Grice e Capra: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del del corpo animato – delo
l’isola di delo, apollo delio – il chiaro – principio di perspicuita [sic] – scuola
di Nicosia – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Nicosia). Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Nicosia, Enna, Sicilia. Grice:
“Plato, who never fought, thought the soul was in the brain; Aristotle, who
taught Alexander, and knew of Alcebiades, a warrior, was aware of the sinews of
the body; he thinks the ‘anima’ was in the heart – ‘enthymema’ – Ryle laughed
at them all, stupidly. The issue is VERY subtle – And Marcello Capra explores
the conceptual intricacies of applying a spatial concept (like ‘sedis,’ the
most general spatial concept, actually) to ‘anima’ – And the good thing is that
he philosophised with his companion while they did peripatetics along the
valley of the river in Nicosia!” “Why is it that philosophers always have to
self-segregate; people spoke derogatorily of the Oxford School of Ordinary
Language Philosophy, but there were THREE schools: mine, Witters’s followers’s,
and Ryleans – and each could not stand the other! Well, Capra, bored of
Palermo, founds in Nicosia his own academy – At Oxford we had unfortunately to
SHARE the town, if not the gown!” – Studia a Padova sotto Montano e Falloppio –
un ginecologo. Tornato
a Nicosia, fonda una scuola, societa, gruppo di gioco, o club di filosofia. In
seguito, si trasferì prima a Palermo e poi a Messina. Divenne assistente di Giovanni
D'Austria e medico della flotta del suo 'Impero per cui partecipa alla
battaglia di Lepanto. Tornato in Sicilia, su incarica del vice-ré Don Diego
Enriquez de Gusman studia l'epidemia di peste
e descrisse i risultati dei suoi
studi in un volume dal titolo De morbi pandemici causis, symptomatibus et
curatione, pubblicato a Messina. Scrisse anche un volume sulle proprietà
mediche della scorzonera. Pubblica a Palermo saggi filosofichi. Un saggio
filosofico e di dedicato alla sede corporea dell'anima e considera i principi
di Aristotele e i quesiti di Galeno. Per Aristotele, contro Platone, la sede
corporea dell’animo e nel cuore; per Platone alla testa!Altro saggio tratta
dell'immortalità dell'animo alla luce della psicologia filosofica funzionalista
di Pitagora, Aristotele, Pitagora, ed Epicuro. Di C. non si conoscono
esattamente il luogo e la data precisa della morte. Uomini illustri della Sicilia. Dizionario
biografico degli italiani. l'immortalità dell ' animo umano è considerata come
incerta. Ma ciò sia detro di passaggio; che noi non vogliamo, ne dobbiam
difendere l'Immortalità dell? animo Umano con tanto pericolo. E a chi domandi,
l'immortalità dell'animo è vita futura? rispondiamo, esser futura la sanzione.
ftante la lor confufione coll'anima universale diffusa in tutta la mole
corporea Onde opponendo quegli Antichi l'immortalità dell'animo alla mortalità
del corpo, mostravano, che questa immortalità intendeano, come una permanenza eterna.
La sola immortalità, dunque, alla quale si possa pensare, e alla quale
effettivamente si è sempre pensato, affermando l'immortalità dello spirito, è
la immortalità dell'Io trascendentale; non quella, in cui si è fantasticamente
irretita la mitica. L'uomo adunque, come egli è creato in mezzo fra l’Angelo, e
la bestia, cosi alcuna cosa comunica con gli Angeli, cioè l'immortalità dello
spirito, e in alcune cose comunica con le beftie, cioè la. mortalità della
carne insino, che la carne. Sulla sede dell’anima e della mente. De Sede Animae
et Mentis ad Aristotelis praecepta adversus Galenum. Primò igicur notandum, quando
de Sede Animæ rationalis disputamus, per Sedem strictè nos non intelligere
firum, qui exigit distinctionem seu divisionem partium in loco, folisque
competit corporibus, sed, ut Scholastici nuncupant... Dialogus de instrumento philosophiae.
Publication: Messanae: ex typographia Fausti Bufalini, C., de Immortalitate
rationalis animae juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et
Pithagoricos quaesitum. Panormi, apud J. F. De Immortalitate rationalis animae
juxta principia Aristot. adversus Epicurum, Lucretium et Pithagoricos quaesitum
C., nicosioto, il quale inandava fuori due Quesili, l'uno De sede animae
et mentis ad Ari stotelis praecepta, adversus Galenum, l'altro De Immortalitate
A nimae rationalis, justa principia Aristotelis, adversus Epicurum, LUCREZIO et
Pythagoricos; C., nicosiensis, De sede animae et mentis ad Aristoteles
praecepta, adversus Galenum, Quaesitum. Panormi in 4. De immortalitate animae
rationalis, iuxta principia Aristotelis, adversus Epicurum, Lucretium, et
Pythagoricos, Quae situm. Ibi in 4. Qualche relazione con quest'Istituto devono
aver avuto le opere pubblicate dal C. in quel torno di tempo, come: De sede
animae et mentis ad Aristotelis praecepta, adversum Galenum. Quaesitum (Panor.);
De immortalitate. C., filosofo siciliano originario di Nicosia, può essere considerato
un altro esponente non secondario della quaestio che interessa la sede
dell’anima (o animo) razionale. Studia a Padova sotto Monte e Falloppia,
esperienza questa da cui aveva mutuato l’interesse, tutto padovano, per i
problemi di fisiologia generale e psicologia. Per un’introduzione alla non
vasta biografia di C., si vedano PITRÉ e GARIN, GLIOZZI e DOLLO. Nel “De sede animae et mentis ad Aristotelis principia adversus Galenum
(Palermo) dedicato al viceré don Diego Enriquez de Guzmán, conte d’Alvadeliste.
