Grice e Reale: la ragione conversazionale del capretto
di Kant -- erote demone mediatore, o del
gioco delle maschere nel convito – filosofia italiana – Luigi Speranza (Candia Lomellina). Filosofo italiano. Candia
Lomellina, Pavia, Lombardia. Ho la ferma convinzione che l’ACCADEMIA e la più
grande associazione o gruppo di gioco filosofico in assoluto comparso sulla
terra, e che il compito di chi lo vuole comprendere e fare comprendere agl’altri,
pur avvicinandosi sempre di più alla verità, non può mai avere fine. Studia a Casale
Monferrato e Milano sotto OLGIATI. Insegna a Parma e Milano. Fonda il centro di
ricerche di meta-fisica. La sua tesi di fondo è che la filosofia antica
dei romani crea quelle categorie e quel peculiare modo di pensare che hanno
consentito la nascita e lo sviluppo della scienza e della tecnica dell'occidente.
I suoi interessi spaziano lungo tutto l'arco della filosofia romana antica e i
suoi contributi di maggior rilievo hanno toccato via via APPIO, CICERONE,
ANTONINO, Aristotele, Platone, Plotino, Socrate e Agostino. Studia ognuno di
questi filosofi andando, in un certo senso, contro corrente e inaugurandone una
lettura nuova. La ri-lettura che da di Aristotele e del LIZIO in generale
– tanto influente a Roma -- contesta l'interpretazione di Jaeger, secondo il
quale i saggi del LIZIO seguirebbero positivisticamente un andamento
storico-genetico che partirebbe dalla teo-logia, passerebbe per la meta-fisica,
per approdare infine alla scienza. Reale sostenne invece la fondamentale unità
del pensiero metafisico del LIZIO. Ne “La filosofia antica”, mette in
evidenza come la filosofia di Teofrasto nel LIZIO si diffuse per l'aspetto
scientifico con un'ampiezza del tutto paragonabile a quella del maestro
Aristotele, rivelando però uno scarso spessore nella speculazione filosofica.
Da Stratone in poi, ciò provoca un ripiegamento della scuola del LIZIO verso
l'ambito della fisica e delle scienze empiriche. Per quel che riguarda
L’ACCADEMIA, importando in Italia gli studi della scuola accademica di Tubinga,
mette in crisi l'interpretazione romantica di Platone stesso, che risale a
Schleiermacher, e rivalua il senso e la portata delle dottrine non scritte, vale
a dire gli insegnamenti che gl’accademici hanno tenuto solo oralmente
all'interno della villa al ginnasio dell’Accademia e che conosciamo dalle
testimonianze dei discepoli. In questo senso, l’accademia risulterebbe essere
il testimone e l'interprete più geniale di quel peculiare momento della civiltà
che passa dalla cultura dell'oralità a quella della scrittura. Negli studi
su Plotino, contesta la tesi di fondo di Zeller che vede nel grande accademico il
principale teorico del pan-teismo e dell'immanentismo. Al contrario, R. ri-legge
Plotino come il campione della trascendenza metafisica dell'uno.
L'interpretazione che ha dato di Socrate, analogamente, si propone di risolvere
le aporie della cosiddetta questione socratica, entrata in un vicolo cieco dopo
gli studi di Gigon, secondo cui di Socrate non possiamo sapere nulla con
certezza. R. inaugura, invece, un nuovo modo di interpretare Socrate, non solo
cercando di risolvere dall'interno le testimonianze contraddittorie degl’allievi,
ma soprattutto guardando al contesto della filosofia italica prima di Socrate e
dopo Socrate. In questo modo, balzerebbe agl’occhi la scoperta socratica del
concetto di ‘animo’ (greco – animos) o anima come essenza e nucleo pensante
dell'uomo. Socrate dice che il compito dell'uomo è la cura dell'anima o
dell’animo: la psico-terapia, potremmo dire. Che poi oggi l'animo e interpretato
in un altro ‘senso’, questo è relativamente importante. Socrate per esempio non
si pronuncial sull'immortalità dell'animo, perché non ha ancora gl’elementi per
farlo, elementi che solo con emergeno coll’Accademia. Ma, nonostante ancora
oggi si pensa che l'essenza dell'uomo sia l’animo. Molti, sbagliando, ritengono
che l’animo e una creazione semitica: è sbagliatissimo. Per certi aspetti il
concetto di ‘animo’ e di immortalità dell'animo è contrario alla dottrina semitica
che parla invece di risurrezione dei corpi degl’uomini. Che poi i primi filosofi
della patristica utilizzano categorie della filosofia antica, e che quindi il
suo apparato concettuale sia in parte basato sulla filosofia antica non deve
far dimenticare che il concetto dell’animo è una concezione aria. L'Occidente
viene da qui. Infine, per quanto riguarda all’africano Agostino, tende a ricollocarlo nel contesto dell’Accademia dell’antichità e
quindi nel momento dell'impatto del dell’ebraismo con filosofia aria italica
cercando di scrostarlo di tutte le successive interpretazioni dell'agostinismo
medioevale. Ritiene, poi, che la cifra spirituale che caratterizza la
filosofia d’Occidente sia costituita dalla filosofia italica. È
