Grice e Batace – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. A pupil of Carneade.
Grice e Battaglia: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei valori italiani – scuola
di Reggio Calabria – filosofia calabrese. filosofia italiana – Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Palmi). Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Palmi, Reggio Calabria, Calabria. Grice: “You
gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot play
in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being and
value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A
is worth B.’ -- “A e B,” “A vale.” “A
vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we
CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.”
Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’
i.e. Socrates has value.’” Grice: “When
I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never
contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and
cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò
la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo
percorso di studi. Si laurea con una
tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un
contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse
la cattedra nella medesima disciplina.
Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo
bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto
nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna.
Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome
la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi
in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla
storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in
chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia
quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e
diffidente approdo allo spiritualismo.
Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica
della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non
fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni
contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale". Altre opere:“Cuoco e la formazione dello
spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia
politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto
naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto”
(La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su
alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio
filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello
stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle
dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia
delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia
del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della
personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e
stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed
uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti: testi, lavori preparatorii,
progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb,
Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi
sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al
concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna);
“Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e
storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di
teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia”
(Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I
valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore
estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (ISturzo,
Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop.
libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli
Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori,
Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei
diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le
carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni,
Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna);
“Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa”
(Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni,
Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il
pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di
Filosofia di Bologna, Matteucci e Pasquinelli, Bologna, CLUEB, A cent'anni
dalla nascita, Bologna, Baiesi, Dal
filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su B. (Palmi), Chiofalo, Palmi,
Arti Grafiche, Ferrari, La filosofia italiana, in «Storia della
Filosofia», (La filosofia
contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini, Vallardi, Milano,
Marchello, B., Edizioni di Filosofia, Torino, Matteucci, Felice Battaglia,
filosofo della pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di
Bologna, Classe di Scienze Morali, Rendiconti, (ora rifuso in Id., Filosofi
politici contemporanei, Il Mulino, Bologna, Polato, B., Dizionario Biografico
degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scerbo, B.:
la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, Anzalone,
Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de Battaglia. Felice
Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona, A. Anzalone, B.. Per una teoria
giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte. Anzalone,
Las aparentes contradicciones de la filosofía jurídica y política de B., in
«Studi in onore di Sinagra»,
Miscellanea, Aracne, Roma,, A.
Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de
Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”,
Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice
Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», SFD, Córdoba, Cotroneo,
B. e la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora,
Soveria Mannelli, Rubbettino, Onorificenze Dottore honoris causanastrino per
uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale dell'Ordine
di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine di Leopoldo
II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile) nastrino per
uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile)
Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiaanastrino per uniforme
ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana —
Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino
per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della
Repubblica italiana. Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero
politico in Italia, Il pensiero politico, Università degli Studi di Bologna,
fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici Bologna, Tipografia Compositori, Dettaglio
decorato, Presidenza della Repubblica. Sito web del Quirinale: dettaglio
decorato. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. ULTURA
MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica cura di Battaglia L'opera di
Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD
& FIGLIO - Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES
& C. Torino. R. BEMPORAD & Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. La
tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè
stessa nella sua storia. Il processo unitario. L'erudizione: Muratori. La
filosofia: Vico. Antitesi al cartesianismo. Esperienza filologica. Italianismo
di Vico. De antiquissima italorum sapientia. Vico impersona la nuova tradizione.
A lui si ricollega Cuoco. La fortuna di
Vico nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. Cuoco e i suoi studiosi.
La rivoluzione napoletana. La cultura rivoluzionaria e prerivoluzionaria.
Razionalismo, astrattismo. La classe colta di Napoli. Riformismo governativo.
Rottura tra stato e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. Le origini
sacre della nuova Italia. Gli storici della letteratura e della vita del popolo
italiano, che vogliano trattare del risorgimento nostro con piena e sicura
conoscenza di cause e di effetti, devono necessariamente rifarsi a secoli
passati. Sono le scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di
idee che di fatti, poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed
acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile
movimento che conduce all'unificazione e all'indipendenza italiana. Mirabile la
continuità della vita di questo popolo antico d'Italia. I secoli, che ad una
critica occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sa
investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, ponderosi
d'esperienza. È tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il bisogno di
concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È una
preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di FILOSOFI
e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica ha il
dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di concetti
superiori di filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso d'un popolo,
alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di decadenza,
quella età di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono quello che
sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte, con i loro
uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare il passato come si
usava sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che giudica e manda senza
appello, il nostro maggiore poeta, CARDUCCI (si veda). La storia ha invece
diritto alla nostra ammirazione come i secoli, in cui i destini della patria si
sono venuti maturando, attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica,
di storiografia, preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un
rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana
tende a divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse,
se l'affer mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica
figura di VICO (si veda), un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali
cosmopolitici, per ritrovare il particolare più veramente nostro, l'essenza
della stirpe. La storia è l'esperienza dello spirito, che gradualmente viene
formandosi. Il popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle
grandi competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è
spostato. Non più solo Roma, ma Bologna, Milano, Parigi, Vienna. Mentre le
altre genti si gettano tumultuose nel fervore della conquista, nella lotta per
il predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio
della propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere
più italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi,
per sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così
quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra
assente, per riacquistare vita nuova proprio con la critica razionalista pre-rivoluzionaria,
e poi con gl’immortali princípi, è invece viva e desta, sempre, in ogni tempo,
per ritrovarsi, essa stessa, di fronte all'irrompere delle giovani schiere
galliche con un patrimonio nobilissimo di schietta FILOSOFIA ITALA, di sapienza
civile antica, di esperienza politica. Il filosofo deve valutare tutto. La
storia della cultura, ben altra cosa, notiamo, dalla storia dell'arte,
particolaristica, d'un subiettivismo che rinnega ogni sviluppo che non sia
nello spirito individuale e creatore, ha una sua mirabile continuità, una sua
ininterrotta evoluzione. L'oggi sorge dal passato, nel passato si prepara il
pre sente, il presente è la fucina in cui si foggia il futuro. La storia deve
valutare tutto e trovare i nessi ideali tra gli avvenimenti, se vuol essere
storia, cioè studio critico e superiore delle idee, che muovono gli uomini gli
uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e non cronaca astratta di ciò che gli
uomini fanno e potevano anche non fare. Lo storico deve dunque, se vuol
rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento, salire assai più indietro che
di solito non si faccia ed osservare più le idee che i fatti, poi che i fatti a
volte sono puri e semplici fenomeni senza conseguenze, che si spengono come
stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo, mentre le idee vivono, germinano
nell'oscurità, generano altre idee, seguendo la trama fatale del corso delle
stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello spirito, ove si foggiano gli eventi,
rivelano il segreto della génesi de' popoli, il loro assurgere all'im 8 pero,
le cause della grandezza politica. Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui
vita, vita storica cioè dinamica, lo studioso deve analizzare nella sua
complessa formazione e non rinnegare per i preconcetti del proprio cervello. La
rinascita dell'elemento italiano, particolaristico e nazionalista, è un fatto
estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente preparato da lunga
meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una storia vera della
cultura, specie della cultura politica, non può non ricollegarsi, anzi, per ri
trovarvi le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova
coscienza, questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il
momento, guardando in modo sommario la distesa temporale della storia, è il più
li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano, non Torino,
non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica vuole, per
la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un fatto storico
ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale d'Europa ha
disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani, ove le navi
venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della città di
San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che nazionale.
Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea politica
alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano sola può
essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa col di
sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo italiano per
rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta all'influenza
straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente italiana, è
troppo cosmopolita, troppo mondana. Bisogna che il rinnovamento si inizi
altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi
anni Rosi, L'Italia Odierna, Torino,
dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il
suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con
l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel
carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica
nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando
la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello
spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola,
arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa
impersona la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle
grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può
custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio
indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura
straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la
gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari
nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre?
Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso
in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si
voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da
noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in
quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si
imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia
però non filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava,
ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi
polverosi i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di
trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il
nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il
serio movimento scientifico » scrive Sanctis « usciva di là dove si era
arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una
ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle
raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in
vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente
il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli
antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano critici » A
Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il
Gravina; altrove Fabretti, Bianchini, Maffei e con essi una vera pleiade di
dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella
eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi in un remoto paese del
Cilento si for mava intanto il Vico. E a VICO bisogna rial lacciare tutto il
complesso movimento filosofico politico meridionale, tutta la fortuna
dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo
Cuoco, è il rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da una parte
in antitesi al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra sopra una
perfetta consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca storica, nell’un
caso e nell'altro come reazione al pensiero stra niero e ritorno alle fonti
nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla filosofia im perante,
avrebbe potuto portare Vico ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura,
e in questa scienza era la gran cieca fede del razionalismo, e la sicurezza
d'una scienza perfetta nel mondo umano, morale e sto rico. La conversione del
vero col fatto (verum ipsum factum), impossibile nel mondo naturale agli
uomini, di vien possibile nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre
farla, o rifare il processo creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a
tutti, fuor che a Dio, divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico,
fatto dall'uomo, nel quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la
politica, la poesia perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura
luce nello spi SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed.] rito.
È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto: a questo
principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci: questo nuovo
principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito, quest ' in
versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice reazione ad
un cartesianismo, che a Vico era pervenuto, sia pure, come scrive il De Sanctis,
in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma certo non in maniera
del tutto opprimente e scettica? Io credo di no o almeno credo che la
rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un nuovo ele mento,
le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a conclusioni inattese.
Vico, scritto il De ratione studiorum, il De antiquis sima italorum sapientia,
s ' ingolfò negli studi eruditi di storia antica, di diritto romano, negli
studi di diritto naturale, di pura linguistica, di filologia. Dice bene quindi
Croce che, se pure il grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al
nuovo orientamento della sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente
filolo gico, certo lo stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi
sopra detti, « attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e
cioè che quella materia di studio Ecco quel che scrive SANCTIS, Storia, La
materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana,
antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica,
conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio.
Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo
e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa
coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha
valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il
mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di
Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine
di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano,
la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più
buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc.
». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di
certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia
da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali,
ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo
posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva
apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze
morali. Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le
narri, ivi non può essere più certa l'istoria » Il nuovo pensiero italiano
s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente
serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da
una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la
storia, Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa
scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La resistenza
a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta
resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare
Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della
storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si
sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto,
delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli
la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in
quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in
quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo
in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da
un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La
filosofia di Vico, Bari, Laterza, Vico, La scienza nuova giusta l'edizione, a
cura di Nicolini, Bari, Laterza GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli,
Edizione della Critica] natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel
fatto. Perciò verum et factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive
il vero; il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è
una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti,
una storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni. Ora
ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul
Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore
della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova
filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza
critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es
lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di
ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e
nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica
italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un
linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il
latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia
autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole
epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio
informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica,
trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua
origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza, Ma
intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero
italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso
autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno,
dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità
nella tra [SANCTIS, Storia; CROCE, La filosofia di Vico; SPAVENTA, Prolusione e
introduzione alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale] dizione, nella storia.
La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo
sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà,
di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami
dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura
era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano
sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è
storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva
ed universale. Vico si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita [Intendere
il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo secolo è
necessario per colui, che voglia studiare la storia, in cui senza dubbio sono
le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per
esempio, Gabriele Maugain, autore di un dotto Étude sur l'évolution intel.
lectuelle de l'Italie environ (Paris, Hachette), in cui ritorna ed insiste
l'antica tesi (carducciana tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello
spirito nazionale durante un periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo
questa visione parziale del fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura
del secolo XIX? Dobbiamo crederla davvero, mancando una tradizione italica, una
fioritura estrinseca, mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima
e romantico -germa nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di
prepara zione metodica, e in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene
al pensiero di chi legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed
interessante. Questo venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica
recensì l'opera del Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani,
Messina, Principato), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui
la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo
molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto
non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta fiorisce
Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione insomma a cui
il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che dalla morte
rinascerà la vita, e si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si
scuoterà tutta, e ri prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita
spiri tuale, e si aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà
come nazione ». Ora ciò sfugge all'autore del libro. 15] gora, a Platone, ai
filosofi cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una
via del tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì Sanctis, « la Divina
Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre
l'avvenire, tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito
nuovo. Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si
rende conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il
seme, get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia
rinasce e si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un
universale umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un
tradizionalismo più nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale
nella filosofia del Vico, proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e
stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi vichiani ). Non bisogna
dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa; ed è
anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita: e senza
intendere l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto
sta a non cercare la vita nella morte: e non volere una cosa nell'altra.
Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma
è pure progresso, se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti
non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene
trata con la tradizione nostra, quale la troviamo p. e. nella poe sia del
Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto e degli albori del seguente, [ quale
la troviamo, mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro CUOCO (si
veda)] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice
in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una
vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia è l'Italia che accoglie
il riflusso della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto
rica rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche
reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il
senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain....
». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de'
letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le
induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi
della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo.
SANCTIS, Storia] nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi
concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita; col Vico si
presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero
settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito,
donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana
napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di
Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine
la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto
notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di
Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra
amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di
quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa
saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè
sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi
illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non
ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande au
tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico spirito
del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu in molti
una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che
propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè
facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate. Lo stesso
discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo può
condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi voli,
non fu immune da contaminazioni estrinseche: il vichismo in Mario Pagano è
mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). CROCE, La filosofia di Vico; Cfr.
VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza
Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge -
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana per Pagano, Logoteta e Cestari, ed è diviso in un
Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano,
chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri
dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la
quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di
Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi
rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto
intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo,
per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro, e perchè già
fatta da N. RUGGIERI, e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno
nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del
molisano. Noi per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in
guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con
l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto
elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per
incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1)
Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del Rapporto al cittadino
Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per LOMONACO, con @enni sulla vita
del l'autore, note e aggiunte di AYALA ed infine il Pro getto di costituzione
della repubblica napoletana per PAGANO,
LOGOTETA E CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Lombardi; I Frammenti si
credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la
rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile,
che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente
vanno innanzi. RUGGIERI, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della
Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio
cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano,
inedito fino al giorno, in cui CUOCO (si veda) stampa il Saggio con l'ap.
pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli da Lancellotti,
seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero
l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli
immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Russo. Potrebbe sembrare
un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami
cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna;
si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di
costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è
naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va
bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il
rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la
requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1
), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico
invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come
diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di
critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico
culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il
sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo
dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo
lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Russo?.
Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del
Lancellotti nella cit. edizione napoletana, ROMANO] crede i Frammenti anteriori
al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: «
Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la
sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima
giovinezza Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la
quale egli si era messo ». Su Russo vedi CROCE, La rivoluzione napoletana, pp.
85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale, Laterza ed.,
Bari, che ci offre una buona analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui
quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio un po' incolore, sebbene
ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a
proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea
di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da
coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non
atti tra vivi, e neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la
quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli
uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio,
altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare
personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti
sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro
necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie.
Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente
alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione,
tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea
sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città:
una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni,
non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere
tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi
formato, come termine ultimo, la « Società universale. Era nel Russo, come in
molti rivoluzionari, special l'insigne martire, specie nelle sue derivazioni
dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono
FIORINI e LEMMI. Il periodo napoleonico, Milano, Vallardi, Il giudizio (Saggio)
è il seguente. La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si
possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche
migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione
sta tutto CUOCO (si veda)! CROCE, La rivoluzione napoletana mente meridionali,
un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica
e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just,
un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e
di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera, non vi troveremo
certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè
col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare
la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in
fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure
non realizzata, al concreto. Nella prefazione ai suoi Pensieri politici scrive:
« Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non
alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la
verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e
sovra di essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi
individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi,
gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai
repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di
pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per
convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione
repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità,
La prima edizione dei Pensieri politici è di quando il Russo, esule da Napoli,
trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici di Russo,
napolitano, Roma, presso il cittadino Poggioli, anno I della ri stabilita
repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano (Milano, Tip. Milanese in
Strada nuova); e poi ancora a Napoli (ed. a cura del D'Ayala ) (ed. a cura di
Peluso con pref. di Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, CROCE, La rivoluzione napoletana, civile. Aggiungiamo a ciò quella
sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e
comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua critica.
Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi
tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi
con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto
il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento
sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si
spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi
Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di
costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera
del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la
guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi
l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la patria
mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi
avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto
ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per
certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire,
e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è
concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio! Egli
dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che egli vi abbia
avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera
solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti
politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche
quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol
compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro,
studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio
della Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è stato
spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. Dichiaro
che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e
l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto
avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono stato io stesso un giorno
non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso,
che non voglio ingannare. Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa
zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza
della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi
bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il
vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del
movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da
contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello
stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè
la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente,
perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra
ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i
Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione
per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per
caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne'suoi scritti. Egli non ne
condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per
tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua
posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi
possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva Nè basta ! Egli vede che
la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono
alla testa della cosa pubblica, sono più CUOCO (si veda), Saggio storico, Oltre
i brani citati cfr. Saggio storico, illuministi che non i pensatori francesi,
che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un
bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni
concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole
essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il
Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi il
giovine Vincenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del
resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi
darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati. Queste poche osservazioni bastano a spiegarci
il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi, contegno di critica, dunque,
dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati
bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già,
come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo,
antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano
contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica,
nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui
parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può
spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono
non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e
sobri del Saggio storico. Rosi; CROCE, La rivo luzione napoletana, ove troverai
abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi
processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. HAZARD. Prima di
andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione
cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette
conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e
non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue
lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo
provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e
l'esecutiva, la prima letteratura italiana, getta gravi ac cuse sulla figura
morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria
contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise).
