individuo e
sociale e nelle dot trine sulle forme di governo (Tusculanarum, Paradoxa, De
officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se poi si considera bene,nella
prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal Kuehner, è compresa
manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva; soggettiva e ogget tiva ad
un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio intorno alla natura dei beni, la
riflessione scientifica si volge da un lato sulle tendenze e sugli affetti
spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un riferimento necessario a qualcosa
d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen zialmente oggettivo,
all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi l'obbligazione morale; e
quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel filosofo nostro da quella del
Dovere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro unitivo delle armonie morali,
la teorica della legge. Ponendo mano impertanto all'esame della parte
speculativa,cominceremo dalla dottrina dei Fini, trattata ex professo, e con
intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a cui fanno corredo
con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente speculativo, le
Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi.Thorbecke in una sua dotta
dissertazione universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj
desunto dalle opere di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo
bene,occupa un luogo principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco
allega a questo proposito l'autorità stessa del nostro oratore, che più volte
nelle sue opere, e segnatamente nel primo libro degli Officj,riferisce
ilfondamento delle dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De
finibus nota oppor tunamente contro gli Stoici non potersi separare,
come [Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per
risolvere il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo
edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e
so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente
coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare
quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo
interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente.
L'altro metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del
sofisma, consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito,
nel considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà,
tralasciando le altre, nell'offrire come opera compiuta del vero e di Dio un
informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e
fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della
coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La
quale avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia
trovarono anche in questa parte della m o [ termini identici d'una stessa
relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema
importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare
che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di
relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il
filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura,
comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime
tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano
nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento
della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare
tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei
proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della
famiglia, come individuo e come membro della civil società. rale di
Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto
scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo
criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano
quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata
conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo. Ritter,
Brucker. A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da validi argomenti,
rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e palpabile contro le
afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in mano le opere del
filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi dialoghi pieni
di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se fosse
possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam pagne
di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a
conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana
coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una
disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore,
argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il
consolare L. M. Torquato, M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto
ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma, ora nella biblioteca di Lucullo presso
Tuscolo, e in fine all'ombra silenziosa deplatani nell'Accademia d'Atene. Per
cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella
prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in
Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo
un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o
contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un
esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza,
manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo
meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al senso,
e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri del corpo e i
piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del senso.Una
siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo, riduceva il
sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por tato d'un
ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo l'intuito
vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro sentimento
animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo disentimento, ma
d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere che dee cercarsi
per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana natura e delle
virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in un'assemblea di matrone.
De fin., De off. Tali sono gli argomenti, tolti altresì dalle in time
contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di rimando contro Epicuro
colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua risposta a Torquato è un
con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame del l'umana natura, un
esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini, del suo aspirare
all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo dell'accusatorediVerre, e del
persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da parte ogni dubbio combattendo
nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori dell'affrettata rovina di
Roma. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri, in cui l'Ora tore latino,
volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e spontanea per ricondurci
nel vero,rappresenta quella contradizione tra il pensiero e l'operare, tra le
dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri in uomini spon taneamente
inclinati al bene per virtù di natura, e che han guasta la mente da malvage
filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e invoca la sua coscienza di
cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni de'suoi avi famosi e il
suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle dottrine da lui
professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle nei comizj, alla
presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo coif vincimento
unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè mai v'è tanta
contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che sostiene
come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? Ma badi, risponde CICERONE
(si veda), che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato
dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si
leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e
inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere! Questo
intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e
la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto
principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento
del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve
poi in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a
partecipare al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte
parti somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità
del costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine
sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla
coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il
male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o
ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non
pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava
potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af
fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un
argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei
filosofi, avea per Cicerone il valore di una prova scientifica, come testimo
nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei
la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo,
e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati
solenni e infallibili del senso comune. Sennonchè, mentre nel secondo libro
de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con
futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di
scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando
nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa
dall'autorità e dalle parole di Catone Uticense.E invero,qualunquevolta a
mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui
Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente
dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita,
varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più
generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio
avea fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del
l'ordine naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura.
Πρώτος ο Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene
Laerzio; e in quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia
del l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo
notammo più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un
esame parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale
offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale
dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del
bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di
quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame
psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione
totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a
quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso,
nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le
cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di
causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la
notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose
che sono secondo natura. Laonde dal concetto del bene come d'un che ideale,
assoluto e simile soltanto a sè stesso, venne poi il concetto della virtù,
al quale il filosofo del Portico saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che
cos'era l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza
dell'atto umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi
dicevano, avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento
pratico e razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo
l'infanzia, che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima
nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime
inclina zioni della natura move il principio dell'operare, ma non però quelle
cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era
vero in parte, ma nel l'esagerarlo sta il vizio fondamentale della morale del
Portico; l'esagerazione poi consisteva in considerare l'atto m o rale come
avente a fine sè stesso, niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni
condizione esterna della vita privata o civile, e da quell'armonia che
intercede tra la ragione e gli affetti, onde il libero volere o è condotto o
conduce; nel porre in petto al sapiente quella virtù fredda, impassibile,
solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come immobile quercia radicata nei
macigni delle Alpi. Se poi si considera più addentro nelle ragioni isto riche
del sistema, il concetto eccessivo della virtù ci palesa un vivo contrasto
della morale stoica coi tempi. Qual fosse il secolo di Zenone facemmo vedere
più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo un uomo di gagliardo volere e
di generosi propositi, che ponga mano alla filosofia coll’intendimento di
fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine più alto,subito si capi sce
come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla ignavia dei tempi, la vita del
saggio dovesse sembrare una lotta continua della ragione innamorata del bene
cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi, colle ree c o stumanze civili,
e l'onesto una perfezione quasi supe riore all'umana, e conseguibile solo da
pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro terzo; Kuehner e Thorbecke passim.)
Esponendo e confutando i principj più generali della morale stoica,abbiamo
esposto in gran parte intorno a questa materia le opinioni del filosofo nostro.
