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Tuesday, December 24, 2024

GRICE E REALE

 

Grice e Reale: la ragione conversazionale del capretto di Kant --  erote demone mediatore, o del gioco delle maschere nel convito – filosofia italiana – Luigi Speranza (Candia Lomellina). Filosofo italiano. Candia Lomellina, Pavia, Lombardia. Ho la ferma convinzione che l’ACCADEMIA e la più grande associazione o gruppo di gioco filosofico in assoluto comparso sulla terra, e che il compito di chi lo vuole comprendere e fare comprendere agl’altri, pur avvicinandosi sempre di più alla verità, non può mai avere fine. Studia a Casale Monferrato e Milano sotto OLGIATI. Insegna a Parma e Milano. Fonda il centro di ricerche di meta-fisica.  La sua tesi di fondo è che la filosofia antica dei romani crea quelle categorie e quel peculiare modo di pensare che hanno consentito la nascita e lo sviluppo della scienza e della tecnica dell'occidente.  I suoi interessi spaziano lungo tutto l'arco della filosofia romana antica e i suoi contributi di maggior rilievo hanno toccato via via APPIO, CICERONE, ANTONINO, Aristotele, Platone, Plotino, Socrate e Agostino. Studia ognuno di questi filosofi andando, in un certo senso, contro corrente e inaugurandone una lettura nuova.  La ri-lettura che da di Aristotele e del LIZIO in generale – tanto influente a Roma -- contesta l'interpretazione di Jaeger, secondo il quale i saggi del LIZIO seguirebbero positivisticamente un andamento storico-genetico che partirebbe dalla teo-logia, passerebbe per la meta-fisica, per approdare infine alla scienza. Reale sostenne invece la fondamentale unità del pensiero metafisico del LIZIO.  Ne “La filosofia antica”, mette in evidenza come la filosofia di Teofrasto nel LIZIO si diffuse per l'aspetto scientifico con un'ampiezza del tutto paragonabile a quella del maestro Aristotele, rivelando però uno scarso spessore nella speculazione filosofica. Da Stratone in poi, ciò provoca un ripiegamento della scuola del LIZIO verso l'ambito della fisica e delle scienze empiriche.  Per quel che riguarda L’ACCADEMIA, importando in Italia gli studi della scuola accademica di Tubinga, mette in crisi l'interpretazione romantica di Platone stesso, che risale a Schleiermacher, e rivalua il senso e la portata delle dottrine non scritte, vale a dire gli insegnamenti che gl’accademici hanno tenuto solo oralmente all'interno della villa al ginnasio dell’Accademia e che conosciamo dalle testimonianze dei discepoli. In questo senso, l’accademia risulterebbe essere il testimone e l'interprete più geniale di quel peculiare momento della civiltà che passa dalla cultura dell'oralità a quella della scrittura. Negli studi su Plotino, contesta la tesi di fondo di Zeller che vede nel grande accademico il principale teorico del pan-teismo e dell'immanentismo. Al contrario, R. ri-legge Plotino come il campione della trascendenza metafisica dell'uno.  L'interpretazione che ha dato di Socrate, analogamente, si propone di risolvere le aporie della cosiddetta questione socratica, entrata in un vicolo cieco dopo gli studi di Gigon, secondo cui di Socrate non possiamo sapere nulla con certezza. R. inaugura, invece, un nuovo modo di interpretare Socrate, non solo cercando di risolvere dall'interno le testimonianze contraddittorie degl’allievi, ma soprattutto guardando al contesto della filosofia italica prima di Socrate e dopo Socrate. In questo modo, balzerebbe agl’occhi la scoperta socratica del concetto di ‘animo’ (greco – animos) o anima come essenza e nucleo pensante dell'uomo. Socrate dice che il compito dell'uomo è la cura dell'anima o dell’animo: la psico-terapia, potremmo dire. Che poi oggi l'animo e interpretato in un altro ‘senso’, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non si pronuncial sull'immortalità dell'animo, perché non ha ancora gl’elementi per farlo, elementi che solo con emergeno coll’Accademia. Ma, nonostante ancora oggi si pensa che l'essenza dell'uomo sia l’animo. Molti, sbagliando, ritengono che l’animo e una creazione semitica: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il concetto di ‘animo’ e di immortalità dell'animo è contrario alla dottrina semitica che parla invece di risurrezione dei corpi degl’uomini. Che poi i primi filosofi della patristica utilizzano categorie della filosofia antica, e che quindi il suo apparato concettuale sia in parte basato sulla filosofia antica non deve far dimenticare che il concetto dell’animo è una concezione aria. L'Occidente viene da qui. Infine, per quanto riguarda all’africano Agostino,  tende a ricollocarlo  nel contesto dell’Accademia dell’antichità e quindi nel momento dell'impatto del dell’ebraismo con filosofia aria italica cercando di scrostarlo di tutte le successive interpretazioni dell'agostinismo medioevale. Ritiene, poi, che la cifra spirituale che caratterizza la filosofia d’Occidente sia costituita dalla filosofia italica. È stato infatti il logos a caratterizzare le due componenti essenziali della filosofia d’Occidentre e precisamente a fornire gli strumenti concettuali per elaborare l’ebraismo, dando luogo, così, a quella peculiare mentalità da cui sono scaturite la scienza e la tecnica. Ma se la cultura d’non si capisce senza la filosofia aria degl’italici, questa a sua volta non si capisce senza la meta-fisica come studio dei veliani dell’unità dell'essere. Il lavoro che svolge, studiando i filosofi italici – CROTONE, VELIA, GIRGENTI, ecc. -- vuole anche servire a un confronto fra la meta-fisica antica e quella moderna. La preferenza che accorda all’accademia dipende dal fatto che la scuola di Atene è, con la seconda navigazione di cui parla nel Fedone, la creatora di questa problematica. Si fa