stato infatti il logos a caratterizzare le due componenti essenziali della
filosofia d’Occidentre e precisamente a fornire gli strumenti concettuali per
elaborare l’ebraismo, dando luogo, così, a quella peculiare mentalità da cui
sono scaturite la scienza e la tecnica. Ma se la cultura d’non si capisce senza
la filosofia aria degl’italici, questa a sua volta non si capisce senza la meta-fisica
come studio dei veliani dell’unità dell'essere. Il lavoro che svolge, studiando
i filosofi italici – CROTONE, VELIA, GIRGENTI, ecc. -- vuole anche servire a un
confronto fra la meta-fisica antica e quella moderna. La preferenza che accorda
all’accademia dipende dal fatto che la scuola di Atene è, con la seconda
navigazione di cui parla nel Fedone, la creatora di questa problematica. Si
fa così porta-voce di un meditato ritorno alle radici della nostra cultura attraverso
la riproposta dei classici filosofi italici. E in sintonia con la Scuola di
Tubinga rinnova l'interpretazione, mettendo in luce la primaria importanza
delle dottrine non scritte di cui riferiscono gli allievi del fondatore stesso dell’Accademia
-- Aristotele del Lizio in primis. In
“Per una interpretazione dell’Accademia” fa affiorare l'immagine di una
accademia diversa, una accademia orale e in certo senso dogmatica. Del resto,
non è forse l’accademia stessa (ad esempio, nella Lettera VII) a garantirci che
la sua filosofia dev'essere ricercata altrove rispetto agli scritti? Lo stesso
corpus degli scritti dell’accademia, giuntoci nella sua interezza (circostanza,
questa, unica nella storiografia della filosofia antica), non presenta, invero,
quell'unità sistematica che ci si dovrebbe attendere, il che, ancora una volta,
depone a favore della tesi secondo cui l’accademia cerca altrove, e
precisamente nelle dottrine non scritte. Studia anche la metafisica del Lizio,
smaschererebbe la tesi fatta valere da Jaeger, secondo cui l'opera non presenta
un'unitarietà ma sarebbe piuttosto una sorta di zibaldone filosofico -- e, in
particolare, il libro XII risalir ebbein forza del suo spiccato interesse
teologico alla didattica del Lizio. Lungi dal risolversi in un coacervo di
scritti risalenti a differenti epoche e contesti, la Meta-fisica del Lizio rileva
R. è profondamente unitaria. Al centro c'è la definizione della meta-fisica
come scienza della causa e del principio, dell'essere in quanto tale, della
sostanza, dei dei e della verità. In “La saggezza antica”, R. sostiene che
tutti i mali di cui soffre l'uomo d'oggi hanno proprio nel nichilismo la loro
radice e che un'energico questi mali implicano il loro sradicamento, ossia la
vittoria sul nichilismo, mediante il recupero di un ideale e di un valore supremo,
e il superamento dell'a-teismo. Ma quello che egli propone non è affatto un
ritorno a-critico a certe idee della antica filosofia italica, ma
l'assimilazione e la fruizione di alcuni messaggi della saggezza antica, che,
se ben recepiti e meditati, possono, se non guarire, almeno lenire i mali degl’uomini,
corrodendo le radici da cui derivano. In una siffatta prospettiva, può
acquistare un valore eminentemente filosofico anche la filosofia in lingua latina
in Seneca, a suo parere ingiustamente trascurato da una lunga tradizione che
non gl’ha riconosciuto alcuna cittadinanza filosofica, per il fatto di non avere
nato romano. In “La terapia dell'anima” (Bompiani, Milano) riprende, ancora una
volta, l'idea che la filosofia degl’antichi in questo caso, quella di Seneca puo
costituire un farmaco per l'animo dilaniato degl’uomini. Oltre al campo
specifico della filosofia antica, si occupa a vario titolo anche della storia
della filosofia posteriore. Per esempio, nella stesura del noto “Manuale di
filosofia” per i licei edito dalla scuola oltre alla direzione delle collane
filosofiche classici della filosofia, Testi a fronte della Bompiani e I filosofi
per Laterza. Oltre a questo, i suoi principali scritti sono: “ Il
concetto di filosofia prima e l'unità della Meta-fisica del LIZIO” (Vita e
Pensiero, Milano); “Il Lizio” (Laterza, Bari); Storia della filosofia antica (Vita
e Pensiero, Milano); “Il pensiero occidentale dalle origini (Scuola, Brescia); Per
una nuova interpretazione dell’Accademia” (CUSL, Milano); “Proclo” Laterza,
Bari); “Filosofia antica” (Jaca, Milano); “Saggezza antica” (Cortina, Milano);
“Eros demone mediatore. Il gioco delle maschere nel "Simposio" dell’Accademia”
(Rizzoli, Milano); “L’accademia: alla ricerca della sapienza segreta” (Rizzoli,
Milano, Bompiani, Milano, La nave di Teseo, Milano); “La Meta-fisica del Lizio”
(Laterza, Bari); Raffaello: La "Disputa", Rusconi, Milano); “Corpo,
anima e salute: il concetto di uomo" (Collana Scienza e Idee, Cortina, Milano)
– cf. Grice, ‘urina sana, corpo sano, medicina sana – scremento sano -- “Socrate.