Solo ci ri mane da cercare in qual modo egli svolgesse le proprie dottrine
morali in contrapposto alle dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del
bene supremo da lui combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a
pensare un più vero e men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non
v'ha forse luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente
dell'inge gno speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il
suo metodo delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non
divisibile dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo
dalle idee più comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle
dottrine del Portico colle necessità e cogli usi della vita civile, procedono
poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei fondamenti del
sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da un metodo rigoroso
d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico delle dot trine, e sulla
loro armonia coll'indole del soggetto; nè sembreranno,iocredo,eccessivamente
severi,come parvero a Kuehner, qualorasipensiche Cicerone, traisistemi
maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro lo stoico, e che
inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame di lui sulle
dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova di ciò
Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio s'erano
formati gli Stoici, e su cui fondano la morale, vi scopre il principio d'ogni
lor paradosso, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo; poichè, se
da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto intendimento civile,
ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri
affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella
parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna
che turbasse la tranquillità del suo spirito. Ritter, Morale des
Stoïciens, Questa era un'ambiziosa ostentazione del sommo bene, così la chiama
il nostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva
privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del
senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il
volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che
visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a poi,avendo fatto
nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo
la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse
unica parte della umana persona. E qui è notevole davvero come ricercando il
nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico del bene
supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e scientifico
della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un concetto
positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le forme
irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi dalle
contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma procede piùinnanzi, indagasottilmente
l'intervallo che separa il conoscimento diretto dal cono scimento riflesso, e
pone la vera indole della scienza nel suo differire dalla natura,a quel modo
che il compiuto differisce dall'incompiuto, l'attuale dal virtuale e il per
fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice Cicerone, move dai principjdi
natura, e come tale ha nella stessa natura la possibilità d'ogni suo sviluppo
ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è un perfezionamento, non genera le
notizie dirette,m a le chiarisce,le distingue, le corregge,le riduce a
principj; non disegna ella stessa l'immagine dell'umana virtù, nè dispone
l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle essenziali e ingenite dis
posizioni; talchè l'opera sua è un continuo avvicinarsi al concetto del
bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e somiglia all'opera dello
scultore che riceve da altri già disegnata e delineata la statua per
ridurla poi a compimento colla virtù del proprio scalpello. « Ut Phidias
potest a primo instituere signum idque perficere, potest ab alio inchoatum
accipere et absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa genuit hominem,sed
accepit a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet institutum illud quasi
signum absolvere.Qualem igitur natura homi nem inchoavit? et quod est
munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi et perfici debeat? Si
nihil in quo perficiendum est præter motum ingenii quemdam, id
est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere: rationis enim
perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa, valetudo,
vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ ritur. Quid
ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum enim constet
inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse occu patum,
alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias adferunt, ut
summum bonum in eo genere ponant, quod sitextra nostram potestatem,tam quam de
inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus nullum sit hominis, ita
præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque animus non inane nescio
quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in quodam genere corporis,
ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat vacuitatem doloris.Quam
ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli gerent, dexteram
tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem amplexarentur,
actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa prætermittentium, dum eligant
aliquid,quod sequantur,quasi curta sententia. Atveroillaperfectaatqueplena
eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque
corporis partem vacuam tutela reliquerunt.» Questa bella dimostrazione,
che Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio, e che
trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle
superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge
dell'universo, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della
Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e
dell'universalità dell'ingegno latino. Concepiva il Romano lascienzacome un
ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa,
era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava
come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj
gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica,
intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra
la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete
veracemente, tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di
natura;filosofo falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla.
Quindi era sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa
di sua natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile
dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che
disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in
tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo
stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze, a
un tratto le abbandona per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura
dell'uomo contraddiceva. Cf. De legibus. Considerata sotto questo
rispetto,l'idea altamente c o m prensiva,che Tullio s'era formata della scienza
morale, lo ravvicinava ai principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi
assai chiara; poichè,posto una volta,com'è di fatto, la scienza non essere
altro che un fedele ripen samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei
principj intrinseci ad esso venire l'ordine esterno costitutivo del metodo
dilei; ammesso inoltre infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma
essere,come nelle istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj
dell'animo; da ciò consegue che la misura per determinare la bontà del metodo
d'una scuola, e il suo avanzare o allontanarsi dall'istituto riformatore,sarà
ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia
esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole successive dal principale
istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno
dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri
formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il
principio della morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è
noto quale fosse la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo
ateniese dava a quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il
sentimento della perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più
vivo dalle armonie pitta goriche, traesse lui, uomo di smisurato intelletto, a
im maginare la virtù costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra
loro e coi termini esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo
perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della
morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e
dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento
delle istituzioni civili tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene
affermasse l'effettuamento del bene assoluto non potersi dare q u a g g i ù,
perchè il bene assoluto è l'ente i n finito, in sè e per sè sussistente,e
partecipato solo im perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la
virtù in un continuo avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di
perfezione, e riconosceva nei beni ter reni un'effigie lontana e appena
un'analogia della beatitudine eterna (Quo i w s i s Sew. De rep. e Thea et. ).
Aristotele, ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in cui, perduto
il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore
la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula
tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice
avviamento all'azione, della politica la parte principalissima della sua
morale. Il concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle
dottrine del figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e
nel Peripato; Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica;
Aristotele lo ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo
solo far notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due
scuole, non già determinare una essenziale diver sità nei fondamenti della morale.
Chè la pienezza dell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate,
durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra
le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema,
ne combatterono il metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento
dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più
cose.Primie ramente si comprende come il pensiero dell'oratore latino sulla
teorica del bene morale, considerato sotto il rispetto o semplicemente
speculativo, sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico,
sia un testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più
generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e sofistiche, ai veri supremicostituenti la scienza. Da que
ste considerazioni esce anche nuova luce sull’intendimento a cui mira il libro
De finibus. Quest'opera è di una singolare importanza per la storia della
scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e
chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del
metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab
absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria; pose cioè
più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di
contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al
concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando il Socrate
del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino
a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che
signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo
libro confutava Epicuro mostrando quant fosse difettivo il suo
principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel
terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i
filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del
principio spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro
intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Accademia e del Peripato.
Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai
primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della
vita intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della
conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e
quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione
più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli
altrianimali,simuta inconoscimento; vis'insegna come debba la filosofia tener
conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e
spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri
flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io
leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni
critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con
ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un
misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre
investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma
integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici
nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva
dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio. Vedi riassunto e
citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di Thorbecke,
e in quella di Kuehner, Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto di tutto il
trattato l'importante dissertazione di Hinkel: De variis formis doctrine
moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem, earumque cum cæterarum scho larum
placitis comparatione. Marburgi Cattorum). Il concetto scientifico della
morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin qui,comprendendo nella sua
pienezza tutti i principj costitutivi di quella dottrina, e unificando in un
termine superiore, che era l'integrità del soggetto umano, le contradizioni
parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una delle più importanti questioni
mosse dagli storici sulla morale dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in
qual modo, concorde coll'antica Accademia e col Peripato nei principj supremi e
nel l'idea del bene e della virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che
avevan per fine determinare il contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle
relazioni civili,egli se condasse talvolta gli Stoici la cui severità,
civilmente con siderata,glipareva un argine saldocontrolastraboccata corruttela
dei tempi. Procedendo con tal criterio, i libri attinenti a questa parte
soggettiva della morale appajono informati da un solo ed unico disegno di
scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al metodo e agli in
tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la parte suprema
dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della vita con fine
immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio le Questioni
Tusculane, e il libro dei Paradossi. Manifestano un fine positivo o
d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in mezzo ai
precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce l'intendimento
di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e dei costumi
romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a studj più
generosi; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in ciascuna a
ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice
esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la
morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici le virtù
dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di
filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile
esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel
Proemio) illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens
conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo fedelmente l'in
dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con troversia intorno al
bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue opinioni coi principali
sistemi contemporanei. Da quindi innanzi procederemo con metodo di verso e più
spedito, giunti a parlare di quella parte della sua filosofia, dove egli si
avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione era soccorsa più
largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto romano. mente
la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine dell'operare affetti e
nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e col riscontro di
Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza alla riflessione
più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai dalla scienza,
potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia senza metodo più
ragione i problemi e le controversie. Ma con si governa sicuro, e con più
evidenti da sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice. Forse perchè in
quella oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto
filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj
morale di Cicerone la parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che
per rispetto del della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge
e del dovere. E proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto
dall'esame e conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al
concetto idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende
minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza
degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista
interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di
pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M.
Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E
vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il
sensibile,e passa principj morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero
del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote della scienza
morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene attribuire
quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e
dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si
rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro
cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il
pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come
dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni
colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da
quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della
filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e
diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su
questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le
biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj
dei commentatori e dei filosofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine
posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di
disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile,
applicandovi l'esempio di Roma e i larghi principj della Giurisprudenza e del d
i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti
ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare, più
acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via
di rigorose indagini speculative. Ma niente è più contrario a questa opinione
quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo
dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente
inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito
coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: «
quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter
interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo
trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un
fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione,
non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e
risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno
ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente
importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e
un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo,
non debbo lasciare indietro come dal 490, età della prima guerra cartaginese,
al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e
all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la
repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco
a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e
capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo
rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del
giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito
l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a
grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio
che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni
civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale,
dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva disposizione
dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella moralità delle
azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico riconobbe nel
linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto secolo e il
settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le consuetudini a
leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio dell'antichità
necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale stoica.Va
frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in forma di
scienza; non già che molte massime generali delle XII tavole e dei pretori
non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che l'applicazione e lo
svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al l'ingegno speculativo
de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella costituzione
romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di rinnovarle,
l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone, si
studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti, che
il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle
questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con universalità
di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni civili. M a
verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone scriveva la
Topica,eaRoma epertuttoildominiodella repubblica s'era da un pezzo largamente
propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già
esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione
interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del
giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di CICERONE
(si veda), vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di
filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi
nel libro De claris oratoribus ; e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi
legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato
una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo
della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al
bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno
ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo
stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi
non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio
all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che
cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due
rispetti nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella
esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una
ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò
di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo
ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo
il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse
distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del
giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle leggi
civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione
dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle
coseumane.Da questo fonte derivava la giustizia assoluta ed eterna, che
definisce il bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e
dalle opinioni degli uomini. Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone
avverte egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un
supremo legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I
comandi e le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo
Cicerone, per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi
e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto
dell'antico savio, che pone a fondamento di sapienza il conoscer sè stesso.
Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole, e va
persuaso che la società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio
che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore
comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco
Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel
I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io
lo citai augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino
porgesse materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto.
Tra le cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in
primo luogo da annoverarsi l'incertezza del vero senso del giure per la
moltiplicità delle massime,deglieditti, delle leggi, degl'interpretanti, onde
spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle
formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi
una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere
istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla
Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla
Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un
vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del
sofisma. Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto
del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci
mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini
intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco
considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo
notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo
tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi
principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi
d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta
che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e
dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto
nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei
tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo
il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj, gl'intelletti
più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la
riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra
l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo
morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della
realità oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del
Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi, e dettò le pagine
più eloquenti di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene
l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che d'imperativo, che la mia
volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo che quell'impero è
universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato
assolutamente contrario al si stema della scuola critica e alle dottrine del
filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo facemmo espressa menzione
del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in
un paragone per certo singolare e inaspettato delle dottrine di due
differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine
del Cartesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello scetticismo di Hume, Kant
i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione
fran cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di
trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in
sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina,
oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza
immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di
edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza
è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere
mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta.
Per Kant (osserva giustamente Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di
sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e
quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima,
onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità
ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita
(perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente
delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea. Cotal
dovere e cotale legislazione assoluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano
subbietto, appare nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che
negli Stoici antichi e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe
le scuole la volontà e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e
assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali ricomparisce la contradizione
perpetua d'identificare azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma
non vi si dee ravvi sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più
deplorevole quanto la scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere
umano e la vita civile più che altra disciplina quale che sia. » Confessioni. Tale
è pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del
Kant e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla
natura come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro
ch'egli, seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali
l'intelletto umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle
Leggi avrebbe dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura
infinita del precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta
ammessa questa dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione
trascendente e as soluta dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne
che la ragione perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene,
s'impone alla mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi
sia mediocremente versato nella storia della nostra scienza che l'oratore roman
o, il quale rifiuta nel libro De finibus la parte soggettiva della morale del
Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza ai
beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi
ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i
concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo
platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e
coll'effi] [Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal
domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e
spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro De legibus, fu una ferma
opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di
legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a
rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro
siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione
dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale
giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che
allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e
contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina stoica,riordinava
la scienza tutta al lume dei sommi principj, più tardi usciti a fondamento
della sapienza cristiana.cacia trascendente di quella virtù onde si genera in
noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia della
filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai
nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui
dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se
chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra
l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione
assoluta che in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova
di non lieve importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri
fisici e morali del filosofo nostro.In quelli egli dubita il più delle volte,e,meno
che nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova
Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano
sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A
l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima
umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle
Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel
libro delle Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende
ordinata e architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il
concetto del divino sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono
sciuta alla maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume
delle tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a
tutto impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al
dir del Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze. L'indagine tulliana della
leggesuprema pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno
speculativo.Posta a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale
come un riscontro delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui
ricorrendo si potesse apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal
nozione presentava in sè due rispetti intimi ambedue
eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome idealità suprema,come
infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè imperfettamente, alle cose
finite, e come primo assoluto ed universale, che volgendo le menti alla comune
dispensazione del bene porgesse quasi l'unità morale del l'umana famiglia.