Infatti,
C. dà ampio saggio delle sue attitudini filosofiche in campo medico, prende le
difese della psicologia aristotelica. Per C. la quaestio de sede animae si presenta
immediatamente duplice. In un senso, infatti, la questione riguarda l’anima
come principio di fisiologia generale e soggetto quindi a generazione e
corruzione (quaesitum de sede animae). Dall’altro, invece, riguarda un
principio immateriale, immortale ed eterno (quaesitum de sede mentis).
Disputaturus (ut ad peripateticum pertinet) de animae sede. quoniam una
aeterna, ut in nostro quaesito demonstravimus: altera mortalis. Quibus non
eodem modo sedes convenit. Propterea ut lucidior sit explicatio agam primo de
sede animae quae interitui est obnoxia. Mox agam de
sede mentis: hoc est illius partis quae venit deforis, et post corporis
dissolutionem remanet superstes. Quanto all’impostazione, il saggio si
presenta come una serrata fila di quaestiones e responsiones secondo l’uso
scolastico, mentre l’obiettivo polemico è rappresentato dalla tesi galenica
dell’estensione e dislocazione reale dei principi psichici nel corpo. C.
distingue anzitutto tra “principato” (principatum) ed “estensione” (extensio)
dell’anima. Il principato riguarda l’organo che per primo si attiva, si
modifica o cessa di funzionare in determinate condizioni. L’estensione, invece,
ha a che fare con la reale presenza dell’anima nelle strutture materiali. In
quest’ultimo senso si hanno due alternative: o l’anima si trova ad essere
suddivisa in più parti del corpo, oppure si trova tutta insieme in una sola di
esse. Entrambe le opzioni vengono però respinte, anche con argomentazioni
tratte da esperimenti anatomici. In generale l’estensione dell’anima viene
negata poiché, in ossequio al dettato aristotelico che vuole l’anima forma del
corpo organico, la sede dell’anima deve essere considerata il corpo nella sua
interezza -- principatum consideramus; cum obtinet in aliqua corporis
particula. At si consideramus extensionem, ea est ubique. Obiectio Et quoniam
ad huc quispiam instare posset per ea quae retuli in praecedenti quaesito. Nam
per ligamenta conspicimus privari membra sensu et motu. Quod non contingeret si
anima per totum corpus esset extensa. Hinc Aristotelem aliquando videtur asserere
animam esse in spiritu. Responsio Dicendum est quod solum ex eis colligimus
principatum, et insuper colligimus spiritum esse id principium, per quod anima
iungitur corpori, et obit munera sua. Non autem accipimus eam non esse
extensam, quia reiicienda est sententia Galeni qui cum censeat animam mortalem
esse temperamentum; cum inquit, septimo de placitis Hyppocratis, et Platonis
vegetalem esse temperamentum epatis. Vitalem vero temperamentum cordis. Nam si
id esset, tunc non ubi vitalis esset anima, ibi reperiretur vegetalis. Nec
essent extensae per universum corpus. Cum itaque animae non conveniat sedes ut
corpori, nec ita si una corporis parte et non alia. Est enim in toto corpore:
et dum quaerimus sedem animae tamquam formae, dicere debemus totum corpus esse
animae sedem. Quanto all’estensione del principato in cui essa si manifesta,
invece, si tratta di un’estensione per accidens, che spetta realmente forse
solamente ai vegetali e ad alcune specie di insetti. Per questa via, distingue
quindi l’estensione spaziale dalla divisione concettuale. La prima compete
all’anima in quanto soggetta alle forme materiali di cui si serve. La seconda
rappresenta la molteplicità delle sue funzioni come espressioni di un'unica
attività. Gli esperimenti sulla legatura dei nervi dimostrerebbero in tal senso
che qualsiasi organo, separato dalla sua connessione con il cuore, diviene
torpido o mal funzionante. Et authoritatibus, et
rationibus confirmare possumus. Et primo nos conspiciamus quod si a corde ad
reliquas particulas claudatur iter, aliae partes vitae privantur: nam et motu
et sensu distincte conspiciuntur. Ut in obstructionibus, in epilepsia, in
ligationibus servare licet. Id minime eveniret si anima esset tota in quavis
parte. Ma essi, secondo C., evidenziano anche come l’anima abbia la tendenza a
ricostituire spontaneamente quella totalità che viene interrotta o sopressa con
le operazioni di legamento o incisione, in ciò dimostrando la sua dipendenza da
un principio unico. L’anima, benché estesa nella sua totalità in tutto il corpo
ed ogni sua parte in ogni parte di quello, differisce in questo dalle altre forme
materiali che, quando viene divisa, essa recupera la totalità che tuttavia non
è una totalità di estensione. E ciò avviene in quanto essa possiede un
principio dal quale dipende. E per questo Aristotele afferma che l’anima è una
in atto, e molteplice in potenza. Inoltre è estesa in modo tale da interessare
allo stesso modo ogni parte del corpo e da adattarsi alle forme inferiori, ma
in modo consequenziale e seguendo un certo ordine, poiché tali forme si
osservano nel cuore, e poi negli altri organi, o in ciò che fa le veci del
cuore. Tutte queste cose sono note per il fatto che dimostrano come l’anima sia
forma necessariamente estesa e divisibile. Così, dunque, l’anima è estesa in
relazione all’estensione del corpo, ed è divisibile, dipendendo tuttavia dal
cuore quanto a sviluppo e conservazione, tramite gli spiriti e le parti più
sottili del sangue. Qui si può separare l’anima in motore e mobile a motivo
delle diverse parti, e lo stesso si può fare distinguendo gli spiriti e le
specie dell’anima in rapporto al corpo misto. In primo luogo, dunque, l’anima
dipende dagli spiriti e dalle parti più sottili del sangue che traggono origine
dal cuore, il quale si dice essere la sede dell’anima. Anima ut extensa est
tota in toto, et pars in parte. In hoc differt ab aliis formis materialibus.