Alla scoperta della sapienza umana” (Rizzoli, Milano); “La filosofia antica” (Vita
e Pensiero, Milano); ““Radici culturali e spirituali dell'Europa” (Cortina, Milano);
“Storia della filosofia romana” (Bompiani, Milano, Collana Il pensiero
occidentale, Bompiani); “Valori dimenticati dell'Occidente” (Bompiani, Milano);
“ L'arte di Muti e la Musa accademica” (Bompiani, Milano); “Agostino” (Bompiani,
Milano); “Wojtyla: un pellegrino dell'assoluto” (Bompiani, Milano); “Auto-testimonianze
e rimandi dei Dialoghi dell’Accademia alle dottrine non scritte" (Bompiani,
Milano); “Storia della filosofia” (Scuola, Brescia); “Salvare la scuola
nell'era digitale” (Brescia, Scuola); “Responsabilità della vita: un confronto
fra un credente e un non credente” (Milano, Bompiani); “Mi sono innamorato
della filosofia” (Milano, Bompiani); “Romanino e la «Sistina dei poveri» a
Pisogne” (Milano, Bompiani); “Filosofia” (Scuola, Brescia); Introduzione,
traduzione e commentario della Meta-fisica del Lizio, su archive. Bompiani, Traduzioni
e commenti R. ha tradotto e commentato molte opere dell’Accademia, del Lizio e
dell’Accademia romana -- la sua nuova edizione delle Enneadi è stata
pubblicata nella collana "I
Meridiani" della Mondadori. Pubblica per Bompiani il poderoso volume I
presocratici, da lui presentato come la prima traduzione integrale. Nonostante
in Italia ne è già uscita una traduzione da Giannantoni edita da Laterza. Sostene
la presenza di lacune e manomissioni nel Giannantoni, lacune e manomissioni che
sarebbero dovute, a parere di R., all'ossequio all'ideologia e all'egemonia
culturale marxista, secondo cui in quel periodo gl’intellettuali di area
comunista dominano la scena in campo editoriale. CANFORA, in risposta alle
accuse di R., sostene la natura pubblicitaria e l'inconsistenza del
ragionamento. Si sostene che, se influenza c'è stata nel Giannantoni, essa è
stata di matrice idealistica, hegeliana e crociana – CROCE (si veda). Qualsiasi
omissione è da evitare, specie se non è segnalata nel testo. Con riguardo alla
presunta irrilevanza di taluni tagli operati da Giannantoni sottolinea come i
capretti a volte segnano la storia della filosofia più di alcuni filosofi e
togliere questi animali dai frammenti, così come far sparire dei cavolfiori, si
tasformarsi in una censura. Di Seneca, cura le opere in "Seneca. Tutti gli
scritti". Interprete dell’Accademia, La Stampa, Ripensando l’Accademia e
l’accademicismo” (Milano, Vita e Pensiero). Dimostra la profonda unità
concettuale di questi saggi di filosofia prima, mettendo in luce come Jaeger e
condizionato dal positivismo e dalla teoria dell'evoluzione della cultura
secondo le tre tappe di teologia-metafisica-scienza. Il concetto di filosofia
prima e l'unità della "Meta-fisica" di Aristotele” (Milano,
Bompiani); Storia della filosofia antica. La fondazione della botanica e il suo
guadagno essenziale. Verso una nuova immagine dell’accademia, Milano, Vita e
Pensiero, Cfr., in particolare, Il paradigma romantico nell'interpretazione dell’accademia,
di Krämer, Napoli, La filosofia antica,
Milano, Jaca. Ha ragione, bisogna
imparare ad accettare la morte, Corriere della Sera. Il concetto di filosofia prima (cf. Grice) e
l'unità della meta-fisica di Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, La filosofia
di Seneca come terapia dei mali dell'anima, Milano, Bompiani, In memoriam. Pur
riconoscendo a Giannantoni una statura di studioso di prim'ordine, sostiene che
molti marxisti non presentano talune cose nella loro effettiva realtà. Pur non
potendosi parlare di complotto, nel testo di Laterza curato da Giannantoni
mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale italiana decine e decine di
passi che elenco in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei veliani e
crotonensi. Ci sono inoltre indebite aggiunte assenti nell'originale. Una
raccolta di tal fatta, nata assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure
molte note di queste ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti filosofi.
Svuotare, ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero
confronto. Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Naturalmente,
sul piano pubblicitario, si comprende la auto-esaltazione. La mia traduzione è
più completa della tua, come il mio bucato è più bianco del tuo. Ma anche la
pubblicità bisogna saperla fare. Ci sono lauree brevi da poco istituite in
proposito. Particolarmente inconsistente appare il ragionamento. Eccolo nella
sintesi fornita dal suo intervistator. Giannantoni e molto bravo, e questo lo
sapevamo anche senza il supporto di R., Laterza è innocente del sopra
menzionato reato ideologico. La colpa è della penetrazione comunista. Sembra quasi
di sognare. Ma questa è la caricatura dell'antica cantilena sui comunisti
padroni dell'editoria italiana. Per confutare questa sciocchezza BOBBIO si
limita a trascrivere i titoli del catalogo Einaudi. E infatti come negare
l'affiliazione bolscevica di BOBBIO? Che pena. Si fa riferimento
all'osservazione secondo la quale le omissioni di Giannantoni riguardano
aspetti poco rilevanti per un marxista come il frammento di Orfeo -- un mal-ridotto
frustulo papiraceo in cui si fa cenno ad un rituale misterico. Queste, e
consimili, sono le omissioni rimproverate dal neo-presocratico R. Sembra del
tutto irrilevante sapere se Kant, quando scrive la Critica della ragion
pratica, mangia capretto o una particolare minestra. Alla storia della
filosofia questo poco interessi. Ma sapere se un *orfico* o un crotonese mangia
capretto è MOLTO significativo dal punto di vista filosofico. Se l’orfico
crotonese s’astene, allora e vegetariano e, come tale, non ha condiviso la
ritualistica italica in cui si consumeno le carni offerte ai dei e si lasciano
ai dei gl’aromi per segnare la distanza tra gl’uomini e i dei. In sostanza,
l’orfico crotonese crede, evitando il capretto, in una filosofia in cui gl’uomini
e i dei sono legati. Non è un capretto né una vacca quello che manca in Giannantoni.
Mancano in un'edizione chiamata l'unica integrale decine e decine di passi che elenco
in 4 pagine all'inizio della mia traduzione dei Presocratici. Ci sono inoltre
indebite aggiunte assenti nell'originale. Una raccolta di tal fatta, nata
assemblando anche vecchie versioni e tagliando pure molte note di queste
ultime, ha l'effetto di svuotare le idee forti di codesti autori. Svuotare,
ironizzare, occupare uno spazio e toglierlo ad altri, evitare un vero confronto.
Ecco la vecchia tattica che rimane ancora molto viva. Laudatio. Radice, Tiengo,
Seconda navigazione. Omaggio (Vita e Pensiero, Milano); Grampa, "Ritornare
a Crotone: intervista a sulla sua «Storia della filosofia antica»", Vita e
Pensiero. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La mia
accademia bocciata. Il cattolico amico dell’accademia. Critico l’accademia di R.
il marxismo non c'entra. La dittatura culturale del marxismo, in Corriere della
Sera, Treccani Storia della filosofia antica. Dalle origini a Socrate. Ospitato
su gianfranco bertagni. R. Storia della filosofia antica. Platone e Aristotele.