« In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente
con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei
progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo
avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma,
anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi
si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva
nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in
quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa,
nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo
particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi
il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche
dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il
Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la
mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In
quel tempo il governo borbonico era disposto a concedere a CUOCO (si veda) il
perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al
fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha
avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo
perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im
possibile resistere; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della
virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un
perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che
non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali
ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia
del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di
disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le
parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione,
che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino
Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si
dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega »,
Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si
discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse,
senza penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione
assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza
intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando
sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della
nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza
giuridica popolare del Savigny diventano, sono in Cuoco, più concreto e
positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e
morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso
illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse
seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far
nulla. L'ottimo non è fatto per l'uomo. Costoro,
ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare. Nessuno può « törre al popolo tutti i
suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di
una costituzione. CUOCO (si veda), se osserviamo bene la questione, distingue
due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti
giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una
elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo
era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene Framm. trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine. È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano
l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori
solennità esterne colpiscono i sensi. Dunque, ammesso che un legislatore possa
dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una
nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non
vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi,
che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale
non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è
schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un
popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non
mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici.
Quanto più il governo che voi distruggete è stato Framm. Ibarbaro, tanto più
numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando
troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra
le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di
seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi. Nello sviluppo storico nulla
si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni
loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità
si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un
culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della
nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filosofo. Un
legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la
natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema
costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi Framm. che non sono
nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un
legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole
dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per
la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i
mali. CUOCO (si veda) ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non
bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un
problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può
ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei
filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è,
edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di
continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione
consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Essa è
qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme
regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi
non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore;
grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che
l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto
a cederli, nè spinto ad abusarne. Ciò è possibile solo in quanto la
costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla
quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico
generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire
l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare
ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi,
il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar
leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco
ci dice che egli Framm. forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni
non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come
bene osserva il Romano, calcando un giudizio di Zito, mentre all'inizio del
movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma,
in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese,
non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte
a tentativi di analisi e di giudizio. Ed è proprio così ! Anche Pagano, mente
geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo
non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli
studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella
scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del
governo di uno Stato, è certo però che il grande autore del Processo criminale
si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la
costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso
assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di
oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La
costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un
popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle
coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle
armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi
molteplici bi sogni, ne ' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre CROCE,
La rivoluzione napoletana, Zito, Vita cd opere di Pagano, Potenza, Garramone,
ROMANO. Il giudizio sull'opera di Pagano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che
non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda
bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia
misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior
numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della
tua veste. Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla
vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini
quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori;
imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che
io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo
arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse
accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa. I due raffronti
con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza
mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei
bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi,
usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti
e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l'impulso
di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo di NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d’ordine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese, Framm. sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli
uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non
è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si
può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Hugo e Savigny.
È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o
quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente
diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in
Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono publicati,
in Germania l'Hugo che nello stesso anno formula in un suo libro quei princípi,
che poi il Savigny, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della
vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il
Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero
germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli
scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo
sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il
nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla
di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine
nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande
giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da
un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non
manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione
legislativa e la codificazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid
astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua
propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e
pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito
collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua
filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività,
concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di
tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema,
attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana.
Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la
manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha
una sua anima (la Volkseele dello Schelling ), che determina la morale, l'arte,
il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che
nello Schelling è generalmente accennato all'ori gine della costituzione e
degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se
convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva
nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la
costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante
d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed
inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la
lingua già formata e non crea la lingua. CUOCO (si veda) più concretamente non arriva alle conclusioni
un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che
pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile
ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in
vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come?
Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale
vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono
quelle che il popolo si forma da sè. Ciò non nel Framm. civile. Aggiungiamo a
ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo
detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della
sua critica. Ma la causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra
tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui,
nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della
risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi
del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito,
altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica
scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al
Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio,
nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli
dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui
regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver
amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza
che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto
prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto
in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era
destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato
autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per
lo meglio! Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli
vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione
è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli
avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo
confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere
persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la
natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende
prevenire il giudizio della. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti,
di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime
diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a
meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia
patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io
stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non
debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Dunque di fatto l'autore stesso
accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo
luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una
classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e
non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza
della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito
invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma
nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae,
perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe
dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e
questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua
ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La
rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per
caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne
condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per
tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua
posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi
possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva Nè basta ! Egli vede che
la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono
alla testa della cosa pubblica, sono più Cuoco, Saggio storico, Oltre i brani
citati cfr. Saggio storico] illuministi che non i pensatori francesi, che s ’
astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che
dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle
masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta
con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e
doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine
Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto
dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà
nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ).
Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei
grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem
peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di
metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2),
ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere
difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai
astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli
articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia
per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente
nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico. Rosi, CROCE,
La rivo luzione napoletana, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti
sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo,
Vitaliani e Galiani. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi
bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta
d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi
che la figura del nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria
in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite,
pubblicata in Rassegna critica della [Dopo che il Governo provvisorio di Napoli
fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima
letteratura italiana] getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le
lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro autore,
sono state alui date dal signor Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le
lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello
[Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle
speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non
perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a
raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva,e
per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli
studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava
facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli
inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu, lare, siccome
avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ». Cosi il Tria: e tutto ciò,
perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il
pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune
frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull’uomo poli
tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il
1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il
perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule
al fratello. - Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha
avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo
perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im
possibile resistere; un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della
virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un
perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che
non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali
ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia
del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di
disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le
parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione,
che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino
Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si
dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ».
Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si
discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse,
senza penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge-
base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione
che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della
repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe
Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al
Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in
una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e
de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre
autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne
pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno
scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle
operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da
tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg.
e da ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu
meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi perconto nostro
abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi
atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo
suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico,
come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e
nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1 ) Seguo per la
Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot
sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla
vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di
costituzione della repubblica napoletana del 1799 per PAGANO, LOGOTETA e
CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2 ) I Frammenti
si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante
la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile,
che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente
vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti
durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il
suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto
del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap.
pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo
Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra
intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione
agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzio Russo.
Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà:
una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in
trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso
il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche,
quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì,
tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il
rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la
requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1
), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico
invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come
diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di
critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico
culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il
sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo
dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo
lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era
Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle
sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il
ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio.
Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo
estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in
grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo
compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via
senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE,
La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e
sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui
quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore,
sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo,
a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava «
sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di
terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non
testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte
del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di
stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò
senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il
tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti
leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e
ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di
cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe
ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi
dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di
fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non
classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi
costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle
per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le
nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la «
Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special
l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal
Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI.
Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg.
(1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri
politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una
seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In
quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto
curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di
razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme
Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint-
Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità
catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ),
non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco
Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma
non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni,
astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una
aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai
suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche
repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho
consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare
l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica,
mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in
sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e
non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità
di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del
Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica,
educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della
generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798,
allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per
sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il
cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu
ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in
Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala)
e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a
proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora
tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita
intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1 ). Queste
esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere
italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2),
« mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio
la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva propria del
tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le
dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3). Ed è
proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla
corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e
risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura
speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile,
se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è
certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente
all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è
l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far
tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine,
come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una
sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni
non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta,
e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è
una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi
desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione
napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip.
Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit.,
p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere
senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge,
che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua
natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni
individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se
tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di
proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui
sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa
sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il
maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far
uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un
buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare
per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er
rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi,
che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io
credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che
pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2
). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono
d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire
sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto,
costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei
gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l
' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della
collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa
collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal
Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di
lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la
sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina
dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua
coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e
nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di
vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli
uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non
è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si
può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo,
d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede,
penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su
queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il
relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e
di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della
rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi,
cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in
Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla
rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno
1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814,
nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del
nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e
l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico,
tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i
Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle
porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si
ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una
coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella
filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si
ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di
vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa
è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi
44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo
pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni
giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo
Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in
perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa
della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero
oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico,
che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel,
ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della
natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza
giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele
dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure
il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente
accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è
applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto,
elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di
codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che
essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il
legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come
il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più
concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il
quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare
tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad
ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare
un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i
bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base
è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1
). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una
formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva
senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure
quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta
realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling,
la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più
concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali,
religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive «
sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se
si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe
col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai
quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un
universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo.
Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal
cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni,
sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul
carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si
determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi
debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano,
qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo
tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io
chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la
questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che
crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza;
una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel
popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm.
I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono
indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio
della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è
mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo
tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande
com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere
riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici,
ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima,
nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed
egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più
filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte,
alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le
costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una
certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i
suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità
e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi
amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag
giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un
legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le
esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha
dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale
non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si
voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo
libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più
pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri
tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son
care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è
stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più
numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando
troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra
le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di
seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico
nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle
istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della
modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione
non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita
della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua
continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più
vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate
della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di
altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un
legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo
conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori;
rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro,
che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo
ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non
possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo
almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi.
Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non
potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per
buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo »
(2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve
seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il
sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I,
p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa
dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita
estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non
conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo
segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si
presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per
distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo;
non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire
un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra.
Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia,
che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non
credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da
sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività,
della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li
cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo
di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli,
nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in
quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana
felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere
economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono
ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa.
Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi
costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse
invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco
perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3
) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il
pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han
pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove
le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra
dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti
e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa
in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario
Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo
napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un
complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della
costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai
leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma
nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi
di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo
ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano
risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa
razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore.
Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al
pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano
è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è
grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano,
nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i
rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto
negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono
solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto
quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e
quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I,
(2) Framm.] cose e della loro importanza » E nel dispiacere del fallimento, che
al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile
avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi
ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della
buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è
l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi
errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di
Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci
possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a
creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo
disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro
Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che
il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un
sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la
rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per
cui il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli
stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi
troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se
non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è
più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3
). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire
come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle
circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese
dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre
che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo
attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. Framm. I, p. 220.
(3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia »
commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre
» (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante.
Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si
avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco
che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di
guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler
particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un
peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli
ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la
molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il
sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime
altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2
). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea
portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha
della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli
uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il
Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro
autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per
intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una
meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica,
rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la
Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario
Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III,
p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo
sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi
della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa
aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto
elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche
repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la
· purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime
educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova
scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran
cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha
data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ».
Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che
ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione
« ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben
giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse
eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la
diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la
fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti
nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della
repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno
determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè
il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere
sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe
(1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in
Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il
Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto
alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica
di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla
costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano,
Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si
provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè
un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co
stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un
diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. «
L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare,
che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de '
naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ».
Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un
comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto
d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e
l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro,
hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi
delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le
naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione,
dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche
adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè
negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque
come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti
dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come
Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione »
derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze
fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione »,
modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il
conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica
e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito
geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane
sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà
dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace,
colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ».
Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo
fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è
una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i
doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati
e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi
costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano
senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un
popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la
vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme
naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle
volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia
de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de'
consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica
autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar
l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi
interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es
sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa
della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii,
che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono
vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio
della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello
spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un
terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota
forma senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e,
purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto
passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità
ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è
che il direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra
assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in
quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato
moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di
costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare
pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti
d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una
nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato,
di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo.
La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e
l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il
popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca
Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo
sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del
Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di
un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il
compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il
compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è
assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al
Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della
nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui
dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non
accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva
dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante
l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e
non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e
generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del
sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano
al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non
era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai
fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La
nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son
quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica
sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei
baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un
pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un
popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti,
sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti
delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande,
il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte
dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più
naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un
giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione
millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I municipi
non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al governo,
cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato » (2 ).
Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac centramento in
Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei comuni,
una vera e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato l'unità assai
presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In Italia il comune è stato un
istituto spontaneo, espres sione della rinascente romanità contro il feudalismo
fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche
allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato entro gruppi politici
più vasti, come il principato o signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non
dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 ) Framm. II, p. 223. (2 ) Framm.
II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran
cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne
conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un
salto e senza veruna preparazione al sistema nostro. Ma quella stessa natura,
che non soffre salti, non permette neanche che si retroceda; e, quando i nostri
legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu
che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva
dei più antichi e più interessanti suoi di ritti ! » (1 ). Il sistema
costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il più naturale per
noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei bisogni complessi
che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini durevoli. In poche
parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni varie e molteplici,
dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari
primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque, convocata in
parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso è antico, è
nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni per
conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo
delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render
conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà
un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al
popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella
storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre
attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di
prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa.
« La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della
repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni
particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58
nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge
nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl '
interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni
individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua
legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il
suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e
s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico
lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità
e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al
disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi
pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua
stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto
più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma
che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata.
Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s '
ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge
nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale.
Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo
Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti
siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino
interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo
ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni
uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve
esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno
di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova
contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno
che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera?
Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del
giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi
riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... »
(1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo.
L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione
diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione
della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la
volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi
e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto,
e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto
ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività;
ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La
volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino,
in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata,
ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura
della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla
quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime
fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine
ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente
possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici
di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi
avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle
popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto,
una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze
inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 )
Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi,
posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non
viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un
federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto
tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo.
L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per
popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un primo
passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese, in cui
gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema federativo di
Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie, ha un
parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento
amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So
gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte
essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza
perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività
individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta
l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è
che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra
tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un
occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e
farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio
unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e
di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè
agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione.
Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano
l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale
e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita
(1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a
lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione,
che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida
e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di
natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e
cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo
umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile
particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su
questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme
giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi
fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non
al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai
subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta
una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È
fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può
divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello
Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è
doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà
in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i
prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi:
una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e
deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia
e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e
così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar
nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe
se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge,
la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori
della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei
tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in
loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della
nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa
non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ).
Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e
senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia
sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede
i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in
loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia
simile ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano
di Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag
giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra,
e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale
mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va
ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i
nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese
confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più
popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due
parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro
cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo
» (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla
divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La
Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette
dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5
al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni,
e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser
rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di
ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo
VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale,
e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia,
vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu
ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io
vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo
secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno
provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno
uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni
interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità
d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa,
la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all '
intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi
litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo
l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l'
esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la
direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo
l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello
Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe
Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni
anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can
tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari,
ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che
formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po
polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che
talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ).
Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella
larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo
dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 )
Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale,
consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente
primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può
avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al
dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato
nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il
potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive
nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un
sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica
risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come
tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti
dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema
cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla
Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi,
Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del
governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida
e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi
regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo:
egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e
centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno
origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è
la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali
non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette:
inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes
sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi,
potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi,
L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano
e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed.
nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore.
Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora
un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello
positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del
mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo
diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia
settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre
nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali
d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove
nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc
cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il
dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento
che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi
ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza
infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè
questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia, perchè
si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo, quella che
si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli tica appare
questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore, che non esito
a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione storica !
L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera di tre o
quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale spontaneo
secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia segue una
trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela, violatela,
provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce.
L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e
non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor
maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono germi
dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol
significare fazione e campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi
sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche
economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati,
ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura,
anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini,
fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di
rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun
vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e
troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella
francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita
positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della
concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in
due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più
austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il
critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico
nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda
questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo
mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli
americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in
ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro
dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua
disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della
legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli
americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi
ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il
Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione
plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli
inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo
appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo stabilimento
americano. In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra le due
Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo uguale
nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione non ha
una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero politico
del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere legisla tivo,
offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale il giurista
può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere esecutivo potere
è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare. Difficoltà questa
più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino nel pieno oblìo
degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla vera scienza
della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne conosciuti i
princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta, una
costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai bisogni
di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la quale gli
sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà una costi
tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare quindi in
via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i sensi, il
trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera forma, che è
vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un contenuto
essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto con la
vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi andate (1
) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in Italia (a cura
di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive: «.... In
Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno
difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno
abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di
questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal
potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la
legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che
solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla
costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi.
L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in
ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze
dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo stato
delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo:
cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in
debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione
l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni
nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario,
secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In
Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento
d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia
stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non
può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno
per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra
monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella
Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli
Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e
starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari
pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei
viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella
città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che
in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate
prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi.
» (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è
stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che
Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le
sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo
essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe
essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare
la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola.
È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi
diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito,
significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello
stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le
frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli
subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece
d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti
egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i
legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di
forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero
equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di
opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. «
I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei
popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche
quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura
che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso
civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A
volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di
regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1
) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per
uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia
accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le
sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a
lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero
confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di
Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo
repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi,
perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute:
la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo
di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo,
quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè
troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue
esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla
regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na
scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri.
Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi
sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi
solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la
rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi,
plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa
in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto
nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi,
conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo
mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia
degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà
impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui.
« Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di
un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso
modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni
fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia
sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte
queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so
stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un
rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ).
Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo.
Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle
persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco
la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due
consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza,
che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione ».
Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza
per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della
legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto
interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e
però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si
può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in
base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse
costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può
darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la
repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando
della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli
altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di
esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica
degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è
detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali,
e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che
garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza
cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo
per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già
spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno
sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti
sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto
dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben
poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il
legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali
dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar
monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la
censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio,
l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine
di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di
essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità:
non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga
l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta
nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari
stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante,
imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi,
la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve
esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p.
250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la
natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che
noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non
è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della
vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti,
e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o
milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon
repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a
recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di
quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al
nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati.
Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può
considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti
» (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che
riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che
ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che
non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica
delimitazione tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà
particolare, che sola può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della
virtù è la felicità, e la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico.
A lui non in teressa l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua
sfera ideale ed eterna; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è
che la conformità del costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana
coincide affatto con quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto
dei due istituti del Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p.