così porta-voce di un meditato ritorno alle radici della nostra cultura attraverso la riproposta dei classici filosofi italici. E in sintonia con la Scuola di Tubinga rinnova l'interpretazione, mettendo in luce la primaria importanza delle dottrine non scritte di cui riferiscono gli allievi del fondatore stesso dell’Accademia -- Aristotele  del Lizio in primis. In “Per una interpretazione dell’Accademia” fa affiorare l'immagine di una accademia diversa, una accademia orale e in certo senso dogmatica. Del resto, non è forse l’accademia stessa (ad esempio, nella Lettera VII) a garantirci che la sua filosofia dev'essere ricercata altrove rispetto agli scritti? Lo stesso corpus degli scritti dell’accademia, giuntoci nella sua interezza (circostanza, questa, unica nella storiografia della filosofia antica), non presenta, invero, quell'unità sistematica che ci si dovrebbe attendere, il che, ancora una volta, depone a favore della tesi secondo cui l’accademia cerca altrove, e precisamente nelle dottrine non scritte. Studia anche la metafisica del Lizio, smaschererebbe la tesi fatta valere da Jaeger, secondo cui l'opera non presenta un'unitarietà ma sarebbe piuttosto una sorta di zibaldone filosofico -- e, in particolare, il libro XII risalir ebbein forza del suo spiccato interesse teologico alla didattica del Lizio. Lungi dal risolversi in un coacervo di scritti risalenti a differenti epoche e contesti, la Meta-fisica del Lizio rileva R. è profondamente unitaria. Al centro c'è la definizione della meta-fisica come scienza della causa e del principio, dell'essere in quanto tale, della sostanza, dei dei e della verità. In “La saggezza antica”, R. sostiene che tutti i mali di cui soffre l'uomo d'oggi hanno proprio nel nichilismo la loro radice e che un'energico questi mali implicano il loro sradicamento, ossia la vittoria sul nichilismo, mediante il recupero di un ideale e di un valore supremo, e il superamento dell'a-teismo. Ma quello che egli propone non è affatto un ritorno a-critico a certe idee della antica filosofia italica, ma l'assimilazione e la fruizione di alcuni messaggi della saggezza antica, che, se ben recepiti e meditati, possono, se non guarire, almeno lenire i mali degl’uomini, corrodendo le radici da cui derivano. In una siffatta prospettiva, può acquistare un valore eminentemente filosofico anche la filosofia in lingua latina in Seneca, a suo parere ingiustamente trascurato da una lunga tradizione che non gl’ha riconosciuto alcuna cittadinanza filosofica, per il fatto di non avere nato romano. In “La terapia dell'anima” (Bompiani, Milano) riprende, ancora una volta, l'idea che la filosofia degl’antichi in questo caso, quella di Seneca puo costituire un farmaco per l'animo dilaniato degl’uomini. Oltre al campo specifico della filosofia antica, si occupa a vario titolo anche della storia della filosofia posteriore. Per esempio, nella stesura del noto “Manuale di filosofia” per i licei edito dalla scuola oltre alla direzione delle collane filosofiche classici della filosofia, Testi a fronte della Bompiani e I filosofi per Laterza.  Oltre a questo, i suoi principali scritti sono: “ Il concetto di filosofia prima e l'unità della Meta-fisica del LIZIO” (Vita e Pensiero, Milano); “Il Lizio” (Laterza, Bari); Storia della filosofia antica (Vita e Pensiero, Milano); “Il pensiero occidentale dalle origini (Scuola, Brescia); Per una nuova interpretazione dell’Accademia” (CUSL, Milano); “Proclo” Laterza, Bari); “Filosofia antica” (Jaca, Milano); “Saggezza antica” (Cortina, Milano); “Eros demone mediatore. Il gioco delle maschere nel "Simposio" dell’Accademia” (Rizzoli, Milano); “L’accademia: alla ricerca della sapienza segreta” (Rizzoli, Milano, Bompiani, Milano, La nave di Teseo, Milano); “La Meta-fisica del Lizio” (Laterza, Bari); Raffaello: La "Disputa", Rusconi, Milano); “Corpo, anima e salute: il concetto di uomo" (Collana Scienza e Idee, Cortina, Milano) – cf. Grice, ‘urina sana, corpo sano, medicina sana – scremento sano -- “Socrate. Alla scoperta della sapienza umana” (Rizzoli, Milano); “La filosofia antica” (Vita e Pensiero, Milano); ““Radici culturali e spirituali dell'Europa” (Cortina, Milano); “Storia della filosofia romana” (Bompiani, Milano, Collana Il pensiero occidentale, Bompiani); “Valori dimenticati dell'Occidente” (Bompiani, Milano); “ L'arte di Muti e la Musa accademica” (Bompiani, Milano); “Agostino” (Bompiani, Milano); “Wojtyla: un pellegrino dell'assoluto” (Bompiani, Milano); “Auto-testimonianze e rimandi dei Dialoghi dell’Accademia alle dottrine non scritte" (Bompiani, Milano); “Storia della filosofia” (Scuola, Brescia); “Salvare la scuola nell'era digitale” (Brescia, Scuola); “Responsabilità della vita: un confronto fra un credente e un non credente” (Milano, Bompiani); “Mi sono innamorato della filosofia” (Milano, Bompiani); “Romanino e la «Sistina dei poveri» a Pisogne” (Milano, Bompiani); “Filosofia” (Scuola, Brescia); Introduzione, traduzione e commentario della Meta-fisica del Lizio, su archive. Bompiani, Traduzioni e commenti R. ha tradotto e commentato molte opere dell’Accademia, del Lizio e dell’Accademia romana -- la sua nuova edizione delle Enneadi è stata pubblicata  nella collana "I Meridiani" della Mondadori. Pubblica per Bompiani il poderoso volume I presocratici, da lui presentato come la prima traduzione integrale. Nonostante in Italia ne è già uscita una traduzione da Giannantoni edita da Laterza. Sostene la presenza di lacune e manomissioni nel Giannantoni, lacune e manomissioni che sarebbero dovute, a parere di R., all'ossequio all'ideologia e all'egemonia culturale marxista, secondo cui in quel periodo gl’intellettuali di area comunista dominano la scena in campo