Storia della filosofia Come Filone e Antioco sono i
più tipici rappresentanti dell’Eclettismo greco, così CICERONE è il più
caratteristico rappresentante dell’Eclettismo romano. Antioco si colloca
decisamente a destra di Filone, diremmo con metafora moderna, mentre CICERONE
prosegue piuttosto sulla linea di Filone. Il primo elabora un Eclettismo
decisamente dogmatico, il secondo un Eclettismo cautamente e moderatamente
scetticheggiante. Non c’è peraltro dubbio che, dal punto di vista
speculativo, CICERONE resti al di sotto sia dell’uno che dell’altro, non
presentando alcuna novità che sia paragonabile alle formulazioni del
probabilismo positivo del primo o alla sagace critica antiscettica del
secondo. Se, in sede di storia della filosofia greca e romana, ci
occupiamo di Cicerone è soprattutto per motivi culturali più che
speculativi. ! Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino. Si accostò
fin da giovane alla filo- sofia, che coltivò con interesse e costanza.
Tuttavia l’amore della filosofia fu lungi dall’assorbire per intero tutte
le energie e gli interessi di Cicerone. Egli, infatti, si sentì
prevalentemente portato alla vita pubblica, alla vita forense e alla vita
politica. Perciò la sua scelta di fondo fu per la retorica, ossia per
l’oratoria. La sua carriera oratoria inizia pronto; e inizia la sua
attività politica, con la sua elezione a questore. Da allora in poi
Cicerone legò spesso il suo nome a clamorosi processi e a importanti
avvenimenti politici. Morì ucciso dai soldati di Marc’Antonio. Dei suoi
maestri di filosofia abbiamo già detto, e diremo ancora nel testo. I numerosi saggi
di filosofia di Cicerone pervenuteci furono da lui scritti nell’ultimo
periodo della sua vita: i Paradoxa Stoicorum; gli Academzica, due
dialoghi intitolati a Catullo e a Lucullo, di cui fece una seconda
redazione, in cui comparivano come interlocutori Attico e Varrone (degli
Acaderzica priora ci è rimasto il libro II Lucullus, degli Academica
posteriora il libro I e frammenti); il De finibus bonorum et malorum. Sono
pubblicate le Tusculanae disputationes, il De natura deorum e il De
offictis. A queste opere vanno inoltre aggiunte: il De fato, il De
divinatione, il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Da ricordare,
infine, sono le opere politiche De re publica e De legibus. Del De re
publica ci sono giunti i primi due libri, non completi, frammenti del
III, del, IV, del V e gran parte del libro VI, che già nell’antichità ha
vita autonoma col titolo Sognum Scipionis. Diamo dettagliate indicazioni in
Schedario, s.v. Per i rapporti fra Cicerone e Platone, cfr. l’eccellente
raccolta di testi in Dòrrie, Bausteine. In primo luogo, Cicerone offre, in
certo senso, il più bel paradigma di pensiero eclettico, che è come dire
il più bel paradigma della più povera delle filosofie, e, in certo senso,
la più antispeculativa delle speculazioni. In secondo luogo,
Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più vasto e il più cospicuo
ponte attraverso il quale la filosofia greca si è riversata nell’area
della cultura romana e, poi, in tutto l'Occidente. E anche questo è un
merito non teoretico, ma di mediazione, di diffusio- ne e di divulgazione
culturale, e comunque di altissima classe. Ciò non toglie, però, che
Cicerone abbia intuizioni felici e anche acute su problemi particolari,
specie su problemi morali. Il De officiis è, probabilmente, la sua opera
più vitale. Inoltre, presenta anche ana- lisi penetranti. Tuttavia, si
tratta di intuizioni e di analisi che si collocano — per così dire — a valle
della filosofia; sui problemi speculativi che stanno a monte egli ha poco
da dire, come del resto in questo ambito hanno poco da dire quasi tutti i
rappresentanti della filosofia romana. Già i maestri frequentati da
Cicerone indicano chiaramente la ge- ografia del suo pensiero. Da giovane
udì l’epicureo Fedro e, più tardi, anche Zenone epicureo; sentì anche le
lezioni dello stoico Diodoto, conobbe a fondo il pensiero di Panezio e
allacciò stretti rapporti di amicizia con Posidonio; fu influenzato da Filone
di Larissa in modo decisivo e, inoltre, udì per un certo tempo anche le
lezioni di Antioco di Ascalona. Inoltre, lesse Platone,
Senofonte, le opere pubblicate di Aristotele, alcuni filosofi della
vecchia Accademia e del Peripato, ma sempre con i parametri della filosofia
del suo tempo. Da tutti prese e in tutti cercò conferme su determinati
problemi, eccettuati forse i soli epicurei, coi quali polemizzò
accesamente. Egli stesso si autodefinì espressamente come accademico,
e come accademico della corrente filoniana. Anche per lui, infatti, la
probabilità positiva è alla base della filosofia. Nell’operare la fusione
eclettica delle varie correnti, dunque, Cicerone non diede contributi
essenziali, perché tale fusione era già stata operata dai maestri che
egli aveva udito. Cicerone si limitò a ripropor- la in termini latini e
ad amplificarla non qualitativamente — giacché questo non era possibile —
ma quantitativamente. CICERONE respinge il tipo di eclettismo di Antioco e
assume, invece, una posizione simile a quella di Filone di Larissa: il dogmatismo
eclettico d’Antioco gli sembrava alquanto incauto, mentre il «probabili-
smo» filoniano lo appagava pienamente. Come avevano fatto molti dei nuovi
Accademici, CICERONE adotta il metodo della discussione del pro e del
contro su ogni questione. Questo metodo gli offre grandi vantaggi: in
primo luogo, gli offre la possibilità di far conoscere le varie posizioni
dei filosofi in materia, facendo largo sfoggio della sua erudizione; in
secondo luogo, gli offre la possibilità di valutare la consistenza delle
opposte tesi; in terzo luogo, il raffronto di opposte idee gli offre la
possibilità di scegliere la soluzione più probabile; infine, da buon
oratore e avvocato, trova che questo metodo costituisce un perfetto esercizio
di eloquenza. Dunque, il raffronto non deve portare alla «sospensione del
giudizio, bensì al ritrovamento del probabile e del verosimile e anche
all'esercizio retorico. Ecco le precise parole del nostro filosofo
che mettono bene a fuoco questo punto. A me è sempre piaciuta la
consuetudine dei Peripatetici e degli Accademici di discutere in ogni problema
il pro e il contro: non soltanto perché questo sistema è l’unico adatto
per scoprire in ogni questione l'elemento di verosimiglianza, ma anche per
l'ottimo esercizio che ciò costituisce per la parola. Ma il passo ci
permette di fare anche un’altra riflessione. Cicerone pone e
risolve i problemi filosofici sempre in chiave prevalentemente culturalistica e
mai direttamente, ossia in maniera puramente teoretica. Le questioni che egli
imposta sono quelle che già altri hanno sollevato, e anche le soluzioni
che sceglie sono per lo più quelle già proposte in tutto o in parte da
altri. E così si spiega perfettamente come il suo moderato scetticismo
— per sua stessa confessione — non derivi tanto dalle difficoltà che
intrinsecamente sollevano i problemi della conoscenza e del criterio della
verità (per esempio gli errori dei sensi, e simili), quanto dalle diffi- [Tusc.