Considerata nel primo rispetto, la n o zione di legge si offriva alla mente del
filosofo latino come idealità suprema e assoluta,e come un intelligibile primo
che rappresentando ilperfetto nell'ordine della ra gione le si imponeva come
regola dell'operare.Egli dunque concepiva quella nozione come un vivo riverbero
dell'as soluto, e poichè l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa
partecipata come luce dall'alto nella perfetta ragione dell'uomo, unico di
tutti gli animali che abbia innata nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli
parve una partecipazione segreta ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto.
Udiamo le sue parole: « Est quidem vera lex recta ratio,naturæ
congruens,diffusa in omnes,constans, sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo,
vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec
improbos jubendo aut vetando movet.Huic legi nec abrogari fas est neque
derogare ex hac aliquid una licet neque tota abrogari
potest,nec vero aut per senatum aut per populum solvihaclegepossumus,neque
estquæ rendus explanator aut interpres ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia
Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una lex
et sempiterna et immutabilis continebit unusque erit communis quasi magisteret imperator
omnium deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit,
ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ
nas,etiam si cætera supplicia, quæ putantur, effugerit. De Repub. -- riportato da
Lattanzio Instit.div. – Stupenda definizione èquestadel principio regolatore
degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di
una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj
dell'Etica romana. Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del
Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi
ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con
tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana
ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva
alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e
dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò
era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui, il quale movendo dalla
coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo
stesso principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche;
siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine superiore
e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine universale
delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo nella ragione
informatrice del sistema di Kant, e degli altri critici e razionalisti moderni.
In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro stesse parole) non esce mai
da se stesso,non coglie la realità viva e concreta che è pre sente all'intuito,
nè anche, dico, in questa parte della filosofia de'costumi, dove la mente
afferma ogni volta per ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre
cetto morale assoluto dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque
la filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui getti le prime
fondamenta dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le
parti, non avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi
principj,dee riuscire per necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure,
come ben nota il Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza
risalire ai principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza
seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono) Questa nobile
impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata
dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che
illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente
che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri
fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della scienza,e
nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso lo
avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto
all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione
dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia
più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa
l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile,
necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni
gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo;
egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad
accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge
nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore,
solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e
inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi
dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla vita. L'uomo
dunque è primitivamente simile a Dio; similitudine che può vedersi dal fine a
che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel
fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo
beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento
ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni
di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento alla scienza: Diede
anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura
intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso
del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica
sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente
scolpita l'effigie dell'animo. Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in
questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal
concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più
tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole
italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio
provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella
grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme
nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg.) Esaminata la legge
nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è
obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a
considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè
stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani
intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella
somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta
quanta la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio
civile è la comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli
diceva) singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo
della Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue
dottrine politiche: « est igitur respublica] [Il cardine della morale di
Cicerone posa dunque manifestamente in questa dottrina della legge, il cui
merito insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano
contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la
filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del
nostro ora tore è tanto più manifesto, in quanto che egli,dopo spie gata per
ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più
tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu
ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè
stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili
opinioni. La qual cosa, mentre è una prova di più per mostrare come
l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità
di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che
supposero di fresco avere CICERONE (si veda) abbandonato improv visamente la
dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo
peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. Ma innanzi tutto noi
domandiamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione
informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con
fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due
opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi
deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma
la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni,
quando esaminava quella controversia da parte dell'umano res populi;
populus autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis
juris consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso
primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che
attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza degl'individui,riconosce
invece quell'origine nella comunità di una legge assoluta e soprammondana.
cætus 1 soggetto, affermò nella vita presente non pervenire l'uomo al compiuto
adempimento del fine se non svolgendo e perfezionando ogni parte integrale di
sua natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un concetto più universale, m e
ditò oggettivamente l'idea del buono e dell'obbligazione, riconoscendovi
un'assoluta efficacia indipendente dall'atto dello spirito umano.Così da questi
due larghissimi aspetti in cui può essere meditata la materia della scienza m o
rale, e dove all'intelletto del filosofo appajono congiunti l'assoluto e il
relativo, il contingente e il necessario, l'anima e Dio,deriva secondo la mente
di Cicerone, il vero e più ampio concetto della dottrina sul buono. La
diligente esposizione impresa da noi degli scritti del filosofo latino ci ha
condotti,come avranno osservato i lettori, a trattenerci alquanto intorno alla
parte specu lativa delle sue dottrine morali, e segnatamente intorno ai due
trattati De finibus e De legibus. La qual cosa abbiamo fatta coll'intendimento
di porre innanzi agli occhi degli studiosi i principj fondamentali e il disegno
scien tifico dell'Etica latina,esposta da Cicerone,sembrandoci che questo esame
fosse stato assai leggermente condotto sin qui dai critici precedenti, i quali
o tenerano Cicerone in luogo di un eclettico e di un moralista positivo e spe
rimentale, o non facendo professione di filosofi, conside ravano nei suoi
trattati meglio la parte istorica e lette raria che l'intimo nesso e il metodo
speculativo delle dottrine.Eppure convien confessarlo) questa critica preoc
cupata e parziale è sommamente contraria alla giusta estimazione dei libri
speculativi di Tullio.Per essa avviene che i principj e la unità delle sue dottrine
morali ci ri mane ignota per sempre; ci sfuggono le più alte indu zioni che il
grande oratore e i Giureconsulti adoperarono intorno ai pronunciati del senso
comune,e riesce un fatto senza ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa
del l'Etica romana,da tutti riconosciuta,se il filosofo morale non ne
rintraccia i principj nelle speculazioni più remote intorno al vero ed al
buono. Premesse queste osservazioni, veniamo ora alla parte
positiva dell’Etica tulliana, nella quale ci terremo più brevi secondo è
richiesto dalla natura principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine
che si contiene nel primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio
dai supremi principj speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con
cetto d'obbligazione e di vicendevole comunanza del giure, onde il libero
arbitrio sperimentando in sè l'efficacia trascendente del precetto morale, e
riconoscendovi un impero incondizionato che si dilata nell'universalità del
l'umana famiglia, si sente stretto all'osservanza degli officj religiosi,
individuali e civili. Officio dunque (così lo domandavano le scuole socratiche)