442 e sgg. (2 ) Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino
col costume della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo
etico, che assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere
civile. D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad
osservare dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e
semplice hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare
la felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e,
questa alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia.
Arehita (v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è
che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la
subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se
volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può
conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da
quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo
vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo,
tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le
colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno
bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di
simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini
civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa
origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in
età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni.
Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi
siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora
Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono
separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili
contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona.
Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle
civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo.
Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà,
quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale
avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi
de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che
allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della
temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i
collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società !
Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem
proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente,
dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della
felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà
del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che
non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto
pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione
giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e
complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci
appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici,
d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri
im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il
fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona
male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca
superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla
ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si
connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia
l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma,
siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla
felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo
le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro
certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere
dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale,
concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono
bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il
concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana
statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in
continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI,
p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto
superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi
bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non
sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi
bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le
nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo
corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi,
di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e
bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate
nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi
continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un
nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute
economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra
forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci
insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai
crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori
che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi
paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e
felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al
pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri
» (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano
è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema:
egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio
della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di
noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e
precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa
scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 )
Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me
sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e
pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è
insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico
fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del
governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e
quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo,
se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto
di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare
un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi
agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai
commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci
mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo;
e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e
colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ).
È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la
realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza
dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la
filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni
princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola, dovrebbe
insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af
ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo
di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo
storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua
rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i
benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne'
suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3 ) Framm. VI,
p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele terio, ed
occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento profondo, che
il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo pensiero nel lungo
corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del progetto di Pagano ci
appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che nel molisano è
organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un antirepubblicano. Nè
Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge alla costituzione
partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione francese, che a
lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi para gona la
Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella fatta in
Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla
ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma quanto
queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio
dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo
e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub
blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È
difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella
che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più
uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della
costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la
indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può
sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci
confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se
essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale
occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo
della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la
norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato
La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15
febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente
bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico
del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più
significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice
alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi,
dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe.
Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme
col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl.
Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari
(Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era
già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V.
Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI,
Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti
gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla,
limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i
maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri.
masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione
laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori
affidamenti. Il « Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo
ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese
è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. –
I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere
dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane
seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione
di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza
storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i
raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna
e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti
acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime
pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una
disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che
questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri,
ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha
dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata
dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un
pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo
storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice
imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i
suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio
repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae
l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose,
e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione
ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra
seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo,
invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità
cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico
dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano,
tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a
forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di
libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse
Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della
terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso
della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita
senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è
nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce
un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua
rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa:
Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo
stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra
distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa
ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione;
l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco,
Saggio storico] ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben
scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza
rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la
crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza,
non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle
istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una
verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità.
Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza
politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le
sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del
nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella
del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è
quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone
c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la
critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la
democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede
con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi
antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi
rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte
sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si
riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica
dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta
nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso
spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del
pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana,
giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme
hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro
bontà ! (1
) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere
di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben
potea paragonarlo ad una tragedia greca (1). Ed il raf fronto non è davvero
stiracchiato. La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto dell'antico Fato
nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno determinato la !
catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog giacciono ad un
destino, che sembra irrevocabile. Sono essi, gli uomini, che determinano lo
scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto motore? Ma la
storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed effetto: gli
uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il Cuoco parla spesso di un
vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè districarsi a mala
pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli non ammirava, se
pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul palco ferale tante
nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è altro che la
rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?: No, esso è
fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini possono
averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne conoscenza,
si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei Frammenti era
la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto, la tragedia
greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la ragione per
cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito dello
scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo fa con
tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di chiaroscuri, di
sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il pensiero; la fantasia,
laddove prima era l'intelletto, la fantasia che s'esprime per immagini e tutto
risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta in un processo d'obiet (1 ) L.
SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano ed., 1882, v. III,
p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico, Lettera dell'autore a N. Q., p.
11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84 tivazione, che non esito a dire
perfetto, onde non v'è affatto, o assai raramente, quel contrasto ibrido tra
l'ar tista che intuisce e lo storico che analizza quale può rin venirsi in
molte opere di simile genere, poi che tutto è compenetrato e fuso, attraverso
una lunga maturazione, che dovette certo essere prima consapevolezza di pen
siero, meditazione di cause e di effetti, e poi immedia tezza nervosa e rapida
d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel Saggio un elemento estrinseco all'artista
e allo storico. Lo storico si fonde con l'artista, ma lo stesso storico è
perfetto. L'uomo pratico non con turba l'artista, che supera nella visione
l'enunciato fine utilitario della sua narrazione; il partigiano non con turba
lo storico. Leggete invece il Rapporto al cittadino Carnot del vesuviano Francesco
Lomonaco. Quante escla mazioni, quanti interrogativi, quante tirate oratorie,
quanti pistolotti repubblicani, quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è
l'uomo delle nobili passioni, ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere
un suo fine, non esita di caricar di tinte fosche la storia, non esita un
momento per indossare la toga dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza
d'una passionalità che di strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura,
che è la negazione d'ogni vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di
tutto ciò. (1 ) La questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai
risoluta. Fausto Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e
sgg., la riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da
rinviare il lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio
poi possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette
ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la
nota del Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il
Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi
Studi vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che
nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli,
Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee
di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le
vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti
ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un
avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i
successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte
nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i
fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la
storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. «
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo
istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ).
Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel
mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un
avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono
un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di
crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che
sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi
costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli
effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si
può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a
parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia
il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione
di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa
scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi
immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato
essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini
sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se
non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per far
meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. (2
) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 17,
86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua logica,
nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e sono
inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della storia,
e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro
individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non
significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce
nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una
complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro
rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle
circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la
filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta
gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il
Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol
semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il
posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana
debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il
popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo
quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue
con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei
filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della
politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma
dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo
intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento
gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero
filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La
vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica,
politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p.
82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto
essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche
nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in
tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia
monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi:
« la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1).
Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa,
è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo:
gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni
che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la
storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le
cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i
quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose
istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno,
rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio
e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un
fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera
d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di
pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei
precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana
concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che
di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere
una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine,
delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le
rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello
per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha
de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da
Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre
d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre
tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni,
quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti
che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che
ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno;
una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle
altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè
ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così
financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e
che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col
papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari,
in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le
dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che
indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i
quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle
opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni
nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la
massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della
corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi
la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee,
tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra;
contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno
stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della
distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia
degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione
(1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in
travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da
un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono,
se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già
nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza
economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i
contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come
quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco
l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono
nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È
una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che
seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei
repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle
riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della
rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione
francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco
contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono
troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso
astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove
oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! «
Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >>
è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi?
No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La
ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in
telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo,
esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta,
vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco,
Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico,
VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla
fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire
provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo
abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di
princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano
seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de'
potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della
rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre
una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto
sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine,
che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi
incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione,
poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta
fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli
li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni,
se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i
millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge
tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare
per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una
catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle
nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua
politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra,
della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un
evento isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in
tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La
rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a
Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, VII, p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed.,
p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui
il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della
grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di
essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il
popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato
politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva
già acquistato. Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero
riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva.
L'aggettivo passivo ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee
passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a
riceverle e a meditarle; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a
nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a
provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a
Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre
tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla
Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista,
illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi
in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter condurre realtà di
lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non
sforzando lo stesso ordine delle cose? Così.a Napoli. Invece di fare una
rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in piccolo. « Le idee
della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser
popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte
da una co stituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra
massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si
aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora
tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri
capricci, dagli usi nostri » (1 ). La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XV, p. 83, 92 francese, in sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi
derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi
economici e politici; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di
opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la
rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in
realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa; il re di Napoli
crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po '
moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo
contegno un generico malcontento. Lo stesso atteggiamento politico estremo in
due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le
conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che
Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e
nei codini, nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo
manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale
errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia: effetto: la
Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone,
vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed imprudenza, assodò
una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » (1 ).
È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine
delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè
tutta l'Europa: la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo
sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema
di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a
cui i filosofi applau dono in buona fede; « sistema che alla forza delle armi
riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti,
quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » (2 ). (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93
A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari.
Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante
di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae
dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana,
che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è
possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i
repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si
proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma
la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È
proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi
nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1 ). « I nostri affetti,
preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e
dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ). Gli uomini s'oppongono
violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con un metodo diverso la
situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali d'opinione si guariscono
col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i
filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento: la
rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la ti (1 ) È lo
stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I, p. 43: « Nel
portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura principale de
quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra...
Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo cura, ad
onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual
giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un portico per
ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a
taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto: —Tu vuoi
dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua
stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi smascherar
lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante?
Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p.
29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco, la polizia
perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a cavallo per
Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe riodici le
cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle
innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera
l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse
cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che
la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa »
(1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso
della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ).
Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano,
nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non
era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un
solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione
farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e
il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. «
Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione
della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della
corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei
coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i
patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e
gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la
ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e
nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento
dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa
pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani:
la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La
rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p.
41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo
osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza.
La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la
corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della
nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne'
signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un
giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente
i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure
l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella
politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che
finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la
storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti
quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono
considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi
consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca
partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la
vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia,
intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto
deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza
all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo
sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso
economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali?
Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone
discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti
avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta
contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza
amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano
tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come
scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua
imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non
costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A
Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore
compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male
seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che
voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della
monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica
borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con
tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una
condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni
meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea.
Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una
politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del
Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con
la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice
co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato
diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da
sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre.
Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco
sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è
straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero
antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare
agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere
esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le
rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione,
che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de'
governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte
ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti:
egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha
origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità
politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri
voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva
ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi
d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le
direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è
poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee
ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia,
Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da
questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono
meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire
napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una
principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la
tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola
smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per
il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od
inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del
vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. «
La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi
serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose
sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione.
Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la
potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto
portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco,
Saggio storico, V, p. 29. 7 -- tando il paese perciò dalla dipendenza
manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece
no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in
cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si
spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non
eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di
nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra
dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il
peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si
riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male
assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli?
Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè
la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza
de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di
Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri
e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire
il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era
quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria
Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I
bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con
le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi
mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre
alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta
che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da
guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto
non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p.
45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di
tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate
manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del
molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito.
Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno
verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo
dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di
astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di
Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon
senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a
scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza
positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle
schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a
tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza
collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do
manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo
la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non
già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede
sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione:
audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee
loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si
trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è
inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura
» (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono
rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la
sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi
nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi
di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del
Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra
acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel
corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le
stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due
cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono
repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia,
la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto, l'ufficialità dànno
il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri, giureconsulti,
vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen
siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine
secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione? Tra le file dei
repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno
d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare, che anche a
Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti,
l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel
cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il
Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del
'99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a
Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a
Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che
vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre
uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed
eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue in due gruppi: coloro che
vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido,
coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p. 158 e sgg. in Rassegna
critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L. CONFORTI, op. cit., p.
21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia; i furbi, in somma, e i
fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre
rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono
i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti. La memoria dello
storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I patrioti sono uomini colti,
superiori, il fior fiore della nazione: forse questa stessa loro origine è la
causa prima che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla
realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni; i princípi che essi pro
fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito
romano, la loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi:
quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ). Uomini i patrioti
insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere
uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra alla posterità la
loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa
esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che
enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito,
esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli
ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste, la
distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di
Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili:
l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del
forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce
di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo
freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali,
ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure eroiche,
che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo della
sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 84, nota. (2) V.
Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica esclamare esaltato: « Si sono
tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire; i nostri
fecero anche dippiù: seppero capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno
una volta far riconoscere la repubblica napoletana » (1 ). Ma lo spirito
politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla sventatezza,
all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo; non può, esaltando
virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo
legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine. Si è detto (2 )
che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto. No, il fine c'è:
la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè
l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori. I saggi
sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre in
beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti i
popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti bisogni.
A Napoli, come al trove, c'era un popolo: bisognava tenerne conto, inter
pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso. Tutta la rovina della
repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo, sappiamo, è
il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni (3 ).
Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una semplice
illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione deve parlare
ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle plebi, e non solo
ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo aveva di che
lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo agire,
soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione, legarlo
allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p. 188. (2 ) U.
TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette ratura italiana, v. VI,
(1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 5. 103 fatto ciò, la
repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile. In una
rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si sarebbero
potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della
nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra le due fazioni,
i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede fuggire
ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del sovrano,
della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria, dubita, e chi
dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo partecipe all'azione, invece
si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco «
essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era
quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma repubblicani e popolo
sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi
sono fran cesizzanti; il secondo per natura tradizionalista, attac cato alle
sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra
gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia. I
dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si
deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co loro, che sono ancora napoletani,
nota con amarezza lo storico, e che compongono il maggior numero, sono in
colti. Ritorniamo al solito concetto: la moda straniera è la causa di tutta la
rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti
dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se
non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non
può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della
sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli
esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. (2) Il
giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V.
FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad una nazione straniera: tutta
la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » (1 ). Mancava
alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli nelle loro
crisi. Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si obliava che la
gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla natura delle
genti galliche. In Italia c'era un comunali smo, che in Francia non era mai
stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in Francia un
popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani dovevano tener conto di ciò, e
trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti, governanti e
governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le
potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » (2 ). Il popolo non
è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso: « i popoli si riducono »
osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro offrono
maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i
rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero
intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli istituti a cui era legato,
avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione
in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri,
interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si nta un capo che li
voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti
abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti
solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare ciò bisogna
andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti esistenti
assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al
suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » (5
). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco, Saggio storico,
XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di Napoli, nota il
Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa religione, e
vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La reli gione
cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo; riformate nel
clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente miseria di molti;
diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che
oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li rendono quasi
indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la
religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e
liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal paganesimo, che,
basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi indocili e padroni
tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di libertà, su prin
cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi la più adatta
per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo un
pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello
spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora
dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date,
se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una
religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione:
se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al
governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo Cuoco (4 ). Lo
Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa nazionale
debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un superiore
approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla posizione
religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA, Giambattista Vico
e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414 e sgg. (3) V.
Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p.
137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel ritenere che gli
errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco influito ad
allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo in seguito:
resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano aveva della
religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi princípi.
Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore etico
della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica morale
laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi
gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante
opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro
i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola
loro volontà individuale. Il governo in sostanza era agnostico, non conduceva
ex professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e
gli emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio
contro il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi
affetti, s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo
il più saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi,
due popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni
subordinate. Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile
e laica. Si negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che
cosa è la libertà, se non un mero astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo
quelle popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La
libertà delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi,
era chiesta (1 ) Nel Platone in Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con:
cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: «
Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di
religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè?
Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo, il popolo
tien altri precetti da seguire. Se il popolo allora si trovasse senza co stumi
e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo
necessario a riordinare le leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131.
-107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto,
è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi
princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep
pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le
forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile
barriera al legittimi smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne
intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca
la sua natura. « Il popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello
che si crede » (3 ). Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare
que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze,
così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu
» (4). Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi
come salvatore il riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per
osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e
rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal
volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche,
che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di
sostanza. Ebbene, i repubblicani preferivano urtare contro questi apparati,
anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia
politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una
sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò
che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che
vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più
non vuole; egli allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che
si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico,
XIX, p. 106. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio
storico, XIX, p. 107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani
da questo elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e
perniciosi. « La manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione
» (1 ). Le rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli
uomini, e gli uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e
categoriche, sono senso, sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno.
Ogni nazione ha un patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare,
d'una vita non interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella
sua coscienza, presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato
mentale, ma è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare
alle idee antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti.
La rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno
sulla rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne
contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi
esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una
natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per
gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle
antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco.
Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito
individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o
sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la
sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non
possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento
della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è
un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo.
Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è
nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di
sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII,
p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo
punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso
riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine
della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura,
che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo,
s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo
si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso
naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che
tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia,
sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua
autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella
ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre
all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo
moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua
figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le
idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio
storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi
costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di
sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a
ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. «
Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo
si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la
felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in
atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu
attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando
egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il
crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando
considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.
102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu
zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria.
Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è
solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento
unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà
coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore
dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di
princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale
l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme
del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato
e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel
diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è
cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è
veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa
degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli,
che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni
pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià
dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia
significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni
errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della
retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini,
gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di
terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il
terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser
diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che,
non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa
fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza
dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi
e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero;
lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il
Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso
costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico
trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente
consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi
a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale
rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub
blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise
gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa,
alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei
rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il
nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del
Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che
non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici
niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure
con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota
una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il
capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai
praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la
storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi.
Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione
per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è
consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa
pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII,
p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità
pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello
spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma,
nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1
) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che
raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la
drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività
superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico
sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia,
che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta
subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma
precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce
della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad
accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a
constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè
uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a
volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un
principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il
Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la
glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la
quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu
sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse
durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono
metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici,
religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe
repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono
ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE
RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113
scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre
più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che
non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica
causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di
premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la
critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco
possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima
posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto
minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso
riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della
vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno
alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante
tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale,
non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno
nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due
scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei
princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla
legge, sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i
buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i
lazzaroni oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il
governo dello Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo
vedremo documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le
pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa
della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non
distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi
e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai
Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke
scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo
liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine
sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione.
Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre
interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam
dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso
dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che
più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno
svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama
con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa,
secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come
lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad
una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke
nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri
voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese,
la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che
pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto
d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per
altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato,
che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano
utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno
quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita
civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica
incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua,
nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2
) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo
secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per
tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente
ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe
essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore,
un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con
siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo
la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi
e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai
particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un
corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato
da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il
Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale
di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo
in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla
rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo
d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno
farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del
moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva
nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica
superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione,
mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo,
desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di
saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco,
invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega
completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa
desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova
situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel
secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun
paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla
fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal
punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a
noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere
sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di
Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma
trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale
italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande
successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per
chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti
di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se
la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una
coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta
moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 )
Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana
le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità,
sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del
1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio
stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo
giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali
inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai,
e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel
Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo,
pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228;
ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo
dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446),
ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione
italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime
and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai
profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit.,
p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo
pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal
punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il
Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo
a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del
Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di
più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99
e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui
diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente
storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce
sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto,
sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un
individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è
stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale
passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una
mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo
pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando
la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal
problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera
zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e
palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata
precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p.
279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg.,
ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo
scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare
inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal
RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a
scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di
chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono
scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano
michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la trista
figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il
GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri
vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di
quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte
alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e
l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo
notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed
esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere,
e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè,
confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni
e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del
resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua
mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale
dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare
di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il
SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio,
come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, «
li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche
senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano »,
venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente
il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che
importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo
perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida
io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la
lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più
che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s'
intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del
tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza
italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli
altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che
fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione,
il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119
mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli
dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè
stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli
uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della
tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'
i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più
di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de '
signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1
). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito,
tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la
acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un
individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di
Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione,
attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto
comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due
provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e
per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi
erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ).
Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia
cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui
vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di
Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche
righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una
larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e
alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento
intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco,
Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella
Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia;
Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna
ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti
a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre,
finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero
cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem
pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente
moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli
animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di
Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro
furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei
soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico
vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica !
Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ).
Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è
cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate
alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di
Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio
che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una
figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei
Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente,
dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un
elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora
uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime
della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1
) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per
raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli.
Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di
grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di
prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti
del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità,
illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette
agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono
gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi,
poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva.
La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed
essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè
l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i
bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco
politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista,
che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura
umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di
quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini
sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno:
l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del loro
spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed
artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della
rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il
rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle
maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con
la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita
storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 )
V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li governd.
Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii, quasi
danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose, come ei
diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano più all'
istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è tanto il
sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in cui le
avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una
tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu
dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ).
Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il
Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore
dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del
resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno
dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è
perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI.
Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione
italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della
rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. -
Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. –
Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale
europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una
illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di
Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo
napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel
suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del
molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose
migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op
posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale
dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una
vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo
storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. cit., pp. 218
e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo
detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e
giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di
ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di
particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la
situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica
repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua
risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte
questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il
Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi,
democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma
anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un
popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la
propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera
cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo
dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra
storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione
propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa
gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale
di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po
tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il
Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del
popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è
la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La
documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di
porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle
popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta
l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo
beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi
pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa
grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima
spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran
patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli
altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di
pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di
essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più
grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci
allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin
seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da
un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro
vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte
le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco
quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di
un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni
omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello,
che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta
seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda
la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il
Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è
destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha
venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta
allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere
considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è
antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa
esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126
teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che
oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non
fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la
patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento
politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure
re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune
distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del
Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità
pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di
lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario...,
quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e
che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli
ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia
costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo
prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un
eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la
coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è
un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso
tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la
convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le
conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti
benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa
per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere
ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto
insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in
Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri:
il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e
sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora
bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei
limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior
autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini
costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà
sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i
popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed
intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e
primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi
ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non
possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono »
scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo
che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava
ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando
egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia
e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque
coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In
Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale.
Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora
nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di
tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per
chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm.
III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere
leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn.
ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17
gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I,
p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il
ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la
monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di
sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad
accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le
volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è
mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata
tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino;
se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente
mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera
determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura
che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche
sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano desiderosi di
comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi che non vedono
bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco
real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po litica. Il Cuoco
non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino
l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà autonome delle
popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono spie garci vari
punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere
senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione
alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della sua sal vezza dopo la
prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo
ordine un po' più schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a
costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior
luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il
pensatore, che, criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a
Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso tempo: « Oh ! perdona.
Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di
Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita
»; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che
oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i
Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a
Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi
cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male dei francesi?
Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era
nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente in Capua nel
'99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino
rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue manifestazioni in an
titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il suo spirito storico e
pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle leggi, che governano
il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita
pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della natura delle leggi e
della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio,
ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita
italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran, diversi da quelli
francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle righe assai
importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo
rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua
mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar
fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di |
Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 ).
Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale in
nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la po (1
) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit., p. 269,
in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi vichiani, p. 350. (2 ). V.
Cuoco, Saggio storico] sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione. Il Cuoco
non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè
è troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più chiara.
Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un
isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente
radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un
mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in
errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca. Come nel '99
egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi
subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una
repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo, che sapesse
intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo
operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i
suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico, e si
senti travolto in quel vortice che pur non amava; così oggi, a Milano,
ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto
di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La
vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare
uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una affermazione è implicita
nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia,
è nella storia, e afferma la storia. Tutto il movi mento post -rivoluzionario,
in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione.
L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e
princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto
nello spirito, che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo,
pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è
ancora nella rivoluzione; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento
storicista nella politica e nel diritto, sono già fuori dalla rivoluzione. La
filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131
zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato,
il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella
natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La
fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra,
diciamo pur così, tutto sè stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale,
autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e
dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri
filosofi della restaurazione. In Italia questa reazione, che però è una
rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da
Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel
regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto
allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è
nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del
molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il
primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale
e pedagogico; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita
morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo narchia. Affermazione
questa, notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la
risultante di mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a
più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il
Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un
processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania
questa rivalutazione è posteriore: alla rivoluzione, mentre in Germania il
Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con
tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione
francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una
partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme
una loro legittimazione; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa
rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una
forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la
creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge
dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore
ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino. Le prime pagine
del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla
seconda edizione sono la conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente
esplicando fin qui. In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata:
ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine
di cose e i nuovi princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di
Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era
stato spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli
avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato
nella sua patria: il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista
d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e
stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi
gli er rori e il crollo; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il
piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire,
nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il
profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla
seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni
gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti
alla sua pubblicazione. Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra
quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha
confermate le antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo
che non falla: lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli
uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe
sopra citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la
soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge.
« Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi
cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt'
i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in
me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu
stizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha
fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che
gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee
di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto
al mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e
sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come
monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora
credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la
spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente
partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non
amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che
per esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane
parole; virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo.
Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove
la prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è
ispirata ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura
delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed
individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito
come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità
e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi
osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica
generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non
nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è
voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma
coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero
gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e
continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli
tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in
Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute
formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli
uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che
l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle
nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la
controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non
attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si
segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si
occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende
il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà
in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars
servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio
di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro
gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella
stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche,
lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche
nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia,
dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o
volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in
una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente
l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio
storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo, esaltando
sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il
rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere,
che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione
sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo: quand'esso,
anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato. È carattere pro prio
dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti su
basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi, liberali.
Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia: la monarchia, date le
condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di governo. Napoleone,
ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la
lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito un sistema nuovo su
nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto rico, portato a
valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento
instaurato, sa trovare i benefíci che da questa sono scaturiti insoppri
mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò
nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame
di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che trova le sue origini,
pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco
s'arresta e guarda indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro:
nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo
cammino sulla via della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi
verso un ordine migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono
diventate più concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 )
Giorn. ital., 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28:
Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La
rivoluzione francese e l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han
fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non
è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere
dal 1795, non potevano arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine
regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di governo, e
ciascun governo ha in sé talune parti essenziali, senza le quali, invece di
costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la vita di
un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem
brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi
non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la
concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario; altrimenti
sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la
Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo
successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che
questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi
effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è
necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè
queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a
risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza
pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami
pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo
di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di
fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica,
tende a cangiarsi da governo militare in governo civile. « Tale è l'ordine
delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a
questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in
cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella
sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or dine costituito, cioè
Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella
negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di
trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra
in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo
leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere,
nello stesso tempo, il militare, il con quistatore. Il governo militare, che si
erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla egli ha parteggiato nel '99
per la repubblica, ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla sua
Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione dello
Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la forza
delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice il
nostro autore, è il peggiore dei governi, come quello, che, essendo odiato,
sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni,
gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno,
di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario, che pone un limite
insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi.
Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al
Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è
Stato di diritto, che importa e riposa su un contratto sociale, non storico ma
immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti
singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del
diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine
riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo
costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni
rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali, come
dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei
gratia, superiore ad ogni volontà na zionale. Egli, ingegno storico, sente che
tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si
può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel
giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni
aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la
teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per
seconda mano che per let tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la
monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il
consenso e l'autonomia (2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il
Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo
una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la
maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or
dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto,
diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono
anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo
sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo
facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della
coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali;
il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e
qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra
le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei
che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una
lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali
osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore
diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La
moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè «
noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma
non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai »
(3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE,
Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M.
ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati
essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della
libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile.
Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse
credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto
avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi.
Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più
rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona
costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale
attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo,
perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien
ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di
ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al
governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene
per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re
pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di
stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro
custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di
cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più
utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne
produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo
Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e,
quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de '
romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è
stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non
vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi
sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a
pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite
egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le
persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si
perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia
cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si
afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti
i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso:
spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue,
d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione;
sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha
la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il
nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole
dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno
per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato
soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è
classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso
tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza
il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del
primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco
in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia
sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione.
Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto
di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in
atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto,
ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno
novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È
possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di
no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in
certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita
de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141
rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de'
governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna
indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso,
occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le
crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai
soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di
rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare
oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare
nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco:
ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove
scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione
di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia
qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo
stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di
cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle
nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88,
91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394:
Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il
sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno
squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in
campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo?
Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più
sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere
medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi,
onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai
prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di
democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla
forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e
sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di
re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare
ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del
regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse
dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante,
che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ),
tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del
numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che
chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato.
Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie,
dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato.
Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro
progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo terzo
stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli soffrirono
rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu distrutto
ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di oppressione è
uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe predominante
distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della
vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne, perchè agli
estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie loro, come
diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni interne, avrà
debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore del primo che
vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè non direm noi
che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità? Nel secondo
caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più durevole
la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non avrà
alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria e di
orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali
vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la
borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione,
che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza
corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella
classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la
cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la
borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe,
in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe
insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino
dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa »
scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto
vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di
struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi,
gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo
esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà
diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener
uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste
commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali
possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai
disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè,
dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro
i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà
avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i
ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura
delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra
industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di
quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16,
18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p.
51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in
Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al
principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già
accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali
potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la
massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva
Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si
potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello
in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si
ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro
discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che
è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza
di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal
l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto
cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe
dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti,
dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il
gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s '
impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui
il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna
abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco
antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni
versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto
che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che
questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì
doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e
che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per
eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà,
nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni.
Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo
stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son
tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma
di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario
sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il
merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo,
dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su
bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle
nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal
Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli
istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il
diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in
sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le
costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un
popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta
importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per
via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle
masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che
l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte
sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni
coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare
tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia
del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe
nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma
questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la
di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come
ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere
tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà
la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. Una
classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a
modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo
Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è
il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la
proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una
sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o
commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno
Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni
attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in
coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi.
Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi
e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della
cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire
l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che,
pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si
afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa
composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo
oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che
solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data
dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura
conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè
sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza
del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla
realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica
ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la
costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver
affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi
abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come
si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive «
divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col
l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a
dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza
offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si
conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a
sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben
condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno
del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà,
ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro
che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro
interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il
senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi addentrate
nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a dare alla
proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il sistema politico
moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e quindi a concepirla
come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale: l'origine della
proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che nell ' uomo è
senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura dell'uomo, che
vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla proprietà, base
degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la natura
intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e fantasia,
bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un sistema costi
tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come questo sistema
risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre bisogna aver di
mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro prietà !? È un
po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247, 148 « Voler
ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere
la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non
diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre
il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova.
Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può senza
tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni,
nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori »
(1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente economica, e questa
origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile
ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di
natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo
consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non
esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della
borghesia, che per lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel
monopolio della vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di
rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne
' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il
Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico,
XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi
sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha
cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i
proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento comunistico. Io non faccio
che rimandare il lettore, che si interessa del problema, allo studio su V.
Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund
Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la
proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni
tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A. del Saggio storico sulla
rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato
da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149
nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato,
ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero
lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande
industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro
medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti
al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi
accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano (1 ). Sarebbe pur
questo un tema interes santissimo; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo dal
nostro assunto: tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico
di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici, che
il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo
della società post -rivoluzio naria, ed un intuito così immediato dei problemi,
che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il molisano dice
intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta
la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse il suo senso po
litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto importante del
sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale pubblica. Quanto
grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione nella vita civile de
' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo. Una seconda
conseguenza è « la perfezione della mi lizia, poichè essa non è perfetta se non
dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino; e questo non può
avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero
della rivoluzione si rivela nella sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo
Stato as (1) Giorn. ital., 1804, 6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica:
a proposito di una cassa filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn.
ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito
della mendicità e dei problemi connessi. 150 solutista era da esso considerato
come estrinseco alla volontà dei subietti singoli, come tirannico e nemico:
l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato
repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla sua volta, riposa invece su
un consenso così largo, da ammettere, ed è un estremo, il diritto alla
sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno della forza a suo
sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può condividere questi princípi. Il
suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla conservazione, e re
spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente mente. Il contratto
sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un contratto storico,
ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè bisogna riguardarlo come una
esigenza ideale ed un presupposto della vita civile stessa. Il Cuoco deriva il
principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori meditazioni
vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà indi viduali (libero
volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni momento della sua esistenza è
tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o cerca di rompere
l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il contratto sociale
eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è convergenza di volontà e
di diritti particolari, dà allo Stato il diritto generico della difesa e della
conservazione. In ciò la filosofia giuridica del Cuoco si differenzia dalla
filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni punti di contatto con
quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di alcuni pensatori germanici.
Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e di suddito, in quanto lo
Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà ge nerale, che non ammette
peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta sottomissione. In ogni
atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione inglese ha tolto al re e al
potere esecutivo ogni possibilità di disporre della forza armata. Il principio
è stato superato durante la guerra, date le condizioni eccezionali, ma resta
sempre base degli ordini ci vili dell'isola. 151 dico dello Stato è implicita
la volontà generale, la quale volontà generale non permette che alcuno possa
evitare la sua autorità. Ecco il principio della forza, che integra il consenso;
ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani festazioni sovrane diviene
militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di una volontà generale e
sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa, sono anche soldati,
cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la cui genesi, ripeto, è
nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena e sintetica nel
monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e storica della
nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la filosofia
dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le
costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza
armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze
della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i
Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene
nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo
contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo
Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le
quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di
pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani,
dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti
militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII,
permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a
sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo;
e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche
più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato
sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1
) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto
coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti.
Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo, allorquando
il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale del popolo
nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani esercizi
bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il nostro autore
« e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con dannava
all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta una
volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che il
primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi
un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò
gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però
non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai
d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si
reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni
che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È
un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene,
l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato
negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in
dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi
dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale.
Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile,
diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto
perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la
volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma
lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s
' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga
l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il
commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con
riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa
riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi
dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e
francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni
ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può
dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato
sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato
monopolistico, come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo,
di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere
forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò
che è, è quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi
troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc.
non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata
di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli
sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un
proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non
possono mutare queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio
soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni
sociali e civili, di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che
determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle
cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab
biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza
economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed
apriori stica, ma di fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi,
di loro natura « tanto semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza »
divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi
dell'economia sono (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché
sono i princípi stessi della natura. La na tura determina l'ordine e lo
sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze. Lasciamo operare la
natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di meglio si possa
immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè che gli uomini,
lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale, mirino apriori
sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di contrastanti
interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo
stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è mera
astrazione, l'egoismo economico nativo, che li porta alla ricerca della
soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato
cuochiano quindi è Stato liberista: il prin cipio però notiamo è tutt'altro che
chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il
legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in
quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali
anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività
indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal
lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare
princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi
economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura;
i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico
trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri
solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo?
Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni
reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono
pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare
le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di
vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con
vantaggio, è necessaria una certa potenza politica nello Stato. È necessaria,
perchè possa ottenere dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten
gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua
voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se
non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni
giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime. Come mai il Cuoco,
di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire
così i suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può
permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende
quanto necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non
dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età,
in cui ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la
Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo
politico diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto
non sono più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il
sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo
leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all'
impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni
maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e
valevoli in eterno. Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica
di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di
lettere a Vincenzio Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5,
6, 7, 8; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in
M. ROMANO, op. cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213
col titolo La politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il
ROMANO, op. cit., p. 155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da
me sovra ci. tato aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco
non moveva da teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche
del suo tempo. E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156
principio, al quale egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il
germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello
sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che
non renda infelice il cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a
segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero,
si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è
la felicità, e la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio
tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre
variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o
scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che
desidera, non sarà mai ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi
quel senti mento di pietà, che ci fa risentire i mali altrui al pari dei
nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre
che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo simile, perchè non
gli serve: egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono
crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser
utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni
le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà
anche generoso. Ma questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo
a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario:
ed allora non si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per
schiavo » (1 ). Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio
possiamo dire soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità
fisico - chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è
felice, cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1
) Framm. VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un
abbozzo di morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da
V. Cuoco. 157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto
tra desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni,
aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo
dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il
nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti
ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio
continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che
parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono
soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di
bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare
catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel
che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna
infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per
breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni
impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e
proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una
serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi,
che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ
zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento
naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser
quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le
quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale ordine,
che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle
arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione del lavoro
agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che chiama
pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura
indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un intervento
statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo,
i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso a forme
d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor
di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni di circostanze ano
male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per una pratica
economica generale (1 ). (1 ) Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci
interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so stiene
forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e
spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra
tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera
statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino
Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla
tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per
incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli.
Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta
dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie d'educazione
si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri fin che
crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di sè
stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di
noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi
azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune
cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero
migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre
presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi
pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso
dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i
ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra
il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e
quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in
Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque
gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere
attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at
taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve
procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter
vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale
della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo
Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità
nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come
questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di
Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che
alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la
giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma
che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un
processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta
documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto
imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che
porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione
negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue
Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero
politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella
natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la
tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I
contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge
ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui
opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà
intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato
decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al
regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? —
E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean
predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30
maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato -
consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti
vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ».
L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di
tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è
fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di
scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un
esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di
meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè
era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che
quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il
limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco
rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo
così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza
trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere
legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in
campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità
amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la
monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere
esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di
togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella
decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il potere
esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità: il
diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via
strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La monarchia
costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ».
S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la
Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla
stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni
potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la
guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si
comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795,
furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea
esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni
della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il
pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che
al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un
estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa
spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La
costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la
lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di
comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio;
l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del
sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e
all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto
d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in
parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale,
inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una
particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato
ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato
per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni
ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo
restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee
andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe
il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore.
L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è
perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la
storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè
soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il
com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F.
BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la
responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe
avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che
paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho
analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come
da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con
sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco
ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un
processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono
cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha
osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che
brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose:
le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la
più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso
uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una
convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e
de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel
tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità
individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando
consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza
delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non
falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta
all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale,
d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I
popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla
vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè
estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V.
FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni
menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri
spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi
sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente
nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di
capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la
parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente
il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico
possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo
di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli
desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a
riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due,
nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande
fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo. L'Anonimo'
nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime di
tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca
struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli
tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario
lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla
seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita
fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua
Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani,
inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei
buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo
illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero....
». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp.
39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il
titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca
Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più
scellerati di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno
dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir
l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano.
L'Italia non avea altro più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di
milizia. Quei tanti tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la
guerra; ma questa guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un
sol lievo diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande,
sarebbe stato più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del
nuovo impero. Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza
crudeltà. L'Italia avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe
incominciato ad avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La
giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva
questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per
iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella
maniera. Oggi la storia è cam biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è
un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce
la gloria alla virtù. Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici,
incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e
storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua
stessa personalità la sanzione del l'impero? Nessuna. Tutte le cose invece
additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come
colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario È curioso ed
interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi Cromwell. In un
articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul
libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul diritto delle genti (ri
stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo L'assassinio politico e le
violazioni del diritto delle genti) scrive, a proposito 165 Napoleone ha
inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più nobile, il quale sta
maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia quell'unità, e in parte
quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti pensatori e di tanti martiri
della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando verremo a parlare della pedagogia
e dell'ita lianismo del nostro, come il problema unitario italiano sia anzi
tutto un problema spirituale, cioè educativo, e poi un problema politico.
Limitiamoci ora a vedere la cosa piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla
meglio nel suo intimo. Bene o male s'è costituito nell'Italia settentrionale
uno Stato unitario. Quel che al Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si
cominci a vivere italianamente, a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il
nuovo organismo è accodato al carro di Napoleone ! Che importa ciò, se
quest'uomo grande ha di mira il bene comune dell'Italia, sua patria d'origine,
e della Francia, sua patria di ele zione. Il nuovo regno non ha con l'Impero'
se non quel vincolo di solidarietà reciproca, che lega il benefi cato al
benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli, comune sovrano di due
nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente antifrancese ora è
così strettamente francofilo, incline ad intendere i benefici dell'alleanza e
dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare Iddio, che ha voluto porre
Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo solo? La risposta è
implicita in tutto il pensiero politico del no stró scrittore. di un'operetta
del colonnello SEXBY, Killing is no murder e dell'attentato contro Napoleone
del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla posizione storica del lord
protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze degli evangelici, de'puritani,
de' livellisti e di tutto quell'infinito numero di sette religiose e politiche,
che si agitavano allora in Inghilterra come igra nelli di sabbia quando spira
il vento di mezzogiorno ne' deserti dell'Arabia,... era inevitabile che
sorgesse finalmente un uomo atto a ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò
che è ine. vitabile è sempre il minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non
ama, è la Francia repub blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am
mannisce ai popoli parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e
intanto depreda musei archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia
le stesse città che dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli
descrive con così foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità.
La Francia, che invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha
ricostituito gli ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi
superba della sua rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel
nuovo Stato è, però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che
intima. Bisogna dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno
salde ed eterne, bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità,
la volontà unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco,
pedagogo dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza
nazio nale » (1 ). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di
partenza per estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È
il gran sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo,
ovunque veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido
murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il
desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico
avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per
virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano,
per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur
serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale
necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi
a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione
istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato
potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in
Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia
della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E
come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto
tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i
francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per
superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa
a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia
eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla
Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio
vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria;
ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia
non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi
conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma delle libertà tutta
si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è
inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa
evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si chiama
con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che
forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea
governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse,
per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an
corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i
costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane,
rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia,
il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6
aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato
in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp.
149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva
acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza,
preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli
ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato.
Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale,
bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi
ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un
Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo
gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni
e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito
popolare depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni,
leggi proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge
nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca.
V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche,
che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che
intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali
sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è
avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire
però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan
questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è
utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà
dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli
saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo
uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di
restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un
terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo
Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei
benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico
nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che
Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel
suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in
Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza.
L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha
sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la
convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti
siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un
avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di
quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non
ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il
profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci
riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede
possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso
un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha
potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi,
estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del
presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale
europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche
insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del
secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze
politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto
processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico,
appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro
del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il
transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo;
il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio
commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna
grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla
penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità
italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre
cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande
verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo
duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della
politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la
rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di
unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina,
potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea
solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser
af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le
potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio,
dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella
gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà
vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La
visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le
grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di
essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra
in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento,
purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò
per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente
dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di
importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese,
nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V.
Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il
problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o
minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal
Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o
meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno
scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione
integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un
largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi
a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa,
è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi
secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è
determinato dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma
il Cuoco supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere
assai ampio. Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo
storico, il trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come
due epoche ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si
chiama in Europa tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile.
L'equilibrio politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di
tutte le paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo
e coll' altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le
quali, a calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la
guerra dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità
tale che sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e
faccia nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a
Westfalia detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla
pace di (1 ) Giorn. ital., Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi
in precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza
spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il
posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie
della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la
posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della
sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali,
l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma
non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle
successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le
donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli
italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un
dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad
arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le
persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le
piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui
vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata
affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi
un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo
alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era
commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che
la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la
storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per
la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la
Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre,
nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per
loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si
perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per
conservar ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida
decadenza spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia,
libero ma alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore
politico della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle
colonie ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un
popolo grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o
semibarbare, tribù selvagge. La politica francese nella lotta per il
predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia
divenne potente, mostrando di proteggere gli italiani, proteggendo veramente
l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero: così detta le condizioni a Munster;
sostiene il Portogallo, si allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e
nelle colonie, la rivale. I francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non
si lasciano accecare dalle ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non
giunge mai ad aspirare al dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle
storie un principe più di lui moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per
sistema quasi eterno di susci tare sempre un'altra potenza contro la sua
rivale. Ho detto che fece risorgere il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche
del gran Gustavo, e chiamò le forze svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le
vittorie di Eugenio e la pace di Utrecht, la monarchia austriaca di Germania
era divenuta infinitamente più potente di prima. La Svezia non bastava più a
contenerla. La Prussia, con popolazione più numerosa, con sito più opportuno,
era più atta al bisogno; e la Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la
condotta colla quale la Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della
saviezza, della giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui
all'Italia. La Francia ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la
Spagna e l'Au stria, ma non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non
completo trionfo. « Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la
cui insufficienza si fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende
il posto della Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad
oggi, pensa il Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura
non può mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra
è l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua
superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri
non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque
altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb
bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di
successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove
gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra
tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza
dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me
sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi
prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella
guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che
Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della
magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più
felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa, nella
guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi: così
nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di oggi. E
dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va perdendo i
frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e di libertà
! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama « naturale
irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de' popoli, «
o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è giunta ad
un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in terna sua
amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo attesta un
uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli della
Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima 175 à
riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino al
secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e ferocia,
erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù; perchè,
dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi, e senza
i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo cangiarono
massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia e la
Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito della
tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti. Nell'ordine
eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i popoli hanno
la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi ruina. I
francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non quelli che
la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava di riforma
ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel disordine
dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono
incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro
che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole
soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello
che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a
nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di
Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro
terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete
neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime
chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista,
in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola
ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di
paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della
cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ),
p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti
intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa
visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit
tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per
spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia
non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così.
Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola
non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio
« per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non
toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una
potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola
parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè
sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla
Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica
che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella
Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io
potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che
l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la
nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive
nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di
morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha
liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese
e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati,
dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli
avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria;
ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p.
178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera
del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di
prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene
dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le
sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non
molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono
stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria
a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi,
che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è
afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de
Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non
c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento
per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio
sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia,
possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al
grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a
chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il
Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una
questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente
nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della
sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i
creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con
maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato
da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una
realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità
ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia
pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione
civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente
un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento
s’è manifestato come un movimento altamente spirituale da un lato, come un
problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il
lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il
pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa
prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria;
l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise
l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò,
e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il
Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può
condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità
italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che
egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli
ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte
al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia,
signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di
Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi
al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa
garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo
parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad
esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci
nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima
debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia
dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup
parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il
suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di
riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del
loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal
conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in
seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte:
sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori
amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali
che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni,
volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia
vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa
facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente
gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta
dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua
gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a
Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa
in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche
resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia
rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile
quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. «
Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un
governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor
militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea
concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto
impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la
debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù
dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella
vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene »
(1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda
obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta
uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle
ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non
trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di
Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il
trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne'
tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di
porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della
Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si
passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana.
L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione
s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi
possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non
costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in
poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed
antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo
fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale
ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel
Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte
contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica
non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio,
Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe
Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti
questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo
aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni
alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve
avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione
umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1
) V. Cuoco, Saggio storico, GENTILE, Studi vichiani, p. 391. 181 etico, sintesi
di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue funzioni, se non
nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà generale; esso non
può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno degli elementi che
costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base della sua vita. La
funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come
so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione, anche se lo Stato non
volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel quadro civile e pubblico,
cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè vuole
prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato agnostico di fatto
deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera nel terreno vivo
della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole. Che cosa è per il
Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato inedito e
pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci tato
volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una delimitazione
tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi tempi » egli scrive
« si è domandato se si dovesse o no separare la religione dalla morale, e si è
risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po tesse, e mille han
risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi nessuno vi è
riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i quali hanno
tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una profonda
analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla dignità
dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste cose
meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci
vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che,
restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire:
questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 )
G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653.
182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della
divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia
potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti
che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella
di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In
sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o
almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad
una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben
nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico,
capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una
volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a
mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico,
al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la
vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla
ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema
co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci
dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità
si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di
cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea
di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non
possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare
come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento
eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno
avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della
giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE,
Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo
loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non
comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è
potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità
per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di
cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo
possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè
stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re
ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche
cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco.
L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel
concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il
popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi
parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle
origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione
tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La
distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci
offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per
lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la
base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale,
d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non
trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore
deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p.
130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento,
come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede
possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che
pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La
filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la
religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol
disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale
uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non
può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo
elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo
edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in
un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello
che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto
derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro
le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato
che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come
mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito
dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in
materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il
problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito
educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione
interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo
convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non
può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al
popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli,
eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione.
Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli
non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica
dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di
rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non
informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione
areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come
problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185
prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo
Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al
popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui
familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi
concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo
Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra
realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con
gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le
aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la
guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso
non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse
compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo
ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e
segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè
clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che
lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara
venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa
cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due
mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La
nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare
d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio
pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla
società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa
guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da
me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1
). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr.
Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è
confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili,
edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita
esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben
distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ).
Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può
notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in
ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile
incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di
trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il
savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra
mente è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa
massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla,
non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie,
che ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca
natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre
altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello
di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i
filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del
volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non può
mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al mistero
della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile spiegazione, una
maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di vedere e di sentire
anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile della fantasia. Solo
la religione può rendere vicina agli uomini la sublime norma della morale: la
religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a renderla viva nella
coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 ) G. GENTILE, Studi
vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187 Non posso negare
che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La verità è che il Cuoco
non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può darci un'esplica zione
adeguata. La questione per lui è tutta politica e pratica, e, se s'ingolfa in
discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più agguerrito sul terreno
pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa contamina zione di morale
civile e di religione, di politica e di reli gione, vengano a scapitarne sia lo
Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra, si dice, in una sfera non
sua, la religione viene ad essere subordinata ad un fine mon dano. Non è così,
ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta delimitazione di fini, tra
Stato e religione, in quanto il primo persegue un fine politico e gli trova la
base sua naturale nello spirito e nella natura umana, mentre la seconda dal
fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi limitandosi ad un'opera meramente
interiore. Sul terreno politico non v'è possibilità di conflitti, ammesso che
la religione si volga all'eterno ed obblii il mondano. Sul terreno spirituale
v'è identità d'oggetto, il miglioramento interiore del po polo, cooperazione e
non antitesi. In ogni caso v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire,
pur essendo tollerante, la religione, perchè persegua i suoi fini super
terreni; la religione deve aiutare lo Stato, perchè questo possa in terra
fruire materialmente d'ogni miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente
in ispirito reli gioso non può non essere un buon padre di famiglia, un buon
cittadino. Da quanto abbiam detto è evidente come il Cuoco non cada affatto
nell'errore di molti, proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola
religione, ed è intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue
un fine politico ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza
quindi anche, col vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della
religione dominante la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come
li darebbe ad un qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo
e civile, senza che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti,
che possono pur essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine
statale. Lo Stato agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia
necessario un controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche,
controllo che non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di
fesa pubblica e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione
come fa coltà dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di
conflitti tra Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un
caso abnorme. Ma il problema politico particolare e il caso d'un conflitto
nella sfera pratica può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione,
ma la Chiesa, l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo
Stato con uguali caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a
volta usur pano le facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date
le premesse che abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo
dello Stato e la subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione
ecclesiastica alla legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello
Stato: l'attività ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune.
Il Cuoco differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso
vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello
spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato
come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione
come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori
della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non
possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione
di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la
questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che
la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo
Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e
d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato
agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la
religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme
giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce
in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano
svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII
si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al
Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse
all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista
degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805;
Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del
Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale
(maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il
Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo
spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza
dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio
VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra
Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato
del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi
indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie
chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè
le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6
febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul
Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e
Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine
da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti
Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano
vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La
Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima
esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità
sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «....
Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804,
e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità
colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto
eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno
data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la
via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin
qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben
noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico.
Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e
spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non
cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato
più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono
quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio
pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea
scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non
è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli
eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli
ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un
religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo.
Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto
col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro
repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno
la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del
l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno
di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza,
riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa
terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi,
l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il
benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il
Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel
1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede
sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della
storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente
storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più !
Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di
giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa
terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a
Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine
nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia
rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde
nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio
deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore
dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice
Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano
egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la
di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende
della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra
i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1
) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della
repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni,
per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto
elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con
tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò scrive San Bernardo ad Eugenio papa, suo
discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma da Costantino, io
ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un
diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio
altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze
storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza,
abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il
potere temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol
menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric
nirlo; a che dunque serve il potere temporale? Il po tere temporale ci appare
come il resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e
dell'autorità non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella
virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa
della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le
parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro,
consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai diritti antichi significa
potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza
antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento: un
elemento dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica,
che non intende penetrare in una sfera che non è sua; un elemento politico,
determi nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il
conflitto con il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di
minore resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una (1
) Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e che
occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa
abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della
religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in
terra il compito antico. Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde,
ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza
spirituale della religione sono eterne, cioè presenti alla nostra coscienza
umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio
temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco
lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari,
discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno
civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi,
le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il molisano, quella specie
di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la
distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a
concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato ». I
vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni,
divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani.