editoriale. CANFORA, in risposta alle accuse di R., sostene la natura pubblicitaria e l'inconsistenza del ragionamento. Si sostene che, se influenza c'è stata nel Giannantoni, essa è stata di matrice idealistica, hegeliana e crociana – CROCE (si veda). Qualsiasi omissione è da evitare, specie se non è segnalata nel testo. Con riguardo alla presunta irrilevanza di taluni tagli operati da Giannantoni sottolinea come i capretti a volte segnano la storia della filosofia più di alcuni filosofi e togliere questi animali dai frammenti, così come far sparire dei cavolfiori, si tasformarsi in una censura. Di Seneca, cura le opere in "Seneca. Tutti gli scritti". Interprete dell’Accademia, La Stampa, Ripensando l’Accademia e l’accademicismo” (Milano, Vita e Pensiero). Dimostra la profonda unità concettuale di questi saggi di filosofia prima, mettendo in luce come Jaeger e condizionato dal positivismo e dalla teoria dell'evoluzione della cultura secondo le tre tappe di teologia-metafisica-scienza. Il concetto di filosofia prima e l'unità della "Meta-fisica" di Aristotele” (Milano, Bompiani); Storia della filosofia antica. La fondazione della botanica e il suo guadagno essenziale. Verso una nuova immagine dell’accademia, Milano, Vita e Pensiero, Cfr., in particolare, Il paradigma romantico nell'interpretazione dell’accademia, di Krämer, Napoli,  La filosofia antica, Milano,  Jaca. Ha ragione, bisogna imparare ad accettare la morte, Corriere della Sera.  Il concetto di filosofia prima (cf. Grice) e l'unità della meta-fisica di Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, La filosofia di Seneca come terapia dei mali dell'anima, Milano, Bompiani, In memoriam. Pur riconoscendo a Giannantoni una statura di studioso di prim'ordine, sostiene che molti marxisti non presentano talune cose nella loro effettiva realtà. Pur non potendosi parlare di complotto, nel testo di Laterza curato da Giannantoni mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale italiana decine e decine di passi che elenco in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei veliani e crotonensi. Ci sono inoltre indebite aggiunte assenti nell'originale. Una raccolta di tal fatta, nata assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure molte note di queste ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti filosofi. Svuotare, ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero confronto. Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Naturalmente, sul piano pubblicitario, si comprende la auto-esaltazione. La mia traduzione è più completa della tua, come il mio bucato è più bianco del tuo. Ma anche la pubblicità bisogna saperla fare. Ci sono lauree brevi da poco istituite in proposito. Particolarmente inconsistente appare il ragionamento. Eccolo nella sintesi fornita dal suo intervistator.  Giannantoni e molto bravo, e questo lo sapevamo anche senza il supporto di R., Laterza è innocente del sopra menzionato reato ideologico. La colpa è della penetrazione comunista. Sembra quasi di sognare. Ma questa è la caricatura dell'antica cantilena sui comunisti padroni dell'editoria italiana. Per confutare questa sciocchezza BOBBIO si limita a trascrivere i titoli del catalogo Einaudi. E infatti come negare l'affiliazione bolscevica di BOBBIO? Che pena. Si fa riferimento all'osservazione secondo la quale le omissioni di Giannantoni riguardano aspetti poco rilevanti per un marxista come il frammento di Orfeo -- un mal-ridotto frustulo papiraceo in cui si fa cenno ad un rituale misterico. Queste, e consimili, sono le omissioni rimproverate dal neo-presocratico R. Sembra del tutto irrilevante sapere se Kant, quando scrive la Critica della ragion pratica, mangia capretto o una particolare minestra. Alla storia della filosofia questo poco interessi. Ma sapere se un *orfico* o un crotonese mangia capretto è MOLTO significativo dal punto di vista filosofico. Se l’orfico crotonese s’astene, allora e vegetariano e, come tale, non ha condiviso la ritualistica italica in cui si consumeno le carni offerte ai dei e si lasciano ai dei gl’aromi per segnare la distanza tra gl’uomini e i dei. In sostanza, l’orfico crotonese crede, evitando il capretto, in una filosofia in cui gl’uomini e i dei sono legati. Non è un capretto né una vacca quello che manca in Giannantoni. Mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale decine e decine di passi che elenco in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei Presocratici. Ci sono inoltre indebite aggiunte assenti nell'originale. Una raccolta di tal fatta, nata assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure molte note di queste ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti autori. Svuotare, ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero confronto. Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Laudatio. Radice, Tiengo, Seconda navigazione. Omaggio (Vita e Pensiero, Milano); Grampa, "Ritornare a Crotone: intervista a sulla sua «Storia della filosofia antica»", Vita e Pensiero. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La mia accademia bocciata. Il cattolico amico dell’accademia. Critico l’accademia di R. il marxismo non c'entra. La dittatura culturale del marxismo, in Corriere della Sera, Treccani Storia della filosofia antica. Dalle origini a Socrate. Ospitato su gianfranco bertagni. R. Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele. Storia della filosofia Come Filone e Antioco sono i più tipici rappresentanti dell’Eclettismo greco, così CICERONE è il più caratteristico rappresentante dell’Eclettismo romano. Antioco si colloca decisamente a destra di Filone, diremmo con  metafora moderna, mentre CICERONE prosegue piuttosto sulla linea  di Filone. Il primo elabora un Eclettismo decisamente dogmatico, il secondo un Eclettismo cautamente e moderatamente scetticheggiante.   