Quod quando dividitur post divisionem recipit totalitatem. Non tamen totalitatem extensionis. Et id evenit. Quoniam habet unum
principium a quo pendet. Et ideo Aristoteles inquit, quod est una actu, plures
potestate. Insuper ita extensa quod aeque Item respicit omnem corporis partem
et convenit formis infra animam, sed cum dependentia, et ordine aliquo. Quia
Item considerantur in corde, mox in aliis, vel in eo quod cordis gerit vicem.
Haec omnia ex eo sunt nota, quod ostendunt animam esse formam tunc necessario extensam,
et divisibilem. Sic itaque anima extensa ad extensionem corporis, et
divisibilis, pendens tamen infieri, et inconservari a corde, mediantibus
spiritibus, et subtilioribus partibus sanguinis. Hinc animam secari in motorem,
et mobile ob varias partes: et spiritus distinctionem, et animae diversitatem
ad formam misti. Primum itaque anima innititur spiritibus, et tenuioribus
partibus, et a corde originem ducunt, quod dicitur esse sedes animae. L’estensione
corporea compete dunque all’anima in virtù di un organo principale, il cuore, e
quindi di organi secondari dei quali per accidens condivide la corporeità,
mentre substantialiter l’anima si comporta come la fiamma che, seppure divisa
in molte parti, resta sempre ed essenzialmente una. In questo senso la sede
dell’anima è l’organo mediante il quale l’anima si unisce primariamente al
corpo ed è dunque l’organo che per primo nasce e per ultimo cessa di vivere.
Rispetto ad esso il cervello si presenta quasi excrementum et pondus iners. Per
rintracciare l’origine del principio fisiologico e la sua sede, C. fa
affidamento alla dinamica del calore innato -- Ea est censenda animae sedes
quae origo, et principium est huius caloris. Sine quo anima nec esse, nec
operari valet. Sed huiuscemodi est cor: ut experientia docet, et omnes
affirmant. Immo Hyppocrates ait animam spirituum seu calorem esse -- laddove
infatti ha origine il calore naturale – egli argomenta – ha origine anche
l’anima quae educitur primo de potentia materiae. Ma, calore e vita hanno
origine dal cuore e si diffondono attraverso gli spiriti ed il sangue a tutto
il corpo: a quanti dicono che gli spiriti siano sede dell’anima si deve
rispondere che è necessario considerare il calore come sede. Infatti gli
spiriti sono necessari in quanto il calore naturale è un certo tipo di spirito,
giacché nello spirito si conserva il calore, la cui origine non è né il fegato
né il cervello, ma il cuore, che è la sua origine precipua. E se anche alcuni
anatomisti hanno attribuito l’origine degli spiriti alla pulsazione, si sono
sbagliati ed hanno fatto affidamento su di una falsa esperienza. Infatti, il
cuore è l’origine del calore e lì, nelle parti più sottili del sangue, debbono
avere origine gli spiriti; non certo dall’aria che viene attratta. Perciò si
deve ritenere che la sede dell’anima sia quella che possa adattarsi a ciascun
singolo vivente. Ma ciò che si adatta ad ogni singolo vivente è il cuore. Ad id
quod dicunt de spiritibus occurrendum est: quia nos calore considerare debemus.
Nam spiritus necessarii sunt: quoniam calor naturalis quidam spiritus est. Cum
in spiritu servatur calor. Non epar non cerebrum est origo. origo itaque
praecipua cor est. Et si Anatomici nonnulli pulsui. Id tribuerunt. Falluntur, et falsitate experientia nituntur. Nam caloris
origo cor est, et ibi spiritus extenuissimis partibus sanguinis gigni debent:
non autem ex attracto aere. Propterea ea est censenda animae sedes. Quae
singulis viventibus convenire valeat. At singulis convenit cor. Stabilendo
dunque il cuore quale sede dell’anima, prosegue C., si riuscirà facilmente a
giustificare i fenomeni di accrescimento, moto, ostruzione o legatura dei
nervi. A questo punto, però, l’autore è costretto a fare i conti con la
tradizione prettamente medica che si richiamava a Galeno ed agli esperimenti
relativi alla separazione dei principi fisiologici nel corpo, ad iniziare dal
movimento dimostrato dal cervello relativamente alla sistole ed alla diastole,
affermato dai medici ed accettato con grande riluttanza da C.. Et cum cor primo
movetur vere potest esse principium motus aliorum: nam et si moveatur per
sistolem et diastolem: cerebrum a nullo movetur motu, et anima per motum maxime
diiudicatur. Non enim censendum est ut falso putant nonnulli Anatomici medici,
quod cerebrum quoque movetur per sistolem et diastolem: quoniam si id
conspicitur in cerebro id convenit ob arterias per cerebrum distributes. Nel
ritenere che il cervello sia importante tanto quanto il cuore medici falluntur,
scrive il medico siciliano, ribadendo le classiche motivazioni aristoteliche,
esposte da noi nel capitolo secondo, per cui il cervello è di per se stesso
insensibile, freddo ed immobile. Ma ciò ancora non basta. Poiché, come già
visto, gli esperimenti di legatura ed ostruzione delle arterie hanno secondo
Capra il solo scopo di dimostrare che, separati dall’attività di infusione di
calore e vita propria del cuore, tutti gli altri organi vengono privati delle
proprie funzioni, non può far altro che dichiarare false la maggior parte delle
dimostrazioni anatomiche ottenute mediante legamento: Gl’anatomisti inoltre
legano un cane, e danno ordine di tagliare velocissimamente il torace. Quindi
legano quattro vasi del cuore e lo asportano, dopo di che sciolgono il cane,
che grida e corre. Questo genere di scappatoie non hanno alcun valore: ed in
primo luogo perché le esperienze che costoro riferiscono sono decisamente
incerte, e forse in gran parte false. Talvolta, infatti, gli uomini vivono
anche dopo che sia stata asportata loro una parte di cervello, e si sono visti
spesso animali camminare anche senza testa. Inoltre, una volta formato il
cuore, le forme che plasmano l’embrione esistono prima che il cervello sia formato
e l’embrione già sente, e se lo si punge si contrae, cosa questa, invece, che
ancora non accade al cervello. Insuper Anatomici
quidam canem ligant, et secare iubent citissime toracem. Mox ligant quatuor
vasa cordis. Et cor eximunt, deinde solvunt canem qui vociferat, et currit.