Disput., Dérrie; ed. Virginio.] coltà che scaturiscono dal dissenso circa le
soluzioni di quei problemi che sono state proposte dai vari
filosofi. Di conseguenza, risulta anche chiara la ragione per cui,
da un lato il «dissenso» dei filosofi sconcerti Cicerone, mentre
dall’altro lo conforti in pari modo il «consenso», quando ci sia, al punto che
egli non esita a fare di tale consenso ur criterio di probabilità.
Il vero, dunque, è irraggiungibile, come prova il dissenso dei
filosofi; tuttavia restano il probabile e il verosimile, che sono se non
il vero stesso, ciò che tuttavia al vero più si avvicina. Dice Cicerone
nel De natura deorum. Non siamo di quelli che negano in assoluto l’esistenza
della verità. Ci limitiamo a sostenere che a ogni verità è unito qualcosa che
vero non è, ma tanto simile a essa che quest’ultima non può offrirci
alcun segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare
il nostro assenso. Ne deriva che ci sono delle conoscenze probabili
le quali, benché non possano essere compiutamente accertate,
appaiono così nobili ed elevate da poter fungere da guida per il saggio. Nel
De officiis Cicerone ribadisce. Mi si chiede però, e proprio da uomini di
lettere e colti, se io creda di agire con sufficiente coerenza, quando,
mentre osservo che nulla può essere conosciuto con certezza, tuttavia e
soglio disputare di altre que- stioni e in questo stesso momento cerco di
dare regole sul dovere. A costoro vorrei che fosse abbastanza noto il mio
pensiero. Giacché io non sono di quelli il cui animo vaga nell’incertezza
e non ha mai un principio da seguire. Quale sarebbe infatti la nostra
mente, 0, piuttosto, la nostra vita, quando fosse tolta ogni norma non
solo di ragionare, ma anche di vivere? Come gli altri affermano la
certezza di alcune e l'incertezza di altre cose, noi invece, dissentendo
da loro, sosteniamo la probabilità di alcune cose e l’improbabilità di
altre. Che cosa, dunque, mi può impedi- re di seguire ciò che mi sembra
probabile e di disapprovare ciò che mi sembra improbabile, e di fuggire
così, evitando la presunzione di recise affermazioni, la temerarietà, che
è lontanissima dalla vera sapienza. E a
questo «probabile» si perviene non legandosi dogmaticamente ad alcuna
Scuola, ma restando liberi di scegliere ecletticamente ciò che pare più
verosimile. Nelle Tuscolazze leggiamo: De nat. deorum, ed. Pizzani; cfr.
Acad. pr., De offictis, ed. Cataudella. Esiste libertà di pensiero, e
ognuno può sostenere ciò che gli pare; per me, io mi atterrò al mio
principio, e cercherò sempre in ogni que- stione la probabilità massima,
senza essere legato alle leggi di nessuna scuola particolare che debba
per forza seguire nella mia speculazione. Il probabilismo di Cicerone è, in tal
modo, strutturalmente con- giunto col suo «eclettismo»: l’uno sta a
fondamento dell’altro e vice- versa, e ambedue hanno radice, più che
teoretica, culturale e storica, come sopra dicevamo. Questo
ben spiega — tra l’altro — come, a seconda dei problemi che Cicerone
tratta, il probabile si assottigli fino a diventare dubbio, oppure, per
contro, si consolidi fino a diventare quasi certezza. Anche Cicerone, come
tutti i filosofi del suo tempo, ritiene che il compito precipuo della
filosofia consista nello stabilire il «fine dell’uomo», e quindi la natura del
sommo bene, e che, per poter far questo, occorra stabilire quale sia il
criterio del vero: Queste sono le questioni massime in
filosofia: il criterio della verità e il fine dei beni, né può essere
sapiente chi ignori o il principio del conoscere o il termine
dell’appetizione, così da non sapere da dove si debba partire o dove si
debba arrivare. Iniziamo dall’esame del «criterio del vero», che è il punto di
partenza. In primo luogo, CICERONE accoglie positivamente la
testizzonianza dei sensi. Non l’accoglie a livello di certezza
assoluta, ossia a livello di certezza tale da meritare l’assenso totale, ma 4
livello di probabilità (si ricordino le posizioni di Filone e di
Antioco). L'evidenza dei sensi e dell’esperienza è, dunque, un primo criterio:
chi nega queste evidenze, sovverte la possibilità stessa della vita.”