Non c’è peraltro dubbio che, dal punto di vista speculativo, CICERONE resti al di sotto sia dell’uno che dell’altro, non presentando  alcuna novità che sia paragonabile alle formulazioni del probabilismo  positivo del primo o alla sagace critica antiscettica del secondo.   Se, in sede di storia della filosofia greca e romana, ci occupiamo di  Cicerone è soprattutto per motivi culturali più che speculativi.    ! Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino. Si accostò fin da giovane alla filo-  sofia, che coltivò con interesse e costanza. Tuttavia l’amore della filosofia fu lungi  dall’assorbire per intero tutte le energie e gli interessi di Cicerone. Egli, infatti, si sentì  prevalentemente portato alla vita pubblica, alla vita forense e alla vita politica. Perciò  la sua scelta di fondo fu per la retorica, ossia per l’oratoria. La sua carriera oratoria  inizia pronto; e inizia la sua attività politica, con la sua elezione a questore. Da allora in poi Cicerone legò spesso il suo nome a clamorosi processi e a  importanti avvenimenti politici. Morì ucciso dai soldati di Marc’Antonio.  Dei suoi maestri di filosofia abbiamo già detto, e diremo ancora nel testo. I numerosi saggi di filosofia di Cicerone pervenuteci furono da lui scritti nell’ultimo periodo  della sua vita: i Paradoxa Stoicorum; gli Academzica, due dialoghi  intitolati a Catullo e a Lucullo, di cui fece una seconda redazione, in cui comparivano come interlocutori Attico e Varrone (degli Acaderzica priora ci è rimasto il libro  II Lucullus, degli Academica posteriora il libro I e frammenti); il De  finibus bonorum et malorum. Sono pubblicate le Tusculanae disputationes, il  De natura deorum e il De offictis. A queste opere vanno inoltre aggiunte: il De fato, il  De divinatione, il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Da ricordare, infine,  sono le opere politiche De re publica e De legibus. Del De re publica ci sono giunti i  primi due libri, non completi, frammenti del III, del, IV, del V e gran parte del libro  VI, che già nell’antichità ha vita autonoma col titolo Sognum Scipionis. Diamo  dettagliate indicazioni in Schedario, s.v. Per i rapporti fra Cicerone e Platone, cfr.  l’eccellente raccolta di testi in Dòrrie, Bausteine. In primo luogo, Cicerone offre, in certo senso, il più bel paradigma  di pensiero eclettico, che è come dire il più bel paradigma della più  povera delle filosofie, e, in certo senso, la più antispeculativa delle  speculazioni. In secondo luogo, Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più  vasto e il più cospicuo ponte attraverso il quale la filosofia greca si è  riversata nell’area della cultura romana e, poi, in tutto l'Occidente. E  anche questo è un merito non teoretico, ma di mediazione, di diffusio-  ne e di divulgazione culturale, e comunque di altissima classe. Ciò non toglie, però, che Cicerone abbia intuizioni felici e anche  acute su problemi particolari, specie su problemi morali. Il De officiis  è, probabilmente, la sua opera più vitale. Inoltre, presenta anche ana-  lisi penetranti. Tuttavia, si tratta di intuizioni e di analisi che si collocano — per così dire — a valle della filosofia; sui problemi speculativi che  stanno a monte egli ha poco da dire, come del resto in questo ambito  hanno poco da dire quasi tutti i rappresentanti della filosofia romana.  Già i maestri frequentati da Cicerone indicano chiaramente la ge-  ografia del suo pensiero. Da giovane udì l’epicureo Fedro e, più tardi,  anche Zenone epicureo; sentì anche le lezioni dello stoico Diodoto,  conobbe a fondo il pensiero di Panezio e allacciò stretti rapporti di  amicizia con Posidonio; fu influenzato da Filone di Larissa in modo  decisivo e, inoltre, udì per un certo tempo anche le lezioni di Antioco  di Ascalona.   Inoltre, lesse Platone, Senofonte, le opere pubblicate di Aristotele,  alcuni filosofi della vecchia Accademia e del Peripato, ma sempre con  i parametri della filosofia del suo tempo. Da tutti prese e in tutti cercò conferme su determinati problemi,  eccettuati forse i soli epicurei, coi quali polemizzò accesamente. Egli stesso si autodefinì espressamente come accademico, e  come accademico della corrente filoniana. Anche per lui, infatti, la  probabilità positiva è alla base della filosofia. Nell’operare la fusione eclettica delle varie correnti, dunque, Cicerone non diede contributi essenziali, perché tale fusione era già stata  operata dai maestri che egli aveva udito. Cicerone si limitò a ripropor-  la in termini latini e ad amplificarla non qualitativamente — giacché  questo non era possibile — ma quantitativamente. CICERONE respinge il tipo di eclettismo di Antioco e assume, invece, una  posizione simile a quella di Filone di Larissa: il dogmatismo eclettico d’Antioco gli sembrava alquanto incauto, mentre il «probabili-  smo» filoniano lo appagava pienamente.  Come avevano fatto molti dei nuovi Accademici, CICERONE adotta il  metodo della discussione del pro e del contro su ogni questione. Questo metodo gli offre grandi vantaggi: in primo luogo, gli offre la possibilità di far conoscere le varie  posizioni dei filosofi in materia, facendo largo sfoggio della sua erudizione; in secondo luogo, gli offre la possibilità di valutare la consistenza delle opposte tesi;  in terzo luogo, il raffronto di opposte idee gli offre la possibilità  di scegliere la soluzione più probabile; infine, da buon oratore e avvocato, trova che questo metodo  costituisce un perfetto esercizio di eloquenza.  