Evasiones hae nullae sunt: et primo quae ab eis referuntur valde sunt dubia, et
fortasse magna ex parte falsa. Vivunt enim nonnunquam homines quibus aliquid
cerebri detractum fuit. Et avulso capite saepe progredi conspecta sunt
animalia. Insuper informationes embrionis genito corde ante quam sit cerebrum
productum, sentit embrio et si pungitur contrahitur. Non tamen adhuc
cerebrum habet. Dunque, in sede fisiologica, l’instrumentum commune communi
sedi resta il cuore, da cui hanno origine tutte le concoctiones e quindi tutti
i temperamenti; attraverso di esso, inoltre, un’anima immateriale si unisce
(copulatur) con le funzioni vitali dell’organismo attivando in successione
tutte le altre: secondo C., infatti, gli esperimenti di legamento indicano che
ciascun organo, interrotta la via che lo collega agli spiriti prodotti dal
cuore, cessa pian piano la propria attività peculiar. Questa strenua difesa del
cardiocentrismo aristotelico in pieno Cinquecento può sembrare arretrata
rispetto al clima costituitosi sul finire del secolo intorno all’intepretazione
anatomica del Quod animi mores, e soprattutto del De placitis, ma si ricollega
di fatto anche a sviluppi successivi, quali quelli di Rudio e Cremonini, in cui
il primato del cuore non necessariamente implica una svalutazione delle
funzioni del cervello. Ed, in effetti, l’importanza del cervello come sede del
pensiero verrà in parte recuperata nella sezione conclusiva dell’opuscolo, De
sede mentis. Se la concezione galenica relativa alla localizzazione delle
funzioni psichiche si è rivelata fallace sia in generale -- l’essenza dell’anima
è infatti indivisibile --, sia nello specifico -- la sede da cui si sviluppa la
totalità delle funzioni organiche è il cuore, non il cervello -- non può
tuttavia negare che gli esperimenti galenici dimostrano come il cervello debba
essere considerato sede almeno di alcune delle operazioni dell’anima razionale.
Anche in questo caso, tuttavia, parlare di sede è improprio, poiché la mente è,
in quanto tale, immateriale e ad essa non conviene quindi alcuna sede. In ogni
caso, prove a favore della localizzazione cerebrale esistono anche secondo C. e
possono essere articolate almeno secondo quattro ordini di ragioni: 1. il
pensiero richiede l’ausilio di phantasmata che si producono nel cervello; il
ribollire o fervor degli spiriti nel cuore non sempre è causa di un processo
analogo nel cervello; accade invece che, se si è preoccupati o agitati – pur
restando inalterata la fisiologia cerebrale – gli spiriti fervano nel cuore a
motivo della preoccupazione. De sede animae et mentis (Palermo) negli
accessi febbrili non si verificano danni alla ragione, a meno che il calore non
raggiunga la sede del capo (ovvero l’interno di esso); le funzioni
dell’intelletto subiscono mutamenti in relazione alle lesioni del capo o alla
corretta conformazione dello stesso. Per le ragioni esposte, dunque, la soluzione
fornita da C. è quella di postulare una duplice unione tra anima e corpo; una
secondo natura (coppulatio et sede naturalis), la cui sede interessa il cuore
in qualità di organo principale dell’organismo; l’altra secondo la natura
dell’operazione (“coppulatio et sede operationis”), che avviene in un organo di
per sé secondario come il cervello, nel quale hanno sede tuttavia le operazioni
della phantasia e dunque, metonimicamente, dell’intelletto: Ma avviandomi alla
soluzione della questione, si deve considerare che chiunque dei Peripatetici
ritenga l’anima soggetta nella sua interezza a nascita e morte, come Alessandro
di Afrodisia, dovrebbe affermare in modo assoluto che la sede dell’intera anima
sia il cuore. E perciò Alessandro, fondandosi sulle proprie premesse, asserì
proprio questo. Coloro che, al contrario, affermano che la mente è eterna,
ritengono che essa si unisca a noi in modo duplice (duplici coppulatione): una
per natura, l’altra per operazione e che quest’ultima avviene nel cervello,
dato che il cervello è sede della mente. Se dunque affermiamo che all’anima si
addice una duplice unione con il corpo, resta provato anche che, in duplice
modo, all’anima spetta una sede, l’una per natura, l’altra per operazione. Per
natura la mente si unisce all’anima soprattutto in quel luogo in cui vengono
portate a compimento le azioni <che sono proprie di essa>, ed in questo
senso saranno vere queste conclusioni,vale a dire: conclusione. Alla mente non spetta una sede.
Questa conclusione risulta vera per la ragione già esposta che la mente non
dipende dal corpo o da una sua parte, né richiede un organo particolare. conclusione.
Il cervello è sede della mente. Questa conclusione risulta vera non in ragione
della dipendenza, ma in ragione dell’operazione: nel cervello infatti vengono
portate a termine le operazioni dell’immaginazione, facoltà che è ministra
dell’intelletto. conclusione. Il cuore è sede della mente. Questa conclusion risulta
verà in ragione dell’unione dell’intelletto con noi stessi, che si chiama
unione per natura. 4. conclusione. Il cuore è la sede principale dell’anima.