Un secondo criterio Cicerone lo trova nel «senso comune», nel
«consenso universale degli uomini» (nonché nel consenso dei dotti). Egli
usa anzi espressioni che riecheggiano una certa forma di «inna- tismo»,
che si rifà, molto alla lontana, all’innatismo platonico e, più [Tusc.
disp., Acad. pr. Cfr. Acad. Pr.] da vicino, alla dottrina della prolessi che —
come abbiamo visto — è comune sia al Giardino sia al Portico.
Così Cicerone — per limitarci all'ambito che maggiormente interessa —
ammette non solo che la natura umana ci abbia dato serzina innata delle
virtù, cioè naturali disposizioni alla virtù, ma che abbia altresì
ingenerato size doctrina notitias parvas rerum maximarum, per raggiungere
le medesime virtù. Ed è precisamente questo generico innatismo la vera
motivazione che gli fa ritenere come probante il senso comune e il
consenso di tutti gli uomini. Naturalmente, Cicerone non ci
sa dire di più a questo proposito: risale dal senso comune e dal consenso
universale a nozioni da- teci naturalmente, cioè innate, e con questo
crede di aver raggiunto un criterio dotato di evidenza tale da non aver
bisogno di ulteriore fondazione. Per i problemi fisici — cioè per
il grosso dei problemi cosmo-ontologici che le filosofie ellenistiche
includevano nella dottrina della NATVRA — Cicerone mostra pochissimo interesse.
Ciò è ben conforme al sentire squisitamente romano, il quale solo se vede
una precisa valenza pratica si interessa ai problemi
speculativi. Naturalmente, egli fa eccezione per i problemi di Dio e
dell’anima, che sono strettamente legati all’etica, nel senso che
condizionano, in ultima analisi, il senso ultimo della medesima. Per
quanto concerne la soluzione dei problemi metafisici e ontolo-
gico-cosmologici egli nutre uno scetticismo molto più spinto che per
tutto il resto. Non li sa impostare e risolvere, soprattutto per il
motivo che non gli interessano esistenzialmente. Perciò gli è anche più
como- do affermare che sulla natura delle cose è molto più facile dire
corze non sia la verità che non come sia, e che tutto è circonfuso di
tenebre che non si possono squarciare: Tutte queste cose ci
restano nascoste, occultate e circonfuse di dense tenebre, al punto che
nessun acume di umano ingegno è così grande, da saper penetrare nel cielo
o entrare dentro la terra.!° Tuttavia egli prudentemente non
ritiene che siano da bandire del tutto le questioni fisiche, perché la
considerazione della natura è, in [Tusc. disput., De finibus, Acad. pr.] ogni
caso, cibo e sostentamento della mente, forza che ci sorregge e che ci
porta in alto e, portandoci così in alto, ci permette di guardare con
nuova ottica le cose umane e quindi di ridimensionarle. Considerando le cose
celesti e sublimi, si comprende come le cose terrestri siano piccole e
meschine. Senza contare, poi, la gioia spirituale che noi proviamo
allorché ci imbattiamo, se non nell’irraggiungibile vero, in qualcosa di
verosimile. Non penso che si debbano bandire queste questioni dei fisi-
ci. Infatti la considerazione e la contemplazione della natura è come
naturale pascolo degli animi e degli ingegni. Ci innalziamo, ci sembra di
diventare più grandi, disprezziamo le cose umane, e pensando alle cose
superiori e celesti, disprezziamo queste nostre come piccole e vili. La
stessa indagine di cose grandissime e occultissime ci dà dilet- to. Se
poi accade che qualcosa ci sembri verosimile, allora l’animo si riempie
di piacere umanissimo.!! Come si vede, è sempre in chiave etica e
antropologica che Cicerone affronta i problemi. Sull’esistenza del divino
Cicerone non sembra nutrire dubbi. Il consenso di tutti i popoli è per lui la
prova più solida: Quanto all’esistenza degli dèi, la prova più
solida che se ne possa addurre è questa, a quel che pare: non c’è popolo,
per quanto barba- ro, non esiste uomo al mondo, per selvaggio che sia,
che non abbia nella mente almeno un’idea della divinità. Sugli dèi molti
hanno delle convinzioni errate, e questo fatto normalmente è dovuto
all’influenza corruttrice dell’abitudine: ma tutti quanti credono
nell’esistenza di una forza e di una natura divina, e questa convinzione
non è effetto di un precedente scambio di idee fra gli uomini e di un
accordo generale, né ha trovato appoggio in istituzioni o leggi: ora, in
ogni questione, il consenso dei popoli si deve considerare legge di
natura.! Analogamente, Cicerone non ha dubbi sulla Provvidenza:
sia le cose esterne dimostrano di essere state finalizzate in funzione
dell’uo- mo, sia la forma e la struttura dell’uomo stesso e dei suoi
organi ricon- fermano una organizzazione finalistica. E dire
organizzazione finalistica è dire Provvidenza. Acad. pr. Tusc. disput. Cfr. De
nat. deor. Nulla ripugna a Cicerone più della concezione meccanicistica
pro- pria dell’atomismo epicureo: un casuale e meccanico
accozzamento delle lettere dell’alfabeto non potrà mai — dice
sensatamente Cicerone — generare gli Arzali di Ennio: Come non provare
meraviglia, a questo punto, se qualcuno ritiene che corpi solidi e
invisibili siano trascinati dalla forza del loro peso e che dalla loro
fortuita unione sia derivato il mondo con tutti i suoi splendori e le sue
bellezze? Chi fosse disposto ad ammettere una cosa del genere non vedo
perché non dovrebbe anche ritenere che, se si raccogliessero da qualche
parte in un numero molto elevato di esemplari le ventuno lettere dell’alfabeto
foggiate in oro o in altro materiale e le si gettassero a terra,
dovrebbero ricostituirsi tutti gli Armati di ENNIO ormai pronti per la lettura:
un risultato che il caso non riuscirebbe forse a realizzare neppure