Dunque, il raffronto non deve portare alla «sospensione del giudizio, bensì al ritrovamento del probabile e del verosimile e anche  all'esercizio retorico.  Ecco le precise parole del nostro filosofo che mettono bene a fuoco  questo punto. A me è sempre piaciuta la consuetudine dei Peripatetici e degli Accademici di discutere in ogni problema il pro e il contro: non soltanto  perché questo sistema è l’unico adatto per scoprire in ogni questione  l'elemento di verosimiglianza, ma anche per l'ottimo esercizio che ciò  costituisce per la parola. Ma il passo ci permette di fare anche un’altra riflessione.   Cicerone pone e risolve i problemi filosofici sempre in chiave prevalentemente culturalistica e mai direttamente, ossia in maniera puramente teoretica. Le questioni che egli imposta sono quelle che già altri  hanno sollevato, e anche le soluzioni che sceglie sono per lo più quelle  già proposte in tutto o in parte da altri.   E così si spiega perfettamente come il suo moderato scetticismo  — per sua stessa confessione — non derivi tanto dalle difficoltà che intrinsecamente sollevano i problemi della conoscenza e del criterio della verità (per esempio gli errori dei sensi, e simili), quanto dalle diffi- [Tusc. Disput., Dérrie; ed. Virginio.] coltà che scaturiscono dal dissenso circa le soluzioni di quei problemi  che sono state proposte dai vari filosofi.   Di conseguenza, risulta anche chiara la ragione per cui, da un lato  il «dissenso» dei filosofi sconcerti Cicerone, mentre dall’altro lo conforti in pari modo il «consenso», quando ci sia, al punto che egli non  esita a fare di tale consenso ur criterio di probabilità.   Il vero, dunque, è irraggiungibile, come prova il dissenso dei  filosofi; tuttavia restano il probabile e il verosimile, che sono se  non il vero stesso, ciò che tuttavia al vero più si avvicina. Dice Cicerone nel De natura deorum. Non siamo di quelli che negano in assoluto l’esistenza della verità. Ci limitiamo a sostenere che a ogni verità è unito qualcosa che vero  non è, ma tanto simile a essa che quest’ultima non può offrirci alcun  segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare il  nostro assenso. Ne deriva che ci sono delle conoscenze probabili le  quali, benché non possano essere compiutamente accertate, appaiono  così nobili ed elevate da poter fungere da guida per il saggio. Nel De officiis Cicerone ribadisce. Mi si chiede però, e proprio da uomini di lettere e colti, se io creda  di agire con sufficiente coerenza, quando, mentre osservo che nulla può  essere conosciuto con certezza, tuttavia e soglio disputare di altre que-  stioni e in questo stesso momento cerco di dare regole sul dovere. A costoro vorrei che fosse abbastanza noto il mio pensiero. Giacché io non  sono di quelli il cui animo vaga nell’incertezza e non ha mai un principio  da seguire. Quale sarebbe infatti la nostra mente, 0, piuttosto, la nostra  vita, quando fosse tolta ogni norma non solo di ragionare, ma anche  di vivere? Come gli altri affermano la certezza di alcune e l'incertezza di  altre cose, noi invece, dissentendo da loro, sosteniamo la probabilità di  alcune cose e l’improbabilità di altre. Che cosa, dunque, mi può impedi-  re di seguire ciò che mi sembra probabile e di disapprovare ciò che mi  sembra improbabile, e di fuggire così, evitando la presunzione di recise  affermazioni, la temerarietà, che è lontanissima dalla vera sapienza.  E a questo «probabile» si perviene non legandosi dogmaticamente  ad alcuna Scuola, ma restando liberi di scegliere ecletticamente ciò  che pare più verosimile. Nelle Tuscolazze leggiamo: De nat. deorum, ed. Pizzani; cfr. Acad. pr., De offictis, ed. Cataudella.  Esiste libertà di pensiero, e ognuno può sostenere ciò che gli pare;  per me, io mi atterrò al mio principio, e cercherò sempre in ogni que-  stione la probabilità massima, senza essere legato alle leggi di nessuna  scuola particolare che debba per forza seguire nella mia speculazione. Il probabilismo di Cicerone è, in tal modo, strutturalmente con-  giunto col suo «eclettismo»: l’uno sta a fondamento dell’altro e vice-  versa, e ambedue hanno radice, più che teoretica, culturale e storica,  come sopra dicevamo.   Questo ben spiega — tra l’altro — come, a seconda dei problemi  che Cicerone tratta, il probabile si assottigli fino a diventare dubbio,  oppure, per contro, si consolidi fino a diventare quasi certezza. Anche Cicerone, come tutti i filosofi  del suo tempo, ritiene che il compito precipuo della filosofia consista nello stabilire il «fine dell’uomo», e quindi la natura del sommo  bene, e che, per poter far questo, occorra stabilire quale sia il criterio  del vero:    Queste sono le questioni massime in filosofia: il criterio della verità  e il fine dei beni, né può essere sapiente chi ignori o il principio del  conoscere o il termine dell’appetizione, così da non sapere da dove si  debba partire o dove si debba arrivare. Iniziamo dall’esame del «criterio del vero», che è il punto di partenza. In primo luogo, CICERONE accoglie positivamente la testizzonianza dei sensi. Non l’accoglie a livello di certezza assoluta, ossia a livello di certezza tale da meritare l’assenso totale, ma 4 livello di probabilità (si  ricordino le posizioni di Filone e di Antioco). L'evidenza dei sensi e  dell’esperienza è, dunque, un primo criterio: chi nega queste evidenze, sovverte la possibilità stessa della vita.”   Un secondo criterio Cicerone lo trova nel «senso comune», nel  «consenso universale degli uomini» (nonché nel consenso dei dotti).  Egli usa anzi espressioni che riecheggiano una certa forma di «inna-  tismo», che si rifà, molto alla lontana, all’innatismo platonico e, più [Tusc. disp., Acad. pr. Cfr. Acad. Pr.] da vicino, alla dottrina della prolessi che — come abbiamo visto — è  comune sia al Giardino sia al Portico.   