è illibero conformarsi della virtù all'impero della legge morale. E importa
assai determinare il significato scientifico della parola, perchè si capisca
come la teorica dell'officio che ha tanta parte nel sistema del Portico,mentre
discende immediatamente da quella del dovere (considerato nella sua genesi
razio nale),ha poi certi suoi peculiari rapporti che la connet tono colla parte
più positiva della scienza morale. Due specie d'officio distinguevano gli
Stoici.L'officio retto o perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni
camente nel saggio,o in colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del
perfezionamento morale;e l'officio comune,o medio (2997zov uésov),che era un
ordinario conformarsi della virtù agli obblighi della vita privata e
civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un fare da persona dab bene. Ora
insorse controversia tra i critici, se Cicerone nel suo trattato, da tanti anni
notissimo nelle scuole, de finisse scientificamente l'officio. Il Manuzio e il Facciolati
difesero Cicerone; il Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò
veramente omessa quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e il Grysar
avvisavano avere Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a
trattare espressamente nel suo libro,in quelle parole del
capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis
reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de Stoic. doctrin. mor.ad Cic. libr.De
off.,1, Kuehner. Fran. Binkes, Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq.,
Prolegomena ad Cic .libr. De Off. scripsit, Grysar, Köln). Questa opinione dei
commentatori tedeschi tanto più è conforme alla natura del libro D e officiis e
al metodo espositivo che quivi si propose l'autore, in quanto che egli stesso
ci dice nel capitolo III: due questioni potersi fare intorno all'officio; l'una
che si riferisce al fine dei beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in
ogni parte si può conformare l'uso della vita; parole meritevoli di speciale
considerazione, conciossiachè mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico
che annoda le dottrine p o sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono
poi il vero oggetto del presente trattato,il quale non è altro, come
giustamente osserva un critico moderno, che la determinazione dei nostri doveri
particolari. Coloro d u n que che dal libro degli Officj prendevano argomento a
ravvisare nel filosofo latino un mediocre valore scientifico, perchè egli
trattando dell'officio non si solleva ai supremi principj della morale, non
osservarono quale attinenza corra tra i libri speculativi e pratici della sua
morale, onde egli investigato prima che cosa è il bene nell'umano soggetto (De
finibus), si leva alla nozione oggettiva di legge (De legibus), e scende per
ultimo alle applicazioni più remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De
of ficiis, De republica, De amicitia, De senectute.) Migliore giudizio invece
recarono quei critici, segna tamente francesi, i quali considerando di
preferenza questo speciale rispetto tutto positivo e civile, in cui possono
meditarsi gli Officj, quindi desumevano i pregj e i difetti del libro. Infatti
il trattato degli Officj non è un'opera semplicemente speculativa,o un'opera di
psicologia. Ivi si richiamano, è vero,le altre parti delle dottrine m o rali,
vi si accenna la distinzione stoica tra l'officio per fetto e l'officio
comune,e il pensiero dello scrittore si leva talvolta a indagare la qualità
morale degli atti nel l'intima natura dell'uomo,ma l'intendimento primo a
La gentilezza degli Attici educata nell'ordine m a t e riale della
civiltà da fina eleganza di costumi, e dallo spettacolo d'una natura ridente,
li traeva ad una viva e, quasi direi,religiosa ammirazione del bello,onde il
pen siero dalla convenienza e armonia delle parti reali che genera il perfetto
nei corpi,passava all'invisibile bellezza degli animi. Ma in Rom a dove ogni
istituzione fu vôlta sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il
cittadino allo stato, e il rispetto delle relazioni civili superava a gran
pezza gl'interessi domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice
siffatta la pubblica opi nione che in lei risedeva il solo e inappellabile
arbitrio di giudicare le azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù
la corrispondenza ideale che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e
le forme più elette della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani
la virtù sono quasi convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde
Cicerone che qui negli Officj la conside 148 cui mira quel libro, è un
intendimento civile, e Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to
nava per l'ultima volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle
lasciare a suo figlio in luogo di testa mento il codice più compiuto della
morale politica. A questo proposito nel libro degli Officj merita spe ciale
considerazione una dottrina che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un
rispetto istorico,e un'atti nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di
Roma. Tale è la dottrina del decoro (Tpétrov), esposta nel capitolo XXVII del
libro primo. Cicerone,osserva acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la
sentenza degli Stoici: crcpovovaysoró 2.016; il solo buono è bello, collepa
role: quod honestum sit,id solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è
buono. Ora questo diverso concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della
virtù, e che più volte ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui
Cicerone conformò forse maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al
sentire romano, si spiega assai facilmente ricorrendo alla Storia.
rava in un rispetto quasi esclusivamente civile, l'accom pagnava al
decoro, o vogliam dire a quella luce esterna di onoratezza, onde la stessa
virtù si porgeva all'ammi razione della pubblica coscienza. Considerato per
questo rispetto, il libro D e officiis, mentre si attiene alle altre opere
speculative, presenta nelle sue parti più sostanziale un vero ordinamento di
scienza. Il filosofo latino segue liberamente Panezio, e perchè autore di un
ottimo libro intorno agli Officj, adesso perduto, e perchè assai temperato
nelle dottrine dello stoicismo,come portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos
sidonio, continuatore di lui, trasse in gran parte le dot trine intorno
all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto ai due primi libri, e v’aggiunse
del proprio la materia del terzo, ovvero il combattimento dell’utile
coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte più bella e più filosofica
di tutto il trat tato, e dove splende più pura la nobiltà dell'animo di
Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della politica colla morale,
biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse dell'utile pubblico avanzò
le norme della giustizia e della onestà, e propone al figlio i più sui blimi
esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem prando possa uscire
incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi dovevano esser tristi
davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia contemporanea che Tullio
ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da uomini potentissimi nella
repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè dee far maraviglia che
fosse cosìa chi consideri come il disgiungersi della morale dalla scienza di
stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e che tutto allora in
R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito, cittadinanza,
popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni cosa e divina
poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori. Nel terzo libro,
discorse le attinenze della politica colla morale, passa il filosofo latino
alle attinenze della umana morale colle altre scienze sociali,
la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a sempre più
smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti romani le
tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la giurisprudenza
latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo di scienza con
norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine, desumeva
da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra CICERONE (si
veda) citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e
definite con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge. La qual
cosa apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo
definite alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della
coscienza e della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il
riscontro nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge
delle XII Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era
proprio al metodo di Cicerone, che cercava nell'antichità più presso
all'origine divina,le verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha
qui un'importanza d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della
morale civile voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro
in tutto il libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e
di Cammillo e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che
coll'autorità del senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se
n'erano sciolti pagando, nè restituiva il danaro; e prorompe con mobile sdegno:
p i r a tarum enim melior fides quam senatus! Il De officiis accolto nelle
scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato
per la prima volta a Magonza, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni
tempo l'acume degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo
trattato, che Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della
letteratura latina, » fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze
morali e politiche di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor
Arthur Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In
quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte
della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che
vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro De
officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale tulliana,
e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti moderni. È
un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del soggetto è
abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al critico
francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a
conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne
osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che
risguarda i doveri verso il divino, la famiglia e noi stessi, e rappresentò il
De officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei
doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della
carità universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande
rinnovamento dell'evangelo. Dai principj della filosofia civile e dai
precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato.