Sede cioè della facoltà animale. Il cervello è sede dell’anima in quanto
operante e delle sue operazioni. 6. conclusione. Sede dell’anima sono gli
spiriti, dal momento che essi sono come il veicolo delle facoltà ed il loro
strumento comune. conclusione. L’intera specie umana è sede della mente, in
particolare, però, l’uomo in quanto sapiente. 8. conclusione. Sede della mente è
la facoltà immaginativa. conclusione. Il cuore è essenzialmente ed
intrinsecamente membro più importante del cervello. conclusione. Il cervello è
membro divinissimo in modo accidentale ed estrinseco. conclusione. Ma poiché
ciò che è eterno ha necessità di unirsi a ciò che è eterno, si deve dire che
Dio è sede della mente, perché solamente in lui troviamo il riposo ed il fine
ultimo sovrannaturale. Sed me conferens ad quaesiti dissolutionem
considerandum. Quod quicunque ex Peripateticis animam omnem ortui atque
interitui obnoxiam esse afferunt, veluti censuit Alexander. Absolute dicere deberent totius animae sedem esse cor. Et ideo Alexander
innixus suis fundamentis id asseruit. Qui vero contra. Aeternam dicunt
esse Mentem. Isti censent. Quod ut duplici coppulatione nobis iungitur. Una per
naturam. Altera per operationem nobis coppularetur. Quoniam ea efficitur in
cerebro tunc dicendum. Quod cererbum est sedes Mentis. Si vero ei duplicem
asserimus convenire coppulationem; tunc duplici quoque modo probatum est ei
sedem convenire. Unam per naturam. Alteram per operationem. Per naturam
iungitur animae. Eo praesertim loco ubi opera perficiuntur, et ad hunc sensum
erunt istae conclusiones verae, Videlicet. Menti non convenit sedes. Haec vera
est ea ratione qua diximus. quod mens a corpore, vel corporis partibus non
dependet, nec organo particulari eget. Conclusio. Cerebrum est sedes mentis.
Haec est vera non ratione dependentiae sed ratione operationis. Nam in cerebro
perficiuntur opera imaginativae. Haec autem est
ministra intellectus. Cor est sedes mentis. Haec est vera ratione coppulationis
intellectus nobiscum quae nuncupatur coppulatio per naturam. Cor est praecipua
animae sedes. Sedes inquam virtutis. Cererbum est sede. Operantis animae, et
operationum. Conclusio. Animae sedes sunt spiritus. Cum sint quasi vehiculum
facultatum, eiusque commune instrumentum. Tota humana species est sedes mentis.
Proprie tamen homo sapiens. Imaginativa est sedes mentis. Cor essentialiter, et
intrinsece est praestantius membrum quam cererbum. Cerebrum
accidentaliter, et extrinsece est divinissimum membrum. Conclusio. Sed cum
aeternum aeterno coppulari debeat dicendum. Deum esse sedem mentis. Quoniam in
eo solo conquiescimus et in ultimo fine supernaturali. Per infinita saecula
saeculorum. Nella serie di conclusioni che chiudono l’opuscolo, alcuni
storiografi ottocenteschi hanno voluto scorgere una dichiarazione di
averroismo. Sembra tuttavia difficile distinguere la presunta influenza
averroistica da una sincera e piena dichiarazione di fede. Con il “De sede
animae et mentis” C. si assiste al tentativo di riportare il problema della
localizzazione psichica ad un unico centro funzionale, il cuore, di contro al
poli-centrismo galenico. Ma l’operazione – di per sé condotta in osservanza del
più rigido aristotelismo – sembra destinata a fallire, poiché la duplice unione
con il corpo (“duplex coppulatio”) cui va soggetta l’anima ripropone in realtà
il dual-ismo galenico tra funzioni che si svolgono al di sotto e al di sopra
della rete mirabile, quasi posta, quest’ultima, a suggello visibile della
differenza che intercorre tra operazioni puramente mentali o psicichee ed
operazioni lato sensu “fisiologiche”. Il suo contributo è interessante, semmai,
dal punto di vista dell’interpretazione che egli fornisce agli esperimenti
galenici circa la legatura di nervi e vasi, come pure delle contro-prove
empiriche che adduce a sostegno della propria tesi. In effetti, in Capra è
soprattutto l’idea che il principio psichico, inteso quale principio basilare
della “vita”, debba avere un centro a tenere banco nella discussione,
discussione che pure non può fare a meno di costanti appelli agli Anatomici, e
quindi alla tradizione medica del proprio tempo. È comunque sullo stesso piano
– l’intepretazione di esperimenti che nel loro orizzonte osservativo si
coordinano tutti intorno alla lettura del De placitis Hippocratis et Platonis,
e quindi del Quod animi mores – che si muove anche la critica antigalenica
mossa da Telesio nel Quod animal universum. Con Aristotele vengono a
inaugurarsi nella storia del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una
notevole du revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di
normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle
scienze e delle pratiche professio nali che avevano fatto riferimento ai segni
e al sapere con getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di
usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il
V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti
medici, nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene
piegato alle esi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi
esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come
rileva Lanza, non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in
quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se e
rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e
della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelle
opere che trattano di argomento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond,
l'uso dei vari termini del lessico semiotico gnoseologico resta fluido e i
termini spesso vengono impie gati senza speciali sfumature di significato. Ciò
non con traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un
punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inaugurato una solida
tradizione, che continua nella trattati stica successiva, fin nella retorica
romana. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limiteranno a
intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche
nel vivo delle concezioni profonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo
infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere
ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La
conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro e un elemento
essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di
sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della
classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei
tipi di discorso proposta nella “Retorica,” Aristotele individua in primo luogo
due categorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (“theoros”) e
colui che decide (“krits”). Il primo agisce nella dimensione del presente ed è
il tipo di pubblico che assiste al discorso epidittico o celebrativo. Il
secondo, invece, può agire nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli
altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passato. Il
membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro. Come osserva giustamente Lanza,
la classificazione è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro
l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di
discorso con le tre dimensioni del tempo che fin dall'epoca d’Omero appaiono
associate agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. Altro
fatto importante inaugurato dalla riflessione aristotelica è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguaggio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta
sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché in alcune teorie
semiologiche è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio
verbale sono dei "segni". Anzi, secondo un certo strutturalismo, questi
termini del linguaggio sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi
coloro che sono arrivati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il
modello anche per gl’altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gl’elementi
su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di “simbolo”,
mentre gl’altri elementi di una teoria del segno vengono denominati semeia o
tekmiria. La teoria del segno propriamente detto è articolata alla teoria del
sillogismo e riveste un interesse sia logico sia epistemologico. Il segno è,
infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della conoscenza.