Così Cicerone — per limitarci all'ambito che maggiormente interessa — ammette non solo che la natura umana ci abbia dato serzina  innata delle virtù, cioè naturali disposizioni alla virtù, ma che abbia  altresì ingenerato size doctrina notitias parvas rerum maximarum, per  raggiungere le medesime virtù. Ed è precisamente questo generico innatismo la vera motivazione  che gli fa ritenere come probante il senso comune e il consenso di tutti  gli uomini.   Naturalmente, Cicerone non ci sa dire di più a questo proposito:  risale dal senso comune e dal consenso universale a nozioni da-  teci naturalmente, cioè innate, e con questo crede di aver raggiunto  un criterio dotato di evidenza tale da non aver bisogno di ulteriore  fondazione.  Per i problemi fisici — cioè per il grosso dei problemi  cosmo-ontologici che le filosofie ellenistiche includevano nella dottrina della NATVRA — Cicerone mostra pochissimo interesse. Ciò è ben  conforme al sentire squisitamente romano, il quale solo se vede una  precisa valenza pratica si interessa ai problemi speculativi. Naturalmente, egli fa eccezione per i problemi di Dio e dell’anima,  che sono strettamente legati all’etica, nel senso che condizionano, in  ultima analisi, il senso ultimo della medesima.   Per quanto concerne la soluzione dei problemi metafisici e ontolo-  gico-cosmologici egli nutre uno scetticismo molto più spinto che per  tutto il resto. Non li sa impostare e risolvere, soprattutto per il motivo  che non gli interessano esistenzialmente. Perciò gli è anche più como-  do affermare che sulla natura delle cose è molto più facile dire corze  non sia la verità che non come sia, e che tutto è circonfuso di tenebre  che non si possono squarciare:    Tutte queste cose ci restano nascoste, occultate e circonfuse di  dense tenebre, al punto che nessun acume di umano ingegno è così  grande, da saper penetrare nel cielo o entrare dentro la terra.!°    Tuttavia egli prudentemente non ritiene che siano da bandire del  tutto le questioni fisiche, perché la considerazione della natura è, in [Tusc. disput., De finibus, Acad. pr.] ogni caso, cibo e sostentamento della mente, forza che ci sorregge e  che ci porta in alto e, portandoci così in alto, ci permette di guardare  con nuova ottica le cose umane e quindi di ridimensionarle. Considerando le cose celesti e sublimi, si comprende come le cose terrestri  siano piccole e meschine. Senza contare, poi, la gioia spirituale che noi  proviamo allorché ci imbattiamo, se non nell’irraggiungibile vero, in  qualcosa di verosimile. Non penso che si debbano bandire queste questioni dei fisi-  ci. Infatti la considerazione e la contemplazione della natura è come  naturale pascolo degli animi e degli ingegni. Ci innalziamo, ci sembra  di diventare più grandi, disprezziamo le cose umane, e pensando alle  cose superiori e celesti, disprezziamo queste nostre come piccole e  vili. La stessa indagine di cose grandissime e occultissime ci dà dilet-  to. Se poi accade che qualcosa ci sembri verosimile, allora l’animo si  riempie di piacere umanissimo.!!    Come si vede, è sempre in chiave etica e antropologica che Cicerone affronta i problemi. Sull’esistenza del divino Cicerone non sembra nutrire dubbi. Il consenso di tutti i popoli è per lui la prova più solida:    Quanto all’esistenza degli dèi, la prova più solida che se ne possa  addurre è questa, a quel che pare: non c’è popolo, per quanto barba-  ro, non esiste uomo al mondo, per selvaggio che sia, che non abbia  nella mente almeno un’idea della divinità. Sugli dèi molti hanno delle  convinzioni errate, e questo fatto normalmente è dovuto all’influenza  corruttrice dell’abitudine: ma tutti quanti credono nell’esistenza di  una forza e di una natura divina, e questa convinzione non è effetto di  un precedente scambio di idee fra gli uomini e di un accordo generale,  né ha trovato appoggio in istituzioni o leggi: ora, in ogni questione, il  consenso dei popoli si deve considerare legge di natura.!    Analogamente, Cicerone non ha dubbi sulla Provvidenza: sia le  cose esterne dimostrano di essere state finalizzate in funzione dell’uo-  mo, sia la forma e la struttura dell’uomo stesso e dei suoi organi ricon-  fermano una organizzazione finalistica.   E dire organizzazione finalistica è dire Provvidenza. Acad. pr. Tusc. disput. Cfr. De nat. deor. Nulla ripugna a Cicerone più della concezione meccanicistica pro-  pria dell’atomismo epicureo: un casuale e meccanico accozzamento  delle lettere dell’alfabeto non potrà mai — dice sensatamente Cicerone  — generare gli Arzali di Ennio: Come non provare meraviglia, a questo punto, se qualcuno ritiene  che corpi solidi e invisibili siano trascinati dalla forza del loro peso  e che dalla loro fortuita unione sia derivato il mondo con tutti i suoi  splendori e le sue bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere una cosa  del genere non vedo perché non dovrebbe anche ritenere che, se si  raccogliessero da qualche parte in un numero molto elevato di esemplari le ventuno lettere dell’alfabeto foggiate in oro o in altro materiale  e le si gettassero a terra, dovrebbero ricostituirsi tutti gli Armati di ENNIO ormai pronti per la lettura: un risultato che il caso non riuscirebbe  forse a realizzare neppure limitatamente a un solo verso. Più incerto si mostra, invece, Cicerone quando deve prendere posizione circa la natura del divino.   