Questa fu esposta da Cicerone nel De republica, giudicato universalmente dai
critici come una delle opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne
andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro
fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi avea diffuse
largamente le memorie della antichità greca, le grazie severe dell'eloquenza,eigrandi
insegnamenti della vita politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea
innanzi a sè due scuole egualmente illustri, egualmente seguite dagli
scrittori: la scuola di Platone e la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo
considerare che l'ingegno dell’Ateniese, poderoso d'invenzione e di veduta
speculativa, non intese forse nei termini del vero le attinenze della filosofia
colla politica. Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine
ideali l'autorità degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In
quest'opera, spartita in sei libri, e condotta con larga unità di disegno, il grande
oratore imitò Platone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto
si attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera non solo utile alle lettere,
ma vantaggiosaallapatriae alle più lontane generazioni, incarnò i suoi precetti
nel grande esempio di Roma. L a dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla
disputa delle tre forme monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli
preferiva la mista, invo cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta
quanta la storia di Roma. Da queste
premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa sull'immortalità. E
qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e
della sua nazione, e fece di quel problema una vera e compiuta dottrina. Forse
l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia sui destini dell'anima i
panteisti [La quale, mentre ha bisogno per disegnare e applicare le
civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj uni versali della
natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le imperfezioni
dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per cui soltanto
nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni alle necessità
dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo razionale, si
opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto
per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe culazione col senno
civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio
più fermo le armonie delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla
scienza dello Stato quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del
pensiero e della natura lo avea condotto a creare la logica e la fisica;
raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori, li ordinò, li paragon
), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica fonda mento della scienza
civile. Ma a tali prove di ragione e
difatto altreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e
civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di
più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo
desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata
alla patria nelle scienze,nelle lettere, nelle arti, nei pubblici negozj, li
raccomanda alla riconoscenza di Roma. Gran parte,e la più bella forse della sua
vita,s'era pas sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti
da giovinetto, e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di
molti avea udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli
restava impressa nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone
domestiche e care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di
grandi rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e
perchè vi pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè
stesso, e perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a
desiderare il ritorno della virtù e degli antichi costumi. Più tardi le
sventure della patria lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la
fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi
memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega
perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere
greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati, e l'abito di
conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega
altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno
dell’Affricano e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo
d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle
Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e
dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla
coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio,
connaturato nell'uomo, del divino e dell'assoluto.] e nel Catone Maggiore,
dov'egli imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che
l'avean preceduto, e si consolava di speranze immortali. Un'altra
occasione, opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla
controversia dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e
mesti pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di
Febbraio dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove
avea in animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un
libretto che poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione.
Su questo libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi
frammenti che Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj
scrit tori antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di
vine,tentarono restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento
delle materie. Schneider ne ragionava in un saggio dove suppose Cicerone avere
trattato a lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione,
come apparisce in gran parte dal primo libro delle Tuscolane. La quale
supposizione, che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare
la perdita di questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere
più originali di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta
gli volgesse a più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente
fecondo. Può sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame
della filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole
precedenti o contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della
scienza e finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso
sotto un rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue
dottrine.La qual cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle
discipline scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi
da quello dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno
potrebbe esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una
potenza d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica
intorno alle opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli
storici più antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo
scorso e del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo
esameeapiùimparzialigiudizj. Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro
supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata
come norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano
di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo
non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle
opere di Cicerone. E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi
scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle
memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non
ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo
nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e
quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La
imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e
di buono, che si trova sempre in ogni sistema, mentre costituisce un pregio
capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre
favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso
vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la
legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario
nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è
la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per
definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne
più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola,
e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filosofia tanto riguardosa e
modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla
Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare famigliarmente in
mezzo agli uomini.” (Mamiani). Tale è l'indole vera della filosofia di Marco
Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro
lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente
nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro
poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle
innovazioni, e giudicano Marco Tullio una povera mente perchè dice
egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle
opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa
esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno
infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori
de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri,
ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso
e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od
esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La
critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma
estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio
rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol
fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle
cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui
stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali,
concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle,
vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom
posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia
del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore
speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica
assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e
contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di
meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e
svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva
e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi
la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi
de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi
affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro
fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima Cicerone adunque
può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno
d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle
dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a
ragione come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi,
e perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come
Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni
età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle
greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla barbarie degli uomini. Ma
d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può
egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio
della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere
bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso
coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e
qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per
lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e,
sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del
sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in
gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata
da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio
dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica
mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il
contingente e il necessario, la natura e il divino, l'esistenza del divino,
dell'universo e dell'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle
spirituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della] filosofia [nelle
storie che la critica degli antichi scrittori, segnatamente per opera degli
Alessandrini, fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de' Greci, da
cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi
scritti ai più culti ingegni di Roma.] ragione, il libero arbitrio e
l'immortalità. In Logica tenne salda la capacità del conoscimento a cogliere il
vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza
interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle
conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune
ricom pose il sistema perfetto di quellascienza,e
salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto
universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri
relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un
uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si
lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di
ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità
principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un
patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a
soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle
verità fontali, contenute nella coscienza del genere umano e nei più nobili affetti,
a quest'uomo, parmi, non si possa negare il nome di FILOSOFO GRANDE. – Grice:
To hold those who are great and dead as if they were great and living. --L'indagine
dei dommi primitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli vuole
–voleva -- in CICERONE (si veda) un ingegno forte e addestrato a meditare, e un
uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio l’orazioni,
l’epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo e il quinto dei Fini e
il proemio delle Leggi; che esposti senza preoccupazione rettificherebbero
d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi saggi, e mostrerebbero
com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie
età, nelle diseguaglianze de'sessi, degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino
dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità
eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare.