limitatamente a un solo verso. Più incerto si mostra, invece, Cicerone quando
deve prendere posizione circa la natura del divino. Egli, in primo
luogo, crede all’unità del divino. Ma come concepiremo, dal punto di vista
ontologico, questo divino-uno? Chi fin qui ci ha seguito non può aver
dubbi sul fatto che alla do- manda non potremo avere se non risposte
ambigue e oscillanti fra spi- ritualismo e materialismo. E, questo, non
già per ragioni contingenti, ma per motivi strutturali. In effetti, o si
recuperavano i risultati della seconda navigazione platonica e il senso
del trascendente, oppure le affermazioni sulla spiritualità del divino dovevano
rimanere senza alcun fondamento teoretico. Nelle Tuscolane leggiamo. E il divino stesso, quale noi ce la
rappresentiamo, non può essere concepita che come uno spirito
indipendente, libero (vers soluta quaedam et libera), e privo di ogni elemento
corruttibile: uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta
dotato di eterno movimento. Ma l’espressione «7ens soluta quaedam et libera»
non ci deve trarre in inganno, perché questa z2ers soluta et libera non può
essere pen- sata da Cicerone in funzione della categoria del
soprasensibile, tant'è che egli finisce per accettare l’ipotesi stoica
che si tratti di aria e fuoco, oppure anche dell’aristotelico etere. De
nat. deor., Tusc. disput. Analogamente CICERONE non dubita dell'immortalità
dell’anima, giacché è la natura stessa che ha posto in noi questa convinzione,
tanto è vero che tutti si preoccupano di quello che sarà dopo la
morte.!8 Questo è per Cicerone il più valido argomento a favore
dell’immortalità, anche se non esita a riprendere, di rincalzo, le
tradizionali prove di estrazione platonica.! L'anima è ciò che ci
congiunge al divino ed è quasi il punto di tangenza che l’uomo ha col
divino. Niente di quello che sta sulla terra può spiegare l'origine
dell’ani- ma, perché in essa non c’è nulla che sia misto o composto,
nulla che si possa considerare derivato o formato dalla terra, nulla che
abbia la natura dell’acqua, dell’aria o del fuoco. In effetti, nella
composizio- ne di questi elementi, non rientra nulla che abbia la
proprietà della memoria, dell’intelligenza, del pensiero, che possa
ritenere il passato, prevedere il futuro, abbracciare il presente: questi sono
attributi esclusivamente divini e non si potrà mai trovare per loro altra
provenienza che non sia la divinità. L'anima, insomma, ha un’essenza e
una natura del tutto speciali, e ben distinte da quelle degli altri
elementi comuni e a noi noti. Pertanto, qualunque sia la natura di
quell’entità che sente, che conosce, che vive, che agisce, essa deve
essere necessa- riamente celeste e divina, e di conseguenza eterna. E la
divinità stessa, quale noi ce la rappresentiamo, non può essere concepita
che come uno spirito indipendente, libero, e privo di ogni elemento
corruttibile: uno spirito che tutto sente e tutto muove, ed è a sua volta
dotato di eterno movimento. Di questa specie e di questa medesima natura
è l’anima umana.? Naturalmente, anche a proposito del
problema della natura dell’a- nima si notano le stesse incertezze e le
stesse oscillazioni che abbiamo notato a proposito del problema della
natura del divino. E la radice di queste incertezze è la medesima: la
natura dell’anima è filosoficamente determinabile solo in funzione della
categoria del soprasensibile. Altrimenti si cade inesorabilmente nel
materialismo. E, infatti, poco prima del passo letto, Cicerone
scrive: E certo, se la divinità è aria o fuoco, come lei è fatta
l’anima dell’uomo: quella sostanza celeste non ha in sé né terra né
liquido, e ! Cfr. Tusc. disput.] questi due elementi sono egualmente assenti
dall'anima umana. Se poi esiste una quinta essenza, quella introdotta da
Aristotele, essa rientra sia nella divinità sia nell’anima.?!
Ma aria, fuoco e la stessa quinta essenza sono, appunto, sempre e
solo materia. La parte della filosofia che di gran lunga più
interessa Cicerone è l’etica. E non è quindi senza ragione che le sue due
opere più vive siano quelle Suz doveri e Sul fine dei beni e dei
mali. Più che mai è vero per Cicerone che non la aristotelica pura
attività contemplativa, ma la attività pratica e sociale è regina. Ecco
un passo molto eloquente. Ritengo siano più conformi alla natura quei
doveri che promanano dal sentimento sociale, che non quelli che promanano
dalla sapienza, e questo può essere affermato dal seguente argomento,
che, se a un uomo sapiente toccasse una condizione di vita tale che,
affluendo a lui le ricchezze più varie, egli potesse dedicarsi in piena
tranquillità allo studio e alla contemplazione di tutte quelle cose che
sono degne di essere conosciute, tuttavia, se la solitudine fosse così
grande che non potesse vedere nessun uomo, egli preferirebbe morire.
Infatti, la conoscenza e la contemplazione (della natura) sarebbero in
certo modo manchevoli e imperfette, se non dovesse seguir loro alcuna
attività concreta; e questa attività si manifesta specialmente nell’assicurare
l’utilità degli uomini; riguarda, dunque, la società del genere umano;
perciò questa deve essere anteposta alla scienza. Ma, anche in questo ambito
specifico, si cercano invano delle novità di fondo in Cicerone. Egli
discute le etiche dei sistemi epicureo, stoico, accademico e peripatetico;
respinge in blocco la morale epicurea e procede a eclettici accomodamenti
fra le altre. Da un lato, egli è portato ad ammirare soprattutto la morale
stoica, da un altro lato fa concessioni alla morale accademica e a quella
peri- patetica (che egli considera sostanzialmente identiche. Tusc.