Egli, in primo luogo, crede all’unità del divino. Ma come concepiremo, dal punto di vista ontologico, questo divino-uno? Chi fin qui ci ha seguito non può aver dubbi sul fatto che alla do-  manda non potremo avere se non risposte ambigue e oscillanti fra spi-  ritualismo e materialismo. E, questo, non già per ragioni contingenti,  ma per motivi strutturali. In effetti, o si recuperavano i risultati della seconda navigazione platonica e il senso del trascendente, oppure  le affermazioni sulla spiritualità del divino dovevano rimanere senza alcun  fondamento teoretico. Nelle Tuscolane leggiamo.  E il divino stesso, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere  concepita che come uno spirito indipendente, libero (vers soluta quaedam et libera), e privo di ogni elemento corruttibile: uno spirito che  tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di eterno movimento. Ma l’espressione «7ens soluta quaedam et libera» non ci deve trarre in inganno, perché questa z2ers soluta et libera non può essere pen-  sata da Cicerone in funzione della categoria del soprasensibile, tant'è  che egli finisce per accettare l’ipotesi stoica che si tratti di aria e fuoco,  oppure anche dell’aristotelico etere. De nat. deor., Tusc. disput. Analogamente CICERONE non dubita dell'immortalità  dell’anima, giacché è la natura stessa che ha posto in noi questa convinzione, tanto è vero che tutti si preoccupano di quello che sarà dopo  la morte.!8   Questo è per Cicerone il più valido argomento a favore dell’immortalità, anche se non esita a riprendere, di rincalzo, le tradizionali  prove di estrazione platonica.! L'anima è ciò che ci congiunge al divino  ed è quasi il punto di tangenza che l’uomo ha col divino. Niente di quello che sta sulla terra può spiegare l'origine dell’ani-  ma, perché in essa non c’è nulla che sia misto o composto, nulla che  si possa considerare derivato o formato dalla terra, nulla che abbia la  natura dell’acqua, dell’aria o del fuoco. In effetti, nella composizio-  ne di questi elementi, non rientra nulla che abbia la proprietà della  memoria, dell’intelligenza, del pensiero, che possa ritenere il passato, prevedere il futuro, abbracciare il presente: questi sono attributi  esclusivamente divini e non si potrà mai trovare per loro altra provenienza che non sia la divinità. L'anima, insomma, ha un’essenza e una  natura del tutto speciali, e ben distinte da quelle degli altri elementi  comuni e a noi noti. Pertanto, qualunque sia la natura di quell’entità  che sente, che conosce, che vive, che agisce, essa deve essere necessa-  riamente celeste e divina, e di conseguenza eterna. E la divinità stessa,  quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita che come  uno spirito indipendente, libero, e privo di ogni elemento corruttibile:  uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta dotato di  eterno movimento. Di questa specie e di questa medesima natura è  l’anima umana.?    Naturalmente, anche a proposito del problema della natura dell’a-  nima si notano le stesse incertezze e le stesse oscillazioni che abbiamo  notato a proposito del problema della natura del divino. E la radice di  queste incertezze è la medesima: la natura dell’anima è filosoficamente  determinabile solo in funzione della categoria del soprasensibile. Altrimenti si cade inesorabilmente nel materialismo.   E, infatti, poco prima del passo letto, Cicerone scrive:    E certo, se la divinità è aria o fuoco, come lei è fatta l’anima  dell’uomo: quella sostanza celeste non ha in sé né terra né liquido, e ! Cfr. Tusc. disput.] questi due elementi sono egualmente assenti dall'anima umana. Se poi  esiste una quinta essenza, quella introdotta da Aristotele, essa rientra  sia nella divinità sia nell’anima.?!    Ma aria, fuoco e la stessa quinta essenza sono, appunto, sempre e  solo materia. La parte della filosofia che di gran lunga più  interessa Cicerone è l’etica. E non è  quindi senza ragione che le sue due opere più vive siano quelle Suz  doveri e Sul fine dei beni e dei mali. Più che mai è vero per Cicerone che non la aristotelica pura attività  contemplativa, ma la attività pratica e sociale è regina. Ecco un passo  molto eloquente. Ritengo siano più conformi alla natura quei doveri che promanano  dal sentimento sociale, che non quelli che promanano dalla sapienza,  e questo può essere affermato dal seguente argomento, che, se a un  uomo sapiente toccasse una condizione di vita tale che, affluendo a lui  le ricchezze più varie, egli potesse dedicarsi in piena tranquillità allo  studio e alla contemplazione di tutte quelle cose che sono degne di  essere conosciute, tuttavia, se la solitudine fosse così grande che non  potesse vedere nessun uomo, egli preferirebbe morire. Infatti,  la conoscenza e la contemplazione (della natura) sarebbero in certo modo manchevoli e imperfette, se non dovesse seguir loro alcuna  attività concreta; e questa attività si manifesta specialmente nell’assicurare l’utilità degli uomini; riguarda, dunque, la società del genere  umano; perciò questa deve essere anteposta alla scienza. Ma, anche in questo ambito specifico, si cercano invano delle novità di fondo in Cicerone. Egli discute le etiche dei sistemi epicureo, stoico, accademico e peripatetico; respinge in blocco la morale epicurea e procede a eclettici  accomodamenti fra le altre. Da un lato, egli è portato ad ammirare soprattutto la morale stoica,  da un altro lato fa concessioni alla morale accademica e a quella peri-  patetica (che egli considera sostanzialmente identiche. Tusc. disput., De offictis, (nel passo omesso dopo i puntini Cicerone parla della  superiorità della sophia sulla phroresis, ma autocontraddicendosi in modo impressionante). Cicerone non può, infatti, accettare il principio stoico che solo il  sapiente è buono e tutti gli altri sono viziosi, perché — egli rileva — la  sapienza dello stoico sapiente è tale che alcun mortale ancora non ha  raggiunto, e perciò egli propone di considerare