Parecchj critici di CICERONE (si veda), e segnatamente quelli che gli negano
ogni facoltà d'ingegno speculativo, non hanno inoltre considerato qual uso ei
facesse della tradizione scientifica,e come, movendo dalla coscienza, contrappo
nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo di tutto
il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla coscienza; e questo fatto
dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta che
egli prende a trattare importanti materie morali, non può mai andare disgiunto
nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece de'sistemi
antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione del suo
metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci spiega come
nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità informatrice
delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri eru diti
avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento scuole. Certo
Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno speculativo, e quella
rara felicità degli ardimenti metafisici, che hanno Socrate, Platone, Aristotele
tra gli antichi,e tra imoderni Cartesio, Emanuele Kant e Vico. Il suo ingegno
non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni versale,comprensivo e
solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in architettare sistemi
mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di logica, piacevasi nel
sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli errori, ribatterne le
istanze,scoprire nuove armonie della ra gionescientificacolsensocomune, e
iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di scienza concorde colle arti, coi
costumi e colla vita civile. Nel che mirabilmente lo secondavano itempi. Allora,come
era avvenuto nel secolo di Socrate,e come per molte parti accade ora nel
nostro, si manifestava nella condizione delle discipline morali un'imperiosa
necessità di riforma. L'eccesso delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e
la scienza e l'arte tor navano al vero della natura,unica fonte delle opere
grandi. Era dunque suprema necessità deporre la vana superbia delle innovazioni
assolute, farsi discepoli della natura, tornare agli adagj della sapienza
popolare, e chiedere alla tradizione de savj, non già il supremo
criterio del vero,m a il sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più
eletta del genere umano. Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che CICERONE
(si veda) appresenta nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale
il criterio della tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da
aggiungere alle speculazioni dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta
dini innamorati della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra
studioso al sommo dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici,
ch'e'non seguiva gli a n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con
li bero esame attingeva ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli
sosteneva quelle dottrine soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva
un ordine pro prio di scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si
gnificante non altro che un ordine di pensieri) si esten desse per lui al
collegamento necessario di tutta la scienza, te lo dice in quelle parole dei
Tuscolani (II, 1): « Difficile est in philosophia pauca esse einota,cui non
sint aut pleraque aut omnia.» Noi dunque invitiamo gli studiosi delle
lettere e della filosofia antica a prendere in più seria considerazione quella
sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa del filosofo latino non più che un
seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto
in tervallo egli si lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei
può apparire assai manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di
questo discorso. Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse
il dottissimo VARRONE (si vefda) suo familiare, rammen tato nel primo degli
Accademici,e della cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente,
ammesso che l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana
significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto
accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la
Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien
11 tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per
venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro
pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile
imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra
gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il
gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale
o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche
in una età in cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno scetticismo
quasi assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e della
patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto credere e
del tutto negare; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della Nuova
Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in mezzo
alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne
sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose
ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò
risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia
naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e
il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e
dello stato romano si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con
certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella
successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno
dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo
pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e
nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per
la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente
nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica
dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei
sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto del divino,
che pose nell'umana ragione,a testimonianza di
sè stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa
parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col De legibus e
col De officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica,
e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della vecchiezza. Esaminando nella
successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del
pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di
ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato
assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle
dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che
inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il
pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione
rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy
(il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero
dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro
oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di
Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e
cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse
unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La
qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il
dialogo delle Leggi. Ma il por mente a questa unità informatrice delle
dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo
delle scuole particolari si risolvesse inun criterio intrinseco di ragione. Quistail
divario essenziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici.
L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e
infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla
riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la
vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine
senz'armonia e senz'accordo.
La verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno
dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza
un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali,
apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita
nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode
di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia
nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono
tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non
interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti
il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica
trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli
desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo
criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta
un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole
particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse
ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva Kuehner,
che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non
lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e
multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine dell'antichità
italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato soggetto, non se
ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a interrogava la m a g gior
parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi tra’ quali andarono per noi
sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro filosofo o tace non di rado,
o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o soltanto rammenta gli autori
quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare il metodo con cui
Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il critico te desco che
questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli dal greco,
trasportando liberamente in latino, tanto (come egli stesso ci avverte
nell'operetta “De optimo genere oratorum”) da serbare il colorito e la forza
nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui principalmente un solo
autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e
componendo le materie con proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori
ove quello che seguiva fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era
altresì suo costume inter rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d
e simo soggetto, e ove fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle
loro dottrine un tutto perfettamente connesso ed armonizzato. Quindi,prosegue
Kuehner,è necessario al critico di CICERONE (si veda) avvertire con diligenza
gli scrittori da lui citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi
grandi monumenti dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare
quello ch'egli trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture
assennate e prudenti. Esposte queste norme più generali di critica, noi
non seguiremo più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle
fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si
allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai confini di questo
scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non neghiamo avere il
filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena
altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti originali andarono
perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del
nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au torità stessa dei
Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della dissertazione, M. Tullio
ne'libri fisici, e in special modo nella disputa sull'immortalità,seguì princi
palmente Platone; nei libri logici e nella questione sul criterio della
verosimiglianza e sulla percezione sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova
Accademia; nei libri morali poi, discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade
mia e del Peripato per ciò che risguarda le dottrine speculative del bene e
della legge, nelle materie politi che e civili seguì a preferenza
Aristotele,Teofrasto e Polibio. L a qual cosa per altro vuole essere intesa
discre tamente; poichè, a considerare bene il metodo con cui egli compose i
varj sistemi, si vede che, sebbene in più luoghi attinse separatamente dagli
Stoici e da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe
rare l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più
luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo
della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo
ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la
libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta Kuehner. Negari quidem non
potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse;
sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum
ipse iis adjunxit judicium, suum scribendi ordinem,viam rationemque atque
orationis lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis
Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philosophorum
monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis,
ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores
sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant
saluberrimam.” Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole, non fu
nè Stoico, nè Accademico, nè Peripatetico, ma fu vero Socratico con libertà di
riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di
cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle
indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura; non chiuse tutta la
scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a
assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la
ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi
l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente
dell’Ateniese, la cui efficacia dura da ventiquattro secoli nell'indirizzo
delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella
storia della filosofia. Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo
romano, ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si
attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero
altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici
costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello
d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj
speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del perfetto. La
gente romana, sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e
applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle
deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei
costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile
colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero
esteso a due terzi del mondo, e il vivere agiato, e la necessità di allontanare
il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i
Romani agli studj della filosofia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni
disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col
facile diletto dell'imitazione. Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle lettere
e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur v'è
nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgilio, e che sappiamo
esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era la
servitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente
per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente
civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo,
procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri
scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e
maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto.
Amafinio e Rabirio epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tuscolane
e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in
modo informe ed incolto. Più tardi Tito LUCREZIO Caro esponeva splendidamente
nelpoema De rerum natura la filosofia d'Epicuro; ma tutti questi scrittori, dei
quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non
aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico
di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente
sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter,
assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio
uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può
unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata,
e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del
pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento
ch'egli ha fra mano, il meno acconcio a compirla. Perchè non si trattava già
d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e
Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il linguaggio
latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola
più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non
disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla
significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella
maggior parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di
lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a
rola, come figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e
da fanciulli voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it
perspicue posse, docti et intelligentis viri -- De fin. -- seguì uno stile che
fosse egualmente lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa
di parec chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che
negli Officj chiamò æquabile et temperatum. L'ingegno universale e
comprensivo di CICERONE (si veda) apparisce in ogni parte delle sue dottrine.
