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Monday, December 16, 2024

Se

 e e tende a 

diventare la realtà nuova che sostituisce la realtà angosciante 
originaria, al di sopra della quale già si era sollevata 
l’immagine festiva. Ad esempio - ma l’esempio è tra i più 
significativi - la tecnica guidata dalla scienza moderna pensa 
già alla costruzione di una vita umana in cui la sofferenza e la 
morte siano allontanate il più possibile. La tecnica stabilisce la 
nuova aura festiva, più potente di ogni immagine festiva 
perché la festa, ora, è la produzione di una realtà nuova - la 
produzione che anticipa l’Apocalisse cristiana, dove la terra 
nuova e il nuovo cielo sostituiscono la vecchia terra e il 
vecchio cielo. 

Ma la logica della scienza, che sta al fondamento della 
tecnica, non è una logica della verità assoluta e 
incontrovertibile. È una logica ipotetica. La scienza stessa è un 
sapere ipotetico-deduttivo. La liberazione tecnologica dalla 


303 



sofferenza e dalla morte, per quanto stupefacenti possano 
essere i suoi progressi, rimane pur sempre una liberazione 
ipotetica, esposta cioè in ogni momento alla possibilità che 
l’intera legislazione scientifica si mostri incapace di dominare 
le cose e che l’uomo ripiombi nell’antica indigenza di una vita 
semianimale o addirittura nella propria completa estinzione. 
La tecnica non salva l’uomo dal nulla. Ogni salvezza è 
ipotetica. Il pensiero filosofico del nostro tempo è destinato a 
farsi udire dalla tecnica, a farle sentire che nessuna potenza 
può salvare necessariamente, incontrovertibilmente dal nulla, 
e che dunque la minaccia del nulla rimane sospesa su ogni 
avanzamento tecnologico della liberazione dell’uomo dal 
dolore e dalla morte. 

La nuova realtà e la nuova vita, che la tecnica produce 
sostituendo l’antica immagine festiva della realtà e della vita, 
si presenta così a sua volta esposta al dolore e alla morte, 
tanto più insopportabili quanto maggiore è la felicità dell’aura 
festiva che la tecnica sia riuscita a produrre. È a questo punto 
che l’arte può riproporsi come l’ultimo barlume 
dell’immagine festiva, che per la seconda volta si solleva al di 
sopra della realtà - al di sopra cioè di quella nuova realtà che 
con la tecnica sta oggi sostituendo l’antica immagine festiva e 
salvifica della realtà originaria. È, questo, il pensiero di 
Leopardi: quando - dopo il tramonto della verità definitiva e 
assoluta della tradizione occidentale (cioè dopo il tramonto a 
cui appartiene quel che Nietzsche chiama «morte di Dio») - 
appare che nemmeno la tecnica ha la potenza di salvare con 
necessità (ossia non ipoteticamente) l’uomo dal nulla, allora 
la potenza dell’immagine poetica che canta l’impossibilità di 
ogni salvezza non ipotetica dal nulla rimane l’ultimo barlume 
di quella forma di festa in cui la poesia e l’arte consistono - 
quella forma di festa dove è la potenza del canto, e non il suo 
contenuto, a salvare ancora per un poco dal nulla (cfr. E.S., Il 


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nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, cit.). 


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3. Arte e tendenza fondamentale del nostro tempo 

A volte, certi essenti che chiamiamo «opere d’arte» stanno 
in una relazione specifica con l’«infìnito». Se non nel senso 
che essi «rappresentano senz’altro l’«infinito», nel senso che 
qualcuno crede che lo rappresentino. Ma, anche qui, ciò che la 
tradizione filosofica intende per «infinito» non può essere 
sempre presente, nel suo autentico e concreto significato, a 
chi crede in quel modo, ossia a chi ha quella fede. 

D’altra parte, anche se in tale fede l’«infinito» può apparire 
in modo indeterminato, ambiguo, inadeguato, a volte essa è 
tuttavia la fede di stare dinanzi a qualcosa di ultimo, non 
oltrepassabile, intoccabile. Sono i casi in cui anche l’uomo 
comune è disposto a parlare della «bellezza» di ciò che gli sta 
dinanzi; e sono i casi in cui l’uomo comune nomina come 
può l’«infinito». Beati gli umili (gli uomini comuni), perché di 
costoro è il regno dei cieli - dove, in questo caso, il Regno dei 
Cieli è il regno della bellezza che appare aH’interno della fede 
(ingenua, umile) che qualcosa sia il senso ultimo delle cose, 
inoltrepassabile, intoccabile. 

Schelling, come Hegel, non parla di «fede», ma di una 
«rappresentazione» che, sia pure «per riflesso», è verità che 
essa abbia come contenuto l’«infinito», cioè Dio. Si tratta della 
«verità» dell’intera tradizione filosofica, che giunge al suo 
culmine ma anche al suo compimento. 

Si può parlare di «arte contemporanea» prescindendo dalla 
tendenza fondamentale del nostro tempo? Si può parlare di 
un uccello migratore - sapere che natura abbia, da dove venga 
e dove vada - prescindendo dallo stormo che sta migrando? 

Oggi il grande stormo del nostro tempo sta migrando verso 
l’estrema lontananza da Dio. Il grande uccello dell’arte non 
può che andare nella stesa direzione. Schelling è ancora un 
grande amico di Dio, ossia dell’«archetipo» per eccellenza. 


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L’arte contemporanea sta invece vivendo anch’essa ciò che 
Nietzsche chiama «morte di Dio». Ci si accorge che la 
«materia» è senza «luce», il «reale» senza «ideale

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