Il “simbolo” linguistico è connesso principalmente al problema dei rapporti
che si instaurano tra una espressione linguistica, una astrazione concettuali ed
uno stato del mondo. È nel “De interpretatione” che Aristotele espone la sua
teo ria del *simbolo* linguistico, articolandola secondo uno schema a tre
termini. Un suono della voce e un "simbolo" di una affezione
dell'anima, la quale, a loro volta, e l’immagine di una cosa esterna. Ordunque,
i suoni della voce, “tà en tii phoniz,” sono simboli (symbola) delle affezioni
che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte
(graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo, poi, che le
lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i medesimi;
tuttavia, suono e lettera risulta segno (semeion), anzi tutto, delle affezioni
dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono l’immagine (homoi 6mata)
di una cosa (pragma), già identici per tutti. (Arist., De int.) Bisogna
innanzitutto dire che il fatto di incontrare il termine “semeion” come
apparente sinonimo di “simbolo” non significa affatto che le due espressioni sono
intercambiabili. In questo passo Aristotele usa il termine “semeion” in
un'accezione debole (disimplicata), che ci conferma appunto la tendenza a un “uso
sfumato” di una espressione del lessico semiotico, quando non e in questione la
costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. Qui Aristotele usa “semeion”
per dire che l'esistenza di un suono (o di una lettera) può essere considerata
come un indizio dell’esistenza parallela di una affezione dell'anima. A ogni
modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo
semiotico di questo tipo. Affezione dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil).
Penstero (nomat8) -- rapporto o rappresentazione convenzionale o
arbitrario – versus motivato o iconico rapporto o rappresentazione ( sn ti phntl (prSgmsta) suono della voce –
cosa estrena. Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di
termini appartenenti alla triade. Tra un suono (“Ouch!”) e uno stato d'animo
c'è un rapporto o rappresentazione finalmente immotivato e convenzionale o
arbitrario. Uno stato d'animo (dolore) e identico, secondo Aristotele, per
tutti gl’uomini. Ma essi vengono espressi in maniera diversa a seconda delle
varie lingue e culture (“Ouch” e volgare a Buckingham), esattamente come avviene
per le forme scritte. Invece tra gli stati d'animo e la cosa esterna c'è un rapporto
o rappresentazione causale percettiva di motivazione iconica, che appare
addirittura iconico. Il primo e l’immagine del secondo. Bisogna precisare che e
scorretto identificare in maniera diretta la tesi dell’arbietrarieta o convenzionalità degli elementi del linguaggio,
cui adere Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà del segno linguistico
sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto
arbitrario tra due entità strettamente interne al linguaggio: il significante –
segnante -- e il significato – segnato -- sono le due facce del segno, in
quanto unità linguistica. In Aristotele, troviamo invece un rapporto convenzionale
tra *elementi* del linguaggio (il nome, il verbo, il 1ogos) ed elementi che
propriamente non appartengono al linguaggio, in quanto sono entità *psichiche*
(l’immagine acustica o percettiva di Saussure). Si deve inoltre rilevare che
la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di
prevalente interesse logico, quali il “De interpretatione”, ma continua anche
nei testi di interesse estetico. In questi ultimi, dove prevale la funzione
poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte
attenuato (Belardi). Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presenta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressione tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte diverse. Cesare sostiene che Aristotele attribuisce all’espressione
(“ton en ho phono”) lo stesso valore che Saussure dà al termine
"significante" quando spiega la natura del segno linguistico.
Belardi, invece, sostenne che tà en tii phonii si rifere non ai significanti,
ma all’espressione linguistica intesa nella loro forma compiuta di 6no ma
(nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione
– Fido is shaggy) e apophasis (negazione – Fido is not shaggy). Le ragioni di
questa scelta si basano sul fatto che questi elementi, facenti parte del
programma di analisi di Aristotele, vengono definiti "simboli" delle
affezioni dell'anima nell’Analytica Priora. Ora è indubbio che Aristotele
intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea
molto chiaramente la veste fonica e il carattere di "significante".
Tuttavia si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristotele, almeno
nell’ “Organon”, guarda ai fatti di linguaggio sembra diversa da quella
saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e la
garanzia dell’'uso del linguaggio nell’analisi della realtà. Tale garanzia sembra
esserci quando si dia una reciprocabilità tra i due ambiti del linguaggio e
del reale. Ora, posto che, per Aristotele, la simbolicità del linguaggio nei
confronti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per
un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del
triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De
interpretatione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore.
