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Tuesday, November 26, 2024

GRICE E CAPRA

 

Grice e Capra: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del del corpo animato – delo l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic] – scuola di Nicosia – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Nicosia). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Nicosia, Enna, Sicilia. Grice: “Plato, who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that he philosophised with his companion while they did peripatetics along the valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s, and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio – un ginecologo. Tornato a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste   e descrisse i risultati dei suoi studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di C. non si conoscono esattamente il luogo e la data precisa della morte.  Uomini illustri della Sicilia. Dizionario biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come incerta. Ma ciò sia detro di passaggio; che noi non vogliamo, ne dobbiam difendere l'Immortalità dell? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi, l'immortalità dell'animo è vita futura? rispondiamo, esser futura la sanzione. ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole corporea Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità del corpo, mostravano, che questa immortalità intendeano, come una permanenza eterna. La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pen​sare, e alla quale effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasti​camente irretita la mitica. L'uomo adunque, come egli è creato in mezzo fra l’Angelo, e la bestia, cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello spirito, e in alcune cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della carne insino, che la carne. Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando de Sede Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere firum, qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque competit corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus de instrumento philosophiae. Publication: Messanae: ex typographia Fausti Bufalini, C., de Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum. Panormi, apud J. F. De Immortalitate rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum  C., nicosioto, il quale inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae et mentis ad Ari stotelis praecepta, adversus Galenum, l'altro De Immortalitate A nimae rationalis, justa principia Aristotelis, adversus Epicurum, LUCREZIO et Pythagoricos; C., nicosiensis, De sede animae et mentis ad Aristoteles praecepta, adversus Galenum, Quaesitum. Panormi in 4. De immortalitate animae rationalis, iuxta principia Aristotelis, adversus Epicurum, Lucretium, et Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche relazione con quest'Istituto devono aver avuto le opere pubblicate dal C. in quel torno di tempo, come: De sede animae et mentis ad Aristotelis praecepta, adversum Galenum. Quaesitum (Panor.); De immortalitate. C., filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la sede dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia, esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non vasta biografia di C., si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum (Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste. Infatti, C. dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le difese della psicologia aristotelica. Per C. la quaestio de sede animae si presenta immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis). Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. C. distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio) dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece, ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore: et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta, invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis parte. Ma essi, secondo C., evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus. Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem. Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam, et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem, et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità, mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere. Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, C. fa affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito, giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus. Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent: non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue C., si riuscirà facilmente a giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole, affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da C.. Et cum cor primo movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici, quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur, scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche, esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gl’anatomisti inoltre legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane, che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit. Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce (copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione tutte le altre: secondo C., infatti, gli esperimenti di legamento indicano che ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale. Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è, in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni caso, prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo C. e possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo)   negli accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la soluzione fornita da C. è quella di postulare una duplice unione tra anima e corpo; una secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa il cuore in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la natura dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un organo di per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le operazioni della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei Peripatetici ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la mente è eterna, ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello, dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire:  conclusione. Alla mente non spetta una sede. Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione. Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima. Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Menti non convenit sedes. Haec vera est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis. Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est ministra intellectus. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua animae sedes. Sedes inquam virtutis. Cererbum est sede. Operantis animae, et operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum facultatum, eiusque commune instrumentum. Tota humana species est sedes mentis. Proprie tamen homo sapiens. Imaginativa est sedes mentis. Cor essentialiter, et intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Cerebrum accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula saeculorum. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede animae et mentis” C. si assiste al tentativo di riportare il problema della localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai, dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione, discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano – l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis, e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica mossa da Telesio nel Quod animal universum.  Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza, non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond, l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inaugurato una solida tradizione, che continua nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro e un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella “Retorica,” Aristotele individua in primo luogo due ca­tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (“theo­ros”) e colui che decide (“krits”). Il primo agisce nella dimen­sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­to. Il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro. Co­me osserva giustamente Lanza, la classificazione è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­po che fin dall'epoca d’Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro fatto importante inaugurato dalla riflessione aristotelica è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguaggio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché in alcune teorie semiologiche è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­gni". Anzi, secondo un certo strutturalismo, questi termini del linguaggio sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­dello anche per gl’altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gl’elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di “simbolo”, mentre gl’altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­nati semeia o tekmiria. La teoria del segno propriamen­te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­noscenza. Il “simbolo” linguistico è connesso princi­palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra una espressione linguistica, una astrazione concettuali ed uno stato del mondo. È nel “De interpretatione” che Aristotele espone la sua teo­ ria del *simbolo* linguistico, articolandola secondo uno sche­ma a tre termini. Un suono della voce e un "simbolo" di una affezione dell'anima, la quale, a loro volta, e l’im­magine di una cosa esterna. Ordunque, i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo, poi, che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­desimi; tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono l’immagine (homoi 6mata) di una cosa (pragma­), già identici per tutti. (Arist., De int.) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­mine “semeion” come apparente sinonimo di “simbolo” non si­gnifica affatto che le due espressioni sono intercambiabili. In questo passo Aristotele usa il termine “semeion” in un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma appunto la tenden­za a un “uso sfumato” di una espressione del lessico semiotico, quando non e in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. Qui Aristotele usa “semeion” per dire che l'esistenza di un suono (o di una lettera) può essere considerata come un indizio dell’esistenza parallela di una affezio­ne dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo. Affezione dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil). Penstero (nomat8)  -- rapporto o rappresentazione convenzionale o arbitrario – versus motivato o iconico rapporto o rappresentazione (  sn ti phntl (prSgmsta) suono della voce – cosa estrena. Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade. Tra un suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo c'è un rapporto o rappresentazione finalmente immotivato e convenzionale o arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico, secondo Aristotele, per tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­conda delle varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham), esattamente come avvie­ne per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la cosa esterna c'è un rapporto o rappresentazione causale percettiva di motivazione iconica, che appare addirittura iconico. Il primo e l’immagine del secondo. Bi­sogna precisare che e scorretto identificare in manie­ra diretta la tesi dell’arbietrarieta o  convenzionalità degli elementi del lin­guaggio, cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­tità strettamente interne al linguaggio: il significante – segnante -- e il si­gnificato – segnato -- sono le due facce del segno, in quanto unità lin­guistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto conven­zionale tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­guaggio, in quanto sono entità *psichiche* (l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre ri­levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­verse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione (“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussu­re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti, ma all’espres­sione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione – Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ra­gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima nell’Analytica Priora. Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­le, almeno nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sem­bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e la garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della realtà. Tale garanzia sembra esserci quando si dia una reciproca­bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la simbolicità del linguaggio nei confron­ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”, che Ari­stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­to (D-K). Le ragioni che permettono la specializ­zazione del termine “simbolo” per indicare una espressio­ne linguistica convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo” indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta -- in ma­niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi, Eco). Il fat­to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­suppone – o implica, come per consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­spondenza, “simbolo” viene ad acquisire il si­gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un caso che symbolon sia attestato per indicare "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia. Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un simbolo di uno stato d'animo (percezione di una cosa come ‘shaggy’) in tanto che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Be­lardi In quanto sjmbolon, il nome non è più deoma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone. In Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phone s­emantika katà suntheke) (De int.). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la dunamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono finalmente di modo convenzionale o arbitrario una pura relazione di equivalenza tr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. Del resto, l'opposizione convenzionalel/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali -- questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono e definito una "voce" quando e emesso dalla bocca (con lingua) di un es­sere animato (II.); ed e dotato di significato (smantikos) (Il.). Ora, i suoni emessi dagli ani­mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emesse dagl’uomini sono due fattori. Non e una voce convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma e involuntario, meramente causato "per na­ tura" (De int.). E la voce e agrammata, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (Pot.). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano. Una voce o suono semplice (adiafretos, "invisibile") puo articolarsi per il primo grado in una uni­tà più grande dotata di significato. Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili (‘miao’ ‘read chimp lit.’) , ma non combinabile (Pot.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elemento indivisibile combinabile e elemento divisibile - lettera - elemento dotato di significato - simbolo – nome – nome aggettivo (shaggy) – suono e voce degli animali - per natura – causato fisicamente – involuntario – istinto – risponsa allo stimolo --- elemento indivisibile non combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­no", De int.), -- “manifestare” in Witters -- fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o finalmente l’aribitrario, come nel caso del linguaggio o il suono o la voce di un animale non umano, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono o la voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma che rivela la loro causa fisica. We must know the character, age, sect, nation, and other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a cer possessed their minds that they became mere automata in his hands, and pour out words and thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of a cistern, betrays profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was entertained in former times, and is probably not extinct. It doubtless originates in a vague notion, that the more entirely human agency is excluded from the doctrine of inspiration, the higher honour was bestowed on the divine spirit. And the etymology of the word “inspiration” has also its effect. It originally and properly signifies, a breathing in, and suggests the dark and mysterious conception of an effect produced on the thinking substance of a man , not unlike the inflation of a bladder. But inspiration has nothing in common with its etymology. Inspiration simply expresses the idea of super-natural assistance and guidance in the communication to mankind of a truth previousl unknown. He who is honoured  “magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates”  with it, is enabled to speak, act, and write, as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him; so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the faculties with which he has been endowed by his creator: with perception, memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence, that their own spirits performed an important office in composition. In the author of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom, made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold ,but somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative, tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah - the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that revelation consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus in verbis scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We   insult the Holy Ghost by supposing him unable to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he honoured with his influence — that when he "   When we read the Epistle to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions, bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear - fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld “the Lamb slain from the foundation of the world ,” never lost froin his view the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and yet speaks in milder tones, though with  made the prophet he was forced to unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his writings ,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no difference between them except in the length of the lines. It is important also to note the different kinds of composition they employed. Some were poets, and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican, David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp. Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors intended to give simple and perspicuous narratives of events as they actually occurred. The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them away, by doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws which are applied to other historical compositions. Yet it has been sanctioned by great names, especially in Germany. Grave divines are found, who insist that there is not one miracle in the gospels. The events which SEEM miraculous are entirely natural, but exaggerated and embellished by the warm fancies of the people among whom they occurred. Only strip, they say, the Evangelists of this semi-poetic drapery, and the business of exposition will go on delightfully. Moses fares, if possible, still worse. They turn him into an allegorist or reciter of mythological fables. The first ten chapters of “Genesis” contain about as large a body of real truth, as can pass with out inconvenience through the eye of a needle being made up of old stories and scraps  a — of song, which mean nothing, or anything, that a lively fancy may suggest. i authors are conceited sciolists, who, pranking Let not the Christian student take great pains to refute this wretched infidelity, which does not openly avow itself infidel, merely because its advocates earn their bread by a profession of Christianity; the most of them being either professors of Christian theology or pastors of Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum est. Such interpretations do not deserve the name. They are feats of jugglery and legerdemain; and their   In expounding Scripture, let there be a constant appeal to the tribunal of common sense. Language is not the invention of metaphysicians, or convocations of the wise and learned. It is the common blessing of mankind, framed for their mutual advantage in their intercourse with each other. Its laws therefore are popular, not philosophical- being founded on the general laws of thought which govern the whole mass of mind in the community. Now, however men may differ from each other,  themselves as the high-priests of philosophy, prove by their irreverence for things sacred, that they have not reached the portico of her temple. The true philosopher always trembles when he stands, or even suspects that he stands, in the presence of God! He can not trifle with such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the falsehood of which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him of his last stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello Capra. Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism, manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour – body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse.  life, soul – Aristotle on soul and life – zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The Swimming-Pool Library. Capra.

 

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