L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione. La Chiesa
insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa
predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù
contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza
grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi
che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli
ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo
superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro
autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere
indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a
misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini pubblici ritornavano verso la
loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola infelicità de' tempi avea
consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean segnarsi di nuovo quei confini
entro de' quali la sovranità temporale fosse più energica e meglio ordinata, e
l'autorità religiosa più augusta e più sicura. Così dal caos emerse l'ordine, e
fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ». Questo or dine il Cuoco vede
avverato in un giurisdizionalismo con fessionista, che tende a volte ad un vero
e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi di questo sistema non
possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi su, Vincenzo Cuoco,
se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di raccogliere le fila di
ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un fermo sostenitore dei
diritti dello Stato, concepito come sostanza etica, sostenitore che non ammette
alcuna menomazione di quei caratteri salienti che abbiamo veduto. Egli si pre
senta come un vero e proprio giurisdizionista, rappre sentante di quel
giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme del leopoldinismo, del
giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio
nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi cano. Egli è
giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista,
sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista
che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec
clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa
dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come
pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche,
esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al
suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi
centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu
sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e
scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma soltanto a
risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co
teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195 mente
sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti
sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista
del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e
negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni
religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una
supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo
napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più
all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco
segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri
conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli
fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi
scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il
Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito
profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e
la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il
Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli
scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il
confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che
nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da
noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla
sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle
varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do
veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che
voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo
edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1
) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico
vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385.
Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp.
297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama
la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non
vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si
distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico
sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità,
ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità
e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il
concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso
Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e
nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella
prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di
Vincenzo Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei
giacobini franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di
lettere dirette a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel
Saggio storico, che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni
che passarono alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria
d'eroismi non emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il
molisano si è fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu
ridica e politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema
dei rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa
nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore,
che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni
forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle
nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo
del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi
non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento
nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli immediati
' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito nazionale. È
que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente Benedetto
Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice che chi
cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità rifarsi ai
fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica disperde per la
penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto dottrinaria, astratta,
più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò non pertanto ha una
fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria. È il polline vivo,
che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e poi s'esprimerà in
nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi e degli scritti, ma
uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro posto: ricorderò solo
due scritti molto importanti per due ragioni, in primo luogo perchè in essi
l'indagine storica può rinvenire le prime idee sull'indipendenza e sull'unità
della nazione italiana; in secondo luogo perchè dal con fronto, che di essi si
farà con le pagine cuochiane, sca turirà la diversa posizione spirituale, che
il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex ufficiale di Ferdinando IV, dal
1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per ragioni politiche, poi membro
del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno 1799, essendo incaricato d’una
missione a Parigi, proprio mentre le sorti repubblicane volgevano al peggio (il
17 giugno Ruffo accorda la resa alla città di Napoli e la Partenopea è finita )
scrive un Indirizzo dei Patriotti Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi,
in cui, dopo avere espresso numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed
amici, dopo avere descritto la misera CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII.
199 condizione dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie
regioni conclude con profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca,
osate alfine di soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la
sua indi pendenza e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa
energia dei figli del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari
Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella
disperazione di tutti i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta
più ormai verun'altra alternativa, che o di cercare per via d'una morte
volontaria un asilo nella tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una
volontà ferma e determinata, il felice avvenire, che era stato promesso alla
loro Patria. Legislatori e Direttori del popolo fran cese, parlate, e la
Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio,
riunito in Fi renze nel centro dell'Italia, saranno invito a tutti gli abitanti
di queste belle contrade; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo
Italico sventolerà nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi
stranieri sa ranno sventati ancor questa volta; e il secolo decimonono vedrà
folgorare questi due astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno
all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti
dei germani e agli abitanti delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima
loro libertà (1 ). Il documento è importantissimo, e la sua importanza appare
ancor maggiore, se si pensa che è esso stato ver gato, quando le sorti non solo
di Napoli e d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi
disperavano. Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco
in uno scritto, enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio:
il Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte
degli (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I,
p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi
francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di
allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche
il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà che non
era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela filosoficamente,
troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli
che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza,
quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i
presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi
nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri
popoli, forma una indissolubile unità geografica: è questo il primo elemento
della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta di
passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di
fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa religione:
tutto li addimostra per membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e
complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi,
che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una
ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe,
uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento,
che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ).
Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità
e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e
deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà
vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la
tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a
piaghe sì profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al
cittadino Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed.,
Bari, 1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello
dell'an tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è
l'unione. Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di
arricchirsi su le rovine del continente; perchè si oppongano argini
all'ambizione del l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta
della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia
immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran
repubblica; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si
disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo
governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani,
avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità; avendo governo, diver
ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutti
beni che ne derivano; ecc. » (1 ). La ragione prima dell'unità italiana così è
un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio europeo, quello d'una
nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro belligero vecchio
continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste le sante origini
di quel concetto di nazionalità (2 ), che troverà poi in Giuseppe Mazzini il
suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che con tutti i patrioti
di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli stessi senti menti. Ma
questi da lui come vengono trasformati, in lui quanta nuova luce acquistano !
Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi glia, Chambery, Parigi,
dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano, ove presto pubblica il
Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi indugierò neppur brevemente sul
l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina (poi italica ) e nel Regno
italico, attività vasta e complessa di (1). F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 )
Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione napoletana del CROCE, ove
vi è un largo studio sull'argomento, pp. 329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p.
3 ]. 202 studioso, di cui sono documento le Osservazioni sul Dipar timento
dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L. Lizzoli, sebbene siano, come è stato
indiscutibilmente dimo strato (1), del nostro scrittore, e i frammenti su la
Sta tistica della Repubblica italiana, opera scientifica di vasto respiro (2 ),
che dimostrano quanto alto fosse il bisogno del nostro autore d'esaurire ogni
forma di realtà umana, poichè solo sovra una conoscenza adeguata di essa si può
fondare un coerente edificio politico e legislativo. Sono punti questi oramai
acquisiti alla storia e su essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro
punto, la fonda zione del Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella
formazione della nostra coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della
gloria napoleonica, il problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che
comprende i primi decenni del secolo XIX, Milano è il centro culturale più
cospicuo d'Italia. Napoli, dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa,
dopo il fiorire della sua Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri,
Galiani, Pagano, Cirillo, caduta la breve repubblica del 1799, colla restau
razione del Ruffo, aveva visto disperso tutto quel te soro di sapienza che
cinquant'anni di attività scientifica aveano accumulato. Torino era un centro
troppo ristretto, ancor provinciale e particolaristico, sebbene già comin
ciasse a dar segno di nuova e più ampia vita, ma non poteva offrire
assolutamente nulla, dato che con le vit torie del Bonaparte aveva perduto
l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di Roma inutile parlare. Milano
dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il centro più attivamente colto
d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del popolo, grande la tradizione
recente. « Ivi si era formata prima la scuola del giansenismo, e poi la scuola
de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società patriot tica ”, divenuta poi
Società popolare, aveva lavorato alla diffusione delle idee nuove ». Come
rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G. Cogo, op. cit., pp.
13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1 ) ivi s'era
espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi giurisdizionalisti del
Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia romana, per sonificata
nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo portato ad immediati
mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili per il miglioramento
del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor quando il turbine
rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo
e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di restare. A Milano
aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove dottrine, che,
reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo inquisitorio,
preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche; il Verri
aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva agitato
nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove
posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e
l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo
Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi
hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia, poeti
e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È il
periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri
nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da
meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle
questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà
insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa
società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua
natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici,
Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione
meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della
Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121,
204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su
citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli
pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806,
fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due
valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il
nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza,
sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che
cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo
rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in
Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È
qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa
da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un
processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità
italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi
e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un
diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono
contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la
nostra unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al
trettanti problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi
ritorniamo col pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo
in essi uno sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo
concetto di nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per
sfumare, proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e
fissato. Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 )
Cfr. A. BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori,
Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc.
VII); vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit.,
pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura.
Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente
il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra
quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della
nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale
costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono;
altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una
intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici,
etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro
concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani
sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma
come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che
l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la
conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore
ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un
reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente
quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste
delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre
patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare,
sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola
religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi.
Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i
più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità
statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non
da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da
farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione,
quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia
o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non
esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed
esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na
zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il
Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale
al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci
apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra
la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè
non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur
fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono
dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione
comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia
ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti,
ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li
guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li
consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li
compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più
allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal
Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da
una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere
e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i
nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia
mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle
grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi
costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono
e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana
con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri,
bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere
degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come
speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente,
sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior
consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti
altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili
ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è
perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de
termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi,
che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta
come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è
co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è
materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto.
Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è,
diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia
spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo
momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di
un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della
Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è
formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo
spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a
pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la
loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali
sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia
» (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata:
la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano
è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit.,
nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e
rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N.
CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924,
v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come
mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale.
Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà
realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima
è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de'
giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ).
Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre
pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare,
coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come
universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con
cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che
noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo
cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo
fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro
pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un
superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta
tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in
quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose,
incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa
null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui
tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può
mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà
sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo
sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice
Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la
tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori
degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera
erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I,
p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di
fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior
consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà
di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la
tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima
di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi
nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella
pazienza, per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell'
affezione al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso
non operi bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne'
pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che
abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti.
Quando si analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli
errori sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e
l'altra non dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di
sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata
nella forma di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato
unitario, che noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un
corrispondente dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di
nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima
affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e
dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val
quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo
Stato non è, ma diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando
giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo
poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni
nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico, la coscienza
nazionale, si tratta di (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14 fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito
pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità,
dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema
dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può
considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili,
presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano
d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in
rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se
tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna
difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo
prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima
i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente
disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato
moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la
volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la
volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale:
anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come
universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve
essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo
vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il
rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di
quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in
termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze
inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è
anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di
Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica
italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un
compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione
italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è
invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare
un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece
s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella
coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è
che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare
contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano
alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta
e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o
stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi
problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente
l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita
civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La
rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto;
poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi
politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare
ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi,
non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed
è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del
nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non
possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere
il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della
storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita.
Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa
pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le
istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè
stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con
le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà
intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica
o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due
termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo
un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani,
il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove
distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno
il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto
alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza;
ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso
elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di
lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato
libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra
nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in
Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda
gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una
nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere
spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai
rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol
essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua
grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione,
a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce:
quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire.
Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi,
disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza
pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO,
op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed
esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende
superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre.
Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non
periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini
futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni
opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1
). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita
giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di
concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto
caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia
che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che
è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè
lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e
inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex
novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è
diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e
storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un
certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità
propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto
il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni
dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio,
da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi
vibrino di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa
superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò
che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia
pubblica. (1 ) Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale, divenuto
rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso
si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di questa
nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non
l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il
Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni:
sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un
minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o
storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di
Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso
osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa,
abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1
). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco.
Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità », e, come
il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove
sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po'
di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre
il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto
quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente
affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo,
l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa
importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che
ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta
milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero
letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2
) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD,
op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li
trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco.
Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si
propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al
pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come
talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma
quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che
abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero,
colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre
», onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei
nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far
comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di
poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio
1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli
pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta
cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso
suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo
lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità
che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le
antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria
succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di
Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N.
RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della
letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella
ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a
ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il
Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza
» (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione
solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a
illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo
derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo
censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di
Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del
risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli
abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e
negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ».
L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della
stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti
i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a
Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che
è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un
felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805,
27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni
del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2
) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò
chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche,
con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo.
Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi
a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un
piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti
potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore
dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica
mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo
politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina
Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle
spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che
più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital.,
1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato.
Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le
scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il
resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e
tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il
fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare
che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma
subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti
questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per
l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di
Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto,
di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino.
E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente
l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un
parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). «
Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli,
perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della
coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici
si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento
retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così
il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura
esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela
rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital.,
1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44:
Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il
risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese,
1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit.,
p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità
tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica
più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità
nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di
attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul
tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro
convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e
sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1
). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre
un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei
tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il
Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si
può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene
anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che
il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle
che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il
maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo
amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di
Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto
l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico.
La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. «
Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno
di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51.
Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico,
laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza
passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho
scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini
ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia
velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni
giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me
dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca
Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi
tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere
nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non
avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle
negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete
permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli
permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo
foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle
genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio
la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta
comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un
altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p.
19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v.
I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali
leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione
colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza
averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica
) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto
rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io
son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma
vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale
era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità
ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ».
220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato
di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi,
invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù.
Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso
della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha
detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe
dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia
della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle
nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè
quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra
tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini
ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel
leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce
ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da
quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si
arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime
politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico
e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide
con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto
cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano,
spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la
grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente
concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico
positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le
lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è
stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che
questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine
giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il
Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche,
ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente
illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni
fenomeno politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove
trova le sue radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo
tempo; Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una
ragione, per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere
dinanzi a loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro
esperienza no stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo
ma si saldi con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità
umana di Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori.
Ben rivela a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa
esercita nel giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina.
Molte difese sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi
all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una
discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v.
II, p. 50). « Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a
cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù
di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o
traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non
intorbidato da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo
ideale. E il suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com
prende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo
può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad
alzare la voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la
sua am mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo.
La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza
scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II,
p. 69 ). 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua
metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli
italiani che hanno scoperto India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del
sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140);
si tratta d'arte tipografica: il primato italico con i vari Bo doni è
indiscusso (1805, n. 55): e così in materia di belle arti, di poesia, di teatro
(1 ). Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei suoi
connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per
provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è
a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non
solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da
poco sono mancati ai vivi. E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e
le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un
giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu
» scrive « sublime filosofo, profondo letterato; il primo storico della sua
patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più
di filosofia, di cri tica, di gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o
almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi
interamente la vita politica della Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama
alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella
dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve
l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che
taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione »
(2). Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si
riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed
eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 235. (2) Giorn: ital.,
1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia
politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani.
Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di
richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez. « Chi era questo
Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto
farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non
avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia
o per orgoglio; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo
corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si
contiene la virtù » (1 ). In questa difesa del nome italico il molisano muove
contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono
dispregiatori delle glorie nostre. Recen sendo infatti nel giornale un opuscolo
di Vincenzo Monti, Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia
contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato menomare
glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo loda assai di ciò. « Noi non entriamo in
questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri,
se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene dànno gli
italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse,
non sanus juvet Ore stes. Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573:
Economisti italiani. (2) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il
cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del
buon nome italico s’ar resta qui: allorquando « un Lalande dice con pueril
sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»;
allorquando il tragico -comico, drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue
tratta tutti gl'italiani da ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn.
ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è
là, e s'appa lesa bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di
Luigi Bossi, in cui questi vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà
dal sig. Akerblad », egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la
difesa delle nostre intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso
il Giornale italiano appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab
biamo un maggior numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non
li conosciamo neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia
vate sacro » (1 ). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non
la coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si
disconoscono. « Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo
ingegno, non mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto
si ritrova talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue
osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i
confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma
l'Italia rimane picciola » (2 ). E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi:
scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità
francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo
vilipese e trascurate. E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a
problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la
pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata
esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale
poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza (3 ); come, ancora,
certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po
steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805,
22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito della « Lettre » di L. Bossi allo
SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p.
89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. (1
) Giorn. ital., 1804, 28 marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia
politica. (2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di
campagna, ecc. (3) Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo
delle pecore spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il
Dandolo vedi G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli
stessi stranieri (1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche
intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano scoperte, ri
trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno di
Giambattista Vico (2 ). Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con cui
il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine: la formazione della coscienza
nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci con gli
stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 ) Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4
novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90: Giudizio sopra tre
istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2
) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese della virtù che hauna
sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi intorno al proprio asse, e
d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora i francesi disputano agli
in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che questo fenomeno trovasi
descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder
altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è italiano. Nella Vita che Vico ha
scritto di sè stesso (e la scriveva circa il 1730, quasi un secolo prima di
Busch e del l'inglese ), quest'uomo parla di una nuova teoria che egli avea
imaginata per ispiegar il fenomeno della calamita, e da questa sua nuovateoria
trae la conseguenza che la calamita non solo si dirige al polo, ma anche al
zenit, onde vien poi la rotazione intorno al proprio asse, l' imitazione,
diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico conchiude dicendo che questa nuova
proprietà si sarebbe osservata tosto che si fossero fatte dell'esperienze, in
modo che la calamita avesse potuto svilupparla. Non parliamo della ragione che
mosse Vico a far questa congettura: essa era figlia di una ipotesi forse falsa.
E qual altra ragione può aver altro fondamento che un'ipotesi, o qual altra
ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico proponeva un'esperienza: dovea farsi e
non si fece. Ma già da due secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè
questi li producono il suolo ed il cielo: però l'italiani più non navigavano,
più non commerciavano; i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan
solo lo studio delle leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza,
quello della teologia, che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto,
unico mezzo che un uomo d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un
grande... ». (Giorn. it., 1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi
V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 244. 15 appariranno sempre meno grandi di
quello che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che
noi stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »;
« non importa: appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno
vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1
). Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è
cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con
crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno
rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra, ma i
piccoli nipoti, i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non
che curarla, l'hanno abbando nata (2 ): gli italiani hanno creato i più
splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi
non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta
seco la decadenza della musica (3 ): gli italiani un dì maestri nella difficile
arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da noi hanno
appreso (4 ). Questa posizione critica, che tanto distingue l'italiani smo del
Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo
dal molisano adottato per creare un sentimento unitario: il ragionar di
frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne
abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode; cose le quali,
sebbene opposte, pure per la natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra
gli estremi, non sono inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre
invece ragionare obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5.
(2 ) Giorn. ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato
in Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle
lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p.
493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam
pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92,
col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). 227 accenderci troppo, con scienza e
ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte
motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi
princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei
più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv.
An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che
questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione
insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica
». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan
da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco
come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle
cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti
di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta
note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia
Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali
con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda,
in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di
natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui
il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e
geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il
problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a
parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica
istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2)
Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc. L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica
e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale
italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”,
nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera
ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone.
Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per
la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad
essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di
quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla
pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso:
creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa
le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia”
nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una
lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani,
ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della
milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è
un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo
riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore
valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di
questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo
che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in
Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde
appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio culturale
nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo scolaro visitano
le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio,
Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o indirettamente i più
fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V.
Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La lettera del Cuoco è
ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI, Una lettera di
V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze
Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari]
pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte, disputa di filosofia,
si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un bel nodo d'amore. La
trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un contenuto didascalico
svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè
il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo originale. Anzi ha i
suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel “Voyage du jeune
Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in Francia e fuori, che
ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi, come
nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un semplice mezzo, con un
altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello vero e proprio di
descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il viaggio. Lo scopo e l'espressione
di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII
e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo-epistolario,
perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di
Cuoco anzi è nello stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere
spedite visitando l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come
forma letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto.
E cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi
secondo il capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera,
più pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun
limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi
piace; immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da'
costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi,
tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere,
a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui,
visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v '
impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone
un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine
che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate
con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto
fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente,
manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo
egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci
mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al
molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno,
buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo
di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e
per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui
immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà
un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2
). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina
tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il
romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una
deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione
scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico,
perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa,
ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è
lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima
accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una
scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non
nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS,
Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital.: Varietà (vedi p. 163
del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è
nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve
unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici.
E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li
vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in
atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che
non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro
italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi
antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e
fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero
avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che
per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un
dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un
fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il
rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he
furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo
spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone
dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini
della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere
professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che,
nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne
furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà
ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia
intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e
del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei
riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per
considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende
rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e
che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da
esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia”
di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa
ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non
esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco,
scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e
non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno,
per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla
religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera
dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera
del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L.
SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così,
passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la
sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia,
innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è
quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa
di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia
pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da
ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande
nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È
questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di
tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico,
perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone
di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano
appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo
preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non
filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal
l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità
con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del
reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a
trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare
creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco
non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli
sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè
retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per
cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico,
senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e
ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno
ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che
tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed
ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p.
375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto;
e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del
tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si
placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di
tinte forti calde sfumanti; poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine,
che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in
lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma
una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte
del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve
degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel
poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso
della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla
sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più
ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del
cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della
sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo
soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella
languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più
grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo
io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li
abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava,
quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno?
— mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento,
che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta
la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in
quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento
della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu
non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti....
Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma
nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora....
Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in
quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai
in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli
occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia
che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda
ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de'
popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare
la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre
un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo.
Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico
poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana
trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si
pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a
noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non
parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio
non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a
noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo
questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti
già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano,
ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le
ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco,
di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga,
spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non
è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi
sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che
per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della
quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero.
L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini
greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per
cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni
filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a
Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne'
tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi
e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però
facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso
dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro
imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai
antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa,
l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle
innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim.
Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una
sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella
natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è
alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi
fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così
nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e
modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone,
riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un
tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco.
Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo
d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco;
l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di
questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de'
vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli
etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e
favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci
estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte
le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla
Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era
troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario,
onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato
a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha
ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello
della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”.
Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio,
nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi
mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la
corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e
poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte
delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose.
Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero
ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie
città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende
ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili.
Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è
se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non
vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran
giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra
sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della
prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano.
Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di
città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione
universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza
è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si
sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al
piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a
Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani
abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state
forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e
degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in
diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici,
che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani
in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si
conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato
italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi
nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco,
fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo
di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle
immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno
opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro
filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in
Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani,
potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte
ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla
quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed
hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre
che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia
si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici
mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è
duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio
urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola
la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima
esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni
eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune
storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il
romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice
Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più
antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che
voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’
dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio
sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le
ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee
del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io!
Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e
valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre
quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane
una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione,
perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono
le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma
queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal
nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in
Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che
volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle,
tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche
olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate
dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il
siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia,
che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi,
Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta
ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi
nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo
fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani
ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche
finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la
volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma,
l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a
fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo
iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari
popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono
fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono
frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una
parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle
acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia
intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente
dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi,
antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali
materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare
un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità
che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata
la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di
alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma
questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e
dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola
gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza,
ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano
ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par
di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto
ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello. È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da
questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice
Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo
istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che
non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato
finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di
debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu
conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti
secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che
questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una
entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà
organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi
conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo
risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di
ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea
far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo
più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con
coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e
la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia
di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la
patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti
coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama
poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno
vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri.
Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra
voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è
sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia
stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un
mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto
confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra
l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema
unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già
sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta
non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia
chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma
l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio,
sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il
popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne:
spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i
vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che
devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente
per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma
quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua
natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le
infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera,
cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di
essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi
povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla
stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono
alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio
ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la
terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una
città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o
Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le
mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini.
La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura
la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini
dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto
ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che
è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia
al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e
l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa
sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i
primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non
perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che
disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i
maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son
quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto?
Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son
nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è
necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il
lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la
conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render
più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo
conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne
fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si
acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una
cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono
opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi
princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del
popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il
popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che
ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che
s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già
fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il
linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi
muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi,
debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare
inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono
immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci.
La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di
quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha
bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori,
i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro
Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a
poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una
diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il
popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il
vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa
essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più
verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità
ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno
utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio
storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore,
sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che
mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in
eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa
cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di
bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù
ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti
di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle
cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà,
e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo
delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta
natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male,
spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una,
perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della
materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il
costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque,
conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo
formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle
leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il
che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella
educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che
Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La
ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti
esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno
o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle
sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li
hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il
buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o,
conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno
sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo
il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto
miseramente il suo legno tra gli scogli. La legge però resterà sempre un astratto, se
gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La
legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che
veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle
cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità.
Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra
la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio,
s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città,
per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte
più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi.
Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche
parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello
che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a
tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi
sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle
opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per
negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il
pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e
bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui
pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e
di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad
un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le
considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante
lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi,
religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il
bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto
su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli
occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò
menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel
che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione,
lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano
autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi
la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione
e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè
mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno;
nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria,
potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due
classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la
vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione
ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco,
coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non
può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua
indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti
si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e
plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che
nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione
dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e
pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova,
spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi,
perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia
vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza
matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali
i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres
non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri
che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il
prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto
divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto
rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni
ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più,
breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli
Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in
una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano
mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e
la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il
Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché
mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento
politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina
politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in
Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna
tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non
solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi
non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le
passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte
le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro:
e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città?
Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e
quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè
dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di
ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto,
fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città
sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla
plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che
le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o
languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo
prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più
certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla !
Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È
segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà
dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e
che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con
modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da
queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita
è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la
molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di
funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo
perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u
topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi
saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi
industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I
partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei.
Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più
avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si
vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà
l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose.
Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre
poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno
di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più
numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali,
nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare....
Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I
cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti
nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà
vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò
scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre
osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento
non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in
senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e
diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello
stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai
migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini,
i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi.
Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i
massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città,
avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già
esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò
armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione
d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto,
ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni
ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della
democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine,
trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di
viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che
ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai
quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col
quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei
grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro
numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle
altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto
attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso
quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà
possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle
varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un
contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia
è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma,
mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno,
poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria;
nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi
cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge
unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar
gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di
difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui,
che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non
si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che
può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve
rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in
attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome
d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione
d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro
viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte
è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo
italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in
bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le
riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è
in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita,
le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si
conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del
commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma
reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia
d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi;
e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche...,
così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più
lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di
accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e
principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a
morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ».
« Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e
attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti
e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e
della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e
de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel
linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de
gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare,
amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi
siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola? Da ciò scaturisce la necessità della conquista
come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume
questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza
che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della
storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi:
questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle
parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia,
intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la
fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez
zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo
diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto
a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come
entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà
un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto
il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio,
rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del
genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate
ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le
virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno
arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti,
per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli
dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e
dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande
sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma
che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come
quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel
presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa
e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle
napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra
vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista
prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei
commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte
grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra
civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente
poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il
Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come
ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia,
combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico
italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a
noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i
popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro,
la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del
vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi
scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento:
ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte
considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia,
a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita
moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua
deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto
legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e
civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia
alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo
parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un
francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo
frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani,
p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p.
246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice
che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli
Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può
esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se
non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle
sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un
orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non
arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan
dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il
suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e
d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato
al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo
ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana,
pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo,
questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse
da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro
sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico,
insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure
una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare.
E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare,
perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato
realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto
diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del
futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel
pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione
nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa
educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella
scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa
la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il
Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del
periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria
non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia
intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni (1 ). Con
il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in
patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del
governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita
del molisano, che, attraverso una fiera ma LABANCA, op. cit., p. 409; N.
RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G. GEN
TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13
dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità
pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera
dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di
decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che
di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti
dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico speciale....
agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc casione, poichè
come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee profondamente maturate
dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2 ) Oltre il Rapporto il
Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua attività sono documento
varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del
Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una prima, senza data e senza
frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il
luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si
fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e quindi non pubblica; una
seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta
iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote del gran molisano, e
naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che porta il titolo:
Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica istruzione seguito da un
Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine,
che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione delle leggi, de' decreti e
di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di
Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni,
tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto
e del Progetto, corredata di documenti e note bio -bibliografiche illustrate,
che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa gine 49-276 ). I criteri
critici di collazione delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile, non
furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al
Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II, pp. 3-161 ), correggendo ta
lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore.
Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce, allorquando questo
lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi rivedute
definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di
scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali del
tempo suo. Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto
precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza noti,
vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati con
tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema
po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto
questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol
attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol
rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo
di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La
sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola
istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il
termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui
spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili,
alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per
comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del
popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola?
Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita,
era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla
sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i
nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi
città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei
governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo
queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi
vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op.
cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel
campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo
astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai
bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il
postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova
col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il
popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in
quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel
suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e
lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà,
della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può
assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce
all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un
processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il
popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona
il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della
forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas
siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre
grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli
Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi
senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che
non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler
condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine
interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’
cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi
di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla
ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non
hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo
maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria
alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e
specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova
educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria
nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro
buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno
mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che
obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è
facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma
la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non
vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir
tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi
stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi
che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma
aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur
facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo
che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai
quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per
mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un
poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non
si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da
tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno dell'educa
zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di precetti,
vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee,
soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi.
Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn. ital., 1804;
n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304:
Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in
Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che chiamasi popolo e
diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per queste sue
considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a
Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze
del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui istruzione,
riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1 ). A chi noi
daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli del loro
posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere
etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione
debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a
formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva,
somma di volontà individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo
bisogno nello Stato » osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre
più le pro (1) Del resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato
nel Rousseau hanno un significato ben più profondo di quanto generalmente non
si creda. Vedi a questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del
contratto sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p. 32. « È.... massima (del Rous
seau ) che nella realtà si distingua ciò che è fattizio, ossia sopravvenuto per
arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza
medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è
dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello
dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico;
rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza ». Ma questa concezione
della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come
nota il GENTILE (Studi vichiani, p. 419), con la concezione storica dello
spirito. « Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la
schietta pedagogia del Vico, che aveva più salda mente fondata (benchè con
fortuna storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero
del suo natu ralismo: l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc
corre ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso
dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione
della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella
coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti
della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo
Stato democratico, è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla
coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a
questa è per lo Stato un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso. Il
compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende:
l'ecclesiastico, il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e
al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in
tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche
od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli,
e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le
riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello
Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di
ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il
punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione
religiosa, fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer
sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il
Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è
vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo,
perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408.
Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato
qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore.
« Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO) della « nature du corps politique
», non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato si presenta nei
fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza suprema, cui
esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date nell'essenza
stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta sanzione ». E la
libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso spirituale e non
empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è qualcosa di
inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere inscindibilmente uni
taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e scienze morali,
debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli barbari potranno dire
« non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1 ); i secoli di pro
gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà mirano ad unire le
disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella scienza a noi
precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione dello spirito, una
nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale. Perciò, dice il
Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio significato; ed
in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria di se guire gli
esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi istruttori di tutta
l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla pubblica istruzione
» (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere pubblica. L'Italia è sempre
stata una terra feracissima di ingegni, ricca di uomini grandi, ma costoro,
maturatisi in am bienti apatici e morti alla cultura, hanno molto contri buito
alla propria gloria, poco alla gloria dello Stato e al benessere della
collettività. Poichè « la nazione non era istruita, essi fecero molto per la
gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria; tra essi ed il popolo non
eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di comunica zione » (3 ).
Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi cittadini, onde le loro
forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e meglio ad un fine unico,.
il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia pubblica e statale si
gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in un paese come l'Italia
ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una storia nobilissima? No
certo: le scuole private sussistano pure gestite da chiunque, ma (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) Cuoco, Scritti vari, v. II, p. (3) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha l'alto controllo a che i maestri
siano degni e moralmente e culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia
comune a quella delle scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro
dottrine con trarie all'ordine pubblico e alla moralità media della società. Il
fatto però che l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi
cittadini non significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti.
Lo Stato non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel
Platone in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe
nemmeno il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre
gazione d’uomini, in città, in Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro
per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza
dagli stra nieri » (1 ). Accanto al savio è necessaria la coesistenza della
massa dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione
di funzioni, per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia
mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento
intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il
dannoso: l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle
scienze se non per la stessa via, per la quale vi si perviene in tutte le arti,
cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo; il che da un
popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare ai
mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza
strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il
Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò consegue che l'istruzione,
sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono
essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, (1 ) V. Cuoco,
Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 5. 269 così vi
debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà
perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che
diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria. La
prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di
diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale
agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud
diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il
gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana
nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che
l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che
impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o
gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne? È questo un tema caro al
Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare
figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma
di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi
nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto
compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il
Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la
condizione e la mente di una serva » (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare
dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare l'ordine della
natura e la sua essenza: educare le donne da donne, ed educarle secondo la
diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno: e « quando le donne
saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una
questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve essere
questa gratuita per tutti? No. L'istruzione inferiore o primaria, appunto
perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari,
v. II, p. 21. 270 caratteri della più vasta generalità, è offerta dallo Stato a
tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e superiore, siccome
risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì particolare, deve essere
pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare condizioni di favore a chi,
essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri degno per altezza d'ingegno
di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un giorno o l'altro con le
opere sue glo rificherà. Infine, in terzo luogo, l'istruzione deve essere uni
forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità dell'istru zione appare chiara:
in ogni suo grado, inferiore medio e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e
femminile, l'istruzione deve essere uniforme, svolta con gli stessi programmi,
con gli stessi metodi, con gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi
difetti insiti nell'abuso d'un simile sistema: le scienze possono anche
arrestarsi, poichè la discussione e il contrasto sono il vero e più efficace
stimolo al progresso: si può generalizzare un abito di servilità verso il
passato, che è quanto di più nocivo per la vita, che si sviluppa in un
irrefrenabile superamento dell'antico nel nuovo. Perciò questa uniformità non
si può intenderla in un senso assoluto, ma bensì relativo. Ognuno che insegna
deve insegnare, previa autorizzazione dello Stato, ed in segnare sulla base di
un programma -metodo anteceden temente presentato alle superiori autorità
pubbliche. I corsi impartiti da privati non avranno effetto accade mico, se non
in seguito ad un esame dinanzi ai docenti di Stato. Lo Stato inoltre esamina e
giudica i libri di testo che andranno per le mani dei giovani. Certo questo
sistema potrebbe portare con sè il più grave degli inconvenienti, lo
staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for mule, in programmi, in
metodi, cioè in quanto di più astratto si possa immaginare. Per eliminare tutto
ciò il Cuoco propone una direzione o ministero di tecnici, che aperto a tutti
gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua di controllo riconosca meriti e
punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di mira il progresso e lo sviluppo del
l'attività spirituale (1). Posti questi princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco
abbozza un suo vero e proprio progetto di riforma sco lastica,
particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza pedagogica, in cui
davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna. Noi non possiamo
seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di astrarre
dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con l'assunto
politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice che
questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira a
formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media
so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati
umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare
che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso
di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso
interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e
li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro
coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali
può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]:
altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo
una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed
atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio
afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già
l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di
aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e
che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti
vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più
pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in
sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la
dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con
naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati
dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con
l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im
porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è
possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella
coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di
Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra
tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si
preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione
non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per
cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato
non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga
fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini,
che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an
corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente
dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta
alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del
cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la
filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per
insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione
di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital.,
1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp.
303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere
carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle
scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se
non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici.
Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di
libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed
oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco,
par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive
che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener
ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri
egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i
punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia
bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro,
cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare,
ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel
carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio
risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e
poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica,
poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi
si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la
religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che
vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e
concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri
dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se
sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse
non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn.
ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA.
274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per
cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla
legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per
la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol
fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice »
(1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei
rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione
nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente
liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante
una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante
in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti
punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta »
nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica,
il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si
guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia
sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a
rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello
Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della
religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi
riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del
fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia
e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione
superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più
elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in
quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben
diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di
meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi
p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416.
275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore
a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo:
giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee
tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è
quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle,
saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto
realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in
quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la
nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto
tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di
coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio
macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu
per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei
cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri
di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al
contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un
metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito
inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire
l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di
cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma «
l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben
ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi
trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi
con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere,
perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. (1 ) V. Cuoco,
Scritti vari, v. II, p. 25. (2) Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se ora
l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere
filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l'
innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di
questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno
strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava
sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora,
osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè
è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la
filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La
forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a
noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma
dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle
idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del
Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello
o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito
e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta
qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non
nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e
fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il
meccanismo di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ).
La stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti
antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte
filosofica; perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. 56.. II, (2 ) Qui più
che mai si palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre
distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed
originario, che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra
con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di
vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili
ai fatti di tutte le na zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in
sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico,
risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo.
E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni
particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a
generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo
questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova.
Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così
fissato le norme per ogni filologia, ha stabilito leggi sicure, addimostrando
non le leggi che governano il linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che
governano il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme
giuridiche, per i riti. « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente
filosofica; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad
intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo
imperfettissimamente » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. (2 ) V.
Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato
la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e
pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero
del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del
nostro scrittore nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il
secolo XVIII e il XIX è il più importante rappresentante di quel che un critico
francese, Paul Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII
s'impersona nel pen siero storicista, e perciò antirazionalista, di
Giambattista Vico, reagente contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio,
nonchè contro il materialismo di altri minori, in nome di supreme esigenze
dello spirito; nel secolo XIX si impersona nel Cuoco, che animato dall'alta
tradizione nazionale muove contro ogni forma di vita, che italiana non sia, e
quindi non connaturale a noi, e perciò non veramente storica ma rigidamente
morta, astratta, vuota d'ogni vibrante contenuto umano. È un'ideale continuità
quella che lega il Vico al Cuoco, è la gloria perenne del pensiero italico
rinascente, quando le straniere infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo.
Il Vico rappresenta un profondo rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte
le attività umane, che dal me todo filosofico non possono prescindere: la
politica, la storia, la giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito
fonte prima d'ogni realtà morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il
Medio Evo nè il Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere
e del divenire, potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il
dinamismo dello spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna:
il mondo del l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni
concretato nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della
moralità s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne
inesauribile, nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo
punto, tutto ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco,
incasellato, morto diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un
nuovo e diverso processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi
sandosi nelle più varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire
discendendo al vero storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e
remota scaturigine: l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la
molteplicità, e viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il
tramite dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im
mutabile, di ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la
scienza dei fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico:
occorre con ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il
grande assunto del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia
senza filologia, nè filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine
dell’una e dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto
umano, il vero storico. Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo
degli uomini, in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo
foggiare la nostra individualità ed agire per noi e per gli altri, per il
nostro particolare e per lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi. E questo
il Vico esprime nella notissima icasastica frase: « questo mondo civile
certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne
debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le modificazioni della nostra medesima
mente 280 umana. Questo il nucleo profondo della filosofia del Vico, che Cuoco
acquisisce e fa sangue del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura
della politica e della pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è
filosofo vero, come colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati
intellet tualistici nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto
è ancor più indietro del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver
posto in termini poli tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale
inesauribilità di situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza
vichiana. In un mondo vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo -
francese, egli, riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che
le mancava, e le ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella
fiducia, che solo può scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre
possibilità, nel nostro avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con
felice frase sono i germi dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto
di vista estrinseco, ma dal punto di vista anche intellettuale. Con il cadere
della Partenopea, diecine e diecine di esuli si diffondono per il Nord
d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la loro cultura filosofica più o meno
permeata di vichismo, il loro diritto, la loro economia: da ciò nasce una più
intima comunione di spiriti, una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed
italiani. E chi resta insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui
sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi:
non v'è alta co scienza che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi.
È un po' la moda, ma una moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra
uomini di diverse regioni d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee
tra loro. Più gli studi si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico,
Scienza nova, v. I, p. 172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo
senso al l'opera stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto
di Luigi Rava, che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796,
tre anni prima dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in
cui Ugo Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci
scritti, La Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di
minore importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un
quadro del progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le
dottrine del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa
coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come
dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile
al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori
della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del
Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924),
v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse
inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue
ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta
una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma
che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa
ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba
della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il
contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo
poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso,
impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale
nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina
zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base
naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle,
romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita,
ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta
borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la
fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo
osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo
degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale
gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco,
Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli
altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande
scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul
Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante
possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano
ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi
non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il
Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E
riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e
risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre
nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ».
Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie
inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito
dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e
alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi
un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una
diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE, La
filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12.
(2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v.
XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C.
Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio
Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere
com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo,
che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò
si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti
del Cuoco. (3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di
Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op.
cit., p. 241 osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature
pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux
lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota agli
Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del poeta
stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di pensiero
vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per cui
furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose di
sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è
meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e
così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li
provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono
letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da
U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il
molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli,
in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’
ispirò il Foscolo nei Sepolcri. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 172. (2)
Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico: à Osserviamo
tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di
luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire questi tre
umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matri moni
solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra nazioni, quantunque selvagge
e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate
solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture. Chè per la Degnità, che «
idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon avere un principio
comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose
incominciò appo tutte l'umanità, e perciò si debbano santissimamente custodire
da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza
nova, v. I, p. 173). « Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le
seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino insep polti i
cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con
questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi
nonchè disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a
mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde
agran ragione le seppolture con quella espressione su blime Foedera Generis
Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza, Humanitatis Commercia ci
furono descritte da Ta cito ». (Scienza nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel
primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato ferino dei figli della
terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei cannibali che s '
imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo rifinito de Le
Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema filosofico che è
certo quello del Vico (1 ), si stema che siffattamente compenetra l'opera del
poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli scritti pro sastici, sia
pure storici e critici (2 ). Onde tutta la sua cri tica trova il nucleo
originale nei nuovi portati dell'este significare il ritorno allo stato
selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo stato stesso, e
che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine sono stati as
sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le umane belve ancor
vagabonde per la grande selva della terra » (Opere, Monnier); nonchè ripetuti
da un gio vane, pur esso destinato a divenire un grande scrittore, da GIOSUE
CARDUCCI: « fuggendo per la gran selva de la terra il nato de la donna ululò
già co' leoni a la preda cruenta: indi con vitto ferin la vita propagando,
incerti videsi intorno i figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne
l ' immane salma, per lo gran deserto dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato,
Tipografia Ristori, 1857, p. 84). (1) La vita preistorica è con viva arte
descritta dallo stesso Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna
alle prime trasmigrazioni marittime: «.... gli antenati di coloro che furono
poi gli autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che
non conoscevano niuna divinità; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i
paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri
con le figliuole; e, finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano
società, in mezzo ad essa infame comu nion delle cose, tutti soli e, quindi,
deboli e, finalmente, miseri ed infelici, perchè bisognosi di tutti i beni che
fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de propri
mali, sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro
scampo e salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova). (2 ) Il vichismo del
Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella letteraria,
Torino, 1872, ma certo non com preso, troppo imbevuto, com'era il critico, di
passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee d’un'arte pedago
gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato raccolto nell'antologia
del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti da A. ALBERTAZZI, Napoli,
Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica vichiana, che prima scuote le
vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di poetiche per penetrare nello
spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte (1). Ma l'influsso più importante
e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti col quale ebbe rapporti epi
stolari (2 ), nonchè disappunti letterari, dovuti al fiero" giudizio che
l'autore del Saggio faceva circa il carattere del poeta cesareo assai volubile
in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi
tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la prolusione Della necessità
dell'eloquenza, il Discorso sulla storia longobarda del secondo (5 ), sono la
prova sicura della dif fusione delle dottrine del Vico. (1 ) Vedi a proposito
come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il
Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita
liana, Firenze, Le Monnier ed., 1894, p. 267; G. A. BORGESE, Storia della
critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., 1920, p. 248 e sgg., sopra
tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che
anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani; anzi fa
rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo, nel quale
la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua parte ». (2 ) G.
Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P. HAZARD, op. cit., p.
241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367, passim. (3) N.
RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed
arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco, Scritti vari,
v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 ) V. MONTI, Prose e
poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. A. MANZONI, Prose minori
con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d., p. 22 e sgg. Allorquando
questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo di G. GENTILE,
Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo centenario della
sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924. L'influsso vichiano, per il tramite
del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo per l'alto concetto in
cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma anche e principalmente
per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei caratteri più
significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si arresta qui, ma
plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova storiografia,
rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi, specie con i
canoni romantici di Germania: a chi legge gli scritti del Berchet (1 ), del
Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile rinvenirvi idee e
proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi altri
napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto di
storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è rappresentata
sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e scrittore è un
realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo mini e li
rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di Platone e neppur
feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De Sanctis: tutto
determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e limitazione e
storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato Vico,
governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera
naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini.
(1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori
più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli
familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei
nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita
intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla
nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen
ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza
accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune
ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di
filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente
». (2 ) BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e
d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle
leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia
influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella
di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce
dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche,
Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo
dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro
studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo
settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le
di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e
storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come
giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,... quantunque
i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori del secolo,
si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità vichiana
non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori,
segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al
realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a
sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri
giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come
Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare
storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma
politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo
XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo
semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso
la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico,
que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si manifestano:
Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo discepolo, e
per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto
realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza
nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle
più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo
l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a
negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che
possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè
e sulla (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e sg. 288 fiducia
delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal
Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e
formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po
litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L.
Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce
come il genovese non solo si sia nutrito del Vico per il tra mite del Michelet (3
), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de ' numerosi
e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 14. (2 )
L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che dal
Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo,
lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre
vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più
felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne
disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo
studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente
nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella critica
letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e la filosofia ch'egli desi
derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo », disse altrove, paragonando
le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di storie letterarie con
quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento romantico, « il
vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della
civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro,
sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il cui scopo
santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura comprenderlo ». E si
compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da
quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e
l'inerzia degli animi». MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo
pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, ecc. Il
Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due
sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del
Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie
de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours
sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris,
Renouard, 1827. Vedi a proposito di
questa versione fran cese, CROCE. La filosofia di Vico. Cuoco anda pubblicando
sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C. E in questi
zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo
stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo
getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche
nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali
il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione
dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po
stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese
richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca
Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere
solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente
di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo
stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo
pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine
del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua
redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii
europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero,
attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro
coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le
ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari
concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire
nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del
Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia Il fatto che gli articoli non siano
firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non citi
espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci che il grande agitatore non abbia
mai pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio
di Cuoco: così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al
Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese
non solo lo conobbe ma lo menzionò. B., 290 diviene dopo tante lotte una e
indipendente, diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema
unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio
Pensiero e azione redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la
dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze
politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale,
meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee,
il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta
all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va
al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra
zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo
salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso
d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi
il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota
bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico,
cioè: VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a
cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con
l'edizione milanese del Sonzogno, e con quella fiorentina del Barbèra, 1865;
VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza;
VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da
Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed. Gli articoli del
Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito
delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo.
Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti
cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il
Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di Cortese e Nicolini,
Bari, Laterza ed., 1924, volumi due. Con questa stampa quanto di meglio è stato
scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e ben poco resta
da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del Giornale italiano
invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di
una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette che il Cortese e
il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292 rimanenti,
bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività
pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e
Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha
pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali,
sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono
essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’
intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco
sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà
e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del
Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e
ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso; F.
BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in Rivista
Bolognese; F. BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di Cuoco
in Studi politici; BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi
primi redattori, Milano, Cogliati ed. (estr. dall' Arch. stor. lomb.), alla
quale operetta si riferisce la recensione di OTTONE in Riv, stor. it.; A.
BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai tempi
antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri), Milano, Hoepli; A.
BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in
Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C. CANTONI,
Giambattista Vico, studi storici e comparativi, Torino, Civelli; N. CAPRARA, Cuoco,
Isernia; L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho
potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto di
mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e
documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G. GENTILE in
Archivio stor. Nap., poi ristampata in ap pendice agli Studi vichiani, Messina,
Principato ed., 1915; di G. GALLAVRESI in Il Risorgimento italiano; e ancora di
GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e documenti
inediti, Napoli, De Falco, (una confutazione di molte affermazioni ingiuste
dell'autore è in RUGGIERI, Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, ed., 1903, p.
104 e sgg., nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia); B. CROCE, La
filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim; CROCE, La
rivoluzione napoletana, Bari, Laterza; CROCE, Storia della storiografia
italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi
intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero
politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza; SANCTIS, Storia
della letteratura italiana, Milano, Treves ed., v. II, p. 309, p. 327 (accenni
); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia,
Milano, s. d., Vallardi, p. 557 e sgg.; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina,
Principato ed., 1915 (in cui è ristampato lo studio Un discepolo di Vico:
Vincenzo Cuoco pedagogista, già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II, 1908); G.
GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica, GERINI, Gli
scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino,
pp. 30-44; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note
con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G.
VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino; e HAZARD, La révolution française et
les lettres italiennes, Paris, Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA,
Giambattista Vico e i suoi critici cattolici, Na poli, Pierro ed., 1898, p. 406
e sgg.; A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi
venticinque anni del secolo XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI,
Storia della letteratura italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier;
F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario;
l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, (cfr. recensione di G.
GENTILE in Critica, MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi
del ' 700, Bergamo; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda
gogia, F. Vallardi ed., 1901-5, Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); MASTROIANNI,
Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d'
incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed., 1907, p. 196 e sgg.; P. MONROE
ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA,
Vallecchi ed., 8. d., Firenze, NATÁLI, Nel primo centenario della morte di V.
Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII (15 dic. 1923); G. NATALI, L'idea
del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma, 1917 (estr. dalla Nuova
Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel periodo napoleonico, 1916 (estr,
dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e il pensiero di F. Lomonaco,
Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti della R. Accademia di sc. mor.
di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361 ); L. PALMA, I tentativi di
nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in Nuova Antologia, a. XXVI,
fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891, p. 433 e sgg. (1 ) L'articolo
Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della
coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni
di A. LEONE, in Riv. stor. ital.; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it.; di
S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st.
per le prov. nap., a. XXX (1905), p. 73 e sgg. ); G. OTTONE, La tesi vichiana
di un antico primato italiano nel « Platone » di Cuoco: contributo alla storia
del risveglio nazionale nel periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr.
recensioni di A. Butti, in Giorn. st. d. lett. it.; di S. Rocco, in Rass. crit.
d. lett. it., a. XI (1906), p. 181 e sgg. ); G. OTTONE, Mario Pagano e la
tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini; PEPE, Necrologia: Cuoco,
in Antologia (riprodotta dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba
di Torino ); I. RINIERI, Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra
Pio VI e la Corte di Napoli, Torino; ROBERTI, Lettere inedite di C. Botta, U.
Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco,
politico, storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr.
recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it.; di A. BUTTI, in Giorn. st.
d. lett. it.; infine di G. GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg.,
ristampata in Scritti vichiani, p. 427 e sgg. ); M. ROMANO, Una pagina inedita
di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e
d'arte (nozze FEDELE- DE FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi ed., 1908, p. 181 e
sgg.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d.,
Torino, pp. 102-124; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con
una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli (cfr.
recensioni di B. CROCE, nella Critica; di G. R[OBERTI), in Giornale st. d.
lett. it.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it.; di S. Rocco, in Rass.
crit. d. lett. it., a..; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it., a. XXI, 3a 8.,
vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura
italiana, Napoli, Mo rano; R. SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel
primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della società pavese di storia
patria; TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in Rass.
crit. d. lett. it. (cfr. RUGGIERI, op. cit., p. 94; ROMANO; A. Zazo, Le riforme
scolastiche di Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto
dalla Rivista pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive iGENTILE (Studi
vichiani), l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un
concorso sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss.
acquistati dalla Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora
inedita, di M. ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei
mss. recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi PERSICO,
Rel. sul concorso per il premio sul tema « Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend.
dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa questi mss. vedi Suppl. alla
Riv. di bibl. ed arch., nonchè RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p.
45, n. 13, il quale ultimo di essi mss. abbondante mente si serve, documentando
le sue acute asserzioni, e infine CROCE nella Critica. Del Cuoco si sono
occupati varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò
soltanto alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico, in Storia
politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d. passim;
F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano, Milano, Hoepli; Rosi, L'Italia
odierna, Unione tip.- editr. torinese, 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G.
MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi, in Storia letteraria scritta da una 297
società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano,
Vallardi; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della letteratura italiana, Firenze,
Barbèra; F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze,
Sansoni. Il primo centenario della morte di V. Cuoco è stato degna mente
ricordato agli italiani, oltre che dalla pubblicazione dei due volumi di
Scritti vari per cura di N. Cortese e di F. Nico lini, dalla commemorazione di
Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo Cuoco, Roma, Alberti).
Preannunziando o annunziando la ricorrenza scrissero del grande molisano S.
ARCOLESE, Cuoco, in Il popolo molisano; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo
Cuoco, in Il mondo; F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle Puglie; F. Mo
MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima
sotto ogni rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta
nella R. Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico
al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma, Soc. Anonima Poligrafica). Altra
raccolta di scritti per uso scolastico. V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad
1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G. MARCHI. V'è una
duplice inesattezza: ad BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo
dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, e Una
pagina inedita su Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181, la
riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. (2)
L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un
numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè
vedere. La tradizione italica Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica
rivoluzionaria. Il « Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » Napoleone e
la sua politica generale. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » Il
« Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico. L'educazione
nazionale nel pensiero cuochiano Conclusione Nota bibliografica.Felice Battaglia.
Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani, “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. –
spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in
Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il
‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling,
volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una
nazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Battaglia” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Battista: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale della la percezione – scuola di Nicosia – filosofia siciliana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Nicosia).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Nicosia, Etna, Sicilia. Grice: Very
good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente
all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”. e inventò un orologio automatico. Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con
il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo. Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica
italiana; Editore Soliani, Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore
Newton & Compton, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.
Biografie: di biografie Categorie: Teologi
italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Nicosia
(Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista.
Keywords: percezione, trigonometria, orologio automatico, la filosofia della
trigonometria, Comte, la trigonometria nella matematica italiana, Venezia, la
filosofia illustrata, la teoria causale della percezione. Refs.: “Grice e
Battista” – The Swimming-Pool Library.
Gr
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