Da qui deriva l'uso della nozione di “simbolon”, che Aristotele riprende da
una tradizione risalente fino a Democrito (D-K). Le ragioni che permettono la
specializzazione del termine “simbolo” per indicare una espressione linguistica
convenzionale sono connesse alla sua etimoogia. “Simbolo” indica ciascuna delle
due metà in cui viene spezzato un oggetto -- a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta -- in maniera intenzionale, affinché possano servire, in
un momento successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa
cosa (Belardi, Eco). Il fatto che le due metà riescano a combaciare
perfettamente viene a indicare la presenza di un rapporto precedentemente
istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la
cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola.
Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti
può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di
prova. Così dal momento che ciascuna parte presuppone – o implica, come per
consequenza logica -- l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corrispondenza,
“simbolo” viene ad acquisire il significato di "ciò che sta per
qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria
linguistica aristotelica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure
indica uno "stare per") induce a indagare su una
possibile specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca
so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione)
non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo,
senza che necessaria mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo,
invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili. Non è un caso che symbolon
sia attestato per indicare "ricevuta", talvolta redatta in duplice
copia. Le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto
etimologico è presente nell’uso che in particolare Aristotele fa
dell'espressione sjmbolon nel De interpretatione. Un nome (‘Shaggy’) e un
simbolo di uno stato d'animo (percezione di una cosa come ‘shaggy’) in tanto
che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro
e una perfetta intercambiabilità, che garantisce la correttezza del nome
stesso (‘shaggy’ =df. hairy-coated, Belardi In quanto sjmbolon, il nome non è
più deoma ("rivela zione"), come lo era per Platone. In Aristotele
il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phone semantika
katà suntheke) (De int.). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava
un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla
più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le
espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non
percepibile (l'essenza del l'oggetto o la dunamis), per Aristotele esse sono
simboli che stabiliscono finalmente di modo convenzionale o arbitrario una pura
relazione di equivalenza tr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio ne
che l'un termine "riveli" l'altro. Del resto, l'opposizione
convenzionalel/naturale permette di distinguere anche tra il linguaggio umano
e i suoni emessi dagli animali -- questi ultimi essendo, per altro, ugualmente
vocali e interpretabili. Già la nozione, se non di suono, ma di
"voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De
anima” si dice che un suono e definito una "voce" quando e emesso dalla
bocca (con lingua) di un essere animato (II.); ed e dotato di significato
(smantikos) (Il.). Ora, i suoni emessi dagli animali, per quanto definiti
ps6phoi (''rumori"), hanno tutta via le due precedenti caratteristiche.
Ciò che li distingue dalla voce emesse dagl’uomini sono due fattori. Non e una
voce convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma e
involuntario, meramente causato "per na tura" (De int.). E la voce e
agrammata, cioè "inarticolabili" o "non combinabili"
(Pot.). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue è al centro stesso del carattere di semanticità del
linguaggio umano. Una voce o suono semplice (adiafretos, "invisibile")
puo articolarsi per il primo grado in una unità più grande dotata di
significato. Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili (‘miao’
‘read chimp lit.’) , ma non combinabile (Pot.). Si possono illustrare
riassuntivamente i caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai
suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano -
per convenzione - elemento indivisibile combinabile e elemento divisibile -
lettera - elemento dotato di significato - simbolo – nome – nome aggettivo
(shaggy) – suono e voce degli animali - per natura – causato fisicamente –
involuntario – istinto – risponsa allo stimolo --- elemento indivisibile non
combinabile - non lettera - elemento che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non
simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni
emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivelano", De int.),
-- “manifestare” in Witters -- fatto che conferma l'idea che per Aristotele,
quando non sia in gioco la convenzione o finalmente l’aribitrario, come nel
caso del linguaggio o il suono o la voce di un animale non umano, torna di
nuovo in primo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono o la
voce di un animale – un ‘pirot’ – e un sintoma che rivela la loro causa fisica.
We must know the character, age, sect, nation, and
other peculiarities of the writer. Every human being has a character- a
cer possessed their minds that they became mere automata in his hands, and
pour out words and thoughts as they are poured in, like so many water-pipes of
a cistern, betrays profound ignorance of the subject. Some such crude fancy was
entertained in former times, and is probably not extinct. It doubtless
originates in a vague notion, that the more entirely human agency is excluded
from the doctrine of inspiration, the higher honour was bestowed on the divine spirit.
And the etymology of the word “inspiration” has also its effect. It originally
and properly signifies, a breathing in, and suggests the dark and mysterious
conception of an effect produced on the thinking substance of a man , not
unlike the inflation of a bladder. But inspiration has nothing in common with
its etymology. Inspiration simply expresses the idea of super-natural
assistance and guidance in the communication to mankind of a truth previousl unknown.