disput., De offictis, (nel passo omesso dopo i puntini Cicerone parla della
superiorità della sophia sulla phroresis, ma autocontraddicendosi in modo
impressionante). Cicerone non può, infatti, accettare il principio stoico
che solo il sapiente è buono e tutti gli altri sono viziosi, perché —
egli rileva — la sapienza dello stoico sapiente è tale che alcun mortale
ancora non ha raggiunto, e perciò egli propone di considerare ciò che è
nella con- suetudine e nella vita comune, non quello che è nelle pure
aspirazioni e nei puri desideri. Anche per lui il principio fondamentale
della morale è seguzre la nostra natura individuale nel rispetto della
generale natura umana. Questo richiamo alla natura dell’uomo, che è anima
e corpo, permette a Cicerone di temperare la morale stoica e rivendicare
anche i diritti del corpo, giacché è necessario vivere biologicamente,
ossia soddisfare alle esigenze del corpo, proprio per poter
ulteriormente soddisfare alle esigenze della ragione. E, così, per questo
aspetto, egli si schiera dalla parte dei Peripatetici, come già Panezio e
Posidonio avevano in parte fatto. Ma poi torna agli Stoici nel
riportare la virtù interamente alla ragione, dissentendo dalla tipica
concezione aristotelica della virtù etica come via di mezzo fra opposte
passioni. E come gli Stoici, egli ritiene la virtù autosufficiente e
bastevole per la vita felice. E sembra allearsi con gli Stoici anche nel
concepire il saggio come privo di passioni e imperturbabile.
Infine, anche le rivendicazioni dell’umana libertà nell’opera Sul Fato vanno ben poco oltre la pura affermazione
di una libertà intuitivamente colta: i moti volontari dell’anima non hanno
cause esterne ma dipendono da noi, nel senso che ne è causa la natura
stessa della nostra anima. Quando Cicerone dai prin- cìpi
scende all’analisi dei doveri intermedi (quelli che gli Stoici chiamano
kathekonta), allora mette in evidenza tutta la sua intelligenza e
assennatezza pratica. Ma qui siamo, ormai, non più nel campo della
filosofia in senso stretto, ma piuttosto in quello della fenomenologia
morale. D'altra parte è inevitabile che tutte le notazioni e i rilievi
originali che si ritrovano in Cicerone nell’ambito delle analisi morali
non va- dano oltre il piano fenomenologico e restino teoreticamente in
certo senso un poco informi. De amicitia Cfr. De officiîs. Le ambigue
risposte ai problemi ontologici e antropologici dell’eclettismo non gli
permettono — proprio per ragioni strutturali — di spingersi
oltre. Come giustamente scrive Marchesi, Cicerone non da nuove idee
al mondo. Il suo mondo interiore è povero per la ragione che dà ricetto a tutte
le voci. Il suo contributo maggiore sta, dunque, nella fusione e
divulgazio- ne della cultura antica e, in questo ambito, egli è veramente
una figura essenziale nella storia spirituale dell'Occidente. Anche qui —
è ancora il Marchesi che scrive — si manifesta la forza divulgatrice e
animatrice dell’ingegno latino: perché nessun Greco sarebbe stato capace
di diffondere, come ha fatto CICERONE, il pensiero greco per il mondo. La
figura di uomo dalle conoscenze enciclopediche di Varrone. Uomo di vaste
conoscenze filosofiche come Cicerone, e anche VARRONE (si veda). Egli fu
propriamente un enciclopedico: già i suoi con- temporanei lo giudicarono
il più colto dei Romani. Più che di una filosofia di Varrone si può
parlare di implicanze filosofiche della sua cultura
generale. Contrariamente a Cicerone, che come abbiamo visto segue
Filone di Larissa, egli si schiera dalla parte di Antioco, e gli resta in
larga misura fedele. La sua concezione dell’anima come pneuma
e del divino come anima del mondo sono in perfetta sintonia appunto con
l’ecletti-smo stoicizzante antiocheo. E le sue idee morali non
presentano novità di rilievo. La dottrina filosofica per cui egli è
più noto consiste nella distin- zione delle tre forme di teologia (una
distinzione che ha radici molto antiche: la teologia favolosa o mitica dei poeti;
la teologia naturale propria dei filosofi; la teologia civile, che si
esprime nelle credenze e nei culti delle Città. Marchesi, Storia
della filosofia latina, Milano. Per uno sta- to della questione, una
dettagliata analisi del pensiero filosofico di Cicerone e per
aggiornamenti bibliografici, si veda l’opera citata supra, che contiene la
trattazione del nostro autore a cura di Gawlick e Gòrler. E nato a Rieti] VARRONE
È fuori dubbio che Varrone ritenesse la seconda forma di teologia come la
più vera. Tuttavia, Boyancé rileva quanto segue: «da tempo alcuni
filosofi si sforzavano di dare un posto alla teologia dei poeti e delle
Città. Si trattava della tradizione storica dei Greci e di Roma e Varrone
aveva un rispetto tutto romano di questa tradizione. L’erudito, in lui,
rispettoso in particolare della storia delle parole, credeva di poter fondare
la verità dei filosofi. Tutto ciò non avveniva in Varrone senza
esitazioni, dubbi e scacchi, di cui aveva consapevolezza. Ma egli era
sostenuto dal fervore delle sue convinzioni e dalla vastità delle sue
conoscenze. Boyancé, Les implications philosophiques des recherches
de Varron sur la re- ligion bumaine, in «Atti del Congresso
Internazionale degli Studi Varroniani», Rieti. Cfr. Schedario, s.0 Giovanni Reale. Reale. Keywords: Crotone,
Velia, Crotonensi, la scuola di Crotone, la scuola di Velia, I veliani,
Parmenide, Girgentu – filosofia siciliana – magna Grecia non e Sicilia --. I
confine della magna Grecia – filosofia italica, filosofia italiana – la
filosofia nella peninsula italiana in eta anticha – filosofia Latina, filosofia
romana. Catalogo di Nome di Filosofi Italici, il poema di Parmenide, il poema
di Girgentu, il poema di Velia, la porta rossa di Velia, Zenone di Velia,
Filolao di Taranto, Gorgia di Lentini, Archita di Taranto, studi degl’antichi
italici da I romani, Etruria e Magna Grecia, le radice etrusche della filosofia
romana, fisiologia, teoria dela natura, uomo, la moralia, la colloquenza o
dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Reale” – The Swimming-Pool Library.
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