ciò che è nella con-  suetudine e nella vita comune, non quello che è nelle pure aspirazioni  e nei puri desideri. Anche per lui il principio fondamentale della morale è seguzre la  nostra natura individuale nel rispetto della generale natura umana. Questo richiamo alla natura dell’uomo, che è anima e corpo, permette a Cicerone di temperare la morale stoica e rivendicare anche  i diritti del corpo, giacché è necessario vivere biologicamente, ossia  soddisfare alle esigenze del corpo, proprio per poter ulteriormente  soddisfare alle esigenze della ragione. E, così, per questo aspetto, egli  si schiera dalla parte dei Peripatetici, come già Panezio e Posidonio  avevano in parte fatto. Ma poi torna agli Stoici nel riportare la virtù interamente alla ragione, dissentendo dalla tipica concezione aristotelica della virtù etica  come via di mezzo fra opposte passioni. E come gli Stoici, egli ritiene la virtù autosufficiente e bastevole  per la vita felice. E sembra allearsi con gli Stoici anche nel concepire il  saggio come privo di passioni e imperturbabile.   Infine, anche le rivendicazioni dell’umana libertà nell’opera Sul  Fato vanno ben poco oltre la pura affermazione di una libertà intuitivamente colta: i moti volontari dell’anima non hanno cause esterne  ma dipendono da noi, nel senso che ne è causa la natura stessa della  nostra anima. Quando Cicerone dai prin-  cìpi scende all’analisi dei doveri intermedi (quelli che gli Stoici chiamano kathekonta), allora mette in evidenza tutta la sua intelligenza  e assennatezza pratica. Ma qui siamo, ormai, non più nel campo della filosofia in senso  stretto, ma piuttosto in quello della fenomenologia morale. D'altra parte è inevitabile che tutte le notazioni e i rilievi originali  che si ritrovano in Cicerone nell’ambito delle analisi morali non va-  dano oltre il piano fenomenologico e restino teoreticamente in certo  senso un poco informi. De amicitia Cfr. De officiîs. Le ambigue risposte ai problemi ontologici e antropologici dell’eclettismo non gli permettono — proprio per ragioni strutturali — di  spingersi oltre. Come giustamente scrive Marchesi, Cicerone non da  nuove idee al mondo. Il suo mondo interiore è povero per la ragione che dà ricetto a tutte le voci.   Il suo contributo maggiore sta, dunque, nella fusione e divulgazio-  ne della cultura antica e, in questo ambito, egli è veramente una figura  essenziale nella storia spirituale dell'Occidente. Anche qui — è ancora  il Marchesi che scrive — si manifesta la forza divulgatrice e animatrice  dell’ingegno latino: perché nessun Greco sarebbe stato capace di diffondere, come ha fatto CICERONE, il pensiero greco per il mondo. La figura di uomo dalle conoscenze enciclopediche di Varrone. Uomo di vaste conoscenze filosofiche come Cicerone, e anche VARRONE (si veda). Egli fu propriamente un enciclopedico: già i suoi con-  temporanei lo giudicarono il più colto dei Romani. Più che di una filosofia di Varrone si può parlare di implicanze  filosofiche della sua cultura generale. Contrariamente a Cicerone, che come abbiamo visto segue Filone  di Larissa, egli si schiera dalla parte di Antioco, e gli resta in larga  misura fedele.   La sua concezione dell’anima come pneuma e del divino come  anima del mondo sono in perfetta sintonia appunto con l’ecletti-smo stoicizzante antiocheo.   E le sue idee morali non presentano novità di rilievo.   La dottrina filosofica per cui egli è più noto consiste nella distin-  zione delle tre forme di teologia (una distinzione che ha radici molto  antiche:  la teologia favolosa o mitica dei poeti;  la teologia naturale propria dei filosofi; la teologia civile, che si esprime nelle credenze e nei culti delle  Città. Marchesi, Storia della filosofia latina, Milano. Per uno sta-  to della questione, una dettagliata analisi del pensiero filosofico di Cicerone e per  aggiornamenti bibliografici, si veda l’opera citata supra, che contiene la trattazione del nostro autore a cura di Gawlick e Gòrler. E nato a Rieti] VARRONE È fuori dubbio che Varrone ritenesse la seconda forma di teologia  come la più vera. Tuttavia, Boyancé rileva quanto segue: «da tempo alcuni filosofi  si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle Città. Si  trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone aveva  un rispetto tutto romano di questa tradizione. L’erudito, in lui, rispettoso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fondare la verità dei filosofi. Tutto ciò non avveniva in Varrone senza  esitazioni, dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era  sostenuto dal fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue  conoscenze. Boyancé, Les implications philosophiques des recherches de Varron sur la re-  ligion bumaine, in «Atti del Congresso Internazionale degli Studi Varroniani», Rieti. Cfr. Schedario, s.0   Giovanni Reale. Reale. Keywords: Crotone, Velia, Crotonensi, la scuola di Crotone, la scuola di Velia, I veliani, Parmenide, Girgentu – filosofia siciliana – magna Grecia non e Sicilia --. I confine della magna Grecia – filosofia italica, filosofia italiana – la filosofia nella peninsula italiana in eta anticha – filosofia Latina, filosofia romana. Catalogo di Nome di Filosofi Italici, il poema di Parmenide, il poema di Girgentu, il poema di Velia, la porta rossa di Velia, Zenone di Velia, Filolao di Taranto, Gorgia di Lentini, Archita di Taranto, studi degl’antichi italici da I romani, Etruria e Magna Grecia, le radice etrusche della filosofia romana, fisiologia, teoria dela natura, uomo, la moralia, la colloquenza o dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Reale” – The Swimming-Pool Library.

 

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