Venuto in Roma, dove fanno capo le faccende d'Italia e del mondo, tollerante
per natura delle altrui opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio.
Intorno allo stile filosofico di CICERONE (si veda) scrive con molta dottrina FERRUCCI
(si veda), in un suo discorso “De singolari meriti di CICERONE (si veda) nella
lingua ed eloquenza latina, edito in Pisa coi tipi del Nistri. La severità
della meditazione filosofica è in lui sempre solenne, ma variamente temperata
dall'indole del soggetto. E sobrio l'uso delle metafore. Il periodo procede ora
maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a sconda della materia, e
talvolta, come negli Accademici, imita il linguaggio familiare, talaltra, come
nelle Tuscolane, sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi
considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti,
osserverebbe potersi queste distin guere in più classi, modernamente in più manière,
corrispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrive. Il “De republica” e il “De
legibus”, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente
occupato nei negozj pubblici e del foro, hanno più del carattere oratorio. “Gli
Accademici”, il “De finibus”, il “De natura deorum”, scritti poco prima la
morte di Cesare, palesano uno studio deliberato, continuo della severa forma
speculativa; laddove nel “De officiis”, nel “Cato Major” e nel “De amicitial”
t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari o
avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla forma
oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore di
Platone, ch'egli chiama il divino dei filosofi, lo segue non soltanto nella
forma estrinseca de' suoi trattati, e nel metodo del dialogizzare, ma improntò
sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più belli delle
opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni delle lettere
antiche imparziale che fa delle dottrine contemporanee, con trasse per tempo
quell'abito universale d'osservazione, e quel sentimento delle armonie
scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti romane, in lui straordinario.
Cresciuto intempi funesti alla libertà, e testimone di quanti esilj e di quanto
sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in
mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare delle civili discordie
applica dì e notte con ardore inestimabile ad ogni generazione di studj. Più
tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla pratica del fôro, si reca in
Grecia, dove udì le scuole migliori, peragra tutta l'Asia, si trattenne a Rodi,
e torna in patria ammaestrato da una larga notizia d’uomini e di cose,e dalla
famigliarità coi più pre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj
dell'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa
concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi
pensieri. Nella ragione intima dell'arte sua cirimane occulta, qualora si
consideri nel “De oratore”, nel “Bruto” e nell'”Orator” il significato
vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto
dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del “De oratore”, e meglio in
quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam
societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio
dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si
mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come
uomo di stato, egli vagheggiò la carità universale del genere umano, e ne
scrisse mirabili parole negli “Offici” e nelle “Leggi.” Patrocinando la causa
di una donna Aretina, giustifica le pretensioni delle città italiane alla
cittadinanza romana. Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina, salvava
da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre l'or dine
senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della fazione
plebea.Come avvocato e come oratore politico (così scrive di lui
Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di
più bello a Roma. Per giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è
padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con
siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli
scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo
stile latino. Ricerca i modelli più famosi dell'eloquenza romana, svolge i
Greci, ne traduce per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser
grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne
e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi,
si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così
apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte
greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a
noi il ritratto ne'suoi scritti didattici, Studi storici e morali sulla filosofia
latina, Firenze, Monnier. Non è dunque maraviglia se, dis posto per abito di
mente e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi
ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche, e tornando ai
fondamenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame unitivo che
desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione scientifica. Se in lui
dopo l'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli scritti
speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e dell'animo suo.
In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi quella sua
schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di famiglia e di
patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse ad ogni anima
gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in feriore
all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo sincero lo
sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile maestoso non
senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e studio con
amore,quale un perfetto monumento di sapienza civile ,non gli tolse però di
vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del popolo che
spesso trascorreva in licenza, l'abuso dell'autorità ne'patrizj, le guerre
volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj,
idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui
promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede, era
un vero attentato alle basi della società civile. Dalla critica meno benigna si
allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i
principj della giustizia e della moralità lodando il tirannicidio, tentando
giustificare col titolo della civiltà il primato oppressivo dei Romani sulle
altre nazioni, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a
seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo
per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi
tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo
XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose
conquiste; e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto, l'ha in parte
giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa
sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale
e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del
Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen, furono non ha
guari saviamente temperati in un bel saggio di Forsyth, venuto alla luce in Londra, e di cui abbiam veduta
quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo
inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti
rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si
diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m
battimento contro il triunviro Antonio. Chè se non sem pre fu pari agli
avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e
restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella
di Pompeo, bisogna considerare quanto difficili tempi fossero quelli a
chi, come lui, non avea mai patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella
religione del giuramento, e nella santità dei costumi civili il principio
tutelare delle libere istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po
tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede sublimità vera alle sue
dottrine morali; e ci spiega come nei libri degli Officj, della Repubblica e
delle Leggi egli desunse i principj fondamentali della filosofia civile dal
concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese
a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla giustizia assoluta,
nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato, nel possesso, nella
legislazione e nei diritti di guerra e di pace. Tale pure è l'opinione esposta
dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla politica di Cicerone,
stampati nella Rivista de'due mondi. Corre adesso in Europa un tempo assai
propizio alla critica degli scrittori latini.Invero gli studj che accompa
gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti che, mossi da curiosità
e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa dei tempi di mezzo
sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una giusta eguaglianza
fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. Ma tal difetto venne
largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si esaminò solo per
negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più volte alla
schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo nuovo
ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren
dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a
giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni
della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del
l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che, mentre in
Germania Bernhardy e Mommsen giudicarono con molta severità CICERONE (si veda),
in Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue dottrine
morali e della sua vita politica Desjardins e Forsyth. Fra noi, gli studj
istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o
rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitano un
ufficio civile, e all'unità e all'indipendenza dava opera l'intera nazione. È
tempo oggimai che torniamo a così nobili studj; e la critica istorica e
filosofica fa prova di richiamare nella memoria riconoscente degl’italiani la
storia di quel popolo da cui venne Desjardins e Forsyth. Fra noi gli studj
istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o
rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano
un ufficio civile, e all'unità e all'indipendenza da opera l'intera nazione. È
tempo oggimai che torniamo a così nobili studj; e la critica istorica e filosofica
fa prova di richiamare nella memoria riconoscente degli Italiani la storia di
quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora
soltanto le dottrine di CICERONE (si veda) sono meglio studiate e apprezzate, e
la natura comprensiva dell'ingegno romano, di cui egli è esempio solenne, ci
appare come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglie la coscienza dei
popoli antichi. Giacomo
Barzellotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Basilide: il portico a Roma: il tutore del
principe – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Member of the Porch. A teacher of Antonino. Basilide.
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