He who is honoured “magnam cui mentem animumque, Delius inspirat vates” with it, is enabled to speak, act, and write,
as a divine messengers, in perfect conformity with the will of Giove who sent him;
so that nothing proceeds from him, but what is holy and true. Yet he is no
puppet, acted on by a physical and compelling force from without. He is a
living, personal agent – like Madame Arcati --, in full possession of all the
faculties with which he has been endowed by his creator: with perception,
memory, consciousness,will. And the energy of the Holy Ghost wrought no greater
violence on his mind in the exercise of these powers, than is wrought by his
ordinary operation on the hearts of believers in the Roman cult. It is not our
business to give the philosophy of this “ pre-established harmony” between
agencies so different, nor to speculate on the mode in which they were combined
for the production of a single result. As interpreters, we state the fact – not
explain it. And the fact certainly is, that no men are more distinguished from
each other by strong mental idiosyncrasies, nor any who give more decided evidence,
that their own spirits performed an important office in composition. In the author
of the book of Proverbs, we see before us the grave, sententious, dignified
monarch, whose profound knowledge of human nature, and sparkling gems of wisdom,
made his name celebrated throughout the East. Amos is always the strong, bold ,but
somewhat unpolished herdsman of Tekoah. The rough and vehement Ezekiel, standing
with dishevelled hair and rolling eye, in the midst of his fantastic but
expressive symbols, never suffers us to mistake him for Isaiah, the sublime, imaginative,
tasteful courtier of Hezekiah. The same with the plaintive, tender Jeremiah -
the contemplative John the argumentative, glowing PAUL. It is an old, but, with
proper explanation, perfectly true remark, originally made by Jerome, that
revelation consists in thought, not in words or external dress – “nec putemus
in verbis scripturam evangelii esse, sed in sensu.” We insult the Holy Ghost by supposing him unable
to accommodate himself to the mode of thinking and phraseology of those whom he
honoured with his influence — that when he " When we read the Epistle
to the Romans therefore, we must remember that we are conversing with a
finished gentleman of the old school; a scholar brought up at the feet of
Gamaliel, a powerful but rapid reasoner, delighting in ellipses, digressions, repetitions,
bold figures, and pregnant expressions, suggesting more than meets the ear -
fond of illustrating his subject by Old Testament ideas, even when he intends
making no use of them in argument; and above all, that we are conversing with
him, who, more than any other apostle, is deeply penetrated with the glorious
catholicity and abounding grace of the gospel! In reading James, we must think
of the stern, high-souled moralist, in whom the ethical element of Christianity
seems to have taken the deepest root; who,while with adoring faith he beheld
“the Lamb slain from the foundation of the world ,” never lost froin his view
the awful form of that “ eternal law,” which spoke in thunder from Sinai, and
yet speaks in milder tones, though with made the prophet he was forced to
unmake the man the same commanding authority, to every child of Adam. John, in his
writings ,seems to be still clinging to his master's bosom. Love to the person
of his Redeemer is evidently his engrossing sentiment. No one can doubt, apart
from every argument contained in other parts of Scripture, that John believed him
to be divine. His glory as the uncreated Logos — that glory which he had with the
Father before the world was, a few scattered rays of which had been seen
through the veil of his humiliation, is the great thought with which his soul holds
constant communion, raised above every other object — likethe eagle calmly
reposing in mid heaven, and gazing at the sun! He who gives no attention to
these things, and does not take pains to catch the distinctive peculiarities of
the sacred writers, commits the same kind of blunder with that of the man who reads
Milton's Paradise Lost, and Addison's Essays in the Spectator, yet sees no
difference between them except in the length of the lines. It is important also
to note the different kinds of composition they employed. Some were poets,
and must be interpreted according to the laws of poetry. Their bold tropes must
not be turned into sober matter-of-fact realities; as is done by the
Millenarians who read Isaiah nearly as they would Blackstone's Commentaries, or
the British Constitution. Ezekiel is not Luke, nor is Matthew the publican,
David, singing one of the sweet odes of Zion to the music of his harp.
Historians are to be treated as historians, not as poets or rhetoricians. The
accounts of miracles given in our four gospels must therefore be taken to the
letter. No books in the world bear more decided evidence that their authors
intended to give simple and perspicuous narratives of events as they actually
occurred. The principle must not be tolerated for a moment, of explaining them
away, by doing violence to the plain meaning of language, and to all the laws
which are applied to other historical compositions. Yet it has been sanctioned
by great names, especially in Germany. Grave divines are found, who insist that
there is not one miracle in the gospels. The events which SEEM miraculous are
entirely natural, but exaggerated and embellished by the warm fancies of the
people among whom they occurred. Only strip, they say, the Evangelists of this
semi-poetic drapery, and the business of exposition will go on delightfully.
Moses fares, if possible, still worse. They turn him into an allegorist or reciter
of mythological fables. The first ten chapters of “Genesis” contain about as
large a body of real truth, as can pass with out inconvenience through the eye
of a needle being made up of old stories and scraps a — of song, which mean
nothing, or anything, that a lively fancy may suggest. i authors are conceited
sciolists, who, pranking Let not the Christian student take great pains to
refute this wretched infidelity, which does not openly avow itself infidel,
merely because its advocates earn their bread by a profession of Christianity; the
most of them being either professors of Christian theology or pastors of
Christian churches. In dignandum deisto; nondisputandum est. Such interpretations
do not deserve the name. They are feats of jugglery and legerdemain; and
their In expounding Scripture, let there be a constant appeal to
the tribunal of common sense. Language is not the invention of metaphysicians, or
convocations of the wise and learned. It is the common blessing of mankind, framed
for their mutual advantage in their intercourse with each other. Its laws therefore
are popular, not philosophical- being founded on the general laws of thought
which govern the whole mass of mind in the community. Now, however men may
differ from each other, themselves as the high-priests of philosophy,
prove by their irreverence for things sacred, that they have not reached the
portico of her temple. The true philosopher always trembles when he stands, or
even suspects that he stands, in the presence of God! He can not trifle with
such a book as the Bible! H e cannot sport with a volume, the falsehood of
which, if proved, turns him over to the beasts, and deprives him of his last
stake as a candidate for the glories of immortality. Marcello Capra.
Keywords: del corpo animato, animo, spirito, l’immortalita dell’animo, l’immortalita
dello spirito, incorporeita dell’animo, incorporeita dello spirito, Method in
philosophical psychology, psychic versus psychological, functionalism,
manifestation displayed, revealed, semiotics aristotele in behaviour –
body/soul – corpore animo – hylemorphismo, forma e materia, una forma, una
materia, due materie, una forma, realisabilita multiple, semiotica di
aristotele, il comportamento che rivela l’animo, il comportamento che e simbolo
dell’animo, differenza tra Platone ed Aristotele, il concetto chiave
naturalista di ‘rivelazione’, manifest, delouse. life, soul – Aristotle on soul and life –
zoon, vita, anima – Galeno poli-centrismo – Aristotle monism, dualismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Capra” – The
Swimming-Pool Library. Capra.
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